- Processo Penale e Giustizia

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PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
6-2015
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
Tenuità del fatto:profili processuali
“particular tenuity of the fact”: procedural aspects
Sequestro e internet
Seizure and internet
L’astensione degli avvocati nelle udienze a contraddittorio eventuale
Old questions and new statements about lawyers’ strike
La prova genetica tra prassi e regole
DNA evidence between practices and rules of procedure
El estatuto español de la víctima
The Spanish crime victim statute
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
V
Sommario
Editoriale | Editorial
GIULIO GARUTI
L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali /
The non-application of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspects
1
Scenari | Overviews
Novità legislative interne / National legislative news (CARLA PANSINI)
9
Novità sovranazionali / Supranational news (DANIELA VIGONI)
12
De jure condendo (MARCELLO D’AIUTO)
18
Corti europee / European Courts (ANTONIO BALSAMO)
20
Corte costituzionale (DONATELLA CURTOTTI)
24
Sezioni Unite (PAOLA MAGGIO)
27
Decisioni in contrasto (GIADA BOCELLARI)
42
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
Nel procedimento di sorveglianza l’omesso avviso al difensore di fiducia integra una
nullità assoluta
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 26 marzo 2015, n. 24630 – Pres. Santacroce; Rel.
Cassano
45
Il diritto di difesa tra effettività e necessità: le garanzie prevalgono nella lettura delle Sezioni Unite / The right of defence between effectivity and necessity: the protection of the constitutional rights prevails according to the interpretation of Cassazione Court (CATERINA SCACCIANOCE)
56
Limiti al sequestro per la testata giornalistica on line
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 17 luglio 2015, n. 31022 – Pres. Santacroce; Rel.
Milo
62
Sequestro e Internet: dalle Sezioni Unite una soluzione equilibrata ma “creativa” / Seizure and Internet: the Supreme Court judgment (ANTONIO PULVIRENTI)
78
Il rito abrogato sopravvive per il “contumace non irreperibile”
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 29 aprile 2015, n. 23271 – Pres. Teresi; Rel. Scarcella
87
Procedimenti in corso e giudizio in absentia / Process already underway and the trial in absence of the accused (MICHELE BONETTI)
90
Messa alla prova e regime transitorio
Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza 16 gennaio 2015, n. 18265 – Pres. Iannelli; Rel.
Diotallevi
96
Messa alla prova da giudizio sul fatto a giudizio sull’imputato / Probation: by the judgment made in the judgment on the defendant (MARCELLO D’AIUTO)
103
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
VI
Astensione del difensore anche nelle udienze a contraddittorio eventuale
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 14 aprile 2015, n. 15232 – Pres. Santacroce; Est.
Franco
109
L’astensione degli avvocati tra punti fermi e qualche impasse / Old questions and new statements about lawyers’ strike (EVA MARIUCCI)
123
Procedimento innanzi al giudice di pace, avviso della richiesta di archiviazione e art. 408,
comma 3-bis, c.p.p.
Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza 28 maggio 2015, n. 22991 – Pres. Lapalorcia; Rel.
Lingola
128
La Suprema Corte si pronuncia sull’applicabilità dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p. al procedimento davanti al giudice di pace/ The Corte di Cassazione rules on the applicability of
paragraph 3-bis of art. 408 code of criminal procedure the proceedings in the justice of the peace
(LUCA DELLA RAGIONE)
130
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
I poteri istruttori del giudice penale tra interpretazioni consolidate e nuovi limiti dettati
dal principio della “parità delle armi” / The investigative powers of criminal judges
between established interpretations and new limits dictated by the principle of the “equality of arms” (PAOLA MAGGIO)
139
Atti a finalità mista, indizi di reato e garanzie difensive. Una sintesi difficile / Actions with
mixed purposes, crime indicias and defensional guarantees. A difficult balance (GIUSEPPE BISCARDI)
154
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali / DNA evidence between
investigative practices and rules of procedure (ALBERTO CAMON)
165
El Estatuto español de la víctima del delito y el derecho a la protección/ The Spanish
Crime victim Statute and the right to protection (ÀNGEL TINOCO PASTRANA)
174
Indici | Index
Autori / Authors
189
Provvedimenti / Measures
190
Materie / Topics
191
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
1
Editoriale | Editorial
GIULIO GARUTI
Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
L’esclusione della punibilità
per particolare tenuità del fatto: profili processuali *
The non-application of the penalty
due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspects
Il cantiere del proscioglimento per particolare tenuità del fatto è stato più volte eretto e smantellato fino ad essere portato a compimento dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, il quale ha introdotto una causa di non punibilità che
trova ingresso – in maniera espressa o implicita – lungo l’intero arco del procedimento e porta con sé conseguenze non trascurabili nell’ambito del giudizio di danno.
The construction of acquittal due to the particular tenuity of the fact has been built and demolished many times
until being completed with legislative decree 16th of March, n. 28, which has introduced a cause of nonapplication of the penalty. The latter applies explicitly or implicitly throughout the entire proceeding and heavily
affects proceedings for the recovery of damages.
LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO TRA “IMPROCEDIBILITÀ” E “NON PUNIBILITÀ”
Con l’introduzione, nell’ambito del nostro sistema penale, dell’istituto della “non punibilità per particolare tenuità del fatto” (d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28), il legislatore ha in concreto posto in essere un tentativo per soddisfare esigenze di deflazione processuale in linea con il principio di ragionevolezza e proporzionalità: il dispendio di energie processuali – di qualsiasi tipo – per fatti “bagatellari” risulta infatti
irragionevole e sproporzionato sia per l’ordinamento sia per l’autore del reato, costretti a sopportare il
peso, economico e psicologico, del processo a loro carico 1.
Dopo essere stato presentato, all’interno di una serie di progetti di legge, alla stregua di una “causa
di improcedibilità”, l’istituto in parola ha trovato attuazione come “causa di non punibilità”, prevalendo così l’opzione sostanziale rispetto a quella processuale.
Se la scelta in rito avrebbe dovuto fare i conti con l’art. 112 Cost., la scelta di sostanza avrebbe invece
dovuto trovare il proprio parametro di riferimento nell’art. 25, comma 2, Cost.: entrambe le soluzioni,
tuttavia, avrebbero dovuto transitare attraverso l’identificazione di parametri sufficientemente chiari e
univoci del concetto riconducibile all’irrilevanza del fatto, idonei ad assicurarne l’equità e a garantirne
la controllabilità a posteriori 2.
* Il contributo rappresenta la relazione, con l’aggiunta di note, tenuta nell’ambito dell’incontro di studi organizzato dalla Scuola
Superiore della Magistratura e dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale, presso l’Aula Magna del
Palazzo di Giustizia di Milano, in data 18 giugno 2015, dal titolo L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
1
Cfr. Relazione allo Schema di d.lgs. recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, trasmesso alla Presidenza del Senato il 23 dicembre 2014, p. 6.
2
R.E. Kostoris, Obbligatorietà dell’azione penale, esigenze di deflazione e «irrilevanza del fatto», in AA.VV., Il giudice unico nel processo penale, atti del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Como 24-26 settembre 1999, Milano, 2001, p. 210.
EDITORIALE | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO: PROFILI PROCESSUALI
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
2
Optare tra improcedibilità e non punibilità avrebbe peraltro implicato riflessi diversi sul piano del
trattamento processuale dell’istituto: un trattamento rapido e semplice nel primo caso; un trattamento
molto più complicato nel secondo caso che, presupponendo un vaglio di merito nonché una dichiarazione di colpevolezza, avrebbe imposto il rispetto dei canoni del giusto processo 3.
D’altronde, se l’esistenza di una condizione di procedibilità preclude al giudice il vaglio del merito,
è l’accertata configurazione concreta del reato per cui si procede a ostacolare il processo 4.
In tale contesto, poi, avrebbe dovuto essere individuato anche uno spazio per la persona offesa dal
reato, «portatrice di un vero e proprio diritto ad essere informata e a interloquire nelle determinazioni
concernenti l’esercizio dell’azione penale, riconosciutole tra l’altro, in particolare, dalla direttiva
2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa del 25 ottobre 2012» 5.
Ciò, in considerazione della circostanza che qualora la fattispecie criminosa alla quale si intende applicare l’istituto dell’irrilevanza del fatto presenta una persona offesa, la declaratoria di rinuncia alla
sanzione non può prescindere dal contributo di quest’ultima, vuoi per soppesare la gravità del fatto anche sulla base della percezione della parte lesa, vuoi per consentire ad essa di manifestare il proprio
punto di vista in ordine a perseguibilità e punizione dell’illecito.
In quest’ottica, i livelli di coinvolgimento della persona offesa avrebbero potuto essere diversi, potendosi attestare, il parere della persona offesa, alla stregua di un semplice passaggio obbligato ovvero
di una valutazione vincolante per giungere al proscioglimento per esiguità del fatto.
Se questa seconda soluzione, in grado di condizionare in modo insindacabile l’esito del processo,
avrebbe potuto prestarsi a censure sotto il profilo dell’art. 101, comma 2, Cost. – che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge –, la prima soluzione, invece, avrebbe potuto destare qualche perplessità nell’imporre alla persona offesa – già costituita parte civile – il trasferimento della propria domanda risarcitoria in altra sede, al fine di riprendere dall’inizio l’accertamento del fatto di reato.
Perplessità che sembrano concretizzarsi e nell’assenza del diritto a ottenere, nel più breve tempo ragionevolmente possibile, una risposta istituzionale a una domanda proposta in modo legittimo, e nella
violazione dell’art. 24 Cost. che, per quel che qui importa, «non sembra tutelare il solo diritto a innescare l’azione di fronte a qualsivoglia istanza giurisdizionale, ma anche a mantenervi legittimamente
l’azione esercitata per ottenere una decisione, senza che l’iniziativa possa essere arbitrariamente condotta a un non liquet che obbliga a una nuova azione dinanzi a un giudice diverso» 6.
Tuttavia, al di là di tali considerazioni, la posizione della persona offesa che opera nel processo in
veste di “accusa penale privata”, risulta assai più tutelata in un contesto in cui si debba procedere a una
valutazione di “non punibilità” – che implica comunque l’attivazione di apposite sedi di dialettica e
contraddittorio per addivenire a una decisione di colpevolezza –, piuttosto che in un ambito connotato
in chiave di “non procedibilità”, che impone di fatto una rapida risoluzione del procedimento.
PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO E ARCHIVIAZIONE
Ricondotta al timore di concedere eccessiva discrezionalità ai magistrati nonché di intaccare il principio
dell’obbligatorietà dell’azione penale 7, l’opzione legislativa del 2015 si è orientata verso una soluzione
di natura sostanziale e non processuale, andando tuttavia a individuare un istituto “nuovo” destinato a
discostarsi vuoi da quello che tratta l’esiguità penale nell’ambito della giurisdizione minorile, vuoi da
quello che tratta il medesimo istituto in sede di giurisdizione del giudice di pace: se con il primo istituto
condivide la natura sostanziale e, di conseguenza, verifiche a forte componente valutativa, con il secondo condivide invece l’opportunità di addivenire a una valutazione, in termini di particolare tenuità
del fatto, già in sede di archiviazione 8.
3
C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005, p. 198.
4
Ancora, C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, cit., p. 200.
5
Relazione allo Schema di d.lgs., cit., p. 6.
6
C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, cit., p. 214.
7
C.F. Grosso, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, p. 517.
8
P. Bronzo, L’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb, Trattato breve di
procedura penale, vol. II, (cordinato da A. Marandola), Milano, 2015, p. 957.
EDITORIALE | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO: PROFILI PROCESSUALI
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
3
Ed è proprio con riguardo a quest’ultimo momento processuale che la l. n. 28/2015 introduce una
prima sede di confronto, aggiungendo un’ulteriore ipotesi di archiviazione “in diritto” nell’ambito
dell’art. 411 c.p.p., mediante il riferimento all’eventualità che la persona sottoposta alle indagini non sia
«punibile ai sensi dell’art. 131-bis del codice penale per particolare tenuità del fatto».
Della richiesta di archiviazione avanzata per il suddetto motivo, il p.m. deve darne sempre avviso
alla persona offesa e all’indagato, precisando che nel termine di dieci giorni questi «possono prendere
visione degli atti e presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta». Il giudice, «se l’opposizione non è inammissibile, procede ai sensi
dell’articolo 409, comma 2, e, dopo avere sentito le parti, se accoglie la richiesta, provvede con ordinanza. In mancanza di opposizione, o quando questa è inammissibile, il giudice procede senza formalità e,
se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato. Nel caso in cui non accoglie la richiesta il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell’articolo 409, commi 4 e 5» (art. 411, comma 1-bis, c.p.p.).
Criticabile, da un punto di vista sistematico, sotto il profilo del mancato coordinamento con gli artt.
425 e 530 c.p.p. 9, la disposizione in parola richiede un approfondimento per quanto riguarda vuoi
l’aspetto riconducibile a una sua eventuale applicazione pratica, vuoi gli aspetti di garanzia in favore
dell’indagato e della persona offesa dal reato, vuoi, infine, gli aspetti di natura meramente oggettiva.
Riguardo al primo profilo, i problemi più consistenti investono la circostanza che, ai nostri fini, la
valutazione in punto di tenuità del fatto – da parte sia del p.m. sia del giudice dell’archiviazione – richiede verifiche assai approfondite, incompatibili con la valutazione da effettuarsi in sede di inazione.
Da un lato è difficile pensare che il p.m., una volta riscontrata l’esiguità del fatto ipotizzato nella notizia di reato, continui a svolgere indagini allo scopo di eliminare qualsiasi dubbio circa la sussistenza
degli elementi costitutivi del reato, all’unico fine di avanzare richiesta di archiviazione a norma dell’art.
411, comma 1-bis c.p.p., con il rischio che non solo la persona offesa, ma anche l’indagato, si oppongano
alla suddetta richiesta. Del resto, al di là del fatto che nel caso di specie ci troviamo di fronte a una decisione resa in “ipotesi di responsabilità”, è sicuramente più facile ipotizzare che a fronte di un fatto di
reato caratterizzato da tenuità, il p.m. sia indotto ad «abbandonare la notizia di reato sul binario morto
degli affari penali non prioritari» 10 ovvero ad avanzare richiesta di archiviazione per una causa diversa
da quella qui analizzata, sicuramente più favorevole all’indagato. D’altronde, una richiesta di archiviazione affrettata per tenuità del fatto imporrebbe comunque al giudice l’obbligo di ordinare al p.m. un
supplemento investigativo a norma dell’art. 409, comma 4, c.p.p.
Dall’altro lato, il giudice chiamato a dichiarare la tenuità in sede di archiviazione, deve effettuare
una valutazione destinata a tenere in considerazione una serie di tante e tali caratteristiche concrete del
fatto di reato che difficilmente potranno essere affrontate, in modo coerente ed esaustivo, nell’ambito di
un contesto in cui il giudice sembra essere tenuto a emettere un provvedimento “in diritto”, alla stregua
di ciò che è tenuto a fare anche per le altre situazioni prese in considerazione nell’art. 411 c.p.p.
Per quanto concerne gli aspetti di garanzia in favore dell’indagato e della persona offesa dal reato,
preme osservare che, rispetto al primo, il legislatore ha inteso tutelarne il diritto a ottenere un’archiviazione più favorevole di quella decretabile per tenuità del fatto, da iscrivere peraltro nel casellario
giudiziale con il rischio che risulti ostativa al riconoscimento della non abitualità di un successivo comportamento tenue.
Questa previsione appare dissonante sia rispetto ad altre situazioni in cui il p.m. richieda l’archiviazione per un fatto infamante ma non punibile (es. per avere sottratto danaro a un fratello convivente) 11, sia riguardo a tutte le altre situazioni in cui il p.m. richieda l’archiviazione con una determinata
9
Cfr. F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 8
luglio 2015, p. 24, secondo cui «[s]orprendentemente, il decreto legislativo modifica invece soltanto l’art. 411 comma 1 c.p.p.
(aggiungendo il riferimento all’eventualità che la persona sottoposta alle indagini non sia “punibile ai sensi dell’articolo 131 bis
del codice penale”), lasciando intatto il disposto degli artt. 425 e 530 c.p.p. Se ne deduce che, per la legge processuale, la particolare tenuità del fatto è una causa di non punibilità come tutte le altre: diversamente ragionando, mancherebbe un’adeguata formula proscioglitiva tanto in udienza preliminare quanto a dibattimento. Ma se così è, delle due l’una: o si ritiene del tutto superflua la previsione introdotta nell’art. 411 comma 1 c.p.p., oppure si ritiene che, d’ora in avanti, la sussistenza delle cause di non
punibilità diverse dalla tenuità del fatto non potrà più essere accertata e dichiarata con archiviazione».
10
F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato
maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012, p. 10 ss.
11
F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, cit., p. 28.
EDITORIALE | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO: PROFILI PROCESSUALI
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formula e all’indagato – pur non in modo esplicito – è comunque riconosciuto in astratto il diritto di ottenere il provvedimento di archiviazione con la formula più favorevole.
Con riferimento, poi, ai profili di garanzia posti a tutela della persona offesa, se qualche perplessità suscita in generale un meccanismo differente rispetto all’ordinario – che impone un onere in capo alla vittima che voglia conoscere l’esito del procedimento –, nel particolare, detto meccanismo preoccupa in caso
di reati plurioffensivi, rispetto ai quali le operazioni selettive delle vittime non sono sempre agevoli 12.
Per quanto riguarda infine gli aspetti di natura meramente oggettiva, va anzitutto osservato come il
contenuto dell’opposizione che deve presentare, a pena di inammissibilità, l’indagato e la persona offesa, differisca completamente da quello dell’opposizione che deve presentare l’offeso a fronte di un’ordinaria richiesta di archiviazione: se da un lato il vaglio dell’inammissibilità viene superato con l’indicazione delle «ragioni del dissenso rispetto alla richiesta», dall’altro lato, invece, con l’indicazione dell’«oggetto dell’investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova» (art. 410 c.p.p.).
Se nella pratica questa distinzione desta qualche perplessità, sotto il profilo teorico essa sembra trovare giustificazione nel fatto che il p.m. sarebbe in teoria tenuto a richiedere l’archiviazione soltanto
qualora gli elementi investigativi raccolti siano in grado di accertare la fondatezza – vuoi oggettivamente vuoi soggettivamente – della notizia di reato, anche se rimane sempre viva la possibilità, per il giudice, di «restitui[re] gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell’articolo 409,
commi 4 e 5».
Sotto altro profilo, riteniamo che la richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto e il
provvedimento archiviativo pronunciato per lo stesso motivo, debbano essere strettamente collegati alla procedura prevista dall’art. 411, comma 1-bis, c.p.p., non potendo sfociare il primo in un provvedimento di archiviazione con formule terminative differenti e non potendo nascere, il secondo, da una richiesta di archiviazione ordinaria 13. Se per un verso è l’art. 411, comma 1-bis, c.p.p. a stabilire espressamente che «[n]ei casi in cui non accoglie la richiesta il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell’art. 409, commi 4 e 5», per l’altro verso, sono troppo diverse le garanzie
riservate all’indagato e alla persona offesa in questo nuovo contesto rispetto a quelle previste dal contesto
ordinario.
PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO E PREDIBATTIMENTO
Accanto alla nuova ipotesi di archiviazione, il legislatore del 2015 ha introdotto espressamente, all’art.
469, comma 1 bis, c.p.p., una ulteriore ipotesi di proscioglimento predibattimentale: «[l]a sentenza di
non doversi procedere è pronunciata anche quando l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 131 bis
del codice penale, previa audizione in camera di consiglio della persona offesa, se comparsa».
Da un punto di vista pratico, la soluzione prospettata si presenta di assai difficile applicazione: non
si può d’altronde ignorare come il giudice, in sede predibattimentale, abbia «una conoscenza degli atti
di causa limitata al contenuto del fascicolo del dibattimento nella sua composizione embrionale» 14, a
meno che non vi sia stata un’importante attività di collaborazione tra le parti (imputato e p.m.) che, a
norma dell’art. 431, comma 2, c.p.p., si siano accordate per fare transitare al dibattimento buona parte
degli atti di indagine, non potendosi certamente utilizzare, a questi fini, il meccanismo di assunzione
anticipata della prova previsto per questa fase processuale dall’art. 467 c.p.p.
12
A. Diddi, Chiaroscuri nella nuova disciplina sulla violenza di genere, in questa rivista, 2014, n. 2, p. 106.
13
In senso difforme, E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo (... ma non impossibile) per l’interprete delle norme processualpenalistiche: alla ricerca di una soluzione ragionevole del rapporto tra accertamenti giudiziali e declaratorie di non punibilità ai sensi dell’art. 131bis c.p., in Arch. pen., 2015, n. 1, p. 9; F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, cit., pp. 3132, esprime al riguardo qualche perplessità, pur ritenendo possibile una soluzione in linea con lo spirito deflativo dell’istituto;
Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Problematiche processuali riguardanti l’immediata applicazione della “particolare tenuità
del fatto”, a cura di A. Corbo e G. Fidelbo, Rel. n. III/02/2015, 30 aprile 2015, in www.cortedicassazione.it, pp. 14-15, secondo cui:
«In questa prospettiva, allora, potrebbe forse prospettarsi che il giudice per le indagini preliminari, ove ravvisi la possibilità di
archiviare per tenuità del fatto, proceda ad invitare il pubblico ministero a notificare all’indagato e alla persona offesa l’avviso
relativo a tale ipotesi di definizione del procedimento ed alla facoltà di prendere visione degli atti e di presentare opposizione
nel termine di dieci giorni. Tale soluzione [...] valorizza il principio di collaborazione tra gli uffici [...]».
14
A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: vuoti normativi e ricadute applicative, in www.dirittopenalecontempo
raneo.it, 28 maggio 2015, pp. 6-7.
EDITORIALE | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO: PROFILI PROCESSUALI
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5
Al di là di questo aspetto, preme tuttavia sottolineare come la tutela riconosciuta in sede di archiviazione
alla persona offesa, per quel che qui importa, risulta a sorpresa diminuita. Se per un verso la persona offesa
viene sentita soltanto se compare – e pertanto dovrà essere messa in condizione di comparire mediante la
notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza in camera di consiglio a norma dell’art. 127 c.p.p. –, per
l’altro verso essa non potrà comunque opporsi alla decisione del giudice, così come invece si ritiene possa
fare l’imputato grazie all’applicazione, anche in questo caso, dell’art. 469, comma 1, c.p.p. 15.
LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO TRA UDIENZA PRELIMINARE, GIUDIZIO ABBREVIATO E DIBATTIMENTO
A questo punto, non possiamo evitare di considerare la circostanza che l’ambito operativo del proscioglimento per tenuità del fatto vada ben oltre le fasi dell’archiviazione e del predibattimento; ciò risulta
agevolmente desumibile dal fatto che, ai sensi dell’art. 651 bis c.p.p., «la sentenza penale irrevocabile di
proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento [– o a norma
dell’articolo 442 c.p.p., salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato –
] ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e
dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo civile».
Procedendo con ordine, si reputa che in sede di udienza preliminare il giudice, nel contraddittorio
tra le parti, possa emettere sentenza di non luogo a procedere per tenuità del fatto, mediante la formula
«persona non punibile per qualsiasi causa».
Al riguardo, va osservato come il giudice dell’udienza preliminare, pur avendo una piena conoscenza dei fatti per i quali si procede, difficilmente potrà giungere a emettere una sentenza di proscioglimento per tenuità del fatto: se da un lato quest’ultima decisione richiede un accertamento pieno di responsabilità, dall’altro lato il giudice dell’udienza preliminare si pronuncia unicamente in una prospettiva di sostenibilità dell’accusa in dibattimento. Riteniamo che fino a quando non verranno mutati i criteri decisori del giudice di questa fase, irrituale rischia di essere una sentenza di non luogo a procedere
pronunciata per la suddetta causa.
Comunque, l’eventuale sentenza di non luogo a procedere pronunciata per tenuità del fatto potrà
essere oggetto di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 428 c.p.p. ogniqualvolta l’imputato ritenga di
potere ottenere un proscioglimento con una formula più favorevole.
Sempre in sede di udienza preliminare, abbiamo detto che il giudice potrà emettere sentenza di proscioglimento per tenuità del fatto anche qualora l’imputato abbia optato per il rito abbreviato.
Il problema qui si pone con riferimento all’impossibilità per l’imputato stesso di proporre appello, in
termini di legge, avverso detta sentenza. Occorre allora muovere dalla circostanza che la Corte costituzionale per un verso ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 443, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non
prevede che l’imputato possa appellare le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità derivante
da vizio totale di mente e, per l’altro verso, ha sottolineato sia come la categoria delle sentenze liberatorie non costituisca un genere unitario, sia come la sentenza per infermità di mente – postulando
l’accertamento della sussistenza del fatto di reato, della sua riferibilità all’imputato e dell’assenza di
cause di giustificazione – non si distingua da una sentenza di condanna 16.
Vero ciò, pare dunque difficile pensare che una sentenza di proscioglimento per tenuità del fatto non
possa anch’essa essere equiparata, per una serie di conseguenze, a una sentenza di condanna e fare sorgere in capo all’imputato un interesse reale a impugnare pure nel merito la decisione 17. Riteniamo che
al più presto la Corte costituzionale dovrà essere chiamata a pronunciarsi al riguardo con riferimento
all’art. 443, comma 1, c.p.p.
Passando ora alla fase dibattimentale, nonostante taluno abbia affermato che in questo contesto il pro15
Trib. Milano, sez. IV, 9 aprile 2015, n. 3937, inedita.
16
Corte cost., sent. 19 ottobre 2009, n. 274, in Giur. cost., 2009, p. 3841, con osservazioni di G. Spangher, L’infermo di mente non
può appellare la sentenza di assoluzione pronunciata nel rito abbreviato, e di M. Ceresa-Gastaldo, Appello dell’imputato e diritto di difesa
nel rito abbreviato. Cade l’inappellabilità dell’assoluzione per vizio totale di mente.
17
Per questa impostazione, cfr. A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: vuoti normativi e ricadute applicative, cit., p. 8.
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scioglimento per tenuità del fatto debba avvenire, per ragioni di armonizzazione con l’art. 469, comma 1-bis,
c.p.p., a norma dell’art. 529 c.p.p. 18, più ragionevole sembra essere la tesi che riconduce detto proscioglimento alla formula, contenuta nell’ambito dell’art. 530, comma 1, c.p.p. (“Sentenza di assoluzione”), «reato
commesso da persona non punibile per un’altra ragione» 19. D’altronde, più che ai termini utilizzati dal legislatore, è alla sostanza dei provvedimenti che vengono emessi dal giudice che occorre fare riferimento: se
non risulta indicativo il fatto che nell’ambito dell’art. 651-bis c.p.p. si faccia riferimento a una sentenza di
proscioglimento in modo generico piuttosto che a una sentenza di assoluzione, altrettanto poco significativo
sembra essere la circostanza che in sede di predibattimento si faccia riferimento – unicamente per ragioni di
coerenza con l’art. 469, comma 1, c.p.p. – a una sentenza di non doversi procedere.
Sempre riguardo alla sentenza emessa all’esito del dibattimento ai sensi dell’art. 530, comma 1,
c.p.p., riteniamo esista la possibilità, per l’imputato, di proporre appello avverso detta decisione, vuoi
perché è innegabile un interesse, in capo a quest’ultimo, volto a ottenere una decisione più favorevole,
vuoi perché, sebbene nominalmente sia una sentenza di assoluzione, in concreto, ovvero per le conseguenze che comporta, essa rappresenta una sorta di condanna 20.
LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO TRA RITI SPECIALI E IMPUGNAZIONI
Rispetto al giudizio di appello, pare ragionevole ritenere che al proscioglimento per tenuità del fatto si
possa pervenire seguendo le medesime regole stabilite per il dibattimento di primo grado, in forza del
combinato degli artt. 530, comma 1 e 598 c.p.p., che estende al giudizio di appello le disposizioni del
giudizio di primo grado, salvo incompatibilità e/o previsioni specifiche che, per quel che qui importa,
non sembrano esistere.
Un discorso differente meritano invece i riti speciali diversi dal giudizio abbreviato e il procedimento davanti alla Corte di cassazione.
Sebbene l’art. 129, comma 1, c.p.p. non riporti, tra le cause di proscioglimento immediato, la non punibilità dell’imputato, la giurisprudenza di legittimità, in una logica prettamente economica, ha sempre
dato una lettura piuttosto disinvolta di tale disposizione, al fine di consentirne l’applicazione anche in
contesti processuali in relazione ai quali, codice di rito alla mano, ciò non sarebbe risultato scontato. E
così è avvenuto rispetto alla richiesta di applicazione della pena e al giudizio davanti alla Corte di cassazione 21. Non c’è allora motivo di ritenere che, ponendo in essere gli opportuni aggiustamenti volti a
consentire l’interlocuzione di imputato e persona offesa sul punto, l’interpretazione data fino a oggi
dell’art. 129, comma 1, c.p.p., da parte della giurisprudenza, non debba d’ora in avanti proseguire anche con riferimento al proscioglimento per tenuità del fatto 22.
Tale soluzione desta tuttavia qualche perplessità, sol che si consideri, da un lato, il fatto che «la causa di non punibilità non si presta a decisioni fulminanti perché il suo accertamento “implica il preventivo accertamento del fatto di reato”» 23, nonché, dall’altro lato, la circostanza – da non sottovalutare –
che il mancato inserimento della clausola di non punibilità riconducibile alla tenuità del fatto
nell’ambito dell’art. 129, comma 1, c.p.p. è stato deciso all’ultimo momento, in sede di passaggio dello
schema di decreto legislativo al testo definitivo 24.
18
F. Menditto, Prime linee guida per l’applicazione del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, in www.dirittopenalecontemporaneo.it,
3 aprile 2015, p. 22.
19
Così, tra gli altri, A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: vuoti normativi e ricadute applicative, cit., p. 7; nonché Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Problematiche processuali riguardanti l’immediata applicazione della “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 3, che si mostra possibilista circa entrambe le soluzioni.
20
Cfr., ancora, A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: vuoti normativi e ricadute applicative, cit., p. 6.
21
Per i possibili riferimenti in questa direzione, cfr. Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Problematiche processuali riguardanti l’immediata applicazione della “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 4 ss.
22
Cfr. Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Problematiche processuali riguardanti l’immediata applicazione della “particolare tenuità del fatto”, cit., pp. 9 ss. e 13.
23
F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, cit., p. 25.
24
L’art. 3, comma 1, lett. a) dello schema di d.lgs. approvato il 1° dicembre 2014 («al comma 1 dell’art. 129, dopo le parole
“non è previsto dalla legge come reato” sono inserite le seguenti: “o che l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 131 bis del
codice penale”») è stato soppresso nel passaggio al testo definitivo.
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Rispetto poi all’opportunità di dichiarare il proscioglimento per tenuità del fatto in sede di procedimento per decreto e di giudizio immediato, condivisibili appaiono le perplessità manifestate dall’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione: se riguardo al primo procedimento, risulta dirimente il
fatto «che la sentenza, in tali casi, non può che essere pronunciata fuori del contraddittorio», con riferimento al giudizio immediato, «questa tipologia procedimentale non consente al giudice, nemmeno in
linea generale, la pronuncia di una sentenza ex art. 129 cod. proc. pen., ma solo la possibilità di emettere
il decreto che dispone il giudizio o, in alternativa, di rigettare la richiesta ordinando la restituzione degli atti al pubblico ministero» 25.
LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO E LE DIMENTICANZE DEL LEGISLATORE
Nel disattendere l’invito della Commissione Giustizia della Camera a valutare l’opportunità di coordinare la disciplina della particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 34, d.lgs. 28 ottobre 2000, n. 274, in
riferimento ai reati del giudice di pace, con la corrispondente disciplina dettata per il rito ordinario 26, il
legislatore del 2015 ha dato vita a un sistema destinato a creare una serie di interferenze tra diverse disposizioni astrattamente applicabili alle medesime situazioni, che dovranno essere di volta in volta risolte dagli interpreti. Non vi è dubbio infatti che la nuova causa di non punibilità disciplinata dall’art.
131-bis c.p. possa trovare applicazione anche nel procedimento davanti al giudice di pace – grazie alla
previsione di cui all’art. 2, d.lgs. n. 274/2000 –, risultando essa strutturata in modo completamente diverso e non richiedendo tutte le condizioni richieste dall’art. 34, d.lgs. n. 274/2000 27; come al contempo
quest’ultima causa di non punibilità potrà trovare applicazione nell’ambito del rito ordinario, laddove
sussistano le condizioni di cui all’art. 63, d.lgs. n. 274/2000 28.
Il problema tuttavia nella pratica si porrà sovente, in quanto la diversità tra l’istituto della tenuità
del fatto disciplinato per il rito davanti al giudice di pace e quello disciplinato per il rito ordinario si colloca non solo sul piano della natura – la qual cosa potrebbe non provocare ricadute concrete di così
grande momento –, ma anche e soprattutto su quello dei presupposti e della disciplina processuale in
senso stretto, l’impatto dei quali risulterà sicuramente determinante.
Da qui, dunque, due sistemi processuali – quello ordinario e quello davanti al giudice di pace – caratterizzati da una «geometria variabile» 29, non più giustificabile sulla base soltanto delle «innegabili
peculiarità del procedimento di pace» 30.
Un ulteriore profilo trascurato dalla disciplina in esame riguarda la responsabilità amministrativa
degli enti ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Nonostante taluno abbia affermato che la causa di non punibilità riguardante la persona fisica si
estende senza dubbio anche a quella giuridica – non essendo stata estesa la clausola di salvaguardia di
cui all’art. 8, d.lgs. n. 231/2001 anche all’istituto della tenuità del danno 31 –, riteniamo che detta causa
di non punibilità, pur non essendo in astratto strutturalmente incompatibile con il modulo procedimentale di cui al d.lgs. n. 231/2001, determina tuttavia ex lege ricadute giudiziarie negative in capo al soggetto che subisce il provvedimento e, in assenza di un intervento specifico del legislatore sul punto, pare difficile ritenere che le disposizioni normative che prevedono dette ricadute possano trovare applicazione estensiva in questa sede, precludendone di conseguenza al momento l’applicazione. Ci auguriamo un repentino intervento di adeguamento da parte del legislatore, al fine di evitare che un comportamento caratterizzato da particolare tenuità posto in essere dalla persona fisica rischi di rappresentare
viceversa un comportamento degno di sanzione se riconducibile alla persona giuridica.
25
Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Problematiche processuali riguardanti l’immediata applicazione della “particolare
tenuità del fatto”, cit., p. 14.
26
Cfr. Parere Commissione Giustizia Camera, 3 febbraio 2015.
27
Corte cost., sent. 3 marzo 2015, n. 25, in Cass. pen., 2015, p. 2230 ss.
28
G. Amato, Rischio incoerenza con la disciplina del giudice di pace, in Guida dir., 2015, n. 15, p. 45.
29
Si esprime in tal modo, A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: vuoti normativi e ricadute applicative, cit., p. 12.
30
F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, cit., p. 35.
31
F. Lo Voi-B. Petralia, D.lgs. 16 marzo 2015 n. 28 “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto ...” –
Circolare esplicativa/applicativa, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 2 luglio 2015, p. 25.
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Scenari
Overviews
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NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
NATIONAL LEGISLATIVE NEWS
di Carla Pansini
LA RIFORMA DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO (DECRETO 12 AGOSTO 2015, NN. 143 E 144)
L’articolato mosaico per l’attuazione della riforma della professione di avvocato ha aggiunto due nuove
tessere.
Si tratta del decreto 12 agosto 2015, n. 143 recante il Regolamento concernente disposizioni relative alle
forme di pubblicità dell’avvio delle procedure per l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di
avvocato, a norma dell’articolo 47, comma 7, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 e del decreto 12 agosto 2015, n.
144 contenente il Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato
specialista, a norma dell’articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247; entrambi del Ministero della Giustizia.
L’opera di restailing in campo forense è iniziata con la l. 31 dicembre 2012, n. 247 recante la Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense (e già in vigore dal 2 febbraio 2013) la quale, oltre a dettare regole direttamente operative, conteneva tre deleghe al Governo per la disciplina dell’esercizio della
professione forense in forma societaria (art. 5), per il riordino della difesa d’ufficio (art. 16) e, infine, per
adottare un testo unico finalizzato alla riorganizzazione delle disposizioni vigenti in materia (art.64).
Inoltre, prevedeva una serie di provvedimenti di attuazione, la maggior parte assegnati al Ministero
della Giustizia e che, stando alla legge, avrebbero dovuto vedere la luce entro il 2 febbraio 2015. Altri
regolamenti (fra cui la predisposizione del nuovo Codice deontologico) spettavano, invece, al Consiglio
forense che li ha varati nel biennio 2013-2014.
Il primo punto della delega, ovvero la disciplina delle società professionali – al quale avrebbe dovuto essere dedicato un apposito decreto legislativo – è confluito del disegno di legge sulla concorrenza,
attualmente in esame alla Camera dei Deputati. Alle modifiche della difesa di ufficio si è data, invece,
attuazione con il d.lgs. n. 6/2015 (v. Diddi, in Questa rivista, n. 3/2015).
La pubblicità delle procedure relative all’esame di Stato e come ottenere il titolo di specialista sono le
materie disciplinate dagli ultimi due decreti ministeriali in commento, usciti in Gazzetta Ufficiale il 15
settembre scorso.
Altri sette decreti sono in via di approvazione: è, difatti, cominciato l’iter che prevede i pareri del
Consiglio nazionale forense, del Consiglio di Stato e del Parlamento su vari temi complementari.
Tra questi, all’esame delle Camere c’è uno dei provvedimenti più attesi, quello che detta i requisiti
che un avvocato deve rispettare per rimanere iscritto all’Albo, con l’obiettivo di verificare e garantire
l’esercizio «effettivo, abituale e prevalente» della professione.
Work in progress, quindi, per una materia estremamente complessa e delicata, che costituisce diretta
estrinsecazione del principio di inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
Gli ultimi regolamenti approvati sono contestuali, anche se presentano una differente entrata in vigore.
Il primo, come detto, disciplina le forme di pubblicità dell’avvio delle procedure per l’esame di Stato
per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato ed è in vigore dal 30 settembre scorso.
Con esso si stabilisce unicamente che il decreto del Ministro della giustizia con il quale vengono indetti gli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato deve essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana «almeno novanta giorni prima della data fissata
per l’inizio delle prove scritte». Inoltre, per agevolare la conoscibilità del decreto, si stabilisce che il Ministero della giustizia e il Consiglio nazionale forense, entro dieci giorni dalla pubblicazione in Gazzetta, inseriscano il testo nei rispettivi siti internet.
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Tutto qui, accompagnato dalla solita “clausola di invarianza finanziaria”, che blinda le casse dello
Stato, escludendo che dall’attuazione del decreto derivino “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Più articolato è, invece, il decreto contenente il regolamento che disciplina le modalità per diventare
specialista e che entrerà in vigore il 14 novembre prossimo.
In primis, vengono individuati due percorsi alternativi per il conseguimento e il mantenimento del titolo: la frequentazione di corsi biennali o la comprovata esperienza nel settore. Vengono, poi, tassativamente elencate le aree di specializzazione, imponendo all’avvocato di sceglierne non più di due.
Sotto il primo profilo, il conseguimento del titolo di “avvocato specialista” in uno dei settori di specializzazione previsti dall’art. 3 del decreto è subordinato alla presentazione, da parte del soggetto interessato, di una domanda presso il consiglio dell’ordine d’appartenenza che, un volta verificata la regolarità della documentazione allegata all’istanza, la trasmette al Consiglio nazionale forense.
I requisiti richiesti sono:
a) l’aver frequentato negli ultimi cinque anni con esito positivo corsi di specializzazione di cui all’art.
7, oppure l’aver maturato una comprovata esperienza nel settore di specializzazione ai sensi dell’art. 8
del decreto in commento;
b) non aver riportato, nei tre anni precedenti la presentazione della domanda, una sanzione disciplinare definitiva, diversa dall’avvertimento, conseguente ad un comportamento realizzato in violazione
del dovere di competenza o di aggiornamento professionale;
c) non aver subito, nei due anni precedenti la presentazione della domanda, la revoca del titolo di
specialista.
I corsi di specializzazione da frequentare per il riconoscimento del titolo saranno quelli organizzati
dai Dipartimenti – o dalle strutture di raccordo – di giurisprudenza delle università legalmente riconosciute e inserite nell’apposito elenco del Ministero dell’istruzione, università e ricerca, il quale dovrà
svolgere una preventiva opera di verifica della conformità dei relativi programmi didattici dei corsi a
quanto disposto dal regolamento e alle linee generali elaborate a norma del comma 2. All’uopo sarà istituita presso lo stesso Ministero una commissione permanente, composta da due magistrati ordinari
nominati dal predetto Ministero, due avvocati nominati dal Consiglio nazionale forense e due professori universitari in materie giuridiche di prima e seconda fascia, anche a tempo definito, nominati dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Compito precipuo della commissione è quello di
elaborare «le linee generali per la definizione dei programmi dei corsi di formazione specialistica», tenendo conto di non ben individuate «migliori prassi in materia» (art. 7). L’incarico di componente della
commissione (assolutamente gratuito, salvo il rimborso delle spese) avrà durata quadriennale.
L’organizzazione pratica dei corsi è, poi, subordinata alla stipula da parte del Consiglio nazionale
forense o dei consigli dell’ordine degli avvocati di apposite convenzioni con i dipartimenti o le altre
strutture di raccordo, «per assicurare il conseguimento di una formazione specialistica» orientata
all’effettivo esercizio della professione nel settore di specializzazione.
Regole stringenti sono, poi, dettate per l’individuazione dei componenti del comitato scientifico e
dei docenti dei corsi di specializzazione: questi ultimi dovranno essere individuati esclusivamente «tra i
professori universitari di ruolo, ricercatori universitari, avvocati di comprovata esperienza professionale abilitati al patrocinio avanti le giurisdizioni superiori, magistrati che abbiano conseguito almeno la
seconda valutazione, e, per particolari esigenze e per le sole materie non giuridiche, il cui carico non potrà superare un quinto del totale, esperti di comprovata esperienza professionale almeno decennale nello specifico settore di interesse» (art. 7.8).
L’organizzazione dei corsi dovrà avere una durata almeno biennale e prevedere la didattica non inferiore a 200 ore; dovrà assicurare la composizione mista e l’adeguata qualificazione del corpo docente,
nonché un monte ore di didattica frontale non inferiore a 100; saranno obbligatori la frequenza ai corsi
(ancorché nella misura minima dell’ottanta per cento della durata del corso) e l’espletamento di almeno
una prova, scritta e orale, al termine di ciascun anno di corso, volta ad accertare l’adeguato livello di
preparazione. Peraltro, le lezioni in cui si articolano i corsi potranno essere svolte anche a distanza con
modalità telematiche.
Diverso è l’iter per ottenere il riconoscimento del titolo unicamente sulla base della comprovata
esperienza. In questo caso, il Consiglio nazionale forense convoca l’istante per sottoporlo ad un colloquio – obbligatorio – sulle materie comprese nel settore di specializzazione, solo all’esito positivo del
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quale si otterrà il conferimento del titolo. L’avvocato, tuttavia, dovrà altresì dimostrare – mediante la
produzione di documentazione, giudiziale o stragiudiziale, comprovante che l’avvocato ha trattato nel
quinquennio incarichi professionali fiduciari rilevanti per quantità e qualità, almeno pari a quindici per
anno – di avere «maturato un’anzianità di iscrizione all’albo degli avvocati ininterrotta e senza sospensioni di almeno otto anni» e «di avere esercitato negli ultimi cinque anni in modo assiduo, prevalente e
continuativo attività di avvocato in uno dei settori di specializzazione» individuati nel decreto.
Il titolo di avvocato specialista, quindi, verrà conferito dal Consiglio nazionale forense in ragione del
percorso formativo previsto dall’art. 7 o della comprovata esperienza professionale maturata dal singolo avvocato, ma si intenderà conseguito, comunque, solo con l’iscrizione nell’elenco.
Commette illecito disciplinare colui che spenderà il titolo di specialista senza averlo conseguito.
È compito dei consigli dell’ordine formare e aggiornare gli elenchi degli avvocati specialisti sulla base dei settori di specializzazione, nonché renderli accessibili al pubblico anche tramite consultazione telematica.
Il titolo, una volta conseguito, è revocabile dal Consiglio nazionale forense, a seguito di comunicazione del Consiglio dell’Ordine, in caso di irrogazione di una sanzione disciplinare definitiva, diversa
dall’avvertimento, «conseguente ad un comportamento realizzato in violazione del dovere di competenza o di aggiornamento professionale», nel caso di «mancato adempimento degli obblighi di formazione continua ovvero dell’obbligo di deposito nei termini della dichiarazione e della documentazione
per il mantenimento dell’iscrizione nell’elenco (art. 9, comma 1).
Il Consiglio nazionale forense, comunque, anche di propria iniziativa o su segnalazione del consiglio
dell’ordine o di terzi può avviare il procedimento per la revoca del titolo di avvocato specialista nei casi
di grave e comprovata carenza delle specifiche competenze del settore di specializzazione; in questo caso, tuttavia, dovrà preliminarmente sentire l’interessato.
Una clausola di salvaguardia è, comunque, prevista per gli avvocati meno ligi: «la revoca del titolo
non impedisce di conseguirlo nuovamente».
Un’ultima riflessione va fatta in ordine alle aree di specializzazione. Il decreto ne elenca diciotto,
piuttosto variegate, che abbracciano settori che vanno dal «diritto dell’ambiente» a quello dell’Unione
europea, al «diritto delle relazioni familiari, delle persone e dei minori», ai «diritti reali, di proprietà,
delle locazioni e del condominio» sino a quello «dell’informatica». L’avvocato potrà specializzarsi solo
in due settori.
Quello che, però, appare carente è una differenziazione di alcune aree del diritto penale, all’interno
del quale, viceversa, ci sono delle branche che forse necessitano di maggiore e specifica specializzazione: il diritto penale minorile, ad esempio, è una di queste (peraltro, è richiesta una specializzazione ad
hoc per l’iscrizione nelle liste dei difensori di ufficio tenuta presso i Tribunali per i minorenni) o, anche,
il diritto penale tributario.
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Daniela Vigoni
I RECENTI TRATTATI DI COOPERAZIONE IN MATERIA PENALE CON BRASILE E MESSICO
Lo sviluppo degli accordi bilaterali di cooperazione in materia penale ha riguardato anche i rapporti fra
l’Italia e due Paesi latinoamericani: il Brasile e il Messico.
Con il Brasile si annoverano già due Trattati, di estradizione e di assistenza giudiziaria. Entrambi gli
accordi, sottoscritti a Roma nel 1989, sono entrati in vigore il 1° agosto 1993 (si possono leggere anche in
Pisani-Mosconi-Vigoni, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale,
IV ed., Milano, 2004, 78 ss.). Si aggiunge il Trattato sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritto a Brasilia il 27 marzo 2008: la legge di ratifica ed esecuzione è la 10 febbraio 2015, n. 17 (Gazz.
Uff., 4 marzo 2015, n. 52).
Dai lavori parlamentari (D.d.l. S. 1622 – Senato della Repubblica, XVII Legislatura, 23) risulta che nel
2014 erano circa 120 i cittadini brasiliani detenuti in Italia e 80 i cittadini italiani detenuti in Brasile.
Nel quadro degli accordi di cooperazione in materia penale di contrasto al crimine transnazionale, i
due trattati – di estradizione e di assistenza giudiziaria – stipulati con il Messico mirano a intensificare i
rapporti di cooperazione, al momento piuttosto ridotti: dai lavori parlamentari (D.d.l. S. 1329 – Senato
della Repubblica, XVII Legislatura, 8) risulta che vi sono stati 3 casi di estradizione; 6 richieste di autorizzazione all’esecuzione di rogatorie attive; 1 caso di trasferimento di persone condannate (frutto di un
accordo ad hoc).
Con il Trattato di estradizione fra Italia e Messico, fatto a Roma il 28 luglio 2011, si è elaborato un accordo più moderno, dettagliato e organico rispetto al precedente trattato bilaterale per l’estradizione
dei delinquenti (Città del Messico, 1899). La legge di ratifica ed esecuzione è la n. 89 del 15 giugno 2015
(in Gazz. Uff., 3 luglio 2015, n. 152). Tale nuovo accordo “abroga e sostituisce”, quello più risalente; tuttavia, le richieste di estradizione pendenti alla data di entrata in vigore del trattato del 2011 saranno
comunque disciplinate e decise secondo le disposizioni del trattato del 1899 fino «alla conclusione della
relativa procedura» (art. 23, par. 5).
Sempre il 28 luglio 2011, l’Italia e il Messico hanno sottoscritto anche un Trattato in materia di assistenza giudiziaria penale: la legge di ratifica ed esecuzione è la n. 90 del 15 giugno 2015 (anche questa
legge è in Gazz. Uff. 3 luglio 2015, n. 152). Nulla è scritto in questo accordo circa le disposizioni del Trattato di estradizione del 1899 relative a rogatorie finalizzate all’audizione di testimoni, all’esecuzione di
atti istruttori alla notifica di atti o decisioni, alla produzione di atti o documenti giudiziali (artt. 15-17).
Anche per la parte relativa all’assistenza giudiziaria, comunque, il Trattato del 1899 è da intendersi implicitamente abrogato, in quanto il nuovo accordo in materia di assistenza viene a sostituire la precedente disciplina pattizia. Peraltro, a differenza della procedura di estradizione (v. art. 23, par. 5), non vi
è un regime convenzionale diretto a regolare le richieste di assistenza giudiziaria pendenti alla data di
entrata in vigore del nuovo Trattato. Si riscontra, invece, in entrambi i Trattati del 2011, la stessa regola
per cui essi si applicheranno ad ogni richiesta presentata dopo la loro entrata in vigore, anche se relativa a reati commessi prima (per l’estradizione, art. 23, par. 4; per l’assistenza giudiziaria, art. 25, par. 4).
A) Il Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo
della Repubblica federativa del Brasile del 2008 è composto da 19 articoli, e redatto nelle lingue italiana e
portoghese, entrambi i testi facendo ugualmente fede (art. 19). Italia e Brasile s’impegnano a consentire
che la persona condannata nel territorio di una delle Parti possa essere trasferita nel territorio dell’altra
Parte, che rappresenta il suo Paese d’origine, per scontarvi una pena o una misura privativa della liberSCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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tà inflitta con sentenza definitiva (art. 2): si favorisce così la «riabilitazione sociale della persona condannata» (art. 8).
Il trasferimento è subordinato a taluni presupposti di fondo: la persona condannata deve essere cittadina o aver la residenza permanente nello Stato di esecuzione (art. 3, lett. a); i fatti devono costituire
reato in entrambi gli ordinamenti nazionali (principio di “doppia incriminazione”) (art. 3, lett. e); la pena da scontare deve essere di almeno dodici mesi (art. 3, lett. c).
Come di consueto, fra le condizioni per il trasferimento vi è il consenso del condannato. Si prefigura
prima una «petizione nella quale la persona condannata manifesta la propria volontà» (art. 6, par. 2,
lett. a), informata e consapevole anche delle conseguenze legali del trasferimento (artt. 4 e 7) e poi «una
volta messa a conoscenza delle conseguenze legali del trasferimento, secondo le informazioni trasmesse» dallo Stato di esecuzione, il «consenso definitivo al trasferimento» (art. 6, par. 4). Un’altra condizione di base per il trasferimento è l’“assenso” dello Stato di esecuzione (nel Trattato denominato «Parte
ricevente») comunicato, unitamente alle conseguenze legali dello stesso secondo la propria legislazione,
allo Stato di condanna (nel Trattato denominato «Parte mittente») (art. 6, par. 3).
Nel decidere sul trasferimento, in linea con l’obiettivo di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, le autorità competenti di entrambi gli Stati dovranno considerare, fra gli altri elementi, “la gravità del reato”, “i precedenti penali”, “i rapporti socio-familiari che la medesima abbia mantenuto con il proprio ambiente di origine” e “le sue condizioni di salute” (art. 8).
Le autorità centrali designate a corrispondere per il trasferimento sono, per l’Italia, la Direzione generale della giustizia penale del Ministero della giustizia, e, per il Brasile, il Ministero della giustizia (art. 5).
Oltre alle informazioni funzionali alla procedura di trasferimento (art. 6), che comprendono la richiesta di trasferimento e i documenti relativi, accompagnati da una traduzione nella lingua della Parte
ricevente (salvo diverso accordo) (art. 17), nel Trattato sono regolati gli effetti del trasferimento della
persona condannata per lo Stato di condanna e per lo Stato di esecuzione.
Nella prima prospettiva, la presa in carico della persona condannata da parte delle autorità della
Parte ricevente ha l’effetto di sospendere l’esecuzione della pena nella Parte mittente e di impedire, al
fine di garantire il rispetto del ne bis in idem sul piano esecutivo penitenziario, l’esecuzione della pena
quando la Parte ricevente ritenga che la pena sia stata interamente scontata (art. 9).
Nella seconda prospettiva, ossia quella della Parte ricevente, l’adozione del criterio della continuazione dell’esecuzione, comporta il vincolo circa la natura giuridica e la durata della sanzione, così come
definite dalle Parte mittente; si prevede, tuttavia, che qualora, per natura o durata, vi sia incompatibilità
della sanzione con la legge della Parte ricevente, la persona condannata non sarà trasferita, salvo il consenso delle Parti (art. 10).
Il Trattato prevede anche il criterio di specialità, per cui il condannato non potrà scontare una pena o
essere sottoposto a una misura privativa della libertà personale per un reato diverso e anteriore a quello
che ha motivato il trasferimento, salve le cause di risoluzione del criterio convenzionalmente previste
(estradizione mancato allontanamento, rientro nel territorio della Parte ricevente) (art. 11).
Sulla domanda di revisione della sentenza potrà decidere soltanto lo Stato che ha inflitto la condanna (art. 12). Invece, le misure clemenziali (amnistia, indulto, grazia) potranno essere concesse da entrambe le Parti (art. 13).
Lo Stato nel cui territorio la persona condannata è stata trasferita per l’esecuzione della pena dovrà
informare lo Stato in cui sia stata inflitta la sanzione sull’esecuzione della condanna quando: consideri
terminata l’esecuzione della pena; la persona condannata sia evasa prima che l’esecuzione della pena
sia terminata; lo Stato di condanna richieda un rapporto speciale (art. 14).
Le spese derivanti dall’applicazione del Trattato saranno a carico dello Stato ricevente, salvo i costi
sostenuti esclusivamente nel territorio dello Stato mittente (art. 15).
Le controversie relative all’applicazione o all’interpretazione del Trattato vanno risolte per via diplomatica (art. 18).
Il Trattato, che si applicherà anche a condanne precedenti alla sua entrata in vigore (art. 16), entrerà
in vigore trenta giorni dopo la data dello scambio degli strumenti di ratifica; ha una durata illimitata,
salvo denuncia, la quale avrà effetto sei mesi dopo la data in cui l’altra Parte ne ha ricevuto notifica, e
senza pregiudizio per l’eventuale procedura di trasferimento in corso (art. 19, parr. 1 e 2).
B) Il Trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati uniti messicani
del 2011, che si compone di 23 articoli, è redatto nelle lingue italiana e spagnola ed entrambi i testi fanSCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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no ugualmente fede. Le Parti s’impegnano alla reciproca consegna di persone che si trovano sul proprio
territorio sia per procedere penalmente nei loro confronti, sia per eseguire una sentenza di condanna a
pena detentiva o altro provvedimento restrittivo della libertà personale (art. 1).
Per l’estradizione processuale occorre che il reato sia punibile, secondo la legislazione di entrambi i
Paesi, con una pena detentiva di almeno un anno (art. 2, par. 1, lett. a); per l’estradizione esecutiva è necessario che la pena ancora da espiare sia di almeno sei mesi (art. 2, par. 1, lett. b).
Nell’ipotesi di pluralità di reati, l’estradizione è consentita per tutti i reati purché uno di essi soddisfi
le condizioni sopra menzionate (art. 2, par. 5).
In ogni caso, vige il principio di “doppia incriminazione”, per cui il fatto deve essere previsto come
reato dalla legge da entrambe le legislazioni nazionali, pur non rilevando che esso rientri nella stessa
categoria di reato o che abbia identica qualificazione (art. 2, par. 2). Solo in materia di tasse e imposte,
dazi e cambi sussiste una deroga al citato principio, in quanto si prevede che l’estradizione non possa
essere rifiutata solo perché la disciplina dello Stato richiesto sia diversa da quella dello Stato richiedente
(art. 2, par. 3).
Peraltro, l’estradizione può essere concessa anche se il reato oggetto della richiesta sia stato commesso fuori dal territorio dello Stato richiedente, sempre che la legge nazionale dello Stato richiesto consenta di perseguire reati della stessa natura commessi fuori dal proprio territorio (art. 2, par. 4).
Il Trattato prevede motivi di rifiuto obbligatorio e facoltativo della richiesta di estradizione.
L’estradizione non è concessa, in base all’art. 3, nei casi di: reato politico (o connesso a reato politico)
(lett. a) o reato militare (lett. g); possibile trattamento discriminatorio o persecutorio (per motivi di razza, sesso, religione, condizione sociale, nazionalità o opinioni politiche) (lett. b); reato punibile con una
pena vietata dalla legge dello Stato richiesto (lett. c); fondato motivo per ritenere che la persona sia sottoposta a un procedimento che non assicuri il rispetto dei diritti minimi di difesa, o a un trattamento
crudele inumano o degradante o che vengano violati i suoi diritti fondamentali (precisando che «la circostanza che il procedimento si sia svolto in contumacia non costituisce di per sé motivo di rifiuto»)
(lett. d); persona già giudicata in via definitiva nello Stato richiesto per lo stesso fatto oggetto della richiesta di estradizione (lett. e); intervenuta causa di estinzione del reato o della pena (lett. f); concessione di rifugio o asilo politico da parte dello Stato richiesto (lett. h); possibile pregiudizio alla sovranità,
alla sicurezza nazionale, all’ordine pubblico o altri interessi essenziali dello Stato richiesto o possibili
conseguenze contrastanti con i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale dello Stato richiesto
(lett. i).
L’estradizione può essere rifiutata, in base all’art. 4, in due casi: qualora lo Stato richiesto intenda
procedere o sia pendente un procedimento penale nei confronti della stessa persona e per il medesimo
fatto oggetto della richiesta di estradizione (lett. a); per valutazioni di carattere umanitario, legate
all’età, alle condizioni di salute o ad altre condizioni personali della persona richiesta (lett. b).
La posizione del cittadino è considerata in una specifica disposizione convenzionale (art. 5), in cui si
prevede il rifiuto di estradizione in termini facoltativi: più precisamente, al «diritto» di rifiutarne la
consegna, si prospetta, per lo Stato richiesto, l’impegno, in conformità al principio aut dedere aut punire e
in base alla legge interna, di procedere penalmente e di comunicare l’esito del processo; per lo Stato richiedente, l’onere di trasmettere prove, documentazione ed altri elementi utili.
In base al principio di specialità, nello Stato richiedente la persona estradata non potrà essere perseguita, giudicata, detenuta per l’esecuzione di una condanna o sottoposta a provvedimenti restrittivi
della libertà personale per un fatto anteriore e diverso da quello oggetto di estradizione (art. 10, par. 1).
Compaiono nel Trattato le consuete eccezioni all’operatività del principio, per cui la garanzia non opera
se: la persona estradata dopo aver lasciato il territorio dello Stato vi abbia fatto volontariamente ritorno
(lett. a); non abbia lasciato tale territorio entro 45 giorni da quello in cui abbia avuto la possibilità di farlo (lett. b); vi sia il consenso dello Stato richiesto (lett. c). Resta salva la possibilità per lo Stato richiedente di adottare le misure necessarie, secondo la propria legislazione, per interrompere la prescrizione
(art. 10, par. 2). Si precisa altresì che quando la qualificazione giuridica del fatto contestato è modificata
nel corso del processo, la persona estradata possa essere perseguita e giudicata per il reato diversamente qualificato, sempre che anche per tale nuovo reato sia consentita l’estradizione in base al Trattato
(art. 10, par. 3).
Il Trattato prevede che la richiesta di estradizione sia formulata per iscritto e disciplina puntualmente il contenuto della richiesta (art. 7, par. 1), che comprende, oltre ai necessari riferimenti soggettivi (lett.
b) e oggettivi (lett. c), i testi delle disposizioni applicabili (lett. d) e gli ulteriori documenti a corredo delSCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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la domanda di estradizione, e cioè, nel caso di estradizione processuale, la copia autentica dell’ordine di
arresto (par. 2, lett. b), e, nel caso di estradizione esecutiva, la copia autentica della sentenza esecutiva,
con l’indicazione della pena eventualmente già eseguita. Lo Stato richiesto, quando le informazioni fornite non siano sufficienti, può richiedere le informazioni supplementari necessarie per decidere in merito all’estradizione (art. 8).
Quanto alle modalità di presentazione si prevede che la richiesta sia trasmessa per via amministrativa e le autorità centrali competenti al riguardo sono il Ministero della giustizia per l’Italia e il Ministero
degli Affari esteri per il Messico, che comunicheranno direttamente tra loro (art. 6).
In caso di urgenza, è possibile domandare per iscritto, sempre attraverso le autorità centrali, l’arresto
provvisorio della persona richiesta, cui farà seguito richiesta formale di estradizione entro sessanta
giorni, pena la caducazione dell’arresto provvisorio e delle eventuali misure cautelari adottate (art. 12).
Lo Stato richiesto «informa prontamente» lo Stato richiedente della sua decisione sulla richiesta di
consegna (art. 9, par. 1): quando rifiuti in tutto o in parte la consegna deve render noti allo Stato richiedente i motivi del rifiuto (art. 9, par. 2); quando concede l’estradizione, gli Stati «si accordano prontamente» su ogni aspetto relativo all’esecuzione dell’estradizione (art. 14, par. 1). Il termine per la consegna è di sessanta giorni dalla data in cui lo Stato richiedente è stato informato della concessione dell’estradizione (art. 14, par. 2); tale Stato è impegnato alla presa in carico dell’estradando, dovendo diversamente disporsi l’immediata liberazione di quest’ultimo, cui può conseguire, a fronte di una nuova
richiesta di estradizione nei confronti della stessa persona e per il medesimo reato, il rifiuto della consegna (art. 14, par. 3).
Una volta concessa l’estradizione, sono possibili sia il differimento della consegna, quando nello Stato richiesto sia in corso nei confronti dell’estradando un procedimento penale o l’esecuzione della pena
per un reato diverso, oppure se le condizioni di salute della persona richiesta lo motivano (art. 15, parr.
1 e 3), sia la consegna temporanea allo Stato richiedente al fine di consentire lo svolgimento del procedimento penale in corso (art. 15, par. 2).
È anche prevista la procedura semplificata di estradizione (art. 16) che si prospetta quando l’estradando presti il proprio consenso, valido se reso con l’assistenza di un difensore di fronte ad un’autorità
competente dello Stato richiesto, la quale dovrà informare la persona richiesta del diritto di avvalersi di
un procedimento formale di estradizione, della protezione offerta dal principio di specialità e del carattere irrevocabile della dichiarazione stessa. In questo caso, l’estradizione potrà essere concessa sulla base della sola domanda di arresto provvisorio, senza che sia necessario presentare tutta la documentazione prevista dall’art. 7 del Trattato, fermo restando che è sempre consentito richiedere le ulteriori informazioni necessarie per accordare l’estradizione.
Altre disposizioni regolano: il concorso di richieste di estradizione presentate da più Stati nei confronti della stessa persona, anche per reati diversi, dettando specifici criteri selettivi (art. 13); la riestradizione ad uno Stato terzo per reati commessi anteriormente alla consegna, vincolandola, di regola, al
consenso dello Stato richiesto (art. 11); il transito sul territorio di una delle Parti di una persona estradata da uno Stato terzo, prevedendone l’autorizzazione, fatta salva l’ipotesi di trasporto aereo senza scalo
(art. 18).
Ulteriori previsioni riguardano la consegna di cose sequestrate all’estradando rinvenute nel territorio dello Stato richiesto (art. 17), nonché l’impegno dello Stato richiedente di informazione circa lo svolgimento e l’esito del processo, l’esecuzione della condanna e l’eventuale estradizione ad uno Stato terzo
(art. 20). Si provvede, come di consueto, anche a ripartire le spese per l’estradizione (art. 19).
Il Trattato non pone vincoli agli Stati nella cooperazione in materia di estradizione conformemente
ad altri trattati di cui entrambi siano Parte (art. 21).
Le controversie sull’interpretazione o applicazione del Trattato saranno risolte mediante consultazione per via diplomatica (art. 22).
L’accordo entrerà in vigore il trentesimo giorno dalla data dello scambio degli strumenti di ratifica,
potrà essere modificato mediante accordo scritto, ha durata illimitata, salva la facoltà di recesso, dandone comunicazione scritta trasmessa per via diplomatica, che avrà effetto centottanta giorni dopo la
data della comunicazione (art. 23).
C) Con il Trattato in materia di assistenza giudiziaria penale tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati uniti messicani del 2011 s’intende «migliorare e rafforzare» la cooperazione in materia
penale, assicurandone la realizzazione «in modo rapido ed efficace».
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L’accordo si compone di 25 articoli, ed è redatto nelle lingue italiana e spagnola; entrambi i testi fanno ugualmente fede (art. 25, par. 4).
Le Parti s’impegnano a prestarsi «la più ampia assistenza giudiziaria in materia penale», che in particolare comprende: la notifica di citazioni e di altri atti giudiziari (lett. a); l’acquisizione di atti e documenti o l’informazione sul loro contenuto (lett. b); l’assunzione di testimonianze e di interrogatori (lett.
c); le perizie (lett. d); le altre attività di assunzione di prove (ispezioni, esami di luoghi e persone, perquisizioni e accertamenti documentali) (lett. e); il sequestro e la confisca (lett. f); la trasmissione di sentenze, certificati penali e informazioni estratte dagli archivi giudiziari (lett. g); la citazione di testimoni,
persone offese, persone sottoposte a procedimento penale, periti (lett. h). L’assistenza, che si estende
anche a ipotesi non tipizzate, purché conformi con le finalità del Trattato e non contrastanti con la legislazione nazionale (art. 1, par. 1, lett. i), non comprende, invece, l’esecuzione di provvedimenti restrittivi della libertà personale, né l’esecuzione di pene o misure coercitive (art. 1, par. 3).
Specifiche e dettagliate previsioni convenzionali sono dedicate a disciplinare: la notificazione di atti
(art. 7); la trasmissione di atti e documenti (art. 8), le perquisizioni, i sequestri e la confisca (art. 9);
l’assunzione probatoria nel territorio dello Stato richiesto (prevedendo l’assistenza di un interprete se si
tratti di persona da ascoltare e la facoltà di non rispondere quando sia prevista nell’una o nell’altra legislazione interna) (art. 10); l’assunzione probatoria nel territorio dello Stato richiedente (con specifiche
garanzie predisposte a favore della persona da ascoltare) (art. 11); la comparizione e audizione mediante videoconferenza di testimoni, periti, persone sottoposte a procedimento penale (art. 12); il trasferimento temporaneo di persone detenute per rendere dichiarazioni o partecipare ad atti processuali (art.
13); lo scambio di informazioni sui procedimenti penali, sui precedenti penali e sulle condanne inflitte
nei confronti dei cittadini dell’altra Parte (art. 15); lo scambio di informazioni sulla legislazione (art. 16);
la trasmissione di sentenze e certificati penali (art. 16).
Se il principio di doppia incriminazione subisce, in via generale, un temperamento – per cui
l’assistenza può essere prestata anche quando il fatto non costituisce reato nello Stato richiesto – riacquista forza operativa, quando la richiesta di assistenza si riferisce all’esecuzione di perquisizioni, sequestri, confisca di beni, e ad altri atti che incidono su diritti fondamentali delle persone o risultano invasivi di luoghi o cose (art. 2).
Viene considerata anche l’eventualità che la persona nei cui confronti deve essere eseguita la richiesta di assistenza giudiziaria invochi immunità, prerogative, diritti o incapacità (art. 5).
Si stabilisce altresì che, quando sia necessario, la Parte richiedente assicuri la protezione delle persone citate o trasferite sul suo territorio (art. 14).
L’assistenza giudiziaria può essere rifiutata, in base all’art. 3, par. 1, oltre che nel caso in cui la domanda di assistenza non rispetta i requisiti previsti dal Trattato stesso (lett. g), in una serie di casi:
quando l’esecuzione della domanda sia contraria alla legislazione nazionale dello Stato richiesto, o non
sia conforme a quanto previsto dal Trattato o contraria agli obblighi internazionali dello Stato richiesto
(lett. a); quando il reato per cui si procede sia punito con un tipo di pena proibito dalla legge dello Stato
richiesto (lett. b); quando si tratti di reato politico (o connesso a reato politico) o reato militare (lett. c); se
vi sia fondato motivi di ritenere possibile un trattamento discriminatorio o persecutorio (per motivi di
razza, sesso, religione, condizione sociale, nazionalità o opinioni politiche) (lett. d); se nei confronti della
persona contro cui si procede sia già stata emessa una sentenza definitiva per lo stesso fatto dallo Stato
richiesto (sempre che la persona non si sia sottratta all’esecuzione della pena) (lett. e); se vi possa essere
pregiudizio alla sovranità, sicurezza, ordine pubblico o altri interessi nazionali essenziali dello Stato richiesto (lett. f). Può esservi rifiuto anche quando l’esecuzione degli atti richiesti «interferisce con
un’indagine o un giudizio penale in corso» nello Stato richiesto; è comunque possibile che tale Stato
proponga un differimento nell’esecuzione (art. 3, par. 2). In ogni caso, prima del rifiutare una richiesta
di assistenza o di rinviarne l’esecuzione, lo Stato richiesto può valutare se l’assistenza possa essere concessa a determinate condizioni: se lo Stato richiedente accetta l’assistenza a tali condizioni, è tenuto poi
a rispettarle (art. 3, par. 4). Quando lo Stato richiesto rifiuta o rinvia l’assistenza giudiziaria deve informare «immediatamente» lo Stato richiedente e motivare il rifiuto o il rinvio (art. 3, par. 3); si specifica
che il segreto bancario o tributario «non può essere utilizzato come argomento per rifiutare l’assistenza
giudiziaria» (art. 3, par. 5).
L’esecuzione della domanda di assistenza avviene secondo la lex loci e conformemente alle disposizione del Trattato (art. 4, par. 1). Se lo Stato richiedente ne fa espressa domanda sarà informato della
data e del luogo di esecuzione degli atti richiesti (senza prevedere però, a differenza dell’art. 4 CEAG,
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la possibilità per le autorità e gli interessati di assistere all’esecuzione, previo consenso della Parte richiesta) (art. 4, par. 3). L’assunzione delle prove e la loro trasmissione dovrà avvenire «in tempi brevi»,
e perciò tempestivamente (art. 4, par. 3).
Quanto alla forma, si prevede che l’assistenza sia fornita su «domanda scritta» dello Stato richiedente (art. 18, par. 1), il cui contenuto è specificamente previsto in dettaglio (art. 18, par. 3 e 4); vi è la possibilità per lo Stato richiesto di richiedere ulteriori informazioni (art. 18, par. 5). Lo Stato richiesto «dà
luogo immediatamente all’esecuzione della domanda di assistenza» non appena la riceve via fax, posta
elettronica o analogo mezzo telematico; lo Stato richiedente è impegnato a trasmettere l’originale della
domanda entro i dieci giorni successivi e lo Stato richiesto è tenuto ad informare degli esiti dell’esecuzione della domanda di assistenza solo dopo aver ricevuto tale originale. Le domande di assistenza
sono inoltrate attraverso le Autorità centrali dei rispettivi Stati: per l’Italia, il Ministero della Giustizia,
Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Direzione Generale della Giustizia Penale; per il Messico, la
Procuraduría General de la República, Subprocuraduría Jurídica y de Asuntos Internacionales, Dirección General
de Extradiciones y Asistencia Jurídica (art. 19). La domanda, gli atti e i documenti allegati devono essere
accompagnati da una traduzione nella lingua dello Stato richiesto e recare firma e timbro dell’autorità
competente dello Stato richiedente (art. 20).
Le Parti sono impegnate a mantenere la riservatezza circa la domanda di assistenza e gli atti relativi
(art. 6, par. 1); lo Stato richiedente è altresì impegnato a non utilizzare atti, documenti, informazioni ottenuti per finalità diverse da quelle specificate, a meno che non richieda il consenso dello Stato richiesto, il quale deciderà in merito (art. 6, par. 2).
Quanto alle spese (art. 21), sono a carico dello Stato richiesto i costi sostenuti per la prestazione
dell’assistenza: tuttavia, le spese di trasferimento per la comparizione di una persona nello Stato richiedente (art. 11, par. 3) e le spese per effettuare la videoconferenza (salvo rinuncia al rimborso) (art. 12,
par. 4) saranno a carico dello Stato richiedente.
La soluzione delle controversie sulla interpretazione o applicazione del Trattato avverrà mediante
consultazioni tra le Autorità centrali; qualora esse non raggiungano un accordo, la controversia sarà risolta tramite consultazione per via diplomatica (art. 24).
Il Trattato, in primo luogo, non pregiudica l’applicazione di disposizioni che risultino più favorevoli
sia contenute in altri accordi bilaterali o multilaterali, sia stabilite nelle legislazioni nazionali (art. 22).
Esso, inoltre, non impedisce agli Stati di prestarsi forme di collaborazione in base ad altri accordi, conformemente ai rispettivi ordinamenti interni e ai trattati internazionali a cui aderiscono (art. 23).
Circa l’entrata in vigore, la modifica e la cessazione, la durata e il recesso vi sono disposizioni convenzionali del tutto corrispondenti a quelle previste nel Trattato di estradizione (v., supra, sub B).
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DE JURE CONDENDO
di Marcello D’Aiuto
MISURE DI PREVENZIONE E CONFISCA
È stata assegnata alla Commissione Giustizia del Senato la proposta di legge S. 1957, che comporta
«Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al d.lgs. 6 settembre
2011, n. 159, volte a rendere più efficiente l'attività dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la
destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, a favorire la vendita dei beni
confiscati e il reimpiego del ricavato per finalità sociali nonché a rendere produttive le aziende confiscate. Delega al Governo per la disciplina della gestione delle aziende confiscate».
Il progetto di legge ha lo scopo dichiarato di rendere economicamente produttivi i beni sequestrati e
confiscati alle mafie. Finora si è prevalentemente ragionato in termini di tendenziale restituzione dei beni
agli enti locali per finalità istituzionali e sociali, rendendo la loro gestione gravosa per lo Stato; viceversa,
un migliore utilizzo dei beni e dei proventi della vendita degli stessi consentirebbe un reimpiego delle risorse sia per il contrasto all’illegalità che per il perseguimento di obiettivi pubblici generali.
L’art. 2 introduce l’art. 45-bis, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. La norma prevede un albo dei beni confiscati alla criminalità organizzata contenente l’elenco dei beni mobili registrati, dal momento del loro
sequestro, nonché degli immobili e delle aziende confiscati, con tutti i dati necessari alla loro individuazione, distinti per comune nel quale insistono.
Il successivo art. 3, innovando l’art. 48, d.lgs. n. 159/2011, detta la disciplina specifica in ordine ai
beni confiscati. Per quanto riguarda i beni mobili registrati, la norma prevede che debbano essere alienati a prezzo corrente di mercato, dopo sei mesi dalla data del sequestro, salvo che lo Stato e le amministrazioni pubbliche non dichiarino, entro un mese dalla pubblicazione nell’albo, di volerli direttamente utilizzare per le proprie finalità istituzionali. Allo stesso modo, i beni immobili devono essere venduti a prezzo di mercato, «salvo che taluna delle amministrazioni dello Stato non dichiari, entro un mese
dalla pubblicazione nell’albo, di volerli utilizzare per le proprie finalità e che si tratti di beni congeniali
alle loro attività di istituto, trasferiti per scopi istituzionali o sociali al patrimonio, nell’ordine di priorità, del comune o della regione ove l’immobile è situato».
Improntata a un principio di economicità è la disciplina dei crediti personali o dell’azienda confiscata. Al riguardo il d.d.l. prevede che, se la procedura di recupero è antieconomica ovvero risulta impossibile la cessione del credito, anche per un valore ridotto rispetto a quello nominale, o se il debitore risulti insolvente, il credito è annullato con provvedimento del direttore dell’Agenzia.
Altra novità riguarda le aziende sequestrate, per le quali il d.d.l. prevede la possibilità di affidarne la
gestione a soggetti privati con adeguata professionalità così da renderle produttive: la vendita sarebbe
un’ipotesi da percorrere in via residuale, solo dopo aver verificato l’impossibilità della valorizzazione
economica.
In definitiva, il progetto di legge intende affinare i meccanismi di utilizzazione dei beni confiscati alle mafie ed evitare che gli stessi possano rappresentare un onere per lo Stato.
***
RICORSO AL GIUDIZIO ABBREVIATO
All’attenzione della Commissione Giustizia del Senato è altresì la proposta di legge S. 2032, già approvata in prima lettura dalla Camera dei Deputati, che prevede «Modifiche all'articolo 438 del codice di procedura penale, in materia di inapplicabilità e di svolgimento del giudizio abbreviato».
SCENARI | DE JURE CONDENDO
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
19
La disciplina in parola contiene una limitazione alla possibilità di accedere al giudizio abbreviato
per gli imputati di una serie di gravi reati, con riferimento anche a due fenomeni criminali di grande
attualità: il terrorismo e la tratta di esseri umani.
In dettaglio, l’art. 1 lett. a), che dovrebbe novellare l’art. 438 c.p.p. introducendo il comma 1-bis, contempla il sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, la strage, l’omicidio aggravato ai
sensi dell’art. 576, primo comma, numeri 5) o 5.1), o ai sensi dell’art. 577, comma 1, numeri 1), 3) o 4), la
tratta di persone, l’acquisto e l’alienazione di schiavi, il sequestro di persona aggravato dalla morte del
minore sequestrato e il sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte del soggetto
sequestrato. In questi casi, la richiesta di giudizio abbreviato può essere avanzata solo subordinandola a
una diversa qualificazione giuridica del fatto, che emerga, però, allo stato degli atti.
Altro aspetto di novità riguarda l’organo competente a giudicare nelle forme del giudizio abbreviato
i reati di competenza della Corte d’Assise. L’art. 1, lett. b), prevede infatti che, quando si proceda per
uno dei delitti indicati nell’art. 5 c.p.p., il giudice dell’udienza preliminare, dopo aver disposto il giudizio abbreviato, deve trasmettere gli atti alla Corte d’assise per lo svolgimento del rito (nuovo comma 5bis dell’art. 438 c.p.p.).
***
VISITE AGLI ISTITUTI PENITENZIARI
È stato invece assegnato alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il d.d.l. C. 3148, che introduce «Modifiche all’articolo 67 della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visite agli istituti penitenziari».
Il progetto di legge si propone di chiarire a quali soggetti è consentito l’ingresso nelle strutture carcerarie senza necessità di preavviso o di autorizzazione.
L’art. 67, l. 26 luglio 1975, n. 354, infatti, attribuisce ai soggetti indicati la possibilità di condurre con
sé persone che li accompagnino per ragioni del loro ufficio. Dai lavori preparatori emerge l’intenzione
del legislatore di non porre limiti alla facoltà del parlamentare di individuare i soggetti dai quali farsi
accompagnare nell'esercizio del potere ispettivo negli istituti penitenziari.
La norma è stata tuttavia interpretata restrittivamente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, che ha emanato una circolare specificando che le ragioni di ufficio «debbono ritenersi integrate non in presenza di qualunque tipo di collaborazione del tutto episodica, ma solo allorché si adduce l’esistenza di un rapporto di collaborazione professionale, stabile, continuativo, ancorché in alcuni casi non avente fonte in veri e propri provvedimenti formali di nomina
producibili dall’interessato».
La circolare ha reso difficoltosa l’applicazione della norma, agevolando prassi restrittive contrarie alla ratio della previsione normativa.
Il disegno di legge in esame mira dunque a risolvere tale ambiguità con una esplicita definizione dei
soggetti che possono accedere senza autorizzazione alle strutture carcerarie. Al riguardo, all’art. 67, l. n.
354/1975 dovrebbe aggiungersi, dopo il comma 2, la precisazione secondo cui i soggetti legittimati, tra
cui i parlamentari, possono farsi accompagnare da collaboratori anche in mancanza di un rapporto professionale stabile e continuativo.
SCENARI | DE JURE CONDENDO
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Antonio Balsamo
TUTELA DEGLI INTERESSI FINANZIARI DELL’UNIONE EUROPEA E DISAPPLICAZIONE DELLA PRESCRIZIONE
NELLE FRODI IN MATERIA DI IVA
(C. giust. UE, 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco ed altri)
Una importante sentenza della Grande Camera della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha posto
in evidenza l’assoluta anomalia della disciplina italiana della prescrizione, con specifico riferimento alla
previsione di un termine massimo pur in presenza di atti interruttivi ed alla conseguente impossibilità
di infliggere sanzioni effettive e dissuasive nei casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari
dell’Unione europea.
Si tratta, precisamente, della pronuncia emessa in data 8 settembre 2015 dalla Corte di Lussemburgo
decidendo sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Cuneo con ordinanza
del 17 gennaio 2014 nel procedimento penale a carico di Taricco Ivo ed altri imputati, accusati di avere
costituito e organizzato, nel corso degli esercizi fiscali 2005-2009, un’associazione per delinquere allo
scopo di commettere vari delitti in materia di IVA, ponendo in essere operazioni giuridiche fraudolente
riconducibili alla figura delle «frodi carosello».
Il giudice del rinvio rilevava che tutti i reati si sarebbero prescritti entro l’8 febbraio 2018, e quindi
prima che potesse essere pronunciata una sentenza definitiva nei confronti degli imputati, i quali pertanto, pur essendo accusati di aver commesso una frode in materia di IVA per vari milioni di euro,
avrebbero potuto beneficiare di un’impunità di fatto. Conseguentemente, chiedeva – tra l’altro – di stabilire se una normativa nazionale come quella contenuta negli artt. 160 e 161 c.p., che prevedeva che
l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti reati in materia di IVA
comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale,
determinasse l’introduzione di un’ipotesi di esenzione dall’IVA non prevista all’articolo 158 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore
aggiunto. In caso di risposta affermativa a tale questione, domandava se gli fosse consentito disapplicare dette disposizioni.
La Corte di Giustizia ha interpretato la suddetta questione pregiudiziale come diretta a determinare,
in sostanza, se una normativa nazionale come quella in esame si risolva in un ostacolo all’efficace lotta
contro la frode in materia di IVA, in modo incompatibile non solo con la Direttiva 2006/112, ma anche,
più in generale, con il diritto dell’Unione.
In quest’ottica, la Corte ha evidenziato il potenziale contrasto della disciplina italiana della prescrizione con gli obblighi scaturenti da una pluralità di disposizioni, come:
– la Direttiva 2006/112, che, in combinato disposto con l’art. 4, § 3, TUE, impone agli Stati membri l’obbligo non solo di adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che
l’IVA dovuta nei loro rispettivi territori sia interamente riscossa, ma anche di lottare contro la frode;
– l’art. 325 TFUE, che obbliga gli Stati membri a lottare contro le attività illecite lesive degli interessi
finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive, e, in particolare, ad adottare, per combattere
la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la
frode lesiva dei loro interessi finanziari;
– l’art. 2, § 1, della Convenzione PIF, a norma del quale gli Stati membri devono prendere le misure
necessarie affinché le condotte che integrano una frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione sia-
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no passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi
di frode grave, pene privative della libertà.
Sotto quest’ultimo profilo, la Corte ha specificato che – sebbene gli Stati membri dispongano di una
libertà di scelta delle sanzioni applicabili, le quali possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle
disposizioni della Direttiva 2006/112 e all’art. 325 TFUE – tuttavia possono essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia
di IVA.
Alla luce dei suesposti principi, la Corte di Giustizia ha imposto al giudice nazionale l’obbligo di verificare se le disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i
casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
L’aspetto critico della normativa italiana è stato ravvisato nella regolamentazione – dettata dagli artt.
160 e 161 c.p. – secondo cui, anche nel caso di interruzione, il termine di prescrizione non può essere in
alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua durata iniziale. Da ciò, infatti, discende la conseguenza che, date la complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che conducono all’adozione di
una sentenza definitiva, l’effetto temporale delle cause di interruzione della prescrizione viene a neutralizzarsi.
Precisamente, si è evidenziata la configurabilità di un contrasto con l’art. 325, paragrafo 1, TFUE, con
l’art. 2, § 1, della Convenzione PIF, e con la Direttiva 2006/112, in combinato disposto con l’art. 4, § 3,
TUE, in quanto «le misure previste dal diritto nazionale per combattere contro la frode e le altre attività
illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive», nell’ipotesi in cui il giudice riconosca «che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a
fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima
che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva».
Inoltre, si è segnalato come l’art. 325, § 2, TFUE – che richiede che le disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione «si applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo
che ai casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana» – risulti incompatibile
con la fissazione di termini di prescrizione più lunghi per fatti, di natura e gravità comparabili, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana.
Una simile situazione, a ben vedere, è sicuramente riscontrabile nel diverso trattamento riservato, da
una parte, alle associazioni finalizzate alle frodi in materia di IVA, e, dall’altra, alle associazioni finalizzate al contrabbando di tabacchi di cui all’art. 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1943, n. 436: solo alle
prime si applica, infatti, la predetta limitazione al prolungamento del termine prescrizionale nel caso di
atti interruttivi, la quale resta invece inoperante per le altre, che sono inserite nella fattispecie delineata
dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., relativa ai reati di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia.
Muovendo da tali considerazioni, la Corte ha rilevato che una normativa nazionale in materia di
prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161
c.p. – la quale preveda che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti
frodi gravi in materia di IVA comporti il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto
della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art. 325, §
1 e 2, TFUE, se impedisce di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero se stabilisce, per i casi
di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più
lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea.
Dalla pronuncia della Corte di Lussemburgo scaturisce, per il giudice nazionale, un obbligo di disapplicazione del combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161 c.p. (nella parte in cui limitano ad un
quarto della sua durata iniziale il prolungamento del termine di prescrizione per effetto di atti interruttivi)
diversamente modulato in rapporto alle diverse ipotesi di reato costituenti oggetto del processo penale.
In particolare, se si tratta di frodi in materia di IVA, la disapplicazione della suddetta normativa interna è subordinata alla gravità del reato e alla verifica che la suddetta disciplina precluda la possibilità
di «infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea».
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Per converso, se si tratta di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. finalizzata alle frodi in materia di IVA, la disapplicazione della suesposta disciplina nazionale potrà prescindere dall’entità degli
importi effettivamente evasi e da ogni considerazione statistica sull’incidenza della prescrizione in casi
analoghi, essendo giustificata dalla semplice diseguaglianza di trattamento rispetto all’associazione finalizzata all’evasione delle accise in materia di tabacchi di cui all’art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1943,
n. 43, in omaggio al principio di equivalenza della tutela riservata agli interessi UE rispetto a quella garantita agli interessi nazionali corrispondenti (così VIGANÒ, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione
nelle frodi in materia di IVA?, in Diritto penale contemporaneo, 14 settembre 2015).
In entrambi i casi, comunque, la necessità di «dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2,
TFUE» si tradurrà nella decorrenza ex novo del termine ordinario di prescrizione dopo ogni atto interruttivo, al pari di quanto avviene nei procedimenti per reati rientranti nella competenza della DDA.
Si tratta di una soluzione in linea con le tendenze che, in materia di prescrizione, emergono dall’esperienza comparatistica.
Ad esempio, secondo l’art. 132 del codice penale spagnolo l’effetto estintivo non può maturare nel
periodo impiegato per l’esercizio della giurisdizione: la prescrizione si interrompe quanto il procedimento si dirige contro il colpevole, e ricomincia a decorrere dal momento in cui lo stesso procedimento
si paralizza o si conclude con un esito diverso dalla condanna.
Nell’ordinamento francese, il termine di prescrizione dell’azione pubblica per i crimini si interrompe
con il compimento di qualsiasi atto di istruzione o di indagine, e riprende a decorrere per un uguale periodo; le interruzioni, inoltre, possono essere illimitate.
Nel sistema tedesco, l’interruzione della prescrizione, per atti compiuti dal giudice, dalla polizia o
dal pubblico ministero nell’ambito del procedimento penale, è regolata dal § 78 StGB. Dopo l’interruzione, il termine di prescrizione riprende a decorrere ma non può superare il doppio della sua durata
originaria.
Dunque, negli ordinamenti continentali di maggior interesse sul piano comparatistico si stabilisce
che il compimento di determinati atti processuali fa decorrere ex novo il termine di prescrizione, senza
limiti oppure entro un limite complessivo molto ampio, pari all’originario termine di prescrizione ovvero a un suo multiplo.
Per effetto della recente pronuncia della Corte di Giustizia, anche il sistema italiano sembra avviarsi
sulla medesima strada, sia pure limitatamente al settore delle frodi in materia di IVA.
Va, infine, sottolineato che la sentenza Taricco è esplicita nell’escludere che la disapplicazione del
combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161 c.p. implichi una violazione dei diritti fondamentali consacrati dal principio nullum crimen, nulla poena sine lege, riconosciuto a livello europeo e internazionale. Al riguardo, si osserva, da un lato, che «i fatti contestati agli imputati nel procedimento
principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse
sanzioni penali attualmente previste»; e, dall’altro, che secondo la giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo il principio di legalità penale sancito dall’art. 7 della Cedu non preclude un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora estinti.
Tale conclusione, sicuramente esatta in relazione al volto europeo del principio di legalità, andrebbe,
però, sottoposta ad una attenta verifica sul piano della conformità all’art. 25 Cost., che, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale (cfr. in particolare, la sentenza n. 324/2008), ricomprende nella sua sfera di operatività anche la materia della prescrizione.
Un forte richiamo all’esigenza di osservare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione è stato comunque espresso dalla prima pronuncia emessa, dopo la sentenza Taricco, dalla Corte
di cassazione, che ha evidenziato l’obbligo, gravante sul giudice nazionale, di disapplicazione della
predetta disciplina interna in tema di prescrizione in un procedimento penale riguardante il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al fine di
evadere l’IVA (Cass., sez. III,17 settembre 2015, Pennacchini).
DIVIETO DI TRATTAMENTI DEGRADANTI
(Corte e.d.u., 28 settembre 2015, ric. n. 23380/09, Bouyid c. Belgio)
La sentenza emessa il 28 settembre 2015 dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo nel caso
Bouyid c. Belgio ha fornito alcune significative precisazioni sul concetto di “trattamenti degradanti” che
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forma oggetto del divieto previsto dall’art. 3 della Cedu.
Com’è noto, infatti, in mancanza di specifiche indicazioni normative sulle nozioni di tortura e trattamenti e pene inumani o degradanti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha utilizzato il metodo
dell’interpretazione evolutiva, sulla base del presupposto che l’innalzamento del livello generale di
protezione dei diritti umani richiede una maggiore fermezza nell’accertamento della violazione dei valori fondamentali delle società democratiche e quindi anche del divieto posto dall’art. 3 (Corte e.d.u., 28
luglio 1999, Selmouni c. Francia).
La recente pronuncia della Grande Camera si colloca appunto in questa direzione, in quanto, ribaltando la valutazione precedentemente espressa dalla V Sezione con la sentenza del 21 novembre 2013,
ha qualificato come trattamento degradante lo schiaffo inferto da un agente di polizia ad un individuo
posto sotto il suo controllo. Nel caso di specie, si trattava rispettivamente dello schiaffo dato ad un soggetto che, condotto presso la stazione di polizia per essere identificato in quanto privo di documenti,
aveva insultato un agente, e di quello dato ad un’altra persona che veniva interrogata a proposito di un
precedente alterco, invitandola a non appoggiarsi sulla scrivania.
Al riguardo, la Corte di Strasburgo ha preso le mosse dalla considerazione che, quando una persona
è privata della sua libertà o si trova a confrontarsi con agenti di polizia, ogni ricorso alla forza fisica che
non sia reso strettamente necessario dalla sua condotta riduce la dignità umana e, in linea di principio,
costituisce una violazione del diritto sancito dall’art. 3 Cedu. Ha, poi, escluso che un siffatto rapporto di
stretta necessità sia riscontrabile in presenza di atti impulsivi compiuti in risposta a comportamenti
percepiti come irrispettosi o provocatori. Ha sottolineato che uno schiaffo ha un considerevole impatto
sulla persona che lo riceve, in quanto colpisce la parte del corpo che esprime la sua individualità, manifesta la sua identità sociale e costituisce il centro dei suoi sensi utilizzati per la comunicazione con gli
altri. Ha precisato che è sufficiente che la persona possa sentirsi, ai propri occhi, umiliata perché si configuri un trattamento degradante ai sensi dell’art. 3 Cedu, che anche uno schiaffo non premeditato e
privo di effetti gravi o prolungati nel tempo può essere percepito come umiliante da chi lo riceve, e che
ciò è particolarmente vero quando lo stesso schiaffo è dato da agenti di polizia a persone sotto il loro
controllo, in quanto ciò evidenzia la superiorità e inferiorità che per definizione caratterizza i rapporti
tra di loro intercorrenti. Ha rilevato che tutte le persone tenute dalla polizia in stato di detenzione o
condotte presso una stazione di polizia per essere identificate o interrogate si trovano in una situazione
di vulnerabilità, con la conseguenza che le autorità hanno il dovere di proteggerle.
Infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricordato che anche nelle condizioni più difficili la
Convenzione proibisce in modo assoluto la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere
dalla condotta del soggetto che ne è destinatario, e che in una società democratica i maltrattamenti non
possono mai costituire una risposta ai problemi con cui si confrontano le autorità.
Alla luce di tali considerazioni, si è quindi ravvisata una violazione dell’art. 3 Cedu sotto il profilo
sostanziale.
Con la pronuncia in esame sono state quindi fornite precise indicazioni operative alle forze dell’ordine nella definizione dei comportamenti incompatibili con la suddetta norma di jus cogens, che introduce un divieto avente carattere assoluto ed inderogabile, senza alcuna possibilità di bilanciamento con
altri valori, come quelli riguardanti la prevenzione dei reati, la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata (Corte e.d.u., 28 luglio 1999, Selmouni c. Francia), e persino l’intento di salvare la vita di altri individui (Corte e.d.u., 1° giugno 2010, Gäfgen c. Germania).
L’interpretazione seguita dalla sentenza Bouyid porta ad ulteriori conseguenze l’indirizzo giurisprudenziale che, a proposito delle condizioni di detenzione e dell’uso della forza in occasione dell’arresto di individui sospettati di avere commesso reati, ha riscontrato la violazione dell’art. 3 quando
l’uso della forza non risulti indispensabile o comunque assuma carattere sproporzionato avuto riguardo alla condotta tenuta dal soggetto privato della libertà personale (Corte e.d.u., 5 aprile 2011, Sarigiannis
c. Italia).
Il concetto di trattamento degradante adesso accolto dalla Corte di Strasburgo appare certamente
più ampio di quello recepito da precedenti pronunce che avevano attribuito una siffatta qualificazione
al trattamento tale da creare nella vittima un senso di paura, angoscia ed inferiorità suscettibile di umiliarla o piegare la sua resistenza fisica o morale così da indurla ad agire contro la sua volontà o coscienza (Corte e.d.u., 11 luglio 2006, Jalloh c. Germania).
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CORTE COSTITUZIONALE
di Donatella Curtotti
LA RAGIONEVOLE DURATA DELLE INDAGINI PRELIMINARI
(C. cost., sent. 23 luglio 2015, n. 184)
La Corte costituzionale (sentenza n. 184 del 2015) dichiara l’illegittimità dell’art. 2, comma 2-bis, l. 24
marzo 2001, n. 89 (in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo), nella parte in cui
prevede che il processo penale debba considerarsi iniziato con l’assunzione della qualità di imputato,
ovvero quando l’indagato, in seguito ad un atto dell’autorità giudiziaria, abbia avuto legale conoscenza
della chiusura delle indagini preliminari a suo carico.
La questione di legittimità era stata sollevata della Corte d’appello di Firenze (nonché da quella di Catanzaro, con ricorsi poi riuniti), chiamata a decidere in ordine ad un’opposizione avverso un decreto di
rigetto della domanda di equa riparazione, per eccessiva durata del processo penale.
Nel decreto impugnato, la durata complessiva del procedimento (non ritenuta eccessiva) era stata valutata escludendo dal calcolo la fase delle indagini preliminari (di oltre sei anni e mezzo), in applicazione
del menzionato art. 2, comma 2-bis, l. n. 89/2001, secondo cui «il processo penale si considera iniziato
con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando
l’indagato ha avuto legale conoscenza delle indagini preliminari».
I giudici a quibus hanno sollevato, altresì, l’illegittimità costituzionale del comma 2-quater della norma in esame, nella parte in cui sottrae al computo della durata del processo i periodi di sospensione che
non siano «riconducibili» alle parti, ovvero «dovuti al comportamento delle parti».
In ordine alla primo motivo di censura, i due collegi d’appello, all’unisono, rilevano il contrasto della normativa domestica rispetto all’art. 117, comma 1, Cost. e all’art. 6 Cedu; un contrasto ancor più
stridente se letto alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo che in più occasioni ha riconosciuto il diritto all’equa riparazione anche per la fase delle indagini preliminari. Si ricordino, del resto,
le numerose pronunce della Cedu (tra le quali, Cedu, 4 aprile 2006, Kobtsev c. Ucraina; Id., 26 febbraio
1993, Messina c. Italia; Id., 19 febbraio 1991, Manzoni c. Italia; Id., 10 dicembre 1982, Corigliano c. Italia; Id.,
15 luglio 1982, Eckle c. Germania; Id., 16 luglio 1971, Ringeisen c. Austria) che hanno dedotto dall’art. 6
della Convenzione del 1950 la regola che impone, ai fini dell’indennizzo conseguente all’inosservanza
del termine di ragionevole durata del processo penale, di tenere conto del periodo che segue la comunicazione ufficiale dell’accusa di avere commesso un reato proveniente dall’autorità giudiziaria.
Per i giudici sovranazionali si tratta di una posizione ermeneutica perfettamente aderente alle finalità perseguite dal giudizio di riparazione: la violazione del diritto ad una celere definizione del processo
penale, espresso dalla norma convenzionale in esame, genera la pretesa di un indennizzo idoneo a ristorare il patimento cagionato dalla eccessiva pendenza dell’accusa quando sia stata espressa per mezzo di un atto dell’autorità. Ne consegue che tale meccanismo retributivo avrà ad oggetto non soltanto la
fase che la normativa nazionale qualifica “processo”, ma anche le attività procedimentali che la precedono, ove idonee a determinare il danno al cui ristoro è preposta l’azione.
Di qui, i giudici di Strasburgo chiedono di abbandonare la prospettiva domestica ed adottare una
nozione di processo autonoma dalle ripartizioni per fasi dell’attività giudiziaria finalizzata all’accertamento dei reati, per come viene disegnata dal legislatore italiano. Una richiesta – come sottolineato di
recente dalla Corte costituzionale – che s’impone in ragione della natura stessa della Cedu, «strumento
preposto, pur nel rispetto della discrezionalità legislativa degli Stati, a superare i profili di inquadramento formale di una fattispecie, per valorizzare piuttosto la sostanza dei diritti umani che vi sono
coinvolti, e salvaguardarne l’effettività» (sentenza n. 49/2015).
Va ricordato che la conclusione cui pervengono i giudici europei è condivisa dalla giurisprudenza
italiana di legittimità che ha riconosciuto come rilevante anche il tempo successivo al momento in cui
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l’indagato aveva avuto concreta notizia del procedimento penale (Cass., sez. un. civ., 23 settembre 2014,
n. 19977).
C’è da fare un’altra considerazione, legata all’incidenza della norma sulla determinazione del quantum della somma dovuta in caso di accertata violazione; quantum parametrato in peius perché carente
del calcolo della fase investigativa.
Sul punto, la Cedu ha accordato agli Stati un margine di apprezzamento nella costruzione del rimedio compensatorio interno che debba tener conto delle peculiarità dell’ordinamento nazionale e dei livelli di vita del Paese, fino al punto da giustificare indennizzi, pur sempre adeguati, ma inferiori a quelli ottenibili con un ricorso davanti alla Corte europea (Cedu, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia; Id., 29
marzo 2006, Cocchiarella c. Italia). Dal ché la stessa Corte costituzionale ha dedotto uno spazio decisionale (sentenza n. 30/2014) nella determinazione del quantum a titolo di equa riparazione, a condizione,
però, che tali scelte non si prestino, in linea astratta, ad incidere sull’an stesso del diritto.
Tanto premesso, la norma impugnata, a parere dei giudici costituzionali, è viziata sotto un duplice
punto di vista: non solo adotta una nozione troppo ristretta di processo, escludendo la fase delle indagini; ma incide anche negativamente sulla misura della riparazione e, soprattutto, sulla sussistenza del
relativo diritto; perciò si dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 2-bis, l. n. 89/2001, nella
parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari,
anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico.
Quanto al secondo motivo di censura, ossia l’illegittimità dell’art. 2, comma 2-quater, che esclude dal
calcolo la durata della sospensione senza distinguere se i motivi siano o meno riconducibili alle parti, il
Giudice delle leggi ritiene la questione inammissibile per un duplice ordine di ragioni: innanzitutto
l’eterogeneità delle ipotesi di sospensione previste dai diversi settori processuali dell’ordinamento non
vengono ricondotte ad unità dall’ambigua formula cui è ancorato il dubbio di costituzionalità, e,
dall’altro, non è conforme alla giurisprudenza europea. In effetti, la Corte di Strasburgo, in modo costante, ha incluso nel periodo rilevante ai fini della ragionevole durata del processo, il periodo di sospensione conseguente alla proposizione di un incidente di legittimità costituzionale (Cedu, 31 maggio
2001, Metzger c. Germania; Id., 25 febbraio 2000, Gast e Popp c. Germania; Id., 29 maggio 1986, Deumeland
c. Germania; Id., 4 dicembre 1995, Terranova c. Italia), ma non quello derivante dal rinvio pregiudiziale
alla Corte di giustizia dell’Unione europea, per la cui protrazione nulla è imputabile allo Stato (Cedu,
30 settembre 2003, Koua Poirrez c. Francia; Id., 26 febbraio 1998, Pafitis e altri c. Grecia).
TOSSICODIPENDENZA E CAUTELE PERSONALI: VIETATI INDISCRIMINATI AUTOMATISMI
(C. cost., ord. 15 luglio 2015, n. 165)
La Corte costituzionale (ordinanza n. 165 del 2015) dichiara la manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 («Testo unico delle leggi in
materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza»), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., dal Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale ordinario di Catanzaro, nella parte in cui – nel prevedere che le disposizioni dei commi 1
e 2 dello stesso articolo non si applicano quando si procede per il delitto di cui all’art. 74 del medesimo
decreto n. 309/1990 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope) –
tale disposizione non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Nella pronuncia in esame, la Consulta evidenzia l’erroneo presupposto interpretativo che inficia il
petitum formulato nell’ordinanza di rimessione. Secondo il giudice a quo, infatti, la norma censurata stabilirebbe una presunzione assoluta di sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza nei confronti dell’indagato o dell’imputato del delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti.
In realtà, le censure del giudice rimettente risultino già disattese a seguito della sentenza n. 45/2014,
che, in una prospettiva di contemperamento delle contrapposte esigenze in gioco (difesa sociale, da un
lato, disintossicazione e riabilitazione dei soggetti in questione, dall’altro), aveva riconosciuto al legislatore, nella sua discrezionalità e salvo il limite della ragionevolezza, la possibilità di «escludere da un
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regime cautelare di favore, quale quello in esame, i soggetti indagati o imputati per determinati reati,
avuto riguardo alla loro gravità e alla pericolosità soggettiva da essi solitamente desumibile, a condizione che ciò non comporti l’assoggettamento dell’interessato ad un indiscriminato “automatismo sfavorevole”, che precluda ogni apprezzamento delle singole vicende concrete».
La presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, precedentemente sancita
dall’art. 275, comma 3, c.p.p., nei confronti del soggetto gravemente indiziato del delitto di associazione
finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, già dichiarata costituzionalmente illegittima (sent. n.
231/2011), è stata expressis verbis espunta dall’ordinamento dal legislatore in sede di riscrittura della citata disposizione del codice di rito con la recente l. 16 aprile 2015, n. 47 («Modifiche al codice di procedura
penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a
persone affette da handicap in situazione di gravità»).
A seguito dell’innesto normativo, il tossicodipendente imputato del delitto in parola – ancorché non
ammesso a beneficiare del regime cautelare “privilegiato” di cui all’art. 89, commi 1 e 2, d.P.R. n.
309/1990 – può comunque fruire degli arresti domiciliari finalizzati allo svolgimento di un programma
di recupero, sulla base di valutazione “individualizzata” del caso di specie.
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SEZIONI UNITE
di Paola Maggio
È VALIDA LA NOTIFICA AL DIFENSORE ESEGUITA PER VIA TELEMATICA PRIMA DEL DICEMBRE 2014
(Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 32243)
Le Sezioni Unite pongono fine alle incertezze giurisprudenziali sulla legittimità di notifiche al difensore
a mezzo P.E.C.
Stando all’enunciato principio di diritto, «anche dopo l’entrata in vigore del d.l. 18 ottobre 2012, n.
179, e relativa conversione in legge, sono valide le notificazioni a persona diversa dall’imputato o indagato eseguite per via telematica, ai sensi del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, e relativa conversione in legge,
dagli Uffici giudiziari già autorizzati dal decreto 1 ottobre 2012 del Ministro della Giustizia».
Per dirimere la questione si procede anzitutto a una ricostruzione diacronica del complesso panorama legislativo, muovendo dall’art. 51, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. nella l. 6 agosto 2008, n. 133,
modificato dall’art. 4, comma 3, lett. a), d. l. 29 dicembre 2009, n. 193, conv. con mod. dalla l. 22 febbraio
2010, n. 124.
Secondo il meccanismo predisposto dal legislatore, l’opportunità di eseguire notificazioni mediante
P.E.C. era consentita agli Uffici giudiziari individuati dal Ministro della Giustizia con decreti aventi natura non regolamentare da adottarsi entro il 10 settembre 2010, una volta verificata la funzionalità dei
servizi di comunicazione. Il decreto ministeriale con cui venivano individuati gli Uffici giudiziari presso i quali la nuova procedura avrebbe potuto trovare applicazione venne emanato il 12 settembre 2012,
di poco dopo la scadenza del termine ordinatorio previsto dalla norma. In forza di questo atto, soltanto
il Tribunale di Torino e la Procura della Repubblica presso il medesimo Tribunale, vennero autorizzati
a effettuare notifiche telematiche a partire dal 10 ottobre 2012 nei confronti di persone diverse dall’imputato, a norma degli artt. 148 comma 2-bis, 149, 150 e 151 comma 2 del codice di rito.
Il quadro normativo si complicò, tuttavia, di lì a poco con l’emanazione del d.l. 18 ottobre 2012, n.
179 conv. con mod. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221 ed entrato in vigore il 20 ottobre 2012, il cui art. 16
comma 4, che disciplinava le comunicazioni via P.E.C. nel processo civile, ribadendo l’opportunità di
procedere allo stesso modo in cui si realizzano le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma
degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151 comma 2 c.p.p.
Il punto problematico era qui rappresentato dalla decorrenza del termine a partire dal quale le notificazioni penali avrebbero dovuto seguire le vie telematiche: il nuovo testo si riferiva al quindicesimo
giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana dei decreti attestanti l’idoneità degli Uffici giudiziari.
Un dato temporale, dunque, incerto e non ben determinato, oggetto di una nuova modifica a opera
della l. 24 dicembre 2012, n. 228, la quale incidendo sul comma 9 dell’art. 16, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179,
ha identificato nuovi e differenziati termini di efficacia della disciplina per il rito civile. Con riguardo al
processo penale non si è registrata una disciplina transitoria, in quanto l’art. 1, l. n. 228/2012 ha introdotto nel comma 9 dell’art. 16 sopra menzionato la lett. e-bis, che ravvisa il termine iniziale per le notificazioni telematiche nella data “fissa” del 15 dicembre 2014.
Il susseguirsi poco lineare dei richiamati atti normativi ometteva peraltro di disciplinare la situazione dei procedimenti penali pendenti in Torino, con riferimento ai quali gli uffici giudiziari di quel capoluogo avevano già attivato o si proponevano di attivare il meccanismo normativo delineato dall’art. 51
del d.l. n. 112/2008, atteso che sin dal 1° ottobre 2012 essi potevano effettuare le notificazioni nel processo penale, per via telematica, ovviamente a soggetti diversi dagli imputati o indagati.
Il vero punctum pruriens del quesito posto all’attenzione della Cassazione imponeva di comprendere
se l’efficacia delle norme che prevedono la possibilità di procedere alla notificazione degli atti in via te-
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lematica a persona diversa dall’imputato (nel caso in esame, al difensore) sia stata differita per tutti gli
uffici giudiziari (e dunque anche per il Tribunale e la Procura di Torino) alla scadenza del nuovo termine indicato (15 dicembre 2014), ovvero se i predetti uffici piemontesi (per i quali il d.m. attuativo era già
stato emesso prima della entrata in vigore del d.l. n. 179/2012, e dunque – necessariamente – prima del
15 dicembre 2014) fossero sottratti da tale previsione, con la conseguente legittimità delle notifiche effettuate tramite P.E.C. a far tempo dal termine individuato dal primo d.m. (dunque dal 1° ottobre 2012)
a tutt’oggi.
Parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. II, 9 luglio 2014, n. 32430) riteneva che le disposizioni relative alle notificazioni per via telematica previste dal d.l. 28 ottobre 2012, n. 179 entrassero in
vigore (per tutti gli uffici giudiziari e dunque anche per quelli torinesi) il 15 dicembre 2014, previa adozione da parte del Ministro della Giustizia del decreto attestante la idoneità funzionale dei servizi di
comunicazione dei singoli uffici giudiziari. Pertanto, dovevano essere ritenute invalide le notificazioni
effettuate per via telematica dal Tribunale di Torino, benché per tale Ufficio l’idoneità funzionale dei
servizi di comunicazione fosse già stata attestata – prima della entrata in vigore del d.l. n. 179/2012 –
con il menzionato decreto in data 12 settembre 2012 del Ministro della Giustizia, emesso ai sensi
dell’art. 51, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. dalla l. 6 agosto 2008, n. 133.
Altra lettura giurisprudenziale, invece, riteneva che l’art. 16, comma 9, lett. e)-bis, d.l. n. 179/2012 (e
successive modifiche), che ha introdotto il termine del 15 dicembre 2014, non riguardasse gli Uffici torinesi, bensì quegli uffici per i quali non fosse stato ancora emesso il decreto ministeriale. Di conseguenza, erano perfettamente valide le notifiche telematiche operate dalla Procura della Repubblica e dal Tribunale di Torino sin dal 1° ottobre 2012 (Cass., sez. VI, 12 dicembre 2014, n. 37646).
La soluzione accolta dalle Sezioni Unite definisce anzitutto la natura giuridica e l’efficacia dei ricordati decreti ministeriali non regolamentari che hanno ritenuto l’idoneità degli impianti esistenti a realizzare notifiche via P.E.C. Si tratta, invero, di «di atti a contenuto non normativo che hanno natura dichiarativa e funzione ricognitiva e accertativa». Pertanto, l’abrogazione, a opera del comma 11 dell’art.
16 della l. n. 221 del 2012 dei commi 1, 2, 3, 4 dell’art. 51, l. n. 133/2008, non può incidere sulla attestazione di idoneità, che è un dato fattuale, espressivo del mondo fenomenico e, dunque, insuscettibile di
abrogazione. Se, infatti, è indiscutibile il nesso funzionale fra il decreto ministeriale e il testo legislativo
per la cui attuazione esso viene emanato («simul stabunt, simul cadent»), è altrettanto vero che un impianto giudicato idoneo non può perdere tale idoneità semplicemente in riferimento a un dato legislativo esterno. Come a volere significare che il tempismo e l’efficienza mostrati dall’ufficio torinese non potevano essere messi in discussione da atti normativi successivi.
Significativa del deciso cambio di rotta delle Supremo consesso a vantaggio delle notifiche telematiche è, poi, la considerazione degli assetti sistemici e costituzionali che propendono per l’adozione di
forme comunicative più moderne ed efficaci. Si richiama in particolare il dettato costituzionale dell’art.
21, ove accanto alla parola e allo scritto (e in particolare alla stampa), è previsto il riferimento a «ogni
altro mezzo di diffusione». Analogamente, l’art. 148, comma 2-bis, c.p.p. utilizza l’espressione «mezzi
tecnici idonei», fra i quali vanno di certo ricompresi gli strumenti atti alla trasmissione telematica. Inoltre, l’interpretazione giurisprudenziale relativa all’espressione «qualsiasi altro mezzo di pubblicità»
contemplata nell’art. 595 c.p., consente di ritenere aggravata la diffamazione consumata tramite internet
(Cass., sez. V, 16 novembre 2012, n. 40980; Cass., sez. V, 6 aprile 2011, n. 29221).
Infine, la stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite ha spesso rimarcato che la notificazione alla parte
privata, se deve essere eseguita mediante consegna al difensore, ben può essere eseguita sia con l’uso
del telefax, sia con l’uso di altri mezzi idonei a norma dell’art. 148, comma 2-bis, c.p.p. (Cass., sez. un., 28
aprile 2011, n. 28451).
Saggiamente il Costituente e il legislatore hanno evitato di elencare «i mezzi tecnici idonei» alla trasmissione di notizie (ma anche di opinioni, concetti e critiche), svincolando il concetto da previsioni tassative che non avrebbero potuto tenere conto del progresso tecnologico, preferendo elaborare categorie
generali adattabili agli esiti dell’evoluzione in materia.
La delineata cornice sistematica avrebbe dunque consentito, anche in assenza delle ultime innovazioni legislative (l. n. 133/2008; l. n. 245/2012; l. n. 221/2012), le notificazione al difensore tramite
P.E.C., confermando indirettamente la piena validità delle notifiche degli uffici torinesi, cui si rischiava
altrimenti (e in maniera paradossale) di addebitare gli esiti del tempismo e dell’efficienza tecnica.
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È AMMISSIBILE LA RICHIESTA DI RIESAME PROPOSTA DAL DIFENSORE AVVERSO IL DECRETO DI SEQUESTRO
PREVENTIVO AI DANNI DELL’ENTE NON FORMALMENTE COSTITUITO
(Cass., sez. un., 28 luglio 2015, n. 33041)
Con due principi di diritto le Sezioni Unite ritengono ammissibile la richiesta di riesame presentata, ai
sensi dell’art. 324 c.p.p., avverso il decreto di sequestro preventivo dal difensore di fiducia nominato
dal rappresentante dell’ente secondo il disposto dell’art. 96 c.p.p., pur in assenza di un previo atto formale di costituzione a norma dell’art. 39, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a condizione che, precedentemente o contestualmente alla esecuzione del sequestro, non sia stata comunicata l’informazione di garanzia
prevista dall’art. 57 del decreto legislativo medesimo.
Viceversa, è inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell’art. 591
c.p.p., la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell’ente nominato dal rappresentante che sia indagato o imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, stante il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall’art. 39, comma 1, d.lgs. n.
231/2001.
Soffermandosi anzitutto sul profilo dell’ammissibilità delle impugnazioni cautelari da parte della
persona giuridica non costituita in giudizio, le Sezioni Unite rilevano l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale.
Un primo indirizzo scinde l’esercizio dei diritti di difesa da parte dell’ente dall’atto formale di costituzione nel procedimento, facendo leva sostanzialmente sulla portata restrittiva dell’art. 39 del d.lgs. n.
231 del 2001, finalizzato a individuare il soggetto deputato a manifestare la volontà del soggetto collettivo, e inidoneo a trovare applicazione in altri ambiti (Cass., sez. VI, 5 novembre 2007, n. 43642). In questa prospettiva, la mancata costituzione inibisce gli atti espressione dell’autodifesa che implicano una
partecipazione personale dell’ente (es. interrogatorio), ma non può comprimere le prerogative della difesa tecnica.
Ad avvalorare tale tesi è anche la consolidata lettura estensiva della disciplina codicistica degli artt.
257 e 324 c.p.p., secondo cui il potere di proporre riesame avverso il decreto di sequestro spetta, oltre
che all’imputato, alla persona alla quale le cose sono state sequestrate, a quella che avrebbe diritto alla
loro restituzione, nonché al loro difensore (Cass., sez. II, 5 ottobre 2005, n. 42315; Cass., sez. III, 28 maggio 2014, n. 39902).
Il difensore nominato, ai sensi dell’art. 96 c.p.p., può dunque proporre richiesta di riesame senza dover essere munito di procura ai sensi dell’art. 100 c.p.p., necessaria, invece, ai fini della costituzione
dell’ente nel procedimento.
Altro elemento testuale di supporto all’esclusione della necessaria costituzione formale dell’ente si
ravvisa nell’art. 52, comma 1, d.lgs. n. 231/2001, in base alla quale l’ente, «per mezzo del suo difensore», può proporre appello contro tutti i provvedimenti in materia di misure cautelari, indicandone contestualmente i motivi, e «si osservano le disposizioni di cui all’art. 322-bis c.p.p., commi 1-bis e 2»: proprio la specificazione «per mezzo del suo difensore», in luogo di «per mezzo del proprio rappresentante legale», starebbe a dimostrare che l’impugnazione della misura cautelare non è subordinata alla manifestazione di volontà da parte dell’ente di partecipare al giudizio e alla conseguente costituzione nel
giudizio stesso a norma dell’art. 39.
Pertanto, l’ente non solo ha facoltà di nominare un difensore di fiducia, ma gode del diritto di avvalersi della piena assistenza difensiva, indipendentemente dall’atto di costituzione, a norma dell’art. 39.
L’indirizzo giurisprudenziale contrapposto (Cass., sez. VI, 5 febbraio 2008, n. 15689), invece, fa discendere l’esercizio dei diritti di difesa da parte dell’ente in qualsiasi fase del procedimento dall’atto
formale di costituzione a norma dell’art. 39, d.lgs. n. 231/2001 e del conferimento della procura speciale
disciplinata dall’art. 100 c.p.p.
In base a tale approccio rigoristico, l’ente non può comparire nel procedimento se non mediante una
persona fisica che lo rappresenta; la mancata formalizzazione dell’atto costitutivo comprime, infatti,
tutte le prerogative della difesa tecnica sin dalla fase delle indagini preliminari.
Seguendo un tale approccio, a differenza degli imputati persone fisiche che possono determinare
conseguenze processuali scegliendo di partecipare fisicamente al processo ovvero di rimanervi contumaci o assenti, nel caso degli enti non è ipotizzabile una presenza “fisica”: la persona giuridica dovrà
dunque concretizzare tale presenza ed esplicitare la propria volontà in tal senso a mezzo di atto formale
di costituzione ex art. 39 (Cass., sez. II, 9 dicembre 2014, n. 57248).
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Questo tipo di impostazione formale – a detta delle Sezioni Unite – è però messa in crisi dalla constatazione che nei casi di inerzia, per qualsiasi ragione, da parte dell’ente, la nomina del difensore di ufficio da parte della autorità procedente, garantisce comunque l’accesso di fatto ai diritti difensivi (compresa la facoltà di impugnazione cautelare), che possono essere esercitati dal difensore di ufficio, indipendentemente dalla costituzione dell’ente nel procedimento (Cass., sez. VI, 19 giugno 2009, n. 41398),
o dalle conseguenze dell’inefficacia della costituzione a causa dell’eventuale incompatibilità del rappresentante legale.
Un divieto di rappresentanza sussiste semmai quando il rappresentante legale sia, invece, imputato
o indagato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo (Cass., sez. VI, 31 maggio 2012, n. 29930
sulla conseguente invalidità dell’atto di costituzione): in questi casi il giudice deve solo accertare che
ricorra tale presupposto, senza che sia richiesta una verifica circa l’effettiva situazione di incompatibilità, che è presunta dalla legge in termini assoluti.
L’interpretazione proposta dalla Suprema corte individua dunque nella ineludibile centralità del diritto di difesa, postulato dall’art. 24 della Costituzione, e nei contenuti letterali della previsione dell’art.
39 gli assi interpretativi intorno ai quali pervenire alla composizione del contrasto.
A ben vedere, la necessità della previa costituzione discende dalla complessità della figura soggettiva dell’ente, bisognevole «di mezzi di esternazione della propria volontà diversi e più articolati di quelli dell’imputato/persona fisica», nonché dalla volontà legislativa di prevenire ed evitare pericoli di inquinamento della strategia difensiva da parte di soggetti coinvolti nella vicenda o in conflitto di interessi (art. 39, comma 1, d.lgs. n. 231/2001), laddove il legale rappresentante individuato dall’ente per la costituzione fosse anche indagato o imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo.
L’ente non costituito, tuttavia, resta soggetto indagato, cui devono essere assicurate tutte le essenziali garanzie difensive, anche mediante la nomina di un difensore di ufficio, come previsto nella disciplina della informazione di garanzia dettata dall’art. 369-bis c.p.p., a carico del pubblico ministero che proceda al primo atto al quale il difensore ha diritto di assistere. È soprattutto nelle prime concitate fasi del
procedimento penale, infatti, che il sistema pone la massima attenzione all’assistenza difensiva con riguardo agli atti c.d. a sorpresa o comunque caratterizzati da rapidità e urgenza nella rispettiva esecuzione. Nelle stesse fasi in cui l’ente non ha ancora avuto modo di attivare la procedura dettata dall’art.
39, il difensore di fiducia può adottare iniziative nell’interesse dell’ente.
I giudici di legittimità si avvedono, tuttavia, del limite testuale contenuto nell’art. 57, d.lgs. n.
231/2001 ossia nella norma che stabilisce che l’informazione di garanzia inviata all’ente contiene, fra
l’altro, l’avvertimento che, per partecipare al procedimento, deve depositare la dichiarazione di cui
all’art. 39, comma 2.
Nella lettura della Corte, in realtà, tale norma vale semplicemente a rendere manifesto il discrimen
procedimentale, a partire dal quale l’urgenza della reazione difensiva non può più prevalere, dovendo
realizzarsi la formalizzazione dell’atto costitutivo prescritta dall’art. 39, d.lgs. n. 231/2001. In altri termini, l’informazione di garanzia serve ad allertare l’ente circa gli oneri partecipativi al procedimento,
una volta superata la situazione dell’imprevedibilità e dell’urgenza delle prime scansioni procedimentali nelle quali potrebbe competere al difensore di ufficio pure l’impugnativa dei provvedimenti cautelari reali.
Tale interpretazione si pone in linea con l’irrinunciabilità dell’apporto difensivo.
Infine, la Cassazione ritiene opportuno chiarire, con l’enunciazione del secondo principio di diritto, i
profili del difetto di legittimazione da parte del rappresentante contemporaneamente indagato o imputato del reato presupposto. Si tratta di un principio di incompatibilità di carattere generale che permea
di sé l’intero procedimento, a prescindere dalla costituzione dell’ente, desumibile in materia d’impugnazioni dalla espressa previsione contenuta nell’art. 591, comma 1, lett. a), c.p.p.
Laddove, infatti, il rappresentante dell’ente che versi nella condizione descritta dall’art. 39, comma
1, procedesse alla nomina del difensore di fiducia dell’ente indagato, l’atto conterrebbe un fumus negativo «di effetti potenzialmente dannosi sul piano delle scelte strategiche della difesa dell’ente», confliggenti con quelle del rappresentante indagato o imputato. In tali evenienze compete al giudice procedente prendere atto della situazione di incompatibilità del rappresentante e rilevare, di conseguenza, il
difetto di legittimazione alla nomina di un difensore.
In presenza della delineata patologia, il legislatore ha fatto soccombere ragionevolmente le esigenze
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dell’urgenza legate al compimento di atti processuali, preferendo manifestare il sospetto che la nomina
possa essere il frutto di una scelta «strategica» inquinata del rappresentante, sollecitando, al contempo,
lo stesso ente a rivedere la catena dei rapporti di rappresentanza dei quali questi intenda avvalersi.
ILLEGALITÀ SOPRAVVENUTA DELLA PENA E NULLITÀ DELL’ACCORDO SOTTOSTANTE AL PATTEGGIAMENTO
(Cass., sez. un., 28 luglio 2015, n. 33040)
Le Sezioni Unite tornano a pronunciarsi sugli esiti della declaratoria di illegittimità costituzionale della
l. n. 49/2006, a opera della sent. n. 32/2014, e della conseguente reviviscenza della originaria formulazione dell’art. 73, d.P.R. n. 309/1990. Il ragionamento è qui volto a puntualizzare gli effetti della pena
illegalmente determinata in sede di patteggiamento e a precisare la rilevabilità del vizio suddetto nel
corso del giudizio di cassazione, tenuto conto dei rapporti fra pena illegale e ricorso inammissibile. Secondo l’impostazione della Consulta, il fenomeno della reviviscenza della precedente normativa rende
pienamente vigente il testo originario del menzionato art. 73, d.P.R. n. 309/1990, derivante dalla l. 26
giugno 1990, n. 162, caratterizzato da una netta distinzione della risposta sanzionatoria, a seconda che
le condotte illecite abbiano a oggetto le cosiddette droghe pesanti (inserite nelle tabelle 1 e 3, per le quali è prevista al comma 1 la reclusione da otto a venti anni e la multa da Euro 25.822 a Euro 258.228), ovvero le droghe cosiddette leggere (previste nelle tabelle 2 e 4, punite al comma 4 con la reclusione da
due a sei anni e con la multa da Euro 5.164 a Euro 77.468). Risulta invece “abrogata” l’intera riforma
contenuta nella novella del 2006 che, all’art. 4-bis, modificando l’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, aveva unificato il trattamento sanzionatorio per le condotte illecite di produzione, traffico e detenzione di stupefacenti, sopprimendo ogni distinzione basata sulla diversa natura delle sostanze droganti ed era intervenuta sul sistema tabellare disciplinato dai previgenti artt. 13-14, d.P.R. n. 309/1990, artt. 13 e 14, raggruppando all’interno di un’unica tabella tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope precedentemente
articolate in distinte tabelle.
La riacquistata valenza della differenza tra droghe “leggere” e droghe “pesanti” comporta che per
l’illecita detenzione di hashish e marijuana non si applicano più le stesse sanzioni previste per gli oppiacei e la cocaina, ma le più miti sanzioni previste dall’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990, nella sua
formulazione originaria. Ciò implica la necessità per il giudice procedente di applicare la disciplina più
favorevole per i casi di droghe “leggere”. Tuttavia, ci si chiede se la reviviscenza delle norme precedenti determini l’illegalità del titolo solo nel caso in cui vengano superati i rinnovati limiti edittali massimi
delle pene, ovvero anche qualora tali limiti vengano formalmente rispettati. In questa ipotesi, l’illegalità
si riverbera sulla pena concordata in base di una piattaforma sanzionatoria non più attuale perché dichiarata incostituzionale a seguito di intervento abrogativo del giudice delle leggi.
Il risultato finale della sentenza applicativa della pena potrebbe risultare «macroscopicamente differente, in peius», rispetto a quello che si sarebbe raggiunto applicando i limiti edittali nuovamente in vigore dopo la scure d’incostituzionalità sulle “droghe leggere”, tenuto conto che è per queste che si è determinata la reviviscenza di un trattamento sanzionatorio più favorevole per il reo. Contrariamente, per
le “droghe pesanti” troveranno applicazione le norme contenute nella l. n. 49/2006 là dove più favorevoli rispetto alla disciplina ripristinata, ritenendo così operante per i fatti c.d. concomitanti le norme ancorché dichiarate incostituzionali: in questi casi, l’efficacia retroattiva dell’annullamento conseguente
alla pronuncia costituzionale non spiega effetti e residua un’applicazione dell’art. 2 c.p. ai soli fini
dell’individuazione della norma più favorevole per l’imputato.
A tale proposito, con riguardo al giudizio abbreviato, la giurisprudenza maggioritaria si è pronunciata in senso favorevole alla rivisitazione del trattamento sanzionatorio, a ragione della illegalità sopravvenuta della pena nelle sentenze di condanna. La mutata “forbice edittale” comporta la rimodulazione della pena all’interno dei nuovi limiti, in conformità al potere “dosimetrico” disciplinato negli
artt. 132 e 133 c.p. (Cass., sez. VI, 20 marzo 2014, 15157; Cass., sez. VI, 5 marzo 2014, 6, n. 14984).
Minoritario, invece, l’indirizzo secondo il quale la reintroduzione di un trattamento sanzionatorio di
maggior favore per le droghe leggere, a seguito della declaratoria di incostituzionalità, non determina
di per sé l’illegalità sopravvenuta della pena inflitta. Secondo questa tesi, bisogna, infatti, guardare alla
motivazione con cui il giudice di merito ha giustificato la quantificazione della sanzione, sicché, in presenza di una motivazione esaustiva, non può essere applicata automaticamente una pena inferiore
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(Cass., sez. III, 12 giugno 2014, n. 27957; Cass., sez. IV, 25 settembre 2014, n. 47278).
Analoga contrapposizione si rinviene a proposito dell’accordo espresso in sede di patteggiamento:
un primo indirizzo – maggioritario – imponeva l’annullamento senza rinvio delle sentenze di patteggiamento, la cui pena in relazione al reato di detenzione di sostanze stupefacenti cosiddette leggere,
fosse stata calcolata con i parametri edittali previsti dalla disciplina dichiarata incostituzionale, a ragione del trattamento di maggior favore per l’imputato, in conseguenza della reviviscenza dell’originario
art. 73 prima della novella del 2006. Ciò sia nell’ipotesi in cui la pena applicata risulti eccedente rispetto
al limite edittale massimo reintrodotto per effetto della sentenza di incostituzionalità n. 32/2014 (Cass.,
sez. IV, 10 aprile 2014, n. 22326; Cass., sez. III, 16 maggio 2014, n. 27426), sia nel caso in cui la stessa si
riveli rispettosa anche della nuova forbice sanzionatoria (Cass., sez. IV, 14 maggio 2014, n. 21085; Cass.,
sez. III, 3 aprile 2014, n. 21259). Questa prospettiva poneva al centro della valutazione la pena-base risultante dall’accordo ratificato dal giudice, non già la pena finale.
Infatti, il contenuto dell’accordo è stato certamente influenzato dal limite edittale che all’epoca corrispondeva al minimo e oggi, invece, rappresenta il massimo edittale.
Con diversità di accenti si evidenziava l’erroneità della determinazione del quadro normativo alla
luce del principio di eguaglianza e di quelli relativi alla successione di leggi nel tempo dettati dall’art. 2
c.p., comma 4, nonché dall’art. 7, par. 1, Cedu. In forza di tali coordinate, l’imputato ha diritto di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato, che prevede una sanzione meno severa
di quella stabilita in precedenza, fino a che non sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (Cass.,
sez. IV, 24 ottobre 2014, n. 49755). In particolare, nel caso in cui la mitigazione del trattamento sanzionatorio segua a una declaratoria di illegittimità costituzionale, deve garantirsi la possibilità di fruire del
sopravvenuto quadro normativo, rinegoziando i termini dell’accordo sulla pena. Inoltre, avendo la parte manifestato la volontà di «risolvere» il negozio, la sentenza medesima deve essere annullata senza
rinvio, disponendosi la trasmissione degli atti al tribunale territorialmente competente per l’ulteriore
corso del giudizio (Cass., sez. III, 3 aprile 2014, n. 21259).
In senso contrario rispetto a questo indirizzo si pone altra corrente giurisprudenziale, secondo cui
l’illegalità sopravvenuta della pena sussiste soltanto quando la sentenza, pronunciata prima della declaratoria d’illegittimità costituzionale, faccia riferimento a una sanzione incompatibile con i limiti edittali formalmente abrogati dalle disposizioni oggetto della pronuncia di incostituzionalità ed oggetto di
reviviscenza per effetto di quest’ultima (Cass., sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 1409). In concreto, dunque,
solo laddove la pena detentiva-base preveda una sanzione pari a sette anni di reclusione, e, quindi, superiore al massimo edittale “ripristinato”, si potrebbe pervenire all’annullamento del provvedimento di
patteggiamento.
Ove, invece, la pena base concordata in origine sia compresa entro i limiti edittali nuovamente vigenti, la sentenza della Corte costituzionale non produce alcun effetto sulla sentenza di patteggiamento, perché la stessa non può considerarsi illegale. Semmai essa può incorrere in un vizio di incongruità della pena, riguardando la regolarità del provvedimento (sotto il profilo della motivazione)
e non la disciplina sostanziale del trattamento sanzionatorio. Il provvedimento sarebbe dunque suscettibile di sindacato ma non invalido. Peraltro, la natura delle sentenze di patteggiamento e i conseguenti limiti posti al sindacato sul merito e sulla motivazione del relativo giudizio di congruità impongono di escludere la nullità della sentenza resa ex art. 444 c.p.p. (in questa direzione, Cass., sez.
VII, 12 marzo 2014, n. 24749).
Contrastando tale ultimo indirizzo, le Sezioni Unite pervengono alla conclusione dell’illegalità della
pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato sui limiti
edittali dell’art. 73, d.P.R. n. 309/1990 come modificato dalla l. n. 49/2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale «anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta
sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima
della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità».
Il percorso argomentativo ribadisce la netta differenza fra i due istituti dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale delle legge. La norma abrogata a seguito di una legge successiva resta pienamente valida fino all’entrata in vigore della norma abrogante, mentre in caso di dichiarazione
d’illegittimità costituzionale la norma colpita viene eliminata con effetto ex tunc dall’ordinamento e resa
inapplicabile ai rapporti giuridici, con conseguenze assimilabili a quelle dell’annullamento e con incidenza sulle situazioni pregresse, fatto salvo il limite del giudicato (C. cost., sent. n. 127/1966). La declaratoria d’illegittimità costituzionale rende la norma «come mai esistita», immune dal fenomeno succesSCENARI | SEZIONI UNITE
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sorio contemplato nell’art. 2 c.p.: essa determina cioè un evento di “patologia normativa”, che, a differenza dell’effetto derivante dallo ius superveniens, inficia fin dall’origine la disposizione impugnata
(Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858).
Ne deriva che, per i processi in corso in materia in materia di stupefacenti commessi all’epoca della
vigenza della l. n. 49/2006, deve trovare applicazione necessariamente l’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, nella
sua originaria versione.
Guardando poi al principio di legalità della pena, posto a fondamento dell’intero ordinamento giuridico penale, e ulteriormente confermato dall’art. 7 Cedu, si ribadisce come ogni previsione lesiva della
riserva di legge imponga di rimuovere la pena inflitta extra o contra legem non solo con i rimedi previsti
in sede di cognizione, ma anche in sede esecutiva dopo il passaggio in giudicato della sentenza (Cass.,
sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240; Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821). Orbene, gli effetti della
declaratoria di illegittimità costituzionale sulla pena implicano un diverso esercizio del principio di
proporzione da parte del legislatore, di cui è manifestazione il differente trattamento sanzionatorio vigente rispetto a quello previsto nella norma incostituzionale, che finisce per incidere sulla funzione retribuiva e rieducativa della pena. L’esito finale della commisurazione non corrisponde più all’attuale
giudizio astratto di disvalore del fatto e la valutazione di responsabilità del reo non è più conforme al
principio di colpevolezza.
Sebbene la sentenza di patteggiamento contenga un’affermazione implicita della responsabilità dell’imputato, con un accertamento non espressamente motivato (Cass., sez. un., 27 marzo 1992, n. 5777)
ogniqualvolta sopraggiunga una disposizione più favorevole, il giudice non può applicare la pena concordata, né procedere alla sua riduzione in conformità al più mite trattamento sanzionatorio, ma deve
soprassedere e invitare le parti a un nuovo accordo o, in difetto, a proseguire nell’ulteriore corso della
procedura (Cass., sez. VI, 10 aprile 2007, n. 26976). Allo stesso modo, la declaratoria d’illegittimità costituzionale, intervenuta dopo che la sentenza di patteggiamento è stata deliberata, travolge il quantum
sanzionatorio, non potendo la realizzazione di pena più mite, tipica del rito premiale, “compensare” la
prospettata illegalità (Cass., sez. III, 3 aprile 2014, n. 21259).
Competerà dunque alla Corte di cassazione sancire l’invalidità di un patteggiamento ratificato con riferimento a una pena illegale. Di norma la Corte ha il potere di rettificare la pena oggetto dell’accordo nei
casi di errori di calcolo o di errore materiale (Cass., sez. IV, 4 ottobre 2005, n. 45160); negli altri casi l’illegalità della pena spesso statuita al di sotto dei limiti edittali (Cass., sez. V, 25 ottobre 2005, n. 46790), implicando un vizio dell’accordo sottostante e della conseguente ratifica giudiziale impone alla Corte di legittimità di annullarla senza rinvio consentendo alle parti di rinegoziare l’accordo, ovvero di riapprodare
al rito ordinario (Cass., sez. I, 7 aprile 2010, n. 16766; Cass., sez. VI, 7 gennaio 2008, n. 7952; Cass., sez. un.,
27 maggio 2010, n. 35738). Invero, il negozio processuale si è formato con riguardo a una specifica quantificazione della sanzione e non può presumersi un analogo consenso delle parti in riferimento ad una sanzione di diversa entità (Cass., sez. V, 25 dicembre 2010, n. 46790).
Rientra tra i «fatti sopravvenuti – la dichiarazione di illegittimità costituzionale – che ha reso illegale»
una parte dell’oggetto dello stesso accordo, integrando quella che le categorie civilistiche inquadrano come «invalidità strutturale sopravvenuta». Essa determina la nullità del contratto – o della singola clausola
contrattuale – a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in applicazione della
quale quel contratto o quella clausola siano negoziati (Cass., sez. civ., 4 novembre 2004, n. 21095).
Da quest’angolazione il negozio processuale tra imputato e pubblico ministero diviene assimilabile a
un rapporto bilaterale a prestazioni corrispettive che inibisce la cristallizzazione anteriore al giudicato
dell’accordo negoziale, ogni qualvolta l’imputato manifesti la volontà di fruire del sopravvenuto quadro normativo, cioè di un trattamento che gli era stato negato da una norma incostituzionale (Cass., sez.
III, 3 aprile 2014, n. 21259), con l’ulteriore conseguenza che la sentenza che ha recepito l’accordo deve
essere annullata senza rinvio. La suddetta nullità è rilevabile d’ufficio anche «in caso di inammissibilità
del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo».
Sotto quest’ultimo profilo, secondo la Corte, l’impugnazione inammissibile non condiziona l’accertamento del giudice. Ciò accade nei casi in cui la cognizione del giudice, nonostante il ricorso inammissibile, cade sull’accertamento dell’abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma incriminatrice formante oggetto dell’imputazione. Tale deroga viene giustificata dall’eccezionale
possibilità di incidere in executivis sul provvedimento in relazione al quale si è formato il giudicato formale, ai sensi dell’art. 673 c.p.p. (Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n. 23428). Analogamente, si segnala
la prevalenza – rispetto alla inammissibilità del ricorso – delle ipotesi di ritenuta incompatibilità della
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norma incriminatrice di diritto interno con la norma dell’Unione come dichiarata dalla Corte di Giustizia Europea, trattandosi di situazioni che determinano effetti assimilabili all’abolitio criminis (Cass., sez
I, 5 ottobre 2011, n. 39566; Cass., sez. VII, 16 novembre 2011, n. 48054).
Tali considerazioni possono essere traslate sul caso in esame; sicché ove sia in discussione l’illegittimità della sanzione (Cass., sez. III, 3 aprile 2014, n. 21259), si impone una nuova decisione al giudice
dell’impugnazione (ancorché in presenza di un’impugnazione inammissibile).
Del resto, se il principio opera per il giudice dell’esecuzione (Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n.
48528), ancor più deve ritenersi consentita al giudice della cognizione una “rivisitazione” della pena illegalmente irrogata.
Le Sezioni Unite individuano un’unica eccezione nel caso d’inammissibilità del ricorso per tardiva
proposizione del medesimo: la speciale causa, derivante dalla mancata proposizione del gravame, trasforma il giudicato sostanziale in giudicato formale, precludendo un’eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalità della pena (Cass., sez. IV, 6
maggio 2014, n. 24638).
LE DICHIARAZIONI RESE IN ASSENZA DELL’AVVERTIMENTO CONTEMPLATO NELL’ART.
C) SONO INUTILIZZABILI ANCHE NEI CASI DI CONNESSIONE DEBOLE
64 COMMA 3 LETT.
(Cass., sez. un., 29 luglio 2015, n. 33583)
Con un articolato percorso interpretativo, teso a far luce sulla complessa fisonomia del “dichiaranti” e
sulle conseguenze scaturenti dal mancato avvertimento contemplato nell’art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p.,
le Sezioni Unite affermano l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal teste assistito, pure nei casi di
connessione debole.
Il quesito posto alla Suprema corte muoveva dalla necessità di inquadrare le conseguenze processuali del mancato rispetto delle garanzie riservate all’esame dibattimentale degli imputati di reato connesso o collegato, ai sensi dell’art. 210 c.p.p., relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi
avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito. In particolare, la sezione remittente aveva avuto cura
di precisare che la questione riguardava le ipotesi di c.d. connessione debole, ex art. 12, comma 1, lett.
c), o 371, comma 2, lett. b), c.p.p.
Nella giurisprudenza di legittimità si registravano tre diverse indirizzi interpretativi.
In base a un primo approccio, doveva ritenersi l’inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte in mancanza dell’avviso, salva la possibilità di rinnovare l’escussione con le forme corrette (Cass., sez. un., 17
dicembre 2009, n. 12067; Cass., sez. V, 25 settembre 2007, n. 39050; Cass., sez. VI, 4 luglio 2008, n. 34171;
Cass., sez. I, 24 marzo 2009, n. 29770).
Altro orientamento riteneva invece integrata una nullità a regime intermedio, come tale eccepibile
solo dal diretto interessato e non dall’imputato. A tale conclusione si giungeva osservando come la legge non vieti di per sé l’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato ma, semplicemente,
ne prescriva l’assunzione secondo determinate formalità.
Non poteva dunque ritenersi che l’omesso avviso desse luogo a un caso sanzionato dall’art. 191,
comma 1, c.p.p. – di prova assunta «in violazione dei divieti stabiliti dalla legge» – dovendo propendersi per una nullità ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. e), e 180 del codice di rito; nullità che non può
essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità, né può essere eccepita dall’imputato, privo di
interesse (art. 182 c.p.p.).
Da quest’angolo prospettico, la tesi dell’inutilizzabilità – propugnata dalla giurisprudenza contrapposta – stravolgerebbe la natura dell’istituto teso a tutelare l’imputato o indagato nel procedimento
connesso dal rischio che, deponendo nel processo principale come testimone (e obbligato a dire la verità), giunga inconsapevolmente ad auto-incriminarsi per il reato connesso o collegato.
Senza considerare, poi, che osterebbe alla configurazione dell’inutilizzabilità il dato normativo
dell’art. 197-bis, comma 2, c.p.p., che si limita a richiamare, quale ipotesi di testimonianza assistita, l’art.
64, comma 3, lett. e), e non anche il successivo comma 3-bis del predetto articolo, ove è appunto contemplata l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in mancanza dell’avvertimento di cui al comma 3
(Cass., sez. III, 11 giugno 2004, n. 38748; Cass., sez. I, 16 ottobre 2012, n. 43187; Cass., sez. VI, 22 gennaio
2014, n. 10282).
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Totalmente differente la scelta esegetica riconducibile al terzo orientamento, in base al quale le dichiarazioni assunte in modo irregolare al dibattimento da un soggetto indagato o indagabile per reato
connesso o collegato non sono affatto viziate, ma devono considerarsi pienamente utilizzabili.
Il richiamo all’art. 210, comma 6, all’art. 197-bis, e a sua volta l’art. 64, comma 3, lett. e), può essere inteso come funzionale a limitare esclusivamente la possibilità di assumere come teste l’imputato su fatti
altrui, senza che il rinvio debba necessariamente essere interpretato come comprensivo dell’avvertimento che assumerà l’ufficio di testimone salve le incompatibilità e le garanzie previste. Tale avvertimento, peraltro, ha un senso per l’interrogatorio – atto assunto fuori del contraddittorio che razionalmente legittima una maggiore attenzione del legislatore volta a tutelare i diritti dei terzi coinvolti nelle
dichiarazioni rese dall’interrogato – ma perde del tutto di significato allorché l’imputato debba riferire,
nella veste già dichiarata di testimone, su fatti esclusivamente altrui nella sede dibattimentale, ove la
garanzia del contraddittorio è piena; tanto è vero che l’art. 210, comma 6, c.p.p., espressamente richiede
che l’avviso sia fatto agli imputati che non abbiano reso in precedenza dichiarazioni erga alios (Cass.,
sez. II, 25 ottobre 2012, n. 41052; Cass., sez. V, 31 gennaio 2012, n. 12976; Cass., sez. I, 23 settembre 2014,
n. 41745).
Le Sezioni Unite prendono posizione a favore della prima tesi e convalidano la portata dell’inutilizzabilità mediante un’interpretazione storico-sistematica delle regole sulla multiforme tipologia di dichiaranti esistenti nel codice di rito.
Com’è noto, la l. 1° marzo 2001, n. 63, attuativa della riforma costituzionale sul “giusto processo”, ha
inteso compendiare due istanze contrapposte: da un lato, l’esigenza di garantire al massimo il nemo tenetur se detegere che rinviene nello stesso diritto di difesa il proprio naturale fondamento; dall’altro, la
necessità di comprimere le ipotesi di incompatibilità a testimoniare, allargando notevolmente la tipologia dei dichiaranti, variamente assistiti sul piano defensionale.
Lungo l’asse di inquadramento che separa l’imputato dal testimone è stata infatti inserita una vasta
congerie di soggetti, di figure intermedie, sino alla identità-sovrapposizione nei casi in cui l’imputato,
previamente avvisato a norma dell’art. 64, comma 3, lett. e), c.p.p., è chiamato ad assumere la figura e il
ruolo del testimone su fatti che concernono la responsabilità di altri.
In tale disegno s’iscrive l’inedita figura del teste assistito, cioè del teste che è anche imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, la cui dichiarazione, per assumere la forma (art. 497 c.p.p.) e il
valore giuridico della testimonianza (sia pure con i limiti ex art. 192, comma 3, c.p.p., richiamato dagli
artt. 197-bis, comma 6, e 210, comma 6) è stata ancorata al presupposto della scelta dello stesso dichiarante di riferire circostanze relative alla responsabilità altrui, resa consapevole ed efficace dal sistema di
avvisi previsti dall’art. 64, comma 3, c.p.p. e in particolare da quello ex lett. e), con le conseguenze stabilite dal comma 3-bis.
La valenza garantistica del previo avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. e), dovrebbe dunque precedere l’esame ex art. 210 in tutti i casi di connessione debole fra le regiudicande: non solo quindi quando
il soggetto non abbia «reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato»
(come testualmente prevede il comma 6 dell’art. 210), ma anche se egli abbia deposto erga alios, ma in
modo non “garantito”, ovvero non preceduto dal richiamato avvertimento.
Si tratta di un orientamento avallato da diversi arresti della Corte costituzionale (ord. n. 451/2002;
sent. n. 76/2003; sent. n. 191/2003), che hanno posto in evidenza come l’assunzione volontaria dello status testimoniale discenda appunto dall’effettuazione dei menzionati “avvertimenti” e come, a contrario,
la mancata effettuazione dell’avviso dilati l’incompatibilità a testimoniare, a prescindere dalla mancanza di esplicito rinvio da parte degli artt. 210, comma 6, e 197-bis, comma 2, c.p.p.
Il quadro conforta l’adesione del Supremo consesso alla tesi dell’inutilizzabilità e non della nullità a
regime intermedio delle dichiarazioni. Peraltro, tale ultima sanzione non è specificatamente prevista
dall’ordinamento, dal momento che l’art. 178, comma 3, lett. e), tutela il diritto di difesa dell’imputato e
delle altre parti, non già quello del teste assistito.
In effetti, il teste è ampiamente protetto dalla garanzia dell’inutilizzabilità delle eventuali dichiarazioni rese contro di sé, e non si vede quale interesse possa avere a dedurre tale nullità; inoltre, il carattere relativo dell’inutilizzabilità patologica prevista dall’art. 64, comma 3-bis, lett. e), rende le dichiarazioni utilizzabili nei confronti di chi le ha rese, ma non delle altre persone coinvolte.
La sanzione mira a evitare che l’imputato venga «accusato da una persona che non è stata avvertita
della responsabilità che scaturirà dalle sue dichiarazioni» ed è avvalorata dallo stesso tenore letterale
dell’art. 197, comma 1, lett. a) e b), volto a individuare precisi e generali divieti probatori, la cui violaSCENARI | SEZIONI UNITE
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zione comporta necessariamente, anche nel caso del mancato avviso di cui si discute, l’inutilizzabilità ex
art. 191 c. p. p. delle dichiarazioni in tal modo acquisite.
Di facile confutazione, stante l’espressa previsione legislativa, appare, infine, la tesi sulla piena utilizzabilità della prova assunta a ragione della sedes processuale in cui le dichiarazioni sono assunte e
della garanzia dibattimentale del contradditorio fra le parti. A ben vedere, infatti, il precetto contenuto
nel comma 6 dell’art. 210 è inequivoco circa la necessità che coloro che non hanno in precedenza reso
dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato ricevano l’avvertimento in questione, potendo
assumere l’ufficio di testimone solo se non si avvalgono della facoltà di non rispondere.
Dunque, in sede di esame dibattimentale, ai sensi dell’art. 210, comma 6, c.p.p., di imputato di reato
connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p., o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., l’avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), deve essere dato non solo se il soggetto non ha «reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato» (come testualmente prevede il comma 6 dell’art. 210 c.p.p.), ma anche se egli abbia già deposto erga alios senza aver ricevuto tale avvertimento.
NON SUSSISTE L’INTERESSE DELLA PARTE CIVILE A IMPUGNARE LE SENTENZE ESTINTIVE DEL REATO EMESSE DAL GIUDICE DI PACE IN SEGUITO A CONDOTTE RIPARATORIE
(Cass., sez. un., 31 luglio 2015, n. 33864)
Le Sezioni Unite negano la sussistenza dell’interesse della parte civile a impugnare la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato, pronunciata ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, per i
reati di competenza del giudice di pace. L’affermazione compone il dibattito giurisprudenziale sorto in
ordine alla natura della sentenza estintiva del reato emessa in conseguenza di condotte riparatorie.
In particolare, il quesito atteneva la sussistenza o meno dell’interesse per la parte civile a proporre
impugnazione anche ai soli effetti civili contro la declaratoria di estinzione del reato.
Secondo un primo indirizzo, doveva ritenersi sussistente l’interesse della parte civile a impugnare la
sentenza emessa ai sensi del menzionato art. 35 per intervenuto risarcimento dei danni, atteso che questa pronuncia contiene valutazioni incidenti sul merito della pretesa civilistica, potenzialmente pregiudizievoli per gli interessi della parte (Cass., sez. IV, 14 maggio 2008, n. 23527).
Inoltre, la possibilità di impugnare, ai soli effetti civili, le sentenze di proscioglimento pronunciate
nel giudizio di primo grado (per le quali non sia stato avanzato ricorso ex art. 21, d.lgs. n. 274/2000), ai
sensi dell’art. 576 c.p.p., trova applicazione anche nel procedimento di pace, giusto il richiamo generale
contemplato nell’art. 2 dello stesso d.lgs. n. 274/2000 (Cass., sez. V, 7 novembre 2013, n. 50578; Cass.,
sez. V, 18 aprile 2013, n. 20070).
Tale prospettazione coinvolge l’impugnazione degli effetti penali: il tradizionale difetto di legittimazione della parte civile a impugnare gli effetti penali è qui superato dalla natura ambivalente della causa estintiva, ex art. 35, d.lgs. n. 274/2000, che implica un’attività risarcitoria dell’imputato prima della
celebrazione del giudizio. In tal modo, non essendo possibile scindere effetti civili ed effetti penali, è da
ritenersi ammissibile l’impugnazione della parte civile.
Di contrario avviso altra corrente giurisprudenziale che aveva negato, invece, la sussistenza dell’interesse della parte civile a impugnare anche ai soli fini civili la sentenza dichiarativa dell’estinzione del
reato per intervenuta condotta riparatoria. Da quest’angolo visuale, la decisione si limita, infatti, ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell’estinzione del reato, non riveste autorità di
giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto,
alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile (Cass., sez.V, 6 giugno 2008, n. 27392; in
chiave analoga, Cass., sez. IV, 18 febbraio 2014, n. 46368; Cass., sez. V, 26 luglio 2014, n. 30535).
Risaltava al proposito la differenza rispetto alla previsione ordinaria codicistica dell’art. 652 c.p.p.
che attribuisce efficacia alla sentenza di assoluzione emessa in esito al dibattimento (per insussistenza
del fatto, per mancata commissione dello stesso da parte dell’imputato o per la ricorrenza di un’esimente) nell’eventuale giudizio civile proponibile dalla parte civile nei confronti dell’imputato.
Nell’art. 35, d.lgs. n. 274/2000 non è invero ravvisabile un analogo pregiudizio, trattandosi di un peculiare mezzo di tutela dei beni giuridici lesi che non accerta né quantifica il danno e, dunque, non produce conseguenze negative nei confronti della parte interessata.
L’adesione al secondo dei menzionati orientamenti da parte del Supremo consesso è frutto di un arSCENARI | SEZIONI UNITE
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ticolato percorso: esso muove anzitutto dal riconoscimento della legittimazione all’impugnazione della
parte civile conseguente alla lettura del combinato disposto degli artt. 35, 36 e 38, d.lgs. n. 274/2000,
prosegue con la negazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto della medesima parte
all’impugnazione di cui all’art. 35, d.lgs. n. 274/2000 e si completa con l’attribuzione a tale ultima decisione di una natura ambivalente.
Sotto il primo profilo, si osserva che ai sensi dell’art. 38, d.lgs. n. 274/2000 (in caso di procedimento
instaurato con le forme del ricorso immediato previsto dall’art. 21 dello stesso decreto), la parte civile
ha facoltà di proporre impugnazione anche agli effetti penali avverso le sentenze relative a tutti i reati
rientranti nella competenza del giudice di pace.
Tuttavia, tale previsione è limitata ai casi in cui è ammessa l’impugnazione da parte del pubblico
ministero, previsti dall’art. 36 (ossia sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena
diversa da quella pecuniaria e sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa). Le disposizioni di cui agli artt. 36 e 38 implicano che l’art. 576 c.p.p. (che prevede la facoltà per la parte civile
di proporre impugnazione «ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio») sia applicabile nelle ipotesi di citazione a giudizio dell’imputato, a norma
dell’art. 20, d.lgs. n. 274/2000, mentre l’art. 38, relativo al ricorso immediato, amplia la facoltà di impugnativa agli effetti penali (Cass., sez. V, 31 marzo 2010, n. 23726).
La descritta legittimazione all’impugnazione della parte civile incontra, tuttavia, un limite nel generale principio di economia processuale discendente dall’art. 568 c.p.p., a norma del quale vengono circoscritte le impugnazioni delle sentenze di proscioglimento, proprio tenendo conto della limitata apprezzabilità dell’interesse a impugnare in taluni casi. Quest’ultimo deve essere, oltre che attuale, anche
concreto (Cass., sez. VI, 22 gennaio 2014, n.10309) e deve risultare tale da garantire la rimozione degli
effetti pregiudizievoli della decisione impugnata (Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 40049).
Orbene, a detta delle Sezioni Unite l’efficacia preclusiva attribuita alle decisioni assolutorie dal menzionato art. 652 c.p.p. è collegata esclusivamente alle ipotesi di accertamento pieno dell’insussistenza
del fatto ovvero all’impossibilità di attribuirlo all’imputato o, ancora, alla sussistenza di cause di giustificazione. In questi casi, l’interesse della parte civile a impugnare dipende dall’efficacia extra-penale del
giudicato, che preclude la realizzazione degli interessi della parte privata in sede civile.
Di contro, a ben vedere, l’esistenza di un analogo interesse a impugnare della parte civile non sussiste con riguardo alle decisioni emesse ai sensi dell’art. 35, d.lgs. n. 274/2000 – come confermato dalle
stesse Sezioni Unite in un precedente che aveva negato la sussistenza del diritto all’impugnazione delle
sentenze di improcedibilità emesse per difetto di querela – trattandosi di pronunce inidonee ad arrecare
vantaggio al proponente ai fini dell’azione civilistica (Cass., sez. un., 21 giugno 2012, n. 35599).
La peculiarità dell’azione civile nel processo penale e il rispetto del principio del favor separationis fra
la giurisdizione civile e quella penale suffragano la prospettata esclusione dell’interesse a impugnare
ogniqualvolta difetti un pregiudizio attuale e concreto per la parte civile.
A conclusioni conformi, del resto, è pervenuta altra autorevole decisione nomofilattica secondo cui,
in presenza di un ricorso che investa il solo capo relativo all’affermazione della responsabilità civile, resta preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale su cui è stata espressa
una decisione irrevocabile. Difatti, non può essere ammessa una riapertura del tema penale solo per effetto dell’eventuale incidenza che scaturirebbe dalla rivisitazione dell’accertamento sulla responsabilità
civile (Cass., sez. un., 18 luglio 2013 n. 40109).
Nel descritto quadro argomentativo, l’art. 35, d.lgs. n. 274/2000 costituisce una disposizione mirante
al raggiungimento della c.d. pace sociale che guarda all’interesse dell’offeso in una prospettiva di «lateralità». Essa è, invece, soprattutto centrata su esigenze generali di prevenzione e repressione generale e
speciale del settore penale.
La valutazione di congruità del risarcimento si muove su «due binari paralleli non alternativi» che
hanno un obiettivo ultimo coincidente: «ridimensionare il fatto-reato attraverso una rielaborazione del
conflitto tra autore e vittima e favorire in tal modo la ricomposizione della lacerazione creatasi nel tessuto sociale, a cui non è estraneo neppure l’obiettivo più ampio di deflazione del processo penale».
Da tale valutazione d’insieme trae linfa la negazione della facoltà impugnazione della sentenza per
la parte civile.
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SPETTA AL GIUDICE DELL’ESECUZIONE RIDETERMINARE LA PENA PATTEGGIATA “ILLEGALE” CONSEGUENTE A DECLARATORIA DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
(Cass., sez. un., 15 settembre 2015, n. 37107)
Le Sezioni Unite precisano gli effetti sulle sentenze di patteggiamento della declaratoria di incostituzionalità della pena irrogata in virtù dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, relativa alle droghe c.d. leggere e divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale. In base al principio
enunciato la rideterminazione della pena divenuta illegale avverrà in sede di esecuzione, a iniziativa
delle parti, con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 disp. att. c. p.p., «sottoponendo
al giudice dell’esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo». Nel caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua, il giudice dell’esecuzione provvede autonomamente
alla rideterminazione della pena, ai sensi degli artt. 132 e 133 c. p.
Si tratta di un ulteriore strascico che conferma i poteri rideterminazione della pena “illegale” attribuiti al giudice dell’esecuzione e sancisce la progressiva “flessibilizzazione” del giudicato (C. cost.,
sent. n. 210 del 2013; Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821; Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858).
In particolare, in questo caso il quesito atteneva alle modalità di rideterminazione della pena frutto
dell’accordo delle parti, regolarmente ratificato dal giudice, ma formatosi su criteri edittali da considerare come mai esistiti, in quanto incostituzionali.
La rimodulazione della pena in executivis, realizzabile in virtù dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953,
mediante il procedimento di esecuzione, disciplinato all’art. 666 c.p.p., segue, nel caso specifico, all’“invalidazione” dell’accordo, effetto dell’illegalità sopravvenuta del medesimo e impone modalità nuove
attraverso le quali pervenire alla ridefinizione del quantum sanzionatorio.
Se l’illegalità “originaria” della pena comporta, infatti, l’invalidità dello stesso accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza (Cass., sez.
V, 19 febbraio 2015, n. 13589), ad analoghe conseguenze si deve pervenire in relazione all’illegalità conseguente alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990 (cfr. supra: Cass.,
sez. un., 26 febbraio 2015, n. 33040).
Nelle ipotesi di patteggiamento non irrevocabile, l’accordo diviene nullo per effetto di un fatto sopravvenuto favorevole – nella specie il trattamento sanzionatorio più mite determinato dalla declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 32/2014 – e la delineata patologia travolge l’intera sentenza consentendo, eventualmente, alle parti di cercare un nuovo accordo su basi legali.
Più complesso si presenta il problema dell’illegalità sopravvenuta della pena nella sentenza di patteggiamento irrevocabile, in quanto qui si impone un intervento sulla validità del titolo esecutivo. La
presenza del giudicato formale impedisce, in altri termini, che il vizio riguardante la quantificazione illegale della sanzione oggetto dell’accordo possa propagarsi alla sentenza stessa, cioè al titolo esecutivo
che si è già cristallizzato.
Se si dovesse mettere in discussione lo stesso titolo esecutivo il rimedio offerto dall’ordinamento
processuale sarebbe quello disciplinato dall’art. 670 c.p.p., che però concerne l’ipotesi in cui il titolo
manca o non è divenuto esecutivo, laddove nel caso in esame la sentenza di patteggiamento è sicuramente passata in giudicato prima che sopravvenisse l’illegalità della pena per effetto della dichiarazione di incostituzionalità, per cui non può neppure parlarsi di un giudicato “viziato”. Non avrebbe dunque senso il ricorso all’art. 670 c.p.p. con la conseguente rivalutazione degli atti al giudice della cognizione: ciò che deve essere rivalutato, a ben vedere, non è il titolo esecutivo nella sua interezza, ma solo
una parte di esso, cioè la quantificazione della pena.
Nella delineata «duplice dimensione» del giudicato diviene “flessibile” e rimodulabile la parte relativa alla determinazione della pena.
Del resto, proprio riguardo alle ipotesi di applicazione della pena su richiesta, qualora per uno dei
reati ritenuti in continuazione sopraggiunga un’abolitio criminis non tenuta in considerazione dal Giudice del rito speciale nel ratificare l’accordo, la Corte di cassazione, e il giudice dell’esecuzione, ai sensi
dell’art. 673 c.p.p., possono provvedere allo scomputo della pena. L’annullamento in parte qua della sentenza non comporta un effetto rescissorio dell’accordo, posto che l’eventualità di eventi modificativi
(cause estintive o abolitio criminis), non muta i termini del “patteggiamento” su tutte le imputazioni residue (Cass., sez. VI, 15 dicembre 1999, n. 356).
In quest’ottica, la validità intrinseca dell’accordo stesso (definizione giuridica, individuazione delle
circostanze e bilanciamento) persiste, anche quando si deve intervenire sulla quantificazione della pena
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per fatti sopravvenuti: il giudice dell’esecuzione opera solo una «parziale rinnovazione e integrazione»
dell’entità della pena, con ogni conseguenza di legge» (Cass., sez. I, 4 dicembre 2014, n. 53019).
Più problematiche appaiono le modalità materiali della suddetta rideterminazione.
Un primo indirizzo propende per la rideterminazione della pena con un criterio oggettivo di tipo
matematico-proporzionale, che trasponga la sanzione all’interno della cornice edittale determinatasi
per effetto della reviviscenza della normative pregressa a seguito del giudizio di incostituzionalità
(Cass., sez. I, 25 novembre 2014, n. 51844). In tal modo, si applicherà una pena che, in proporzione, corrisponde all’entità della pena applicata in sentenza, aggiungendo al nuovo minimo di pena la stessa
percentuale di aumento applicata in sede di cognizione.
Un secondo indirizzo afferma, invece, la discrezionalità del giudizio di rideterminazione della pena
da parte del giudice dell’esecuzione.
Si ritiene che in sede di esecuzione il giudice deve rideterminare la pena in rapporto ai nuovi e diversi parametri edittali, dando conto, ai sensi degli art. 132 e 133 c. p., delle modalità di esercizio del potere commisurativo, tenendo altresì conto dei principi generali del sistema sanzionatorio, tra i quali
quello per cui non può essere aumentata l’afflittività della pena irrogata in sentenza (Cass., sez. I, 18
gennaio 2014, n. 52981). Tale rideterminazione giudiziale prescinde dalla volontà delle parti e individua
nella fase esecutiva le potenzialità di una rivalutazione globale del fatto.
Le Sezioni Unite criticano entrambi gli orientamenti: il primo, perché propone un criterio automatico di
riduzione proporzionale che non tiene conto della concreta gravità dei fatti e della personalità del reo in
rapporto alla nuova cornice edittale; il secondo, perché prescinde totalmente dall’accordo delle parti, attribuendo al giudice dell’esecuzione il potere di determinare in toto una nuova pena, di fatto non concordata.
Per queste ragioni il Supremo collegio traccia una terza via utile a meglio consentire l’esplicazione
dell’accordo delle parti anche in executivis.
Il fondamento normativo della scelta esegetica risiede nell’art. 188 disp. att. c.p.p.; la disposizione
consente di intervenire in sede esecutiva sulla pena patteggiata riconoscendo la continuazione tra più
reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili ex art. 444 c.p.p. e può considerarsi speciale rispetto a
quella generale prevista dall’art. 671 c.p. con la quale condivide l’identica ratio di «assicurare l’applicazione della pena “giusta” per l’imputato fino alla fase esecutiva». In questa ipotesi, l’obiettivo non è però costituito dalla rideterminazione della pena a fini del riconoscimento della continuazione, bensì dalla
necessità di eliminare gli effetti di una “illegalità sopravvenuta” della pena.
Attraverso le scansioni procedurali dell’art. 188 disp. att. c.p.p., pubblico ministero e condannato potranno dunque proporre al giudice dell’esecuzione un nuovo accordo sulla pena divenuta illegale.
Il ricorso analogico alla fattispecie consente al giudice dell’esecuzione di intervenire accogliendo la
richiesta pure di fronte all’inerzia o al dissenso ingiustificato del pubblico ministero. Una volta ammessa l’applicazione estensiva dell’art. 188 disp. att. c.p.p. al caso in esame, si riconosce al giudice dell’esecuzione il potere di valutare la congruità della pena richiesta, come indirettamente confermato dalla
Corte costituzionale (C. cost., sent. n. 37/1996 secondo cui, oltre alla verifica in concreto della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della disciplina del reato continuato, deve essere valutata la “congruità” della pena indicata dalle parti, in conformità al dettato dell’art. 27, comma 3, Cost.).
Andando oltre quanto ritenuto dalla giurisprudenza in tema di rideterminazione della pena in executivis dei casi di concorso formale e continuazione, nonché postulando alcuni limiti derivanti dal rispetto
dei contenuti dell’accordo (Cass., sez. IV, 13 gennaio 2013, n. 18669), le Sezioni Unite ritengono dunque
che l’illegalità della pena consenta al giudice dell’esecuzione di rideterminarla pure nel caso di difetto
dell’accordo ogni qualvolta egli la ritenga incongrua.
Il giudice potrà rideterminare «la pena in base ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., secondo i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto della nuova perimetrazione edittale»,
concedendo, eventualmente, anche la sospensione condizionale della medesima pena. Non osta a tale
ultima possibilità la lettura giurisprudenziale che annovera tra i provvedimenti conseguenti alla pronuncia in executivis la possibilità di concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio
prognostico richiesto dall’art. 164, comma 1 c.p., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti
(Cass., sez. un., 20 dicembre 2005, n.4687).
Un ragionamento complessivo, quello delle Sezioni Unite, che prosegue il percorso di progressiva
erosione dell’immutabilità del giudicato dinnanzi a «esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema».
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RILEVANZA DELLE AGGRAVANTI A EFFETTO SPECIALE NELLA DETERMINAZIONE DELLA DURATA MASSIMA
DELLE MISURE CAUTELARI
(Cass., sez. un., 22 settembre 2015, n. 38518)
Secondo le Sezioni Unite nel calcolo della pena, ai fini della determinazione dei termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di primo grado, deve tenersi conto, in conformità
all’art. 63, comma 4, c.p., oltre che della pena stabilita per la circostanza aggravante più grave, anche
dell’ulteriore aumento complessivo di un terzo per le ulteriori omologhe aggravanti meno gravi.
Si compone il conflitto interpretativo «virtuale» in ordine agli effetti della contestazione di circostanze a effetto speciale.
Sulla problematica del computo della pena ai fini cautelari e dell’individuazione dei termini della
custodia cautelare, ex artt. 278 e 303 c. p. p., un indirizzo esegetico oramai consolidato guarda alla pena
edittale risultante dal cumulo delle sanzioni derivanti anche dalla compresenza di più circostanze aggravanti ad effetto speciale e non alla pena che in concreto potrà essere irrogata all’esito del giudizio di
primo grado con la sentenza che chiude tale fase processuale (Cass., sez. un., 8 aprile 1998, n. 16). Tale
criterio opera, dunque, al fine di definire la durata massima dei termini di custodia cautelare per la fase
delle indagini (e, in particolare, per quella del giudizio di primo grado).
Di contro, non condivisibile – e a tratti inconferente – appare alle Sezioni Unite il richiamo che la sezione remittente ha operato ad altra decisione del collegio nomofilattico sull’aumento della pena correlabile alla recidiva, al fine di avvalorare il palesato contrasto esegetico (Cass., sez. un., 24 febbraio 2011,
n. 20798).
Com’è noto, il cumulo delle sanzioni, nei valori massimi previsti per le singole fattispecie criminose
e le eventuali connesse aggravanti speciali (ex art. 280, comma 2, c.p.p.) è unicamente temperato dalla
regola di calcolo (cumulo giuridico), ispirata dal favor rei, dettata dagli artt. 63, comma 4, e 64 c.p. per il
caso in cui coesistano più aggravanti ad effetto speciale. La pena è dunque determinata in base
all’aggravante più afflittiva (per incremento sanzionatorio) aumentata, per le altre aggravanti, in misura di un terzo, secondo l’ordinario criterio di computo delle aggravanti comuni.
La questione odiernamente affrontata dalle Sezioni Unite concerne, invece, la determinazione della
pena funzionale alla durata della custodia cautelare per le fasi delle indagini preliminari e del giudizio
di primo grado; anteriormente, cioè, alla decisione (di condanna) di primo grado. Invero, per le fasi
successive alla decisione (di condanna) di primo grado, si ha riguardo all’entità della pena in concreto
inflitta all’imputato in primo e in secondo grado e, dunque, in sostanza, si guarda al reato così come ritenuto in sentenza (Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 29556; Cass., sez. VI, 8 febbraio 2013, n. 7199).
Ribaditi i fondamenti costituzionali entro i quali può delinearsi la coercizione cautelare, le Sezioni Unite
guardano anzitutto all’art. 278 c.p.p. quale norma cardine cui riferirsi per risolvere il quesito posto, da leggersi, evidentemente, in chiave sinottica con gli artt. 303 e 63 c.p. (Cass., sez. un., 19 ottobre 1991, n. 19).
In particolare, la prima disposizione prescrive che si abbia riguardo alla «pena stabilita dalla legge
per ciascun reato consumato o tentato», non tenendosi conto della continuazione, della recidiva e delle
circostanze del reato, «ad eccezione» dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5 c.p. e dell’attenuante di cui
all’art. 62, comma 4, c.p. «nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e da quelle ad effetto speciale».
La salvaguardia del bene fondamentale della libertà personale impone dunque che il coefficiente di
gravità venga determinato sulla base del fatto-reato principale e non degli «eventuali connotati accessori (circostanziali), fatta coerente eccezione per le circostanze, aggravanti o attenuanti, che modifichino
in modo significativo l’indice del disvalore complessivo della condotta criminosa».
Nel caso, però, in cui concorrano più circostanze aggravanti omogenee, di cui almeno due a effetto
speciale, nella determinazione della pena a fini cautelari, fondamentale per stabilire la durata dei termini massimi di custodia cautelare, si dovrà «tenere conto» delle circostanze aggravanti a effetto speciale, come prescrive l’art. 278 c.p.p., sia in quanto incidenti sulla gravità del reato, sia con riguardo ai
limitanti criteri di computo della pena per fatti di reato scanditi da più aggravanti.
E allora la natura a effetto speciale della circostanza non muta a seconda delle diverse situazioni, ma
rileva piuttosto in due momenti diversi e sequenziali: quello edittale e quello discrezionale della commisurazione del giudice (Cass., sez. un., 8 aprile 1998, n. 16). Nell’ambito edittale ex art. 278 c.p.p., la
pena è fissata dalla legge; nel momento giudiziale, si registra invece un alto tasso di discrezionalità discendente dal concreto esito del giudizio.
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Per calcolare la custodia cautelare, nel caso concorrano più circostanze aggravanti a effetto speciale,
si deve dunque tener conto, ai sensi dell’art. 63, comma 4, c.p.p. della pena stabilita per la circostanza
più grave, aumentata di un terzo; tale aumento costituisce cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite
legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi del detto tipo che mantengono la loro natura.
La scelta di escludere le aggravanti comuni discende, infatti, dall’incidenza sulla gravità del fatto reato.
Un’opzione, questa, condivisa dalla giurisprudenza prevalente (Cass., sez. I, 13 luglio 1998, n. 4271;
Cass., sez. I, 31 marzo 2005, n. 19841), con la variante interpretativa dei casi in cui la questione
dell’entità della pena derivante dal concorso di circostanze aggravanti a effetto speciale sia autonomamente risolta dallo stesso legislatore, già nella tipizzazione della fattispecie criminosa, connotata da una
o più di tali circostanze aggravanti, per le quali siano in modo autonomo predeterminati gli aumenti di
pena applicabili, tanto per finalità cautelari, quanto per la concreta definizione della pena da infliggere
nel giudizio di merito. È il caso della fattispecie associativa mafiosa, per la quale il disposto dell’art.
416-bis c.p. prevede puntuali soglie sanzionatorie ovvero detta precipue misure dell’aumento di pena
applicabile.
In queste ipotesi il più volte richiamato precedente delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 8 aprile 1998,
n. 16) subisce una sorta “aggiustamento”, a ragione del fatto che le aggravanti speciali contemplate
dall’art. 416-bis c.p. non interrompono il collegamento con la pena stabilita per il reato (base) cui accedono, ma indicano esse stesse ex lege la cornice degli incrementi sanzionatori, che risultano applicabili
in modo cumulativo ai fini cautelari (Cass., sez. I, 24 marzo 2009, n. 29770; Cass., sez. VI, 13 dicembre
2011, n. 7916).
A ben vedere, l’arresto giurisprudenziale (Cass., sez. un., 24 febbraio 2011, n. 20798) richiamato dalla
sezione remittente per avvalorare il contrasto esegetico affronta palesemente un aspetto differente, sancendo gli effetti che la recidiva, inquadrata come circostanza aggravante a effetto speciale e pertanto
sottoposta al giudizio di comparazione (ove ricorrano altre circostanze aggravanti a effetto speciale),
produce sulla regola dell’applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, con possibilità
per il giudice di un ulteriore aumento, conformemente a quanto previsto dall’art. 63, comma 4, c.p. In
tale decisione si è voluto esaltare il tasso di discrezionalità del giudice, trasformando la recidiva «da circostanza ad effetto speciale in circostanza facoltativa comune», non avendo il legislatore predefinito
l’entità della variazione di pena che il giudice può apportare.
Nonostante la differente delimitazione d’ambito, la giurisprudenza pretende di traslare l’assunto sul
fronte cautelare, di modo che la «trasformazione endo-processuale della circostanza aggravante a effetto speciale recessiva o “soccombente”» induca ad espungere la stessa circostanza dal computo della pena per motivi cautelari.
Sul punto è netta l’odierna presa di posizione del Supremo consesso nel negare conseguenze interpretative di tipo analogico in tema d’individuazione della natura giuridica della recidiva qualificata, tali da mettere in discussione i più volte richiamati postulati interpretativi avvalorati dalla giurisprudenza maggioritaria sul calcolo delle circostanze ai fini cautelari (Cass., sez. un., 8 aprile 1998, n. 16).
La questione esula di fatto dal nucleo essenziale del quantum di pena legittimante l’emissione di una
misura cautelare, con le implicazioni relative alla delimitazione dei termini massimi della custodia di
fase ex art. 303 c.p.p., negli stadi processuali antecedenti la pronuncia (eventuale) di condanna di primo
grado. Inoltre, pur ammettendosi ampie zone d’interferenza fra i criteri di calcolo della pena per finalità
cautelari, o con quelli seguiti per fini di prescrizione del reato, non può giungersi a una sostanziale vanificazione delle circostanze aggravanti a effetto speciale soccombenti che pure scandiscono, nella fase
cautelare e del corso del giudizio di primo grado, il reato ascritto all’indagato o imputato e ne costituiscono un «irrefutabile indice di maggiore offensività».
Per questa via, si ribadisce la doppia valenza delle aggravanti ad effetto speciale (nella genetica adozione di una misura coercitiva; nella concreta applicazione della pena).
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Giada Bocellari
LE SEZIONI UNITE TORNANO SUL RAPPORTO TRA INAMMISSIBILITÀ DELL’IMPUGNAZIONE E APPLICAZIONE
DELLE CAUSE DI NON PUNIBILITÀ: IL PERSISTENTE PROBLEMA DELLA PRESCRIZIONE
(Cass., sez. II, 7 luglio 2015, n. 28790)
L’ordinanza qui in commento richiede un ulteriore intervento alle Sezioni Unite sull’annosa questione
concernente la possibilità o meno per il giudice di legittimità di dichiarare la prescrizione del reato, maturata prima della sentenza di appello, ma non rilevata d’ufficio né eccepita in quella sede o nei motivi
di ricorso, quando quest’ultimo sia inammissibile.
La tematica è risalente e, si deve aggiungere, fu oggetto di specifico intervento delle Sezioni Unite
nel 2005 (Cass., sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428), che cristallizzarono, nei rapporti tra inammissibilità
dell’impugnazione e applicazione delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., un principio, ad oggi,
disatteso da numerose pronunce successive delle sezioni semplici, registrandosi effettivamente un contrasto giurisprudenziale sul punto, certo non trascurabile.
Secondo la pronuncia poc’anzi richiamata, l’intervenuta formazione di un giudicato “sostanziale”
derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (in cui andrebbero ricompresi sia quelli di cui all’art. 591, comma 1, c.p.p., ad
esclusione della rinuncia all’impugnazione, sia quelli di cui all’art. 606, comma 3, c.p.p., tra cui anche la
manifesta infondatezza dei motivi di ricorso, idonea a qualificarlo come “meramente apparente”)
avrebbe precluso ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata, sia di rilevarla d’ufficio. In tale prospettiva, l’unica ipotesi di cognizione che sarebbe residuata per il
giudice dell’impugnazione inammissibile sarebbe stata quella relativa all’accertamento dell’abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, desumibile dall’eccezionale possibilità di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del
giudicato “formale”, così come nel caso di morte dell’imputato a norma dell’art. 150 c.p., sempre che
non vi fosse stata tardiva proposizione del gravame.
Talune pronunce successive risultano essersi attestate sul predetto principio di diritto, laddove, proprio sulla scorta dell’insegnamento delle Sezioni Unite, hanno ribadito che l’inammissibilità originaria
del ricorso per cassazione preclude la possibilità di far valere o rilevare d’ufficio ex art. 129 c.p.p.
l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, anche se maturata in data anteriore alla pronuncia
della sentenza di appello, ma non dedotta né rilevata dal giudice di merito (in tal senso, Cass., sez. IV,
13 novembre 2014, n. 51744; Cass., sez. V, 19 novembre 2014, n. 15599; Cass., sez. VI, 14 marzo 2014, n.
25807; Cass., sez. I, 20 gennaio 2014, n. 6693; Cass., sez. III, 8 ottobre 2009, n. 42839; Cass., sez. I, 4 giugno 2008, n. 24688).
Si è, tuttavia, consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità anche un orientamento contrapposto a quello innanzi rappresentato: secondo più recenti pronunce, infatti, pur in presenza di un ricorso inammissibile stante la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso, il giudice di legittimità potrebbe
rilevare d’ufficio l’intervenuta prescrizione del reato, maturata prima della pronuncia della sentenza
impugnata e mai invocata dall’imputato o dal suo difensore (Cass., sez. V, 15 gennaio 2015, n. 10409;
Cass., sez. III, 30 ottobre 2014, n. 2001; Cass., sez. III, 22 maggio 2013, n. 46969; Cass., sez. II, 7 luglio
2009, n. 38704; Cass., sez. V, 17 settembre 2012, n. 42950; Cass., sez. V, 11 luglio 2011, n. 47024).
Tale orientamento si muove essenzialmente su due ordini di argomentazioni: da un lato, intende assimilare il caso della prescrizione maturata prima della conclusione della fase di merito a talune altre
ipotesi in cui il giudice di legittimità mantiene, pur a fronte di un’impugnazione inammissibile, la facoltà di rendere una pronunzia che non sia meramente enunciativa della predetta inammissibilità (ad
esempio, come riconosciuto anche dalle Sezioni Unite sopra richiamate, nel caso di morte dell’imputato
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o di dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice contestata: propendono per l’assimilazione, Cass., sez. III, 30 ottobre 2014, n. 2001; Cass., sez. III, 22 maggio 2013, n. 46969; Cass., sez. II, 7
luglio 2009, n. 38704; Cass., sez. V, 17 settembre 2012, n. 42950); dall’altro, muovendo dalla ratio dell’istituto della prescrizione – per cui è il decorso del tempo a far venir meno l’interesse dello Stato ad
esercitare la pretesa punitiva senza necessità di un apprezzamento in concreto da parte del giudice, ma
soltanto sulla base di un automatico meccanismo presuntivo – fa leva sul fatto che la prescrizione maturata prima della conclusione dei gradi di merito impone al giudice di rilevarla con un mero atto di ricognizione, cosicché un’omissione in tal senso altro non è che un “errore colpevole” del giudice di merito
cui il giudice di legittimità deve porre rimedio, essendo a quest’ultimo precluso di dichiararla solo ove
sia maturata dopo la sentenza d’appello o addirittura dopo la proposizione del ricorso per cassazione
(Cass., sez. V, 15 gennaio 2015, n. 10409; Cass., sez. III, 30 ottobre 2014, n. 2001; Cass., sez. V, 11 luglio
2011, n. 47024). A tal proposito, si è sottolineato che precludere l’azionabilità in sede di legittimità determinerebbe l'assoggettamento dell'imputato alla condanna ed alla correlativa esecuzione della pena
mentre, in presenza della medesima situazione di fatto e di diritto, la declaratoria di estinzione del reato da parte del giudice di merito, consentirebbe all'imputato di avvalersi della prescrizione, così determinandosi una disparità di trattamento lesiva del principio di uguaglianza (Cass., sez. V, 15 gennaio
2015, n. 10409).
Da segnalare anche talune pronunce che, pur riconoscendo la possibilità di una declaratoria per intervenuta prescrizione nei termini sopra rappresentati, limitano il circuito di operatività del giudice di
legittimità, il cui potere/dovere di dichiarare la prescrizione permane solo se non occorra alcuna attività di apprezzamento delle prove, finalizzata all’individuazione di un “dies a quo” diverso da quello indicato nel capo di imputazione (Cass., sez. IV, 16 giugno 2015, n. 27019; Cass., sez. V, 17 febbraio 2015,
n. 26445; Cass., sez. II, 21 gennaio 2015, n. 4986; Cass., sez. IV, 26 novembre 2014, n. 51766; Cass., sez. III,
21 marzo 2014, n. 15112).
Lo stesso potere/dovere del giudice di legittimità sarebbe, poi, configurabile nel caso di prescrizione
maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma che non avrebbe potuto essere
dedotta o rilevata in quanto costituente effetto dello ius superveniens che, modificando il regime sanzionatorio in senso più favorevole all’imputato, abbia ridotto i limiti edittali della pena e, dunque, il termine di prescrizione del reato (Cass., sez. III, 6 novembre 2014, n. 52031).
L’ordinanza in commento, dunque, rimette nuovamente alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto
giurisprudenziale ivi rappresentato, che involge, preliminarmente, la risoluzione della problematica
concernente i rapporti tra cause di inammissibilità dell’impugnazione e applicazione delle cause di non
punibilità ex art. 129, già interessata da numerose altre pronunce delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 11
novembre 1994, Cresci; Cass., sez. un., 30 giugno 1999 n. 15, Piepoli; Cass., sez. un., 22 novembre 2000,
n. 32, De Luca).
In concreto, non pare francamente ci siano spazi per decisioni diverse da quelle già assunte dalle Sezioni Unite nel 2005 ogniqualvolta l’inammissibilità del ricorso sia “originaria” ex art. 591 c.p.p. (ad eccezione della rinuncia all’impugnazione); uno spazio di manovra potrebbe esserci quando l’inammissibilità sia “sopravvenuta” e, segnatamente, nel caso di manifesta infondatezza dei motivi di ricorso,
recuperando però una distinzione ad oggi, superata (si ricorda, a tal proposito, che Cass., sez. un., 11
novembre 1994, Cresci e Cass., sez. un., 30 giugno 1999, n. 15, Piepoli, avevano ritenuto applicabile l’art.
129 c.p.p. in caso di manifesta infondatezza del ricorso, atteso che tale declaratoria richiedeva, pur
sempre, un’analisi ancorché sommaria degli atti: principio, poi superato, da Cass., sez. un., 22 novembre 2000, De Luca e da Cass., sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428).
E’ chiaro che se verrà ribadito il principio per cui l’invalida instaurazione del gravame comporta
(sia nelle ipotesi di cui all’art. 591 c.p.p., sia in tutte le ipotesi di cui all’art. 606, comma 3, c.p.p.) una
pronuncia di inammissibilità del tutto assorbente rispetto a qualsivoglia ulteriore determinazione, ancorché ricognitiva, da parte del giudice di legittimità, precludendo sostanzialmente qualsiasi esame degli atti processuali, la soluzione non potrà che attestarsi sulla scorta di quella già enunciata dalle Sezioni
Unite nel 2005; non sfugge che, in tal caso, residuerebbe il problema del mancato emendamento dell’errore compiuto dal giudice del merito e consistito nell’omessa declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, che parrebbe, purtuttavia, “accettabile” a voler considerare la proposizione da
parte della difesa di un ricorso inammissibile e, dunque, fuori dei casi consentiti dalla legge, unitamente alla mancata deduzione, in qualsivoglia sede, dell’intervenuta prescrizione.
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
Avanguardie in giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LA LORO APPLICABILITÀ
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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Nel procedimento di sorveglianza l’omesso avviso al difensore di fiducia integra una nullità assoluta
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 26 MARZO 2015, N. 24630 – PRES. SANTACROCE; REL.
CASSANO
Nel procedimento di sorveglianza, l’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato
dall’imputato o dal condannato – del quale è necessaria la partecipazione e, perciò, obbligatoria la presenza – integra, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179 c.p.p., una nullità assoluta e insanabile dell’udienza, ancorché
tenuta in presenza del difensore d’ufficio, e degli atti successivi, compresa l’ordinanza conclusiva, in quanto la
nomina fiduciaria non può essere surrogata dalla designazione ex officio da parte del giudice di un altro avvocato,
di cui è irrilevante l’assistenza effettiva.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Il 19 giugno 2013 il Tribunale di sorveglianza di Torino, investito del reclamo proposto da (Omissis), confermava l’ordinanza emessa, il 9 aprile 2013, dal Magistrato di sorveglianza di Cuneo che aveva
rigettato l’istanza di permesso premio avanzata dal detenuto. (Omissis), in calce al reclamo proposto il
14 maggio 2013, nominava quale difensore di fiducia l’avv. (Omissis). Ciò nonostante, il Presidente del
Tribunale di sorveglianza, contestualmente all’emissione, in data 20 maggio 2013, del decreto di fissazione dell’udienza in camera di consiglio, designava un difensore d’ufficio nella persona dell’avv.
(Omissis), in base all’erroneo presupposto che il (Omissis) non avesse scelto un legale di fiducia. Dopo la
spedizione dell’avviso dell’udienza, (Omissis) nominava quale codifensore di fiducia l’avv. (Omissis).
L’avv. (Omissis) e (Omissis), detenuto nel carcere di Padova, ricevevano entrambi, il 22 maggio 2013,
l’avviso dell’udienza, mentre gli avvocati (Omissis) ed (Omissis) non erano destinatari di alcuna comunicazione in proposito. All’udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza l’avv. (Omissis) non compariva
e il Tribunale nominava, quale sostituto del difensore d’ufficio, ai sensi dell’art. 97, comma 4, c.p.p.,
l’avv. (Omissis), il quale non formulava alcuna eccezione circa il mancato avviso dell’udienza ai difensori di fiducia.
2. Avverso l’ordinanza, deliberata dal Tribunale di sorveglianza il 19 giugno 2013 e depositata il successivo 21 giugno, (Omissis) proponeva personalmente ricorso per cassazione, eccependo la nullità del
provvedimento per omesso avviso della udienza di trattazione del reclamo ai difensori di fiducia, avvocati (Omissis) ed (Omissis).
3. Il ricorso veniva assegnato alla Prima Sezione della Corte di cassazione che, con ordinanza del 16
dicembre 2014, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite.
4. Preliminarmente il Collegio rilevava che la questione concernente il mancato avviso all’avv.
(Omissis) dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale appariva assorbente rispetto alla mancata comunicazione al codifensore di fiducia, avv. (Omissis), cui, secondo il Collegio, non spettava alcun avviso, essendo tale seconda designazione avvenuta dopo la spedizione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale (Sez. I, 23 aprile 2008, n. 19442, Errante, Rv. 240289).
4.1. Così circoscritta la questione, il Collegio osservava che l’omissione dell’avviso dell’udienza camerale all’avv. (Omissis) comportava, in linea di principio, la nullità generale del procedimento camerale e del relativo provvedimento conclusivo, in quanto l’art. 666 c.p.p. (richiamato dall’art. 678 c.p.p.)
prevede ai commi 3 e 4 (salvi i casi contemplati dal comma 2) il procedimento camerale partecipato, ai
sensi dell’art. 127 c.p.p., con l’avviso dell’udienza alle parti e ai difensori e con l’ulteriore requisito
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA L’OMESSO AVVISO AL DIFENSORE
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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dell’intervento necessario del difensore e del pubblico ministero. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, le comminatorie di nullità di ordine generale e quelle di carattere assoluto, rilevabili
d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi degli artt. 178 e 179 c.p.p., trovano applicazione anche nei procedimenti camerali partecipati di esecuzione e sorveglianza per effetto della estensiva
interpretazione delle suddette disposizioni generali, concernenti l’intervento e l’assistenza dell’imputato ovvero l’assenza del suo difensore. Muovendo da tali generali e non controverse premesse in diritto, la Prima Sezione osservava che si trattava di stabilire se la nullità in parola avesse un carattere assoluto o, invece, intermedio con conseguente sanatoria ex art. 182 c.p.p. per effetto dell’acquiescenza difensiva e della decadenza della parte dal diritto di far valere l’invalidità. Evidenziava che su tale problematica esisteva un contrasto di giurisprudenza.
4.2. Secondo un primo indirizzo, la mancanza di difesa tecnica prevista dall’art. 179, comma 1, c.p. si
verifica non solo nel “caso estremo” del dibattimento svolto in assenza di “qualunque” difensore, ma
anche nel caso in cui il difensore di fiducia, non presente perché non avvisato, venga sostituito dal difensore d’ufficio; di conseguenza, l’omessa notifica dell’avviso dell’udienza al difensore di fiducia deve
ritenersi causa di nullità assoluta ed insanabile. Nell’ottica dell’art. 179, comma 1, c.p.p., l’intervento del
difensore d’ufficio è irrilevante, in quanto il soggetto difeso non deve essere privato del diritto di affidare la propria difesa alla persona che riscuote la sua fiducia e che abbia avuto la possibilità di prepararsi adeguatamente nel termine stabilito per la comparizione (Sez. III, 14 gennaio 2009, n. 6240 Plaka,
Rv. 242530; Sez. I, 28 marzo 2014, n. 20449, Zambón, Rv. 259614; Sez. IV, 06 dicembre 2013, n. 7968, dep.
2014, Di Mattia, Rv. 258615).
4.3. Alla stregua di un diverso orientamento, invece, il mancato avviso al difensore di fiducia nominato tempestivamente produce la nullità generale a regime intermedio di cui all’art. 178, comma 1, lett.
c), c.p.p. A sostegno di tale tesi viene richiamata una decisione delle Sezioni Unite che ha qualificato
come nullità generale a regime intermedio, con conseguente possibilità di sanatoria in difetto di mancata tempestiva eccezione a opera della parte privata assistita o del difensore designato d’ufficio, il mancato avviso al difensore di fiducia, nominato dall’indagato detenuto ai sensi dell’art. 123 cod. proc. pen.,
dell’interrogatorio di garanzia (Sez. Un., del 26 marzo 1997, n. 2, Procopio, Rv. 208269). Tale decisione è
stata richiamata da pronunce (Sez. II, 14 luglio 2009, n. 34167, Pellegrino, Rv. 245242; Sez. 2, 23 novembre 2004, n. 36, dep. 2005, Medile Rv. 230225) che, in ordine all’interpretazione della locuzione “suo difensore” contenuta nell’art. 179 c.p.p., hanno affermato che l’assenza rilevante riguarda il professionista
che assicura la difesa tecnica, a prescindere dall’intervenuta nomina fiduciaria, in quanto, nel disegno
del codice, le due figure sono equiparate, sicché il silenzio della legge in ordine ad un’eventuale differenziazione di regime giuridico depone decisivamente per l’evocazione delle figura unitaria del difensore, comprensiva sia di quello di fiducia che di quello d’ufficio. Di conseguenza, l’omesso avviso al difensore di fiducia della data fissata per l’udienza concreta indubbiamente una nullità di ordine generale
prevista nell’art. 178 c.p.p., in quanto attinente all’assistenza dell’imputato. Non si tratta, tuttavia, di
una nullità assoluta, perché non ricompresa nella dizione dell’art. 179 c.p.p., bensì a regime intermedio
e, pertanto, soggetta alla disposizione di cui all’art. 182, comma 2, c.p.p., secondo cui la nullità di un atto deve essere eccepita dalla parte che vi assiste prima del suo compimento ovvero, quando ciò non è
possibile, subito dopo, laddove il termine “parte” si riferisce tanto all’imputato che al suo difensore. Il
profilo concernente l’equiparazione tra difensore di fiducia e quello d’ufficio è stato affrontato da altre
decisioni (Sez. I, 01 ottobre 2014, n. 52408, Depalmas, n.m.; Sez. 2, 23 novembre 2004, n. 36, dep. 2005,
Medile, Rv. 230225), secondo cui il vigente codice di procedura penale ha profondamente innovato
quello precedente e, ispirandosi all’esigenza di assicurare la concreta e efficace tutela dei diritti
dell’imputato, ha attuato la sostanziale equiparazione della difesa d’ufficio a quella di fiducia. Rilevano,
in proposito, che il difensore di fiducia e quello d’ufficio hanno ormai gli stessi diritti e doveri e ambedue devono tutelare l’intera situazione processuale e sostanziale dell’assistito nel superiore interesse
del ministero difensivo. Osservano, altresì, che la verifica dell’omessa citazione del difensore di fiducia
non è sottratta al difensore d’ufficio che ha l’obbligo di assolvere con diligenza minima i propri doveri
istituzionali.
4.4. L’ordinanza di rimessione, nell’aderire a tale secondo indirizzo interpretativo, argomentava che
l’inosservanza delle disposizioni concernenti l’avviso al difensore di fiducia dell’imputato e la sua partecipazione all’udienza non sono oggetto di una “specifica” previsione sanzionatrice e che, pertanto,
l’invalidità in parola deve essere ricondotta nel novero di quelle contemplate dall’art. 178, comma 1,
lett. c), c.p.p., ostando il principio di tassatività alla ulteriore qualificazione della stessa come assoluta.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA L’OMESSO AVVISO AL DIFENSORE
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Essa valorizza, inoltre, il tenore letterale dell’art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p., che connette la nullità assoluta all’assenza del difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza. Pertanto la presenza del difensore, sia esso di fiducia che d’ufficio, esclude la nullità assoluta. Privo di fondamento sia grammaticale che logico-sistematico viene ritenuto l’assunto che l’aggettivo possessivo “suo” contenuto nella disposizione, siccome riferito all’imputato e connotante il nome "difensore", valga a conferire al sostantivo il significato di difensore di fiducia. Osserva, inoltre, che qualificando come insanabile e rilevabile
d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento la nullità derivante dall’assenza del difensore di fiducia
nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza, si giungerebbe alla conclusione assurda e inaccettabile di
escludere la nullità assoluta nei casi in cui, in difetto della nomina di alcun difensore di fiducia,
l’udienza sia celebrata senza avviso e senza l’intervento del difensore d’ufficio, nonostante l’obbligatorietà dell’assistenza difensiva. Il Collegio, pertanto, conclude nel senso che la previsione di nullità assoluta contenuta nell’art. 179, comma 1, c.p.p., riguarda il caso della “oggettiva assenza” del difensore
dell’imputato, a nulla rilevando che si tratti del difensore di fiducia ovvero d’ufficio. Precisando, altresì,
che negare alla invalidità in esame carattere assoluto non significa compromettere la tutela del diritto di
scelta del difensore fiduciario, che, comunque, se violata, potrà essere fatta valere dall’imputato, se presente, ovvero dal difensore d’ufficio. Inoltre, sotto il profilo della necessità di assicurare “adeguata preparazione della difesa”, ricorda che anche il difensore d’ufficio ha il dovere professionale di preparare
adeguatamente la difesa e che, comunque, la legge riconosce a quest’ultimo, all’art. 108, comma 1,
c.p.p., il diritto ad un termine congruo per l’adempimento del suo ministero. La configurazione di una
nullità assoluta è prospettabile solo nel caso della «radicale e oggettiva assenza del ministero difensivo
dovuto». Nel sistema processuale, infatti, le nullità assolute si correlano soltanto a “patologie radicali”
del processo, che, impedendone la “reale” evoluzione, ne consentono uno svolgimento solo “apparente”, senza un giudice “capace”, ovvero senza l’iniziativa del pubblico ministero, senza la citazione
dell’imputato o senza la partecipazione del difensore quando questa sia obbligatoria. Ne consegue che
non sono assimilabili – in quanto integranti situazioni processuali del tutto diverse, anche in relazione
alla concreta incidenza sul diritto di difesa – le ipotesi di procedimento svoltosi in assenza della prescritta partecipazione di alcun difensore (e quindi senza difesa tecnica) e quelle del processo celebrato
con l’intervento del difensore d’ufficio, sebbene con inosservanza delle disposizioni relative all’avviso
(ed alla conseguente partecipazione) del difensore di fiducia erroneamente pretermesso. L’opzione ermeneutica della “proliferazione” delle nullità assolute oltre i casi tassativamente contemplati dalle
norme, estendendo l’intrinseca insanabilità del vizio oltre le reali ipotesi di “radicalità della patologia”,
contraddice l’essenza stessa del processo e ne compromette gli equilibri, aprendo il varco «alla opportunistica scelta delle parti sull’a/7 e sul quando far valere l’invalidità in funzione del pronostico della
decisione», in contraddizione con i canoni di economia ed efficienza processuali del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, sancito dall’art. Ili, secondo comma, ultimo inciso, Cost.,
il quale comporta, anche a carico della difesa, l’essenziale onere dell’esercizio dei relativi diritti «nelle
forme e nei tempi stabiliti dalla legge».
5. Con decreto del 26 marzo 2015 il Primo Presidente disponeva l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, per l’esame del seguente quesito di diritto: «Se l’omesso avviso dell’udienza al difensore di
fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dai condannato integri una nullità assoluta o, invece, una nullità generale a regime intermedio, che può essere sanata ai sensi dell’art. 182, commi 2 e 3,
cod. proc. pen., per effetto dell’acquiescenza del difensore d’ufficio e della decadenza della parte dal diritto di far valere l’invalidità». Per la trattazione del ricorso veniva fissata l’odierna udienza in camera
di consiglio.
6. Il 9 marzo 2015 l’avv. Giovanni Gentilini, nominato nel frattempo da (Omissis) quale proprio difensore di fiducia, depositava un’articolata memoria difensiva con la quale criticava gli argomenti illustrati dalla Prima Sezione nell’ordinanza di rimessione a sostegno della tesi della nullità generale a regime intermedio. Contestava il rilievo preminente attribuito alla partecipazione all’udienza camerale di
un difensore, a prescindere dal fatto che si tratti di quello di fiducia scelto dall’interessato o di quello
designato d’ufficio dal giudice, attesa l’obiettiva diversa valenza di una nomina fiduciaria rispetto a
quella effettuata d’ufficio, come del resto desumibile, dalla legislazione più recente (d.l. 21 febbraio
2005, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 aprile 2005, n. 60). In secondo luogo confutava ¡I
rilievo esclusivo attribuito alla sola assenza del difensore (sia esso di fiducia o di ufficio), nei casi in cui
ne è obbligatoria la presenza, piuttosto che alla mancata partecipazione del legale specificamente designato dall’interessato, investito di un mandato fiduciario e onerato di obblighi ben più intensi e pregnanti, maggiormente idonei a garantire in maniera effettiva il diritto di difesa. Osservava, inoltre, che
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la compressione del valore della funzione difensiva alla solo assenza o presenza in udienza offre una
visione riduttiva costituzionalmente tutelato, insensibile a ciò che precede l’udienza stessa e che costituisce il logico presupposto del buon esito della stessa. È, dunque, evidente che nel concetto di assenza
deve ricomprendersi l’antecedente logico della citazione. Non avrebbe, del resto, alcun senso la previsione di rimedi operanti su piani diversi a favore di soggetti (imputato, ricorrente, suo difensore), la cui
regolare costituzione in giudizio è, invece, ugualmente indispensabile. L’omessa citazione del difensore
scelto dall’interessato deve, pertanto, ritenersi assorbita dalla sua conseguente assenza, a fronte della
quale deve operare la massima tutela anche alla luce del canone costituzionale di riferimento e di quello
i sovranazionale di fonte convenzionale.
In subordine prospettava questione di legittimità costituzionale dell’art. 179 c.p.p. in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 117 Cost. in relazione all’art. 6, par.
3, lett. c), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è il seguente: «Se l’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato integri una nullità assoluta o, invece, una nullità generale a regime intermedio, che può essere sanata ai
sensi dell’art. 182, commi 2 e 3, c.p.p., per effetto dell’acquiescenza del difensore d’ufficio e della decadenza della parte dal diritto di far valere l’invalidità.
2. Il Collegio preliminarmente osserva che la questione sottoposta al suo esame deve essere circoscritta al mancato avviso dell’udienza camerale all’avv. (Omissis), nominato da (Omissis) quale proprio
difensore di fiducia prima dell’emissione del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza dinanzi al
Tribunale di sorveglianza.
L’avviso al codifensore di fiducia, avv. (Omissis), non era, infatti, dovuto, atteso che la relativa nomina era intervenuta dopo l’adozione del decreto di fissazione dell’udienza camerale. A tale riguardo
deve essere ribadito il principio, già in precedenza affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui l’avviso di fissazione dell’udienza deve essere effettuato al difensore di fiducia dell’imputato
che rivestiva tale qualità all’atto della fissazione dell’udienza e non anche all’avvocato che acquisti solo
successivamente tale veste, in quanto con l’emissione dell’avviso si cristallizza la situazione processuale
relativa agli adempimenti di cancelleria (v. Sez. Un., 06 luglio 1990, n. 8, Scarpa, Rv. 185438; e, tra le altre, Sez. VI, 24 febbraio 2003, n. 18360, D’Ottavi, Rv. 225895; Sez. 5, 08 novembre 2004, n. 48088, Stefanelli, Rv. 230511; Sez. I, 23 aprile 2008, n. 19442, Errante, Rv. 240289 in tema di procedimento di sorveglianza). Pertanto, in caso di nomina formalizzata successivamente alla notificazione dell’avviso di
udienza, il difensore scelto dall’imputato ha il diritto di intervenire alla stessa, ma non di essere avvisato, spettando al suo assistito informarlo della relativa data (Sez. VI, 27 maggio 2008, n. 27059, Skuqi, Rv.
240582 in tema di udienza di convalida; Sez. I, 03 marzo 2009, n. 20788, Romeo, Rv. 243676).
3. Il corretto inquadramento delle problematiche sottoposte all’esame del Collegio richiede una
premessa. L’art. 2, punto 96, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, impone nella fase di esecuzione,
con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene, «garanzie di giurisdizionalità» consistenti nella
«necessità del contraddittorio e nell’impugnabilità dei provvedimenti».
Finalità del legislatore delegante è quindi il rispetto integrale – e senza possibilità di distinzioni tra le diverse misure – delle garanzie
costituzionali del diritto di difesa e della tutela della libertà personale anche nella fase esecutiva della
pena, in coerenza con il progetto rieducativo che questa sottende, nel porsi non più soltanto come giusta, ma anche come utile. La natura sostanzialmente fiduciaria del permesso e il suo carattere di premialità progressiva non valgono tuttavia a consentire l’esclusione del beneficio dall’ambito della esecuzione, attesa l’ampia accezione che la delega conferisce a tale categoria, indistintamente richiamandovi
«i provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza» (Corte cost., sentenze, n. 188/1990; n.
53/1993). Ne consegue che la regola processuale non può difettare dei requisiti, posti come necessari,
della vocatio in ìus, dell’appagamento integrale dell’esigenza di contraddittorio, dell’impugnabilità del
provvedimento (Corte cost., sent. n. 53/1993). Il carattere giurisdizionale sia dei procedimenti di concessione o diniego dei permessi premio sia della procedura del reclamo davanti al tribunale di sorveglianza (Corte cost., sentenze nn. 349/1993, 227/1995, 504/1995, 235/1996) comportano che l’autorità
giudiziaria, nel decidere il detto reclamo, debba applicare il modulo operativo delineato dal combinato
disposto degli artt. 666 e 678 c.p.p., garantendo quindi il diritto di difesa e il contraddittorio.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA L’OMESSO AVVISO AL DIFENSORE
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4. Nell’ambito del procedimento di sorveglianza l’udienza costituisce il “baricentro”, in quanto in tale fase procedimentale si sviluppa e si esaurisce tutta la dialettica probatoria. Nonostante la specificità
del rito di sorveglianza rispetto a quello più generale dell’esecuzione e la peculiarità della “giurisdizione rieducativa”, la regolamentazione del relativo procedimento è racchiusa in alcune norme di carattere
generale, comuni anche al procedimento di esecuzione (artt. 666, commi 5 e 9, cui va aggiunto l’art. 185
disp. att. c.p.p.), e in una sola disposizione dedicata (art. 678, comma 2, che impone l’acquisizione della
documentazione nel caso di decisione riferita a soggetto sottoposto ad osservazione scientifica della
personalità). Mancando, quindi, una regolamentazione apposita della fase di maggior rilievo del procedimento di sorveglianza e risultando incompleta la stessa disciplina contenuta nell’art. 666 c.p.p. (applicabile in virtù dell’espresso richiamo presente nell’art. 678, comma 1, c.p.p.), è indispensabile, come
osservato da autorevole dottrina, il ricorso ad una pluralità di fonti, opportunamente interpretate anche
allo scopo di colmare inevitabili lacune. Atteso che, come si evince dal combinato disposto degli artt.
678, comma 1, e 666, comma 3), l’udienza si svolge in camera di consiglio, il modello di riferimento è
costituito dall’art. 127 c.p.p. Il codice di rito ha predisposto un modello generale di procedimento in
camera di consiglio, descritto nell’art. 127 c.p.p., la cui disciplina di base, diretta ad esaltare i profili di
garanzia del contraddittorio orale mediante la partecipazione, eventuale, delle parti, sembra, in linea di
principio, applicabile in ogni ipotesi di specie, ove non sia diversamente previsto. Nel caso in cui, quindi, in una disposizione di legge sia previsto che la decisione del giudice debba essere emessa “in camera
di consiglio” e non sia diversamente stabilito, trovano applicazione per relationem la procedura e le forme di base stabilite dall’art. 127 (Sez. Un., 28 maggio 2003, n. 26156 Di Filippo, Rv. 224612-13). Innegabilmente all’interno del sistema – il quale spesso denuncia una tecnica legislativa frammentaria ed eterogenea – si atteggiano variamente, oltre al modello camerale tipico delineato dall’art. 127 c.p.p., schemi procedimentali atipici, a seconda del differente grado di garanzia del contraddittorio che in essi è
assicurato. Nel caso in esame, l’art. 666, comma 4, c.p.p. delinea un modello camerale a contraddittorio
orale necessario, per il quale è prevista un’obbligatoria partecipazione all’udienza delle parti tecniche
(pubblico ministero e difensore), mentre la partecipazione dell’interessato, per dichiarate ragioni organizzative, è soggetta alle regole fissate dai commi 3 e 4 dell’art. 127 c.p.p.
5. Posta, quindi, l’obbligatorietà della partecipazione del difensore alla camera di consiglio che si celebra dinanzi al tribunale di sorveglianza, si tratta di stabilire quali conseguenze derivino dal mancato
avviso di un’udienza camerale al difensore di fiducia, tempestivamente nominato dal condannato in
data anteriore al provvedimento di fissazione dell’udienza, e dalla partecipazione all’udienza, ai sensi
dell’art. 97, comma 4, c.p.p., di un difensore immediatamente reperibile, in sostituzione di quello d’ufficio – nominato sulla base dell’erroneo presupposto della mancata scelta fiduciaria – ritualmente avvisato, che non eccepisca la nullità. Ciò che viene in rilievo è, pertanto, il “collegamento” tra omesso avviso al difensore di fiducia e la sua assenza nei casi in cui la presenza del difensore sia prevista dal legislatore come necessaria, al fine di valutare se l’ipotesi di nullità assoluta prevista dall’art. 179 c.p.p. riguardi soltanto la celebrazione di un’udienza senza “alcun” difensore o, anche, quella dell’udienza
svolta alla presenza di “altro” difensore, diverso da quello nominato dall’imputato e, per mero errore,
non regolarmente avvisato. Si tratta in particolare di stabilire se “l’assenza” cui si riferisce la norma citata sia da riferire soltanto a chi “doveva essere presente perché nominato”, ma non è stato avvisato.
6. Il Titolo VII del Libro I del codice di rito ha ridisegnato in maniera significativa la normativa generale sul difensore, quale soggetto del processo, mediante tredici articoli, tutti caratterizzati da una netta
opzione in favore dell’indisponibilità della difesa tecnica, che si connota non solo come diritto, ma anche come garanzia di ordinamento, e racchiude distinti profili, tra loro complementari. Alcune disposizioni declinano la difesa tecnica come diritto di disporre di un difensore, scelto liberamente dall’interessato o, in mancanza di designazione fiduciaria, nominato d’ufficio dal giudice (artt. 96, 97, comma
4, 102, 107, comma 4) che possa svolgere la sua attività con carattere di stabilità lungo l’intero arco del
processo, finché duri il rapporto fiduciario sotteso alla sua nomina oppure – in caso di difensore d’ufficio – in base ai criteri oggettivi che presiedono alla sua individuazione. Vengono al riguardo in rilievo
le seguenti disposizioni: art. 96, in tema di nomina; art. 107, comma 4, che attribuisce all’interessato facoltà di revoca in ogni momento; artt. 97, comma 4, e 102 relativi alla sostituzione del difensore; art. 97,
comma 5, che sancisce l’immutabilità del difensore d’ufficio. Altre norme delineano l’aspetto dinamicofunzionale della difesa tecnica, garantendo la sua effettività, agevolandone l’esercizio e tutelando la libertà del difensore (artt. 103, 105, 107 c.p.p.). Sono riconducibili ai primi due profili gli artt. 97, c.p.p.,
26, comma 2, 28, 29, 30, 31 disp. att. c.p.p., in tema di difesa d’ufficio, l’art. 99 c.p.p., che estende al di-
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fensore le facoltà e i diritti riconosciuti dalla legge all’imputato, l’art. 106 c.p.p., relativo all’incompatibilità della difesa di più imputati nello stesso procedimento, l’art. 108 c.p.p., che assicura il diritto
ad un termine a difesa per il nuovo difensore in caso di rinuncia, revoca, incompatibilità e abbandono,
l’art. 104 c.p.p., che regola i colloqui tra difensore e imputato (o indagato) detenuto, l’art. 105 c.p.p., che
configura come illecito disciplinare l’abbandono della difesa. S’inquadrano nell’esigenza di tutela della
libertà del difensore gli artt. 103 c.p.p., in tema di libertà domiciliare, di corrispondenza o di documentazione difensiva, quali pre-condizioni di riservato svolgimento dell’attività difensiva, 105, commi 1-3,
c.p.p., che riserva ai Consigli dell’ordine forensi la cognizione degli illeciti disciplinari in tema di abbandono o rifiuto della difesa, l’art. 107 c.p.p., che assicura al difensore nominato di fiducia la facoltà di
non accettare l’incarico e, una volta accettato, di rinunciarvi. Il complesso delle disposizioni sinora richiamate è accomunato da una trama unitaria, ossia la configurazione della difesa tecnica come un diritto che non soffre, in linea di principio, alcuna limitazione in rapporto alle fasi procedimentali e che si
atteggia, in primo luogo, come libertà di scegliere un difensore di fiducia.
7. Una conclusione del genere è avvalorata dalla lettura logico-sistematica degli artt. 96 e 97 c.p.p.
che regolano la difesa tecnica, il ruolo e la funzione del difensore. L’art. 96, che precede significativamente l’altro, nel disciplinare l’atto di investitura del difensore di fiducia, delinea quale paradigma
normativo la libera scelta dell’avvocato da parte dell’imputato. L’art. 97, comma 1, a sua volta, prevede
la designazione del difensore d’ufficio solo in via residuale, qualora l’imputato non abbia nominato un
difensore di fiducia o ne sia “rimasto privo” (v. art. 96, comma 1, riferito ai casi di definitiva cessazione
dell’assistenza fiduciaria per revoca, rinuncia, morte, ecc.) e, in tale ottica, stabilisce che essa avvenga o
per effetto di un provvedimento dell’autorità giudiziaria o, in taluni casi, della sua collocazione in appositi elenchi e della individuazione all’interno di essi. Il ricorso al difensore d’ufficio interviene, quindi, quando l’imputato non ne ha nominato uno di fiducia o ne è rimasto privo (commi 1 e 3). La previsione segnala, quindi, la sussidiarietà della difesa d’ufficio, considerato che essa opera subordinatamente all’assenza di un’opzione fiduciaria e che la presenza del difensore d’ufficio si pone non quale alternativa, bensì come ipotesi subordinata alla reale mancanza del difensore di fiducia (Sez. Un., 30 ottobre
2002, n. 39414, Arrivoli, Rv. 222554; Sez. Un., 17 ottobre 2006, n. 41280, Clemenzi, Rv. 234905; Sez. Un.,
16 luglio 2009, n. 39060, Aprea, Rv. 244187) o al suo venire meno. Tale carattere è ribadito dalla regola
secondo cui la difesa d’ufficio cessa quando la parte nomina un professionista di sua scelta. In coerenza
con questa impostazione sistematica, l’art. 97, comma 4, nel pieno rispetto del principio di immutabilità
della difesa (Sez. Un., 11 novembre 1994, n. 22, Nicoletti, Rv. 199398; Sez. Un., 09 luglio 2003, n. 35402,
Mainente, Rv. 225362), limita la possibilità di designare come sostituto un difensore immediatamente
reperibile ai soli casi – specificamente indicati e insuscettibili di interpretazione estensiva – in cui il legale dell’imputato non è stato reperito, non è comparso o ha abbandonato la difesa o a fattispecie che
presuppongo un avviso regolarmente dato. La ratio dell’art. 97 c.p.p. non risiede soltanto nell’esigenza
di adempiere ad un presupposto “formale” previsto dal legislatore per la regolarità di molti passaggi
procedurali, ma nella necessità di assicurare l’effettività del diritto di difesa (Corte cost., ord. n.
219/2004; sent. n. 148/2005). Anche la disciplina contenuta nelle disposizioni di cui agli artt. 28 e 29
disp. att. c.p.p. – riguardanti, rispettivamente, gli obblighi di comunicazione “senza ritardo” del nominativo del difensore, da parte dell’autorità giudiziaria all’imputato e i criteri di individuazione dei professionisti nominabili – sono espressione del suddetto principio di effettività che deve caratterizzare anche la difesa d’ufficio. Con specifico riguardo al difensore di fiducia, la nomina di un sostituto si giustifica con il fatto che la mancata comparizione non può far presumere di per sé, in assenza di altri elementi obiettivi di segno contrario, la cessazione del rapporto fiduciario. In difetto di revoca del difensore di fiducia, resta ferma la titolarità del diritto di difesa dell’avvocato originariamente scelto dall’imputato che, una volta cessata la situazione che aveva dato luogo alla sostituzione, riprende il suo ruolo automaticamente (Sez. II, 19 novembre 2004, n. 47978, Elia, Rv. 231278; Sez. 3, 13 marzo 2007, n. 26076,
Shehu, Rv. 237201). L’introduzione della figura del sostituto del difensore d’ufficio è anch’essa ispirata
al medesimo principio di immutabilità della difesa. Il tenore letterale e logico-sistematico dell’art. 97,
comma 4, rende, quindi, evidente che tutte le ipotesi di sostituzione da esso disciplinate presuppongono, in ogni caso, un regolare avviso e che una sostituzione effettuata in assenza delle condizioni di legge è illegittima, in quanto, da un lato, confligge con il principio d’immutabilità del difesa e, dall’altro,
pregiudica l’attività preparatoria della difesa, imprescindibile in un processo di parti.
8. Alla stregua delle argomentazioni sinora svolte deve essere affermato il seguente principio di diritto: «La nomina di un sostituto processuale del difensore di fiducia scelto dall’imputato o del difensoAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA L’OMESSO AVVISO AL DIFENSORE
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re d’ufficio designato dal giudice presuppone un regolare avviso ai titolari del diritto di difesa ed è
consentita solo nelle ipotesi tassativamente elencate dall’art. 97, comma 4, cod. pro. pen.».
9. Nel caso in esame, la designazione, da parte del Presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino, dell’avv. (Omissis) quale difensore d’ufficio di (Omissis) è illegittima per assenza dei presupposti
stabiliti dall’art. 96, comma 1, c.p.p., avendo il detenuto scelto, quale suo difensore di fiducia, l’avv.
(Omissis) con dichiarazione espressa apposta in calce all’atto di reclamo. È, altresì, illegittima, per assenza della precondizione del regolare avviso al difensore di fiducia, tempestivamente nominato, della
data di celebrazione dell’udienza camerale dinanzi al Tribunale di sorveglianza, nonché del presupposto per la nomina di un sostituto processuale ai sensi dell’art. 97, comma 4, c.p.p.
10. Posto che anche nei procedimenti camerali partecipati di esecuzione e di sorveglianza trovano
applicazione le comminatorie di nullità di ordine generale e quelle di carattere assoluto, rilevabili
d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, concernenti l’intervento e l’assistenza dell’imputato
ovvero l’assenza del suo difensore, si tratta di stabilire se la nullità verificatasi nel caso in esame abbia
carattere assoluto o, invece, intermedio, con conseguente sanatoria ex art. 182 c.p.p. per effetto
dell’acquiescenza difensiva e della decadenza della parte dal diritto di far valere l’invalidità.
Sulla questione si registra un contrasto interpretativo.
10.1. Un primo orientamento ritiene che possa parlarsi di assenza della difesa tecnica non solo nei
casi in cui all’udienza non partecipi alcun difensore (sia esso di fiducia o di ufficio), ma anche qualora il
difensore, non presente in quanto non avvisato, venga sostituito dal difensore d’ufficio. Non esiste, infatti, equipollenza tra il difensore di fiducia e quello d’ufficio, non potendosi privare la persona interessata del diritto di scegliere un avvocato di sua fiducia e di preparare tempestivamente la sua difesa.
Pertanto la nullità assoluta derivante dal mancato avviso dell’udienza al difensore di fiducia, ai sensi
del combinato disposto degli artt. 179, comma 1, e 178, comma 1, lett. c), c.p.p., non può essere sanata
dall’intervento del difensore d’ufficio (tra le più recenti, Sez. 3, 14 gennaio 2009, n. 6240, Plaka, Rv.
242530; Sez. 1, 11 novembre 2011, n. 43095, Mastrone, Rv. 250997; Sez. 3, 11 ottobre 2012, n. 46714, Ermonsele, Rv. 253873; Sez. 4, 06 dicembre 2013, n. 7968, dep. 2014, Di Mattia, Rv. 258615, Sez. 1, 16 maggio 2014, n. 20449, Zambón, Rv. 259614; Sez. 1, 05 novembre 2014, n. 6392, dep. 2015, Di Palma, n.m.).
10.2. Un diverso indirizzo, valorizzando il tenore letterale dell’art. 179 c.p.p. e, in particolare,
l’espressione “assenza del suo difensore” ivi contenuta, argomenta che la disposizione in esame fa riferimento indistinto e promiscuo tanto al difensore d’ufficio che a quello di fiducia e che, in tale ottica,
l’assenza rilevante è quella del professionista che assicura la difesa tecnica, a prescindere dalla specifica
qualità che egli riveste, atteso che, nel disegno del codice, le due figure sono equiparate e riconducibili
ad una figura unitaria. Si osserva, inoltre, che il difensore di fiducia e quello d’ufficio hanno gli stessi
diritti e doveri e che ambedue devono tutelare l’intera situazione processuale e sostanziale dell’assistito
nel superiore interesse del ministero difensivo. Anche il difensore d’ufficio ha l’obbligo di assolvere con
diligenza minima i suoi doveri istituzionali ed è, pertanto, tenuto a verificare l’omessa citazione del difensore di fiducia (Sez. 2, 23 novembre 2004, n. 36, dep. 2005, Medile, Rv. 230225; Sez. 2, 14 luglio 2009,
n. 34617, Pellegrino, Rv. 245242). Si aggiunge che, in relazione all’inosservanza delle disposizioni delle
disposizioni concernenti l’avviso al difensore di fiducia dell’imputato e la sua partecipazione all’udienza manca una specifica previsione sanzionatrice (Sez. 5, 18 febbraio 1997, n. 2317, Santoro, Rv. 207011).
Ne consegue che, se pacificamente l’invalidità in parola è riconducibile nel novero di quelle contemplate dall’art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p., in quanto ricorre l’inosservanza delle disposizioni concernenti
l’assistenza dell’imputato, il principio di tassatività, stabilito dall’art. 177, comma 1, c.p.p. osta alla ulteriore qualificazione della suddetta nullità generale come assoluta.
10.3. Il Collegio ritiene di aderire al primo dei due orientamenti esegetici, per le ragioni di seguito esposte.
11. Alla distinzione delle tipologie di nullità dell’atto processuale incentrata sulla tecnica di previsione normativa della sanzione si accompagna una diversità dei rispettivi regimi di trattamento che, delineando i diversi livelli di incidenza del vizio dell’atto sul procedimento in corso, esprime la rilevanza
dell’interesse che la comminatoria di nullità tende a salvaguardare. Esiste, quindi, un preciso nesso tra
scelte legislative in tema di sanzioni derivanti dall’inosservanza dei precetti che regolano le modalità di
esercizio delle prerogative processuali e principi costituenti il cardine dell’ordinamento processuale. Il
codice di rito prevede una tripartizione delle nullità in assolute, a regime intermedio, relative, in base
ad un ordine decrescente di gravità del vizio che si riflette sulla possibilità di sanatoria e sui limiti temporali di incidenza sul procedimento in corso. Per ciascuna ipotesi di nullità legislativamente prevista si
pone, quindi, il problema della sussumibilità in una delle tre categorie al fine di stabilire il relativo trat-
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tamento. Gli artt. 178, 179, 180, 181 c.p.p. delineano un percorso interpretativo basato su passaggi logici
consequenziali. Laddove la disposizione violata manchi di un esplicito riferimento al regime della nullità derivante dalla sua trasgressione, la sua riconducibilità all’ambito regolato dagli artt. 178 e 179 c.p.p.
circoscrive il campo d’indagine alle nullità di tipo assoluto o intermedio. Qualora, invece, la norma non
contempli una nullità di tipo assoluto come conseguenza della sua inosservanza e la stessa non sia inquadrabile nell’ambito degli artt. 178 e 179 c.p.p., la sanzione comminata dalla legge deve intendersi assoggettata al regime regolato, per le nullità relative, dall’art. 181 c.p.p. I tratti distintivi delle nullità assolute sono costituiti dalla insanabilità del vizio e dalla sua rilevabilità in ogni stato e grado del procedimento. Con riguardo al primo aspetto, la difformità tra modello astratto di riferimento ed atto compiuto è così radicale da precludere l’operatività di una delle sanatorie generali o speciali previste dagli
artt. 183 e 184 c.p.p. In relazione al secondo profilo, l’insanabilità del vizio trova il suo limite preclusivo
nel perfezionarsi del giudicato, pur se con alcuni temperamenti (art. 627, comma 4, che preclude, nel
giudizio di rinvio, la rilevabilità delle nullità intervenute nelle precedenti fasi procedimentali; art. 129
c.p.p. che, in presenza di una causa estintiva del reato e di una nullità processuale, impone al giudice
procedente di attribuire prevalenza alla prima, salvo che la sua operatività non presupponga specifici
accertamenti e valutazioni riservate al giudice di merito). Le ipotesi di nullità prefigurate nell’art. 178,
comma 1, lett. c), c.p.p., cui l’art. 179 c.p.p. ascrive il carattere di assolutezza, riguardano l’omessa citazione dell’imputato o l’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza. A
quest’ultimo proposito si osserva che la corretta perimetrazione della previsione normativa comporta la
ricognizione delle ipotesi in cui il codice di rito richiede che il compimento di determinate attività di rilievo processuale avvengano in forma assistita o partecipata. Devono, infatti, escludersi dall’ambito di
operatività della previsione legislativa i casi in cui la legge, pur connotando di obbligatorietà l’avviso al
difensore, rimette alla discrezionalità di quest’ultimo la scelta di essere presente o meno.
12. Da un punto di vista letterale e logico-sistematico, il concetto di “assenza”, che ricorre nell’art.
179, comma 1, c.p.p., si riferisce alla situazione dell’avvocato che dovrebbe essere presente e non lo è e,
quindi, del difensore già nominato la cui mancata partecipazione è ascrivibile all’omissione dell’avviso
a lui dovuto. L’altro dato testuale (“suo difensore”), presente nella medesime disposizione di legge,
evoca la preesistenza di un rapporto finalizzato ad assicurare la difesa tecnica all’interessato – a prescindere dalla circostanza che si tratti di una nomina fiduciaria o di una designazione officiosa – che
funge da parametro di riferimento per verificare la legittimità del pregresso iter procedimentale. Pertanto la nullità assoluta prevista dall’art. 179, comma 1, c.p.p. non concerne soltanto l’assoluta mancanza di difesa tecnica, ma si riferisce anche alla partecipazione all’espletamento dell’atto di un difensore
diverso da quello di fiducia o d’ufficio, che sia rimasto assente per non essere stato avvisato nei modi
stabiliti dalla legge. Non pertinenti appaiono, quindi, in proposito le considerazioni svolte sul punto
nell’ordinanza di rimessione. Come in precedenza ricordato, lo stesso art. 97, comma 4, c.p.p., in coerenza con il principio di immutabilità della difesa, limita la possibilità di designare come sostituto un
difensore immediatamente reperibile ai soli casi in cui il legale dell’imputato non sia stato reperito, non
sia comparso, abbia abbandonato la difesa o a fattispecie che presuppongono un avviso regolarmente
dato. Pertanto, in presenza di una pregressa e tempestiva nomina fiduciaria che non sia stata erroneamente tenuta presente dal giudice ai fini del prescritto avviso di fissazione dell’udienza, non è consentito ovviare alla mancata inderogabile presenza dell’avvocato, causata dall’omissione di tale adempimento obbligatorio, mediante la nomina di un difensore d’ufficio e, in caso di assenza di quest’ultimo, di un
avvocato immediatamente reperibile ai sensi dell’art. 97, comma 4, c.p.p. Una diversa prospettazione
ermeneutica non soltanto violerebbe il combinato disposto degli artt. 96 e 97, comma 4, c.p.p., ma consentirebbe all’autorità giudiziaria di sostituirsi all’imputato, in palese violazione dei principi fondamentali in tema di diritto di difesa, nella scelta di un avvocato compiuta dall’imputato (Sez. VI, 03 maggio
2001, n. 18725, Desiderato, Rv. 219502; Sez. III, 13 marzo 2007, n. 26076, Shehu, Rv. 237201; Sez. I, 26
maggio 2009, n. 24091, Spano, Rv. 244031; Sez. I, 14 ottobre 2010, n. 40817, Devcic, Rv. 248465).
13. Non si può, d’altra parte, ritenere che, ai fini del rispetto del dettato normativo, sia comunque
sufficiente la presenza di un qualsiasi legale, anche a prescindere dalle specifiche opzioni dell’interessato, e che esista piena equipollenza tra il difensore di fiducia e quello d’ufficio. Questa tesi confligge
con i consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di notificazioni (art. 157,
comma 8-bis, c.p.p., così come modificato dall’art. 2, comma 1, d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito,
con modificazioni, dalla l. 22 aprile 2005, n. 60) e di restituzione nel termine per impugnare una sentenza contumaciale (art. 175, comma 2, c.p.p., nella versione antecedente alle modifiche introdotte dall’art.
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11, l. 28 aprile 2014, n. 67). Si è, infatti, affermato che l’introduzione del comma 8-bis nell’art. 157 c.p.p.,
ha comportato che, ai fini della conoscenza effettiva dell’atto, la sola notificazione al difensore di fiducia è del tutto equiparabile alla notifica effettuata all’imputato personalmente e che la suddetta modifica normativa valorizza ulteriormente il ruolo del difensore di fiducia, differenziandolo da quello del difensore d’ufficio, e rafforza gli obblighi, su di lui già gravanti in base alla normativa pregressa e al codice deontologico, di portare effettivamente a conoscenza dell’assistito tutti gli atti processuali che lo riguardano, pur se non domiciliatario. La citata equiparazione, lungi dal ridursi ad una mera fictio iuris, è
ampiamente giustificata dalla natura e dalla sostanza del rapporto professionale che intercorre tra
l’avvocato difensore nominato di fiducia e l’imputato, il quale proprio nel momento in cui dà il mandato al professionista con riguardo ad uno specifico procedimento, dimostra (o conferma) di essere effettivamente a conoscenza dello stesso. Anche successivamente alla nomina, il perdurante rapporto professionale intercorrente tra l’imputato e il suo difensore di fiducia consente al primo di mantenersi informato sugli sviluppi del procedimento e di concordare con il legale le scelte difensive ritenute più
idonee (Sez. Un., 18 dicembre 2006, n. 41280, Clemenzi, Rv. 234905; e, tra le altre, Sez. I, 07 febbraio
2006, n. 8232, Zine, Rv. 233417; Sez. I, 10 maggio 2006, n. 16002, Latovic, Rv. 233615; Sez. I, 12 luglio
2006, n. 32678, Somogyi, Rv.235035-36). Si è, in tal modo, riconosciuto al rapporto professionale “fiduciario” nel senso più rigoroso del termine un rilievo specifico con riguardo all’esigenza di conoscenza
effettiva del processo. Parallelamente si è progressivamente delineata l’intrinseca debolezza delle “presunzioni di conoscenza” sottese alle notificazioni eseguite, ai sensi degli artt. 161, comma 4, 169 e 165
c.p.p. al difensore d’ufficio dell’imputato processato in contumacia, in quanto irreperibile o latitante,
con la conseguenza che tali notificazioni non sono di per sé idonee a dimostrare l’effettiva conoscenza
del procedimento o del provvedimento da parte dell’imputato, salvo che dagli atti non emerga in altro
modo la conoscenza o che non si dimostri che il difensore d’ufficio è riuscito a stabilire un effettivo
rapporto professionale con il suo assistito (ex plurimis, Sez. I, 16 gennaio 2009, n. 3746, Del Duca, Rv.
242535; Sez. V, 31 marzo 2010, n. 24707, Gallo, Rv. 248472; Sez. VI, 05 aprile 2013, n. 19781, Rv. 256229;
Sez. IV, 15 novembre 2013, n. 8104, dep. 2014, Djordjevic, Rv. 259350). In adesione a questi principi la
Corte costituzionale, investita da questa Corte, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 175,
comma 2, c.p.p. (come sostituito dall’art. 1, d.l. n. 17/2005) in riferimento agli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost. in relazione all’impugnazione proposta dalla persona condannata in
contumacia dopo che già il difensore d’ufficio aveva inutilmente proposto il gravame avverso la medesima sentenza, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, c.p.p., nella parte in cui
non consentiva la restituzione dell’imputato, che non avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale,
nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione era stata
proposta in precedenza dal difensore (Corte cost., sent. n. 317/2009). Con un’altra importante pronunzia la Corte costituzionale ha posto in luce, sia pure in un quadro di riferimento ormai in parte mutato,
alcuni profili problematici in tema di effettività della difesa d’ufficio con specifico riguardo all’assenza
di adeguate garanzie e di meccanismi di controllo circa la specifica professionalità, dichiarando
l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, ultimo periodo, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578,
convertito, con modificazioni, dalla l. 22 gennaio 1934, n. 36 (Ordinamento delle professioni di avvocato
e procuratore), così come modificato dall’art. 1, l. 24 luglio 1985, n. 406 (Modifiche alla disciplina del patrocinio davanti al pretore), dall’art. 10, l. 27 giugno 1988, n. 242 (Modifiche alla disciplina degli esami
di procuratore legale) e dall’art. 246, d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del
giudice unico di primo grado) «nella parte in cui prevede che i praticanti avvocati possano essere nominati difensori d’ufficio». (Corte cost., sent. n. 106/2010).
14. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiaramente evidenziato come manchi nell’ordinamento italiano una disciplina che obblighi l’autorità giudiziaria procedente, che ha designato il difensore d’ufficio, ad intervenire a fronte di carenze manifestate dal legale nello svolgimento dell’incarico
(Corte EDU, 13 maggio 1980, Artico c. Italia; 09 aprile 1984, Goddi c. Italia). Il codice di rito non prevede
forme di intervento e di controllo sulle carenze dell’esercizio del mandato difensivo del legale nominato d’ufficio, con evidente ricadute sulla finalità sottesa alla previsione contenute nell’art. 97 c.p.p., di assicurare l’effettività del diritto di difesa, condizione necessaria, secondo la giurisprudenza sovranazionale, per il rispetto dei principi contenuti nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e
per un effettivo contraddittorio fra le parti (Corte EDU, 27 aprile 2006, Sannino, c. Italia).
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15. Non appare neppure calzante l’osservazione, presente nell’ordinanza di rimessione, secondo cui
il difensore d’ufficio, al pari di quello di fiducia, ha il dovere di preparare adeguatamente la difesa e
che, comunque, la legge riconosce al difensore d’ufficio il «diritto ad un termine congruo» per
l’adempimento del suo ministero (art. 108, comma 1, c.p.p). Un’efficace ed effettiva assistenza tecnica,
intesa come il complesso di diritti, di poteri e di facoltà che le singole norme processuali attribuiscono
al soggetto preposto alla difesa, presuppongono lo studio e la conoscenza degli atti del procedimento in
cui deve esplicarsi l’attività professionale dell’avvocato e un’attività preparatoria della difesa stessa.
Queste condizioni non ricorrono qualora, pur in presenza di una nomina fiduciaria ritualmente e tempestivamente effettuata dall’interessato, il giudice, trascurando questo imprescindibile dato processuale, proceda irritualmente alla designazione di un avvocato d’ufficio e, a seguito della sua mancata comparizione all’udienza che richiede la partecipazione obbligatoria del difensore, incarichi irritualmente
come sostituto, ex art. 97, comma 4, c.p.p., un difensore “prontamente reperito”. In tale caso viene ad
essere leso il diritto dell’imputato di scegliere le modalità della propria difesa riconosciuto anche
dall’art. 6, comma 3, lett. c), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che sancisce espressamente il diritto dell’imputato ad avere un «difensore di sua scelta» (tout accusé a droit notamment à: […] c) se
défendre lui-même ou avoir l’assistance d’un défenseur de son choix). La Corte costituzionale ha, inoltre, costantemente ribadito l’inapplicabilità della previsione contenuta nell’art. 108 c.p.p. nel caso di sostituzione temporanea dell’incarico, tenuto conto della sua connotazione temporanea e della persistenza
della titolarità in capo al difensore, originariamente nominato di fiducia o designato d’ufficio (sentenze
n. 450/1997, n. 162/1998, n. 17/2006). Tale approdo ermeneutico deve essere, a sua volta, letto alla luce
dei principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo la quale ha affermato che il diritto ad
una difesa d’ufficio effettiva può ritenersi soddisfatto solo qualora al difensore sia concesso un termine
congruo, tale, cioè, da consentirgli di approntare una difesa adeguata e che, diversamente, si configura
una violazione del diritto di difesa tutte le volte in cui l’autorità giudiziaria non abbia disposto, dopo la
nomina del difensore in udienza, un rinvio o una sospensione (Corte EDU, 09 aprile 1984, Goddi c. Italia;
21 aprile 1998, Daud c. Portogallo). In tale contesto, la riaffermazione del valore assoluto e imprescindibile del diritto all’assistenza tecnica, che non si riduca all’adempimento di una mera formalità, rappresenta uno strumento per inverare i principi del giusto processo e, in particolare, per rendere effettivo il
contraddittorio e garantire la parità fra le parti anche nella prospettiva della tutela dell’interesse della
collettività al corretto svolgimento del processo.
16. Non appaiono evocabili, al fine di suffragare un diverso tipo di interpretazione, altri tre tipi di
argomenti. Contrariamente a quanto sostenuto dall’indirizzo da cui si dissente, la precedente decisione
di queste Sezioni Unite (Sez. Un., 26 aprile 1997, n. 2, Procopio, Rv. 208269) ha affermato solo come obiter dictum ed in maniera meramente assertiva il principio di diritto secondo il quale «il mancato avviso
al difensore di fiducia nominato tempestivamente [...] produce la nullità generale a regime intermedio
di cui all’art. 178 lett. c) cod. proc. pen.» nell’ambito di una pronunzia concernente l’interrogatorio di
garanzia e la questione dell’efficacia della nomina di un difensore di fiducia effettuata ai sensi dell’art.
123 c.p.p. Esso, pertanto, non può essere assunto come paradigma interpretativo degli artt. 179 e 178,
comma 1, lett. c), c.p.p. sia per tale ragione di metodo sia perché, in ogni caso, non condivisibile alla luce delle considerazioni sin qui svolte. Inoltre, se è indubbio che il principio di tassatività delle nullità
implica il divieto di applicazione analogica e di interpretazione estensiva, precludendo all’interprete la
possibilità di individuare ulteriori ipotesi di nullità al di fuori di quelle derivanti di quadro normativo,
è altrettanto indiscutibile che tale principio va inteso secondo una logica bidirezionale, nel senso che lo
stesso, oltre a vietare al giudice declaratorie di nullità non espressamente derivanti dalla legge, preclude anche la disapplicazione della sanzione, laddove prevista dal legislatore. Infine, la ragionevolezza
dei tempi del processo non può costituire un parametro assoluto per giustificare, in nome dell’efficienza, la compressione di alcune garanzie fondamentali dell’imputato. Esso deve essere, infatti, contemperato con le esigenze di tutela di altri diritti e interessi costituzionalmente rilevanti nel processo
penale quale, appunto, il diritto di difesa. In prospettiva sovranazionale, i diritti garantiti da norme costituzionali, quali il diritto di difesa e quello al contraddittorio, «risentono dell’effetto espansivo dell’art. 6 della Corte europea dei diritti dell’uomo e della corrispondente giurisprudenza della Corte di
Strasburgo» e tale «incremento di tutela» esplicita e arricchisce il contenuto dei diritti garantiti dalla
Costituzione (Corte cost., sent. n. 399/2001).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NEL PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA L’OMESSO AVVISO AL DIFENSORE
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17. Sulla base delle considerazioni sinora svolte è possibile concludere che, nel procedimento di sorveglianza, la mancata notifica al difensore di fiducia – del quale è necessaria la partecipazione e, perciò,
obbligatoria la presenza – dell’avviso di udienza in camera di consiglio determina una nullità di ordine
generale, assoluta e insanabile dell’udienza, nondimeno tenuta in presenza del difensore d’ufficio, e
degli atti successivi, compresa l’ordinanza conclusiva, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179
c.p.p., in quanto la nomina fiduciaria non può essere surrogata dalla designazione ex officio da parte del
giudice di un altro avvocato, di cui è irrilevante l’assistenza effettiva. Deve, conclusivamente, affermarsi
il seguente principio di diritto: «L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente
nominato dall’imputato o dal condannato integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma 1,
lett. c), e 179, comma 1, cod. proc. pen».
18. Per tutte le considerazioni sinora svolte, s’impone, quindi, l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale di sorveglianza di Torino.
[Omissis]
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CATERINA SCACCIANOCE
Professore a contratto di Diritto dell’esecuzione penale e diritto penitenziario – Università di Palermo
Il diritto di difesa tra effettività e necessità: le garanzie prevalgono nella lettura delle Sezioni Unite
The right of defence between effectivity and necessity: the protection
of the constitutional rights prevails according to the interpretation
of Cassazione Court
Le Sezioni unite rimarcano l’effettività del diritto di difesa risolvendo un contrasto sorto in merito al regime della
nullità derivante dalla mancata notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale ex artt. 666 e 678 c.p.p. al
difensore di fiducia tempestivamente nominato. Si tratta di nullità assoluta, insanabile e rilevabile anche d’ufficio,
in quanto la presenza del difensore d’ufficio, o del suo sostituto designato sul momento dal giudice, è lesiva dei
principi del giusto processo qualora vi sia stata regolare nomina del difensore di fiducia.
The Corte di Cassazione (Sezioni Unite) underlines the effectivity of defence’s right, clarifying the contrasting positions of lower Courts about the kind of legal invalidity in case of lack of notice of the hearing to the convicted’s defence counsel. According to the Corte di Cassazione this invalidity makes null and void the hearing.
LA QUESTIONE
Il contrasto in merito al quale sono state chiamate a pronunciarsi le sezioni unite della Corte di cassazione
investe uno dei profili più critici del diritto di difesa nel processo penale, vale a dire la sua effettività.
È ormai condivisa la tesi secondo la quale la difesa, oltre a integrare un diritto della parte privata, integri altresì una condizione di regolarità del processo. Da qui la suggestione che evoca una doppia anima della difesa tecnica quale elemento irrinunciabile del rapporto processuale penale: da un lato, il suo
essere diritto primario di rango costituzionale, proclamato inviolabile in ogni stato e grado del processo
dall’art. 24 Cost., e, dall’altro, il suo essere funzione di garanzia della correttezza dell’accertamento. Che
la difesa sia anzitutto «funzione dialetticamente contrapposta all’accusa» esercitata dall’imputato e dal
suo difensore di fronte a un giudice imparziale è, come noto, insegnamento della più attenta dottrina
che afferma come essa trovi la sua più alta affermazione nel metodo dialettico, quindi, nel contraddittorio 1. Il modello accusatorio diviene, quindi, il terreno fertile nel quale possono coesistere entrambi gli
aspetti anzidetti che finiscono per costituire il fondamento della difesa penale intesa appunto come
funzione, attività.
Il modello accusatorio da noi adottato e consolidato a livello costituzionale con la riscrittura dell’art.
111 Cost. è un modello-garanzia per ogni grado di merito del processo, ma anche per ogni tipo di procedimento, che sia della cognizione o della esecuzione, della prevenzione o ancora della sorveglianza.
Ed è in merito a quest’ultimo che la Corte di legittimità, nel suo più ampio consesso, si è pronunciata,
essendo stata interpellata per risolvere un conflitto insorto nella giurisprudenza di legittimità, avente
ad oggetto l’individuazione dei confini esatti della nullità, prevista dall’art. 179, comma 1, c.p.p., derivante dall’assenza del difensore dell’imputato nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza.
1
P. Ferrua, Difesa (diritto di), in Dig. pen., III, Torino, 1988, p. 466.
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Questi i fatti: il ricorrente aveva presentato un reclamo al Tribunale di sorveglianza di Torino provvedendo a nominare in calce allo stesso reclamo il proprio difensore di fiducia. Il Presidente del Tribunale emetteva il decreto di fissazione dell’udienza camerale, designando contestualmente un difensore
d’ufficio, al quale notificava l’avviso dell’udienza, in base all’erroneo presupposto che il detenuto non
avesse scelto un legale di fiducia. All’udienza il difensore d’ufficio non compariva e il Tribunale nominava un suo sostituto che non formulava alcuna eccezione circa il mancato avviso al difensore di fiducia. L’udienza si concludeva con la conferma dell’ordinanza emessa in precedenza dal Magistrato di
sorveglianza di Cuneo con la quale veniva rigettata l’istanza di permesso premio a suo tempo avanzata
dal detenuto. Avverso l’ordinanza di conferma emessa dal Tribunale di sorveglianza di Torino il detenuto proponeva ricorso per cassazione eccependo la nullità del provvedimento per omesso avviso
dell’udienza di trattazione del reclamo ai propri difensori di fiducia (successivamente alla prima nomina, infatti, se ne aggiungeva una seconda). Il ricorso veniva assegnato alla prima sezione, la quale, preso atto di come in merito alla natura della nullità si fossero affermati due contrapposti orientamenti
giurisprudenziali, che, risolvendo diversamente, in premessa, questioni spinosissime riguardanti i rapporti tra la difesa d’ufficio e la difesa di fiducia, giungevano a conclusioni divergenti, decideva di rimettere alle sezioni unite il seguente quesito: «se l’omesso avviso dell’udienza di trattazione del procedimento (di sorveglianza) al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato integri una nullità assoluta o, invece, una nullità generale a regime intermedio, che può essere sanata ai sensi dell’art. 182, commi 2 e 3, c.p.p., per effetto dell’acquiescenza del difensore d’ufficio e della
decadenza della parte dal diritto di far valere l’invalidità».
Va dato atto che il giudice rimettente non celava la sua propensione a sostegno di una tesi piuttosto
che di un’altra, suggerendo al giudice ad quem di aderire all’indirizzo che attribuisce carattere intermedio alla nullità derivante dal mancato avviso al difensore di fiducia, ritenendola la più adeguata «a
soddisfare l’esigenza della tutela del diritto alla difesa fiduciaria». Secondo la prima sezione della Corte, infatti, l’opposta configurazione della nullità de qua come assoluta si presterebbe a un «effetto del
tutto incoerente alla stessa essenza del processo», non potendo tollerarsi «un’espansione delle nullità
assolute fuori dalle ipotesi intrinsecamente insanabili espressamente indicate dall’art. 179 c.p.p.: il procedimento da ordinata evoluzione in stati, fasi e gradi, verrebbe degradato a caotico susseguirsi di atti
rimesso alla volontà opportunistica delle parti circa le modalità e i tempi per far valere l’invalidità, e ciò
solo in funzione della prognosi sull’esito della decisione».
LE DUE POSIZIONI A CONFRONTO
Come detto, sulla questione in oggetto si sono col tempo affermati due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Secondo un primo indirizzo 2, la mancanza di difesa tecnica, prevista dall’art. 179, comma 1, c.p.p., si
verifica non solo nel caso estremo del dibattimento svolto in assenza di qualunque difensore, ma anche
nel caso in cui il difensore di fiducia, non presente perché non avvisato, venga sostituito dal difensore
d’ufficio. Ne consegue che l’omessa notifica dell’avviso dell’udienza al difensore di fiducia deve ritenersi causa di nullità assoluta e insanabile. Nell’ottica dell’art. 179, comma 1, c.p.p., invero, l’intervento
del difensore d’ufficio è irrilevante, in quanto il soggetto difeso non può e non deve essere privato del
diritto di affidare la propria difesa alla persona che riscuote la sua fiducia e che abbia avuto la possibilità di prepararsi adeguatamente nel termine stabilito per la comparizione.
Opinione diversa sta a base del secondo indirizzo 3, secondo il quale, invece, il mancato avviso al difensore di fiducia nominato tempestivamente produrrebbe una nullità generale a regime intermedio ex
art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p. Si afferma, in proposito, come la locuzione “suo difensore” contenuta
nell’art. 179 c.p.p. – la cui assenza è rilevante – si riferisca al professionista che assicura la difesa tecnica,
a prescindere dall’intervenuta nomina fiduciaria, in quanto le due figure, quella del difensore di fiducia
2
Cass., Sez. I, 28 marzo 2014, n. 20449, in CED Cass. n. 259614; Cass., Sez. IV, 6 dicembre 2013, n. 7968, in CED Cass., n.
258615; Cass., Sez I, 11 novembre 2011, n. 43095, in CED Cass., n. 250997; Cass., Sez. III, 14 gennaio 2009, n. 6240, in CED Cass., n.
242530.
3
Cass., sez. I, 1 ottobre 2014, n. 52408, inedita; Cass., Sez. V, 7 novembre 2013, n. 50581, in CED Cass., n. 257820; Cass., Sez. II,
14 luglio 2009, n. 34167, in CED Cass., n. 245242; Cass., Sez. II, 23 novembre 2004, n. 36, in CED Cass., n. 230225.
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e quella del difensore d’ufficio, finiscono per essere equiparate nel disegno del codice, mancando, in
questo, una differenziazione del loro regime giuridico. Ne deriva che il mancato avviso della data fissata per l’udienza al difensore di fiducia concreta indubbiamente una nullità di ordine generale, ma non
si tratta di una nullità assoluta, bensì a regime intermedio ex art. 182, comma 2, c.p.p. Del resto – si osserva – il nuovo codice ha profondamente innovato quello precedente attuando la sostanziale equiparazione della difesa d’ufficio a quella di fiducia, in risposta alla esigenza di assicurare la concreta ed efficace tutela dei diritti dell’imputato. Anche la verifica dell’omessa citazione del difensore di fiducia è,
infatti, demandata al difensore d’ufficio, che ha dunque l’obbligo di assolvere con diligenza minima i
propri doveri istituzionali.
I DIVERSI PASSAGGI DELLA MOTIVAZIONE
Ripercorrendo i vari snodi argomentativi in cui si articola la pronuncia in commento, è possibile ritagliarne alcuni punti fermi cui è giunta la Corte che, si auspica, diventino punti di non ritorno.
Precisato, in premessa, come, da un lato, diritto di difesa e contraddittorio debbano essere garantiti
nei procedimenti di concessione o diniego dei permessi premi, il cui carattere giurisdizionale postula
l’adozione del modulo operativo delineato dal combinato disposto degli artt. 666 e 678 c.p.p., e come,
dall’altro, l’udienza in camera di consiglio «a contraddittorio orale necessario» costituisca il “baricentro” del procedimento di sorveglianza, sviluppandosi ed esaurendosi, proprio in tale fase, tutta la dialettica probatoria, i giudici di legittimità hanno voluto delimitare i margini della questione nella verifica
se l’ipotesi di nullità assoluta prevista dall’art. 179 c.p.p. riguardi solo la celebrazione di un’udienza
senza “alcun” difensore o anche quella dell’udienza svolta alla presenza di “altro” difensore, diverso da
quello nominato dall’imputato e, per mero errore, non regolarmente avvisato. Secondo la Corte, quindi,
occorreva riflettere sul collegamento tra omesso avviso al difensore di fiducia e la sua assenza nei casi
in cui la presenza del difensore è prevista dal legislatore come necessaria, onde stabilire se l’“assenza”
cui si riferisce la norma fosse da raccordare soltanto a chi «doveva essere presente perché nominato»,
ma non è stato avvisato.
A quel punto la Corte ha richiamato il complesso delle disposizioni in tema di difesa tecnica, individuandone una trama unitaria, ovverosia la sua configurazione come «un diritto che non soffre, in linea
di principio, alcuna limitazione in rapporto alle fasi procedimentali, e che si atteggia, in primo luogo,
come libertà di scegliere un difensore di fiducia». Conclusione avvalorata dalla lettura logicosistematica degli artt. 96 e 97 c.p.p. che disciplinano la difesa tecnica, il ruolo e la funzione del difensore, dai quali è possibile trarre il tipo di rapporto che esiste tra la difesa fiduciaria e la difesa d’ufficio:
quest’ultima, secondo la Corte, è prevista solo in via residuale, qualora l’imputato non abbia nominato
un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo.
Quindi, il primo punto fermo da cui la Corte ha ritenuto di potere prendere le mosse del suo ragionamento è la «sussidiarietà della difesa d’ufficio», la cui presenza si pone non quale alternativa, bensì
come ipotesi subordinata alla reale mancanza del difensore di fiducia, o al suo venir meno 4. Non per
niente, l’art. 97, comma 4, c.p.p. limita la possibilità di designare come sostituto un difensore immediatamente reperibile ai soli casi specificamente indicati, assicurando, così, non solo la regolarità dell’udienza, ma anche l’effettività del diritto di difesa. Ed è proprio dal tenore letterale dell’art. 97, comma 4,
c.p.p. che si evince come tutte le ipotesi ivi contemplate presuppongano in ogni caso un regolare avviso
e che una sostituzione effettuata in assenza delle condizioni di legge è illegittima, in quanto contrasta
con il principio di immutabilità della difesa e pregiudica l’attività preparatoria della stessa, imprescindibile in un processo di parti.
Appurato, pertanto, come nel caso in esame la designazione del difensore di ufficio da parte del Tribunale fosse illegittima per assenza dei presupposti stabiliti dall’art. 96, comma 1, c.p.p., avendo il detenuto scelto il proprio difensore di fiducia, che tuttavia non veniva avvisato della data fissata per
l’udienza, e come anche la nomina del sostituto del difensore di ufficio fosse da considerare illegittima
per assenza dei presupposti di cui all’art. 97, comma 4, c.p.p., non restava che stabilire quale carattere si
dovesse attribuire alla nullità accertata. Nullità assoluta o nullità intermedia?
4
Cfr., per tutte, Cass., Sez. Un., 16 luglio 2009, n. 39060, in CED Cass., n. 244187.
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Venivano dunque riportate le argomentazioni a base degli opposti indirizzi giurisprudenziali affermatisi al riguardo, l’uno che attribuisce carattere assoluto alla nullità derivante dall’assenza del difensore di fiducia non avvisato e sostituito dal difensore di ufficio, e l’altro che, invece, vi attribuisce carattere intermedio, ammettendone la sanatoria grazie all’intervento del difensore di ufficio, in quanto
l’assenza rilevante sarebbe quella del professionista che assicura la difesa tecnica, a prescindere dalla
qualifica che esso riveste (se di fiducia o di ufficio).
Ciò posto, le sezioni unite dichiaravano di aderire al primo indirizzo per una serie di ragioni. In
primo luogo, veniva precisato come, da un punto di vista letterale e logico-sistematico, il concetto di
“assenza” di cui all’art. 179, comma 1, c.p.p., si riferisca alla situazione dell’avvocato che dovrebbe essere presente e non lo è; id est, del difensore già nominato la cui mancata partecipazione è ascrivibile
all’omissione dell’avviso a lui dovuto. In secondo luogo, si poneva l’accento su un altro dato letterale,
ossia sull’espressione “suo difensore” contenuta nell’art. 179, comma 1, c.p.p., affermando come essa
evochi la preesistenza di un rapporto finalizzato ad assicurare la difesa tecnica all’interessato – a prescindere dalla circostanza che si tratti di una nomina fiduciaria o di una designazione officiosa – che
funge da parametro per verificare la legittimità del pregresso iter procedimentale. La Corte ne deduceva, pertanto, che la nullità assoluta prevista dall’art. 179, comma 1, c.p.p. «non concerne solo l’assoluta
mancanza di difesa tecnica, ma si riferisce anche alla partecipazione all’espletamento dell’atto di un difensore diverso da quello di fiducia o di ufficio, che sia rimasto assente per non essere stato avvisato nei
modi stabiliti dalla legge». Conseguentemente, in presenza di una pregressa e tempestiva nomina fiduciaria che non sia stata tenuta presente dal giudice, per errore, non è consentito ovviare alla mancata
inderogabile presenza dell’avvocato, causata dall’omissione di tale adempimento obbligatorio, mediante la nomina di un difensore di ufficio e, in caso di assenza di quest’ultimo, di un avvocato immediatamente reperibile ai sensi dell’art. 97, comma 4, c.p.p., come avvenuto nel caso in esame. Se si ragionasse
diversamente – hanno efficacemente sottolineato le sezioni unite – si consentirebbe all’autorità giudiziaria di sostituirsi all’imputato, in palese violazione di principi fondamentali in tema di diritto di difesa, nella scelta di un avvocato compiuta dall’imputato. A sostegno di tale conclusione veniva, altresì,
fortemente criticata la presunta equipollenza tra il difensore di fiducia e quello di ufficio posta a base
dell’opposto orientamento, valorizzando viceversa il ruolo del difensore di fiducia rispetto a quello residuale del difensore d’ufficio 5.
I giudici di legittimità rilevavano ancora come un’efficace ed effettiva assistenza tecnica, intesa come
il complesso di diritti, di poteri e di facoltà che le singole norme processuali attribuiscono al soggetto
preposto alla difesa, presupponga lo studio e la conoscenza degli atti del procedimento in cui deve
esplicarsi l’attività professionale dell’avvocato e un’attività preparatoria della difesa stessa. Condizioni
queste ultime che non ricorrono quando, come nel caso in esame, il giudice, trascurando l’opzione fiduciaria tempestivamente compiuta dall’imputato, designa irritualmente un difensore di ufficio e, per
l’udienza, nomini un sostituto dello stesso, prontamente reperito. Situazione che, a dire della Corte, lede il diritto dell’imputato di scegliere le modalità della propria difesa, riconosciuto anche dall’art. 6,
comma 3, lett. c), Cedu, ove è sancito espressamente il diritto dell’imputato ad avere un «difensore di
sua scelta».
Infine, le sezioni unite concludevano asserendo come la riaffermazione del valore assoluto e imprescindibile del diritto all’assistenza tecnica, che non si riduca all’adempimento di una mera formalità,
rappresenti uno strumento «per inverare i principi del giusto processo e, in particolare, per rendere effettivo il contraddittorio e garantire la parità fra le parti anche nella prospettiva della tutela dell’interesse della collettività al corretto svolgimento del processo». La ragionevolezza dei tempi non può costituire parametro assoluto per giustificare, in nome dell’efficienza, la compressione di alcune garanzie fondamentali dell’imputato. Esso deve essere contemperato, infatti, con le esigenze di tutela di altri diritti e
interessi costituzionalmente rilevanti nel processo penale, quale appunto il diritto di difesa.
5
A riprova della valorizzazione del difensore di fiducia la Corte richiama il comma 8-bis dell’art. 157 c.p.p., secondo il quale,
ai fini della conoscenza effettiva dell’atto, è sufficiente la notificazione al difensore di fiducia, equiparata alla notifica all’imputato, giustificandosi tale assimilazione dalla natura e dalla sostanza del rapporto professionale che intercorre tra l’avvocato
difensore nominato di fiducia e l’imputato, il quale proprio nel momento in cui dà mandato al professionista dimostra di essere
effettivamente a conoscenza del procedimento in relazione al quale lo ha scelto come difensore di fiducia.
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LA SCELTA DELLE SEZIONI UNITE: EFFETTIVITÀ E VALORIZZAZIONE DEL RUOLO DELL’AVVOCATO DI FIDUCIA
L’iter argomentativo seguito dai giudici di legittimità, qui interamente condiviso in ogni passaggio decisionale, va apprezzato tanto per la sua linearità quanto per la lettura garantistica delle norme ivi richiamate. Non sfugge, infatti, come la Corte si sia districata con argomenti solidi e ragionevoli nei
meandri di un discorso dalle implicazioni estremamente delicate.
Il tema del diritto di difesa, come già precisato, presenta una serie di aspetti più o meno spinosi rispetto ai quali si scontrano posizioni che tendono a comprimerlo, da un lato, o a dargli la preminenza
che merita, dall’altro.
La scelta, nel caso in esame, era o propendere per una soluzione che finiva col declinare il diritto di
difesa a mera partecipazione all’udienza, estenuando il valore della sua effettività a presupposto sterile,
privo di concretezza, ovvero optare per la pretesa di un diritto di difesa la cui effettività fosse elevata a
condizione reale, essenziale e imprescindibile del (e nel) rispetto dei canoni del giusto processo.
Necessità ed effettività, infatti, sono gli immancabili connotati su cui va modellata la difesa penale. Il
problema è stabilire se residuano spazi in cui sia ipotizzabile una rinuncia all’effettività in nome di discutibili esigenze di celerità ed efficienza processuale da considerare prevalenti, salvando la regolarità
del processo grazie alla presenza di un qualunque difensore accanto all’imputato, che ne rispetti, almeno apparentemente, la sua ineluttabilità. In altre parole, si tratta di capire se, per come è concepita la difesa penale nel nostro sistema, i due tratti caratteristici che la contraddistinguono, ossia essenzialità ed
effettività, devono coesistere in modo complementare o possono essere presenti in rapporto di alternatività.
Ebbene, le sezioni unite, con la sentenza in commento, ne hanno rimarcato la complementarietà:
dando risalto al valore della effettività, hanno stabilito come non sia sufficiente la presenza di un qualsiasi difensore, occorrendo piuttosto che in esso converga il necessario ed effettivo contraddittore scelto
dalla parte. È fuor di dubbio, pertanto, come il sostituto del difensore d’ufficio nominato ‘all’ultima ora’
non potrà mai essere equiparato al difensore di fiducia tempestivamente nominato ma assente perché
non avvisato: solo quest’ultimo, infatti, sarà in grado di garantire insieme effettività e ineluttabilità della difesa penale, limitandosi, per contro, il sostituto del difensore d’ufficio, con la sua partecipazione
all’udienza, a integrare esclusivamente la condizione formale di prosecuzione del processo, senza assicurare al proprio assistito tutte le garanzie difensive che i principi del giusto processo contemplano. Insomma, il sostituto del difensore d’ufficio, nella situazione processuale esaminata, finirebbe col garantire una difesa tecnica solo “apparente” 6: una difesa praticamente “assente”, e come tale non idonea a
sanare la nullità derivante proprio dall’assenza del difensore di fiducia.
L’EFFETTIVITÀ DELLA DIFESA PENALE: UN VALORE IRRINUNCIABILE
È stato autorevolmente affermato 7 che «la figura del difensore nel processo penale muove dall’esigenza
– esigenza di civiltà ancor prima che di efficienza di un sistema giuridico – di vedere assicurato il contraddittorio sotto ogni profilo». Inserendosi «nello svolgimento del processo con carattere di essenzialità al punto che la sua presenza risulta intimamente connessa con il regolare esercizio del potere giurisdizionale, e la sua attività si profila come espressione di funzione pubblica», la fisiologia del difensore
«affonda le sue radici e la stessa sua ragion d’essere nella dialettica processuale, nello stesso contraddittorio» 8. Orbene, il difensore d’ufficio è una «figura che testimonia la ineluttabilità della presenza del difensore accanto all’imputato» 9, rispondendo a una necessità processuale, mentre il complesso delle
norme che regolano diritti, poteri e facoltà del difensore nel processo penale, richiamate opportunamente dalle sezioni unite nella pronuncia in commento, disegnano la sua funzione, ossia prestare assi6
L’espressione è di O. Mazza, L’effettività della difesa d’ufficio, in A. Balsamo-R.E. Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e
processo penale italiano, Torino, 2008, 169 ss., per il quale «lo svolgimento dell’udienza alla presenza del sostituto del difensore
d’ufficio finisce per essere una patologia nella patologia della difesa d’ufficio»: a entrare in crisi, infatti, è proprio l’effettività del
patrocinio d’ufficio.
7
G. Tranchina, I soggetti, in AA.VV., Diritto processuale penale, Milano, 2011, I, p. 217.
8
G. Bellavista, Difesa giudiziaria penale, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 457.
9
Ancora G. Tranchina, I soggetti, cit., p. 226.
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stenza assicurando al proprio assistito l’effettività delle garanzie del giusto processo. E poiché l’efficacia
del contraddittorio implica parità di potenza nei contraddittori, è necessario che le parti agiscano e intervengano nel processo penale con la coadiuvazione dei soggetti che, non solo abbiano una specifica
capacità tecnico-professionale, ma che siano altresì posti nelle condizioni di potere effettivamente svolgere la funzione di assistenza tecnica.
La sentenza in commento ha il merito di avere rivalutato la necessità dell’effettività della difesa, insieme alla sua essenzialità, elevandola a volare irrinunciabile.
Di non poco conto i risvolti di simile affermazione di principio: l’effettività è la linfa che dà sostanza
al diritto di difesa, la cui necessità è sì condizione di regolarità del processo, ma, perché un processo
possa dirsi regolare, la mera presenza del difensore all’udienza non garantisce alcunché se questi non è
posto nelle condizioni di potere assicurare una difesa tecnica effettiva. Quando dunque è effettivo il diritto di difesa? Sicuramente la presenza “obbligatoria” richiesta dall’art. 179, comma 1, c.p.p. è quella
del difensore di fiducia, se scelto, o altrimenti quella del difensore di ufficio designato dal giudice. Tuttavia, mentre per la difesa fiduciaria la sua effettività può dirsi presunta, l’effettività del meccanismo
della difesa d’ufficio 10 sembra, invece, vacillare soprattutto quando ci si imbatte nella prassi della sostituzione “all’ultima ora”.
Il concetto di assistenza dovrebbe implicare tutte indistintamente le garanzie difensive che la legge
accorda all’imputato, e di queste deve farsi carico il difensore assicurandole tutte concretamente, con la
conseguenza che la deficienza di una di esse non potrà non risolversi in nullità assoluta 11.
Orbene, il principio affermato nella pronuncia in oggetto postula una difesa penale che non ammette
alcuna limitazione in nome di asserite esigenze di economia processuale. Non può condividersi l’argomento secondo cui la presenza all’udienza del sostituto del difensore di ufficio garantisce comunque
l’assistenza dell’imputato, sia pure in misura minore, a meno di non volere assecondare logiche che si
rivelano poco sensibili alle esigenze della difesa.
Significherebbe, in altri termini, ridurre a lettera morta la garanzia di difesa, ammettendo una sanatoria per così dire “artificiosa”.
Ecco perché si aderisce appieno alla soluzione cui sono giunte le sezioni unite, le quali hanno mostrato al contrario una speciale sensibilità, sanzionando col vizio della nullità assoluta situazioni, come
quella esaminata, dove è alto il rischio (o la tentazione) di ricorrere all’istituto della sanatoria per regolarizzare un iter processuale invalidato da un errore di notifica del giudice che ha determinato l’assenza
del difensore di fiducia. Situazione che avrebbe potuto ritenersi sanata solo qualora fosse comparso il
difensore, d’ufficio o di fiducia, a cui si sarebbe dovuto eseguire la notificazione e non certo il sostituto
del difensore di ufficio a cui erroneamente era stato notificato l’avviso dell’udienza. Infatti, la sanatoria
per comparizione della parte è efficace nella misura in cui sia conseguito lo scopo dell’atto compiuto
invalidamente. Questa, è stato efficacemente affermato 12, dovrebbe essere la chiave per risolvere numerose questioni interpretative, tra le quali proprio quella causata dall’omissione dell’avviso dell’udienza.
Ebbene, come sopra precisato, l’omesso avviso è vizio che può ritenersi sanato, in quanto raggiunto lo
scopo, solo qualora compaia il difensore, d’ufficio o di fiducia, a cui si sarebbe dovuto eseguire la notificazione. Nel caso di specie, l’invalidità riguardava non solo il mancato avviso al difensore di fiducia,
ma anche la sua notifica al difensore di ufficio erroneamente designato dal giudice. Sicché, ammettere
che si possa rimediare a tale duplice errore ritenendo regolare la notifica dell’udienza al difensore di ufficio e provvedendo per di più alla sua sostituzione con altro difensore di ufficio prontamente reperibile, significherebbe – per usare l’espressione del giudice rimettente – affidare alla “volontà opportunistica”, questa volta del giudice, la possibilità di sanare un nullità attinente all’inviolabile diritto di difesa,
che si esplica anche nel diritto di scegliere il proprio difensore di fiducia. Soluzione che a ragione – e
opportunamente – non è stata accolta dalle sezioni unite.
10
Per un panorama delle riforme legislative sulla difesa d’ufficio, incluse le ultime modifiche apportate dal d.lgs. n. 6/2015,
v. A. Diddi, La nuova legge sui difensori di ufficio: cronaca di un’occasione perduta, in Questa rivista, 3/2015, p. 128.
11
Cfr., sul mancato avviso a uno dei difensori di fiducia, F. Cordero, Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 59 ss.; in
giurisprudenza v. Cass., sez. un., 27 gennaio 2011, n. 22242, in CED Cass., n. 249651.
12
F. Cordero, Ideologie del processo penale, cit., p. 59.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIRITTO DI DIFESA TRA EFFETTIVITÀ E NECESSITÀ
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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Limiti al sequestro per la testata giornalistica on line
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 17 LUGLIO 2015, N. 31022 – PRES. SANTACROCE; REL.
MILO
La testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile funzionalmente a quella tradizionale, rientra nel concetto
ampio di stampa e soggiace alla normativa, di rango costituzione e di livello ordinario, che disciplina l’attività d’informazione professionale diretta al pubblico. Il giornale on line, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto
di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di
diffamazione a mezzo stampa.
1. Il G.i.p. del Tribunale di Monza, nell’ambito del procedimento penale a carico dei giornalisti
(Omissis) e (Omissis), indagati in relazione ai reati – come rispettivamente ascritti – di cui agli artt. 57 e
595 c.p. e l. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13, in danno del magistrato (Omissis), disponeva, con decreto del 7
marzo 2014, il sequestro preventivo mediante “oscuramento” – materialmente eseguito il successivo
giorno 13 – della pagina telematica del quotidiano “(Omissis)”, recante l’articolo “toh, giudice cassazione amico toga diffamata”. Il G.i.p. riteneva tale articolo diffamatorio, in quanto insinuava che il predetto magistrato, in servizio presso la Quinta Sezione penale della Corte di cassazione, avrebbe violato il
dovere di astensione nel procedimento penale che vedeva come imputato sempre il (Omissis) per diffamazione in danno di altro magistrato, (Omissis), supposto amico di lunga data del (Omissis), procedimento quest’ultimo definito con sentenza 26 settembre 2012 emessa da un Collegio giudicante del quale
faceva parte appunto il (Omissis), peraltro estensore del provvedimento.
2. A seguito di richiesta di riesame, il Tribunale di Monza, con ordinanza del 31 marzo 2014, decidendo ex artt. 322 e 324 c.p.p., confermava il decreto di sequestro preventivo eseguito mediante “oscuramento” della pagina telematica incriminata.
Il Giudice del riesame, dopo avere, in via preliminare, risolto positivamente la sollevata questione
della competenza per territorio, facendo leva sulla regola suppletiva di cui all’art. 9 c.p.p., comma 3,
(prima iscrizione della notizia di reato), riteneva sussistenti sia il fumus commissi delicti, insito nella dettagliata ed eloquente contestazione in fatto elevata dal p.m. sulla base delle univoche insinuazioni diffamatorie contenute nell’articolo incriminato, sia il periculum in mora, desumibile dalla libera disponibilità in rete della corrispondente pagina telematica, che avrebbe potuto «concretamente aggravare le
conseguenze dannose del reato».
3. Avverso la pronuncia di riesame hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i loro difensori,
gli indagati, sviluppando due articolati e analitici motivi.
3.1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c), inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tenere
conto nell’applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 3 e 21 Cost., nonché inosservanza di
norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 111 Cost.,
comma 6, sotto il profilo della mancanza di motivazione.
Stigmatizzano l’omessa considerazione dei motivi di riesame, con i quali si era specificamente contestata la legittimità del provvedimento di sequestro, per lesione del diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero e della libertà di stampa.
Evidenziano al riguardo: l’illegittimità del sequestro preventivo, mediante oscuramento, della testata telematica, prevedendo la legge esclusivamente il sequestro probatorio della stampa, limitato a sole
tre copie; la cautela reale adottata comportava una disparità di trattamento, con conseguente irragionevolezza della disciplina di riferimento, rispetto alle pubblicazioni tradizionali; la nozione di stampa, definita dalla l. 8 febbraio 1948, n. 47, doveva necessariamente comprendere anche le pubblicazioni teleAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LIMITI AL SEQUESTRO PER LA TESTATA GIORNALISTICA ON LINE
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matiche, come agevolmente era desumibile dalla equiparazione che ne era stata fatta dalla Legge 7
marzo 2001, n. 62 in tema di prodotti editoriali.
Aggiungono che non poteva essere condiviso l’arresto della giurisprudenza di legittimità (Sez. V, 05
novembre 2013, n. 10594, dep. 2014, Montanari) circa l’ammissibilità del sequestro preventivo di articoli
giornalistici on line, misura che sarebbe legittimata dalla considerazione che gli spazi comunicativi sul
web non godono della stessa protezione accordata alla stampa. Tale orientamento non considerava che
la testata telematica regolarmente registrata è “un giornale a tutti gli effetti”; il mezzo elettronico e la
rete costituiscono soltanto una “modalità di diffusione aggiuntiva rispetto a quella tradizionale cartacea”, con l’effetto che doveva privilegiarsi una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina sulla stampa.
3.2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c),
l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all’art. 125 c.p.p., comma
3, e art. 111 Cost., comma 6, sotto il profilo della motivazione meramente apparente in ordine ai presupposti legittimanti la cautela reale.
Più specificamente, contestano la ritenuta sussistenza, con formula tautologica ed astratta, del fumus
commissi delicti e del periculum in mora, evidenziando: 1) di avere verificato la “dimestichezza tra (Omissis) e (Omissis)”, indicando nominativamente la fonte della notizia; 2) di non avere inteso affermare che
l’esito del processo di diffamazione in danno del dr. (Omissis) fosse stato condizionato dall’amicizia tra
costui e il consigliere (Omissis), componente del Collegio giudicante ed estensore della sentenza di legittimità; 3) la mancanza dei requisiti dell’attualità e della concretezza della misura cautelare adottata, a
cagione del tempo di quasi due anni trascorso dalla pubblicazione dell’articolo (30 settembre 2012); 4) la
possibilità di consultare l’articolo incriminato, pubblicato anche sulla edizione cartacea del quotidiano,
nelle emeroteche e nelle raccolte di rassegna stampa.
4. I ricorsi sono stati assegnati ratione materiae alla Quinta Sezione penale. Tutti i componenti del Collegio, costituito per l’udienza del 24 settembre 2014 fissata per la trattazione dei ricorsi, hanno presentato dichiarazione di astensione per gravi ragioni di convenienza, ravvisate nel fatto che, presso quella
stessa Sezione, prestava servizio il consigliere (Omissis) che, quale querelante e persona offesa nel procedimento principale, aveva sollecitato, tramite il proprio difensore, il sequestro di cui si discute.
Il Primo Presidente, con provvedimento del 10 luglio 2014, ha autorizzato l’astensione del Collegio e
contestualmente, rilevato che le medesime gravi ragioni di convenienza sussistevano per tutti i magistrati della Quinta Sezione penale, ha assegnato il processo alla Prima Sezione penale.
5. Quest’ultima Sezione, con ordinanza 3 ottobre 2014, depositata il successivo giorno 30, osserva che
il sollecitato scrutinio di legittimità della pronuncia del Tribunale del riesame impone la soluzione preliminare di due questioni di diritto, strettamente connesse tra loro: a) la prima, di carattere generale,
concerne la stessa possibilità giuridica di disporre il sequestro preventivo di risorse telematiche, posto
che la cautela si risolverebbe non nella materiale apprensione della cosa pertinente al reato, bensì nell’imposizione all’indagato o all’imputato o a terzi di un tacere, consistente nel compimento delle operazioni tecniche necessarie per “oscurare” e rendere, quindi, inaccessibile agli utenti, ove ne ricorrano i
presupposti, un intero sito o una pagina web; b) una volta risolta positivamente tale prima questione,
residua quella ulteriore dell’ammissibilità del sequestro preventivo della pagina web di una testata
giornalistica telematica debitamente registrata.
In relazione al primo tema, la Sezione rimettente, dopo avere dato atto che la giurisprudenza di legittimità era pacificamente orientata, pur senza particolari approfondimenti, nel senso dell’ammissibilità del sequestro preventivo mediante oscuramento di interi siti internet o di singole pagine web, manifesta perplessità sulla possibilità di imporre, a scopo preventivo, all’indagato, all’imputato o a terzi privati il compimento di attività tecniche necessarie per impedire l’accesso al sito o alla pagina web, oggetto di sequestro, e ciò perchè la normativa sulla cautela reale, tipizzata e disciplinata dall’art. 321 c.p.p. e
art. 104 disp. att. c.p.p., implica l’adprehensio, in senso materiale o giuridico, della res con il connesso
vincolo d’indisponibilità della stessa e non già l’imposizione esclusiva di un tacere.
Aggiunge che il legislatore, con la norma di cui all’art. 254-bis c.p.p., disciplina il sequestro probatorio di dati informatici presso fornitori di servizi informatici, telematici e di telecomunicazioni, ma analoga previsione non è rinvenibile in materia di sequestro preventivo.
Con riferimento al secondo tema, contesta l’orientamento interpretativo espresso da Sez. V, del 05
novembre 2013, n. 10594, dep. 2014, Montanari, che aveva escluso la possibilità di applicare, in via
estensiva o analogica, la normativa sulle guarentigie per la stampa ai giornali telematici.
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Osserva che il principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero con ogni mezzo di
diffusione deve indurre, invece, ad equiparare il giornale on line a quello tradizionale e a ravvisare, sul
piano logico-giuridico, la eadem ratio ai fini dell’applicazione delle relative guarentigie, con l’effetto che
deve ritenersi inibito, salvo le eccezioni espressamente previste, il sequestro preventivo del prodotto
editoriale telematico, destinatario peraltro, al pari della stampa tradizionale, delle provvidenze di cui
alla l. n. 62/2001.
Poichè entrambi i temi dibattuti potevano dare luogo a contrasto giurisprudenziale rispetto agli
orientamenti già espressi in sede di legittimità, la Prima Sezione ha rimesso d’ufficio, ai sensi dell’art.
618 c.p.p., i ricorsi alle Sezioni Unite.
6. Il Primo Presidente, con decreto del 4 novembre 2014, ha assegnato i ricorsi alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza camerale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le questioni di diritto delle quali sono investite le Sezioni Unite sono le seguenti:
– “se sia ammissibile il sequestro preventivo, anche parziale, di un sito web”;
– “se sia ammissibile, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, il sequestro preventivo
della pagina web di una testata giornalistica telematica debitamente registrata”.
2. La prima questione, di carattere generale, concerne la possibilità giuridica di disporre, per contrastare reati commessi nella rete internet, il sequestro preventivo delle risorse informatiche o telematiche
d’interesse.
La tematica, pur non espressamente dedotta dai ricorrenti, deve comunque essere esaminata, in
quanto strettamente connessa alla specifica questione che viene qui in rilievo e che presuppone – al di
là degli ulteriori problemi ermeneutici coinvolti e di cui si dirà in seguito – la positiva soluzione della
prima.
2.1. La Sezione rimettente manifesta perplessità al riguardo, evidenziando che in questo caso la misura cautelare, contrariamente a quanto tipizzato e disciplinato dall’art. 321 c.p.p. e art. 104 disp. att.
c.p.p., si concretizzerebbe non nella materiale apprensione della cosa pertinente al reato o nella indisponibilità giuridica della stessa, bensì nell’imposizione all’indagato, all’imputato ovvero a terzi di un
tacere, consistente nel compimento delle operazioni tecniche necessarie per oscurare e rendere, quindi,
inaccessibile agli utenti la visione del sito o della pagina web incriminati. Ciò tradirebbe la natura reale
della cautela, che si trasformerebbe in una inibitoria atipica con effetti obbligatori, il che violerebbe il
principio di legalità processuale.
2.2. Non mancano, in verità, decisioni di questa Corte che, sia pure analizzando casi differenti (in
materia di sequestro di documenti) da quello in esame, escludono la possibilità di perseguire, attraverso l’adozione del sequestro preventivo, la finalità di inibire l’esercizio di determinate attività.
Si è affermato, infatti, che il sequestro preventivo può avere ad oggetto solo il risultato di un’attività
e non l’attività in sè, perché è estranea ad esso la funzione di inibizione di comportamenti, sicché è illegittimo, risolvendosi peraltro nell’indebita invasione della sfera di attribuzioni della giurisdizione civile, il sequestro di un fascicolo processuale relativo all’esecuzione immobiliare in corso nei confronti di
un soggetto vittima di fatti estorsivi, finalizzato ad impedire che il reato sia portato ad ulteriori conseguenze (Sez. II, 09 marzo 2006, n. 10437, Sindona, Rv. 233813). Con il sequestro preventivo non è possibile imporre al destinatario un tacere, atteso che tale misura cautelare reale mira esclusivamente al congelamento della situazione pericolosa (Sez. 3, 17 gennaio 2002, n. 11275, Palmieri, Rv. 221434) e non è
destinata a svolgere una atipica funzione inibitoria di comportamenti rilevanti sul piano penale, essendo predisposti, a tal fine, istituti di natura diversa, quali l’arresto o il fermo (Sez. 6, 14 dicembre 1998, n.
4016, dep. 1999, Bottani, Rv. 212349).
2.3. Devesi, tuttavia, evidenziare che la giurisprudenza di legittimità, con orientamento costante, ha
ritenuto (quanto meno implicitamente) legittimo il sequestro preventivo mediante “oscuramento” di un
intero sito telematico o di una pagina web, imponendo al fornitore di connettività o al soggetto che detiene la risorsa elettronica di porre in essere le operazioni tecniche necessarie per rendere il sito o la pagina non consumabili all’esterno (Sez. I, 04 giugno 2014, n. 32846, Ceraso, non massimata; Sez. V, 05
novembre 2013, n. 10594, dep. 2014, Montanari, Rv. 259887; Sez. V, 30 novembre 2013, n. 11895, dep.
2014, Belviso, Rv. 258333; Sez. V, 19 settembre 2011, n. 46504, Bogetti, non massimata; Sez. V, 18 gennaio 2011, n. 47081, Groppo, Rv. 251208; Sez. V, 10 gennaio 2011, n. 7155, Barbacetto, Rv. 249510; Sez.
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VI, 28 giugno 2007, n. 30968, Pantano, Rv. 237485; Sez. III, 27 settembre 2007, n. 39354, Bassora, Rv.
237819).
Difettano, però, in tali decisioni, a giustificazione della tesi sostenuta, che pur si ritiene corretta, il
necessario grado di approfondimento del tema specifico e una completa ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
S’impone, pertanto, un esame analitico delle ragioni che giustificano il sequestro preventivo di risorse informatiche o telematiche pertinenti al reato, quando la libera disponibilità delle stesse possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati.
3. L’articolo 321 c.p.p. disciplina il sequestro preventivo, stabilendo testualmente, al comma 1, che
«Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico
ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato.
Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari». Ai sensi del
successivo comma 3-bis, nel corso delle indagini preliminari, di fronte a una situazione di urgenza, il
sequestro è disposto dal pubblico ministero; prima dell’intervento di costui e nella stessa situazione di
urgenza, al sequestro procedono ufficiali di polizia giudiziaria; in questi due casi, devono fare seguito
la convalida e l’emissione del decreto di cui al comma 1 da parte del giudice. È previsto anche (comma
2) il sequestro preventivo della cosa pericolosa in sè, essendone consentita o imposta la confisca.
Analizzando i presupposti di questa figura di sequestro, appare evidente che essa sia caratterizzata
da un immediato fine di prevenzione. Trattasi di sequestro designato come “impeditivo” e tendenzialmente orientato ad operare, pur non perdendo la sua connotazione “reale”, come inibitoria, in quanto
caratterizzato – come si è precisato in dottrina – da finalità di difesa sociale perchè “il vincolo diretto a
rendere indisponibile la cosa è imposto per le generali esigenze di giustizia, quali sono quelle di tutela
della collettività”.
La scelta sistematica del legislatore di inserire l’istituto tra le misure cautelari di cui al Libro IV del
codice di rito è espressione di un preciso disegno di inserire in una cornice unitaria i provvedimenti che
colpiscono le persone e le cose.
Il sequestro preventivo (accanto a quello conservativo) è annoverato tra le cautele reali, designando
così l’oggetto del sequestro e l’effetto reale ad esso sicuramente connaturato.
Si legge nella Relazione al Progetto preliminare del codice di rito del 1988 che tale cautela, in altri
termini, “crea l’indisponibilità di cose o beni con una incisività analoga a quella che nasce dalla custodia cautelare e da altre forme di misure cautelari personali. Al fine di garantire l’esecuzione della sentenza che potrà essere pronunciata a conclusione del processo, ovvero quando occorre impedire che
l’uso della cosa possa agevolare le conseguenze del reato od indurre a nuovi reati, si creano dei vincoli
che, si potrebbe dire, dalla cosa passano alla persona, nel senso che il sequestro non mira semplicemente a trasferire nella disponibilità del giudice ciò che deve essere utilizzato a fini di prova, ma tende piuttosto ad inibire certe attività (la vendita o l’uso) che il destinatario della misura può realizzare mediante
la cosa” (p. 79). Sottolinea ancora la Relazione che “fondamento dell’istituto in questione resta l’esigenza (…) di tutela della collettività con riferimento al protrarsi dell’attività criminosa e dei suoi effetti”
(p. 80).
Tali profili sono evidenziati anche dalla Corte costituzionale allorchè precisa (sentenza n. 48 del
1994) che la cautela reale di cui si discute attiene a “cose” che presentano un tasso di pericolosità tale da
giustificare l’imposizione del vincolo. La misura, pur raccordandosi ontologicamente a un reato, può
prescindere totalmente da qualsiasi profilo di “colpevolezza”, proprio perchè la funzione preventiva
non si proietta necessariamente sull’autore del fatto criminoso, ma su beni che, postulando un vincolo
di pertinenzialità col reato, vengono riguardati dall’ordinamento quali strumenti la cui libera disponibilità può costituire situazione di pericolo.
Il rapporto di pertinenzialità tra cosa e reato è l’indice imprescindibile della operatività oggettiva del
sequestro preventivo.
La locuzione “cosa pertinente al reato” di cui all’art. 321 c.p.p. ha un significato più ampio di quella
“corpo di reato” impiegata nell’art. 253 c.p.p. e comprende non soltanto qualunque cosa sulla quale e a
mezzo della quale il reato fu commesso o che ne costituisce il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche
quelle legate indirettamente alla fattispecie criminosa.
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Nella previsione dell’art. 321 c.p.p., lo stesso concetto di “pertinenzialità” è diverso, nella sua portata, da quello presente nell’analoga previsione dell’art. 253 c.p.p.
La pertinenza al reato di cui all’art. 253 c.p.p., che fa riferimento alle «cose (…) necessarie per
l’accertamento dei fatti», circoscrive il potere dell’autorità giudiziaria al solo sequestro di quelle cose
che hanno un legame probatorio con il fatto per cui si procede.
La nozione di pertinenza di cui all’art. 321 c.p.p., invece, delimita il campo di operatività del sequestro preventivo alla sua finalità, con l’effetto che la misura, come si è osservato in dottrina, finisce con
l’assumere una “connotazione di natura sostanziale”, nel senso che il vincolo d’indisponibilità al quale
la cosa è sottoposta scongiura il pericolo della perpetuatici criminis ovvero della commissione di altri
reati.
Conclusivamente la finalità di prevenzione che la misura persegue è mediata dalla cosa, considerata
nel rapporto con la persona che ne ha la disponibilità, il che legittima il sequestro nei casi in cui lo stretto legame tra la persona e il bene sia la causa del pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di reiterazione dell’attività criminosa.
4. Ciò posto, deve rilevarsi che il caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite si connota per la
particolarità dell’oggetto della coercizione reale.
Tale oggetto, almeno in apparenza, non si apprezza come una entità del mondo fisico, suscettibile di
apprensione, possesso e custodia (id quod tangi potest), trattandosi di un prodotto del pensiero umano
che circola liberamente nella rete telematica in forma dematerializzata.
Il sequestro preventivo di risorse telematiche o informatiche diffuse sul web implica un intervento
sul prestatore di servizio (Internet Service Provider), perchè impedisca l’accesso al sito o alla singola
pagina ovvero disponga il blocco o la cancellazione del file incriminato; tanto comporta inevitabilmente
l’inibitoria di una determinata attività.
4.1. Già nel vigore del codice di procedura penale del 1930, mancando una specifica disciplina idonea a fronteggiare condotte delittuose gravemente lesive di interessi non solo individuali ma anche collettivi, era stata avvertita l’esigenza di attivare strumenti con finalità preventive.
La giurisprudenza, forzando l’interpretazione dell’art. 337 c.p.p. e andando al di là del suo apparente dominio, aveva ampliato il campo di operatività del sequestro penale, impiegato frequentemente, oltre che a scopo probatorio, in funzione preventiva; avvalendosi, inoltre, degli artt. 231 e 232 c.p.p. in relazione all’art. 219 c.p.p., aveva escogitato una gamma di provvedimenti atipici in funzione inibitoria,
utilizzati per evitare che l’attività illecita arrecasse ulteriori pregiudizi.
4.2. Il codice di procedura penale vigente ha previsto e disciplinato l’istituto del sequestro preventivo, che, di fronte ad illeciti penali commessi nell’ambito dello spazio riservato ai nuovi modelli comunicativi e alle innovative modalità di fruizione dei beni immateriali, è destinato ad operare anche con
effetti inibitori.
La misura cautelare, in questa nuova realtà, non può limitarsi a porre un vincolo d’indisponibilità su
di una cosa, tenuto conto che tale vincolo è comunque implicato nell’agire contra legem della persona,
alla quale, per garantire l’effettività della cautela, devono necessariamente essere inibite le corrispondenti attività pericolose realizzabili mediante la disponibilità del bene. E ciò a superamento del riferimento riduttivo e anacronistico alla sola cosa materiale, per dare il necessario risalto al prodotto intellettuale in essa incorporato, che costituisce l’oggetto primario del vincolo d’indisponibilità.
Devesi quindi stabilire se tutto ciò sia compatibile col principio di legalità processuale, considerato
che il sequestro di cui all’art. 321 c.p.p. ha una evidente natura reale e comporta, pertanto, la materiale
apprensione della cosa pertinente al reato. In altri termini, è necessario chiarire se il dato informatico in
quanto tale abbia una sua fisicità, rientri nel concetto di “cosa” e possa essere oggetto di coercizione
reale.
5. Internet non è un luogo, né uno spazio, ma una metodologia di comunicazione ipertestuale che
consente l’accesso a qualsiasi contenuto digitale posto su sistemi informatici connessi alla rete.
La dimensione fisica delle informazioni reperibili attraverso la rete telematica consiste nella struttura
di ciascun file e si radica spazialmente nel computer, al cui interno il documento è materialmente memorizzato.
I documenti reperibili in rete non sono altro che files (registrazioni magnetiche o ottiche di bytes) registrati all’interno dei servers degli Internet Service Providers ovvero sui computers degli utenti, utilizzando un sia pure infinitesimale spazio fisico. Il dato informatico, quindi, è incorporato sempre in un
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supporto fisico, anche se la sua fruizione attraverso la rete fa perdere di vista la sua “fisicità”. Al supporto fisico di memorizzazione si fa specifico riferimento nel Codice dell’amministrazione digitale (Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82) nella parte in cui disciplina la conservazione sicura dei dati e ne
garantisce, quindi, la protezione e l’immutabilità (art. 1, 43 e 44).
La visualizzazione dei suddetti documenti non avviene “da remoto”, ma nel computer di ciascun
utente, attraverso il programma browser, che, una volta individuato il documento, lo preleva, lo copia e
lo rende così visibile.
6. Devesi, inoltre, sottolineare che, a seguito dell’entrata in vigore della l. 18 marzo 2008, n. 48, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, sulla criminalità
informatica (cybercrime) e di adeguamento del nostro ordinamento agli impegni assunti con la medesima Convenzione, il dato informatico è esplicitamente equiparato al concetto di “cosa”, che, se pertinente al reato, può essere oggetto di sequestro.
La Convenzione, infatti, dopo avere definito all’art. 1 il concetto di “dato informatico”, disciplina nel
successivo art. 19 “Perquisizione e sequestro di dati informatici immagazzinati”, stabilendo che “Ogni
Parte deve adottare le misure legislative e di altra natura che dovessero essere necessarie per consentire
alle proprie autorità competenti di sequestrare o acquisire in modo simile i dati informatici per i quali si
è proceduto all’accesso (…). Tali misure devono includere il potere di: a) sequestrare o acquisire in modo simile un sistema informatico o parte di esso o un supporto per la conservazione di dati informatici;
b) fare e trattenere una copia di quei dati informatici; c) mantenere l’integrità dei relativi dati informatici immagazzinati; d) rendere inaccessibile o rimuovere quei dati dal sistema informatico analizzato”. Al
termine “sequestrare” è affiancata l’espressione “acquisire in modo simile”, indicativa, come si legge
nella relazione esplicativa del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, degli altri modi con i quali
i dati intangibili possono essere resi indisponibili (renderli cioè inaccessibili o rimuoverli dal sistema).
Le modifiche apportate, in esecuzione di tale Convenzione, dalla Legge n. 48 del 2008 al codice penale e a quello di procedura penale confermano l’assimilazione del dato informatico alle “cose”.
Si pensi all’introduzione, tra i delitti contro il patrimonio, degli articoli 635-bis e 635-ter c.p., che prevedono il “Danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici”, appartenenti rispettivamente a soggetti privati o a soggetti pubblici; degli articoli 635-quater e 635-quinquies c.p., che puniscono
il “Danneggiamento di sistemi informatici o telematici” privati o di pubblica utilità.
La netta distinzione dei primi due reati dagli ultimi due conferma che il dato informatico di per sè,
considerato quale “cosa”, può essere oggetto di danneggiamento separatamente dal danneggiamento
del sistema informatico nel quale è inserito.
Anche le innovazioni introdotte nel codice di rito, con riferimento alle norme relative ai mezzi di ricerca della prova e all’attività a iniziativa della polizia giudiziaria, evidenziano chiaramente che il dato
informatico è normativamente equiparato a un oggetto “fisico”.
La l. n. 48/2008 (cfr. artt. 8 e 9) ha rimodulato disposizioni già vigenti, come il sequestro di oggetti di
corrispondenza “anche se inoltrati per via telematica” (articolo 254 c.p.p., comma 1); ha introdotto nuove disposizioni, come il sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi informatici, telematici e
di telecomunicazioni (articolo 254-bis c.p.p.); ha sottoposto, inoltre, ad un’operazione di “chirurgia lessicale” numerose altre disposizioni processuali, ampliandone l’oggetto attraverso l’inserimento di
espressioni che rimandano ad attività connesse a “dati, informazioni e programmi informatici”: il riferimento è alla materia di ispezioni e rilievi tecnici (art. 244 c.p.p., comma 2), all’esame di atti, documenti
e corrispondenza presso banche (art. 248 c.p.p., comma 2), ai doveri di esibizione e consegna (art. 256
c.p.p., comma 1), agli obblighi e alle modalità di custodia (art. 259 c.p.p., comma 2), ai sigilli e ai vincoli
delle cose sequestrate (art. 260 c.p.p., commi 1 e 2), all’acquisizione di plichi e corrispondenza ad iniziativa della polizia giudiziaria (art. 353 c.p.p., comma 3) e, infine, agli accertamenti urgenti e al sequestro
ad opera sempre della polizia giudiziaria (art. 354 c.p.p., comma 2).
6.1. Al di là della discutibile scelta sul metodo emendativo seguito, deve ritenersi ormai per definitivamente acquisito che il dato informatico in sè, in quanto normativamente equiparato a una “cosa”,
può essere oggetto di sequestro, da eseguirsi, avuto riguardo al caso concreto, secondo determinate
modalità espressamente previste dal legislatore e nel rispetto del principio di proporzionalità.
6.2. È pur vero che le innovazioni che hanno interessato la normativa processuale richiamata incidono direttamente sul sequestro probatorio (o sul dovere di esibizione e consegna), quale mezzo di ricerca
della prova, mentre nessun riferimento fanno al sequestro preventivo.
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Rimane comunque il fatto che i due istituti, designati con lo stesso nome di genere, pur perseguendo
scopi diversi – assolvendo il sequestro probatorio la funzione endoprocessuale di mezzo di ricerca della
prova e assumendo quello preventivo natura cautelare, tanto da estendere eventualmente i suoi effetti
anche al di là delle immediate esigenze processuali –, hanno una comune caratteristica, quella cioè di
scongiurare una indiscriminata utilizzabilità della res che ne forma oggetto, sottraendola alla disponibilità materiale e/o giuridica del proprietario, possessore o detentore.
Ne consegue, pertanto, che le considerazioni più sopra esposte circa l’equiparazione normativa del
dato informatico alla res devono essere estese al sequestro preventivo avente ad oggetto dati informatici, non essendo concepibile sul piano logico una differenziata valutazione al riguardo, posto che la stessa attiene al medesimo oggetto del vincolo d’indisponibilità.
6.3. A questo punto, però, devono individuarsi, nel rispetto del principio di legalità processuale, le
concrete modalità esecutive della cautela reale che ha ad oggetto risorse telematiche o informatiche,
non essendo rinvenibile nel codice di rito alcuna norma analoga a quella prevista per il sequestro probatorio (art. 254-bis c.p.p.).
Nel contesto della realtà digitale della rete, devesi stabilire, in sostanza, se il sequestro preventivo
debba essere limitato alla sola adprehensio in senso fisico della “cosa” o piuttosto debba concretizzarsi,
tenuto conto della peculiare realtà nella quale va ad incidere, in una vera e propria inibitoria rivolta al
fornitore di connettività, che deve impedire agli utenti l’accesso al sito o alla singola pagina web incriminati ovvero rimuovere il file che viene in rilievo, con l’effetto di arrestare l’attività criminosa in atto o
scongiurare la commissione di ulteriori condotte illecite.
7. Ritiene il Collegio che il sequestro preventivo di risorse telematiche o informatiche sia compatibile
con la detta inibitoria, la sola in grado di assicurare “effettività” alla cautela.
Soccorre al riguardo, sul piano normativo, il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, che, in attuazione della Direttiva n. 2000/31/CE, ha regolamentato taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione
nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.
L’intera gamma dei servizi di rete è disciplinata nel citato decreto legislativo.
Questo si occupa, all’articolo 14, dell’attività di semplice trasporto, vale a dire della diffusione in rete
delle informazioni fornite da un destinatario del servizio (mere conduit); all’articolo 15, dell’attività di
memorizzazione automatica, intermedia e temporanea (caching) delle informazioni fornite dall’utente e
trasmesse in rete al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari che ne
fanno richiesta; all’articolo 16, dell’attività di memorizzazione, con caratteri di tendenziale stabilità, delle informazioni (hosting).
L’ultimo comma delle tre norme richiamate, riproducendo pedissequamente il contenuto della Direttiva comunitaria (artt. 12, 13 e 14), prevede che l’autorità giudiziaria o quella amministrativa con
funzioni di vigilanza può esigere, anche in via di urgenza, che il prestatore di un servizio della società
dell’informazione (ossia l’Internet Service Provider) «impedisca o ponga fine alle violazioni commesse».
Il successivo art. 17, comma 3, inoltre, contempla che l’autorità giudiziaria può richiedere al detto
prestatore di inibire l’accesso al contenuto illecito del servizio offerto.
Come correttamente rilevato da Sez. III, 29 settembre 2009, n. 49437, Sunde Kolmisoppi (decisione di
ampio respiro in tema di copyright), la lettura congiunta e coordinata di tutte le citate disposizioni consente di affermare che quanto in esse previsto, imponendo, per effetto della richiesta dell’autorità giudiziaria, un obbligo di attivazione da parte del prestatore dei servizi telematici, delinea una vera e propria inibitoria.
Ed invero, il meccanismo processuale, attraverso il quale si consegue l’obiettivo di paralizzare la
protrazione delle conseguenze dannose del reato o il rischio di reiterazione dell’attività criminosa, implica un duplice intervento: 1) il sequestro preventivo con cui s’impone al fornitore dei servizi telematici di bloccare l’accesso degli utenti alle risorse elettroniche incriminate; 2) l’intervento tecnico di tale
fornitore, che deve rendere, operando in modo consequenziale, concretamente indisponibili tali risorse.
Il d.lgs. n. 70/2003, artt. 14, 15, 16 e 17 integrano, con riferimento alla specifica materia disciplinata,
il contenuto dell’art. 321 c.p.p. e consentono di superare qualunque riserva circa la possibilità di sottoporre a sequestro preventivo dati informatici che circolano in rete in forma dematerializzata. Tale misura cautelare, per conseguire lo scopo che le è proprio, deve implicare necessariamente l’inibitoria
dell’attività criminosa in atto.
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Se si considera che la Relazione al Progetto preliminare del codice di rito specifica, come si è più sopra detto, che il sequestro preventivo non mira soltanto a sottrarre la disponibilità della cosa pertinente
al reato a chi la detiene, ma “tende piuttosto ad inibire certe attività (…) che il destinatario della misura
può realizzare mediante la cosa”, è evidente che il vincolo d’indisponibilità imposto su una cosa pertinente al reato denuncia, di per sè, il carattere reale della misura. Tale carattere non viene meno per il
solo fatto che vengono contestualmente precluse le attività che richiedono la disponibilità della cosa,
aspetto quest’ultimo che non trasforma la cautela in una mera inibitoria di attività e non ne vanifica il
carattere reale che la tipizza.
Conclusivamente, nell’ambito del mondo digitale, il sequestro preventivo, ove ne ricorrano i presupposti, investe direttamente la disponibilità delle risorse telematiche o informatiche d’interesse,
equiparate normativamente a “cose”, e ridonda, solo come conseguenza, anche in inibizione di attività,
per garantire concreta incisività alla misura. Questa, quindi, non tradisce la sua connotazione di cautela
reale e non si pone comunque, anche in relazione al suo risvolto inibitorio, al di fuori della legalità, tenuto conto delle specifiche previsioni normative di cui al Decreto Legislativo n. 70 del 2003.
Nè va sottaciuto che la normativa comunitaria è costantemente orientata nel senso di riconoscere
espressamente che l’oscuramento di interi siti web o di singole pagine telematiche con contenuti illeciti
è un efficace strumento di contrasto alla criminalità informatica: non è superfluo richiamare l’art. 25
della Direttiva 2011/93/UE sulla pedopornografia, alla quale si è data attuazione nell’ordinamento interno con il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 39.
8. Alla luce delle argomentazioni sin qui sviluppate, deve enunciarsi il seguente principio di diritto:
– “Ove ricorrano i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, è ammissibile, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. di un sito web o di una
singola pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei relativi servizi di attivarsi per rendere
inaccessibile il sito o la specifica risorsa telematica incriminata”.
9. Risolto positivamente tale problema di carattere generale, deve ora essere esaminata l’ulteriore
questione dell’ammissibilità o meno del sequestro preventivo di una testata giornalistica on line regolarmente registrata o di una determinata pagina web di detta testata.
È questo il tema di specifico interesse per la soluzione del caso portato all’attenzione delle Sezioni
Unite.
10. La libertà di stampa è un principio cardine su cui si fonda lo Stato democratico.
L’articolo 21 Cost., dopo avere riconosciuto nel comma 1 il diritto di libera manifestazione del pensiero
con ogni mezzo di diffusione, riserva le previsioni dei commi successivi specificamente alla stampa.
L’importanza preminente a questa riservata dal Costituente è conseguenza di un percorso storico e
normativo, che è opportuno, sia pure per sintesi, ripercorrere, per apprezzare appieno l’evoluzione
normativa a presidio della libertà di informazione e il nesso inscindibile tra questa e l’esercizio della
democrazia.
11. La storia dell’Italia unita, in tema di libertà di stampa, ha avuto avvio con l’articolo 28 dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, che recepiva il modello francese, di matrice positivistica, cristallizzato
nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1789 (articolo 11).
Il richiamato art. 28 stabiliva che «la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi». Si conferiva così al Parlamento, stante il carattere flessibile dello Statuto, una sorta di delega in bianco per “reprimere gli abusi” e adottare, quindi, nel tempo qualsiasi provvedimento anche restrittivo di tale libertà.
Fece seguito, ad integrazione della generica formulazione della norma statutaria, il r.d. 26 marzo
1848, n. 695, meglio noto come “Editto Albertino sulla Stampa”, che rifletteva una concezione liberale e
abbastanza garantista.
L’art. 1, infatti, statuiva che “La manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e di qualsiasi
artificio meccanico atto a riprodurre segni figurativi, è libera: quindi ogni pubblicazione di stampati,
incisioni, litografie, oggetti di plastica e simili è permessa con che si osservino le norme seguenti”.
L’Editto, inoltre, vietava provvedimenti restrittivi di carattere preventivo (censura) e consentiva
l’ammissibilità del sequestro, previa autorizzazione del giudice, soltanto in caso di commissione di reati
a mezzo stampa e di accertata responsabilità penale.
11.1. Nel volgere di pochi anni, però, l’impianto dell’Editto, a causa delle tensioni che conseguirono
al raggiungimento dell’unità d’Italia, subì uno stravolgimento per effetto dell’approvazione di alcune
leggi di polizia.
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Il riferimento è alle Legge 13 novembre 1859, n. 3720, Legge 20 marzo 1865, n. 2248, Legge 30 giugno
1889, n. 6144, che incisero sensibilmente sulla ratio ispiratrice dell’Editto, riducendo le garanzie in esso
previste.
Venne introdotta l’autorizzazione obbligatoria di polizia per l’esercizio dell’attività tipografica; si riconobbe all’autorità di pubblica sicurezza il potere di disporre il sequestro preventivo; la responsabilità
penale per i reati a mezzo stampa, già prevista per l’autore dell’articolo e per il gerente responsabile,
venne estesa anche agli editori; la prescritta comunicazione alla Segreteria di Stato per gli affari interni
dell’avvio delle pubblicazioni assunse, di fatto, i connotati di una vera e propria autorizzazione, che poteva quindi anche essere negata.
11.2. All’inizio del ventesimo secolo, recuperato un clima di maggiore distensione con la stabilità politica e sociale del periodo giolittiano, la Legge 28 giugno 1906, n. 278 (c.d. legge Sacchi), abolì la licenza
di polizia per l’esercizio dell’arte tipografica, stabilì chiaramente che il giudice poteva disporre il sequestro degli stampati solo a seguito di sentenza di condanna del responsabile e che il sequestro preventivo poteva essere disposto, sempre dal giudice e non ad iniziativa dell’autorità di pubblica sicurezza,
esclusivamente nei casi di pubblicazioni contrarie al buon costume e di pubblicazioni non depositate
presso l’autorità pubblica.
11.3. A seguito del coinvolgimento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, vi fu un nuovo irrigidimento, in senso illiberale, della normativa in materia.
Con la Legge n. 83 del 1915 e il Regio Decreto n. 675 dello stesso anno, si attribuì al potere esecutivo
la facoltà di vietare la pubblicazione di ogni notizia di carattere militare e al prefetto il compito di sequestrare le pubblicazioni non rispettose di tale divieto. Per evitare il sequestro, fu prevista anche la facoltà di sottoporre preventivamente gli stampati al prefetto, per ottenere il nulla osta alla pubblicazione, facoltà avvertita progressivamente come un obbligo in capo agli editori, il che si concretizzò in una
vera e propria forma di censura preventiva.
11.4. La situazione peggiorò ulteriormente con l’avvento del regime fascista.
Con una serie di interventi legislativi (R.D.L. n. 3288 del 1923; R.D.L. n. 1081 del 1924; Legge n. 2307,
n. 2308, n. 2309 del 1925; testi unici della legislazione di pubblica sicurezza del 1926 e del 1931 e relativi
regolamenti), la libertà di stampa, in linea con la tendenza del regime a reprimere ogni forma di dissenso, subì severe restrizioni: sul gerente responsabile delle pubblicazioni periodiche gravava una responsabilità a titolo oggettivo per fatto altrui, mentre la sua responsabilità, per le pubblicazioni non periodiche, era sussidiaria a quella dell’autore e dell’editore; la sua nomina doveva ottenere il placet del prefetto, che poteva liberamente revocarla, determinando conseguentemente la chiusura del giornale; la figura del gerente venne poi sostituita da quella del direttore responsabile, nominato dalla Corte d’appello;
l’iscrizione obbligatoria all’Albo dei giornalisti, subordinata alla certificazione prefettizia di buona condotta politica, era funzionale a garantire che non venissero divulgate notizie ed opinioni contrarie al regime; furono ampliati i poteri dell’autorità di pubblica sicurezza, con la reintroduzione della licenza di
polizia per l’esercizio dell’arte tipografica e con l’attribuzione alla polizia del potere, assolutamente discrezionale, di procedere al sequestro preventivo degli stampati, a prescindere dall’accertamento giudiziario di eventuali responsabilità penali; ogni aspetto della vita culturale venne sottoposto a rigoroso
controllo e la comunicazione politica del regime, opportunamente filtrata dall’Ente Stampa, risultò
omogenea nei diversi organi di informazioni.
12. Con la caduta del regime fascista e alla vigilia del referendum del 2 giugno 1946, vi fu un primo
intervento legislativo, che rappresentò una svolta radicale rispetto al passato e restituì alla stampa la
sua dignità di diritto di libertà.
Il R.D.L. 31 maggio 1946, n. 561, ancora oggi in vigore, abolito il sequestro preventivo ad iniziativa
dell’autorità di pubblica sicurezza, prevede il sequestro come strumento esclusivamente repressivo, attivabile dal giudice solo in caso di condanna irrevocabile per un reato a mezzo stampa. Prima della
condanna irrevocabile, consente, tuttavia, all’autorità giudiziaria di disporre il sequestro probatorio di
sole tre copie dello stampato ai fini dell’accertamento di eventuali responsabilità penali (articolo 1). Le
uniche ipotesi di sequestro preventivo rimaste in vita (articolo 2) sono quelle aventi ad oggetto giornali
o stampati dal contenuto osceno o offensivo della pubblica decenza ovvero divulganti mezzi rivolti a
procurare l’aborto (dichiarato incostituzionale, con sentenza n. 49 del 1971, il riferimento anche alla divulgazione di mezzi rivolti “a impedire la procreazione”).
13. La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, proclama testualmente all’articolo 21:
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“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il
tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito
da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare
denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale,
che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a
stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
L’Assemblea costituente, in attuazione della 17 disposizione transitoria della Carta fondamentale,
varò anche la Legge 8 febbraio 1948, n. 47, intitolata “Disposizioni sulla stampa”.
I due eventi sono da raccordare e si integrano tra loro.
L’articolo 21 Cost., comma 2, sancisce che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Il termine “stampa” compare per la prima volta nel dettato costituzionale e la Legge n. 47 del 1948,
articolo 1 precisa che sono da considerarsi stampe o stampati “tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.
L’articolo 2 della stessa legge disciplina le indicazioni obbligatorie sugli stampati, finalizzate a individuare i responsabili di eventuali illeciti. La previsione del successivo articolo 5 circa l’obbligo di registrazione della stampa periodica presso la cancelleria del competente Tribunale non è in contrasto con il
dettato costituzionale della non assoggettabilità della stampa ad autorizzazioni, considerato che non v’è
alcun margine di discrezionalità dell’organo competente a ordinare l’iscrizione del giornale nell’apposito registro, ove la documentazione presentata sia regolare (Corte cost., sent. n. 31 del 1957).
L’articolo 21 Cost., comma 3, disciplina l’istituto del sequestro, sottoponendolo alla duplice garanzia
della riserva di legge e di giurisdizione.
Il sequestro della stampa può essere disposto, con atto motivato dell’autorità giudiziaria, soltanto
nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi o nel caso di stampa clandestina. Il riferimento alla legge sulla stampa non introduce una riserva qualificata di legge, ma è indicativo del complesso delle norme riguardanti la materia (Corte cost., sentt. n. 4 del 1972 e n. 60 del
1976).
I casi nei quali le leggi vigenti consentono il sequestro preventivo sono: a) violazione delle norme
sulla registrazione delle pubblicazioni periodiche e sull’indicazione dei responsabili (Legge n. 47 del
1948, articoli 3 e 16); b) stampati osceni o offensivi della pubblica decenza ovvero divulganti mezzi atti
a procurare l’aborto (R.D.L. n. 561 del 1946, articolo 2); c) stampa periodica che faccia apologia del fascismo (Legge 20 giugno 1952, n. 645, articolo 8); d) violazione delle norme a protezione del diritto d’autore (Legge 22 aprile 1941, n. 633, articolo 161).
La disciplina costituzionale differenzia la stampa periodica da quella comune e ulteriori differenze
sono rinvenibili nella Legge n. 47 del 1948, che rende gli adempimenti relativi alla stampa periodica
(indicazioni obbligatorie, obbligo di registrazione) più gravosi rispetto a quelli previsti per la stampa
comune.
La Legge n. 47 del 1948, articolo 8 introduce il nuovo istituto della rettifica, estraneo alla precedente
normativa.
La legge sulla stampa, inoltre, non ha modificato la disciplina codicistica dei reati che possono essere
commessi attraverso l’esercizio dell’attività giornalistica, ma si è limitata a introdurre nell’ordinamento
la categoria dei “reati di stampa” (articolo 16 sulla stampa clandestina) e a integrare le previsioni concernenti i “reati a mezzo stampa” (articoli 13, 14, 15).
Per i reati commessi a mezzo della stampa periodica, la responsabilità penale grava non solo
sull’autore dell’articolo incriminato ma anche sul direttore o vice-direttore responsabile, il quale risponde per fatto proprio a titolo di culpa in vigilando (articolo 57 cod. pen., come sostituito dalla Legge
4 marzo 1958, n. 127, articolo 1), escludendosi qualsiasi forma di responsabilità di tipo oggettivo o – per
così dire – “di posizione”, come accadeva in epoca fascista.
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Numerosi interventi normativi susseguitisi nel tempo prevedono, infine, i attuazione dell’articolo 21
Cost., comma 5, finanziamenti pubblici in favore dell’editoria giornalistica, nella prospettiva di garantire il massimo pluralismo dell’informazione e arginare fenomeni concentrazionistici.
14. La disciplina costituzionale della libertà di informazione (articolo 21) – già arricchita nella sua interpretazione dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 – è oggi completata dalle disposizioni della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che, all’articolo 10, riconosce espressa tutela ai profili attivi e
passivi della libertà di manifestazione del pensiero.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, peraltro, attribuendo un significato molto ampio alla
tutela accordata dalla disciplina convenzionale, ha chiarito che l’informazione a mezzo stampa ricopre
il ruolo di watch dog dei pubblici poteri, considerato che i lettori hanno il diritto di ricevere informazioni
in merito alle azioni dei titolari di funzioni pubbliche, con la conseguente estensione della tutela convenzionale anche alle opinioni che possano risultare sgradite (Corte EDU, 21/01/1999, Fressoz e Roire
c. Francia; 26/09/1995, Vogt c. Germania; 26/11/1991, Observer e Guardian c. Regno Unito).
15. All’esito di tale excursus storico sulla normativa d’interesse, può affermarsi che l’Italia democratica – a differenza di quanto accaduto per lo Statuto Albertino e l’Editto sulla stampa, che rappresentarono una elargizione del Sovrano ai sudditi – ha guadagnato da sè la Costituzione e la legge sulla
stampa, reagendo al ventennio fascista, in cui ogni forma di libertà era stata sospesa in attuazione di un
preciso disegno politico volto a controllare, in particolare, il settore dell’informazione, per assicurarsi il
consenso dell’opinione pubblica.
La Carta Fondamentale, in antitesi con l’impostazione dirigistica e repressiva propria del regime fascista, garantisce il principio della libera manifestazione del pensiero e non consente che la stampa possa essere soggetta ad autorizzazioni o censure. La libertà di stampa è condizione imprescindibile per il
libero confronto di idee, nel quale la democrazia affonda le sue radici, e per la formazione di un’opinione pubblica avvertita e consapevole.
Sulla base di tali principi, il Costituente – come innanzi si è precisato – ha accordato alla “stampa”
una specifica e rafforzata tutela (articolo 21, comma 3), inibendo, nel caso di delitti commessi con tale
mezzo, il ricorso all’istituto del sequestro preventivo se non nelle ipotesi tassativamente previste, come
eccezioni, dalla legge.
Esemplificando, l’offensività della condotta diffamatoria a mezzo stampa, proprio perchè considerata normativamente recessiva, nel bilanciamento dei valori, rispetto alla salvaguardia della libertà di informazione, non può legittimare l’adozione della misura cautelare reale; ad opposta conclusione deve
pervenirsi in ipotesi di pubblicazioni a contenuto osceno ovvero contrario alla pubblica decenza o al
buon costume, considerato che la tutela del corrispondente bene giuridico protetto prevale, per espressa previsione del legislatore (R.D.L. n. 561 del 1946, articolo 2; articolo 21 Cost., comma 6), su quella della libertà di stampa.
16. L’operatività della disciplina costituzionale, così come compatibilmente integrata dalla legislazione ordinaria, in materia di sequestro preventivo della stampa risulta per lo più condizionata dalla
definizione che di questa si rinviene nella Legge n. 47 del 1948, la quale, senza occuparsi in alcun modo
della materia cautelare, regola i presupposti di realizzazione e diffusione della stampa, chiarendo che
per tale si considerano le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisicochimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione (articolo 1).
I più recenti arresti giurisprudenziali di questa Corte Suprema (Sez. 5, n. 10594 del 05/11/2013, dep.
2014, Montanari) e voci autorevoli della dottrina ritengono che le garanzie costituzionali in tema di sequestro preventivo della stampa non siano estensibili alle manifestazioni del pensiero destinate ad essere trasmesse in via telematica, ivi comprese quelle oggetto di articoli giornalistici pubblicati sul web, e
ciò perchè il termine “stampa” sarebbe stato assunto dalla norma costituzionale nella accezione tecnica
innanzi precisata, vale a dire con riferimento alla sola “carta stampata”.
A conforto di tale opzione ermeneutica, si è evidenziato che nessun esito ebbe la proposta di revisione costituzionale, contenuta nella relazione finale che la Commissione bicamerale “Bozzi” (istituita il
14/04/1983) presentò, in data 29 gennaio 1985, al Parlamento. In particolare, con le ipotesi di riscrittura
dell’articolo 21 e di introduzione – nella Parte 1, Titolo 1 – dell’articolo 21-ter, si mirava ad omologare le
manifestazioni del pensiero espresse con altri mezzi di diffusione dell’informazione a quelle a mezzo
stampa, anche ai fini della eseguibilità del sequestro. La mancata realizzazione dell’auspicata revisione
costituzionale non consentirebbe all’interprete – secondo tale indirizzo interpretativo – di estendere auAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LIMITI AL SEQUESTRO PER LA TESTATA GIORNALISTICA ON LINE
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tomaticamente la specifica garanzia negativa apprestata dall’articolo 21 Cost., comma 3, all’informazione giornalistica diffusa per via telematica.
17. Tale conclusione, però, pur di fronte alla colpevole inerzia del legislatore, rimasto insensibile a
ogni sollecitazione di fare chiarezza sullo specifico punto controverso, non può essere condivisa.
Si verrebbe a determinare – come consapevolmente avvertono gli stessi, sostenitori della tesi che si
contrasta – un’evidente situazione di tensione con il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 Cost..
Si legittimerebbe, infatti, un irragionevole trattamento differenziato dell’informazione giornalistica veicolata su carta rispetto a quella diffusa in rete, con la conseguenza paradossale che la seconda, anche se
mera riproduzione della prima, sarebbe assoggettabile, diversamente da quest’ultima, a sequestro preventivo.
È necessario, pertanto, discostarsi dall’esegesi letterale del dettato normativo e privilegiare una interpretazione estensiva dello stesso, sì da attribuire al termine “stampa” un significato evolutivo, che
sia coerente col progresso tecnologico e, nel contempo, non risulti comunque estraneo all’ordinamento
positivo, considerato nel suo complesso e nell’assetto progressivamente raggiunto nel tempo.
L’interpretazione estensiva, se coerente con la mens legis – nel senso che ne rispetta lo scopo oggettivamente inteso, senza porsi in conflitto con il sistema giuridico che regola il settore d’interesse – consente di discostarsi dalle definizioni legali, le quali sono semplici generalizzazioni destinate ad agevolare l’applicazione della legge in un determinato momento storico, e di accreditare al dato normativo un
senso e una portata corrispondenti alla coscienza giuridica e alle necessità sociali del momento attuale.
18. Prima, però, di esporre le ragioni che inducono a legittimare, nel rispetto del principio di legalità,
una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine “stampa”, è necessario chiarire che l’esito di tale operazione ermeneutica non può riguardare tutti in blocco i nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook), a prescindere dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi, ma deve rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili strutturale e finalistico che li connotano, sono riconducibili, come
meglio si preciserà in seguito, nel concetto di “stampa” inteso in senso più ampio.
Ed invero, deve tenersi ben distinta, ai fini che qui interessano, l’area dell’informazione di tipo professionale, veicolata per il tramite di una testata giornalistica on line, dal vasto ed eterogeneo ambito
della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo.
18.1. Il forum è una bacheca telematica, un’area di discussione, in cui qualsiasi utente o i soli utenti
registrati (forum chiuso) sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile agli altri
soggetti autorizzati ad accedervi, attivando così un confronto libero di idee in una piazza virtuale. Il forum, per struttura e finalità, non è assimilabile ad una testata giornalistica e non è soggetto, pertanto,
alle tutele e agli obblighi previsti dalla legge sul stampa.
18.2. Non diversa deve essere la conclusione per il blog (contrazione di web log, ovvero “diario in
rete”), che è una sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente. Il blogger pubblica un proprio post, vale a dire un messaggio testuale espressivo della propria opinione, e lo apre all’intervento e al commento dei lettori; oppure ospita i post di altri
soggetti che vogliono esprimere la loro opinione in merito a un determinato fatto.
18.3. Anche il social-network più diffuso, denominato Facebook, non è inquadratale nel concetto di
“stampa”, ma è un servizio di rete sociale, lanciato nel 2004 e basato su una piattaforma software scritta
in vari linguaggi di programmazione; offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema.
18.4. Altrettanto dicasi, infine, per la newsletter, che è un messaggio scritto o per immagini, diffuso
periodicamente per posta elettronica e utilizzato frequentemente a scopi pubblicitari; per i newsgroup,
che sono spazi virtuali in cui gruppi di utenti si trovano a discutere di argomenti di interesse comune;
per la mailing list, che è un metodo di comunicazione, gestito per lo più da aziende o associazioni, che
inviano, tramite posta elettronica, a una lista di destinatari interessati e iscritti informazioni utili, in ordine alle quali si esprime condivisione o si attivano discussioni e commenti.
18.5. Conclusivamente, le forme di comunicazione telematica testè citate sono certamente espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (articolo 21 Cost., comma 1), ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa. Rientrano, infatti, nei generici siti internet che non sono soggetti alle tutele e agli obblighi previsti dalla normativa sulla stampa.
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19. La riflessione, quindi, deve essere concentrata sul fenomeno, sempre più diffuso, dei giornali telematici che affollano l’ambiente virtuale e che sono disponibili, in alcuni casi, nella sola versione on line e, in altri, si affiancano alle edizioni diffuse su supporto cartaceo.
È di intuitiva evidenza che un quotidiano o un periodico telematico, strutturato come un vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso
coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea), non può certo paragonarsi a uno qualunque dei siti
web innanzi citati, in cui chiunque può inserire dei contenuti, ma assume una sua peculiare connotazione, funzionalmente coincidente con quella del giornale tradizionale, sicchè appare incongruente, sul
piano della ragionevolezza, ritenere che non soggiaccia alla stessa disciplina prevista per quest’ultimo.
È questo specifico aspetto che merita di essere approfondito.
20. Osserva il Collegio che la Legge n. 47 del 1948, articolo 1 si limita a definire esplicitamente il concetto di stampa nella sua accezione tecnica di riproduzione tipografica o comunque ottenuta con mezzi
meccanici o fisicochimici.
Il termine “stampa”, però, ha anche un significato figurato e, in tal senso, indica i giornali, che sono
strumento elettivo dell’informazione e lo erano soprattutto all’epoca in cui entrarono in vigore la Carta
Fondamentale e la richiamata Legge n. 47 del 1948, quando cioè gli altri mass media, in particolare la
televisione e i siti di informazione on line, non erano operativi.
Questo concetto di stampa in senso figurato definisce il prodotto editoriale che presenta i requisiti
ontologico (struttura) e teleologia) (scopi della pubblicazione) propri di un giornale. La struttura di
questo è costituita dalla “testata”, che è l’elemento che lo identifica, e dalla periodicità regolare delle
pubblicazioni (quotidiano, settimanale, mensile); la finalità si concretizza nella raccolta, nel commento e
nell’analisi critica di notizie legate all’attualità (cronaca, economia, costume, politica) e dirette al pubblico, perchè ne abbia conoscenza e ne assuma consapevolezza nella libera formazione della propria
opinione.
A ben vedere, il concetto di stampa così rilevato, anche se non esplicitato, non è estraneo alla Legge
n. 47 del 1948, che, all’articolo 1, al di là della definizione in senso tecnico enunciata, evoca il requisito
della destinazione alla pubblicazione (quindi alla diffusione dell’informazione) e, agli articoli 2 e s., detta la disciplina per i giornali e i periodici di ogni altro genere, con riferimento alle indicazioni obbligatorie che in essi devono comparire, ai requisiti richiesti per rivestire il ruolo di direttore responsabile,
all’obbligo di registrazione, all’obbligo di rettifica.
Anche il R.D.L. n. 561 del 1946, tuttora in vigore, fa generico riferimento ai “giornali” o ad “altre
pubblicazioni”, nel disciplinare le ipotesi di sequestro degli stessi.
L’articolo 21 Cost., comma 1, proclama solennemente la libertà di manifestare il proprio pensiero
“con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La norma, di carattere generale e precettivo,
ha una portata molto ampia, nel senso che riconosce a tutti i consociati, in quanto individui, tale diritto
di libertà ed incide inevitabilmente sulle specifiche previsioni che i successivi commi dello stesso articolo 21 riservano alla “stampa”, che è la più importante espressione della libera manifestazione del pensiero. Certamente lungimirante è l’espressione utilizzata dal Costituente “con (…) ogni altro mezzo di
diffusione”, che oggi abbraccia anche internet, frontiera moderna per la diffusioni dell’informazione
professionale, ancorata ai valori della responsabilità e della correttezza.
È evidente che l’area riduttiva del significato attribuito al termine “stampa” dalla Legge n. 47 del
1948, articolo 1 è strettamente legata alle tecnologie dell’epoca, il che non impedisce – oggi – di accreditare, tenuto conto dei notevoli progressi verificatisi nel settore, una interpretazione estensiva del detto
termine, la quale non esorbita dal campo di significanza del segno linguistico utilizzato ed è coerente
col dettato costituzionale.
Lo scopo informativo è il vero elemento caratterizzante l’attività giornalistica e un giornale può ritenersi tale se ha i requisiti, strutturale e finalistico, di cui si è detto sopra, anche se la tecnica di diffusione
al pubblico sia diversa dalla riproduzione tipografica o ottenuta con mezzi meccanici o fisico-chimici.
Ma anche a prescindere da tali considerazioni, è il caso di aggiungere che non è certamente dirimente la tesi, secondo cui il giornale telematico non rispecchierebbe le due condizioni ritenute essenziali ai
fini della sussistenza del prodotto stampa come definito dalla Legge n. 47 del 1948, vale a dire un’attività di riproduzione e la destinazione alla pubblicazione.
È possibile, invero, un differente approccio al significato del termine “riproduzione”. La riproduzione può ben essere intesa come potenziale accessibilità di tutti al contenuto dello stampato; la produzione di un testo su internet è funzionale alla possibilità di riprodurne e leggerne il contenuto sul proprio
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computer. L’immissione dell’informazione giornalistica in rete, inoltre, lascia presumere la diffusione
della stessa, che diventa fruibile da parte di un numero indeterminato di utenti, il che integra la nozione di “pubblicazione”.
L’informazione professionale, pertanto, può essere espressa non solo attraverso lo scritto (giornale
cartaceo), ma anche attraverso la parola unita eventualmente all’immagine (telegiornale, giornale radio)
o altro mezzo di diffusione, qual è internet (giornale telematico); e tutte queste forme espressive, ove
dotate dei requisiti richiesti, non possono essere sottratte alle garanzie e alle responsabilità previste dalla normativa sulla stampa.
Tale conclusione è il frutto di una mera deduzione interpretativa di carattere evolutivo, non analogica, la quale fa leva – nel cogliere fino in fondo, in sintonia con l’evoluzione socio-culturale e tecnologica,
il senso autentico della Legge n. 47 del 1948, articolo 1 – sull’applicazione di un criterio storico-sistematico in coerenza col dettato costituzionale di cui all’articolo 21 Cost.
21. Il superamento del concetto di stampa di “gutenberghiana” memoria – d’altra parte – non è affidato esclusivamente alle argomentazioni innanzi sviluppate, ma trova riscontro in altri significativi dati
positivi.
Il legislatore, pur pigro nell’intervenire organicamente sul tema specifico della stampa on line, non
ha mancato, nel corso degli anni, di approvare una serie di leggi, che segnano chiaramente il superamento dello stretto legame tra informazione professionale e giornale cartaceo, pongono in secondo piano il requisito della necessaria “fisicità” del giornale e polarizzano l’attenzione sulla finalità informativa
dell’attività giornalistica, che deve essere contraddistinta da attendibilità, pertinenza, continenza e imparzialità rispetto a qualsiasi altro tipo di informazione.
21.1. In materia di sistema radiotelevisivo – oggetto notoriamente di un continuo “dialogo” tra legislatore e Corte costituzionale – la Legge di riforma della RAI 14 aprile 1975, n. 103, la Legge 6 agosto
1990, n. 223 (nota come legge Mammì), ed il Decreto Legislativo 31 luglio 2005, n. 177, offrono una definizione e una disciplina della testata giornalistica televisiva o radiofonica, ricalcando in gran parte, al di
là di alcuni specifici aspetti, la regolamentazione della stampa cartacea.
La Legge n. 223 del 1990, articolo 10 (attualmente Decreto Legislativo n. 177 del 2005, articolo 32quinquies) ha esteso, infatti, alle emittenti televisive e radiofoniche l’obbligo di registrazione delle rispettive testate giornalistiche, che devono avere un direttore responsabile, e quello della rettifica (Legge
n. 47 del 1948, articoli 5, 6 e 8). La detta legge ha posto una netta linea di demarcazione tra telegiornali e
giornali radio, da una parte, e trasmissioni di diverso genere effettuate dalle reti delle singole emittenti,
dall’altra.
È innegabile che la nozione di testata giornalistica radiotelevisiva accredita il concetto contenutistico
di stampa e rappresenta un modello per i giornali della rete.
21.2. La Legge 31 luglio 1997, n. 249 (nota come legge Maccanico), nell’istituire l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCom), ha previsto anche l’istituzione del Registro degli operatori della
comunicazione (ROC), in sostituzione dei preesistenti registri nazionali della stampa e delle imprese
radiotelevisive. In tale unico registro sono tenuti ad iscriversi, superando le suddivisioni che avevano
caratterizzato in precedenza i singoli settori, tutti gli operatori della comunicazione, ivi comprese le
imprese editrici di giornali quotidiani, periodici o riviste, la agenzie di stampa di carattere nazionale, i
soggetti esercenti l’editoria elettronica e digitale, le imprese fornitrici di servizi telematici.
21.3. La Legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Finanziaria per il 2001), per la prima volta, equipara in modo esplicito, ai fini dei finanziamenti previsti per le imprese editrici, la stampa tradizionale a quella telematica e consacra il principio dell’obbligo di registrazione presso i Tribunali anche delle testate on line. L’articolo 153, commi 2 e 3, della legge fa riferimento, in particolare, ai quotidiani e ai periodici telematici espressione dei partiti e dei movimenti politici.
21.4. La Legge 7 marzo 2001, n. 62, intitolata “Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali”,
offre una nuova definizione di “prodotto editoriale”.
Per tale s’intende, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, “il prodotto realizzato su supporto cartaceo (…)
o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni
presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico”.
Questa nuova definizione di prodotto editoriale comporta l’estensione anche all’editoria on line delle norme relative alle indicazioni obbligatorie sugli stampati e all’obbligo di registrazione delle testate
giornalistiche e dei periodici.
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L’articolo 1, comma 3, infatti, testualmente statuisce: “Al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui alla Legge 8 febbraio 1948, n. 47, articolo 2. Il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è
sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dalla Legge n. 47 del 1948, articolo 5”.
Si distinguono, quindi, analogamente a quanto previsto dalla legge sulla stampa, due tipi di prodotto editoriale: senza o con periodicità regolare. La prima parte della disposizione testè richiamata prescrive che ogni prodotto editoriale deve contenere le indicazioni di cui alla Legge n. 47 del 1948, articolo
2; la seconda parte prevede che devono essere iscritte nell’apposito registro tenuto dalla cancelleria del
competente Tribunale le testate telematiche che abbiano le stesse caratteristiche di quelle cartacee.
Poichè la legge in esame aveva sollevato non pochi interrogativi circa la riferibilità delle disposizioni
in essa contenute anche all’informazione di natura non professionale, sebbene a carattere periodico, il
Decreto Legislativo n. 70 del 2003 ha precisato (articolo 7, comma 3) che la registrazione della testata
editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze economiche previste dalla Legge n. 62 del 2001.
21.5. Anche il Decreto Legge 18 maggio 2012, n. 63, convertito dalla Legge 16 luglio 2012, n. 103, intervenendo in maniera urgente sul riordino dei contributi alle imprese editrici, si muove lungo la linea
di omologazione della testata giornalistica in edizione digitale a quella in edizione cartacea, statuendo
che, in caso di pubblicazione di entrambe con lo stesso marchio editoriale, l’impresa non è obbligata alla duplice iscrizione, ma soltanto a dare apposita comunicazione al registro degli operatori di comunicazione (articolo 3, comma 2, ultimo periodo). La medesima legge contiene disposizioni (articolo 3-bis)
volte a favorire l’editoria digitale, esentando dall’obbligo di registrazione presso il Tribunale e di iscrizione al ROC i periodici di piccole dimensioni (ricavi annui non superiori a 100.000 Euro) diffusi esclusivamente via web. Di norma, quindi, i giornali telematici sono soggetti agli obblighi di cui alle Legge
n. 47 del 1948 e Legge n. 62 del 2001.
22. Tutto quanto esposto legittima, pertanto, una interpretazione costituzionalmente orientata del
concetto di “stampa”, idoneo ab origine ad adeguarsi alla prevedibile evoluzione dei tempi e a ricomprendere la nuova realtà dei quotidiani o periodici on line regolarmente registrati e destinatari, al pari
della stampa tradizionale, delle provvidenze pubbliche previste per l’editoria.
I successivi e numerosi interventi – sia pure disorganici e farraginosi – del legislatore, ai quali si è
fatto cenno, non costituiscono una fonte di rilettura della Legge n. 47 del 1948, bensì sopravvenienze
coerenti con questa, della quale viene colta e assorbita la reale portata, per estenderne la relativa disciplina anche alle testate giornalistiche telematiche.
La previsione dell’obbligo di registrazione della testata on line, che deve contenere le indicazioni
prescritte e deve essere guidata da un direttore responsabile, giornalista professionista o pubblicista,
non è un mero adempimento amministrativo fine a sè stesso, ma è funzionale a individuare le responsabilità (civili, penali, amministrative) collegate alle pubblicazioni e a rendere operative le corrispondenti garanzie costituzionali, aspetti questi che, in quanto strettamente connessi e consequenziali alla
detta previsione, sono ineludibili.
Conclusivamente, il giornale telematico, sia se riproduzione di quello cartaceo, sia se unica e autonoma fonte di informazione professionale, soggiace alla normativa sulla stampa, perchè ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea. È, infatti, un prodotto editoriale, con
una propria testata identificativa, diffuso con regolarità in rete; ha la finalità di raccogliere, commentare
e criticare notizie di attualità dirette al pubblico; ha un direttore responsabile, iscritto all’Albo dei giornalisti; è registrato presso il Tribunale del luogo in cui ha sede la redazione; ha un hostig provider, che
funge da stampatore, e un editore registrato presso il ROC.
Ovviamente – è il caso di sottolinearlo – le garanzie e le responsabilità previste, per la stampa, dalle
disposizioni sia di rango costituzionale, sia di livello ordinario, devono essere riferite ai soli contenuti
redazionali e non anche ad eventuali commenti inseriti dagli utenti (soggetti estranei alla redazione),
che attivano un forum, vale a dire una discussione su uno o più articoli pubblicati.
Il percorso ermeneutico privilegiato, per pervenire alla ritenuta equiparazione tra i due prodotti editoriali, è il solo che scongiura tensione con il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Carta
fondamentale, evitando il rischio di riservare, al di là di qualsiasi ragionevolezza, trattamenti differenziati a due fattispecie praticamente identiche sotto il profilo della loro funzionalità (diffusione dell’informazione professionale).
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Conseguentemente, la “stampa telematica”, al pari di quella tradizionale, in quanto emancipata da
qualsiasi forma di censura, non può essere sottoposta a sequestro preventivo, se non nei casi eccezionali
espressamente previsti dalla legge, e soggiace alle norme che disciplinano la responsabilità per gli illeciti commessi.
A margine, è opportuno ricordare che le Corti sovranazionali, in numerose pronunce, hanno data
per scontata, ritenendola realtà acquisita, l’equiparazione tra giornale cartaceo e giornale on-line (Corte
EDU, 16/07/2013, Wegrzynowski e Smolczewsky c. Polonia; Corte Giustizia, 25/10/2011, Martinez c. Societè MGIM Limited; Corte Giustizia, 25/10/2011, Date Advertising c. X).
23. All’esito dell’iter argomentativo sin qui seguito sul tema specifico, vanno enunciati i seguenti
principi di diritto:
– “La testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile funzionalmente a quella tradizionale,
rientra nel concetto ampio di stampa e soggiace alla normativa, di rango costituzione e di livello ordinario, che disciplina l’attività d’informazione professionale diretta al pubblico”;
– “Il giornale on line, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a
mezzo stampa”.
24. Passando ad analizzare la vicenda che coinvolge i due indagati, deve osservarsi quanto segue.
L’atto di ricorso proposto nell’interesse dei predetti, con particolare riferimento al primo motivo di
censura, che è decisivo e assorbente rispetto alle altre doglianze, è fondato.
L’ordinanza impugnata, invero, non si fa carico della delicata problematica implicata nel caso esaminato, nonostante il Giudice del riesame ne fosse stato espressamente investito dalla difesa, con specifici motivi scritti in data 25 marzo 2014.
Il provvedimento in verifica, in ogni caso, in palese disarmonia con i principi di diritto innanzi
enunciati, ha confermato il decreto di sequestro preventivo della pagina web della testata telematica
“(OMISSIS)”, regolarmente registrata, limitandosi a ritenere la sussistenza del fumus dell’ipotizzato reato di diffamazione e del pericolo di aggravamento delle conseguenze dannose di tale illecito.
Nel caso specifico, avuto riguardo al titolo di reato per cui si procede, la detta misura cautelare reale,
per tutte le considerazioni più sopra svolte, non poteva essere adottata e si risolve in una indiretta e
non consentita forma di censura.
Palese è, pertanto, la violazione di legge che contraddistingue sia il provvedimento genetico sia
quello di riesame.
Sarebbe stato possibile adottare, ai fini dell’accertamento dell’ipotizzato reato, soltanto il sequestro
probatorio, secondo le modalità di cui all’articolo 254-bis cod. proc. pen.
Conseguentemente, deve disporsi l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata e del decreto di sequestro preventivo emesso in data 7 marzo 2014 dal G.i.p. del Tribunale di Monza.
La Cancelleria provvedere agli adempimenti di cui all’articolo 626 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonchè il decreto di sequestro preventivo del
07/03/2014 del G.i.p. del Tribunale di Monza.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 626 cod. proc. pen.
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ANTONIO PULVIRENTI
Professore associato di Diritto processuale penale – Università di Palermo L.U.M.S.A.
Sequestro e Internet: dalle Sezioni Unite
una soluzione equilibrata ma “creativa”
Seizure and Internet: the Supreme Court judgement
Depositate le motivazioni della sentenza emessa il 29 gennaio 2015 dalle Sezioni Unite penali della Cassazione,
con la quale, in relazione al divieto di sequestro preventivo, la stampa informatica è stata equiparata alla stampa
cartacea. La decisione della Corte s’incentra sull’esigenza di dare al termine “stampa”, contenuto nella legge n.
47/1948, un’interpretazione evolutiva, che adegui il significato di tale concetto alle nuove tecnologie attraverso le
quali oggi si esercita diffusamente la libertà di manifestazione del pensiero. L’estensione concettuale, tuttavia,
non è generalizzata, ma limitata ai prodotti editoriali di tipo professionale, che si distinguono da tutti gli altri (blog,
social-network, forum) per il fatto di dover osservare determinate prescrizioni normative finalizzate a rendere identificabile il responsabile della pubblicazione. Questa delimitazione, secondo l’Autore, rende ragionevole la soluzione ermeneutica adottata dalla Corte, sebbene il suo iter argomentativo appaia, in molteplici punti, oltrepassare i
confini dell’ermeneutica e svelare una vera e propria natura creativa.
Filed the written judgment issued January 29, 2015 by the United Sections of the Criminal Cassation, with which,
for the prohibition of seizure, the computer press has been equated to the print media. The Court’s decision focuses on the need to give the term “printing”, Act No. 47/1948, an evolutionary interpretation, that adapts the
meaning of this concept to new technologies which today is practiced widely freedom of expression. The conceptual extension, however, is not universal, but limited to publishing of professional, distinguished from all other
(blogs, social networks, forums) for the fact of having to comply with certain regulatory requirements aimed at
making the identifiable responsible for the publication. This delimitation, according to the author, makes reasonable solution hermeneutics adopted by the Court, although its process of argumentation appears, in several respects, beyond the confines of hermeneutics and reveal a true creative nature.
LA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE COLMA UN VUOTO DI TUTELA
La questione decisa dalle Sezioni Unite penali, nella sentenza che si annota, è il frutto di un lungo e acceso dibattito maturato negli ultimi anni in dottrina e giurisprudenza 1. La questione, di grande rilevanza pratica, è quella dell’applicabilità all’informazione prodotta per via telematica delle medesime guarentigie costituzionali prescritte per la stampa cartacea. Nello specifico, alle Sezioni Unite, sulla scia di
un orientamento negativo fin qui consolidatosi nella giurisprudenza delle sezioni semplici 2, si chiedeva
di stabilire se anche all’informazione effettuata tramite internet fosse applicabile il limite sancito
dall’art. 1, comma 1, r.d.lg. n. 561/1946, a presidio della libertà di informazione di cui all’art. 21 Cost.,
ovvero il divieto di disporre, al di fuori dei casi tassativamente previsti dalle legge 3, il sequestro pre-
1
Sul punto, ci sia permesso rinviare al panorama giurisprudenziale e dottrinale già tracciato nel nostro Sequestro e internet:
un difficile binomio tra “vecchie” norme e “nuove” esigenze, in questa rivista, n. 1/2015, p. 111 ss.
2
Cfr., Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, www.penale.it; Cass., sez. V, 30 ottobre 2013, n. 11895, Dir. e giustizia, 12 marzo
2014, con nota di Ievolella.; Cass., sez. III, 11 dicembre 2008, n. 10535, in Foro it., 2010, II, p. 95, con nota di Chiarolla.
3
Ci si riferisce alle ipotesi di «stampa clandestina», cioè di giornali o altri periodici pubblicati senza il previo rispetto degli
adempimenti previsti dalla l. 8 febbraio 1948 n. 47, e ai «giornali» o alle «altre pubblicazioni o stampati», che, ai sensi della legge
penale, sono da ritenere osceni o offensivi della pubblica decenza» (art. 2 r.d.lg. n. 561/1946).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO E INTERNET
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ventivo dei giornali e delle altre pubblicazioni (ferma restando l’applicabilità del sequestro probatorio
«di non oltre tre esemplari dei giornali o delle pubblicazioni o stampati che importino una violazione
della legge penale»).
La soluzione adottata dal massimo consesso della Cassazione penale, come meglio vedremo da qui a
poco, è stata una soluzione di equilibrio, volta cioè a riconoscere la suddetta equiparabilità ma in modo
non indiscriminato, posto che la sentenza annotata ha sì previsto la sequestrabilità a fini esclusivamente
probatori di un numero predeterminato di copie del prodotto editoriale originato da internet, ma soltanto per quei giornali telematici che si siano assoggettati alle medesime regole di identificabilità e di
assunzione di responsabilità normativamente previste per la stampa cartacea.
Tale soluzione ha quindi disatteso le aspettative sia di chi, in nome di una presunta maggiore potenzialità diffamatoria della comunicazione telematica, ne giustificava un minus di tutela in ambito cautelare 4, sia di chi, in modo forse eccessivamente illusorio, sperava nel riconoscimento di una sorta di liberalizzazione assoluta del mondo di internet 5; e si è, invece, allineata alla logica, per certi versi compromissoria, di cui all’art. 21 Cost.: la libertà di stampa, essendo di vitale importanza per la democraticità
di un qualsiasi ordinamento, non può tollerare censure o misure sospensive di tipo autoritario neanche
laddove vi sia il fondato sospetto che il suo esercizio abbia trasmodato i confini della liceità e abbia assunto un contenuto diffamatorio, sempre che colui che la esercita se ne assuma preventivamente la piena responsabilità e si renda quindi suscettibile di punizione tutte le volte in cui, a conclusione del processo, l’ipotesi diffamatoria trovi conferma nel giudicato penale.
Valutato sotto un profilo sostanzialistico, il risultato al quale è approdata la sentenza in esame non
può che essere condiviso, giacché essa, sopperendo ancora una volta all’inerzia del nostro legislatore,
ha introdotto degli elementi normativi determinati, idonei, come tali, ad attenuare il disorientamento
degli operatori del diritto in un settore fino ad oggi contrassegnato da incertezza interpretativa e imprevedibilità delle conseguenze giuridiche.
La valutazione cambia, almeno parzialmente, allorquando si voglia valutare la sentenza sotto il
profilo strettamente ermeneutico. In questa diversa prospettiva, il percorso argomentativo elaborato
dalle Sezioni Unite non appare sempre lineare e, al contrario, sembra prestare il fianco, in generale,
ad una censura di eccessiva “creatività”. Quel che, insomma, la pronuncia delle Sezioni Unite tende a
far passare come un’interpretazione estensiva di mero adeguamento di certe disposizioni legislative
ai valori costituzionali di riferimento, si ha la netta impressione che sia, in verità, una consapevole
“forzatura” del significato lessicale delle medesime disposizioni legislative finalizzata a integrarne il
contenuto.
Lungi dal costituire un’operazione eccezionale e involontaria, la sentenza “creativa” s’inserisce perfettamente in un panorama giuridico ormai ampiamente sbilanciato verso il predominio del diritto giurisprudenziale su quello legislativo 6. Un predominio oggettivamente patologico (in quanto non coerente con l’assetto delle fonti del diritto delineato dalla nostra Carta fondamentale), ma che, dinanzi alla
progressiva stabilizzazione dell’assenteismo legislativo, è sempre più percepito, tanto dai consociati
quanto dai giuristi, come doveroso.
4
Si pensi a Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, cit., che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 1, r.d.lg. n. 561/1946, sotto il profilo della diseguaglianza di trattamento tra la stampa cartacea
e la stampa informatica, posto che tra le suddette vi sarebbe una «differenza (sostanziale e non solo formale) che ne giustifica il
diverso regime, vale a dire la capacità della notizia immessa in rete di rimanere fruibile a tempo indeterminato e per un numero
indeterminato di fruitori (la cd. «eternità mediatica»). Caratteristiche che, invece, non avrebbe la diffamazione realizzata attraverso i giornali, che «ha certamente un impatto minore e durata limitata, atteso che, a meno di ulteriori ripubblicazioni, la sua
diffusione (e la sua lesività) si esauriscono in breve spazio di tempo».
5
Questo era, a ben vedere, l’auspicio della stessa ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite (Cass., sez. I, 30
ottobre 2014, n. 45053, www.avvocatopenalista.org.), la quale, invero, sosteneva, in via principale, la non applicabilità alla stampa
informatica di qualsiasi ipotesi di sequestro preventivo, attesa la stretta riferibilità dell’art. 321 c.p.p. alla sola attività di
apprensione materiale di una «cosa».
6
Per la ricostruzione delle origini dell’attuale Corte di Cassazione e del lungo iter storico-normativo che ha portato dalla
visione illuministica di onnipotenza della legge, «capace di informare e regolare la realtà senza l’intermediazione di alcuno»,
alla progressiva affermazione della capacità creativa della giurisprudenza, si rinvia a Punzi, La Cassazione: da custode dei custodi a
novella fonte di diritto?, in Riv. dir. proc., 2012, 567 ss.
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UNA QUESTIONE PRELIMINARE: LA CONFORMITÀ DEL SEQUESTRO PREVENTIVO DI INTERNET AL PRINCIPIO
DI LEGALITÀ PROCESSUALE
Prima di analizzare il percorso argomentativo elaborato dalle Sezioni Unite, è doveroso ribadire che a
queste ultime non si arriva in conseguenza di un conflitto interpretativo insorto nelle sezioni semplici,
bensì in ragione di un conflitto interpretativo solo potenziale. La sezione remittente, cioè, richiede
l’intervento delle Sezioni Unite non perché, in riferimento alla questione di diritto enucleata dal ricorso,
si trovi dinanzi ad una molteplicità di orientamenti generati dalla giurisprudenza di legittimità, ma
poiché muove dal presupposto che il proprio convincimento su tale questione andrebbe (se “tradotto”
in sentenza) a confliggere con la tesi fino a quel momento pacificamente adottata dalle altre sezioni.
Invero, nel momento in cui la questione viene assegnata alle Sezioni Unite, la giurisprudenza della
Cassazione, pur con argomentazioni parzialmente diverse e con sfumature decisionali non sempre
coincidenti, è sostanzialmente consolidata nel ritenere che l’informazione telematica (sotto forma di
quotidiano on line, blog, newsletter, ecc.), stante il mancato aggiornamento dei dati legislativi attuativi
del principio costituzionale di cui all’art. 21 Cost., non possa essere equiparata alla stampa cartacea. Da
qui, come già ricordato 7, l’inapplicabilità ad essa della garanzia stabilita dall’art. 1, comma 1, r.d.lg. n.
561/1946 (operatività del solo sequestro probatorio limitato a tre copie del corpo del reato) e la piena
sequestrabilità, ai sensi dell’art. 321 c.p.p., dei prodotti comunicativi divulgati tramite internet e aventi,
sotto il profilo del fumus commissi deliciti, contenuto diffamatorio.
Un orientamento – è bene ricordarlo – consolidato, ma, al tempo stesso, interiormente “tormentato”.
Si vuole fare riferimento al disagio che quella stessa giurisprudenza, nella consapevolezza di non poter
rispondere per questioni di forma (rectius, di dovuto rispetto a regole ermeneutiche) ad una legittima
aspettativa di tutela, mostrava di vivere pervenendo ad epiloghi decisori apparentemente contraddittori. Con i quali, cioè, da un lato, si ribadiva la regola di diritto della piena applicabilità del sequestro
preventivo all’informazione telematica, per poi, da un altro lato, affermare, in relazione alla fattispecie
concreta, l’illegittimità della misura cautelare reale sotto il profilo della sua mancata proporzione rispetto all’esigenza di «tolleranza costituzionalmente imposta per la libertà di parola» 8.
È evidente che il criterio della proporzionalità tra l’intensità della lesione cagionata dal sequestro
preventivo alla libertà di informazione e la primarietà del livello di tutela costituzionale accordata a
quest’ultima (a prescindere dalle modalità – stampa, internet, televisione, radio, ecc. – con le quali viene
esercitata) era stato elaborato dalla giurisprudenza per scongiurare che, nell’attesa di un intervento legislativo di riequilibrio della materia, il ricorso al sequestro preventivo della editoria telematica potesse
assumere connotazioni eccessivamente repressive ed echeggiare certe posizioni ideologiche autoritarie
del passato regime fascista. Si trattava, tuttavia, di un criterio ancorato ad un parametro denso di soggettività e che, pertanto, sostituiva al difetto della carenza di tutela legislativa della libertà di informazione esercitata tramite internet un difetto di uguale spessore: l’eccessiva discrezionalità dello ius dicere.
Orbene, la sezione remittente, nel preannunciare un possibile conflitto interpretativo con il suddetto
orientamento, espone un convincimento il cui recepimento avrebbe risolto il problema alla radice; ritiene, cioè, che al giudice penale sia inibito il potere di ordinare il sequestro, sia preventivo che probatorio,
del giornale telematico indipendentemente da qualsiasi valutazione riguardante la sua concreta intensità lesiva.
Essa, invero, è dell’avviso che, ancor prima di discutere se al sequestro della informazione telematica
siano riferibili gli stessi limiti (tipologico e numerico) della stampa cartacea, debba essere sciolto un nodo preliminare, vale a dire quello inerente alla stessa possibilità giuridica di disporre il sequestro del
prodotto telematico, atteso che questo, in ragione della specificità tecnologica del suo oggetto, andrebbe
disposto, non attraverso la sua materiale apprensione, ma mediante l’imposizione di un obbligo di fare
(nella specie, rappresentato dall’obbligo di oscurare la pagina internet contenente l’informazione). Ora,
in mancanza di una previsione normativa legittimante tale imposizione, il principio di legalità processuale imporrebbe – sempre secondo l’orientamento della sezione remittente – di dare una risposta negativa al citato interrogativo. Né ad una diversa conclusione potrebbe pervenirsi estendendo il significato lessicale del disposto di cui all’art. 321 c.p.p., dove è univoco e perentorio il riferimento al seque7
V., retro, la nota n. 2.
8
Così, Cass., sez. V, 10 gennaio 2011, n. 7155, Cass. pen., 2012, 246. Sul tema, sia nuovamente consentito il rinvio a Pulvirenti,
op. cit., p. 119 s.
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stro di una «cosa» 9. Utilizzando i termini adoperati in altri arresti giurisprudenziali, può dirsi che l’art.
321 c.p.p. consente di sequestrare il «risultato di una attività», non potendosi risolvere in un mero divieto di attività 10. Se così fosse, ribadiscono i fautori di siffatto orientamento, il sequestro preventivo muterebbe la propria natura di misura cautelare reale e si tramuterebbe in una misura inibitoria atipica 11.
Le Sezioni Unite non confermano tale assunto e individuano una soluzione ermeneutica che, in conformità al principio di legalità processuale, ribadisce l’astratta possibilità giuridica di disporre il sequestro preventivo dell’informazione telematica mediante l’ordine di oscuramento della pagina internet. Si
ritiene, anzi, che, in questi casi, un tale ordine non sia un effetto secondario ed eventuale del sequestro
preventivo, rappresentandone piuttosto un contenuto implicito e imprescindibile.
L’argomento principale che la sentenza pone a sostegno di questa affermazione risiede nel profilo
funzionale del sequestro di cui all’art. 321 c.p.p. In quanto misura cautelare reale volta, non a cristallizzare una determinata situazione a fini probatori, ma ad evitare che la disponibilità di una cosa in capo
alla persona sottoposta alle indagini o ad un terzo determini la prosecuzione del reato o la protrazione
delle sue conseguenze giuridiche, risulterebbe irrazionale un sequestro preventivo della pagina web diffamatoria che non imponesse al suo autore di interrompere l’attività illecita.
Per sganciare ulteriormente il sequestro preventivo dalla sua dimensione di adprehènsio (e, quindi,
dal suo legame oggettivo con la disponibilità materiale di una «cosa») ed enfatizzarne così la sua finalità preventiva, le Sezioni Unite ricorrono, altresì, ad una assimilazione sostanziale tra la misura cautelare di cui all’art. 321 c.p.p. e le misure cautelari personali. Pur avendo la veste formale di misura cautelare reale, il sequestro preventivo andrebbe valutato alla stessa stregua della custodia cautelare, giacché, a
ben vedere, in esso l’indisponibilità della «cosa» costituisce soltanto lo strumento attraverso il quale limitare la libertà della persona (la possibilità del titolare della cosa di continuare a farne un determinato
uso).
Questo concetto, applicato al dato informatico, fa sì che il sequestro preventivo non possa conseguire il suo fine di prevenzione se non “accompagnato” dall’ordine di oscuramento della pagina web che lo
contiene e lo rende consultabile dall’esterno. Il dato informatico, infatti, sebbene abbia una sua minima
corporeità (il file originario di scrittura), una volta immesso nella rete di internet, perde inevitabilmente
il legame con il suo supporto materiale e diviene fruibile da un numero indeterminato di soggetti. La
soluzione di continuità tra la «cosa» nella quale risiede originariamente il dato informatico e lo strumento tecnologico che lo rende consultabile (tale per cui, la eventuale sopravvenuta indisponibilità della prima non interrompe, per ciò solo, la funzionalità del secondo) rende, pertanto, necessario che la
misura cautelare includa tra i suoi effetti anche quello inibitorio.
Se tutto ciò è inconfutabile, lo è pure che il principio di legalità processuale esige il rispetto dei limiti
entro i quali una determinata disposizione linguistica mantiene il proprio significato. Per quanto tali limiti possano essere ampliati, in ragione della naturale elasticità concettuale dei dati letterali, è sempre
individuabile un punto di rottura, oltre il quale la norma (intesa come il risultato precettivo dell’attività
interpretativa) perde ogni contatto con la disposizione e diviene altro da essa 12. Ed è quel che accadrebbe nel nostro caso se le ragioni finalistiche sopra ricordate, in assenza di una previsione legislativa
esplicita, fossero ritenute sufficienti a fare assumere al sequestro preventivo del dato informatico una
9
Sulla stretta strumentalità tra res e reato quale ineludibile condizione d’operatività del sequestro preventivo e, più in
generale, sull’esigenza di evitare interpretazioni volte a dilatare i confini d’operatività del sequestro preventivo, anche in
contrapposizione alle prassi giurisprudenziali formatesi nella vigenza del codice del 1930, cfr. Balducci, Il sequestro preventivo nel
processo penale, Giuffrè, 1991, p. 149; Galantini, Sequestro preventivo di titoli pignorati, in Dir. pen. proc., 1995, p. 584; D’Onofrio, Il
sequestro preventivo, Cedam, 1998, p. 30 s.
10
In questi termini, Cass., sez. VI, 14 dicembre 1998, n. 4016, in Cass. pen., 2000, p. 457, con nota di Frioni.
11
Ibidem.
12
Per un analogo richiamo, cfr. Gambardella, Diritto giurisprudenziale e mutamento legislativo. Il caso del delitto di scambio
elettorale politico-mafioso, in Cass. pen., 2014, p. 3707 s. Quel che, in sostanza, viene auspicato nel testo, non è un utopico ritorno al
formalismo giuridico, quanto un legame, almeno tendenziale, alla teoria dello “scetticismo interpretativo moderato”, che, pur
muovendo dalla consapevolezza che il linguaggio giuridico ha dei difetti che connotano in senso discrezionale l’interpretazione
giuridica, assume l’esistenza di criteri in grado di delimitare le interpretazioni possibili di una formulazione normativa (cfr.,
amplius, Velluzzi, Prospettive interdisciplinari per la giustizia penale. Sulla nozione di «interpretazione giuridica corretta» (e i suoi
rapporti con l’interpretazione estensiva), in Cass. pen., 2004, 2588 ss. . Per un approccio più problematico al tema, volto a distinguere
«tra portata “ideologica” e portata “realistica” (o ragionevole)» del principio di riserva di legge in materia penale, cfr. Fiandaca,
Diritto penale e giurisprudenziale e ruolo della Cassazione, in Cass. pen., 2005, p. 1722 ss.
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connotazione (anche) inibitoria. È quasi superfluo, invero, sottolineare come nell’art. 321 comma 1
c.p.p. il riferimento testuale alla «cosa» non possa essere manipolato fino a tramutarlo in «attività», senza che ciò incida anche sulla natura dell’operazione effettuata, che da mera interpretazione estensiva
diverrebbe una vera e propria applicazione di misura cautelare personale in assenza di previsione legislativa.
Il che appare ancor più vero se si riflette appena sulla stessa assimilazione sostanziale tra il sequestro preventivo e le misure cautelari personali effettuata dalle Sezioni Unite in seno al proprio ragionamento. Da tale assimilazione, infatti, non può che discendere, ancor prima che l’applicabilità, in via
interpretativa, della relativa disciplina, l’esigenza di rispettare i medesimi principi costituzionali. E tra
questi, com’è noto, vi è quello dell’inviolabilità della libertà personale, dal quale la Cassazione ha sempre fatto discendere una indicazione ermeneutica di tipo perentorio: le disposizioni legislative in materia di (restrizione della) libertà personale sono di stretta interpretazione. Proprio perché vanno ad incidere su un bene giuridico inviolabile, l’interprete deve presumere – secondo tale condivisibile criterio –
che tali disposizioni abbiano sempre un carattere di completezza e ritenere, conseguentemente, che il
dato lessicale sia tendenzialmente vincolante 13. Detto in altre parole, laddove in siffatta materia vi sia
un silentio legis, la regola vuole che esso sia valutato come un silenzio consapevole, indicativo di una volontà omissiva del legislatore e non come un vuoto normativo deliberatamente rimesso alla successiva
opera creativa dell’interprete.
Ma, ad avviso di chi scrive, a conferma di quanto fin qui sostenuto vi è una considerazione ancora
più incisiva che proviene dallo stesso corpus normativo di pertinenza del sequestro preventivo. Tra le
norme del codice di rito e delle disposizioni di attuazione che disciplinano tale istituto, infatti, ve n’è
una il cui tenore sembra doversi spiegare proprio come conseguenza di quel criterio di stretta interpretazione del quale si diceva prima. È l’art. 104, comma 1, lett. d), e), disp. att. c.p.p., che prevede le modalità con le quali possono essere sottoposte a sequestro preventivo le azioni, le quote sociali e gli «strumenti finanziari dematerializzati, ivi compresi i titoli del debito pubblico». Per questi ultimi, la suddetta disposizione stabilisce espressamente che il sequestro sia eseguito con la «registrazione» nell’apposito conto tenuto dall’intermediario ai sensi dell’art. 34, d.lgs. n. 213/1998, mentre per le azioni e le quote sociali si prevede che la misura trovi attuazione «con l’annotazione nei libri sociali e con l’iscrizione
nel registro delle imprese».
Viene, quindi, normata una specifica attività restrittiva sul presupposto logico che essa non possa ricavarsi implicitamente – o per interpretazione estensiva – dal dettato testuale dell’art. 321 c.p.p., posto
che, in caso contrario, l’art. 104, comma 1, lett. d), e), disp. att. c.p.p. risulterebbe una previsione del tutto superflua. Previsione che, peraltro, non era contenuta nella versione originaria della citata disposizione, ma che è frutto di una novella legislativa 14, ad ulteriore conferma del fatto che di essa, ad un certo punto, il legislatore ha percepito la necessità proprio allo scopo di superare un dato letterale (il riferimento esclusivo alla «cosa» contenuto nel testo dell’art. 321 c.p.p.) altrimenti ostativo.
La sentenza in discorso, se, da un lato, focalizza le sue attenzioni sulla finalità sostanziale del sequestro preventivo, dando l’impressione, sotto questo profilo, di voler chiudere la disamina della questione
affermando la legittimazione dell’ordine di oscuramento del sito o del giornale telematico in virtù della
sola interpretazione elastica dell’art. 321 c.p.p.; da un altro lato, mostra di essere pienamente consapevole delle obiezioni alle quali potrebbe andare incontro un percorso ermeneutico di tal fatta e aggiunge,
opportunamente, una considerazione finale che dovrebbe allontanare definitivamente ogni sospetto di
violazione del principio di legalità processuale.
Viene, a tal fine, chiamato in causa il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 (attuativo della direttiva 2000/31/CE),
la cui disciplina non è specificamente rivolta alla materia penale, ma il cui ambito operativo è talmente
ampio e generico da poter ricomprendere anche l’area di pertinenza del giudice penale 15. In particolare,
13
Cfr., in motivazione, Cass., sez. un., 22 gennaio 2009, n. 18190, in Cass. pen., 2009, 3766, con nota di Andreazza.
14
La versione dell’art. 104 disp. att. c.p.p. riportata nel testo è stata introdotta dall’art. 2, comma 9, lett. a), della l. 15 luglio
2009, n. 94.
15
L’epigrafe del citato provvedimento legislativo recita: «Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.». Il
suo art. 1 comma 2, poi, precisa quali rapporti non rientrano nel «campo di applicazione del decreto»: «a) i rapporti fra contribuente e amministrazione finanziaria connessi con l’applicazione, anche tramite concessionari, delle disposizioni in materia di
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all’interno di questo testo normativo vengono rinvenute delle disposizioni (gli artt. 14, 15, 16) che, in
vario modo, attribuiscono alla «autorità giudiziaria» e alla «autorità amministrativa, avente funzioni di
vigilanza», il potere di «esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore (dei servizi della società dell’informazione), nell’esercizio delle attività di trasmissione e di fornitura di accesso alla rete, impedisca o
ponga fine alle violazioni commesse». Inoltre, l’art. 17, comma 3 dello stesso decreto legislativo stabilisce che «il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto
dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per
impedire l’accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non ha provveduto ad
informarne l’autorità competente». Da qui, l’idea secondo cui l’art. 321 c.p.p. vada oggi letto unitamente agli artt. 14, 15, 16 e 17 del d.lgs. n. 70/2003, che ne avrebbero addirittura integrato il contenuto precettivo, così da fare dell’ordine di oscuramento del sito o della pagina telematica una semplice modalità
esecutiva del sequestro preventivo che il giudice penale può inserire liberamente nel relativo decreto.
Ora, fermo restando che l’espressione «autorità giudiziaria» contenuta negli articoli citati è effettivamente così ampia da non potersene escludere la sua riferibilità anche al giudice penale, quel che a noi
pare eccessivo è il processo osmotico che, nella lettura delle Sezioni Unite, porta alla lettura unitaria
della disposizione codicistica con le disposizioni della legge speciale. Si vuol dire che il trait d’union finalistico che idealmente sussiste tra il sequestro preventivo e l’inibitoria del d.lgs. n. 70/2003 non ne
autorizza automaticamente la loro integrazione formale in un provvedimento unico avente la stessa natura giuridica e dotato dei medesimi effetti. Viceversa, in assenza di un esplicito rinvio dell’art. 321
c.p.p. alle disposizioni legislative speciali o, comunque, di una norma che sancisca formalmente il loro
legame, le due misure dovrebbero mantenere la loro autonomia.
La precisazione non è fine a se stessa. L’inibitoria “inglobata” nel sequestro preventivo acquisisce
natura di misura penale e, relativamente alle impugnazioni, segue lo stesso regime previsto per la misura cautelare reale. Al contrario, l’inibitoria concepita come provvedimento autonomo, rientrerebbe
nel novero di quei provvedimenti che, pur potendo essere disposti anche dal giudice penale, conservano la loro natura civilistica o, comunque, non penale. Il che, a sua volta, ai fini della stabilità del provvedimento, renderebbe inapplicabile il regime delle impugnazioni previsto per il sequestro preventivo
e determinerebbe la necessità di esperire un diverso procedimento di reclamo secondo le regole del codice di procedura civile.
LE SEZIONI UNITE CREANO UNA NUOVA NORMA: È VIETATO IL SEQUESTRO PREVENTIVO DELLA STAMPA
INFORMATICA (SE REGOLARMENTE REGISTRATA)
Semplificando questi ultimi profili e ritenendo che il sequestro preventivo del sito o della pagina internet possa essere integrato con un ordine di oscuramento dello spazio che ne consente la divulgazione
all’esterno, le Sezioni Unite passano all’analisi del secondo problema (il solo, in realtà, esplicitamente
dedotto dai ricorrenti). A tal riguardo, la sentenza si discosta dall’orientamento prevalente delle sezioni
semplici e si allinea, quantomeno nelle conclusioni, alla sezione rimettente. Essa, cioè, afferma la necessità di procedere ad una interpretazione evolutiva della nozione di stampa contenuta nell’art. 1, l. n.
47/1948, idonea a ricomprendere anche l’informazione generata per via informatica 16. Se, infatti, la
«garanzia negativa» apprestata dall’art. 21, comma 3, Cost., alla libertà di stampa risiede nella consapevolezza del nostro ordinamento che tale libertà costituisce una «condizione imprescindibile per il libero
tributi nonché la regolamentazione degli aspetti tributari dei servizi della società dell’informazione ed in particolare del commercio
elettronico; b) le questioni relative al diritto alla riservatezza, con riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle telecomunicazioni di cui alla legge 31 dicembre 1996, n. 675, e al decreto legislativo 13 maggio 1998, n. 171, e successive modificazioni; c)
le intese restrittive della concorrenza; d) le prestazioni di servizi della società dell’informazione effettuate da soggetti stabiliti in
Paesi non appartenenti allo spazio economico europeo; e) le attività, dei notai o di altre professioni, nella misura in cui implicano
un nesso diretto e specifico con l’esercizio dei pubblici poteri; f) la rappresentanza e la difesa processuali; g) i giochi d’azzardo, ove
ammessi, che implicano una posta pecuniaria, i giochi di fortuna, compresi il lotto, le lotterie, le scommesse i concorsi pronostici e
gli altri giochi come definiti dalla normativa vigente, nonché quelli nei quali l’elemento aleatorio è prevalente».
16
Aderisce a tale conclusione Grillo, Sequestro preventivo del quotidiano on line: il “no” delle sezioni unite, in Dir. giust., 2015, 29,
p. 28. il quale sottolinea «come l’interpretazione evolutiva, salvando il diritto dalla senescenza precoce, lo ringiovanisce e lo
mantiene (nei limiti del possibile) in efficienza».
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confronto di idee, nel quale la democrazia affonda le sue radici, e per la formazione di un’opinione
pubblica avvertita e consapevole», il trattamento deteriore riservato alla stampa informatica non può
che risultare irragionevole. La ratio della garanzia costituzionale è riferita alla «stampa», non in quanto
tale, ma in quanto principale «forma di manifestazione» del pensiero, così che ad essa non possono non
essere equiparate tutte quelle altre forme che assolvono la stessa funzione. E, in tale direzione, è ormai
risaputo come internet, non solo abbia assunto funzioni comunicative praticamente sovrapponibili a
quelle della stampa cartacea (si pensi al quotidiano on line), ma abbia perfino superato quest’ultima in
termini di utilizzazione complessiva da parte della popolazione 17. Ne deriva che l’offensività della
condotta diffamatoria dovrebbe essere considerata sempre «normativamente recessiva, nel bilanciamento dei valori, rispetto alla salvaguardia della libertà di informazione», sia che questa venga esercitata a mezzo stampa sia che questa venga esercitata tramite internet. Per fare ciò, come detto, la Corte ritiene doveroso percorrere, non la strada del giudizio di costituzionalità, bensì quella dell’interpretazione estensiva, coerente con la mens legis. Un percorso che – recita la sentenza – «consente di discostarsi dalle definizioni legali, le quali sono semplici generalizzazioni destinate ad agevolare l’applicazione della legge in un determinato momento storico, e di accreditare al dato normativo un senso e
una portata corrispondenti alla coscienza giuridica e alle necessità sociali del momento attuale».
In questa ottica, al termine «stampa» presente nell’art. 1 della l. n. 47 del 1948, oltre alla «accezione
tecnica di riproduzione tipografica o comunque ottenuta con mezzi meccanici o fisiochimici», deve essere attribuito anche un «significato figurato». In virtù del quale, muta anche il significato del termine
«riproduzione», che «può ben essere intesa come potenziale accessibilità di tutti al contenuto dello
stampato; la produzione di un testo su internet è funzionale alla possibilità di riprodurne e leggerne il
contenuto sul proprio computer. L’immissione dell’informazione giornalistica in rete, inoltre, lascia
presumere la diffusione della stessa, che diventa fruibile da parte di un numero indeterminato di utenti, il che integra la nozione di “pubblicazione”».
Siamo, evidentemente, agli antipodi dell’orientamento fino a questo momento sostenuto dalla stessa
giurisprudenza di legittimità, secondo cui – lo ricordiamo – era proprio la anelasticità del termine
«stampa» a impedire l’interpretazione evolutiva dell’art. 1, l. n. 47/1948.
Forse è anche per questo che le Sezioni Unite, analogamente a quanto fatto per risolvere la prima
questione, ritengono necessario andare oltre la semplice interpretazione estensiva di un preesistente
dettato normativo e, al fine di garantire il rispetto del principio di legalità, ricercano dei dati positivi ulteriori nei quali rinvenire una nuova ed esplicita nozione di stampa idonea a ricomprendere l’informazione telematica.
Dopo aver ripercorso una «serie di leggi» che, approvate dal legislatore dagli anni settanta in poi,
sono accomunate dal fatto di porre «in secondo piano il requisito della «fisicità del giornale» e polarizzare «l’attenzione sulla finalità informativa dell’attività giornalistica», la sentenza evidenzia la nuova
definizione di «prodotto editoriale» introdotta dalla l. n. 62 del 2001. È tale, per l’art. 1, comma 1, della
legge citata, «il prodotto realizzato su supporto cartaceo (…) o su supporto informatico, destinato alla
pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche
elettrico». Al prodotto editoriale, così inteso, il terzo comma della medesima disposizione estende gli
obblighi previsti dalla l. n. 47/1948 in relazione agli «elementi identificativi» e alla «registrazione» delle
testate giornalistiche e dei periodici.
Che le disposizioni sopra richiamate vadano nella direzione del riconoscimento di una omogeneità
di trattamento delle nuove forme di informazione rispetto a quelle tradizionali non può seriamente du-
17
Il dato, oltre che agevolmente percepibile dall’esperienza quotidiana, è ufficialmente rilevabile dall’audizione del Presidente dell’Autorità per le comunicazioni alla Commissione trasporti e comunicazioni della Camera avvenuta il 25 febbraio 2015,
consultabile in www.agcom.it (pag. 17: «Nel consumo dei media, la televisione rappresenta ancora il mezzo largamente più
usato. Ad esso accede oltre il 95% della popolazione italiana; il secondo mezzo per diffusione è la radio (68%), mentre internet si
afferma come terzo mezzo più utilizzato (55%) sorpassando la stampa che registra un ridimensionamento dell’accesso ai
quotidiani dal 59 al 52%. Negli altri Paesi internet è già al secondo posto, superando la radio»). Per completezza, deve, però,
sottolinearsi come tale dato riguardi l’uso complessivo dei media, ricomprendente tanto la finalità di intrattenimento quanto
quella strettamente informativa. Se ci si sofferma esclusivamente su quest’ultima, il superamento della stampa informatica
rispetto a quella cartacea non è ancora avvenuto, giacché «da questo punto di vista i quotidiani rappresentano il secondo mezzo
di informazione (prescelto dal 45% degli individui che si informano), mentre internet si conferma il terzo (utilizzato dal 42%
delle persone che si informano) dunque con distacco, in diminuzione, di appena 3 punti percentuali dai quotidiani» (ivi, pag. 18).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO E INTERNET
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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bitarsi. Ciò di cui, tuttavia, può dubitarsi, a nostro avviso, è della possibilità che il contenuto di tali leggi vada ad incidere direttamente sulla definizione di stampa sancita dall’art. 1 l. n. 47/1948. Gli elementi rinvenibili nella l. n. 62/2001 sembrano orientare in senso negativo. Nel senso, cioè, che tale legge
rappresenti, per sua stessa “ammissione”, una normativa di settore, senza alcuna pretesa di riordino
organico della materia.
A tal riguardo, l’art. 1, comma 1, della l. n. 62/2001, nell’estendere la nozione di prodotto editoriale al
«prodotto su supporto informatico», si affretta a precisare che tale definizione è data «ai fini della presente
legge». E poiché la disciplina di quest’ultima afferisce a vari interventi amministrativi di natura economica a sostegno del settore editoriale (quali, concessione di contributi, erogazione di provvidenze, istituzione di fondi speciali, riconoscimento di credito d’imposta, ecc.), è evidente che la suddetta equiparazione
tra pubblicazione cartacea e telematica non può valere se non allo scopo di usufruire di tali interventi, e
non anche di estendere alle testate telematiche le stesse garanzie di cui godono quelle cartacee ex art. 21
Cost. 18. Una conferma a tale assunto è poi rinvenibile nel d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 19, il quale, intervenendo nuovamente sul tema, ha specificato, proprio al fine di dirimere i dubbi innescati dalla precedente l. n.
62/2001, che l’obbligo di registrazione delle testate editoriali telematiche è stato previsto da quest’ultima
legge «ai soli fini delle provvidenze economiche stabilite nella medesima legge» 20.
In sintesi, a noi pare che, in presenza di una norma avente una diretta funzione definitoria del concetto di «stampa» in specifico riferimento all’attuazione delle guarentigie costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero, qualsiasi operazione ermeneutica volta ad estendere il suddetto concetto a diverse forme espressive dell’informazione sulla base di dati normativi che le stesse Sezioni Unite giudicano «disorganiche e farraginose» e che, per di più, hanno un ambito applicativo dichiaratamente circoscritto ad un determinato settore (quello degli interventi amministrativi a sostegno dell’editoria), sia operazione abbastanza audace.
Quella stessa priorità del valore di democrazia del nostro ordinamento dal quale ha preso le mosse
l’interpretazione creatrice delle Sezioni Unite avrebbe, forse, imposto un diverso itinerario; nel quale, se
e in che misura la stampa informatica potesse essere equiparata alla stampa cartacea, avrebbe dovuto
stabilirlo, all’esito di un aperto e costruttivo confronto tra le forze politiche rappresentative della volontà popolare, il nostro legislatore 21.
Ma così non è stato e, probabilmente, non lo sarà ancora per molto tempo. Del resto, gli effetti derivanti dall’operazione ermeneutica delle Sezioni Unite, come abbiamo già anticipato, hanno un “profilo
selettivo” che li rende simili a quelli che avrebbe potuto generare un intervento legislativo e, conseguentemente, fanno sì che quest’ultimo oggi non sia più urgente.
Difatti, la sentenza in esame, lungi dal sancire automaticamente l’applicabilità delle garanzie proprie
della stampa cartacea a tutto il settore della nuova informazione telematica, procede ad una prudente e
ragionevole selezione.
18
Per un approfondimento del tema, cfr. Di Fabio, Blog, giornali on line e “obblighi facoltativi” di registrazione delle testate telematiche: tra confusione del legislatore e pericoli per la libera espressione del pensiero su internet, in Dir. informaz. e informatica, 2012, p. 1120
ss.; Costanzo, La stampa telematica (tuttora) tra ambiguità legislative e dissensi giurisprudenziali, in Giur. cost., 2010, p. 5239 ss.
19
Aderisce a tale tesi, Bacchini, Il sequestro di un forum on-line: l’applicazione della legge sulla stampa tutelerebbe la libertà di manifestazione del pensiero in internet?, in Cass. pen., 2009, p. 512.
20
Sulla base di tali presupposti, Cass., sez. III, 10 maggio 2012, n. 23230, CED Cass., 252979, ha escluso che l’omessa
registrazione, preventiva alla diffusione di un giornale telematico, integri il reato previsto dagli artt. 5 e 16 della l. n. 47/1948
(stampa clandestina), posto che, ragionando diversamente, si darebbe luogo a una interpretazione analogica in malam partem.
Prima di questo arresto giurisprudenziale, per una pronuncia nei termini della configurabilità del suddetto reato, nei confronti
del responsabile del sito internet che non avesse adempiuto alla registrazione ex art. 5 l. n. 47/48, v. Trib. Modica, 8 maggio
2008, Ruta, in Foro it., 2010, II, 95, con nota di Chiarolla.
21
Su tale “vertiginoso” tema, in rapporto alla progressiva espansione del potere giudiziale, si rinvia, tra i tanti, a Donini, Disposizione e norma nell’ermeneutica penale contemporanea, in Id., Europeismo giudiziario e scienza penale. Dalla dogmatica classica alla
giurisprudenza-fonte, Giuffrè, 2011, p. 63 ss.; Palazzo, Il giudice penale tra esigenze di tutela sociale e dinamica dei poteri pubblici, in
Chiodi e Pulitanò (a cura di), Il ruolo del giudice nel rapporto tra i poteri, Giuffrè, 2013, p. 151 ss.; Guarnieri-Pederzoli, La democrazia
giudiziaria, Il Mulino, 1997; Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, 1998; Guarnieri, Giustizia
e politica. I nodi della Seconda Repubblica, Il Mulino, 2003; Contento, Magistratura, giurisprudenza penale, e potere politico, in Ind. pen.,
1981, p. 35 ss.; Insolera (a cura di), Riserva di legge e democrazia: il ruolo della scienza penale, Zanichelli, 2005; Fiandaca, Crisi della
riserva di legge e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giudiziario, in Criminalia, 2011, p. 79 ss.; Gargani,
Verso una ‘democrazia giudiziaria’? I poteri normativi del giudice tra principio di legalità e diritto europeo, in Criminalia, p. 99 ss.; e, da
ultimo, Manes, Il ruolo “poliedrico” del giudice penale, tra spinte di esegesi adeguatrice e vincoli di sistema, in Cass. pen., 2014, p. 191 ss.
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Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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La summa divisio tracciata dalla sentenza è quella tra «l’area dell’informazione di tipo professionale,
veicolata per il tramite di una testata giornalistica on line» e il «vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo».
La «stampa telematica» che, al pari di quella tradizionale, non può essere sottoposta a sequestro, se
non nei casi eccezionali espressamente previsti dalla legge, ricomprende soltanto la «nuova realtà dei
quotidiani o periodici on line» che sono «regolarmente registrati» e «soggetti agli obblighi di cui alle
leggi n. 47 del 1998 e n. 62 del 2001». Dell’area che, invece, non gode delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa fanno parte tutte quelle forme di comunicazione telematica che, pur essendo espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, rientrano «nei generici siti
internet che non sono soggetti alle tutele e agli obblighi previsti dalla normativa sulla stampa». Si tratta,
in via esemplificativa, del forum, del blog, del social-network e della newsletter.
Il criterio che segna il confine tra le due aree è, essenzialmente, quello dell’assoggettabilità del mezzo
di informazione all’obbligo di registrazione e di indicazione di un direttore responsabile, giornalista professionista o pubblicista. Un criterio che, spiega la sentenza, non rappresenta «un mero adempimento
amministrativo fine a sé stesso, ma è funzionale a individuare le responsabilità (civili, penali e amministrative) collegate alle pubblicazioni e a rendere operative le corrispondenti garanzie costituzionali».
Le due aree, in concreto, possono entrare in contatto, ma tale eventualità non rende estendibili al
mondo generico di internet le garanzie costituzionali del giornale on line registrato. È il fenomeno che si
verifica allorquando il giornale telematico consente a soggetti estranei alla redazione di inserire, in calce
all’articolo, eventuali commenti o di attivare sul contenuto del medesimo articolo un vero e proprio forum. Anche in questi casi le garanzie e le responsabilità previste per la stampa rimangono riferite ai soli
«contenuti redazionali».
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO E INTERNET
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Il rito abrogato sopravvive per il “contumace non irreperibile”
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 29 APRILE 2015, N. 23271 – PRES. TERESI; REL. SCARCELLA
In forza dell’art. 15-bis, l. 28 aprile 2014, n. 67, le disposizioni sul procedimento in absentia non si applicano ai processi in corso al momento dell’efficacia della novella, ove l’imputato sia stato dichiarato contumace senza che sia
stato emesso il decreto di irreperibilità, posto che agli stessi continuano ad applicarsi le disposizioni precedenti.
La vigenza dell’art. 15-bis, l. n. 67/2014, introdotto dalla l. 11 agosto 2014, n. 118, decorre dal 22 agosto 2014, data di efficacia della norma integratrice.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Omissis ha proposto ricorso avverso la sentenza del tribunale di CROTONE emessa in data
22/12/2014, depositata in data 8/01/2015, che lo ha condannato alla pena condizionalmente sospesa
di € 500,00 di ammenda, per aver svolto attività di pesca sportiva nello specchio d’acqua ricadente
nell’area marina protetta di Isola Capo Rizzuto (art. 19, lett. a) e d), comma terzo, legge n. 394 del
1991: contestato come commesso in data 3/05/2010).
2. Con il ricorso, proposto dal difensore fiduciario cassazionista, vengono dedotti tre motivi, di seguito
enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) e c) c.p.p., sotto il profilo della
violazione degli artt. 420, 420-bis e 420-quater, cod. proc. pen. e della legge n. 67 del 2014.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per essere stato il ricorrente condannato in sua
assenza senza che fosse esperito quanto richiesto dalle norme processuali evocate; in altri termini, il
giudice avrebbe dovuto effettuare la verifica delle notifiche e valutare se il processo potesse o meno
continuare o essere sospeso in base alle modifiche apportate dalla legge n. 67 del 2014; il ricorrente
era residente a Savelli ma domiciliato in Crotone, sicché il giudice avrebbe dovuto attentamente e
nuovamente eseguire le verifiche, in base alle modifiche introdotte dalla legge n. 67 del 2014, anche al
fine di consentire all’imputato di poter accedere alla disciplina della messa alla prova, soprattutto
laddove si consideri che l’art. 15 bis della citata legge prevede che la procedura sull’assenza dell’imputato si applica anche ai processi in corso ove non sia stata emessa sentenza di primo grado alla
data del 17/05/2014; il giudice, quindi, avrebbe proseguito in assenza dell’imputato senza le garanzie che gli sarebbero spettate per legge.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) c.p.p., sotto il profilo della violazione dell’art. 19, comma terzo, lett. d), legge n. 394 del 1991.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per essere stato il ricorrente condannato per
aver violato la lett. d) dell’art. 19, comma terzo, della citata legge in difetto dell’elemento oggettivo;
nessuna arma sarebbe stata trovata al Omissis, né il fucile subacqueo può essere considerato
un’arma.
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c) ed e) c.p.p., sotto il profilo della
violazione dell’art. 19, comma terzo, lett. a), legge n. 394 del 1991 nonché degli artt. 192 e 195 cod. proc.
pen. e correlati vizi di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per essere stato il ricorrente condannato per
aver violato la lett. a) dell’art. 19, comma terzo, della citata legge in difetto di prova dell’elemento oggettivo; il ricorrente sarebbe stato trovato sulla riva, laddove, invece, la legge vieta la pesca e il ricorrente non sarebbe stato trovato intento a pescare nell’area marina protetta; il giudice, peraltro, non
avrebbe tenuto conto che l’area in questione termina qualche metro oltre, donde non sarebbe sostenibi-
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL RITO ABROGATO SOPRAVVIVE PER IL “CONTUMACE NON IRREPERIBILE”
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le che il pescato provenisse dalla zona di rispetto potendo provenire dall’area libera, in ogni caso essendosi dato per scontato che il pescato provenisse dall’area marina protetta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
4. Seguendo l’ordine sistematico imposto dalla struttura dell’impugnazione di legittimità, deve essere esaminato il primo motivo, con cui il ricorrente svolge censure di violazione della legge processuale, sostenendo, in estrema sintesi, che il giudice avrebbe dovuto procedere a nuova verifica della
regolarità della costituzione delle parti a seguito della sopravvenuta entrata in vigore della nuova disciplina dell’assenza per effetto della legge n. 67 del 2014.
Il motivo è manifestamente infondato, atteso che, come emerge dalla lettura della sentenza impugnata
l’imputato, a seguito del rinvio preliminare dell’udienza del 21/10/2013 per mancato rispetto del termine a
comparire, era stato rinviato all’udienza del 17/03/2014, nel corso della quale questi era stato dichiarato
contumace, con rinvio all’udienza del 3/11/2014 per lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale.
Trova, dunque, applicazione la disciplina transitoria dettata dall’art. 15-bis, legge n. 67 del 2014
che, al comma secondo, introducendo un’espressa deroga alla previsione del comma primo (il quale
stabilisce che "Le disposizioni di cui al presente capo si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, a condizione che nei medesimi procedimenti non sia stato pronunciato il
dispositivo della sentenza di primo grado"), prevede che "le disposizioni vigenti prima della data di entrata in vigore della presente legge continuano ad applicarsi ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente
legge quando l’imputato è stato dichiarato contumace e non è stato emesso il decreto di irreperibilità".
Ne discende, dunque, che essendo già stato dichiarato contumace il ricorrente alla data di entrata
in vigore della nuova disciplina in tema di assenza (17/05/2014) ed essendo già in vigore la norma
transitoria alla data del giudizio di primo grado (si ricordi che l’art. 15 bis è stato inserito dall’art. 1,
comma 1, l. 11 agosto 2014, n. 118, a decorrere dal 22 agosto 2014, ai sensi di quanto disposto dall’art.
2, comma 1, della medesima legge n. 118/2014), nessun obbligo vi era per il giudice di osservare la
nuova disciplina processuale, in quanto continuavano ad applicarsi le previgenti disposizioni sul processo "contumaciale" essendo stato dichiarato contumace in data antecedente.
Deve, conseguentemente, essere affermato il seguente principio di diritto:
“Le disposizioni degli artt. 420-bis e quater sul cosiddetto processo in absentia, come novellate dalla legge n. 67 del 2014, non si applicano ai processi che siano già in corso e nei quali l’imputato sia
stato già dichiarato contumace, dal momento che agli stessi continuano ad applicarsi le disposizioni
vigenti, con ogni conseguenza in ordine alla dichiarazione di contumacia ed ai suoi effetti ai sensi
dell’art. 15- bis, L. 28 aprile 2014 n. 67”.
5. Manifestamente infondati sono, poi, il secondo ed il motivo di ricorso che, attesa l’omogeneità
dei profili di doglianza mossi, possono essere congiuntamente trattati.
Ed invero, emerge pacificamente dall’impugnata sentenza che il personale della PG ha riferito in
dibattimento che l’imputato fosse stato notato in immersione all’interno della zona di riserva integrale,
precisamente il loc. capo Colonna; in quel tratto di mare, trattandosi di zona A, risultavano vietate sia le
immersioni che l’attività di pesca, laddove il ricorrente, contravvenendo al divieto, era stato sorpreso
intento a praticare la pesca subacquea, tant’è che riemergeva dall’acqua munito di fucile subacqueo e di
kg. 3 di pesce vario, donde la condotta del medesimo è stata ritenuta dal giudice di merito correttamente integrare la violazione del divieto legislativo di cattura delle specie animali (art. 19, comma
terzo, lett. a), legge n. 394 del 1991) nonché di introduzione di armi, mezzi distruttivi e di cattura (art.
19, comma terzo, lett. d), legge citata).
Nessun dubbio, peraltro, non solo che si trattasse di area protetta e che la stessa fosse stata idoneamente segnalata, ma anche sulla natura di arma del fucile subacqueo impiegato dal ricorrente (Sez.
1, n. 7604 del 06/05/1981 – dep.30/07/1981, Pappalardo, Rv. 149995), mentre del tutto pretestuosa e
altresì fondata su argomentazioni fattuali, si appalesa la censura difensiva in ordine al fatto che il pescato provenisse da area libera e non invece dall’area protetta, atteso che la motivazione da compiutamente conto della circostanza che il ricorrente venne sorpreso intento a pescare con muta e fucile
(arma di cui alla vista della PG aveva cercato di disfarsi, tant’è che lo stesso era stato prontamente recuperato dagli operanti) proprio nell’area interdetta, perdipiù venendo colto in possesso anche del
pescato.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL RITO ABROGATO SOPRAVVIVE PER IL “CONTUMACE NON IRREPERIBILE”
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6. Il ricorso dev’essere, conclusivamente, dichiarato inammissibile. Segue, a norma dell’articolo 616
c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di
esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di una
somma che si stima equo fissare, in euro 1.000,00 (mille/00).
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL RITO ABROGATO SOPRAVVIVE PER IL “CONTUMACE NON IRREPERIBILE”
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MICHELE BONETTI
Avvocato
Procedimenti in corso e giudizio in absentia
Process already underway and the trial in absence of the accused
La novella 28 aprile 2014, n. 67, ha introdotto il giudizio in absentia. Per essa si pone il tema della sua applicazione,
secondo le regole della successione delle leggi nel tempo. Si deve ritenere che il nuovo regime non concerne i
processi che, al momento della sua entrata in vigore, siano in corso e nei quali l’imputato sia stato già dichiarato
contumace-non irreperibile, posto che negli stessi continuano ad osservarsi le disposizioni previgenti. Va ritenuta
con effetto retroattivo la disciplina intertemporale della legge 11 agosto 2014, n. 118, a far data dall’efficacia della
novella.
The new law of 28 of april 2014, no. 67, introduced the trial in the absence of the accused. About that, it poses
the issue of its application in accordance with the rules of the succession of the laws over the time. It must be
assumed that the new discipline doesn’t work for the trials that, upon the entry into effect of the new law, had
been already started and in which the accused had been already declared contumace traceable. For them, it applies the statute previously in force. Therefore, the intertemporal discipline of the act of 11 of august 2014, no.
118, has retroactive effective from the effectiveness of the new law.
PREMESSA: IL CASO IN OGGETTO
Circa la novella 28 aprile 2014, n. 67, con il suo giudizio in assenza dell’imputato, la sentenza di legittimità n. 23271/2015 lumeggia, con andamento di estrema sintesi, il risvolto particolare del tema della
successione delle leggi nel tempo, discendente dalla somma dei due interventi normativi del 2014: l’uno
dimentico del problema temporale (la l. n. 67/2014), l’altro riparatorio della carenza (la l. 11 agosto
2014, n. 118).
Il ricorrente, dichiarato contumace prima della l. n. 67/2014 (nella fattispecie: il 17 marzo 2014), con
udienza per l’istruzione dibattimentale fissata mesi dopo (il 3 novembre 2014), lamentava che il giudice
del dibattimento non avrebbe dovuto procedere innanzi, ma sarebbe stato tenuto a compiere la nuova
verifica della regolarità della costituzione delle parti, a seguito della sopravvenuta entrata in vigore della rinnovata disciplina dell’assenza: e, dunque, ad applicare immediatamente detta normativa.
La Corte ha disatteso tale doglianza, richiamando la disciplina “transitoria” dettata dall’art. 15-bis, l.
n. 67/2014, così come formulata dalla l. n. 118/2014, e pronunciando espressamente il seguente principio di diritto: «Le disposizioni degli artt. 420 bis e quater c.p.p. sul cosiddetto processo in absentia, come
novellate dalla legge n. 67 del 2014, non si applicano ai processi che siano già in corso e nei quali
l’imputato sia stato già dichiarato contumace, dal momento che agli stessi continuano ad applicarsi le
disposizioni vigenti, con ogni conseguenza in ordine alla dichiarazione di contumacia ed ai suoi effetti
ai sensi dell’art. 15-bis, l. 28 aprile 2014 n. 67».
La risoluzione adottata è tranchant e condivisibile. Va solo specificato che il “contumace” di cui si
parla è il “contumace non irreperibile” (di cui infra, § 3. Ciò, a meno di considerare – implausibilmente
e immotivatamente – come contraria alla lettera espressa dell’art. 15-bis, l. n. 67/2014 la statuizione: che,
tacitianamente, certo minus dixit quam voluit).
La sentenza in oggetto prospetta, sia pur di sfuggita, un secondo profilo di natura cronologica, parentetico al suo contenuto di fondo ma degno di rilevo. Sostiene che l’incidenza dell’art. 15-bis, l. n.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PROCEDIMENTI IN CORSO E GIUDIZIO IN ABSENTIA
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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67/2014, introdotto dalla l. n. 118/2014 come “norma transitoria”, si avrebbe «a decorrere dal 22 agosto
2014», data di vigenza della l. n. 118/2014. Pur non rilevando nel caso in questione (posto che nella fattispecie la dichiarazione di contumacia era anteriore alla vigenza della l. n. 67/2014 e l’udienza dibattimentale di parecchi mesi successiva), la datazione degli effetti della norma regolatrice l’incidenza temporale (art. 15-bis l. n. 67/2014, interpolato dalla l. n. 118/2014) merita un appunto. Invero, il dies a quo
deve ritenersi non la vigenza della l. n. 118/2014, come una lettura immediata ma non meditata induce,
bensì quella della l. n. 67/2014 (v., infra, § 3).
Certo, il tema della sentenza n. 23271/2015 è fugace per definizione e per la limitata portata temporale concreta. Ma detta pronuncia fornisce opportunamente il destro per ragionare sulla successione
normativa che il sistema in absentia ha visto realizzarsi e per fare il punto sul suo inquadramento e sul
suo assestamento, dopo l’impatto e le chiavi ermeneutiche inizialmente elaborate, alla ricerca di una lettura coerente 1.
I DUE TEMPI OFFERTI DAL LEGISLATORE
È utile richiamare che la novella n. 67/2014, nel testo iniziale, non si curava di regolare l’applicazione
nel tempo della riforma. Non avendo contemplato alcuna disciplina di diritto intertemporale 2, la legge,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 2 maggio 2014, è entrata automaticamente in vigore il 17 maggio
2014, come vuole l’art. 73 Cost.
Onde ovviare alla lacuna 3, il legislatore si è subito attivato, per emanare la l. n. 118/2014, “Introduzione dell’articolo 15-bis della legge 28 aprile 2014 n. 67, concernente norme transitorie per l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili” 4,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 21 agosto 2014, composta da due articoli.
Il primo articolo fissa una regola generale e un’eccezione, che, a sua volta, distingue fra due situazioni. Si stabilisce dunque che, nel capo III della l. n. 67/2014 («Sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili»), dopo l’art. 15, è aggiunto l’art. 15-bis, rubricato «Norme transitorie». Al comma
1 viene statuito che le disposizioni del detto capo III si applicano «ai procedimenti in corso alla data di
entrata in vigore della presente legge», qualora «non sia stato pronunciato il dispositivo della sentenza
di primo grado» 5; al comma 2 si prevede che, comunque, «le disposizioni vigenti prima» continuano
ad applicarsi nei casi in cui l’imputato sia stato dichiarato contumace, ma non sia stato emesso nei suoi
confronti il decreto di irreperibilità.
Il secondo articolo prevede l’entrata in vigore della l. n. 118/2014 nel «giorno successivo a quello
della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale», vale a dire il 22 agosto 2014.
Tra la prima e la seconda normativa decorre lo spazio temporale di un trimestre.
Due, dunque, i tempi e le relative tipologie discendenti dall’operato del legislatore.
Il primo tempo (l. n. 67/2014 in originaria versione) si affida, per determinare la successione cronologica, all’art. 11 delle preleggi, che assoggetta ciascun atto alla normativa del momento in cui si verifica – tempus regit actum – 6. Così, può dirsi che gli “atti compiuti” sono assoggettati alla norma pregressa;
gli “atti futuri” sono regolati dalla nuova norma; gli “atti complessi” – con effetti che si protraggono nel
1
Cfr., volendo, M. Bonetti, L’incidenza della riforma sui procedimenti in corso, in D. Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza dell’imputato, Torino, 2014, p. 273.
2
Sulla prospettiva, O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, in G. Ubertis-G. Voena (diretto da), Trattato di procedura
penale, vol. I, Milano, 1999, p. 94 ss.
3
Lacuna “deprecabile” per Cass., Sez. II, 6 giugno 2014, n. 23882, in Dir. e giust., 9 giugno 2014, www.iusexplorer.it.
4
L’intitolazione della legge risulta «fuorviante», dato che «le norme che essa contiene sono destinate anche a stabilire
l’applicazione nel tempo dell’art. 420-bis, e quindi del giudizio in assenza»: A. Ziroldi, L’assente inconsapevole e l’irreperibile: la sospensione del procedimento e le ricadute sulla prescrizione. Il diritto intertemporale, in www.scuolamagistratura.it, 4 giugno 2015, p. 4, il
quale censura anche la denominazione “Norme transitorie”, trattandosi qui di «meta-norme o norme strumentali che non
esprimono un contenuto precettivo autonomo», «destinate a risolvere i conflitti fra le norme nel tempo nel processo penale», e
appunto non di «norme transitorie», «materiali di diretta applicazione», regolanti «accadimenti compresi nel periodo in cui si
verifica un mutamento normativo».
5
Recte: “letto”, non “pronunciato” (art. 545, comma 1, c.p.p.).
6
S. Del Corso, voce Successione di leggi penali, in Dig. disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 103, sottolinea che tale principio, in
procedura penale, tutela in particolare l’imputato da modifiche «in peius delle “regole del gioco” processuale».
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tempo durante il quale la norma regolatrice muta –, pendenti al momento dell’intervento legislativo innovatore e non ancora esauriti, si allineano alla disciplina vigente al momento del loro perfezionamento 7. Ciò poteva essere correttamente ritenuto a far data dal 17 maggio 2014, ma solo fino al 22 agosto
2014.
Il secondo tempo (l. n. 67/2014 rivista dalla l. n. 118/2014) presenta la regolamentazione della successione normativa disciplinata espressamente dal legislatore. Il titolo ad operare deriva dalla sua discrezionalità nel determinare, per i procedimenti in corso, gli effetti temporali dei nuovi istituti processuali, anche disattendendo l’art. 11 delle preleggi: ciò – si badi – con il solo limite della ragionevolezza
delle scelte effettuate e della loro conformità ai principi costituzionali, che non possono essere comunque disattesi 8. La l. n. 118/2014 è efficace dal 22 agosto 2014, contenendo però essa un’addizione tout
court alla l. n. 67/2014, in vigore dal 17 aprile 2014.
Nell’interstizio fra i due interventi normativi, si è dovuta affrontare una manovra esegetica, spaziando in un ambito che forse può essere definito «terra di nessuno» 9, ma che probabilmente è il luogo
migliore per sperimentare il buon funzionamento dei principi generali di cui l’ordinamento dispone. La
disamina dunque svolta nel trimestre è stata ampia, per capire se le nuove norme, in tema di processo
in absentia ovvero di sospensione dello stesso, potessero trovare applicazione anche nei procedimenti
pendenti, in cui fosse già stato effettuato, al 17 maggio 2014, il controllo della costituzione delle parti: e,
quindi, già stata dichiarata, conformemente alla legge abrogata, la contumacia dell’imputato o verificata la regolarità degli avvisi ex art. 614 c.p.p.
Le soluzioni proposte si sono manifestate variegate e vale richiamarle. Si è partiti dalla ritenuta immediata applicazione, comunque e in qualsivoglia stadio processuale, della riforma, così come dei suoi
istituti 10. Si è optato altrimenti per la sua applicazione, ma solo in via parziale, relativamente ai meri
profili migliorativi, vale a dire la sospensione per l’irreperibile 11. Si è infine opinata la conservazione
degli effetti originari dell’atto di controllo, compiuto con la normativa precedente al 17 maggio 2014,
applicando ai processi “contumaciali” le vecchie regole, interamente, con ogni diritto – anche di notifica
e impugnatorio – del precedente sistema 12.
Invero, la terza chiave interpretativa, che fa salvo il pregresso regime, consentiva all’imputato un arco defensionale maggiormente robusto, peculiarmente in fase di gravame, e si rivelava in armonia con
l’ordinamento. La giurisprudenza ha confortato tale opzione. Infatti, nel medesimo trimestre, la sede di
legittimità è stata tempestivamente attivata e le – ovviamente poche ma certo qualificate – pronunce
hanno spinto per l’applicabilità dei nova solo ai procedimenti in cui, al 17 maggio 2014, l’azione non
fosse stata ancora avviata o non fosse stata ancora dichiarata la contumacia dell’imputato o esercitato il
controllo ex art. 614, comma 3, c.p.p. 13.
7
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., pp. 128-9; cfr. Cass., Sez. Un., 31 marzo 2011, n. 27919, in UTET-Pluris;
sul profilo del «tempus regit effectum», v. R. Caponi, Tempus regit processum. Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel
tempo, in Riv. dir. proc., 2006, p. 455.
8
Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393, in Foro it., 2007, I, c.1; Corte cost., 9 luglio 2004, n. 219, in Giur. cost., 2004, p. 2304;
Corte cost., 22 novembre 2001, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 1501.
9
A. Ziroldi, L’assente inconsapevole, cit., p. 7.
10
Dunque, in udienza preliminare o in primo grado (R. Bricchetti-L. Pistorelli, Giudizi pendenti pieni di insidie interpretative, in
Giuda dir., 2014, 21, pp. 105-6; B. Nacar, Il processo in absentia tra fonti internazionali, disciplina codicistica e recenti interventi riformatori, Padova, 2014, p. 118; S. Quattrocolo, Il contumace cede la scena processuale all’assente, mentre l’irreperibile l’abbandona,
in www.penalecontemporaneo.it, 30 aprile 2014, p. 12-13; così R. Magi, Quale regime transitorio per le modifiche in tema di contumacia e
irreperibilità?, in Questione giustizia, 18 maggio 2014, www.magistraturademocratica.it., e P. Silvestri, Le nuove disposizioni in tema di
processo “in assenza” dell’imputato, Relazione n. III/07/2014, a cura dell’Ufficio del Massimario, 5 maggio 2014, in www.cortedi
cassazione.it, p. 64), in appello (R. Bricchetti-L. Pistorelli, Giudizi pendenti pieni di insidie interpretative, cit., p. 106.), in cassazione
(P. Silvestri, Le nuove disposizioni in tema di processo “in assenza” dell’imputato, cit., p. 64).
11
S. Perelli, L’impatto della messa alla prova e del processo in absentia sui processi in corso e, in particolare, sul giudizio di appello, in
Questione giustizia, 20 maggio 2014, www.magistraturademocratica.it. Contra, R. Bricchetti-L. Pistorelli, Giudizi pendenti pieni di insidie interpretative, cit., p. 106.
12
A. De Caro, Processo in absentia e sospensione. Una primissima lettura della legge n. 67 del 2014, in Arch. pen., 3, p. 28.
13
Cass., Sez. II, 6 giugno 2014, n. 23882, cit. Cfr. la nota di A. De Francesco, Soppressione dell’istituto della contumacia: la nuova
disciplina non è retroattiva, in Dir. e Giust., 9 giugno 2014, www.iusexplorer.it, per cui «la “vecchia” disciplina del procedimento in
contumacia e degli istituti ad essa coesi – tra cui la notifica dell’estratto contumaciale e la restituzione nel termine per proporre
impugnazione –» non possono «ammettere “contaminazioni” parziali ad opera delle nuove previsioni».
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L’APPLICAZIONE DELLA L. N. 67/2014 NEL DETTATO DELLA L. N. 118/2014
L’intervento della l. n. 118/2014 regola esplicitamente l’incidenza temporale della novella. La legge integrativa, in sé, ha espresso vigore dal 22 agosto 2014: e su questo la sentenza n. 23271/2015 riporta i
dati correttamente. Ma tale assioma deve essere meglio ragionato, leggendo l’intero contesto dell’articolato. Va infatti rimarcato che il legislatore, qui, ha fatto uso del canone di discrezionalità che l’ordinamento gli consente, combinando un meccanismo applicativo che unisce ragionevolezza (tradizionale
conservazione degli effetti originari dell’atto), presidio dei principi costituzionali (tutela delle prerogative defensionali del “vecchio” contumace irreperibile) e naturale e non artificiosa mutazione dei regimi
giuridici (gradato passaggio ad una normativa che restringe alcune facoltà, ma, al contempo, ne prefigura di nuove) 14. È emersa la modulazione di effetti, sostanzialmente retroattivi, che trovano campo dal
17 maggio 2014 15.
Così, con una visione sistematica prima che letterale, può ben dirsi che l’applicazione dell’art. 15-bis,
l. n. 67/2014, introdotto dalla l. n. 118/2014, in ordine «ai procedimenti in corso alla data di entrata in
vigore della presente legge» (comma 1), va intesa riferita alla «entrata in vigore della» l. n. 67/2014 16.
La sentenza de qua sul punto, invece, sbrigativamente, omette di considerare che, sì, la l. n. 118/2014 vige dal 22 agosto 2014, ma il suo art. 1 è interpolato nella l. n. 67/2014, che vige dal 17 maggio 2014. Su
questo non si ritiene di seguirla.
Va invece seguita come tassello per la ricostruzione del sistema, che può richiamarsi, nella sua integralità: col bilanciamento temporale che focalizza il rimando fra regola – di per sé generale – ed eccezione – per definizione tassativa –.
La disciplina abrogata della contumacia permane per i procedimenti che, al 17 maggio 2014, siano
addivenuti a sentenza in primo grado. Ad essi si aggiungono quelli che, alla medesima data, non siano
pervenuti a tale esito, ma concernano comunque i “vecchi” “contumaci non irreperibili”. Dunque,
l’immediata applicazione della novella ai procedimenti in corso, quando il giudizio di primo grado non
sia concluso (art. 15-bis, comma 1, l. n. 67/2014), viene abbinata con la «deroga» (art. 15-bis, comma 2, l.
n. 67/2014), per cui, quando si sia in udienza preliminare o in primo grado e si versi nel caso di “contumace non irreperibile”, il pregresso regime sopravvive. Invece, il “contumace irreperibile” trova il riconoscimento immediato del nuovo apparato di tutela 17.
Per quanto attiene alla fase delle impugnazioni, essa si considera immune dall’applicazione della
Cfr. anche Cass., Sez. fer., 13 agosto 2014, n. 35717, in www.cortedicassazione.it.
Cass., Sez. Un., 17 luglio 2014, n. 36848, in CED Cass. n. 259992, ritiene che l’istituto della rescissione del giudicato «si applica
solo ai procedimenti nei quali è stata dichiarata l’assenza dell’imputato a norma dell’art. 420-bis c.p.p., come modificato dalla
legge 28 aprile 2014, n. 67, mentre, invece, ai procedimenti contumaciali definiti secondo la normativa antecedente alla entrata
in vigore della legge indicata, continua ad applicarsi la disciplina della restituzione nel termine per proporre impugnazione dettata dall’art. 175, comma secondo, c.p.p. nel testo previgente» (sul punto R. Bricchetti, Per i giudizi in contumacia anteriori alla riforma vale la disciplina sulla restituzione nel termine, in Guida dir., 2014, 40, p. 24; G. Ranaldi, La rescissione del giudicato: esegesi di una
norma imperfetta, in questa Rivista, 2015, 1, p. 127).
In tema v. pure Cass., Sez. II, 6 giugno 2014, n. 23882, in CED Cass. n. 260038, per cui «l’avvenuta restituzione nel termine
per proporre impugnazione avverso una sentenza contumaciale in epoca precedente all’entrata in vigore della legge 28 aprile
2014, n. 67, in quanto attività processuale "esaurita", comporta l’applicazione della disciplina vigente in quel momento con conseguente inoperatività delle nuove disposizioni».
14
Circa le «nuove dinamiche sistematiche» e gli «inediti equilibri normativi», cfr. D. Vigoni, Introduzione, in D. Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza, cit, p. XVI.
15
Cfr. C. Pansini, Novità legislative interne. Norme transitorie e imputati irreperibili, in questa Rivista, 2014, 6, p. 11. Su retroattività e processo penale, v. G. Lozzi, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 167, e G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV ed., Milano, 2012, p. 100; in giurisprudenza, Cass., Sez. Un., 31 marzo 2011, n. 27919, cit. (v. pure la nota di
F. Galluzzo, Custodia cautelare e successione di leggi nel tempo, in Arch. pen., 2011, 3, p. 1).
16
G. Biscardi, Eclissi della contumacia e sospensione per irreperibilità, tra conoscenza legale e conoscenza reale del processo, in questa
Rivista, 2014, 6, p. 124, osserva che, qualora, fra il 17 maggio ed il 22 agosto 2014, fosse stato applicato il novum della l. n.
67/2014, a fronte di una dichiarazione di contumacia – senza irreperibilità –, resa prima della l. n. 67/2014, «la dichiarazione di
assenza dovrà essere revocata, continuandosi ad applicarsi per intero le regole del procedimento contumaciale».
17
Cfr. il Dossier del Servizio studi n. 162, 12 maggio 2014, in www.camera.it.
Sulle figure di irreperibile/nuovo assente/vecchio contumace, v. P. Tonini-C. Conti, Il tramonto della contumacia, l’alba radiosa
della sospensione e le nubi dell’assenza “consapevole”, in Dir. pen. proc., 2014, p. 518; v. pure G. Santalucia, Il processo in absentia e il
giudizio di appello, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014, p. 309, e P.
Tonini, Diritto processuale penale. Appendice, IX ed., Milano, 2014, p. 11.
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novella, posto che «in tal caso non v’è più modo di adeguare la pregressa dichiarazione di contumacia
ai nuovi parametri del processo nei confronti dell’irreperibile» 18.
Il meccanismo si compone nei profili di sintesi che seguono. Dal 17 maggio 2014, qualora sia già stata anteriormente dichiarata la contumacia in udienza preliminare, il processo continuerà con il pregresso regime per il “contumace non irreperibile” e con la novella per il “contumace irreperibile”; qualora
sia già stata anteriormente dichiarata la contumacia in primo grado, il processo continuerà con il pregresso regime per il “contumace non irreperibile” e con la novella per il “contumace irreperibile”; qualora sia già stata anteriormente emessa la sentenza di primo grado, l’appello continuerà con il pregresso
regime, e così pure il relativo giudizio di cassazione, per il “contumace non irreperibile” e per il “contumace irreperibile” 19; qualora sia già stata anteriormente emessa la sentenza di primo grado immediatamente impugnata, il giudizio di cassazione continuerà con il pregresso regime, per il “contumace non
irreperibile” e per il “contumace irreperibile”. Così pure per il giudizio di rinvio 20.
Vale rimarcare la ratio della distinzione dell’art. 15-bis, comma 1, l. n. 67/2014: per il “contumace non
irreperibile” continuano ad avere efficacia le norme previgenti, posto che esse «risultano per certi aspetti più favorevoli di quelle nuove»; per il “contumace irreperibile”, la nuova disciplina ha campo in
quanto «risulta più garantista e rispettosa dei princìpi del “giusto processo”» 21.
Così, dal 17 maggio 2014 il giudice deve verificare se la dichiarazione di contumacia, anteriore a tale
data, nel caso sottoposto alla sua cognizione, sia stata dovuta ad un’assenza consapevole dell’imputato,
ovvero ad una situazione di riscontrata irreperibilità, cui sia conseguita la mancata conoscenza del procedimento. Ciò, come detto, in primo grado: infatti, quanto alle impugnazioni, il loro regime è necessariamente ancorato al diritto passato.
Non può non richiamarsi un’interpretazione alternativa e parallela, che la lettera dell’art. 15-bis l. n.
67/2014 può indurre 22. Infatti, si può ritenere che la «deroga», portata dal suo comma 2 alla previsione
del comma 1, concernente l’immediata applicabilità della riforma per l’irreperibile, non sia limitata al
giudizio di primo grado, ma attenga alla figura, in sé, del “contumace irreperibile”, in qualsivoglia fase
o grado egli si trovi, nei processi pendenti al 17 maggio 2014. Si potrebbe applicare la novella a tale
soggetto, immediatamente e trasversalmente, dall’udienza preliminare al giudizio di legittimità, travolgendo certo una notevole massa processuale 23. Invero, nell’ottica di un approccio sistematico, la gradualità temporale dell’art. 15-bis, l. n. 67/2014, con stadi differenziati di applicazione, porta a ritenere
ragionevole l’attivazione della nuova tutela del “contumace irreperibile” unicamente se il primo grado
non è ancora concluso. Non solo: va tenuto conto dell’«effetto paradosso» 24 e dell’«eterogenesi dei fini» 25, che discenderebbero da una simile alternativa interpretazione. Conseguirebbe infatti l’inapplicabilità dell’art. 420-quinquies c.p.p. in tema di accesso ai riti alternativi, tipico del primo grado, nonché
della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale di cui all’abrogato art. 603, comma 4, c.p.p., come pure degli introdotti rimedi, rescindente – art. 604, comma 5-bis, c.p.p. – e rescissorio – art. 625-ter c.p.p. –,
che presuppongono si sia proceduto in absentia ai sensi della l. n. 67/2014.
18
Relazione alla proposta di legge n. 2344, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, 5 maggio 2014, p. 1. In tema di impugnazioni, la relazione affronta specificamente la questione dell’applicazione dei nuovi meccanismi di cui all’art. 11 l. n. 67/2014:
richiamati l’operato mutamento del sistema di controllo della decisione di proseguire il giudizio, nonostante la mancanza
dell’imputato, e l’introdotta “rescissione” del giudicato di condanna, viene rilevato che si tratta di istituti «non agevolmente
esperibili se il giudizio di primo grado si è conformato ad una disciplina affatto diversa». Pertanto, deve ritenersi che la nuova
sistematica delle impugnazioni trovi spazio «soltanto per i procedimenti che già in primo grado si siano interamente svolti secondo le nuove regole».
19
Contra, R. Bricchetti, Dopo il necessario intervento del legislatore “spartiacque” per i giudizi al 17 maggio 2014, in Guida dir., 2014,
36, p. 54, che ritiene l’eccezione diretta al giudice d’appello (non a quello di legittimità), e così A. Ciavola, Alcune considerazioni
sulla nuova disciplina del processo in assenza e nei confronti degli irreperibili, in Dir. pen. cont., 23 maggio 2015, p. 34.
20
M. Bonetti, L’incidenza della riforma, cit., p. 285.
21
Relazione alla proposta di legge n. 2344, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, 5 maggio 2014, cit.; cfr. D. Chinnici, La sospensione del processo e il rito degli irreperibili tra novità e ambiguità, in Arch. pen., 2014, 3, p. 11.
22
M. Bonetti, L’incidenza della riforma, cit., p. 286.
23
Cfr. J. Della Torre, Le Sezioni Unite sulla rescissione del giudicato: nonostante i primi chiarimenti l’istituto rimane problematico, in
Dir. pen. cont., 5 dicembre 2014, p. 14; circa l’appello, v. R. Bricchetti-M. Cassano, Il procedimento in absentia, Milano, 2015, p. 189.
24
A. Ziroldi, L’assente inconsapevole, cit., p. 7.
25
S. Perelli, L’impatto della messa alla prova, cit., p. 5.
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La parabola ermeneutica che la sentenza n. 23271/2015 suggella presenta dunque un dato acquisito
apprezzabile: il giudizio in assenza dell’imputato deve fermarsi e lasciare il passo al veterum, a fronte
dei processi, in corso al 17 maggio 2014, nei quali l’imputato sia stato dichiarato contumace senza che
sia stato emesso il decreto di irreperibilità.
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Messa alla prova e regime transitorio
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE II, SENTENZA 16 GENNAIO 2015, N. 18265 – PRES. IANELLI; REL. DIOTALLEVI
Nei processi pendenti in grado di appello al momento dell’entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67,
l’imputato non può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova ex art. 464-bis c.p.p., non essendo
prevista la possibilità di dare ingresso ad una procedura strutturalmente alternativa ad ogni tipo di giudizio su una
determinata imputazione.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
L’imputato C.F. ricorre avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano il 16 settembre
2014 con la quale veniva confermata la sentenza del GIP del Tribunale di Milano del 13 aprile 2012 di
condanna per i reati a lui ascritti di truffa, appropriazione indebita e altro:
Chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 606, lett. b) e lett. e), deduce:
a) L’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 168-bis, ter e quater c.p., e art. 464 bis c.p.p. e ss., e art. 657 c.p.p., posto che il Giudice di merito avrebbe dovuto accogliere l’istanza di messa alla prova.
In particolare il ricorrente deduce che la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto inammissibile la
richiesta di applicazione dell’istituto della messa alla prova in grado d’appello, in assenza di una norma
transitoria, che consentisse l’applicazione del nuovo istituto introdotto con la l. n. 67 del 2014, appunto
ai processi che abbiano superati i rigorosi sbarramenti previsti dall’art. 464-bis c.p.
In realtà gli effetti sostanziali dell’istituto, e la conseguente applicazione dell’art. 2 c.p., comma 4,
consentirebbero una applicazione retroattiva della normativa in questione, con riferimento anche alla
giurisprudenza della CEDU e in particolare del principio della lex mitior, così come applicato nella sentenza della Corte di Strasburgo Scoppola contro Italia del 17 settembre 2009. Un interpretazione diversa, quale quella fatta propria dalla corte d’appello, anche in relazione a una pronuncia d ella Corte di
cassazione, determinerebbe una situazione di disparità di trattamento rispetto a fatti pregressi per procedimenti pendenti, con violazione dell’art. 3 Cost.
b) Entità della pena. Violazione dei criteri di computo della medesima.
Il ricorrente lamenta l’eccessività della pena infittagli, in relazione al suo comportamento processuale e ai fatti commessi, in violazione dei criteri di dosimetri della medesima, con una determinazione
della stessa non specifica nei vari passaggi e riferimenti ai reati contestati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riferimento al primo motivo di ricorso osserva il Collegio che con l’entrata in vigore della l. 28
aprile 2014, n. 67, è divenuta effettiva l’applicabilità e l’operatività delle disposizioni che disciplinano il
nuovo istituto della messa alla prova.
Con questo istituto il legislatore ha introdotto la sospensione del procedimento con messa alla prova
degli imputati adulti (ed “probation”) anche nel processo e per i reati commessi da imputati maggiorenni, individuando, come si legge nella relazione una probation giudiziale nella fase istruttoria, assimilabile al modello adottato nel procedimento minorile (d.p.r. n. 448 del 1988, art. 28, e art. 27 norme att., approvate con d.lgs. n. 272 del 1989), nel quale la messa alla prova precede la pronuncia di una sentenza
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | MESSA ALLA PROVA E REGIME TRANSITORIO
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di condanna”, evidenziando le differenze che l’istituto ha rispetto a quelli esistenti nel nostro ordinamento, come quella che è gestita dalla magistratura di sorveglianza in termini di sospensione
dell’esecuzione della condanna (art. 656 c.p.p., e l. n. 354 del 1975, sull’ordinamento penitenziario), con
riguardo alle pene detentive irrogate nel limite dei tre anni nei confronti di soggetti a piede libero;
nonchè dalla probation penitenziaria, introdotta in Italia dalla l. n. 354 del 1975, art. 47 e ss., e dal
d.p.r. n. 309 del 1990, art. 94”.
L’obiettivo che intende perseguire questa probation processuale è quello di offrire immediatamente
all’imputato (soprattutto se “primario” e accusato di un reato di minore gravità) un trattamento personalizzato che ne faciliti il recupero ed eviti il danno derivante non solo dalla detenzione in un istituto di
pena (spesso occasione di un consolidamento degli aspetti devianti della personalità), ma anche dalle
conseguenze sociali di essere stato comunque attinto da una decisione di condanna.
Ciò premesso la collocazione delle disposizioni di cui agli artt. 464-bis, ter, quater, quinquies, sexies,
septies, octies e novies c.p.p., nel libro VI (sui procedimenti speciali), dopo il titolo V, nell’ambito del
(nuovo) titolo V bis, porta a ritenere che la sospensione del procedimento con messa alla prova per gli
adulti costituisca essa stessa un procedimento speciale, nuovo, che si aggiunge dunque al giudizio abbreviato, all’applicazione delle pena su richiesta delle parti, al giudizio direttissimo, al giudizio immediato ed al procedimento per decreto. L’inquadramento sistematico delle norme che disciplinano
l’istituto ha conseguenze importanti per quanto riguarda l’applicabilità delle disposizioni in esame ai
processi in corso, non avendo il legislatore contemplato alcuna norma transitoria.
La questione, ovviamente, assorbe qualsiasi altra e ulteriore valutazione in ordine alla sussistenza
delle condizioni preclusive previste dall’art. 168-bis c.p., che si possono accorpare in due limiti di natura
oggettiva, legati alla gravità del reato e quindi alla pena edittale e ad alcune tipologie specifiche dato
dal fatto e al fatto che il beneficio non sia già stato concesso ed in un limite di natura soggettiva, concernente la circostanza che il richiedente non sia stato dichiarato delinquente professionale, abituale o
per tendenza, che caratterizzano e differenziano notevolmente la probation per gli adulti, rispetto a quella prevista nel rito minorile, ove tali limiti non sono contemplati.
Orbene la nuova normativa sulla messa alla prova per gli adulti ha inciso sia sulle norme sostanziali
che su quelle processuali, da un lato, introducendo un istituto che è un beneficio ed integra una nuova
causa di estinzione del reato, dall’altro, disciplinando con esso un nuovo rito che porta alla definizione
anticipata del procedimento.
Valorizzare l’aspetto sostanziale o la prospettiva processuale dell’istituto ha una evidente ricaduta
sull’applicabilità o meno delle disposizioni che hanno apportato modifiche al codice penale e che hanno
inciso sulla punibilità del reato, configurandosi esse come norme più favorevoli e ciò sia richiamandosi
all’art. 2 c.p., comma 4, che alla disposizione di cui all’art. 7 CEDU, come interpretato nella sentenza
Scoppola contro Italia. Una risposta positiva al quesito comporta tuttavia la disapplicazione in fatto di
una norma – l’art. 464-bis c.p.p., comma 2, appunto – che fissa specifici termini di decadenza per la proposizione della richiesta.
Il dato, difficilmente superabile, relativo alla disapplicazione da parte del giudice della disposizione
di cui all’art. 464-bis c.p.p., comma 2, in realtà, forse spiega per quale motivo non sia stata prevista una
norma transitoria.
Ed infatti proprio la disposizione di cui all’art. 464-bis c.p.p., comma 2, può portare a ritenere che
l’aver individuato, da parte del legislatore, uno sbarramento che individua espressamente un termine
finale di presentazione della richiesta, con diversificazioni collegate ai differenti procedimenti, ma comunque ristretta al giudizio di primo grado (le conclusioni rassegnate dalle parti a norma degli artt.
421 e 422; la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel
procedimento di citazione diretta a giudizio; o), oltre il quale il beneficio non è più applicabile, può rispondere ad una scelta precisa con la quale il legislatore, con tale disposizione, ha voluto dettare una
disciplina applicabile a tutti i procedimenti pendenti, individuando tra essi quelli in cui la disciplina sostanziale può trovare applicazione (e per converso, quelli ai quali la disciplina non è applicabile).
Una scelta in questo senso, a parere del collegio, non determina infatti una disparità di trattamento, anche se situazioni pur apparentemente simili sono destinate a ricevere trattamenti differenti, in coerenza con
il principio di ragionevolezza che riconosce l’importanza della sistematicità della scelta legislativa.
D’altra parte, ponendo mente al fatto che il legislatore, oltre alle norme sostanziali, ha previsto specifiche disposizioni processuali, una delle quali fissa uno sbarramento per la proposizione della richiesta,
l’interpretazione costituzionalmente orientata della stessa può correttamente ritenerla espressione della
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discrezionalità legislativa, caratterizzata dalla scelta di ancorare ad un preciso momento procedurale la
possibilità di proporre l’istanza; con ciò si deve escludere che sia incostituzionale aver deciso di lasciar
fuori, dal novero dei procedimenti in cui il rito premiale è esperibile, quei procedimenti nei quali tale
fase sia stata superata, cioè tecnicamente esaurita. Il tema è stato già affrontato dalla corte di cassazione
da alcune pronunce delle sezioni semplici ed è stato oggetto anche di una ordinanza di rimessione alle
Sezioni Unite.
La IV Sezione Penale della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30559/14, Cass. Pen., Sez. 4^, ord.
9 luglio 2014 (dep. 11 luglio 2014), n. 30559, Pres. Brusco, Est. Piccialli, Ric. Dalvit ha affrontato la questione dell’applicabilità delle nuove norme della legge n. 67 del 28 aprile 2014, che hanno introdotto nel
nostro ordinamento l’istituto della probation per gli adulti, nell’ambito di quei processi che, alla data di
entrata in vigore della suddetta legge, avvenuta il 17 maggio 2014, hanno superato la fase processuale
entro la quale può essere dall’imputato formulata, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione del
procedimento con messa alla prova.
La mancanza di una disciplina transitoria, dedicata alla soluzione di questa problematica, ha indotto
il Collegio della IV Sezione a rimettere la questione alle Sezioni Unite, attesa la “delicatezza della materia e la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, afferenti il regolamento di diritti di
rilievo costituzionale”.
Questo collegio nel presente caso, in conformità alle decisioni di altre sezioni semplici, una delle
quali peraltro è stata richiamata dallo stesso ricorrente, ritiene che non vi siano le condizioni per
l’esistenza di un potenziale, allo stato, contrasto che non possa essere positivamente risolto alla luce
della normativa esistente.
Infatti la Sezione Feriale Penale della Suprema Corte, con la sentenza n. 35717/2014 Ceccaroni, si è
espressa in senso contrario alla tesi della immediata applicabilità dell’istituto della messa alla prova ai
processi in corso.
Come nel caso deciso dalla sentenza Dalvit, sopra richiamata, anche nella vicenda definita dalla sentenza Ceccaroni, l’imputato, dopo avere proposto ricorso avverso la sentenza di appello, che aveva confermato la condanna di primo grado per la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, ha avanzato,
nelle more del giudizio di legittimità, una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla
prova.
Il ricorso è stato rigettato e, con specifico riferimento alla richiesta di sospensione del procedimento
avanzata dal ricorrente è stato sottolineato come l’istituto della messa alla prova sia incompatibile con il
giudizio, sia di merito che di legittimità, in quanto è stato costruito “dal legislatore come opportunità
possibile esclusivamente in radicale alternativa alla celebrazione di ogni tipologia di giudizio di merito,
già dal primo grado. Si tratta, quindi, di procedura e opportunità assolutamente incompatibile con alcun giudizio di impugnazione. L’attuale disciplina positiva, pertanto, esclude la possibilità che la sospensione del procedimento con messa alla prova possa trovare applicazione nel giudizio di legittimità”. Inoltre, l’assenza di una disciplina transitoria, impone di fare ricorso alla regola generale derivante
dal principio del tempus regit actum, con la conseguenza che sono da ritenere inammissibili quelle richieste di sospensione del processo con messa alla prova che vengono proposte a processo in corso, in
cui siano già stati superati i rigorosi termini decadenziali previsti dall’art. 464 bis c.p.p., comma 2. A
supporto di questa interpretazione correttamente deve essere fatto riferimento anche alla sentenza n.
236 del 2011 della Corte costituzionale, che ha ritenuto infondata la questione di incostituzionalità, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, relativa alla inapplicabilità dei più
favorevoli termini di prescrizione, introdotti dalla l. n. 251 del 2005, ai processi già pendenti in grado di
appello o avanti la Corte di cassazione. In questo caso, infatti, la Corte costituzionale ha sottolineato
come nel nostro ordinamento sia da ritenersi assoluto il principio di irretroattività della norma penale
sfavorevole, mentre quello della retroattività della norma favorevole può subire delle limitazioni, a
condizione, però, che tali limitazioni siano oggettivamente ragionevoli e giustificate, come nell’ipotesi
“della diversità dei contesti processuali”.
Ora, dal momento che la lex mitior, di cui si discute, è “costituita dalla previsione di una ulteriore
causa di estinzione del reato tuttavia caratterizzata dalla stretta connessione con un rito peculiare che
ne impedisce ogni rilievo nei giudizi di impugnazione”, bisogna concludere che “quando il processo è
ormai giunto davanti al giudice dell’impugnazione (perchè vi è stata una decisione che ha definito il
primo grado di giudizio) non vi è spazio sistematico alcuno per dare ingresso ad una procedura che,
come e nei termini in cui si è prima argomentato, è strutturalmente alternativa ad ogni tipo di giudizio
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su una determinata imputazione. Questo ancor più quando il processo pende nel giudizio di legittimità”, (v. anche Sez. F, n. 42318 del 09/09/2014 - dep. 10/10/2014, Valmaggi, Rv. 261096).
Il quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento così ricomposto comporta che il principio
della lex mitior va ricondotto, in via generale, alle norme concernenti le fattispecie penali e le sanzioni
ivi previste, con esclusione delle norme processuali che invece trovano il loro primo principio di riferimento nel diverso canone normativo del tempus regit actum di cui all’art. 11 preleggi; con la precisazione
che le situazioni esaurite potranno sopportare il vaglio di ulteriori valutazioni attraverso l’analisi del
filtro di ragionevolezza riconducibile alla considerazione di ulteriori interessi confliggenti, come affermato, positivamente, in tema di prescrizione con la sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale,
in modo tale che l’esegesi applicativa delle norme aventi valore procedurale potrà trovare una ponderazione di sistema nelle previsioni cui per il cittadino sono legati interessi di natura prettamente sostanziale, primo fra tutti quello alla libertà, che trova il suo presidio costituzionale nell’art. 13 Cost. La valutazione dell’applicazione retroattiva della lex mitior, e la sua conseguente operatività va ricollegata al
principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., e al fatto che la stessa arriva a sopportare deroghe nella
sua applicazione quando debba confrontarsi con principi di pari rango (si veda ad esempio la vicenda
dell’applicazione del regime della prescrizione per la L. 8 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli, di cui
alla sentenza della Corte cost., n. 393 del 2006, che ha ritenuto illegittimamente limitato dalla norma
transitoria dell’art. 10, comma 3, l’efficacia retroattiva del regime migliorativo della prescrizione al termine originariamente previsto, mentre ha ritenuto possibile escludere l’efficacia dei più ragionevoli
termini di prescrizione per i processi pendenti in grado d’appello o avanti la Corte di cassazione (v.
Corte cost., sentenze nn. 72 del 2008 e 236 del 2011).
Rispetto a questi approdi ermeneutici non appare inutile richiamare l’articolata ricostruzione prodotta dall’elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite in tema di atto processuale e di situazione
esaurita, posta alla base della soluzione dei casi di conflitto e dell’applicazione del principio di cui
all’art. 11 preleggi, comma 1.
La corretta applicazione della normativa intertemporale impone, infatti, anche la esatta individuazione dell’actus, che va focalizzato ed isolato, sì da cristallizzare la disciplina giuridica ad esso riferibile.
In particolare, il concetto di atto deve essere rapportato allo stesso grado di atomizzazione che presentano le concrete e specifiche vicende disciplinate dalla norma processuale coinvolta nella successione.
L’atto cioè va considerato nel suo porsi in termini di autonomia rispetto agli altri atti dello stesso processo, dovendosi avere riguardo anche alle dimensioni temporali in cui si colloca, per modulare correttamente il parametro intertemporale e stabilire se sia applicabile il vecchio o il nuovo regime, tra cui
quello che ha carattere strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento,
con la quale va a integrarsi e completarsi in uno spazio temporale anch’esso più o meno ampio, dando
luogo ad una fattispecie processuale complessa.
La regola tempus regit actum non può dunque non tenere conto della variegata tipologia degli atti
processuali e va modulata in relazione alla differente situazione sulla quale questi incidono e che occorre di volta in volta governare (Sez. Un., n. 44895 del 17/07/2014 – dep. 28/10/2014, Pinna, Rv. 260926;
Rv. 2260927). E ritiene il Collegio che la definizione di “rapporto esaurito”, con riferimento specifico
all’istituto della messa alla prova, in base alla quale è stato definito tale (cioè esaurito) la fase processuale specifica, in relazione ai diversi riti, sta nel momento in cui avvenga il passaggio del procedimento
alla fase successiva (dibattimentale).
D’altra parte lo stesso principio della lex mitior, elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU con
la sentenza del 17/09/2009, Scoppola c. Italia, citata, e che ha fortemente valorizzato la centralità
dell’art. 7 CEDU, che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene, non ha sancito solo “il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma, implicitamente, il principio della retroattività
della legge meno severa”. Tuttavia, secondo la stessa Corte EDU, “tale principio non diviene al contempo, un principio dell’ordinamento processuale”. È la stessa Corte, dunque, che chiarisce che resta
ragionevole l’applicazione del principio tempus regit actum per quanto riguarda l’ambito processuale,
pur dovendosi accuratamente definire di volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o
meno sostanzialmente alla sfera del diritto penale materiale.
La soluzione del problema in esame resta perciò affidata alla ricostruzione del sistema processuale
nell’ottica dell’applicazione del principio tempus regit actum, pur dovendosi accuratamente definire di
volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o meno alla sfera del diritto penale materiale, o
meglio subiscano una diretta incidenza nella loro conformazione dall’attrazione nella sfera sostanziale.
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Sulla base di queste premesse la Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis c.p.p., comma 2, per contrasto all’art. 3 Cost., nella parte in
cui non consente l’applicazione dell’istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti
pendenti al momento dell’entrata in vigore della L. 28 aprile 2014, n. 67, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile. (Sez.
6, n. 47587 del 22/10/2014 - dep. 18/11/2014, Calamo, Rv. 261255). Anche in questo caso era stato indicato quale parametro di legalità costituzionale il principio di retroattività della lex mitior successiva desumibile dall’art. 7 par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e che farebbe ormai parte
del sistema quale specificazione dell’art. 2 c.p., comma 4. Tuttavia (v. Corte Cost. n. 236 del 2011 cit. e
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo), il principio di retroattività della lex mitior, così come in generale le norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione EDU, concerne le sole “disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono” (CEDU sent. 27 aprile
2010, Morabito contro Italia, nonchè sent. 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia), trattandosi oltre
tutto di principio riconosciuto dalla Convenzione Europea che non coincide, tuttavia, con quello regolato nel nostro ordinamento dall’art. 2 c.p., comma 4.
Quest’ultimo riguarda, infatti, ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che
apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo
sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il primo ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni (v. Corte Cost. n. 20136 del 2011 cit.: “La
diversa e più ristretta, portata del principio convenzionale è confermata dal riferimento che la giurisprudenza Europea fa alle fonti internazionali e comunitarie e alle pronunce della Corte di giustizia
dell’Unione Europea. Sia l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia l’art. 49 della
Carta di Nizza, infatti, non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma solo alla legge che prevede
l’applicazione di una pena più lieve). Sempre, infatti, secondo la fondamentale Corte Costituzionale n.
236 del 2011, è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di
Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee
all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento,
favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque
di minore gravità”.
Ciò premesso il nuovo istituto della messa alla prova si configura come un percorso del tutto alternativo rispetto all’accertamento giudiziale penale, ma non incide affatto sulla valutazione sociale del
fatto, la cui valenza negativa rimane anzi il presupposto per imporre all’imputato, il quale ne abbia fatto esplicita richiesta, un programma di trattamento alla cui osservanza con esito positivo consegua
l’estinzione del reato.
Si è, dunque ed all’evidenza, al di fuori dell’ambito di operatività del principio di retroattività della
lex mitior ed è pertanto da escludere che la mancata previsione di una applicazione retroattiva
dell’istituto della messa alla prova si ponga in contrasto con l’art. 7, par. 1 CEDU, come interpretato
dalla Corte di Strasburgo e violi l’art. 117 Cost., comma 1, che del primo (norma interposta) costituisce
il parametro di legalità costituzionale (nello stesso senso v. Cass. Sez. Feriale n. 11 del 31/07/2014, Paladino).
Il ricordato carattere alternativo del procedimento di messa alla prova rispetto all’accertamento giudiziale penale non rende, dunque irragionevole la fissazione del termine finale di presentazione della richiesta al
momento delle conclusioni rassegnate dalle parti a norma degli artt. 421 e 422 c.p.p.; la dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a
giudizio ai sensi dell’art. 550 c.p.p. e segg., di quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato
all’imputato o dalla comunicazione del relativo avviso al difensore, nei casi di giudizio immediato; il medesimo termine previsto dall’art. 461 c.p.p., per l’opposizione, nei procedimenti per decreto.
La possibilità di presentare la richiesta alla prima udienza successiva all’entrata in vigore della L. n. 67
del 2014, significherebbe, come è stato correttamente evidenziato, collegare l’esercizio della facoltà ad un
termine in realtà mobile, posto che detta udienza potrebbe avere luogo ad istruttoria dibattimentale sia in
corso che conclusa, durante la discussione finale o addirittura coincidere con quella fissata unicamente
per la lettura del dispositivo, con grave compromissione delle ragioni di economia processuale e della ragionevole durata del processo e, in definitiva, con il principio costituzionale del giusto processo.
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E’ già stato poi sottolineato dalla giurisprudenza che successivamente è entrata in vigore la l. 11 agosto 2014, n. 118, che ha introdotto nella l. n. 67 del 2014, l’art. 15 bis (Norme transitorie), previsione concernente, tuttavia, il solo Capo III della legge e la disciplina ivi stabilita di sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, ma non il Capo II relativo alla messa alla prova, confermando a contrario che non vi è stato da parte del legislatore alcun ripensamento quanto alla individuazione del
termine finale di presentazione dell’istanza di cui all’art. 464 bis c.p.p., comma 2.
Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso osserva la Corte che lo stesso è privo della specificità, prescritta dall’art. 581, lett. c), in relazione all’art. 591 c.p.p., lett. c), a fronte delle motivazioni svolte
dal giudice d’appello, che non risultano viziate da illogicità (si veda l’articolata motivazione sul punto a
pag. 9 della sentenza d’appello in ordine ai criteri di determinazione della pena);
questa corte ha stabilito che “La mancanza nell’atto di impugnazione dei requisiti prescritti dall’art.
581 c.p.p. - compreso quello della specificità dei motivi – rende l’atto medesimo inidoneo ad introdurre
il nuovo grado di giudizio ed a produrre, quindi, quegli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere
una pronuncia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità”. (Cass. pen., sez 1, 22.4.97, Pace, 207648).
Uniformandosi a tale orientamento che il Collegio condivide, va dichiarata inammissibile l’impugnazione;
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati
i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00;
Non si provvede sulle spese richieste dalla parte civile in quanto, in tema di impugnazioni, qualora
dall’eventuale accoglimento del ricorso proposto dall’imputato non possa derivare alcun pregiudizio
alla parte civile, quest’ultima, non avendo interesse a formulare proprie conclusioni nel giudizio, non
ha diritto alla rifusione delle spese processuali, in caso di rigetto o declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, rimanendo impregiudicata la possibilità di adire il giudice civile anche all’esito positivo del percorso di messa alla prova ai fini del risarcimento del danno subito e riguardando gli altri motivi di ricorso esclusivamente i criteri di determinazione della pena. (v. anche Sez. 6, n. 1671 del
20/12/2013 - dep. 15/01/2014, Spagnuolo, Rv. 258524). In particolare per il motivo di ricorso relativo
alla richiesta di applicazione dell’istituto della messa alla prova tale conclusione trova sostegno anche
negli arresti giurisprudenziali in base ai quali è stato affermato che, seppur per la diversa ipotesi di
estinzione del reato ai sensi del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 35, non sussiste alcun interesse per la
parte civile ad impugnare, anche ai soli fini civili, la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per
intervenuta condotta riparatoria in quanto tale pronuncia, limitandosi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell’estinzione del reato, non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile (così Sez. V, 6 giugno 2008, n. 27392, Di Rienzo non massimata
sul punto). Si precisa in tale arresto che l’interesse alla proposizione dell’impugnazione non è costituito
dalla sola discordanza tra la decisione impugnata e la pronuncia cui si tende mediante il gravame, occorrendo altresì che l’eliminazione del provvedimento ritenuto pregiudizievole comporti una situazione pratica più vantaggiosa rispetto a quella esistente. Per contro, la sentenza del Giudice di pace, accertando la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell’estinzione del reato ai sensi dell’art. 35 citato,
con valutazione operata allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria e con sentenza predibattimentale,
non produce alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile ricorrente. Invero, l’art. 652
c.p.p., prevede che solo la sentenza di assoluzione pronunciata in giudizio, in seguito a dibattimento,
per insussistenza del fatto, mancata commissione dello stesso da parte dell’imputato o ricorrenza di
un’esimente abbia efficacia di giudicato nell’eventuale giudizio civile di responsabilità che la parte civile può instaurare nei confronti dell’imputato. Dunque, poichè nell’eventuale giudizio civile di danno la
parte civile non può risentire alcun pregiudizio dalla sentenza di proscioglimento intervenuta nella
specie, essa non ha interesse a formulare censure riguardo alla dichiarazione di estinzione del reato. Tale soluzione ermeneutica è stata poi successivamente ribadita da Sez. IV, 26 gennaio 2011, n. 15619,
D’Angelo, non massimata; Sez. IV, 18 febbraio 2014, n. 46368, Imbrocè, Rv. 260946 e Sez. V, 26 giugno
2014, n. 30535, Uggini, Rv. 260037. Orbene, a parere del collegio, le conclusioni sopra riportate possono
trovare applicazione, mutatis mutandis, anche nel caso di sospensione del processo con messa alla prova,
dove la messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze
dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato.
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Orbene, appare evidente che se il danno viene interamente risarcito la parte offesa, già costituita parte civile non avrà nulla di cui lamentarsi; in caso contrario, l’eventuale risarcimento parziale o, in ipotesi, l’assenza di un totale risarcimento, non potrà rivestire autorità di giudicato nel giudizio civile per le
restituzioni o per il risarcimento del danno e non produrrà, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei
confronti della parte civile. L’istituto in esame si configura come una peculiare forma di definizione alternativa del procedimento, attraverso la previsione di un ulteriore rito speciale, che sicuramente persegue un obiettivo di deflazione ma che trova la sua ratio nell’esigenza di configurare anche un sistema
che vuole porsi come mezzo di tutela sostanziale dei beni giuridici lesi, più che come astratto ed indefettibile meccanismo retributivo conseguente alla commissione del reato. Il giudice, infatti, arriverà ad
assumere una decisione sulla richiesta sempre che non debba pronunciare sentenza ex art. 129 c.p.p. e
dovrà farlo con ordinanza pronunciata in udienza (anche appositamente fissata ai sensi dell’art. 127
c.p.p.), sentite le parti, nonché la persona offesa, il cui parere però no è vincolante. Ed è importante sottolineare che l’ordinanza è ricorribile autonomamente per cassazione, anche dalla persona offesa, ma
solo se essa non è stata sentita o non ha avuto avviso e, in ogni caso, l’impugnazione proposta non sospende il procedimento. In base ai parametri di cui all’art. 133 c.p., se il giudice reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati, valutata anche la circostanza che il domicilio dell’imputato, indicato nel programma, sia tale da assicurare
le esigenze di tutela della persona offesa, concede il beneficio, disponendo, con ordinanza, la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Orbene è pacifico, dunque, che la valutazione da parte del giudice, non si basa su elementi di prova,
ma, eventualmente, potrebbe prendere visioni degli atti contenuti nel fascicolo del p.m., valorizzando
la disposizione di cui all’art. 464-quater, comma 3, e in assenza di una esplicita norma di divieto al riguardo se, nel contempo si vuole rendere concreto il riferimento ai parametri di cui all’art. 133 c.p. Ma,
in ogni caso, la decisione assunta, nell’ipotesi di esito positivo della messa alla prova, non potrà avere
alcuna incidenza sull’eventuale giudizio civile instaurato per il risarcimento del danno.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende. Nulla sulle spese chieste dalla parte civile
M.B. Banca s.p.a. in liquidazione.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2015
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MARCELLO D’AIUTO
Dottore di ricerca in procedura penale – Università di Roma “Tor Vergata”
Messa alla prova da giudizio sul fatto a giudizio sull’imputato
Probation: by the judgment made in the judgment on the defendant
La Corte è intervenuta per colmare il vuoto lasciato dalla legge n. 67/2014 in ordine al regime transitorio. Essa ha
stabilito che nei procedimenti in corso, che abbiano superato la fase in cui può essere formulata la richiesta non è
applicabile retroattivamente la messa alla prova. In realtà, la Cassazione sottovaluta le implicazioni di carattere sostanziali sottese all’istituto e finisce con il dettare un regime transitorio irragionevole che subordina allo stato di
avanzamento del processo l’applicazione della norma.
The Court has stepped in to fill the gap left by the law n. 67/2014 regarding the transitional arrangement. She has
established that in ongoing cases, having passed the stage in which the request can be formulated, can not be
applied retroactively probation. Actually, the Supreme Court underestimates substantial involvements of the institution and states an unreasonable transitional arrangement which subordinates application of the rule to the process state of progress.
IL CASO
La pronuncia in commento trae origine dalla necessità di colmare, in via giurisprudenziale, il vuoto lasciato dal legislatore.
La l. n. 67 del 2014, che ha introdotto la sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato
maggiorenne, infatti, non ha chiarito se la disciplina si applica anche ai processi in corso che abbiano
superato la soglia temporale dell’art. 464-bis c.p.p. In assenza di un regime transitorio, pertanto, il giudice di legittimità è stato sollecitato a chiarire se gli effetti sostanziali dell’istituto consentono un’applicazione della norma a tutte le vicende giudiziarie in corso alla data di entrata in vigore della nuova legge, indipendentemente dallo stato o dal grado in cui si trovano 1.
La questione riguarda la natura della messa alla prova, che comprende sia novità sostanziali, quale
l’estinzione del reato in caso di esito positivo della prova, sia processuali, delineando un’ipotesi di definizione anticipata del procedimento 2. Valorizzare l’una o l’altra caratteristica, a giudizio della Corte,
comporta riconoscere o meno l’applicabilità della messa alla prova anche ai procedimenti in corso.
Un’interpretazione più «garantista», agganciata all’art. 2, comma 4, c.p., alla luce della più recente
giurisprudenza europea, sembrerebbe consentire l’applicazione dell’istituto a tutti i procedimenti penali pendenti. La messa alla prova sarebbe lex mitior applicabile, per questo, retroattivamente; del resto, il
ricorrente ha sostenuto tale tesi per impugnare la decisione della Corte d’appello che aveva invece negato l’accesso alla messa alla prova nel corso del giudizio di secondo grado.
La Corte di cassazione, invece, riprendendo un filone giurisprudenziale recente ma consolidato 3, ha
sostenuto che la messa alla prova non incide sulla valutazione sociale del fatto, la cui valenza negativa
1
Al riguardo, G. Pecorella, La messa alla prova … alla prova delle sezioni unite, in Cass. pen., 2014, p. 3264, secondo il quale bisogna stabilire se la natura sostanziale comporti un’applicazione retroattiva della norma, e se, e in che misura, la componente processuale possa costituire un limite alla retroattività.
2
A. Murro, Messa alla prova per l’imputato adulto: prime riflessioni sulla legge n. 67/2014, in Studium iuris, 2014, p. 1274, la quale
parimenti si riferisce alla menzionata natura bivalente sostanziale e processuale.
3
Cass., sez. IV, 11 luglio 2014, n. 30559, in Dir. pen. proc., 2014, p. 949.
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rimane tale, ma si configura come un «percorso del tutto alternativo rispetto all’accertamento giudiziale
penale (…). Un procedimento speciale, nuovo, che si aggiunge al giudizio abbreviato, all’applicazione
della pena su richiesta delle parti, al giudizio direttissimo, al giudizio immediato ed al procedimento
per decreto». «La soluzione del problema resta perciò affidata alla ricostruzione del sistema processuale
nell’ottica del principio tempus regit actum» 4. Il legislatore, poi, con lo sbarramento dell’art. 464-bis c.p.p.
avrebbe voluto dettare «una disciplina applicabile a tutti i procedimenti in corso, individuando tra essi
quelli in cui la disciplina sostanziale può trovare applicazione».
LA RESPONSABILITÀ DELL’IMPUTATO
In definitiva, l’equazione è semplice: la messa alla prova è norma processuale e per questo non applicabile retroattivamente. Il rito appartiene al novero dei procedimenti speciali, con i quali condivide la
semplificazione delle forme in una logica di efficienza e snellezza dell’accertamento penale; l’estinzione
del reato è l’effetto premiale della scelta di sottoporsi alla probation: l’imputato rinuncia alle garanzie
dibattimentali e, se l’esito della prova è positivo, ottiene una pronuncia di proscioglimento.
In realtà, le implicazioni sottese alla messa alla prova sono più ampie di quelle prospettate dalla sentenza in commento.
La messa alla prova, per gli imputati maggiorenni, si colloca nell’ambito di un quadro di interventi legislativi tesi ad introdurre misure alternative alla detenzione e riservare l’accertamento giudiziario solo ai
fatti realmente meritevoli per gravità ed allarme sociale 5. L’istituto risponde efficacemente alla necessità
di rimediare al sovraffollamento carcerario più volte stigmatizzato dalla Corte di Strasburgo 6. La messa
alla prova, infatti, contribuisce a smaltire il flusso giudiziario e, contemporaneamente, a riservare la detenzione solo ad ipotesi di extrema ratio. Si tratta di un trend crescente in tale prospettiva; la risposta carcero-centrica va commisurata su condotte particolarmente lesive dei beni tutelati dalle regole penali.
Il meccanismo è quello sperimentato nei procedimenti a carico di imputati minorenni: sospensione
del processo, probation dell’imputato ed estinzione del reato in caso di esito positivo. Rispetto all’antesignano, però, la nuova messa alla prova ha presupposti e contenuti completamente diversi 7. Se, infatti,
nel procedimento penale minorile la prova è finalizzata soprattutto ad “educare” il soggetto fragile, nel
procedimento ordinario prevalgono contenuti para-sanzionatori e riparativi 8.
4
La sentenza chiarisce che il principio della lex mitior, per il quale non solo è irretroattiva la legge penale più sfavorevole ma
è anche retroattiva la legge più favorevole, elaborato dalla Corte e.d.u., non è principio dell’ordinamento processuale. In tale
ambito resta ragionevole l’applicazione del principio tempus regit actum, pur dovendosi definire di volta in volta se le norme di
cui si discute appartengano alla sfera del diritto penale materiale.
5
Essa si colloca in linea con la necessità di un profondo ripensamento del sistema processuale e sanzionatorio proteso a realizzare “un’equilibrata de-carcerizzazione” e a conferire effettività al principio del minor sacrificio possibile per la libertà personale. In questi termini si è espresso G. Tabasco, La sospensione del processo con messa alla prova degli imputati adulti, in Arch. pen.,
2015, p. 3. Si veda al riguardo anche, F. Fiorentini, Rivoluzione copernicana per la giustizia ripartiva, in Guida dir., 2014, 21, p. 63. La
legge 28 aprile 2014, n. 67 – oltre a prevedere la sospensione del procedimento con messa alla prova – conferisce diverse deleghe
al governo per introdurre la causa di non punibilità della c.d. irrilevanza del fatto per speciale tenuità; per introdurre le nuove
pene principali dell’arresto e della reclusione domiciliari; per operare una depenalizzazione di reati sia secondo il tradizionale
sistema della loro conversione in illeciti punitivi amministrativi, sia secondo l’innovativa soluzione di trasformare un numero
circoscritto di essi in illeciti civili sanzionati, oltre che col risarcimento del danno, con una sanzione pecuniaria civile di nuovo
conio, così F. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture, in Cass. pen., 2014, p. 1694.
6
Corte e.d.u., 8 gennaio 2013, Torregiani c. Italia.
7
La messa alla prova rappresenta nel rito minorile l’istituto “simbolo” in cui si concentra la funzione educativa primaria che
il processo si propone di realizzare. In buona sostanza al minorenne viene offerta una chance che gli consente di dimostrare, attraverso la “prova”, un cambiamento di rotta che parte dalla sua personalità e consistente nel definitivo abbandono della scelta
deviante. Diversamente, mettere alla prova un adulto, dalla personalità già strutturata, risponde a differenti esigenze e prevalentemente ad una logica rieducativa più che educativa, mediante un coinvolgimento diretto e mirato a saldare il proprio debito
con la giustizia in una prospettiva riparativa più che retributiva. Si veda al riguardo M. Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia riparativa, in Proc. pen. giust., 2012, 6, p. 125.
8
Si veda F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova
dell’imputato maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012, p. 7, secondo cui l’istituto di nuovo conio una sanzione sostitutiva che verrebbe tuttavia scontata, sotto le mentite spoglie della "messa alla prova", in sede processuale
anziché in sede esecutiva; e alla cui esecuzione farebbe seguito – nel caso, rispettivamente, di osservanza o inosservanza degli
obblighi connessi allo strumento punitivo – il proscioglimento dell’imputato anziché un normale "fine pena", magari accompa-
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La prova, alla quale l’imputato si sottopone, integra, infatti, una vera e propria sanzione penale, senz’altro
di matrice diversa da quella tradizionale 9. Si tratta di obblighi che coincidono in larga misura con quelli imposti a varie tipologie di misure alternative alla pena. A differenza di quanto avviene in ogni altro rito, però,
la risposta dell’ordinamento interviene nel corso del giudizio ed in una fase anche piuttosto anticipata.
La limitazione della libertà personale attuata nelle forme della prova, pertanto, rende imprescindibile un giudizio di responsabilità 10. Come per l’applicazione della pena su richiesta, la negoziazione del
trattamento sanzionatorio consente di immaginare una contrazione dei dati utilizzabili dal giudice, limitati ad elementi informativi ancora sommari, qualitativamente diversi da quelli che emergono dalla
dinamica dialettica, tipica del dibattimento 11.
Ciò che appare più difficile da giustificare, invece, è la provvisorietà del giudizio. Se l’esito della
prova è negativo o se l’imputato non si attiene agli obblighi imposti, il giudice revoca l’ordinanza di sospensione ed il procedimento prosegue nelle forme ordinarie. Un giudizio sommario, per di più provvisorio, non è compatibile con un effettivo accertamento della responsabilità penale ed è, per questo,
difficile da conciliare con il contenuto afflittivo della prova.
La limitazione della libertà personale può essere giustificata solo parzialmente dalla volontà dell’imputato di accedere al rito.
Ciò che, viceversa, comporta un accertamento pieno è la effettiva disponibilità del soggetto a rimediare agli effetti negativi della condotta e la probabilità che si astenga dal commettere nuovi reati; cosicché, il giudice, più che una valutazione sul fatto, deve compiere un esame approfondito sulla personalità dell’imputato. A partire, non a caso, dalla sua reale volontà di sottoporsi alla probation.
La messa alla prova, dunque, è strutturata in modo da responsabilizzare l’imputato e consentirgli di
eliminare gli effetti negativi dell’azione delittuosa.
Il progetto di prova da sottoporre al giudice, e che questi può integrare, deve consistere in ben quattro attività, di cui due riguardano la dimensione riparativa e due integrano la componente retributiva e rieducativa dell’istituto. Le prime sono rappresentate dalle condotte volte ad eliminare le conseguenze dannose e pericolose del reato, a risarcire il danno procurato ed a promuovere la mediazione con la vittima 12; le seconde,
invece, comprendono l’affidamento dell’imputato al servizio sociale ed il lavoro di pubblica utilità 13.
LA VALUTAZIONE SULLA PERSONALITÀ DELL’IMPUTATO
La probation, è funzionale ad un giudizio sulla personalità del soggetto, in conformità alla finalità rieducativa e risocializzante della sanzione. Nel nuovo rito, però, novità più interessante, la probation si realizza nel corso del processo e non in fase di esecuzione 14.
gnato da una successiva estinzione del reato e degli effetti penali, oppure il riavvio del processo anziché il ripristino della pena
sostituita o l’assoggettamento del reo a una nuova e autonoma misura sanzionatoria.
9
Coniugare il trattamento rieducativo, inteso come l’insieme delle regole che tendono alla risocializzazione della persona, in
occasione della detenzione o della privazione della libertà, all’inesistenza di una condanna definitiva da eseguire potrebbe,
quindi, indurre dubbi di costituzionalità, attesa la presunzione di non colpevolezza, scolpita nell’art. 27, comma 2, della Costituzione, riaprendo gli accesi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali alimentati dall’inquadramento sistematico della sentenza di
condanna alla pena patteggiata, così G. Tabasco, La sospensione del processo con messa alla prova degli imputati adulti, cit., p. 19.
10
La legge in esame, evocando la commissione di ulteriori reati (sia nell’art. 168-quater, comma 2, c.p. che nell’art. 464-quater,
comma 3, c.p.p.), sottintende all’evidenza che un reato sia già stato commesso; accertamento che segue le medesime cadenze
della sentenza di applicazione della pena concordata, richiedendosi – quanto meno in fase di indagine – il consenso del pubblico ministero e la verifica da parte del giudice circa la non ricorrenza nella fattispecie dei presupposti per l’emanazione di una
sentenza ex art. 129 c.p.p., in termini analoghi si è espresso L. Pulito, Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, in Proc. pen. giust., 1, 2015, p. 100.
11
Come sostiene, F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 1037, «gli accordi sulla pena non sono dei “plea bargaining”
davanti a cui il giudice funga da notaio; né configurano negozi da omologare; siamo davanti a dei petita, accoglibili o no. Accertamento giurisdizionale, dunque».
12
Secondo R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, cit.,
p. 670, il rapporto con la vittima assume un significato molto importante aprendo per la prima volta uno spazio per una reale
mediazione tra autore e vittima, spazio tuttavia tutto da inventare, non essendo prevista in merito alcuna disciplina.
13
Il lavoro si sostanzia in una sanzione obbligatoria, precettiva ed afflittiva posto che, in caso di esito negativo della prova, il
periodo di lavoro eseguito va scomputato dalla pena definitiva ex art. 657-bis c.p.p., così A. Marandola, La messa alla prova
dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, cit., p. 680.
14
In tali termini F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova
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L’anticipazione del giudizio è giustificata dalla complessiva esigenza deflattiva. La messa alla prova,
come anticipato, è innanzitutto un’alternativa ad un sistema sanzionatorio che ha avuto nella detenzione in carcere il suo centro indefettibile. Ma la l. n. 67 del 2014, oltre che da spinte deflattive, nasce da
tentativi passati e spinte europee volte a ripensare nella sua interezza il sistema sanzionatorio.
Al sistema retributivo classico, come già negli apparati normativi più moderni europei ed extraeuropei, si vuole affiancare un modello di giustizia ripartivo 15. L’obiettivo è favorire la conciliazione tra la
persona offesa e l’autore del reato chiamato a porre in essere condotte riparatorie utili a neutralizzare o
compensare i danni cagionati.
In un simile sistema l’imputato diviene il soggetto che, consapevole del disvalore della sua azione, è
disposto ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato. La prova è l’occasione processuale
per manifestare tale disponibilità.
La messa alla prova, però, per il beneficio che assicura all’imputato, rischia di alimentare prassi automatiche di accesso al rito. L’esito positivo, infatti, determina l’estinzione del reato; l’esito negativo,
viceversa, non ha conseguenze sfavorevoli se non la ripresa del procedimento.
L’effettività dell’istituto deve essere tutelata dal giudice e dalla valutazione che lo stesso è chiamato
a compiere. Ecco perché prevale un’indagine sulla personalità dell’imputato e sull’idoneità del progetto
di prova proposto.
Partendo da quest’ultima, la sospensione del procedimento è disposta quando il giudice, in base alla
gravità del reato e alla capacità a delinquere dell’autore del fatto, reputa gli obblighi adeguati alle esigenze punitive della prova ed alla capacità di incidere sulla sua personalità 16.
Venendo così all’imputato, l’obiettivo che il legislatore si prefigura è quello di evitare che lo stesso
commetta altri reati. Pertanto, l’accertamento giudiziale deve riguardare le modalità soggettive della
condotta così da consentire una prognosi sfavorevole di recidiva.
Al riguardo, appare netta la differenza con l’omologo istituto minorile. In quest’ultimo il periodo di
prova è funzionale alla prognosi positiva di risocializzazione del reo funzionale un processo di educazione dell’imputato. L’obiettivo è quello di limitare la permanenza dello stesso nel circuito penale ed
accelerare il percorso di inserimento nella vita della collettività. Viceversa, nella sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato adulto, la prognosi di non pericolosità, effettuata ex ante e
sulla base di frammentari elementi di valutazione, riguarda la volontaria adesione alla prova quale
strumento per eliminare gli effetti negativi della condotta 17.
LA FUNZIONE RIPARATIVA DELLA PROVA
Tra gli obblighi che l’imputato si assume, la rilevanza maggiore, in ottica riparativa, riguarda il risarcimento del danno e l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato 18. Nella mediazione
con la vittima il rito esplica le funzione significativa e dalla soddisfazione della stessa dipende l’estin-
dell’imputato maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, cit., 10, il quale osserva che la valutazione ex ante della
prognosi di pericolosità rischia di «favorire un ricorso pressoché indiscriminato al meccanismo di probation, secondo dinamiche
assimilabili a quelle che hanno condotto alla degenerazione applicativa del beneficio della sospensione condizionale».
15
Da ultimo la «Raccomandazione R(2010)1 relativa alle regole europee sulla messa alla prova», adottata dal Comitato dei
Ministri il 20 gennaio 2010, detta le caratteristiche principali della misura invitando gli Stati aderenti all’Unione Europea ad
adeguare le legislazioni interne, le politiche criminali e le prassi applicative, senza circoscrivere l’intervento al settore minorile,
viceversa estendendolo a qualunque autore di reato. Al riguardo si veda M. Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia riparativa, in Proc. pen. giust., 2012, 6, p. 123.
16
Secondo A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica
criminale, cit., p. 682, nulla è stabilito rispetto a quale obiettivo andrebbe valutata l’idoneità del programma; né come debba avvenire la misurazione effettiva della sua attuazione né della sua riuscita.
17
Al giudice sono affidate valutazioni inedite che generalmente sono successive ad un accertamento definitivo di responsabilità e conducono alla non applicazione della pena. In questo caso, invece, si tratta di formulare un giudizio ora per allora
quando l’allora è terribilmente incerto, così A. Martini, La sospensione del processo con messa alla prova. Un nuovo protagonista per
una politica criminale già vista, in Dir. pen. proc., 2008, p. 237.
18
Se la dimensione riparativa dell’illecito quale danno sociale viene considerata dal legislatore nella misura in cui è prevista
l’obbligatoria effettuazione del lavoro di pubblica utilità o un’attività di volontariato, è sul terreno della tutela della vittima che
il nuovo istituto si propone di segnare il traguardo, in quanto chiaramente ispirato alla restorative justice (o giustizia riparativa),
così L. Pulito, Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, cit., p. 98.
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zione del reato. A differenza degli altri giudizi speciali, dove la persona offesa è esclusa o ha minorate
possibilità di incidere, nella messa alla prova, infatti, il suo ruolo è assolutamente centrale.
L’idea di fondo è che il reato, oltre a rappresentare un’azione contro lo Stato, rappresenti soprattutto
una lesione verso la vittima e che per questo deve essere il principale destinatario dell’attività riparatoria. Dalla riparazione, oltre che dalla probabilità che l’imputato non commetta altri reati, trae beneficio
anche l’amministrazione della giustizia che vede ridotti costi, tempi e mole di lavoro 19.
L’istituto, dunque, favorisce la conciliazione tra la persona offesa e l’autore del reato, chiamato a
porre in essere tutte le condotte utili a neutralizzare o compensare i danni cagionati 20. La normativa
tiene conto di due accezioni di danno: il danno civilistico, che riguarda il rapporto tra danneggiante e
danneggiato ed il danno criminale che, viceversa riguarda le conseguenze di tipo pubblicistico e che attengono alla lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale. In relazione a
quest’ultimo la riparazione, trascendendo la mera dimensione risarcitoria, non può definirsi in astratto
ma muterà a seconda dell’oggettività giuridica lesa dal reato e dalle modalità dell’offesa 21.
Il “risarcimento” della vittima, nonostante la non chiarissima formulazione letterale, appare, dunque, presupposto imprescindibile della messa alla prova, non alternativo ma congiunto alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose 22.
LA NATURA “COMPLESSA” DELL’ISTITUTO
La messa alla prova, dunque, manifesta finalità che vanno oltre la semplificazione del rito in ottica deflattiva. Anzi, la natura dell’istituto mostra una tendenza alla composizione degli interessi lesi tramite
una diversa modalità rispetto a quella classica.
A differenza di quanto avviene nel patteggiamento, che appare il rito più simile quanto alla volontà
dell’imputato, la messa alla prova mette in evidenza la finalità di responsabilizzazione e di riparazione
del danno.
La norma processuale, pertanto, appare come la cornice entro cui si esprime la valutazione sul fatto
ma soprattutto sull’autore 23. L’estinzione del reato, in questo senso, non è il banale risultato della rinuncia al processo ma la conseguenza di una diminuita offensività della condotta. L’imputato ha posto
rimedio alla sua azione e, pertanto, il fatto cessa di avere disvalore penale.
La messa alla prova, allora, ha una natura “complessa”: assume sicuramente natura processuale
quando rappresenta il tramite della semplificazione giudiziaria; ma costituisce un complesso di regole
sostanziali laddove rimedia al disvalore della condotta e alla conseguente modulazione della risposta
punitiva.
Una simile conclusione era stata raggiunta anche dalla Corte di cassazione all’indomani dell’entrata
in vigore della messa alla prova per gli imputati minorenni. Anche in quel caso il regime transitorio
non era stato ben specificato dal legislatore che si era limitato a prevedere l’applicazione ai procedimen19
Allo stesso modo, la revoca della sospensione del procedimento deve essere dichiarata in caso di grave e reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni o in caso di rifiuto a prestare il lavoro di pubblica utilità o, infine, in
caso di commissione di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede.
20
Opportunità di questo tipo tenderanno a manifestarsi solo con riguardo a fattispecie penali in cui la persona offesa – inevitabilmente coinvolta nelle sequenze conciliative – è identificabile, e non anche rispetto a reati contravvenzionali con oggetto indeterminato o nei quali il bene protetto si riferisce ad entità non ben individuate, così Scalfati, Premessa, in Scalfati (a cura di), Il
giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, Padova, 2001.
21
Al riguardo si veda, F. Giunta, Sospensione condizionale, in Enc. dir., XLIII, 1990, p. 113.
22
La ricomposizione del conflitto generato dal reato non è più demandata totalmente allo Stato, coinvolgendo in modo più
diretto e attivo le parti principali. In questi termini M. Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia riparativa, cit., p. 123. Nonostante la non felice espressione normativa si deve ritenere che ove ricorrano entrambe le possibilità,
l’imputato deve impegnarsi per entrambe, così R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva
nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014, p. 667.
23
Infatti, pur trattandosi chiaramente anche di un rito speciale per esplicita scelta sistematica del legislatore, emergono nondimeno le sue notevoli peculiarità, in quanto le norme procedurali sembrano piuttosto delineare un incidente all’interno del
procedimento, funzionale alla realizzazione del beneficio testé citato. In questi termini si è espresso N. Pascucci, Sospensione del
processo con messa alla prova: alle omissioni del legislatore si aggiunge la scure dei giudici di legittimità, in Cass. pen., 2015, p. 1146. In
termini simili, parlando di doppia natura dell’istituto, si sono espressi O. Murro, Messa alla prova per l’imputato adulto: prime riflessioni sulla legge n. 67/2014, in Studium iuris, 2014, p. 1274; G. Pecorella, La messa alla prova, cit., p. 32671.
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ti pendenti alla data di entrata in vigore della legge, senza dettare alcuna norma processuale. La Corte,
in quell’occasione, definì la messa alla prova «un istituto di carattere sostanziale con effetti premiali»,
sancendone l’applicabilità a tutti i procedimenti pendenti 24.
Tale interpretazione sembra auspicabile anche in relazione alla messa alla prova per gli imputati
adulti 25. Sotto tale plausibile profilo, dunque, la regola intertemporale deve far riferimento all’art. 2,
comma 4, c.p. ed alla retroattività della lex mitior 26. Precludere l’accesso all’istituto, in virtù del principio tempus regit actum, agli imputati che si trovino in una fase processuale avanzata rispetto alle scadenze prefissate per formulare l’istanza, si tradurrebbe in una irragionevole sottrazione della possibilità
di conseguire un trattamento sanzionatorio diversificato; sarebbe in gioco la possibile lesione dell’art. 3
Cost., considerata la sostanziale omogeneità delle condizioni degli imputati prima e dopo l’entrata in
vigore della riforma.
Del resto la Corte di Strasburgo ha più volte affermato che il principio di retroattività della legge più
favorevole trova applicazione anche con riguardo a norme che, pur rivestendo formalmente carattere
procedurale nell’ordinamento interno, hanno natura sostanziale poiché destinate ad incidere sul contenuto della pena anziché sulla procedura 27. Altro discorso è la possibilità di invocare la messa alla prova
durante il giudizio de legitimitate, laddove la presenza delle ineludibili valutazioni di merito militano
verso una risposta negativa 28.
24
Cass., sez. I, 23 marzo 1990, n. 5399, in Cass. pen., 1990, p. 71. La Corte ritenne applicabile la messa alla prova anche nel
giudizio di rinvio, a seguito di annullamento di sentenza che disponeva il perdono giudiziale.
25
In senso contrario, A. Diddi, La fase di ammissione alla prova, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria. Messa alla
prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, Milano, 2014, p. 141. Secondo l’autore secondo cui il regime derivante
dall’applicazione dei termini ex art. 464-bis, comma 2, c.p.p. ai procedimenti in corso «non si può ritenere privo di una ragionevole spiegazione», in considerazione delle finalità non soltanto rieducative, ma anche deflative dell’istituto.
26
Corte e.d.u., Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, in Cass. pen, 2010, pp. 83 ss., che ha affermato, per la
prima volta, che il principio di retroattività della legge penale più favorevole è sancito implicitamente nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, laddove essa vieta di applicare una pena più grave di
quella che era prevista al momento della commissione del reato. Nel caso specifico, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato il
principio per la mancata applicazione all’imputato della legge penale successiva alla commissione del reato che prevede una
sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza: in particolare, la sanzione di trenta anni di reclusione, pure nel caso di
reati puniti con l’ergastolo con isolamento diurno, poi sostituita retroattivamente con quella del semplice ergastolo.
27
Al riguardo si veda G. Borgna, Retroattività in mitius e norme sulla prescrizione: profili critici della giurisprudenza CEDU sul regime transitorio della ex-Cirielli, in Dir. pen. proc., 2014, p. 1006; F. Viganò, Retroattività delle legge penale più favorevole, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it.
28
In questo senso si è espresso R. Bartoli, La sospensione del processo con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, cit., p. 673.
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Astensione del difensore
anche nelle udienze a contraddittorio eventuale
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 14 APRILE 2015, N. 15232 – PRES. SANTACROCE; EST.
FRANCO
In relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il giudice è tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza di una dichiarazione di astensione del difensore, legittimamente proclamata
dagli organismi di categoria ed effettuata o comunicata nelle forme e nei termini previsti dall’art. 3, comma 1, del
vigente Codice di autoregolamentazione.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia chiese l’archiviazione, per infondatezza della notizia di reato, del procedimento n. 2869/09 R.G.N.R. a carico di omissis e di omissis, indagati per i reati di cui al d.lgs. n. 133 del 1959, art. 19 (recte: d.lgs. 11 maggio 2005, n. 133, art. 19), d.lgs.. 3
aprile 2006, n. 159, art. 279 e art. 590 cod. pen., loro ascritti in relazione, rispettivamente, alle caratteristiche qualitative e quantitative delle emissioni del termovalorizzatore sito in (omissis), nonché alle patologie insorte in alcuni cittadini, ritenute – nella denuncia – querela del (omissis), che aveva dato origine al procedimento – riconducibili alle predette emissioni.
A seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalle persone offese dal reato di
lesioni colpose, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pistoia fissò per il 17 novembre
2011 l’udienza camerale di cui all’art. 409 c.p.p., comma 3.
Il 14 novembre 2011, gli avv.ti omissis ed omissis, difensori delle persone offese, depositarono una dichiarazione di adesione all’astensione dalle udienze e dalle altre attività giudiziarie, proclamata per i
giorni 14-18 novembre 2011 dalla Giunta dell’Unione Camere Penali con Delib. 24 ottobre 2011.
Il 17 novembre 2011 il procedimento venne trattato in udienza in camera di consiglio. Dal relativo
verbale risulta:
– che l’avv. omissis, presente anche in sostituzione dell’avv. omissis e di altri difensori delle persone
offese, ribadì la dichiarazione di astensione, chiedendo un rinvio della trattazione;
– che l’avv. omissis, in sostituzione del difensore di fiducia degli indagati, dichiarò, a propria volta,
di aderire all’astensione dalle udienze;
– che il G.i.p. emise ordinanza con cui rigettò la richiesta di rinvio e dispose procedersi, osservando
che il legittimo impedimento del difensore, quale causa di rinvio dell’udienza, non rileva nei procedimenti in camera di consiglio, per i quali è previsto che le parti siano sentite solo se compaiono;
– che il difensore delle persone offese formulò una ulteriore richiesta di rinvio, rigettata dal G.i.p.
con richiamo all’ordinanza appena emessa;
– che il difensore degli indagati, invece, rinunciò alla dichiarazione di astensione e chiese di discutere la causa, insistendo per l’accoglimento della richiesta di archiviazione.
Con ordinanza del 18 novembre 2011 il G.i.p. dispose l’archiviazione per insussistenza di elementi
sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio, sia per le contravvenzioni e sia per lesioni colpose, difettando elementi univocamente idonei a provare l’esistenza di un nesso eziologico tra il danno lamentato
e le violazioni contestate agli indagati, avuto anche riguardo all’epoca di insorgenza del danno stesso.
2. Avverso questa ordinanza e quella camerale del 17 novembre 2011, le persone offese omissis e
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omissis, con atto sottoscritto personalmente nonché dal difensore e procuratore speciale avv. omissis,
hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti due motivi:
1) violazione dell’art. 127 c.p.p., commi 3 e 5, per non avere il giudice rispettato l’adesione
all’astensione dei difensori delle persone offese, che solo a tal fine avevano presenziato all’udienza
camerale, con conseguente lesione sia del diritto di difesa delle persone offese (art. 24 Cost.), sia della
libertà di associazione del difensore (artt. 18 e 2 Cost.). Osservano che i principi espressi dalla sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale evidenziano l’erroneità dell’ordinanza del G.i.p. di rigetto dell’istanza di rinvio, sia in ordine alla assimilabilità dell’adesione all’astensione ad un mero legittimo impedimento, sia alla sua conseguente irrilevanza nei procedimenti in cui la presenza del difensore è solo facoltativa. Ciò anche in considerazione del fatto che la materia è ormai disciplinata dalla
L. n. 146 del 1990, come modificata dalla l. n. 83 del 2000, e che, con delib. 13 dicembre 2007 della
Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, è
stato adottato il regolamento che disciplina le modalità dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati.
2) violazione dell’art. 3, comma 2, del vigente codice di autoregolamentazione dell’astensione forense, valutato idoneo (ai sensi della l. n. 146 del 1990, art. 13) dalla Commissione di garanzia. Ricordano,
innanzitutto, che l’adesione all’astensione è consentita, in forza del citato art. 3, anche ai difensori della
persona offesa, ancorché non costituita parte civile, circostanza indicativa, tra l’altro, del fatto che alla
locuzione – secondo cui l’astensione costituisce legittimo impedimento – deve conferirsi valore meramente esemplificativo, non risultando applicabili in materia le norme del codice di rito (che prendono
in considerazione, ai fini del legittimo impedimento, il solo difensore dell’imputato).
Osservano poi che l’infondatezza dell’assimilazione dell’astensione al legittimo impedimento del difensore, è confermata dal medesimo art. 3 del codice di autoregolamentazione, laddove prevede la facoltà per il difensore di astenersi con riferimento all’udienza o all’atto di indagine preliminare o a qualsiasi altro atto o adempimento per il quale sia prevista la sua presenza, ancorché non obbligatoria. Proprio quest’ultimo riferimento depone inequivocabilmente per la legittimità dell’astensione anche nelle
udienze camerali, dove appunto la presenza del difensore non è obbligatoria.
I ricorrenti concludono per l’annullamento dell’ordinanza di archiviazione del 18 novembre 2011,
previa declaratoria di illegittimità dell’ordinanza emessa nell’udienza camerale del 17 novembre 2011.
3. In data 7 marzo 2014, i difensori delle persone offese ricorrenti hanno depositato memoria ex art.
611 cod. proc. pen., con cui osservano che la fondatezza dei motivi di ricorso è stata confermata anche
dalla recente sentenza della Sez. 6, n. 1826 del 24/10/2013, dep. 2014, S., sulla base della rilevanza costituzionale del diritto del difensore all’astensione, della non assimilabilità di tale diritto al legittimo impedimento, della valenza di normativa secondaria di cui il giudice deve tener conto, riconosciuta dalle
Sezioni Unite al codice di autoregolamentazione.
4. In data 17 luglio 2013, il Procuratore generale ha depositato requisitoria con cui chiedeva il rigetto
del ricorso, richiamando l’orientamento interpretativo fatto proprio dalla impugnata ordinanza del
G.i.p. e citando una decisione (Sez. 1, n. 5722 del 20/12/2012, dep. 5/2/2013, Morano, Rv. 254807) che
aveva escluso che il codice di autoregolamentazione avesse introdotto una specifica disciplina processuale in deroga all’art. 127 cod. proc. pen.
5. La Quarta Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 25 marzo 2014 lo ha
rimesso alle Sezioni Unite.
Osserva innanzitutto l’ordinanza che la decisione del G.i.p. di rigetto dell’istanza di rinvio per adesione all’astensione forense risulta conforme alla prevalente giurisprudenza di questa Corte, secondo
cui il legittimo impedimento del difensore non rileva nei procedimenti camerali disciplinati dall’art. 127
cod. proc. pen., nei quali le parti interessate sono sentite solo se compaiono. In tali casi – fra i quali rientra anche il procedimento di archiviazione, poiché l’art. 409 c.p.p., comma 2 richiama espressamente
l’art. 127 – il contraddittorio si ritiene correttamente instaurato con la sola notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale, sicché nessun rilievo può attribuirsi all’impedimento a comparire del difensore, pur in presenza di una dichiarazione di adesione all’astensione.
L’ordinanza di remissione rileva peraltro che questo orientamento è stato di recente ritenuto non più
attuale, e quindi non condivisibile, dalla sentenza di Sez. VI, n. 1826 del 2014, già citata, la quale è stato
affermato che l’astensione forense non può essere considerata un semplice impedimento partecipativo,
consistendo invece (come chiarito dalla sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale) nell’eserci-
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zio di un diritto di libertà avente sicuro fondamento costituzionale. La dichiarazione di astensione, costituisce dunque l’esercizio di un diritto costituzionale, che il giudice deve riconoscere, se sono rispettate le condizioni di legge.
La sentenza n. 1826 del 2014 ha anche valorizzato l’affermazione contenuta nella recente sentenza
Sez. Un., n. 26711, del 30/05/2013, Ucciero, Rv. 255346, secondo cui deve attribuirsi valore di normativa secondaria al codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze, adottato il 4 aprile 2007
e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia con delib. 13 dicembre 2007. Il giudice, pertanto, nella
verifica del corretto esercizio del diritto di astensione, ha l’obbligo di prendere in considerazione anche
le disposizioni del predetto codice, tra cui quelle dell’art. 3, che fissano i termini e le modalità per la
presentazione delle dichiarazioni di astensione, senza alcuna distinzione tra le udienze a partecipazione
necessaria del difensore e quelle a partecipazione facoltativa.
L’ordinanza di rimessione, quindi, prospetta la necessità di un intervento delle Sezioni Unite a fronte di tale radicale contrasto, concernente peraltro il regolamento di diritti di rilievo costituzionale, contrasto ancor più di recente ribadito dalla sentenza della Sez. III, n. 19856 del 19/03/2014, Pierri, Rv.
259439-259440, che ha confermato il diritto del difensore di astenersi anche nelle udienze il cui la sua
partecipazione è facoltativa.
6. In data 29 luglio 2014, il Procuratore generale ha depositato atto di integrazione della precedente
requisitoria scritta, ribadendo la richiesta di rigetto del ricorso, ma con una diversa motivazione.
In particolare, il Procuratore generale ritiene ormai convincente la svolta interpretativa inaugurata
dalle Sezioni Unite con la sentenza Ucciero e dalla Sez. VI con la sentenza n. 1826 del 2014, sia in relazione alla natura di vero e proprio diritto costituzionalmente garantito, che deve essere riconosciuto
all’astensione forense, sia in ordine alla attribuzione di valore di normativa secondaria ai codici di autoregolamentazione, che il giudice non può quindi disattendere.
Il P.g., peraltro, evidenzia un profilo di criticità in relazione alla possibilità di ritenere che la normativa secondaria posta dal codice di autoregolamentazione possa “modificare una norma primaria come
l’art. 127 c.p.p., comma 3 che rende irrilevante la presenza delle parti nel rito camerale”. Del resto, lo
stesso richiamo al “legittimo impedimento”, contenuto nell’art. 3 del codice autoregolamentazione, appare ora dissonante da quanto ormai affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
Il P.g., inoltre, mette in rilievo l’irragionevolezza della conseguenza di ammettere il rinvio per astensione anche nelle situazioni (come l’udienza camerale) in cui è esclusa la possibilità per il difensore di
chiedere un rinvio per un proprio legittimo impedimento.
Secondo il P.g., peraltro, queste discrasie non sono tali da poter incrinare la consistenza del nuovo
indirizzo interpretativo.
Con riferimento specifico alla concreta fattispecie in esame, però, il P.g. richiama un altro principio, recentemente affermato (da Sez. VI, n. 43213 del 12/07/2013, Arangio, Rv. 257105), secondo cui l’astensione
del difensore di parte civile, pur contemplata dal codice di autoregolamentazione, da diritto al rinvio solo
se l’imputato, anche tramite il proprio difensore, non manifesti (come invece è avvenuto nella specie) un
interesse alla celere definizione del procedimento. Tale soluzione, secondo il P.g., trova conforto anche
nell’irrilevanza dell’impedimento del difensore di parte civile, secondo l’interpretazione dell’art. 420-ter
cod. proc. pen. operata dalla giurisprudenza. Nella stessa direzione, inoltre, depongono sia l’art. 23 disp.
att. cod. proc. pen., il quale esclude che l’assenza delle parti private diverse dall’imputato possa determinare la sospensione o il rinvio del dibattimento, sia il rilievo che, in caso di astensione del solo difensore
della persona offesa, “non vi sarebbe né la sospensione dei termini di prescrizione né di quelli di custodia
cautelare (i contrappesi che bilanciano l’esercizio del diritto del difensore di astenersi) con una ricaduta
sulla speditezza del processo e sulla ragionevole durata dello stesso non neutralizzabile”.
7. In data 14 ottobre 2014 i difensori dei ricorrenti avv. omissis e avv. omissis hanno depositato una
nuova memoria ex art. 611 cod. proc. pen. con cui replicano alle argomentazioni svolte dal Procuratore
generale, in relazione sia alle criticità riscontrabili aderendo al più recente orientamento, sia alla ritenuta necessità di far prevalere, comunque, l’interesse dell’imputato, manifestato anche attraverso il suo
difensore, ad una celere definizione del procedimento.
I ricorrenti richiamano innanzitutto i principi espressi dalla recente sentenza delle Sezioni Unite, n.
40187 del 27/03/2014, Lattanzio, sia sulla valenza normativa da riconoscersi alle disposizioni del codice
di autoregolamentazione, sia sul bilanciamento, realizzato dal legislatore e dalle fonti secondarie, tra i
contrapposti diritti di rilevanza costituzionale che vengono in rilievo (spettando al giudice, normalmente, il solo accertamento della conformità dell’esercizio dell’astensione alla predetta normativa). Tali
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principi rendono ormai indiscutibile il diritto del difensore di aderire all’astensione di categoria anche
nelle udienze camerali a partecipazione facoltativa.
Quanto alle criticità segnalate dal Procuratore generale, i ricorrenti osservano, per un verso, che
proprio le motivazioni della sentenza Lattanzio (secondo cui le norme del codice di autoregolamentazione costituiscono vere e proprie norme di diritto oggettivo e rientrano tra le “norme di legge” cui il
giudice è soggetto ai sensi dell’art. 101 Cost.) dovrebbero far ritenere ormai superate le perplessità imperniate sull’art. 127 c.p.p., comma 3.
Per un altro verso, la lamentata irrazionalità del diverso trattamento riservato dalla nuova impostazione all’astensione e al legittimo impedimento del difensore, andrebbe superata anch’essa in forza delle argomentazioni della sentenza Lattanzio, soprattutto in relazione all’affermata insussistenza,
nell’attuale assetto normativo, di un potere discrezionale del giudice volto a limitare l’esercizio del diritto di astenersi.
Infine, in relazione alla ritenuta necessità di far comunque prevalere l’interesse dell’imputato ad una
celere definizione del procedimento, i ricorrenti contestano l’applicabilità, nella fattispecie concreta,
dell’indirizzo secondo cui l’esercizio del diritto di astenersi da diritto al rinvio “solo se l’imputato, anche
tramite il proprio difensore, non manifesti l’interesse ad una celere definizione del procedimento”. In particolare, ricordano che, nell’udienza del 17 novembre 2011, il difensore degli imputati, dopo il rigetto da
parte del G.i.p. della richiesta congiunta di rinvio, aveva “rinunciato” alla propria dichiarazione di astensione ed aveva chiesto di discutere nel merito. Secondo i ricorrenti, in tale “rinuncia” (in realtà riconducibile piuttosto ad una “revoca”) era impossibile individuare, in modo certo ed inequivoco, l’emersione di
un interesse degli indagati alla celere trattazione del procedimento a loro carico, proprio perché il difensore si era limitato a “rinunciare” alla propria astensione, senza dire alcunché in ordine all’eventuale interesse sotteso a tale dichiarazione. A sostegno di questa opzione interpretativa, i ricorrenti richiamano l’art.
4 del codice di autoregolamentazione, che vieta l’astensione nei processi in cui l’imputato detenuto chieda
“espressamente” che si proceda, nonostante l’astensione del proprio difensore.
Ulteriore memoria dei medesimi difensori è pervenuta in cancelleria il 27 ottobre 2014.
8. Con decreto in data 12 maggio 2014, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite
penali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite è stata così sintetizzata dall’Ufficio del Massimario: “Se, in relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il
giudice sia tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza della tempestiva dichiarazione di
astensione del difensore legittimamente proclamata dagli organismi di categoria”.
2. La questione va esaminata alla luce dei rilevanti mutamenti normativi introdotti dal legislatore –
su sollecitazione ed indicazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 114 del 1994 e n. 171 del
1996 – con la L. 11 aprile 2000, n. 83, che ha inserito la L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 2-bis e dei conseguenti nuovi principi e norme attualmente vigenti nella materia dell’astensione collettiva degli avvocati, di cui le Sezioni Unite hanno già dato atto con la sentenza n. 26711 del 30/05/2013, Ucciero, Rv.
255346 e, ancor più ampiamente e dettagliatamente, con la recente sentenza n. 40187 del 27/03/2014,
Lattanzio, Rv. 259926-259927.
Sarà pertanto qui sufficiente ricordare, fra i principi enunciati dalle suddette sentenze, quelli che più
rilevano in relazione alla presente questione, rinviando, per brevità, alle loro motivazioni per un maggiore approfondimento.
2.1. In riferimento all’evoluzione normativa, la sentenza Lattanzio ha ricordato che la Corte costituzionale, già con la sentenza n. 114 del 1994, aveva sottolineato la situazione di grave disagio derivante
dalla mancanza di specifiche norme che regolassero l’incidenza sui procedimenti giudiziari, specialmente penali, dell’astensione della classe forense (non essendo evidentemente sufficienti e soddisfacenti a tal fine le norme dei codici di rito), ed aveva ritenuto necessario ed auspicato un intervento del legislatore, invitandolo a dettare specifiche previsioni sulla falsariga di quelle della L. 12 giugno 1990, n.
146, recante norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Essendo rimasto inascoltato tale invito, la Corte costituzionale intervenne di nuovo con la sentenza
di accoglimento n. 171 del 1996 che dichiarò l’incostituzionalità di alcune disposizioni della L. n. 146 del
1990, art. 2, commi 1 e 5, nella parte in cui non prevedevano, in caso di astensione collettiva degli avvo-
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cati dall’attività giudiziaria, specifici strumenti e procedure idonei, da un lato, ad individuare quali fossero le prestazioni essenziali e, dall’altro, ad assicurare tali prestazioni. Secondo la sentenza (additiva di
principio) della Corte costituzionale, dunque, era il legislatore a dover prevedere (precisamente attraverso i meccanismi già indicati nella l. n. 146 del 1990, per l’esercizio del diritto di sciopero) nuovi specifici strumenti idonei ad individuare ed assicurare le prestazioni giudiziarie essenziali. La sentenza n.
171, poi, riconobbe che l’astensione degli avvocati, pur non rientrando nell’ambito del diritto di sciopero, costituisce espressione di un diritto costituzionale compreso in un’area connessa alla libertà di associazione (più estesa rispetto allo sciopero) e, quindi, manifestazione della dinamica associativa volta alla tutela di quella forma di lavoro autonomo. Si tratta quindi di un vero e proprio diritto costituzionale,
che non può essere ridotto “a mera facoltà di rilievo costituzionale”.
Il legislatore ordinario ha ottemperato alle indicazioni della sentenza n. 171 del 1996 con la L. 11
aprile 2000, n. 83, che ha introdotto specifiche disposizioni nella L. n. 146 del 1990. L’art. 2– bis, tra
l’altro, prevede che la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi
pubblici essenziali (istituita in forza della l. n. 146, art. 12) promuove l’adozione, da parte degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate, di codici di autoregolamentazione che realizzino, in
caso di astensione collettiva, il contemperamento con i diritti essenziali della persona relativi al godimento dei servizi pubblici essenziali, di cui all’art. 1. Questi codici, per acquistare efficacia generale,
devono essere valutati e dichiarati idonei dalla Commissione. Se essi manchino o non siano valutati
idonei, la Commissione, sentite le parti interessate, “Delib. la provvisoria regolamentazione”. L’art. 2bis, comma 1 peraltro, individua il contenuto minimo di garanzie e di prestazioni che i codici di autoregolamentazione devono comunque assicurare e prevede anche un sistema sanzionatorio. Il legislatore
del 2000, dunque, seguendo le stringenti e vincolanti indicazioni della sentenza costituzionale di accoglimento, ha dettato una specifica disciplina dell’astensione forense, predisponendo un sistema in cui il
contemperamento tra gli interessi di rilevanza costituzionale in gioco e l’individuazione delle prestazioni indispensabili da assicurare in ogni caso nei servizi pubblici essenziali, durante le astensioni collettive dal lavoro di questi professionisti, sono rimessi a codici di autoregolamentazione predisposti
dagli organismi rappresentativi di categoria ed approvati dalla Commissione di garanzia o, in mancanza, alla “regolamentazione provvisoria”; ciò analogamente a quanto accade per gli altri tipi di astensione collettiva dal lavoro nei servizi pubblici essenziali.
Stante il mancato accordo con gli organismi di rappresentanza dell’avvocatura, la Commissione di
garanzia adottò la regolamentazione provvisoria con Delib. 4 luglio 2002, pubblicata sulla G.U. del 23
luglio 2002.
Con Delib. 13 dicembre 2007, pubblicata sulla G.U. del 4 gennaio 2008, la Commissione valutò idoneo il nuovo codice di autoregolamentazione attualmente vigente, ed il meccanismo ordinario di regolamentazione introdotto dalla l. n. 83 del 2000 è diventato finalmente operativo. In ottemperanza alle
prescrizioni di tale legge, l’art. 4 del codice individua le prestazioni indispensabili da assicurare nei
procedimenti penali, mentre l’art. 3 prevede i presupposti e gli effetti di una legittima astensione.
2.2. Per quanto concerne la natura giuridica dell’astensione, la cita sentenza Lattanzio delle Sezioni
Unite ha innanzitutto ricordato che la giurisprudenza più risalente aveva assimilato il fenomeno
dell’astensione al legittimo impedimento, ma che questa ricostruzione è stata risolutamente abbandonata dalla giurisprudenza più recente, consolidatasi nell’escludere radicalmente la riconducibilità dell’astensione nell’ambito del legittimo impedimento, essendo del tutto libera la scelta del difensore di aderire o meno alla protesta di categoria, con la conseguenza che nel caso di rinvio per astensione la sospensione della prescrizione non è limitata a sessanta giorni ma opera per l’intero periodo di rinvio. Ciò
precisato, la sentenza Lattanzio ha motivatamente condiviso l’orientamento della Corte costituzionale e
della quasi unanime dottrina, che qualificano l’astensione forense come esercizio di un vero e proprio
diritto costituzionale, e non di una mera libertà, ricordando anche l’osservazione dottrinale secondo cui
in tanto il legislatore ha potuto contemperare l’esercizio di determinate astensioni collettive con una serie di diritti costituzionalmente garantiti della persona, in quanto è partito dal necessario presupposto
logico e giuridico che anche le prime configurino situazioni giuridiche comparabili con i secondi. Ed ha
fermamente sottolineato che, anche se si aderisse alle ricostruzioni dottrinali che individuano il fondamento costituzionale dell’astensione in disposizioni della Costituzione ulteriori rispetto all’art. 18, resta
comunque ferma la qualificazione dell’astensione forense “non già come una mera libertà, bensì come
esercizio di un vero e proprio diritto avente un sicuro fondamento costituzionale”. La sentenza ha
quindi pienamente confermato il principio, già enunciato dalla sentenza Ucciero, che l’astensione colletAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ASTENSIONE DEL DIFENSORE ANCHE NELLE UDIENZE A CONTRADDITTORIO
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tiva degli avvocati dall’attività giudiziaria costituisce “un diritto, e non semplicemente un legittimo
impedimento partecipativo”. Del resto, se è vero che, attesa la qualifica di liberi professionisti, non potrebbe a rigore parlarsi di diritto di sciopero, è anche vero che si tratterebbe comunque – almeno per i
profili che qui rilevano – di un diritto ad esso assimilabile, tanto che per tutte le astensioni collettive le
limitazioni sono previste in relazione ai servizi pubblici ed ai diritti fondamentali su cui incidono e non
alla norma costituzionale sui cui si fondano (art. 40 o art. 18 Cost. o altro).
2.3. Per quanto concerne la questione della natura giuridica e dell’efficacia (vincolante erga omnes o
meno) della regolamentazione provvisoria e del codice di autoregolamentazione valutato idoneo dalla
Commissione di garanzia, o, in altri termini, la questione della forza e del valore delle norme poste da
questi atti normativi, la sentenza Lattanzio ha sottolineato il radicale mutamento intervenuto con la l. n.
83 del 2000.
Nel sistema originario della L. n. 146 del 1990, i codici di autoregolamentazione dell’astensione forense erano uno strumento eventuale ed avevano efficacia meramente endoassociativa, e quindi non
vincolavano giudice procedente, che restava soggetto unicamente alle norme dei codici di rito. La stessa
sentenza della Corte costituzionale n. 114 del 1994 aveva osservato che una nuova regolamentazione
legislativa era ormai indilazionabile proprio perché i codici di autoregolamentazione, nel sistema normativo dell’epoca, non avevano efficacia generale. Ed aveva quindi chiaramente auspicato che
l’invocato intervento legislativo delineasse un sistema normativo in cui la regolamentazione delle prestazioni essenziali in caso di astensione fosse posta da norme aventi “efficacia generale”, ossia da norme di diritto oggettivo.
La situazione è radicalmente mutata con le nuove disposizioni introdotte nel testo della L. n. 146 del
1990 dalla L. n. 83 del 2000, che hanno reso ormai legislativamente superato l’indirizzo (fondato su una
lettura parziale della sentenza costituzionale n. 171 del 1996 e su precedenti giurisprudenziali anteriori
alle riforme legislative, della cui portata non potevano ovviamente tenere conto) secondo cui i codici di
autoregolamentazione avevano carattere non vincolante essendo rimasto al giudice procedente un autonomo potere di bilanciamento degli interessi in gioco. Le Sezioni Unite hanno preso atto del nuovo
articolato sistema normativo già con la sentenza Ucciero, la quale ha riconosciuto espressamente che le
norme dei codici di autoregolamentazione hanno “valore di normativa secondaria” alla quale il giudice
deve obbligatoriamente conformarsi, dal momento che la l. n. 83 del 2000 è stata emanata – secondo le
indicazioni della Corte costituzionale – proprio al fine di contemperare le esigenze di bilanciamento tra
le contrapposte esigenze, prevedendo specificamente, a questo scopo, l’emanazione di appositi codici di
autoregolamentazione. Il valore precettivo erga omnes delle norme contenute nel codice di autoregolamentazione, da qualificare come fonte secondaria, è stato poi riconosciuto da numerose sentenze successive
delle sezioni semplici, e quindi definitivamente e con decisione ribadito dalla sentenza Lattanzio.
Quest’ultima ha ulteriormente precisato che il legislatore primario del 2000, dopo aver direttamente
fissato con legge la normativa generale sull’astensione dal lavoro dei professionisti che interferisca con
pubblici servizi essenziali, “ha previsto che la normativa secondaria e di dettaglio, di rango regolamentare, sia attribuita alla competenza di una specifica fonte, appositamente creata” (i codici di autoregolamentazione dichiarati idonei). Si tratta della “speciale fonte normativa alla quale le norme di rango
legislativo sulla produzione hanno attribuito la specifica competenza a porre la disciplina secondaria
della materia”, con la conseguenza che le norme da essa poste sono, a tutti gli effetti, vere e proprie
norme di “diritto oggettivo”. Ne deriva che la loro violazione può essere oggetto di ricorso per cassazione per violazione di “legge”, mentre la loro interpretazione deve avvenire secondo i canoni di cui
all’art. 12 preleggi.
2.4. Sulla questione dell’esistenza di un residuo potere giudiziale di bilanciamento tra i valori di rilievo costituzionale in gioco, la sentenza Lattanzio ha precisato che il legislatore ha approntato un sistema “idoneo ad operare esaurientemente il bilanciamento” tra il diritto costituzionale all’astensione e
gli altri diritti e valori costituzionali individuati da dottrina e giurisprudenza, tra cui il principio di ragionevole durata del processo (il quale, peraltro, è stato “chiaramente ritenuto dal legislatore non idoneo di per se solo, a giustificare una valutazione discrezionale del giudice e ad escludere o limitare
l’esercizio del diritto costituzionale del difensore all’astensione”). Il giudice, invece, ha il potere di accertare la ritualità dell’astensione nonché di operare, se occorre, un interpretazione anche in chiave sistematica o adeguatrice delle norme primarie e secondarie rilevanti, “in modo che il risultato della interpretazione sia il più possibile conforme ai principi e valori costituzionali di cui si sta discutendo”,
sempre però che l’eventuale interpretazione adeguatrice non si ponga in contrasto con la lettera della
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disposizione, primaria o secondaria, o con la ratio della soluzione normativa. Un potere giudiziale di
bilanciamento potrebbe riemergere solo in situazioni del tutto eccezionali, quali il venir meno della
normativa secondaria o l’emersione di ulteriori valori costituzionali, non considerati nell’intervento
normativo di bilanciamento.
2.5. Gli enunciati contenuti nelle due ricordate sentenze delle Sezioni Unite chiariscono anche i rapporti tra le norme del codice di autoregolamentazione e quelle dei codici di rito. Difatti, proprio perché
si è riconosciuto che le generali disposizioni dei codici di procedura non disciplinano la speciale materia dell’astensione collettiva degli avvocati e che le stesse non sono nemmeno idonee a regolarla in via
analogica, il legislatore ordinario del 2000 (su precisa indicazione della sentenza costituzionale n. 171
del 1996) ha riservato alla specifica fonte secondaria costituita dal codice di autoregolamentazione (o
dalla regolamentazione provvisoria) la competenza a porre norme speciali per la disciplina di questa
materia?
Non avrebbe perciò senso ritenere che le norme del codice di autoregolamentazione non potrebbero
trovare applicazione qualora fossero non coerenti con le generali norme del codice di procedura in tema di legittimo impedimento. Innanzitutto perché un vero e proprio contrasto, tale da dar luogo ad una
antinomia reale, tra i due tipi di norme non è logicamente e giuridicamente configurabile, dal momento
che le due diverse fonti regolano materie, situazioni e fattispecie diverse. In secondo luogo perché, a
ben vedere, anche il codice di autoregolamentazione contiene norme di procedura, individuando le attività processuali indispensabili ed urgenti e disciplinando la partecipazione al processo di soggetti necessari, quali i difensori, e l’esercizio del diritto di difesa. In ogni caso deve considerarsi che è fisiologico che le norme speciali non siano perfettamente sovrapponibili a quelle generali del codice di procedura, dato che la loro finalità è proprio quella di dettare – nel caso in esame in forza delle previsioni della
legge ordinaria n. 83 del 2000 – una disciplina differente da quella ordinaria: per l’ipotesi, appunto, di
astensione collettiva degli avvocati legittimamente proclamata. Se tali norme potessero essere disapplicate solo perché non contemplate da quelle ordinarie di rito, le stesse finirebbero per non applicarsi
mai, il che varrebbe a considerarle di nuovo norme aventi valore meramente endoassociativo, in totale
contrasto con i ricordati interventi della Corte costituzionale e del legislatore ordinario.
Come già precisato dalla sentenza Lattanzio, si tratta di norme poste da una fonte, sia pure secondaria, a cui il legislatore ordinario ha attribuito la specifica competenza a disciplinare la particolare materia delle astensioni collettive forensi, nonché di norme che, ovviamente, hanno contenuto e natura di
norme speciali rispetto alle norme generali dei codici di procedura. Gli eventuali discostamenti rispetto
a quest’ultime devono quindi, di regola, trovare soluzione con l’applicazione del criterio di competenza
o di quello di specialità, piuttosto che semplicisticamente di quello gerarchico. Del resto, è caratteristica
propria ed essenziale delle norme speciali quella di essere non collimanti con le norme generali, tanto
che si suole dire che la loro non conformità da luogo solo ad una antinomia apparente, che si risolve sul
piano della interpretazione.
Invero, se il legislatore ordinario (la l. n. 83 del 2000) ha ritenuto che una specifica categoria di rapporti (l’astensione collettiva degli avvocati) ha un rilievo tale (esercizio di un diritto costituzionale) da
meritare una disciplina speciale (codice di autoregolamentazione) diversa da quella generale (le norme
del codice di procedura), è evidente che il legislatore ordinario ha voluto che questa fascia di rapporti
sia sottratta alla disciplina generale e soggetta a quella speciale. Il che costituisce nient’altro che applicazione del principio costituzionale di eguaglianza, per come costantemente interpretato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Trattandosi peraltro di fonte di rango secondario (ancorché di fonte alla quale la legge ordinaria ha
attribuito una competenza riservata) le sue norme potranno eventualmente essere disapplicate qualora
intervenga un’altro atto avente forza di legge che contenga norme con esse puntualmente ed insanabilmente inconciliabili, ossia una norma di legge che regoli qualche aspetto dell’astensione collettiva forense in modo diverso e incompatibile. Per quanto concerne i rapporti con le preesistenti norme di procedura, la prevalenza di quest’ultime potrebbe essere riconosciuta soltanto nell’ipotesi in cui tra le due
norme vi fosse una antinomia reale o propria (e non solo apparente o impropria) talmente puntuale da
far sì che non possano più ritenersi operanti né il criterio di competenza né quello di specialità. Dovrebbe cioè verificarsi che la norma generale di procedura, in puntuale contrasto con quella speciale, sia
in modo inequivocabile diretta a disciplinare anche la fascia di rapporti oggetto della disciplina speciale. In altri termini, secondo i principi generali sui rapporti tra le diverse fonti del nostro ordinamento,
una norma speciale del codice di autoregolamentazione potrà essere ritenuta illegittima per contrasto
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con una generale di procedura, soltanto quando risulti, in modo espresso o inequivoco, che essa sia diretta a disciplinare non solo la generalità dei rapporti processuali, ma anche lo specifico rapporto dato
dall’astensione collettiva degli avvocati. Deve cioè risultare in modo inequivoco che il legislatore ordinario abbia voluto sottrarre quello specifico rapporto dell’astensione forense alla disciplina speciale, per assoggettarlo a quella generale della norma di rito.
3. Alla luce dei ricordati principi e norme integranti il vigente sistema normativo che disciplina
l’astensione collettiva forense, la questione proposta con l’ordinanza di rimessione deve trovare soluzione nelle specifiche norme di diritto oggettivo che prevedono e regolano il caso specifico e che le Sezioni Unite, come ogni giudice, sono tenute ad applicare, non prospettandosi nella specie motivi di illegittimità delle norme secondarie che vengono in rilievo o dubbi di illegittimità costituzionale delle
norme di legge ordinaria che ne costituiscono il fondamento.
Ed invero, sin dalle loro prime manifestazioni le fonti secondarie competenti contenevano norme
che hanno espressamente previsto e disciplinato il caso. Difatti, l’art. 2, comma 2, della regolamentazione provvisoria dell’astensione collettiva degli avvocati adottata dalla Commissione di garanzia con Delib. 4 luglio 2002, stabiliva che, nel procedimento penale, il difensore che non intendesse aderire
all’astensione era tenuto a comunicare prontamente tale sua decisione all’autorità giudiziaria procedente e agli altri difensori costituiti: ponendo quindi una sorta di “presunzione di adesione” alle agitazioni
di categoria regolarmente indette.
Peraltro, l’art. 2, comma 4, escludeva l’operatività di questa presunzione “per le udienze che possono celebrarsi anche in assenza del difensore”. Questa disposizione, con tutta evidenza – come già ricordato dalla sentenza Lattanzio – presupponeva la possibilità ed il diritto del difensore di astenersi anche
nelle udienze a partecipazione non necessaria.
Il principio è stato ribadito dal vigente codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia con Delib. 13 dicembre 2007, pubblicato sulla G.U. del 4 gennaio 2008, il quale all’art. 3,
comma 1, prevede che “la mancata comparizione dell’avvocato all’udienza o all’atto di indagine preliminare
o a qualsiasi altro atto o adempimento per il quale sia prevista la sua presenza, ancorché non obbligatoria,
affinché sia considerata in adesione all’astensione regolarmente proclamata ed effettuata ai sensi della presente disciplina” deve essere dichiarata all’inizio dell’udienza o comunicata alla cancelleria ed agli altri avvocati costituiti almeno due giorni prima. È quindi indubitabile che anche tale norma prevede la facoltà per
il difensore di astenersi nelle udienze camerali a partecipazione non necessaria.
4. Questa conclusione – normativamente imposta – è stata già adottata, sulla base dei principi affermati dalla sentenza Ucciero, da diverse decisioni delle Sezioni semplici (cfr. Sez. 6, n. 1826 del
24/10/2013, dep. 2014, S., Rv. 258336; Sez. 1, n. 14775 del 12/03/2014, Lapresa, Rv. 259438; Sez. 3, n.
19856 del 19/03/2014, Pierri, Rv. 259439-259440; Sez. 1, n. 18133 del 04/03/2014, Albini, non mass.; Sez.
6, n. 18753 del 16/04/2014, Adem, Rv. 259199) e condivisa dalla citata sentenza Lattanzio.
Peraltro, come rileva l’ordinanza di rimessione, non sono mancate – prima delle due ultime sentenze
delle Sezioni Unite – decisioni in senso contrario. Deve invero ricordarsi che le Sezioni Unite, con la
sentenza n. 7551 del 08/04/1998, Cerroni, Rv. 210795 – in un caso di giudizio abbreviato in appello in
cui il difensore aveva chiesto un rinvio per adesione all’astensione di categoria – esclusero che le disposizioni dell’allora vigente art. 486 c.p.p., comma 5 fossero applicabili ai procedimenti trattati in camera
di consiglio con le forme dell’art. 127 cod. proc. pen. (tra cui il rito camerale d’appello) nei quali assumeva rilievo soltanto l’impedimento dell’imputato che aveva chiesto di essere sentito o manifestato la
volontà di comparire. Le argomentazioni svolte da questa decisione devono però, con riferimento al caso in esame, considerarsi ormai obsolete e non rilevanti, perché si riferivano ad un quadro normativo
completamente superato, specie a seguito delle riforme introdotte dalla l. n. 83 del 2000.
La successiva sentenza delle Sezioni Unite, n. 31461 del 27/06/2006, Passamani, Rv. 234146, si è invece occupata di una questione diversa, ossia se il legittimo impedimento del difensore, per concomitante impegno professionale, possa costituire causa di rinvio dell’udienza camerale anche dopo la riforma dell’art. 111 Cost. e dopo l’entrata in vigore della L. 16 dicembre 1999, n. 479, che ha abrogato
l’art. 486 cod. proc. pen. e introdotto, in suo luogo, l’art. 420-ter, rendendo applicabili le sue norme
all’udienza preliminare. La sentenza non si è invece occupata in alcun modo dell’astensione collettiva
dei difensori dalle udienze camerali a partecipazione non necessaria, tanto che ha rilevato che, nel caso
esaminato, il contraddittorio era stato esaurientemente garantito sia dalla presenza di un sostituto nominato dal giudice sia dalla possibilità del difensore di fiducia di officiare un suo sostituto.
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Proprio perché esulavano totalmente dal tema sottopostole, la sentenza non ha ovviamente preso in
considerazione le norme della l. n. 83 del 2000 e quelle della regolamentazione provvisoria all’epoca vigente. Le argomentazioni della sentenza Passamani sono quindi irrilevanti per la questione qui in esame.
5. Nella giurisprudenza delle sezioni semplici, la gran parte delle decisioni che, dopo la riforma legislativa del 2000, hanno escluso la possibilità, per l’avvocato, di ottenere il rinvio per adesione all’astensione nelle udienze camerali non regolate dall’art. 420-ter cod. proc. pen. si sono fondate sull’irrilevanza, in tali udienze, del legittimo impedimento del difensore. Così, per l’udienza camerale di appello
nel giudizio abbreviato, si è detto che, trattandosi di rito disciplinato dagli artt. 599 e 127 cod. proc.
pen., la nullità del procedimento per mancata comparizione del difensore consegue solo al difetto di
notifica dell’avviso di fissazione di udienza (cfr. Sez. 6, n. 40542 del 23/09/2004, Di Gregorio, Rv.
230260; Sez. 5, n. 36623 del 16/07/2010, Borra, Rv. 248435; Sez. 4, n. 33392 del 14/07/2008, Menoni, Rv.
240901; Sez. 4, n. 20576 del 17/03/2005, Arenzani, Rv. 231360). Nello stesso senso, il rinvio derivante da
legittimo impedimento o anche da dichiarazione di astensione è stato escluso con riferimento agli altri
procedimenti camerali disciplinati dall’art. 127 cod. proc. pen., per la ragione che il contraddittorio è assicurato, quanto al difensore, dalla notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, con la conseguente
irrilevanza dell’assenza del difensore stesso, anche se causata da un legittimo impedimento (cfr. Sez. 6,
n. 14396 del 19/02/2009, Leoni, Rv. 243263; Sez. II, n. 8060 del 07/02/2014, Peverelli, non mass.). Per i
procedimenti camerali a partecipazione necessaria non disciplinati dall’art. 420-ter cod. proc. pen., si
possono ricordare Sez. 1, n. 32955 del 13/02/2002, Scarlino, Rv. 222236 (per il procedimento di esecuzione); Sez. 2, n. 44357 del 11/11/2005, Vara, Rv. 233166; Sez. 5, n. 7433 del 27/09/2013, dep.
17/02/2014, Canarelli, Rv. 259509 (per il procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione);
Sez. 1, n. 5722 del 20/12/2012, dep. 2013, Morano, Rv. 254807 (per il procedimento dinanzi al tribunale
di sorveglianza). Ovviamente, l’adesione all’astensione è stata ritenuta irrilevante nel caso in cui il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione si svolga, ai sensi dell’art. 611 cod. proc. pen., in camera di
consiglio in cui non è previsto l’intervento delle parti (Sez. 2, n. 9775 del 22/11/2012, dep. 2013, Abbaco, Rv. 255353).
Alcune fra le recenti decisioni, anche successive alla sentenza Ucciero, che hanno escluso la rilevanza
dell’astensione forense nelle udienze camerali non disciplinate dall’art. 420-ter cod. proc. pen., si sono
limitate a ribadire il vecchio percorso argomentativo imperniato sulla inapplicabilità del legittimo impedimento alle udienze camerali (cfr. Sez. 5, n. 28500 del 27/02/2014, Giovannucci, non mass.; Sez. 6, n.
44958 del 16/05/2013, Signorello, non mass.; Sez. 7, n. 33579 del 28/05/2014, Parise, non mass., che si
fonda sul fatto che l’orientamento prescelto risultava “maggioritario”).
Altre decisioni, invece, hanno espressamente disatteso le argomentazioni difensive che si fondavano
sulla rilevanza costituzionale dell’astensione forense, ovvero sulla natura vincolante delle disposizioni
del codice di autoregolamentazione.
In particolare, con riguardo alla natura di diritto costituzionale dell’astensione forense, si è ancora
affermato che il diritto di difesa dell’imputato non risulta leso dalla trasmutazione in cartolare del contraddittorio originata dall’adesione del difensore all’astensione, perché il diritto di sciopero potrebbe
tutt’al più assumere significanza nel rapporto civilistico tra mandante e difensore (Sez. 3, n. 11545 del
05/02/2014, Mbengue, non mass.); che la “libertà” di astenersi è ben diversa dal diritto di sciopero, e
trova un limite nei principi posti a tutela della giurisdizione, tra cui quello della ragionevole durata del
processo, sicché il suo esercizio può avere effetto nel procedimento penale solo quando si traduca in un
impedimento a comparire e nei limiti in cui tale impedimento sia legittimo e rilevante (Sez. 5, n. 7433
del 27/09/2013, dep. 2014, Canarelli, Rv 259509); che l’art. 18 Cost. non è pregiudicato dal rigetto
dell’istanza di rinvio per adesione all’astensione, perché la libertà di associazione non è in concreto limitata (Sez. 2, n. 44958 del 22/10/2013, Carrara, non mass.); che l’adesione del difensore all’astensione
non può costituire causa di rinvio, né sotto il profilo del “legittimo impedimento” né sotto quello
dell’esercizio di un “diritto di libertà” riconducibile all’art. 18 Cost. (Sez. 5, n. 39463 del 17/05/2013,
Gullà, non mass.).
Con riguardo poi alla natura vincolante delle norme del codice di autoregolamentazione, si è detto
ancora che tali norme nulla dispongono né potrebbero disporre circa la rilevanza che assume l’assenza
del difensore, in occasione di astensione collettiva, nei procedimenti camerali in cui la sua presenza non
è obbligatoria (Sez. 6, n. 14396 del 19/02/2009, Leoni, Rv. 243263, cit.); che l’indirizzo tradizionale non
potrebbe essere contrastato in base alle disposizioni del codice di autoregolamentazione che “si limitano a delineare i casi di legittima astensione da parte dei difensori dall’attività di udienza, esentandoli
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quindi dalla sottoposizione ad eventuali sanzioni penali e disciplinari, ma che non introducono una
specifica disciplina processuale, non impongono il rinvio obbligatorio dell’udienza camerale e non consentono di superare la previsione dell’art. 127 cod. proc. pen. circa la facoltatività della partecipazione
del difensore all’udienza” (Sez. 2, n. 8060 del 07/02/2014, Peverelli, non mass.; Sez. 1, n. 5722 del
20/12/2012, dep. 2013, Morano, non mass. sul punto); che, stante l’inapplicabilità dell’art. 420-ter, è irrilevante il codice di autoregolamentazione perché le sue norme devono ritenersi riferite alle ipotesi nelle
quali la presenza del difensore sia indispensabile, sì che il giudice non può negare al difensore, se presente, il diritto al rinvio (Sez. 7, n. 26282 del 20/12/2012, dep. 2013, Iyen, non mass.).
Non è poi mancata qualche decisione che ha motivato il rigetto della richiesta di rinvio per astensione affermando ancora che di fronte, da un lato, ad una mera “libertà” di astenersi riconducibile al diritto di associazione ex art. 18 Cost. (e non al diritto di sciopero) e, dall’altro, ai diritti fondamentali degli
utenti della funzione giudiziaria ed ai principi fondamentali posti a tutela della giurisdizione (tra cui la
ragionevole durata del processo), il giudice potrebbe esercitare la propria discrezionalità e contemperare le ragioni di opportunità del rinvio derivanti dal legittimo esercizio del diritto di astensione e
l’interesse pubblico all’immediata celebrazione del processo (Sez. 4, n. 988 del 17/12/2013, dep. 2014,
Adinolfi, Rv. 259437).
6. Da quanto ricordato, emerge che l’orientamento volto ad escludere la rilevanza dell’astensione forense nelle udienze camerali a partecipazione non necessaria si fonda essenzialmente su due cardini argomentativi: da un lato, la ritenuta inapplicabilità a tali udienze delle disposizioni sul legittimo impedimento del difensore (con un’implicita riconduzione, evidentemente, dell’astensione forense nell’alveo
di tale istituto); dall’altro, la ritenuta irrilevanza delle disposizioni emanate ai sensi della novellata legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e la ritenuta natura di mera “libertà” del diritto all’astensione.
Ora, non può essere condivisa nessuna delle varie argomentazioni svolte dalle decisioni che hanno
negato la natura dell’astensione forense come esercizio di un vero e proprio diritto costituzionale, pari
agli altri diritti e valori costituzionali in gioco (escluso il diritto di libertà personale); o hanno negato la
natura delle norme del codice di autoregolamentazione quali norme di diritto oggettivo, aventi efficacia
obbligatoria e vincolante per tutti, ad iniziare dal giudice; o hanno attribuito ad ogni giudice un generale potere discrezionale di bilanciamento con l’interesse pubblico ad un celere svolgimento del procedimento. Si tratta di decisioni che si fondano su considerazioni che non tengono nel dovuto conto i ricordati principi enunciati dalla Corte costituzionale, dal legislatore ordinario con la l. n. 83 del 2000 e dalla
unanime dottrina, e che sono state definitivamente superate dalle citate sentenze delle Sezioni Unite
Ucciero e Lattanzio, con le cui motivazioni – dianzi sommariamente riportate ed alle quali si rinvia –
tutte le suddette considerazioni sono state ampiamente e puntualmente disattese.
Ma appaiono non condivisibili, se non altro perché ormai non più attuali, anche quelle motivazioni
che si basano sulla riconduzione dell’adesione del difensore all’astensione collettiva di categoria
nell’ambito di una delle ipotesi di legittimo impedimento del difensore, con conseguente irrilevanza
dell’astensione in tutti quei casi in cui il codice di rito considera irrilevante l’assenza del difensore per
legittimo impedimento per non essere obbligatoria la sua presenza. Come già prima ricordato, questo
orientamento, formatosi soprattutto negli anni precedenti la riforma di cui alla L. n. 479 del 1999, è stato
ormai definitivamente superato.
È stato rilevato (Sez. 6, n. 1826 del 24/10/2013, dep. 2014, S., Rv. 258334-258336; nonché Sez. 3, n.
19856 del 19/03/2014, Pierri, Rv. 259439, 259440), con ampie e condivisibili argomentazioni, che il sicuro fondamento costituzionale del diritto del difensore di astenersi, non consente di equiparare questo
fenomeno ad una qualsiasi altra ipotesi di legittimo impedimento partecipativo. La mancata partecipazione del difensore a seguito di dichiarazione di astensione dalle udienze non è dovuta ad un impedimento, ma all’esercizio di un diritto costituzionale, che il giudice deve riconoscere e garantire, purché
avvenga nel rispetto delle condizioni e dei presupposti previsti dalle specifiche norme che lo regolano.
Del resto, l’impossibilità di ricondurre l’astensione forense nell’alveo del legittimo impedimento è stata
affermata, con un orientamento ormai pacifico, da una pluralità di decisioni di questa Corte concernenti
le conseguenze, sul corso della prescrizione, del rinvio ad altra udienza a causa dell’astensione. È ormai
definitivamente consolidata l’interpretazione secondo cui, nell’ipotesi di astensione dell’avvocato, il
corso della prescrizione resta sospeso per l’intero periodo decorrente tra le due udienze, ai sensi
dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, seconda ipotesi (rinvio del procedimento “su richiesta” del difensore), e
che non trova invece applicazione il limite di sessanta giorni dell’effetto sospensivo che il medesimo
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art. 159, n. 3 riserva alle ipotesi di rinvio “per ragioni di impedimento”. Questa soluzione trova la sua
necessaria premessa nel riconoscimento che la richiesta del difensore di rinvio dell’udienza è tutelata
dall’ordinamento, quale esercizio di un diritto costituzionale, ma non costituisce impedimento in senso
proprio. Già la sentenza Ucciero aveva precisato che l’astensione degli avvocati costituisce “un diritto, e
non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo”. La nozione di legittimo impedimento indica una situazione in cui non vi è alcuna scelta, ma un’oggettiva impossibilità del difensore di partecipare all’udienza; al contrario, l’astensione del difensore integra una situazione del tutto diversa, ossia
l’esercizio di un diritto costituzionale che costituisce di per sé la ragione che giustifica il rinvio.
Non si può dunque continuare a sostenere una soluzione chiaramente contraddittoria, giustamente
definita come una “evidente discrasia interpretativa”, derivante dal fatto che “da un lato, vista dalla
prospettiva del termine di sospensione della prescrizione, l’astensione viene configurata come un “diritto al rinvio”, escludendo espressamente che rientri nell’ambito di un’ipotesi di legittimo impedimento; dall’altro lato, l’irrilevanza dell’astensione nei procedimenti camerali a partecipazione eventuale ex
art. 127 cod. proc. pen., compresi quelli di cui all’art. 599 cod. proc. pen., viene giustificata proprio con
riferimento alla mancata previsione del legittimo impedimento del difensore” (Sez. 6, n. 1826 del
24/10/2013, dep. 2014, S., cit.). Se dunque l’astensione dalle udienze non può essere ricondotta
all’interno dell’istituto del legittimo impedimento, deve conseguentemente escludersi che la mancata
previsione di una ipotesi di legittimo impedimento del difensore possa giustificare la tesi della irrilevanza dell’esercizio del diritto di astensione.
7. Si è a volte detto (cfr. Sez. 6, n. 27842 del 10/06/2009, Nori, non mass.) che sarebbe irrazionale un
sistema che riconosca all’astensione del difensore il diritto al rinvio dell’udienza in un procedimento
camerale, in cui invece il legittimo impedimento del difensore, ossia una situazione di impossibilità oggettiva di partecipare, non riceverebbe tutela. Si è però condivisibilmente replicato che l’obiezione prova troppo, e non è dunque convincente, perché non tiene conto che si tratta di due situazioni profondamente diversificate, che in quanto tali giustificano una diversità di trattamento: il legittimo impedimento è funzionale al diritto di difesa dell’assistito, il cui esercizio può essere diversamente modulato
in considerazione del rito a cui accede, purché sia in funzione dello scopo del giudizio; l’astensione per
adesione all’agitazione di categoria è, invece, funzionale all’esercizio di un diritto costituzionale del difensore, che ha valenza pari agli altri diritti costituzionali e fondamentali che vengono in gioco nel procedimento, ma in relazione ai quali il legislatore ha introdotto un autonomo sistema per operare, a
monte, il loro bilanciamento. E in tale opera di bilanciamento la fonte secondaria competente, non ha
differenziato l’esercizio del diritto da parte del difensore a seconda del rito, ma unicamente in funzione
del diritto di libertà dell’imputato.
D’altra parte, se veramente la diversità di conseguenze non trovasse giustificazione nella diversità di
situazioni e quindi si fosse davvero in presenza di un sistema irrazionale, si potrebbe semmai porre un
dubbio di incostituzionalità delle norme di legge che, nell’interpretazione assunta a diritto vivente,
escludono rilievo al legittimo impedimento del difensore (come è stato più volte prospettato sotto diversi profili) ma non di manifesta irrazionalità delle stesse norme di legge nella parte in cui non prevedono lo stesso trattamento per l’astensione del difensore o delle norme secondarie che espressamente
prevedono il diritto del difensore al rinvio in tali ipotesi. Inoltre, proprio perché una eventuale questione di legittimità costituzionale avrebbe ad oggetto la norma codicistica nella parte in cui non prevede
che il legittimo impedimento del difensore imponga il rinvio dell’udienza, tale questione sarebbe irrilevante quando, come nel presente giudizio, non si è in presenza di un legittimo impedimento ma della
diversa situazione costituita dall’esercizio del diritto costituzionale all’astensione collettiva.
8. Si è ricordato che l’art. 3, comma 1, del vigente codice di autoregolamentazione approvato il 13 dicembre 2007, si riferisce esplicitamente alla “mancata comparizione dell’avvocato all’udienza o all’atto
di indagine preliminare o a qualsiasi altro atto o adempimento per il quale sia prevista la sua presenza,
ancorché non obbligatoria”. Esso dunque non opera, evidentemente, alcuna distinzione tra udienze a
cui il difensore deve partecipare in via obbligatoria ovvero in via facoltativa. Di conseguenza, il fatto
che in alcuni procedimenti non sia prevista come obbligatoria la presenza del difensore non può condizionare l’esercizio del diritto di astensione, la quale, se ricorrono le condizioni di legge, da diritto al
rinvio dell’udienza, purché il difensore comunichi, nelle forme e nei termini stabiliti dal medesimo art.
3, comma 1, la volontà di astensione, manifestando in questo modo anche la sua volontà di essere presente all’udienza a partecipazione facoltativa. La norma si riferisce a tutti gli atti o procedimenti in cui è
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prevista la presenza del difensore, ancorché non obbligatoria, e quindi non solo – come nella specie – ai
giudizi di opposizione avverso le richieste di archiviazione (artt. 409 e 410 cod. proc. pen.) ma anche a
tutti gli altri procedimenti a partecipazione facoltativa aventi le medesime caratteristiche (come i giudizi di appello nei procedimenti definiti in primo grado con rito abbreviato). D’altra parte, la norma si
fonda su una evidente giustificazione logica, perché se così non fosse il diritto di astensione del difensore subirebbe un pesante condizionamento, trovandosi il difensore costretto a scegliere tra l’esercizio del
proprio diritto e l’esigenza di non lasciare privo di difesa tecnica il suo assistito.
Ciò mostra anche come non sia ipotizzabile alcuna ragione che possa giustificare una disapplicazione dell’art. 3, comma 1, del codice di autoregolamentazione. Una giustificazione non potrebbe certamente essere rinvenuta in una presunta difformità con norme del codice di rito come gli artt. 127 e 599
che danno rilievo soltanto al legittimo impedimento dell’imputato e non anche a quello del difensore. E
difatti – oltre a quanto già prima osservato sulla prevalenza che dovrebbe comunque accordarsi al
norma del codice di autoregolamentazione in quanto norma speciale e norma posta dalla fonte competente in materia e sulla insussistenza di un insanabile contrasto (di una antinomia reale assoluta) giacché le due norme hanno un oggetto diverso – non vi è alcun elemento che indichi in modo inequivoco
che la norma generale di rito sia diretta a sottrarre lo specifico rapporto dell’astensione collettiva alla
norma speciale per assoggettarlo alla disciplina generale sul legittimo impedimento.
Questa eventualità è anzi pacificamente esclusa dalla giurisprudenza che nega la riconducibilità
dell’astensione ad una ipotesi di legittimo impedimento.
9. Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto:
“In relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il giudice
è tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza di una dichiarazione di astensione del difensore, legittimamente proclamata dagli organismi di categoria ed effettuata o comunicata nelle forme e nei
termini previsti dall’art. 3, comma 1, del vigente codice di autoregolamentazione”.
Trattandosi di una ipotesi in cui l’assistenza del difensore non è obbligatoria, il mancato accoglimento della richiesta di rinvio comporta una nullità della sentenza per mancata assistenza dell’imputato ai
sensi dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 180 cod. proc. pen.: nullità da considerarsi a regime intermedio e non assoluta ex art. 179 c.p.p., comma 1, dal momento che l’assistenza del difensore non è
prevista come obbligatoria.
10. Venendo poi più specificamente al caso di specie, il Procuratore generale, nell’integrazione della
sua requisitoria scritta, pur aderendo al principio qui ribadito, secondo cui l’adesione del difensore
all’astensione di categoria regolarmente proclamata è ammissibile ed obbliga il giudice al rinvio dell’udienza anche quando la sua partecipazione non sia obbligatoria, ha tuttavia chiesto il rigetto del ricorso proposto dalle parti offese omissis e omissis per un diverso motivo. Ossia perché – dopo l’ordinanza del G.i.p. che aveva rigettato la prima richiesta di rinvio proposta dai difensori di entrambe le
parti private – all’udienza in camera di consiglio del 17 novembre 2011 il difensore delle persone offese
aveva insistito nella richiesta di rinvio per adesione all’astensione, mentre il difensore degli indagati
aveva rinunciato alla precedente dichiarazione di astensione ed aveva invece chiesto, a nome del suoi
assistiti, di discutere nel merito.
Il caso è già stato risolto in via interpretativa dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che l’art.
3, comma 2, del vigente codice di autoregolamentazione non può essere interpretato nel senso della
prevalenza della dichiarazione di astensione del difensore della parte civile sulla contraria volontà espressa, tramite il proprio difensore, dall’imputato, dovendo invece essere privilegiato l’interesse dell’imputato ad una celere definizione del procedimento. La dichiarazione di astensione del difensore
della parte civile, pertanto, non legittima il rinvio in presenza di una contraria volontà manifestata dal
difensore dell’imputato (Sez. VI, n. 43213 del 12/07/2013, Arangio, Rv. 257205). La citata sentenza delle
Sezioni Unite Lattanzio non ha contraddetto questa soluzione, ma solo precisato che la sentenza Arangio aveva operato non tanto un bilanciamento tra valori costituzionali confliggenti, quanto piuttosto
una interpretazione estensiva ed adeguatrice della disposizione di cui al detto art. 3, comma 2, nel senso che “prevale in ogni caso l’eventuale contraria volontà formalmente espressa dall’imputato di procedere, in considerazione del suo interesse ad una celere definizione del procedimento”.
Ritiene tuttavia il Collegio che questa eccezione del Procuratore generale colga solo un aspetto della
questione rimessa alle Sezioni Unite.
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Va premesso che non vi è dubbio che anche il difensore della parte offesa o della parte civile può
esercitare il proprio diritto costituzionale di aderire all’astensione collettiva di categoria, diritto attribuito al difensore in quanto soggetto appartenente a quella categoria di professionisti in agitazione e non
in quanto patrocinante di una determinata parte. Non avrebbe ragionevole giustificazione e sarebbe illegittima una differenziazione di trattamento, in via generale ed astratta, tra i diversi difensori solo in
ragione della diversa posizione processuale del loro assistito.
E difatti, il codice di autoregolamentazione riconosce il valore dell’astensione qualunque sia la parte
processuale in rappresentanza della quale il difensore è presente nel processo, senza porre alcuna distinzione fra la parte civile o la persona offesa, e l’imputato o l’indagato. L’art. 3, comma 2, del codice di
autoregolamentazione invero dispone che la regolare dichiarazione di astensione produce i suoi propri
effetti “anche qualora avvocati del medesimo procedimento non abbiano aderito all’astensione stessa.
La presente disposizione si applica a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi i difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile”.
Ritiene però il Collegio che tale disposizione si limiti ad enunciare il principio della sussistenza del
diritto di astenersi anche in capo al difensore della parte civile o della persona offesa, ma non regola direttamente, sotto il profilo processuale, altresì il caso in cui vi sia una diversità di posizioni, rispetto alla
richiesta di rinvio per astensione, fra difensore dell’imputato o dell’indagato, da una parte, e difensore
della persona offesa o della parte civile, dall’altra. Si è in presenza, in altri termini, di una lacuna del codice di autoregolamentazione, che deve quindi essere colmata in via interpretativa. Alla stregua dell’esegesi accolta dalla citata sentenza Arangio e richiamata dal Procuratore generale, il Collegio ritiene
che una interpretazione adeguatrice delle disposizioni del codice di autoregolamentazione consenta di
ritenere che, nel caso di udienze camerali a partecipazione facoltativa dei difensori, qualora il difensore
dell’imputato o dell’indagato non sia comparso (non esprimendo quindi alcun consenso al rinvio, nemmeno implicito) o comunque non abbia a sua volta proposto analoga richiesta di rinvio per astensione,
la manifestazione di volontà di astenersi e di ottenere un rinvio avanzata esclusivamente dal difensore
della persona offesa (o di altro soggetto del procedimento diverso dall’indagato, dall’imputato, dal civilmente obbligato per la pena pecuniaria o dal responsabile civile), seppure perfettamente aderente alla previsione del codice di autoregolamentazione (e quindi idonea a giustificare sotto il profilo deontologico una simile presa di posizione) non implichi anche il diritto di ottenere dal giudice il rinvio dell’udienza camerale.
Tale interpretazione trova conforto nel diverso trattamento della rilevanza dell’impedimento del difensore di parte civile, ai sensi dell’art. 420-ter cod. proc. pen., pacificamente esclusa dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra molte, Sez. V, n. 39334 del 13/07/2011, Boschi, Rv. 251530); diversità di
trattamento che non è stata ritenuta irragionevole dalla sentenza n. 217 del 2009 della Corte costituzionale per la ragione che “il differente rilievo degli interessi di cui l’imputato e la parte civile sono portatori, e la diversa natura degli scopi perseguiti, si riflettono anche sulla disciplina prevista in relazione al
diritto di partecipazione al processo e, quindi, alla presenza del difensore”.
Ulteriore elemento a sostegno della interpretazione in esame il Collegio rinviene – come prospettato
dal Procuratore generale – nell’art. 23 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui l’assenza delle parti private
diverse dall’imputato non determina la sospensione o il rinvio del dibattimento a norma degli artt. 420bis e 420-ter cod. proc. pen. Sebbene tale disposizione, che regola la mancata presenza di dette parti nel
dibattimento e non la diversa materia dell’esercizio del diritto di astensione da parte dei loro difensori,
non si ponga, per questo motivo, in puntuale contrasto con l’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione, che riconosce espressamente il diritto di astenersi anche ai difensori della persona offesa o
della parte civile, tuttavia la disposizione stessa vale come elemento di conforto dell’interpretazione in
base alla quale ricavare la norma per regolare il caso, non previsto, di una dichiarazione di astensione
del difensore della persona offesa o della parte civile non accompagnata da una analoga dichiarazione
del difensore dell’indagato o imputato.
Decisiva appare infine la considerazione che, come rileva il Procuratore generale, in caso di astensione del solo difensore della persona offesa o della parte civile, cui non abbia aderito il difensore
dell’imputato, non opererebbe la sospensione dei termini di prescrizione e di custodia cautelare, ossia
non opererebbero i “contrappesi” (gli istituti e le disposizioni in grado di salvaguardare gli altri diritti e
principi suscettibili di essere lesi dall’astensione, a cui si pure è fatto riferimento nella sentenza Lattanzio, secondo quanto sottolineato al par. 2.4.) che bilancerebbero l’esercizio del diritto del difensore ad
astenersi.
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11. In conclusione, deve anche affermarsi il seguente principio di diritto:
“Nelle udienze penali, a partecipazione del difensore facoltativa, l’astensione del difensore della parte
civile o della persona offesa, prevista dall’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione degli avvocati pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 2008, non da diritto al rinvio qualora il difensore
dell’imputato o dell’indagato non abbia espressamente o implicitamente manifestato analoga dichiarazione di astensione, così mostrando un proprio interesse ad una celere definizione del procedimento”.
Nel caso in esame, il difensore degli indagati aveva revocato la dichiarazione di astensione precedentemente rigettata dal G.i.p. ed aveva espressamente chiesto la trattazione del processo nel merito. A fronte
di questa manifestazione di volontà degli indagati, a mezzo del loro difensore, la riproposizione della dichiarazione di astensione da parte dei soli difensori delle persone offese, non dava diritto al rinvio.
I ricorsi delle persone offese omissis e omissis, in proprio e nelle rispettive qualità, devono pertanto
essere rigettati, con conseguente condanna dei medesimi ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2014.
Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2015
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EVA MARIUCCI
Dottore di ricerca in Diritto Pubblico (indirizzo penalistico) – Università di Roma “Tor Vergata”
L’astensione degli avvocati tra punti fermi e qualche impasse
Old questions and new statements about lawyers’ strike
In tema di sciopero degli avvocati, le Sezioni Unite consacrano l’auspicata uniformità di disciplina tra udienze partecipate e a contraddittorio eventuale, segnando un passo importante per l’esercizio delle prerogative della classe
forense, e cristallizzando una volta per tutte la “consistenza” costituzionale del diritto di astensione.
Italian Supreme Court of Cassation, in order to solve a long-standing conflict of interpretation about lawyers’
strike, asserted constitutional value of this right (art. 18 Italian Constitution); lawyers can ask for hearing’s postponement even if their presence isn’t necessary.
QUAESTIO IURIS
La sentenza in commento si impone nel panorama giurisprudenziale in tema di astensione del difensore, poiché, per la prima volta, le Sezioni Unite riconoscono valore ex se al diritto di aderire alla manifestazione collettiva e ad ottenere il rinvio della trattazione, anche quando la partecipazione in udienza
del patrocinatore non è obbligatoria. In passato, non sono certo mancate pronunce di legittimità tese ad
accordare tutela alla scelta di astenersi per ragioni corporative, ma il c.d. “diritto al rinvio” non aveva
ancora trovato riconoscimento per le udienze camerali a contraddittorio eventuale.
L’odierna presa di posizione risolve la questione esegetica, ponendosi altresì in continuità (logica) rispetto a pregresse pronunzie – pure a Sezioni Unite – che avevano affrontato altri discussi profili della
disciplina 1. In particolare, il substrato argomentativo da cui muove la Corte è quello già tracciato da
una recente statuizione 2, che ha avuto il pregio di fissare due punti fermi: la definitiva qualificazione
giuridica dell’istituto e il valore precettivo erga omnes delle disposizioni contenute nel Codice di autoregolamentazione forense.
LA “CONSISTENZA” COSTITUZIONALE DEL DIRITTO DI ASTENSIONE
Uno dei punti nevralgici all’attenzione del Supremo Consesso è stato, ancora una volta, quello della
qualificazione giuridica del diritto.
L’argomento, come accennato, era stato già risolto, pochi mesi or sono, sempre dalle Sezioni Unite
che, proprio nelle more della pubblicazione della decisione in commento, avevano chiarito la natura
della posizione giuridica de qua. Secondo tale pronuncia, il diritto di adesione deve essere inteso quale
diritto costituzionale; opzione ermeneutica inaugurata dai giudici della Consulta nella sentenza n. 171
del 1996 3. In tale decisione, infatti, il Giudice delle leggi prospettò la sostanza costituzionale dell’adesione, quale espressione del generale diritto di libertà di associazione, ai sensi dell’art. 18 Cost.; avver-
1
Cass., sez. un., 29 settembre 2014, n. 40187, in CED Cass. n. 259926 e Cass., sez. un., 30 maggio 2013, n. 26711, in Cass. pen.,
2014, 1, p. 32.
2
Cass., sez. un., 29 settembre 2014, n. 40187, cit.
3
C. cost., sent. 16 maggio 1996, n. 171, in Giur. it., 1997, I, p. 205.
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tendo, altresì, della necessità di giungere, per via legislativa, ad un effettivo contemperamento con gli
altri valori di rango primario, tra cui quelli consacrati negli artt. 2 e 24 Cost.
Nondimeno, il contrasto interpretativo si è protratto sino ad oggi: da qui l’esigenza di rimettere la
questione al collegio unificato, al fine di definire l’inquadramento dell’astensione nella cornice del legittimo impedimento ovvero in quella di un diritto ad autonoma rilevanza costituzionale. La questione
non è di poco conto, atteso che, nella fattispecie concreta alla base del ricorso di legittimità, il Giudice
per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta di rinvio sollevata dalla difesa della persona offesa, proprio sull’assunto che nei procedimenti camerali (nello specifico, udienza fissata a seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione, ai sensi dell’art. 409, comma 3, c.p.p.) non rilevano in alcun
modo i casi di legittimo impedimento del difensore, stante la natura a contraddittorio eventuale dell’udienza. La tesi interpretativa che assimila l’astensione del difensore al suo impedimento partecipativo è stata spesso sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità 4, per essere infine superata dall’autorevole arresto delle Sezioni Unite di poco precedente a quello in esame. Nell’occasione, come già evidenziato, l’impasse esegetica è stata risolta in favore dell’autonoma natura costituzionale dell’astensione,
abbandonando la pregressa, sia pur radicata, impostazione.
L’adesione all’agitazione collettiva, se intesa quale esercizio di una prerogativa costituzionale, viene
ad assumere rilevanza indipendentemente dalla forma procedimentale a contraddittorio necessario o
facoltativo. Di conseguenza, nelle udienze camerali a partecipazione eventuale, la mancata operatività
dell’istituto del legittimo impedimento del difensore, trattandosi di un fenomeno distinto, non può considerarsi ostativa alla dichiarazione di astensione per ottenere il rinvio della trattazione.
La soluzione offerta dalla Suprema Corte, del resto, è confortata dalle intrinseche differenze rispetto
all’istituto dell’impedimento partecipativo; come evidenziato in passato, il c.d. “sciopero” del difensore
«è il risultato di una scelta di condotta autonoma e volontaria, per nulla condizionata da situazioni di
insuperabile “impossibilità” dello stesso di prendere parte all’udienza» 5.
In definitiva, l’asserita veste costituzionale conferisce all’adesione corporativa il carattere tipico dei
diritti di libertà, ossia la pretesa a che gli altri consociati si astengano dall’impedirne il godimento 6, a
nulla rilevando che nelle udienze a contraddittorio facoltativo non vi è spazio per la previsione di specifiche cause ostative alla partecipazione del difensore.
La pronuncia in commento è stata anche un’occasione per delineare lo specifico fondamento costituzionale del diritto di astensione degli avvocati. Non va dimenticato che nella Carta fondamentale
esiste una disposizione che tutela specificatamente il diritto di sciopero (art. 40 Cost.). Già da tempo,
però, parte considerevole della dottrina aveva negato tale assimilazione, posto che l’astensione non
sarebbe riconducibile alla nozione di sciopero accolta dall’art. 40 Cost., né dal punto di vista giuridico
né da quello sociale 7. La categoria giuridica di sciopero presupposta dalla Costituzione, infatti, va ricostruita alla luce della legislazione vigente nel 1948 e, in particolare, dell’art. 502 c.p. 8, che puniva le
condotte poste in essere da «lavoratori addetti a stabilimenti, aziende o uffici», ossia i soli lavoratori
dipendenti. D’altro canto, l’agitazione della classe forense non potrebbe nemmeno essere ricondotta
alla nozione “socialmente dominante” di sciopero, inteso come volontaria astensione da ogni attività
e/o mansione. Nel caso dei difensori, invece, lo sciopero comporta la sola assenza alle udienze, ma
4
Cass., sez. VI, 19 febbraio 2009, n. 14396, in Cass. pen., 2010, p. 711; Cass., sez. III, 21 aprile 2007, in CED Cass. n. 238572;
Cass., sez. I, 13 dicembre 2001, in Giur. it., 2002, p. 2128; Cass., sez. IV, 26 gennaio 1999, in Arch. n. proc. pen., 1999, p. 153; Cass.,
sez. III, 11 marzo 1999, in CED Cass. n. 213092; Cass., sez. III, 12 dicembre 1997, in Giur. it., 1998, p. 2366; Cass., sez. I, 11 maggio
1998, n. 1836, in Cass. pen., 1999, p. 3490; Cass., sez. I, 16 gennaio 1998, in Cass. pen., 1999, p. 1499; Cass., sez. III, 12 dicembre
1997, n. 1348, in Cass. pen., 1999, p. 2887.
5
V. Grevi, L’adesione allo «sciopero» dei difensori non costituisce «legittimo impedimento» (a proposito del regime di sospensione del
corso della prescrizione), in Cass. pen., 2006, 6, p. 2060. Sul punto, più di recente, parla di “diversa matrice” anche T. Rafaraci, Una
“presa d’atto” molto attesa: l’adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze impone il rinvio anche nei riti camerali a partecipazione facoltativa, in Cass. pen., 2014, 6, p. 2081.
6
In tale prospettiva, l’autorevole posizione di P.F. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni, Torino, 1991, passim, secondo il
quale i diritti di libertà si sostanziano nella pretesa del titolare a non essere ostacolato nel loro esercizio, e si contraddistinguono
per una serie di peculiarità, tra cui l’inderogabilità e l’imprescrittibilità.
7
Si v. la ricostruzione offerta da G. Pino, La Corte costituzionale e l’astensione dal lavoro degli avvocati: i margini di applicazione
della l. 146/90 e il dibattito in seno alla commissione di garanzia, in Foro it., 1997, I, p. 1030. Cfr. anche D. Potetti, L’astensione collettiva
degli avvocati dalle udienze, in Cass. pen., 2005, 10, p. 3009 ss.
8
Articolo dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione degli articoli 39 e 40 Cost., dalla pronuncia n. 29 del 1960.
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non riguarda, invece, la sospensione delle attività di studio 9.
Nell’impossibilità di ricondurre l’istituto nell’alveo dell’art. 40 Cost., la Corte di cassazione chiarisce
che è l’art. 18 Cost. la norma di copertura, soluzione che conferma quanto già evidenziato dalla Consulta nella sentenza n. 171 del 1996. La disposizione richiamata si caratterizza per portata generale, tanto
da poter essere definita di genus 10. Il diritto di associarsi, così come pensato dall’Assemblea Costituente,
si esplica a prescindere dal tipo e dalla durata dell’unione, che può anche essere occasionale; per la sua
manifestazione, è sufficiente l’esistenza di un vincolo ideale, volto al perseguimento di un obiettivo
comune, che unisce più individui. Sulla base di tale presupposto, si è ricondotta l’astensione a «manifestazione incisiva della dinamica associativa», che può ritrovarsi anche in rivendicazioni collettive, destinate a tutelare interessi di categoria, non solo di carattere economico, anche al fine di consentire un
miglioramento dell’esercizio dell’attività professionale 11.
Del resto, è oggi pacifica l’applicabilità della l. n. 146 del 1990 – sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali – anche all’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria 12. Le resistenze in principio mostrate facevano leva sul dato testuale della legge, che inizialmente riguardava i soli lavoratori
subordinati. Successivamente, la novella realizzata con l. 11 aprile 2000, n. 83, che ha introdotto l’art. 2bis, ha esteso l’applicabilità della l. n. 146 del 1990 ad ulteriori categorie di lavoratori, quali gli autonomi, i professionisti ed i piccoli imprenditori. Il Consiglio di Stato ha in proposito chiarito che la modifica ha consentito di risolvere positivamente la questione della riconducibilità, nella categoria di sciopero
nei servizi pubblici essenziali, anche delle forme di astensione collettiva realizzate da soggetti prima
esclusi dall’ambito di operatività della disciplina 13. Ne consegue che anche le agitazioni forensi sono
assoggettate agli obblighi di preventiva comunicazione, garanzia delle prestazioni essenziali e ragionevole durata, trovando un limite «nei diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione giudiziaria e cioè nel diritto di azione e di difesa» 14.
Le Sezioni Unite, consacrando sotto tale profilo l’auspicata uniformità di trattamento dell’astensione,
tra udienze partecipate e a contraddittorio eventuale 15, segnano un passo importante per l’esercizio
delle prerogative della classe forense, e cristallizzano una volta per tutte la “consistenza” costituzionale
del diritto.
A seguito della odierna presa di posizione non vanno tuttavia trascurati gli effetti dello sganciamento del diritto di astensione dal legittimo impedimento. Senza rinnegare l’autorevole presa d’atto del
Collegio circa la sostanza costituzionale del diritto, è indubbio che, allo stato, il difensore che intenda
prendere parte alla dialettica camerale, e per una causa incolpevole non può farlo, non otterrà il differimento, stante la non operatività del legittimo impedimento nei procedimenti a partecipazione facoltativa. Viceversa, il patrocinatore che per libera scelta aderisce all’agitazione di categoria, rinunciando volontariamente a comparire, avrà ora diritto ad ottenere il rinvio, a pena di nullità (a regime intermedio).
È la stessa Corte di cassazione che allude alla non peregrina eventualità che si possa ora sollevare
una questione di legittimità costituzionale, a fronte delle «irragionevoli asimmetrie applicative» 16 legate
alla diversa disciplina del legittimo impedimento nelle udienze camerali a contraddittorio eventuale.
Nondimeno, il legittimo impedimento, pur rappresentando un’indubbia esplicazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), non trova diretto ed esplicito fondamento nella Carta; a differenza dell’astensione, la
cui sostanza costituzionale è stata infine ribadita dall’intervento in commento.
9
Sul punto, v. E. Gianfrancesco, “Sciopero” degli avvocati e costituzione, Milano, 2002, pp. 23-27. L’Autore, tuttavia, conclude
per la rilevanza dell’art. 41 Cost.
10
Per una ricostruzione della materia, si v. G. Guzzetta, Il diritto costituzionale di associarsi, Milano, 2003.
11
C. cost., sent. 16 maggio 1996, n. 171, cit.
12
Sul punto, una ricognizione precisa degli sviluppi normativi ed interpretativi è offerta da M. Ranieri, L’astensione degli avvocati dall’attività giudiziaria tra delibere della Commissione di garanzia e orientamenti della Corte di Cassazione, in Mass. giur. lav., 2013,
6, p. 372 ss.
13
C. St., sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5756, in Foro amm., 2002, p. 2383.
14
Cass., sez. II, 6 dicembre 2011, n. 46686, in CED Cass.
15
Cfr., ad esempio, F.R. Mittica, Astensione del difensore e diritto di ottenere il differimento dell’udienza, In questa Rivista, 2015, 3, p. 147.
16
Così, I. Guerini, Le Sezioni Unite su astensione del difensore e procedimenti camerali a partecipazione facoltativa, diritto al rinvio ed
esercizio del diritto di astensione dei difensori delle parti private, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
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IL VALORE PRECETTIVO DEL CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE: IL FENOMENO DELL’ETERO-INTEGRAZIONE DA FONTE REGOLAMENTARE
Nella prospettazione dei ricorrenti, il mancato accoglimento della richiesta di rinvio non avrebbe comunque potuto tollerarsi, alla luce dell’art. 3, comma 1, del Codice di autoregolamentazione dell’astensione forense, il regolamento che disciplina le modalità di adesione degli avvocati all’agitazione di categoria, valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei
servizi pubblici essenziali con Delibera 13 dicembre 2007 17 . Nella disposizione è riconosciuta la facoltà
di astensione del legale non solo in udienza, ma anche nell’atto di indagine preliminare o in qualsiasi
altro atto o adempimento per il quale sia prevista la sua presenza, ancorché non obbligatoria. Sulla base
di tale assunto, il giudice avrebbe dovuto accogliere la richiesta di posticipare la trattazione, atteso che,
anche negli snodi procedimentali caratterizzati dal facoltativo intervento delle parti, è garantito il diritto di astensione. Nonostante il dato letterale della disposizione non lasci spazio a fraintendimenti esegetici, il nodo problematico, che la decisione in commento è stata chiamata a sciogliere, ha riguardato il
complesso rapporto tra fonti normative.
In tal senso, muove anche la tesi del Procuratore generale, che evidenzia l’impossibilità per la fonte di
rango secondario (il Codice di autoregolamentazione) di modificare la disciplina contenuta nella norma
gerarchicamente superiore (l’art. 127 c.p.p., richiamato nel caso specifico dall’art. 409, comma 3, c.p.p.). La
disposizione primaria, infatti, non prevede come obbligatoria la presenza delle parti, né consente il rinvio
dell’udienza nell’eventualità di un impedimento partecipativo del legale; di conseguenza, le diverse previsioni contenute nel regolamento costituiscono un’ipotesi in deroga alla legge da parte di una disposizione subordinata, che, come tale, non avrebbe la forza di imporsi sul dettato della prima.
Le suddette argomentazioni, tuttavia, non travolgono quanto stabilito da autorevoli precedenti 18, che
hanno consacrato il principio di diritto secondo cui il Codice di autoregolamentazione «costituisce fonte
di diritto oggettivo, contenente norme aventi forza e valore di normativa secondaria o regolamentare,
vincolanti “erga omnes”, ed alle quali anche il giudice è soggetto in forza dell’art. 101, secondo comma,
Cost.». Il giudicante, dunque, è tenuto non solo a conoscere il precetto regolamentare, ma altresì ad applicarlo in presenza delle condizioni ivi espresse; e non vi è spazio per scelte discrezionali in tema di rinvio
dell’udienza, poiché la normativa secondaria ne precisa i presupposti, i soli a dovere essere accertati, senza possibilità di optare per un esito giudiziario diverso. Le Sezioni Unite, dunque, si assestano sul trend
ermeneutico della valenza normativa generale del Codice di autoregolamentazione, matrice di diritto oggettivo, e del suo valore non meramente endoassociativo, confermandone la natura di fonte secondaria.
Le norme in esso contenute hanno valore precettivo erga omnes e rango secondario, al pari dei regolamenti, in quanto è stata la stessa l. n. 83 del 2000 a prevederne l’emanazione. Quest’ultima si è limitata a definire la disciplina generale sull’astensione dal lavoro dei professionisti che interferisca coi servizi pubblici
essenziali, lasciando alle fonti subordinate la definizione degli aspetti di dettaglio.
Utilizzando le categorie individuate dalla l. n. 400 del 1988, il richiamato Codice di autoregolamentazione può essere incluso tra i regolamenti “attuativi” o “integrativi”, la cui peculiare funzione di etero-integrazione li qualifica al punto che taluno ha parlato in proposito di «norme sostanzialmente primarie» 19, o addirittura di «legislazione integrata», stante la circostanza per cui la fonte primaria è da ritenersi incompleta in assenza di rinvio ad una normativa secondaria che ne definisca gli aspetti di dettaglio 20. Tuttavia, pur potendo avere capacità innovativa, nella misura in cui integrano o completano il
contenuto di una legge, devono sempre rispettare le disposizioni di principio definite dalla fonte superiore, senza porsi in contrasto con questa. Ciò in forza del principio gerarchico, per cui la fonte subordinata non può derogare o contrastare con quella sovraordinata. Attraverso i codici di autoregolamentazione, dunque, viene a delinearsi un sistema «ispirato al principio di sussidiarietà orizzontale» 21, nel
quale è la fonte subordinata che, nel rispetto della cornice normativa di rango primario, detta specifiche
prescrizioni normative.
17
Pubblicato in Gazz. Uff., n. 3, 4 gennaio 2008.
18
Cass., sez. un., 30 maggio 2013, n. 26711, cit.; Cass., sez. un., 29 settembre 2014, n. 40187, cit.
19
L. Carlassare, Il ruolo del Parlamento e la nuova disciplina del potere regolamentare, in Quaderni cost., 1990, pp. 7 ss.
20
Per una ricognizione dei diversi indirizzi, cfr. F. Modugno, Fonti del diritto (Gerarchia delle), in Enc. dir., Milano, 1997, I Agg., p. 284.
21
O. Roselli, sub art. 40 Cost., in R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino,
2006, pp. 842 s.
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La pronuncia de qua è così diventata l’occasione per compiere uno sforzo interpretativo, che ha consentito di delineare con maggiore chiarezza la delicata relazione tra fonti di rango primario e subordinato, in costanza del c.d. fenomeno di etero-integrazione.
Fatte queste premesse e tornando alla questione giuridica al vaglio delle Sezioni Unite, circa il rapporto tra la normativa subordinata e la previsione generale contenuta nel Codice di rito, i giudici di legittimità hanno persino escluso la presenza di un’antinomia. In base al criterio di specialità-competenza, infatti,
la fonte regolamentare disciplina un ambito addirittura sottratto alla norma codicistica; quest’ultima sì
potrebbe e dovrebbe prevalere (in forza del principio gerarchico), ma solo ove vi fosse un contrasto reale,
che, viceversa, deve escludersi nel caso specifico, poiché l’art. 127 c.p.p. non disciplina il medesimo oggetto del Codice di autoregolamentazione, né in modo esplicito né in termini impliciti.
IL DIRITTO DI ADESIONE (INCOMPLETO) DEL DIFENSORE DI PARTE CIVILE
L’altro aspetto, pure affrontato dalla decisione annotata, riguarda l’esercizio del diritto di astensione
per i difensori delle parti private.
Il punto di partenza per affrontare la questione è il dettato dell’art. 3, comma 2, del Codice di autoregolamentazione, secondo cui la disciplina si applica «a tutti i soggetti del procedimento, ivi compresi
i difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile».
La disposizione si limita a riconoscere la titolarità in astratto del medesimo diritto (costituzionale) ai
difensori, senza distinzioni legate alle posizioni giudiziarie degli assistiti. Ciononostante, sotto un profilo più strettamente processuale (e concreto), tace circa l’eventualità in cui i patrocinatori non optino tutti per la ragione corporativa; in particolare, quando la volontà di astenersi del difensore della parte civile o della persona offesa non coincida con quella del legale dell’imputato o dell’indagato.
Il Supremo Collegio riscontra la lacuna e traccia una strada interpretativa di bilanciamento, richiamando con favore l’orientamento di legittimità che privilegia l’interesse dell’imputato alla celere definizione della vicenda processuale 22; di conseguenza, in presenza della dichiarazione di astensione del
solo avvocato di parte civile, volta ad ottenere la posticipazione dell’udienza, il diritto al rinvio deve
escludersi, a fronte della contraria volontà proveniente dal legale dell’imputato. La soluzione appare
coerente con il principio di inviolabilità dei diritti di libertà personale e di difesa, di cui agli artt. 13 e 24
Cost.; la connotazione quali prerogative «inviolabili» consente loro, infatti, di imporsi su altri diritti –
sia pure consacrati nella Carta – privi di tale qualifica, come il diritto di sciopero o quello di associazione. D’altro canto, depone in tal senso la matrice “reo-centrica” del nostro sistema penale: è noto che, così come strutturato, il rito valorizza le prerogative della regiudicanda 23.
La prospettiva delle Sezioni Unite, sebbene coerente con l’impianto di fondo del sistema – si pensi
all’art. 23 disp. att. c.p.p., nonché ai contraccolpi in tema di sospensione dei termini di prescrizione e di
durata massima della custodia cautelare 24 –, non sembra però orientata verso le tendenze evolutive in
atto 25, che con maggiore sensibilità giuridica stanno ponendo le basi per la valorizzazione del ruolo della vittima in sede giudiziaria, contribuendo a superare l’idea di un processo costruito intorno alla figura
del solo imputato.
22
Segnatamente, le Sezioni Unite richiamano la pronuncia resa da Cass., sez. VI, 12 luglio 2013, n. 43213, in CED Cass. n.
257105, nella quale viene ritenuto prevalente l’interesse dell’imputato alla celere definizione del procedimento, nonché Cass.,
sez. V, 13 luglio 2011, n. 39334, in CED Cass. n. 251530, in considerazione del fatto che l’assenza delle parti private non determina la sospensione o il rinvio del dibattimento, ai sensi degli artt. 420-bis e 420-ter c.p.p.
23
Sul ruolo delle parti private, si cfr. C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato e l’offeso dal reato, Milano, 2003, passim; cfr. anche P. Martucci, Verso una legge generale per la tutela delle vittime?, in Dir. pen. proc., 2003, p. 1161.
24
In tema si v. L. Iafisco, Nuovo orientamento della Suprema Corte in tema di adesione del difensore alle astensioni dalle udienze e regime della prescrizione: inapplicabili i limiti di durata della sospensione previsti per il legittimo impedimento, in Cass. pen., 2008, p. 4088
ss.; M.L. Di Bitonto, Le Sezioni unite reinterpretano il combinato disposto degli artt. 159 c.p. e 304 c.p.p.: l’astensione collettiva dalle
udienze penali sospende il corso della prescrizione, in Cass. pen., 2002, p. 1316 ss.
25
Ad esempio, si v. il recente d.lgs. 11 febbraio 2015 n. 9, attuativo della Direttiva 2011/99/UE del 13 dicembre 2011 in tema di
ordine di protezione europeo; inoltre, la l. n. 77/2013 sulla ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio di Europa sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nonché la l. 15 ottobre 2013 n. 119.
Sul punto, in chiave critica, v. I. Guerini, Le Sezioni Unite su astensione del difensore e procedimenti camerali a partecipazione facoltativa, diritto al rinvio ed esercizio del diritto di astensione dei difensori delle parti private, cit.
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Procedimento innanzi al giudice di pace, avviso
della richiesta di archiviazione e art. 408, comma 3-bis, c.p.p.
CORTE DI CASSAZIONE,
GOLA
SEZIONE V, SENTENZA 28 MAGGIO 2015, N. 22991 – PRES. LAPALORCIA; EST. LIN-
La nuova disciplina introdotta dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119 è applicabile, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 28 agosto
2000, n. 274, ai procedimenti penali davanti al giudice di pace.
Nel caso di richiesta di archiviazione antecedente l’entrata in vigore della l. n. 119 del 2013, non sussiste un obbligo del giudice di pace di restituire gli atti al pubblico ministero, per consentirgli di procedere alla notifica della richiesta alla persona offesa, atteso che, in considerazione della data di trasmissione della richiesta di archiviazione,
deve escludersi il diritto della parte a ricevere l’avviso e, conseguentemente, il dovere del giudice di pace di sollecitare l’organo di accusa in tal senso.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. C.L. ha impugnato il decreto di archiviazione in data 6 febbraio 2014 del Giudice di pace di Venezia, nel procedimento a carico di S.C., per il delitto di cui all’art. 581 cod. pen.
Il ricorrente, facendo valere la propria qualità di persona offesa dal reato, deduce violazione dell’art.
127 c.p.p., comma 5 e art. 408 c.p.p., comma 3-bis, per essere stata omessa la notifica nei suoi confronti della richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero, pur mancando la richiesta nella denunzia –
querela presentata ai Carabinieri di San Donà di Piave, poiché il reato rientra tra quelli commessi con violenza sulle persone, per i quali la vittima deve essere informata in ogni caso, anche in mancanza di
espressa richiesta; lamenta, pertanto, di essere stata lesa nel suo diritto di proporre opposizione.
2. Il Sostituto Procuratore generale ha concluso per l’infondatezza del ricorso, sia perché l’art. 408,
comma 3-bis sarebbe norma inapplicabile al procedimento davanti al giudice di pace, sia perché la richiesta del pubblico ministero è anteriore all’entrata in vigore della disposizione invocata.
3. Con memoria depositata il 13 febbraio 2015, il difensore della ricorrente, preso atto della richiesta
di rigetto del Sostituto Procuratore generale, insiste per l’accoglimento del ricorso, rilevando che l’art.
408 cod. proc. pen., comma 3-bis è applicabile anche davanti al Giudice di pace, poiché pienamente
com-patibile con il procedimento previsto per tale giudice.
Quanto all’inapplicabilità ratione temporis della disciplina invocata, per essere la richiesta del pubblico ministero anteriore alla novella, si osserva che il giudice di pace avrebbe dovuto invitare il pubblico
ministero a procedere all’avviso imposto dalla nuova norma, per consentire alla persona offesa di esercitare il suo diritto all’opposizione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso va rigettato.
1.1 La ricorrente lamenta la violazione del diritto al contraddittorio, per non avere il pubblico ministero notificato nei suoi confronti la richiesta di archiviazione a norma dell’art. 408 c.p.p., comma 3-bis,
in un procedimento che aveva ad oggetto un reato “commesso con violenza alla persona”.
2. Come è noto l’art. 408 cod. proc. pen., comma 3-bis è stato introdotto dal d.l. 14 agosto 2013, n. 93
(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema
di protezione civile e di commissariamento delle province), in una versione diversa da quella oggi in
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vigore, poiché il diritto per la persona offesa di ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione anche
quando non avesse dichiarato di voler essere informata era limitato al procedimento per il reato di cui
all’art. 572 c.p.
In sede di conversione del decreto legge, con la l. 15 ottobre 2013, n. 119, entrata in vigore il 16 ottobre 2013, il diritto è stato esteso a tutte le vittime di delitti commessi con violenza alla persona.
2.1 La richiesta di archiviazione del Procuratore di Venezia reca la data del 7 agosto 2013 ed è stata
trasmessa al Giudice di pace il 29 agosto 2012; il decreto di archiviazione è intervenuto il 6 febbraio
2014.
2.2 Ciò premesso è indubitabile che il pubblico ministero ha agito correttamente, non provvedendo
alla notifica della richiesta di archiviazione, poiché alla data del 29 agosto l’obbligo riguardava solamente il delitto di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli; va dunque affrontato l’ulteriore rilievo
proposto dal ricorrente con la memoria del 13 febbraio 2015, secondo il quale il giudice di pace avrebbe
dovuto invitare il pubblico ministero a farlo.
2.3 L’assunto è infondato.
Va in primo luogo sciolto il dubbio, sollevato dal Procuratore Generale, dell’applicabilità ai procedimenti innanzi al Giudice di pace della nuova disciplina introdotta dalla L. n. 119 del 2013, poiché il
predetto d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 2 prevede l’estensione delle norme del codice di rito, a meno
che non sia diversamente stabilito.
A giudizio del Collegio non può dubitarsi della compatibilità della norma processuale generale con
il procedimento davanti al giudice di pace: la disciplina dell’avviso per così dire “obbligatorio” è stata
introdotta nel dibattito parlamentare in sede di conversione del decreto legge ed in particolare è stato
approvato dalle Commissioni riunite I e II nella seduta del 1 ottobre 2013, su proposta del relatore della
2^ Commissione (on. F.); lo stesso relatore ha successivamente chiarito, nel dibattito assembleare (Resoconto stenografico dell’Assemblea, seduta n. 90 di giovedì 3 ottobre 2013, pagina 55), che la modifica
normativa (insieme a quelle riguardanti gli obblighi di comunicazione relativi alle misure cautelari e
coercitive e la proroga delle indagini preliminari) rientra in un “novum sistematico all’interno del nostro codice in materia di violenza alle persone”, volto a garantire “l’inizio del riconoscimento di un diritto di partecipazione consapevole della vittima al procedimento penale dell’offeso”, in attesa di una
riforma più organica che valorizzi l’offeso in fase investigativa, in linea con la direttiva 2012/29/UE . In
questa prospettiva la disposizione non può certamente ritenersi incompatibile con il modello processuale riguardante la competenza del Giudice di pace, proprio per il dichiarato carattere generale
dell’innovazione.
2.4 Quanto alla sussistenza di un obbligo del giudice di pace di restituire gli atti al pubblico ministero, per consentirgli di procedere all’adempimento, in considerazione della data di trasmissione della richiesta di archiviazione deve escludersi il diritto della parte a ricevere l’avviso e, conseguentemente, il
dovere del giudice di pace di sollecitare l’organo di accusa in tal senso. Rientrando l’obbligo di notifica
dell’avviso tra i compiti dell’organo di accusa, l’entrata in vigore della disposizione in epoca successiva
alla trasmissione della richiesta al giudice esonera il pubblico ministero da tale obbligo, poiché con la
trasmissione del fascicolo il giudice è investito della cognizione del procedimento.
3. In conclusione il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
[Omissis]
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LUCA DELLA RAGIONE
Magistrato – Tribunale di Torre Annunziata
Dottore di ricerca in “Sistema penale integrato e processo” – Università di Napoli Federico II
La Suprema Corte si pronuncia sull’applicabilità
dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p. al procedimento
davanti al giudice di pace
The Corte di Cassazione rules on the applicability of
paragraph 3-bis of art. 408 Code of Criminal Procedure
the proceedings in the justice of the peace
Con la sentenza in commento la Suprema Corte afferma che il nuovo comma 3-bis dell’art. 408 c.p.p., introdotto
dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, è applicabile, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, ai procedimenti
penali davanti al giudice di pace, non sussistendo ostacoli alla operatività della clausola di rinvio. Si aggiunge così
un nuovo tassello al sempre più imponente riconoscimento dei diritti della persona offesa, fenomeno che sta tuttavia progressivamente mutando la fisionomia stessa del processo penale. Quanto ai profili di diritto intertemporale, la Suprema Corte ha stabilito che nel caso di richiesta di archiviazione antecedente l’entrata in vigore della l. n.
119 del 2013, non sussiste un obbligo del giudice di pace di restituire gli atti al pubblico ministero, per consentirgli
di procedere alla notifica della richiesta alla persona offesa, atteso che, proprio in considerazione della data di trasmissione della richiesta di archiviazione, deve escludersi il diritto a ricevere l’avviso e, conseguentemente, il dovere del giudice di pace di sollecitare l’organo di accusa in tal senso.
With the decision under review, the Supreme Court said that the new paragraph 3-bis of art. 408 Code of Criminal Procedure, introduced by Law no. 119 of 2013, is applicable, pursuant to art. 2, Legislative Decree no. 28 August 2000, n.
274, to the criminal proceedings before the justice of the peace, as there are no obstacles to the operation of the referral clause. It is thus added a new piece to the increasingly impressive recognition of the rights of the injured party in the
criminal proceedings; phenomenon that is however gradually changing the very structure of the criminal trial. As for the
profiles of intertemporal law, the Supreme Court ruled that in the case of demand for storage prior to the entry into
force of Law no. 119 of 2013, there is an obligation of the justice of the peace to return the documents to the public
prosecutor, to allow it to proceed with the notification of the request to the injured party, since, in view of the date on
which the request for dismissal, must exclude the right of persons to receive notice and, therefore, the duty of the
magistrate to request the accusation to that effect.
BREVE INQUADRAMENTO DELLE QUESTIONI
Con la pronuncia in esame, la quinta Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata su taluni significativi aspetti relativi al diritto della persona offesa, vittima del reato di percosse, di ricevere la notifica
della richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero, pur non avendo dichiarato nell’atto
di denunzia-querela di volerne essere informata.
La quaestio iuris nasce indiscutibilmente dalla introduzione ad opera della legge 15 ottobre 2013, n.
119 del comma 3-bis nell’art. 408 c.p.p. in virtù del quale per i delitti commessi con violenza sulle persone, l’avviso della richiesta di archiviazione deve essere in ogni caso notificato a cura del pubblico ministero alla persona offesa.
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Due, in sintesi, gli aspetti attorno ai quali orbita la pronuncia in commento: in primis, la possibilità o meno di estendere l’ambito di operatività di tale nuova disposizione anche al procedimento dinnanzi al giudice
di pace 1; in secondo luogo, la sussistenza o meno di un dovere del giudice di pace di invitare il pubblico
ministero a procedere all’avviso imposto dalla nuova norma, per consentire alla persona offesa di esercitare
il suo diritto all’opposizione, dal momento che, nel caso di specie, la richiesta dell’organo inquirente era stata presentata prima della entrata in vigore della menzionata novella del 2013 2.
Il tutto, però, senza trascurare che nella versione originaria del comma 3-bis dell’art. 408 c.p.p., contenuta
nel decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della
violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), il diritto della persona offesa di ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione anche quando non avesse dichiarato di
voler essere informata, era circoscritto al solo reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi di cui
all’art. 572 c.p.p. Successivamente, in sede di conversione, la evocata legge n. 119 del 2013 ha inteso estendere tale diritto a tutte le vittime di delitti commessi con violenza sulla persona 3.
Non di poco conto la rilevanza della questione, essendo l’omesso avviso alla persona offesa che ne
abbia fatto richiesta sanzionata con la nullità del provvedimento (ex art. 127, 5 comma, c.p.p.) e costituendo il medesimo motivo di ricorso per cassazione avverso l’eventuale decreto di archiviazione per
violazione del contraddittorio 4.
COMPATIBILITÀ DELLA NUOVA DISPOSIZIONE (ART.
DAVANTI AL GIUDICE DI PACE
408, COMMA 3-BIS, C.P.P.) CON IL PROCEDIMENTO
Per la risoluzione del primo quesito, occorre necessariamente prendere le mosse dall’art. 2, d.lgs. 28
agosto 2000, n. 274, il quale prevede l’estensione delle norme del codice di procedura penale e di quelle
di attuazione e di coordinamento del medesimo codice, a meno che non sia diversamente stabilito.
Emerge, con una certa chiarezza, che la scelta del legislatore istitutivo del giudice di pace in materia
penale è stata quella di non creare un modello processuale ex novo, avvalendosi, invece, della tecnica
del rinvio ad altre norme, con il limite dell’applicabilità in concreto. In pratica, tra i due riti esiste un
rapporto di specialità reciproca: entrambi hanno un nucleo di elementi comuni ed una serie di istituti
speciali, funzionali alle esigenze proprie ed alle peculiarità di ciascuno 5. Nel d.lgs. n. 274 del 2000 sono
stati infatti introdotti nel sistema degli istituti che ben potrebbero costituire cospicue parti integranti dei
due codici (sostanziale e processuale), ma che ne rimangono al di fuori, in una posizione definita “privilegiata” rispetto alla tradizionale normativa complementare 6. Il Giudice di pace, infatti, non configura soltanto un giudice “diverso”, ma origina istituti nuovi ben lontani da quelli tradizionali, nella prospettazione della contrazione dei tempi e delle spinte deflative interne, nonché della “composizione”
del conflitto penale, anche in ragione dell’accrescimento dei ruoli dei soggetti privati. L’intero testo è
infatti proteso alla valorizzazione della semplificazione 7 e delle funzioni conciliative del giudice di pa-
1
Per una esaustiva disamina del procedimento davanti al giudice di pace si rinvia a A. Scalfati (a cura di), Il giudice di pace.
Un nuovo modello di giustizia penale, Padova, 2001, passim; G. Ariolli, Giudice di pace, CPP, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, in
Lattanzi-Lupo (a cura di), Milano, 2013, p. 1422 ss.; P. Bronzo, Nuova geografia del giudice di pace, in Cass. pen., 2014, p. 1508 ss.; A.
Marandola, Il procedimento penale innanzi al giudice di pace, in G. Garuti (a cura di)., Modelli differenziati di accertamento, VII (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2013, p. 238 ss.; E. Marzaduri, Procedimento davanti al giudice di pace, in
G. Conso-V. Grevi (a cura di), Compendio di procedura penale, Padova, 2014, p. 1194 ss.; E. Randazzo-L. Randazzo, Il procedimento
innanzi al giudice di pace, Milano, 2013, passim.
2
In argomento, in generale, T. Bene, La persona offesa tra diritto di difesa e diritto alla giurisdizione: le nuove tendenze legislative, in Arch.
pen., 2013, 2, p. 9 ss.; P. Gualtieri, Soggetto passivo, persona offesa e danneggiato dal reato: profili differenziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p.
1070 ss.; S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, in Dir. pen. proc., 8, 2013, p. 881 ss.
3
S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, cit., p. 881 ss.
4
Ex multis vedi Cass., Sez. V, 13 dicembre 2010, n. 1508, in CED Cass. 249085 e Cass., Sez. V, 6 novembre 2008, n. 43754, in
CED Cass. 241675.
5
In tal senso, P. Tonini, Manuale di procedura penale, Ed. XV, Milano, 2014, p. 844 ss.
6
Così P. Pittaro, sub art. 52 d. legisl. 28 agosto 2000, n. 274, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di) Codice di Procedura penale
commentato, 4a ed., Milano, 2011, p. 6966 ss.
7
Nella Relazione di accompagnamento allo schema di d.lg. n. 274/2000, p. 40, si afferma che le caratteristiche di massima semplificazione e speditezza devono plasmare il rito davanti al G.d.P. Parla di «contrazione di tempi e spinte deflative interne» come
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ce, volto a sperimentare gli schemi della mediazione penale 8 e modalità di negoziazione dei conflitti
sociali, all’interno dei quali potranno ricevere adeguata attenzione la posizione e gli interessi della vittima del reato. Quest’ultimo aspetto irradia in larga parte il citato provvedimento legislativo, sorreggendone le scelte più qualificanti, in omaggio alle moderne tendenze protese alla negoziazione dei conflitti sociali, attraverso l’inserimento nel processo penale di dinamiche di risoluzione dei conflitti ispirate – in linea con le sollecitazioni provenienti dai testi e dagli organi sovranazionali – a logiche eterogenee, di tipo conciliativo (art. 29), di tipo deflattivo, risarcitorio o riparatorio (artt. 34 e 35) 9 e di nuovi
meccanismi di attivazione del rito (c.d. ricorso diretto), attraverso i quali, in relazione ai procedimenti
per reati perseguibili a querela, la vittima si emancipa dal ruolo statico e tutto sommato marginale tradizionalmente rivestito all’interno del protocollo ordinario. L’assegnazione di una parte dell’amministrazione della giurisdizione penale al giudice onorario ha comportato – del pari – l’estromissione completa della pena privativa della libertà personale dall’arsenale sanzionatorio, rendendo, del pari, necessaria la predisposizione di un peculiare apparato punitivo. Il d.lgs. n. 274 del 2000, introduce un vera
tipologia di sanzioni che, da un lato, si pone al di fuori della sistematica codicistica ed in una posizione
“privilegiata” rispetto alla consolidata normativa complementare e, dall’altro lato, sfuma la convenzionale ripartizione tra delitti e contravvenzioni che proprio su quella dicotoma riposa: la scelta legislativa,
chiarisce la Relazione di accompagnamento al decreto, è soprattutto «la spia di un’attenuazione della
pretesa punitiva di matrice pubblicistica», evidenziando lo sforzo di «recuperare la dimensione rieducativa della pena e di favorire soluzioni che muovono verso la reintegrazione dell’offesa, piuttosto che
verso una mera afflittività», secondo logiche che ben si conformano alla giustizia di prossimità. Se la
dottrina non manca di censurare l’opzione legislativa che pare fondata più che sui giudizi di disvalore,
sulle caratteristiche del procedimento e dell’organo giurisdizionale competente 10, creando, così delle
possibili sperequazioni, i nuovi istituti per il legislatore del 2000 hanno rappresentato un terreno di verifica per una loro possibile mutuazione in seno al procedimento ordinario; non si è mancato, tuttavia,
di sottolineare lo scarso rilievo rappresentato 11 dalle pratiche di mediazione e le tecniche di giustizia riparatoria e la necessità di operare una progressiva valorizzazione e professionalità del giudice non togato.
All’interno dell’art. 2, d.lgs. n. 274 del 2000, rubricato “Principi generali”, si stabilisce, come accennato, un generico rinvio “formale” alla disciplina codicistica per tutto quanto non venga espressamente
regolato dal d.lgs. n. 274 del 2000. La tecnica del rinvio è stata stigmatizzata, in quanto, pur ammettendo – sempre nell’ottica della accelerazione e della efficienza – l’esigenza di varare un procedimento
semplificato, resta il fatto che vincolato entro i limiti della “compatibilità” dell’istituto ordinario con i
canoni e caratteri cui è improntato il rito de quo, si rende non sempre facile l’attività esegetica; il richiamo è stato fortemente censurato atteso che alcune delle garanzie fissate in quel testo mal si conformano
al nuovo modello della microgiurisdizone 12; in secondo luogo, l’art. 2 stabilisce l’espressa inapplicabilità di una serie di istituti afferenti alla libertà personale (quali, l’arresto in flagranza, fermo di indiziato
di reato e misure cautelari personali), che mal si conciliano con le connotazioni della cognizione affidata
ad giudice non professionale e conciliatore 13; in terzo luogo, è interdetta l’applicazione delle norme relative all’udienza preliminare, all’incidente probatorio, alla proroga della durata delle indagini, in
quanto oggetto di una specifica e diversa disciplina, resasi necessaria al fine di armonizzare gli istituti
de quibus con i criteri forniti dal legislatore delegante; infine, la natura e la modesta gravità dei reati,
nonché il carattere “mite” delle sanzioni ma, soprattutto, la particolare attenzione dedicata al soggetto
passivo del reato rende inapplicabili i procedimenti speciali contemplati nel Libro VI del codice di rito,
secondo una scelta avallata dai giudici delle leggi 14. Il decreto contempla, invece, al di là dell’oblazione,
una delle tre principali linee di tendenza che hanno ispirato il nuovo sistema di giustizia, A. Scalfati, Un giudice onorario per una
giustizia (attualmente) minore, in Cass. pen., 2005, p. 2807.
8
In dottrina, v., in particolare, E. Marzaduri, Procedimento penale davanti al giudice di pace, cit., p. 1085.
9
G. Ubertis, Riconciliazione, processo e mediazione in ambito penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 1321 ss.
10
E. Marzaduri, Procedimento penale davanti al giudice di pace, cit., p. 1127.
11
A. Marandola, Il procedimento penale innanzi al giudice di pace, cit., p. 238 ss.
12
Su tale aspetto, v. le forti critiche formulate da A. Giarda, Principi e regole del procedimento, in A. Scalfati (a cura di), Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 69.
13
E. Marzaduri, Procedimento penale davanti al giudice di pace, cit., pp. 1087-1088.
14
C. Cost., ord., 8 giugno 2005, n. 228, in Dir. pen. proc., 2005, p. 820. In senso critico sulla scelta non affatto scontata di escludere i riti speciali v. E. Marzaduri, Procedimento penale davanti al giudice di pace, cit., p. 1088.
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specifici meccanismi alternativi quali la conciliazione, l’improcedibilità per tenuità del fatto e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatore, che ben si conformano alla vocazione conciliativa del
giudice non professionale.
In definitiva, se da un lato è pacifico, in quanto espressamente stabilito, che tale disposizione esclude
l’applicabilità di una serie di istituti ritenuti ex lege incompatibili con il processo davanti al giudice di
pace, quali l’incidente probatorio, l’arresto in flagranza e il fermo di indiziato di delitto, le misure cautelari personali, la proroga del termine per le indagini, l’udienza preliminare, il giudizio abbreviato,
l’applicazione della pena su richiesta, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato ed il decreto penale
di condanna 15, dall’altro lato nessun valido motivo sembra poter legittimare una esclusione del nuovo
comma 3-bis dell’art. 408 c.p.p.
La Suprema corte, infatti, nell’affermare la piena compatibilità del c.d. “avviso obbligatorio” con
l’impianto normativo del d.lgs n. 274 del 2000, ha riportato nella pronuncia in commento, alcuni significativi ed interessanti passaggi del dibattito parlamentare che ha preceduto la riforma in questione.
È stato in quella sede affermato che tale modifica rientra in un «novum sistematico all’interno del nostro codice in materia di violenza alle persone», volto a garantire «l’inizio del riconoscimento di un diritto di partecipazione consapevole della vittima al procedimento penale dell’offeso», in attesa di una
riforma più organica che valorizzi l’offeso in fase investigativa, in linea con la direttiva 2012/29/UE.
Ciò significa che, se la ragione che ha spinto il legislatore ad intervenire sull’art. 408 c.p.p. è la valorizzazione del ruolo e della posizione della vittima nel procedimento penale, nessun dubbio sembra
profilarsi sulla dilatazione dell’ambito di applicabilità del comma 3-bis anche al procedimento dinnanzi
al giudice di pace.
Peraltro, tale assunto trova assoluto conforto anche nella stessa struttura del procedimento davanti
al giudice di pace, in cui, come visto, al fine di assicurare una maggiore tutela alla vittima del reato, si
prevedono sia meccanismi di tipo risarcitorio o riparatorio/conciliativo, trasfusi negli istituti della
esclusione della procedibilità per la particolare tenuità del fatto ed estinzione del reato conseguente a
condotte riparatorie, sia istituti processuali volti a superare il ruolo statico in cui è relegata la persona
offesa, consentendole, in relazione ai procedimenti per reati perseguiti a querela, di proporre ricorso
immediato al giudice di pace e di impugnare la sentenza, anche gli effetti penali 16.
POTERI DEL GIUDICE: APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA RATIONE TEMPORIS
La seconda questione presa in esame dai giudici di legittimità attiene, come già anticipato, alla esistenza o meno di un obbligo a carico del giudice di restituire gli atti all’organo inquirente affinché quest’ultimo provveda a notificare la sua richiesta di archiviazione all’offeso dal reato.
A differenza di quanto è accaduto per il primo quesito, la conclusione a cui giunge la Suprema corte
è quella della mancanza di un obbligo a carico del giudice di sollecitare il magistrato inquirente a procedere a tale adempimento.
Stando a quanto si evince nella parte motiva della pronuncia in commento, l’obbligo di notificare
l’avviso rientra tra i compiti del pubblico ministero e, nel caso di specie, l’entrata in vigore della disposizione in epoca successiva alla trasmissione della richiesta al giudice esonera l’organo dell’accusa da
tale obbligo, dal momento che con la trasmissione del fascicolo il giudice è investito della cognizione
del procedimento.
La soluzione offerta sul punto dalla Suprema Corte si colloca in sintonia con le posizioni espresse
dalla dottrina maggioritaria in materia di applicabilità della nuova norma processuale penale ai procedimenti in corso 17. Ed invero, nel caso in cui la nuova legge processuale penale non rechi alcuna previsione circa i rapporti giuridici pendenti al momento della sua entrata in vigore, non è dato riscontrare
15
I casi di esclusione segnalati sono dovuti alla particolare natura del processo davanti al giudice di pace. In questa prospettiva, l’arresto in flagranza ed il fermo di indiziato di delitto, le misure cautelari coercitive ed il giudizio direttissimo mal si conciliano con una giurisdizione di tipo “bagatellare” che prevede l’applicazione di sanzioni a prevalente carattere pecuniario o sostitutivo o comunque meno afflittive. In altri casi, l’espressa esclusione si fonda sulla differente disciplina che in tale tipo di processo rinvengono istituti analoghi, quali l’incidente probatorio e la proroga del termine per le indagini.
16
A. Marandola, Il procedimento penale innanzi al giudice di pace, cit., p. 238 ss.
17
Per tutti, O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, Milano, 1999, passim.
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una lacuna nel sistema, poiché vale il principio di irretroattività sancito dall’art. 11 disp. prel. c.c., che
viene considerato uno dei principi generali, validi in tutte le branche dell’ordinamento giuridico. Ai
sensi dell’art. 11 disp. prel. «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo».
Tale disposizione può essere letta sotto due profili simmetrici: da un lato, sancisce l’efficacia immediata
della nuova disciplina; da un altro lato, ne prevede la irretroattività. La norma appena citata, riportata
alla materia processuale, è condensata nel tempus regit actum 18.
Si è al cospetto, tuttavia, di una formula eccessivamente sintetica, che è stata da sempre oggetto di
accese discussioni circa la corretta definizione dei concetti di tempus e di actus.
Con riferimento al sistema processuale del codice Rocco, si è sostenuto che la ultrattività o la retroattività della legge processuale penale dovesse essere valutata in relazione al compimento degli atti processuali che le norme processuali sono chiamate a regolare, e non in relazione alla commissione del reato. In altri termini, dato che «si ha successione di norme giuridiche quando un fatto o un rapporto viene
ad essere regolato da una nuova norma», per applicare esattamente il principio tempus regit actum, occorrerebbe tener presente che il tempo di applicazione della legge processuale penale non è il tempo
della commissione del reato bensì il “tempo del processo” 19. A questo proposito si è posto in dubbio
che il principio tempus regit actum sia applicabile agli atti processuali penali, osservando che, se così fosse, dovendosi intendere per “actus” l’intero processo, quest’ultimo risulterebbe regolato dalle norme
vigenti al momento della sua instaurazione 20. Il principio adottato per la successione delle norme processuali penali, si soggiunge, è, invece, quello dell’efficacia immediata della norma posto che la nuova
legge processuale deve applicarsi a tutti i processi in corso al momento della sua entrata in vigore.
Ora, al fine di identificare l’esatta portata del brocardo “tempus regit actum”, occorre confrontarsi con
un’idea dell’actum identificato dal singolo atto o fatto processuale ed, inoltre, con il suo porsi in termini
di ‘autonomia’ rispetto agli altri atti di quel medesimo processo 21. Utile, al riguardo, la tradizionale distinzione elaborata in dottrina 22 tra ‘atti processuali a carattere istantaneo’ ed ‘atti processuali a carattere non istantaneo’: mentre per i primi non sorgono particolari difficoltà applicative circa l’operatività
del principio tempus regit actum, per i secondi la questione si pone in termini più problematici visto che
si ha a che fare con attività processuali che richiedono per il loro compimento un certo lasso di tempo
ovvero che, seppur di esecuzione istantanea, comportano, a favore del soggetto che ha diritto di esercitarle, un ius deliberandi entro termini più o meno lunghi.
Distinzione che in taluni casi è stata ripresa in giurisprudenza ove, ai fini della successione di leggi
processuali nel tempo, si è distinto tra due specie di atti: quelli che si esauriscono nel loro compimento
e quelli che hanno carattere strumentale rispetto ad una successiva attività del procedimento 23.
In definitiva, con actus deve intendersi ciascun atto o fatto processuale, nonché i relativi effetti e sotto tale aspetto appare condivisibile l’assunto della sentenza in commento secondo cui, con la trasmissione del fascicolo, il P.M. si spoglia dei suoi poteri e il giudice è investito della cognizione – vale a dire
di un altro actus – del procedimento.
Venendo al tempus, conseguentemente, dovrebbe intendersi il momento nel quale l’atto si è perfezionato. Ma occorrono delle precisazioni. Posto che, come si è detto, actum non è l’intero processo, né
una sua fase o grado, bensì il singolo atto, occorre fare i conti con la presenza di una molteplicità di tipi
di atto all’interno del processo 24: quelli che esauriscono la loro portata nel momento stesso del compimento e quelli i cui effetti si prolungano nel tempo incontrando, poi, un vaglio giurisdizionale, necessario ed idoneo affinché l’atto esplichi i propri effetti (si pensi all’atto probatorio ed alla sua utilizzabilità).
Nel primo caso non appare dubbio che tra due norme che si susseguono nel tempo, sarà la prima
l’unico e solo riferimento normativo per valutare la legittimità dell’atto compiuto, a meno che una
18
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 23 ss.
19
G. Conso, Il problema delle norme transitorie, in Giust. pen., 1989, III, 130, p. 129 ss.
20
G. Conso, Il problema delle norme transitorie, cit., p. 129 ss.
21
G. Lozzi, La successione delle leggi processuali penali nel tempo e le disposizioni transitorie del nuovo codice di procedura penale, in
AA.VV., Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1990, p. 75.
22
M. Chiavario, Norma (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1978, p. 480.
23
Così, con riguardo ad atti del procedimento probatorio, Cass., sez. un., 25 febbraio 1998, in Giur. it., 1999, p. 1034 ss.; Cass.,
sez. un., 13 luglio 1998, in Cass. pen., 1999, p. 123 ss., entrambe rilevando che il principio tempus regit actum in materia di inutilizzabilità della prova debba essere riferito al momento della decisione e non a quello dell’acquisizione.
24
M. Montagna, Tempo (Successione di leggi nel) (Dir. proc. pen.), in Dig. pen., Agg. 2008, p. 342 ss.
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esplicita previsione transitoria assicuri la forza retroattiva della nuova regola che, solo in questo caso,
potrà incidere sull’efficacia dell’atto già compiuto. Diverso è il caso di un atto delle parti che non si
esaurisce nel suo compimento, ma si protrae nel tempo quanto ad effetti e che deve incontrare un successivo controllo del giudice. In tale ipotesi, l’interrogativo da dirimere concerne l’individuazione della
norma cui il giudice dovrà attenersi nel valutare legittimità ed efficacia di quell’atto precedentemente
compiuto dalle parti. Si ritiene che, in questo caso, il giudice dovrà valutare la presenza dei necessari
requisiti oggettivi e soggettivi, nonché la spettanza a compiere quell’atto, in base alla legge vigente al
momento del compimento dell’atto stesso e non in base alle regole valide per la fase di valutazione dello stesso. Ne consegue, che gli atti regolarmente posti in essere secondo la legge dell’epoca del compimento, una volta sottoposti al vaglio giurisdizionale, non potranno essere inficiati dal sopravvenire di
nuove e diverse regole operative, sempre che un’espressa disposizione transitoria non lo preveda 25.
D’altro canto, questo tipo di lettura dei principi intertemporali che regolano la successione di norme nel
tempo non sembra tenere conto del legame indissolubile che talvolta lega l’atto ‘iniziale’ ai suoi ‘effetti’
finali, prodottisi a distanza di tempo.
Sulla base dell’impostazione proposta da attenta dottrina 26, le situazioni processuali potrebbero essere
così sintetizzate: a) atti futuri; b) atti già compiuti e ‘istantanei’, vale a dire i cui effetti si sono già esauriti;
c) atti in corso di compimento; d) atti compiuti ma non istantanei, con effetti non ancora esauriti.
Per le prime due categorie, non pare vi siano dubbi circa l’individuazione della regola applicabile in
caso di successione di norme. Nel primo caso, varrà lo ius novum, nel secondo – tra i quali rientra il caso
esaminato dalla Suprema Corte – la normativa vigente al momento in cui quegli atti furono compiuti. Più
articolate le altre due situazioni che, in quanto tali, richiedono una specifica ponderazione tra quelle due
contrapposte esigenze che nella successione di leggi nel tempo trovano il loro terreno elettivo di scontro:
da un lato, l’immediata operatività delle nuove regole e, di conseguenza, delle ragioni che hanno improntato e determinato la novella legislativa; dall’altro lato, il rispetto e la salvaguardia per l’affidamento fatto
dalle parti sugli atti compiuti nel vigore della vecchia normativa, unitamente al principio di conservazione di quegli atti. La scelta tra queste due opzioni non è mai neutrale. Di volta in volta, la scelta compiuta
dal legislatore in sede di redazione della disciplina transitoria ovvero quella operata dall’interprete in
mancanza di norme transitorie, può portare a far prevalere un interesse diverso.
Concludendo, adottando come parametro il momento di entrata in vigore della nuova disciplina, si
arriverà alla conclusione che gli atti, i cui effetti si siano ormai esauriti, come è accaduto nel caso di specie, saranno regolati dalla disciplina previgente; gli atti ancora da compiere saranno regolati dalla nuova disciplina; gli atti complessi, non ancora perfezionati, ricadranno sotto la nuova disciplina.
L’assunto non cambia anche laddove dovesse sostenersi che in caso di modifica della legge processuale dovrebbe, di volta in volta, verificarsi rispetto all’effettività dei diritti di difesa dell’indagato/imputato, con la conseguenza che se la situazione giuridica soggettiva protetta sottesa all’atto che la
lex posterior potrebbe ferire è maggiormente garantita rispetto a quanto non lo fosse vigente la lex previa,
si dovrebbe applicare la normativa più favorevole; nel caso di specie, invero, non viene in rilievo alcun
pregiudizio per i diritti dell’indagato.
LA METAMORFOSI FISIOGNOMICA DEL PROCESSO PENALE: IL NUOVO RUOLO DELLA VITTIMA
La sentenza in questione offre lo spunto per soffermarsi su uno dei temi più discussi e problematici degli ultimi tempi: quello della metamorfosi della fisionomia del processo penale a causa del nuovo ruolo
che si sta ritagliando la persona offesa 27.
È innegabile che con la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre
25
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 124 ss.
26
M. Montagna, Tempo (Successione di leggi nel) (Dir. proc. pen.), cit., p. 342 ss.
27
In generale, sulla persona offesa si vedano A. Aimonetto, Persona offesa dal reato, in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, p. 318
ss.; F. Antolisei, L’offesa e il danno nel reato, Bergamo, 1930; T. Bene, La persona offesa tra diritto di difesa e diritto alla giurisdizione: le
nuove tendenze legislative, in Arch. pen., 2013, 2, p. 9 ss.; A. Giarda, La persona offesa dal reato nel processo penale, Milano, 1971, p. 5
ss.; P. Gualtieri, Soggetto passivo, persona offesa e danneggiato dal reato: profili differenziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1070 ss.; S.
Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, in Dir. pen. proc., 8, 2013, p. 881 ss.; C. Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 3 ss.; G. Spangher-L. Picotti, Verso una giustizia penale
conciliativa. Il volto della legge sulla competenza penale del giudice di pace, Milano, 2002, p. 23 ss.
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2012 che ha preso il posto della decisione quadro 2001/220/GAI, si è inteso valorizzare ruolo e peso
della vittima nella vicenda penale, istituendo norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
All’art. 2, tale direttiva definisce “vittima” la persona fisica che ha subito un danno, anche fisico,
mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato; un familiare
di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte della persona.
Ma entrando in medias res, oltre a potenziare il ruolo dell’offeso, la direttiva in questione tutela il diritto della vittima ad ottenere informazioni sul proprio caso, riconoscendole il diritto di ricevere, senza
ritardo, informazioni e aggiornamenti sul procedimento penale sorto a seguito della denuncia, così da
poter essere messa nella condizione di poter prendere, in piena consapevolezza, le decisioni in merito
alla sua partecipazione alla vicenda penale.
Come ben evidenziato in dottrina, tale direttiva prescrive agli Stati membri obblighi di adeguamento
che, se attuati fino in fondo, sono in grado di promuovere da semplice comparsa a protagonista della
scena processuale la vittima, finora ospite poco gradito della contesa tra accusa e difesa 28.
Trattandosi di provvedimento avente forma di direttiva, esso è vincolante per gli Stati cui è rivolta
quanto al «risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla
forma e ai mezzi» adottati (art. 288, comma 3, TFUE). Si prescrive un obbligo di risultato, ma la direttiva non ha efficacia diretta all’interno di ciascun ordinamento. Ciò nonostante, essendo essa fonte comunitaria, genera un obbligo di interpretazione conforme per i giudici nazionali e, soprattutto, fa sorgere la responsabilità dello Stato inadempiente per i danni provocati ai singoli a causa di una manifesta
violazione dei diritti in essa sanciti, assumendo così una rilevanza indiretta ma pregnante nell’ordinamento interno.
In sostanza, così facendo si finisce con il ribaltare i tradizionali assetti triadici del processo penale,
fondati sulla dialettica pubblico ministero-imputato-giudice.
A ben guardare, una forte sensibilità per i diritti della vittima, sempre in ambito di normativa europea, si è registrata anche prima della evocata direttiva, con la Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre
2007 per la protezione di minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale.
È così che, in un certo qual modo, sul versante sovranazionale è stato imposta allo Stato italiano una
vera e propria rivisitazione dello “statuto processuale della vittima” che fosse in linea con le nuove indicazioni provenienti dalla normativa europea.
Tale messaggio, peraltro, sembra essere stato ben recepito dal nostro legislatore e ne costituiscono
prova tanto l’emanazione della l. n. 172 del 2012 29 che – allo scopo di fronteggiare tutte le forme di manifestazione del fenomeno della pedofilia – ha dato attuazione alla già menzionata Convenzione di
Lanzarote, quanto più di recente la introduzione del nuovo procedimento speciale della sospensione
con messa alla prova contenente prescrizioni di natura riparatoria o risarcitoria e di riconciliazione con
la persona offesa. 30 Questo cambiamento di rotta si percepisce ancor più chiaramente dalla recentissima
introduzione dell’art. 131-bis c.p. contenente una nuova causa di non punibilità per particolare tenuità
del fatto ad opera del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (l. 28 aprile 2014, n. 67) 31. Anche in questa occasione, il
28
Così, S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, cit., p. 881 ss., secondo cui
«azione continua e inarrestabile dell’Unione europea, la cui spinta a riconsiderare i gangli del processo penale leggendone le
dinamiche con gli occhi della vittima, naturalmente speculari a quelli dell’imputato il cui sguardo si è posato – con residuali e
circoscritte variazioni sul tema – sull’agone processuale per circa mezzo secolo quale faro predominante, se non unico, del legislatore, complici una Carta fondamentale ‘rivoluzionaria’ da rendere effettiva e un codice di rito figlio, come il fratello maggiore
dedicato al reato ed alle pene, di uno Stato autoritario».
29
Per una visione d’insieme sulla Convenzione di Lanzarote si rinvia a C. Santoriello, La presenza dell’esperto nell’esame testimoniale del minore: dalla Convenzione di Lanzarote alla confusione del legislatore italiano, in Arch. pen., 2013, p. 65; A. Zampaglione, Il
divieto di rivolgere domande suggestive al teste minorenne ed il suo ambito di applicabilità, in Dir. pen. proc., 2013, p. 1234 ss.
30
Quanto affermato meglio si comprende se si volge lo sguardo ad altri due procedimenti speciali: quelli del giudizio abbreviato e della applicazione della pena su richiesta delle parti. La persona offesa nel primo assume un ruolo assolutamente
marginale e nel secondo viene completamente esclusa.
31
Per approfondimenti sull’innovativo istituto di recente introduzione si veda G. Amarelli, L’esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto, in Studium iuris, 2015, p. 1 ss. del dattiloscritto; R. Bartoli, L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, p. 659 ss.; A.R. Castaldo, La non punibilità per particolare tenuità del fatto: il nuovo art. 131 bis
c.p., in AA.VV, Trattato di diritto penale. Parte generale e speciale. Riforme 2008-2015, p. 112 ss.; A. Marandola, La sospensione del pro-
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legislatore non ha assolutamente trascurato il ruolo della vittima nel processo penale introducendo
nell’art. 411 c.p.p. il comma 1-bis in virtù del quale tale soggetto, da un lato, ha il diritto a ricevere
l’avviso della richiesta del pubblico ministero, di prendere visione degli atti e di presentare opposizione
e, dall’altro, se la opposizione non è inammissibile, ad essere sentito prima che il giudice decida con ordinanza.
Provando a svolgere qualche ulteriore considerazione sul tema, va rilevato che il nostro sistema processuale penale pare si stia dirigendo proprio verso un modello di “giustizia riparativa” basata essenzialmente sul contatto comunicativo tra autore e vittima del reato. Del resto, un confronto tra autore e
vittima con il coinvolgimento ed il supporto della comunità non è un qualcosa di sconosciuto alla nostra società.
Nella medesima prospettiva, sembra collocarsi anche la più volte citata direttiva 2012/29/UE che ha
definito “giustizia riparativa” «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di
partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal
reato con l’aiuto di un terzo imparziale».
In tale prospettiva, il fenomeno criminoso va letto non solo come trasgressione di una norma e lesione (messa in percolo) di un bene giuridico, ma come evento giuridico che provoca la rottura di aspettative e legami sociali simbolicamente condivisi che richiede l’adoperarsi per la ricomposizione del conflitto e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo.
Se questa è la tendenza a cui il nostro Paese è tenuto ad allinearsi, allora si potrebbe addirittura immaginare una mediazione penale, potendo le esigenze di prevenzione speciale integrarsi con quelle di
concreto supporto alla vittima attraverso l’attuazione di programmi, improntati a favorire una riconciliazione tra la vittima ed il colpevole.
Nel suo complesso la mediazione può definirsi come un’attività in cui una parte terza e neutrale aiuta due o più soggetti a capire il motore, l’origine di un conflitto che li oppone, a confrontare i propri
punti di vista e a trovare soluzioni, sotto forma di riparazione simbolica, prima ancora che materiale.
Ma non può trascurarsi che esistono strumenti di giustizia riparativa contrassegnati da una componente compensativo-riparatoria nei confronti della vittima. Nella gestione del conflitto viene esaltato il
valore del risarcimento del danno, inteso come impegno serio e concreto dell’autore del reato.
In definitiva, in quest’ottica il reato viene considerato non soltanto come un fatto socialmente dannoso ma anche come una violazione dei diritti individuali della vittima, questi ultimi contrapposti senza giri di parola ai consolidati diritti individuali dell’imputato. Tale assunto investe tuttavia il nocciolo
duro della concezione liberale del processo e della giustizia penale, tutta incentrata sulla contrapposizione tra autorità e libertà e, dunque, sull’argine normativo da erigere e contrapporre all’intrusione nella sfera privata dell’individuo, che si trovi – suo malgrado – ad essere coinvolto in un processo penale,
della sfera pubblica, del potere costituito. Le conquiste dell’Illuminismo non vengono di certo rinnegate, ma “relativizzate” perché indotte a fare i conti con le esigenze della vittima del reato le cui aspettative riflettono – a livello individuale – le istanze di sicurezza pubblica della collettività. Ed ecco allora che
si sviluppa una nuova concatenazione necessaria: “reato-sicurezza pubblica-tutela della vittima del reato”, che si affianca alla consueta dinamica obbligata “reato-processo penale-tutela dell’imputato” 32.
Tutt’altro che remoto, dunque, è il rischio di sovvertire i consolidati rapporti di cui vive e si alimenta
il processo penale, gli equilibri faticosamente raggiunti tra attori, protagonisti e semplici comparse che
si muovono sulla scena processuale seguendo una linea sottile ma costante di rafforzamento dei diritti
conferiti all’imputato, nella sua qualità di “vittima” del congegno giudiziario 33.
cedimento con messa alla prova. La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica
criminale, in Dir. pen. proc., 2015, p. 659 ss.; C.F. Grosso, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, p.
517 ss.
32
Così, S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, cit., p. 881 ss., il quale pone
l’interrogativo: «siamo di fronte a relazioni pericolose ma tra loro compatibili, o invece l’una esclude l’altra, suscitando l’immissione
dell’inedito stilema inevitabili crisi di rigetto nell’organismo giudiziale abituato ai blandi e rassicuranti ritmi dell’italico garantismo processuale?».
33
Per questo ordine di idee, cfr. S. Lorusso, Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel processo penale?, cit.,
p. 881 ss.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | I POTERI ISTRUTTORI DEL GIUDICE PENALE
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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PAOLA MAGGIO
Ricercatore di Procedura penale – Università degli Studi di Palermo
I poteri istruttori del giudice penale
tra interpretazioni consolidate e nuovi limiti
dettati dal principio della “parità delle armi”
The investigative powers of criminal judges between established
interpretations and new limits dictated by the principle of the
“equality of arms”
Gli ampi poteri probatori riconosciuti al giudice dall’art. 507 c.p.p. costituiscono l’esito di un’opera interpretativa di
bilanciamento, nel segno della ragionevolezza, tra il principio dispositivo, il fine dell’accertamento della verità e
l’obbligo dell’imparzialità del giudice.
Oltre al “diritto alla prova contraria”, quale strumento utile a ricondurre a equità il processo, si segnala fra i correttivi più recenti l’utilizzo del principio della “parità delle armi”, destinato a fungere da valido antidoto sistematico verso eventuali “abusi” del potere istruttorio finalizzati a eludere il regime dell’utilizzabilità degli atti processuali.
The wide evidential power available to judges established as a consequence of constant balanced interpretive
work, in the name of reasonableness, between the principle system, with the purpose of ascertaining the truth
and the obligation of a judge’s impartiality.
In addition to the right “evidence to the contrary”, which is a useful tool in bringing impartiality to the process, it
indicates between the most recent corrective application of the principle of ‘equality of arms’, intended to act as
an effective antidote against possible ‘abuses’ of investigative powers ex art. 507 c.p.p. which are designed to
evade the system of the usability of documents in court proceedings.
LA PREVISIONE ORIGINARIA E LE PRIME SOVRASCRITTURE DELLE PRASSI
Secondo le indicazioni fornite dai codificatori 1, i poteri probatori ex officio avrebbero dovuto rivestire
un ruolo «residuale e suppletivo rispetto alla carenza d’iniziativa delle parti» all’interno della complessiva fisionomia accusatoria del dibattimento. Invero, muovendo dal punto n. 73, l. delega 16 febbraio
1987, n. 81, il legislatore delegato rimarcava soprattutto la “presunzione di completezza” insita nell’operato delle parti 2 e confermava anche la sussistenza del potere di intervento officioso modulato da indicazioni legislative tassative fortemente inibenti le duplicazioni o le letture analogiche delle disposizioni sulla titolarità della prova 3 in forza della riserva di legge contenuta nell’art. 190, comma 2, c.p.p.
Su queste basi, l’enunciato dell’art. 507 c.p.p. scandisce processualmente il ruolo subalterno del giudice nelle iniziative probatorie e consente all’organo giudicante una «garbata intrusione» sul terreno
1
Rel. prog. prel. c.p.p., in G. Conso-V. Grevi-G. Neppi Modona (a cura di), Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega
ai decreti delegate, Padova, 1990, III, p. 642.
2
E. Fassone, Giudice-arbitro, giudice-notaio o semplicemente giudice, in Questioni giustizia, 1989, p. 596.
3
H. Belluta, Premesse per uno studio sui poteri istruttori dell’organo giudicante, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 1213; Id., Imparzialità del giudice e dinamiche probatorie ex officio, Torino, 2006, p. 57.
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della prova 4, per non paralizzare del tutto l’accertamento dei fatti, in sintonia con lo scopo proprio del
processo.
Tale innegabile prospettata residualità sistematica ha dovuto subito confrontarsi con l’antitetica tendenza manifestata dalla prassi “onnivora” ed “erosiva” del principio dispositivo. A causa di fattori
complessi e differenziati il “massimalismo” accusatorio della prima impostazione codicistica aveva infatti provocato un vero e proprio “trauma culturale” negli operatori del diritto: la diffidenza dei giudici,
avvezzi al dominio probatorio nel precedente sistema processuale faceva sì che, pur a fronte di categorie nuove e inconsuete, si continuassero a reclamare spazi istruttori sempre più ampi 5.
Sin dalle primissime fasi di applicazione del codice del 1988 si registrava una contrapposizione tra
l’indirizzo ‘‘estensivo’’ che giustificava l’effettuazione di un intervento giudiziale, pure in assenza di
iniziative di parte 6, e uno ‘‘restrittivo’’ che inibiva invece iniziative istruttorie autonome 7, tanto che un
primo, celebre, intervento risolutore delle sezioni unite 8 aveva tentato di pacificare il conflitto in una
prospettiva di contemperamento fra le garanzie delle parti e l’esigenza di un accertamento plausibile
dei fatti 9.
Le Sezioni unite, in particolare, riferivano il potere di assunzione di un mezzo di prova ex officio anche
alle prove per le quali le parti erano decadute, interpretando la locuzione «terminata l’acquisizione delle
prove», contenuta nell’art. 507 c.p.p., nel senso che il potere suppletivo potesse essere esercitato in assenza
di attività probatoria delle parti, posto che il tempus indica soltanto il momento a seguito del quale il giudice può disporre l’assunzione di nuove prove e non funge da presupposto per tale esercizio.
A tale ricostruzione aderiva di lì a poco la Corte costituzionale 10, dichiarando infondate le questioni
di legittimità dell’art. 507 – nonché dell’art. 468 c.p.p. – sollevate in relazione agli artt. 2, 3, 24, 101, 111 e
113 Cost., sull’erroneo assunto che le condizioni alle quali la normativa processuale subordinava il potere di acquisire d’ufficio nuovi mezzi di prova fossero da intendere nel senso che questo potere non
potesse essere esercitato né nell’ipotesi in cui da tali prove le parti fossero decadute per la mancanza o
la tardiva indicazione dei testimoni nella lista, né nel caso in cui non vi fosse, a iniziativa di esse, una
qualunque attività probatoria.
Lette all’unisono, le indicazioni delle Sezioni unite e della Consulta hanno generato reazioni contrastanti apparendo talvolta come un assoluto tradimento dell’effige accusatoria del sistema 11, ovvero, in
prospettiva diversa, confermando la compatibilità del potere istruttorio giudiziale con il sistema positivo e con l’assetto costituzionale 12.
4
Secondo P.P. Paulesu, Giudice e parti nella “dialettica” della prova testimoniale, Torino, 2002, p. 260, la previsione è del tutto
congrua rispetto al principio dispositivo; analoghe posizioni si rinvengono in A. Nappi, L’art. 507: un eccessivo self-restraint giurisprudenziale, in Cass. pen., 1991, p. 774.
5
Su questi aspetti si sofferma T. Rafaraci, I poteri del giudice nell’istruzione dibattimentale, in Indice pen., 2010, p. 113. A. Scalfati,
La procedura penale, la retroguardia autoritaria e le compulsioni riformiste, in Dir. pen. proc., 2009, p. 937, sottolinea le serpeggianti resistenze della magistratura ad accettare i cambiamenti del codice del 1988.
6
Cfr., tra le altre, Cass., sez. II, 10 ottobre 1991, n. 11057, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 1199.
7
Cass., sez. III, 3 dicembre 1990, n. 30, in Cass. pen., 1991, p. 495; Cass., sez. III, 18 dicembre 1991, n. 1072, in Arch. n. proc.
pen., 1992, p. 229.
8
Cass., sez. un., 6 novembre 1992, n. 11227, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 822 ss., con nota di L. Marafioti, L’art. 507 c.p.p. al
vaglio delle Sezioni unite: un addio al processo accusatorio e all’imparzialità del giudice dibattimentale; in Cass. pen., 1993, p. 1370 ss., con
nota di A. Bassi, Principio dispositivo e principio di ricerca della verità materiale: due realtà di fondo del nuovo processo penale, in Riv. dir.
proc., 1993, p. 1268 ss. Secondo le Sezioni unite il giudice può disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche quando non
sia avvenuta prima alcuna acquisizione probatoria, per il mancato deposito della lista dei testimoni da parte del pubblico ministero.
9
M. Iacoviello, Processo di parti e poteri probatori del giudice, in Cass. pen., 1993, p. 286.
10
C. cost., sent. 24 marzo 1993 n. 111, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1057, con nota di P. Ferrua, I poteri probatori del giudice
dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale; nonché in Giur. cost., 1993, p. 914 ss., con nota
di G. Spangher, L’art. 507 c.p.p. davanti alla Corte costituzionale: ulteriore momento nella definizione del “sistema accusatorio” compatibile con la Costituzione.
11
E. Amodio, Rovistando tra le macerie della procedura penale, in Cass. pen., 1993, p. 2942; A. Giarda, “Astratte modellistiche” e
principi costituzionali del processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 889; L. Marafioti, L’art. 507 c.p.p., cit., p. 829.
12
P. Ferrua, I poteri probatori del giudice dibattimentale, cit., p. 1065, evidenziava le incongruenze legate all’eccessiva enfatizzazione, da parte dalla Consulta, della «ricerca della verità quale scopo fondamentale del processo»; G. Spangher, L’art. 507 c. p. p. davanti alla Corte costituzionale, cit., p. 919; in senso più marcatamente adesivo alla lettura delle Sezioni unite, la valutazione di A. Bassi, Principio dispositivo, cit., p. 1376.
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In questa seconda ottica si affermava nella sostanza, accanto al diritto delle parti di disporre in positivo della prova, quello di non disporne in negativo, nel senso che il mancato intervento o l’inerzia delle
medesime non potesse precludere l’ammissione di prove indispensabili per l’accertamento dei fatti:
«sono i tempi e modi di esercizio del potere, e soprattutto il contesto in cui si colloca, a definire la struttura del processo, orientandola ora verso un assetto schiettamente inquisitorio, ora verso una semplice
attenuazione del puro regime accusatorio» 13.
Attraverso le coordinate fornite dalla Consulta e dalla Corte di legittimità si è assegnata al principio
dispositivo una funzione “espansiva” dei poteri delle parti che non preclude l’accertamento dei fatti:
esse, cioè, conservano il diritto all’ammissione delle prove richieste, ma la loro inerzia non impedisce
l’acquisizione di elementi che risultino dagli atti e siano necessari alla compiuta definizione della vicenda sottoposta al vaglio giudiziale.
Sarebbe lo stesso canone d’indisponibilità dell’oggetto del processo, consacrato dall’art. 112 Cost.,
mediante l’obbligo a carico del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, a imporre un limite logico-giuridico al principio dispositivo e, in consonanza, a estendere il potere suppletivo del giudice, allorché appaia indispensabile il suo snodarsi nel meccanismo processuale 14.
Secondo altre prospettive ermeneutiche – volte a confutare l’assioma in base al quale sussisterebbe
uno specifico rapporto funzionale tra il principio di obbligatorietà dell’azione penale e le norme che
contemplano forme di iniziativa officiosa in materia probatoria – l’accento andrebbe invece posto sul
dato epistemologico, ovvero sul metodo attraverso cui si ottiene la conoscenza processuale, sicché
l’aver dotato l’organo giurisdizionale di taluno di questi poteri qualifica la relativa opzione legislativa
come quella più idonea a conseguire determinati standard del sapere giudiziale; o meglio, come quella,
tra le possibili altre, maggiormente consona a promuovere la “ricerca della verità” 15.
Lungo queste ultime traiettorie, poiché la previsione di cui all’art. 507 c.p.p. risulta norma coerente
con il sistema poiché «i giudizi a contenuto indisponibile implicano canali istruttori aperti al giudice» 16
e l’inerzia delle parti abilita il giudice a procedere autonomamente, svolgendo una funzione integrativa,
dato che «nessuno vuole dei colpevoli presunti; finché esistano dubbi, l’imputato sarà assolto, ma non
pretenda di essere giudicato su materiali incompleti» 17.
INTERVENTI EX OFFICIO E RAGIONEVOLE DUBBIO
Nel prosieguo, si è riconosciuta la piena coniugabilità della clausola dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» (inserita nell’art. 533, comma 1, c.p.p. dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46), con la funzione integrativa
assegnata all’intervento giudiziale dall’art. 507 c.p.p., sottolineandosi che «se l’istruzione dibattimentale
lascia scorgere percorsi probatori inesplorati, il giudice ha il dovere di incitare le parti ad attraversarli,
prima di arrendersi di fronte al dubbio» 18.
Certo, l’iniziativa d’ufficio del giudice deve innestarsi sull’onere formale d’accusa: egli agisce cioè
come supplente della parte inerte o della parte che non ha presentato la sua richiesta di prova in modo
ammissibile, ma resta comunque in vigore l’onere sostanziale per le parti di dover “convincere il giudice” dell’esistenza del fatto affermato 19.
Si è così meglio profilata la linea di demarcazione fra le ipotesi d’incertezza probatoria, che giustificano il ricorso ai poteri istruttori d’ufficio, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., e le situazioni previste dall’art.
530, comma 2, c.p.p., che impongono invece l’assoluzione quando la prova sia insufficiente o contrad-
13
P. Ferrua, I poteri probatori, cit., p. 1067.
14
Cfr. A. Nappi, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2007, p. 532 ss.
15
La prospettiva è di G. Dean, Il difficile equilibrio tra parti e giudice nell’assunzione della prova dibattimentale mediante l’esame, in
Arch. pen., 2012, 1, p. 275 ss.
16
F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Milano, 2012, p. 941.
17
Ancora F. Cordero, Procedura, cit., p. 943.
18
C. Conti, Al di là del ragionevole dubbio, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio, Milano,
2006, p. 114.
19
«Il pubblico ministero ha l’onere di convincere il giudice della reità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. Per la difesa, resta
l’onere di far sorgere il ragionevole dubbio»: P. Tonini, Iniziativa d’ufficio del giudice e onere della prova tra principio di imparzialità e funzione cognitiva del processo penale, in Cass. pen., 2011, p. 20-22.
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dittoria. Il primo caso si riferisce all’incompletezza del materiale probatorio cui funge da correttivo residuale una fonte astrattamente idonea a integrare il thema probandum; nella seconda ipotesi, opera invece una regola di giudizio in base alla quale la prova richiesta e formata nel dibattimento è inidonea,
per le caratteristiche di manchevolezza o contraddittorietà, a giustificare il giudizio di colpevolezza del
reo 20.
Da quest’angolazione, il potere integrativo giudiziale offre innumerevoli vantaggi per l’imputato,
apprestandogli una «zattera equitativa» rispetto a errori difensivi o all’incapacità della stessa difesa di
contribuire efficacemente alla realizzazione della fondamentale funzione cognitiva propria del processo
penale 21.
Del resto, un sistema che contempla la riparazione dell’errore giudiziario correlata al diritto di difesa
ex art. 24 Cost. non può inibire al giudice dibattimentale di attivarsi per prevenire lo stesso errore 22, attraverso una completa rappresentazione del fatto, mirata al raggiungimento di una decisione “giusta” 23.
In prospettiva assiologica, quella che sembra essere preclusa è, invece, una ricerca solitaria della verità dell’organo giudicante guidato da un’ipotesi ricostruttiva autonoma, in quanto il valore dimostrativo della prova da assumere deve emergere dagli atti 24. Né l’intervento del giudice deve essere unicamente dettato dalla necessità di colmare le lacune investigative in cui è incorso il pubblico ministero,
poiché tali interpretazioni apparirebbero in palese distonia con i tratti sistematici del processo penale e
trasformerebbero la funzione di integrazione probatoria in quella di totale supplenza dei deficit causati
dall’organo dell’accusa 25.
L’art. 507 c.p.p. riveste dunque il valore di un monito esortativo per i giudici: «non siano invadenti,
come vuole l’atavismo inquisitorio; né fatalisticamente immobili, fino a inghiottire premesse incomplete o false» 26. Volendo trovare una giustificazione ideologica del potere giudiziale, potrebbe, ancora una
volta, tornare utile il collegamento funzionale espresso nella direttiva n. 73 della legge-delega con il criterio della «ricerca della verità» 27, che segnala forme di abuso ogniqualvolta il giudice si converta in un
investigatore e ricerchi prove sulla base di proprie e autonome ipotesi ricostruttive dei fatti, ovvero
quando il suo potere funga da «rimedio in extremis offerto all’accidia della parte» 28.
RICERCA DELLA VERITÀ E IMPARZIALITÀ DEL GIUDICE
Dal dibattito teorico e giurisprudenziale sinora riproposto emerge lo snodo essenziale della tematica
ossia il costante contemperamento fra poteri istruttori del giudice e tutela del principio dispositivo, poiché di certo un eccessivo sbilanciamento del sistema verso l’intervento giudiziale in punto di prova farebbe insorgere pericolose contaminazioni inquisitorie nel rito.
A vacillare sarebbe poi il principio di terzietà del giudice, visto che l’ampliamento dell’intervento
sulla prova compromette l’equidistanza rispetto alle parti e all’oggetto del processo 29 e che il parametro
ampio dell’«assoluta necessità» tollera ingerenze eccessive dell’organo giudicante sul tema di prova,
fondate su prognosi non neutre 30.
20
A. De Caro, Ammissione e formazione della prova nel dibattimento, in A. Gaito (diretto da), La prova penale, II, Torino, 2008, p.
398; Id., Poteri probatori del giudice e diritto alla prova, Napoli, 2003, p. 213 ss.
21
E. Fassone, Giudice-arbitro, cit., p. 596.
22
P.P. Paulesu, Iniziative probatorie del giudice dibattimentale e «giusto processo», in Giur. cost., 2010, p. 842 ss.
23
G. Ubertis, Neutralità metodologica e principio di acquisizione processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 21; analogamente, L.
Caraceni, Poteri d’ufficio in materia probatoria e imparzialità del giudice penale, Milano, 2007, p. 59.
24
G. Illuminati, Il giudizio, in G. Conso-V. Grevi-M. Bargis (a cura di), Compendio di Procedura penale, Padova, 2014, p. 801 ss.
25
P.P. Paulesu, Giudice e parti, cit., p. 273 ss. Le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale della legittimità del disposto hanno riguardato – nella maggior parte dei casi – proprio la lacuna probatoria più totale, ossia l’omissione nel deposito della
lista testi da parte del pubblico ministero.
26
F. Cordero, Procedura, cit., p. 942.
27
G. Dean, Il difficile equilibrio tra parti e giudice, cit., p. 275.
28
P. Ferrua, I poteri, cit., p. 1073; G. Ubertis, Neutralità metodologica, cit., p. 25.
29
F.R. Dinacci, Giurisdizione penale e giusto processo verso nuovi equilibri, Padova, 2003, p. 78.
30
Per ulteriori rilievi in tema di imparzialità, con riguardo all’etica e ai valori del processo, L. Marafioti, L’art. 507 c.p.p., cit., p. 842.
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Il gigantismo istruttorio potrebbe poi, altrettanto nettamente, pregiudicare la presunzione d’innocenza, sancita nell’art. 27, comma 2, Cost., nonché dagli art. 6, comma 2, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 14, comma 2, Patto internazionale sui diritti civili e politici 31. Infatti, è stata proprio la
presunzione di non colpevolezza nei riguardi dell’ipotesi fatta valere con l’esercizio dell’azione penale
a determinare l’emersione di «una figura nuova di giudice rispetto al passato», del tutto svincolata
dall’adesione all’«opinio delicti» 32.
La «neutralità metodologica» del giudice deve renderlo soggettivamente e oggettivamente imparziale, esente cioè da ogni «condizionamento pregiudiziale», derivante dall’avere conosciuto l’impostazione
di una delle parti o dall’avere assunto e personalmente coltivato, una «determinata ipotesi come linea
di ricerca per la ricostruzione del fatto di cui è investito» 33.
Soltanto entro questi rigorosi confini l’art. 507 c.p.p. può assolvere alla funzione epistemologica assegnata alla rigida compartimentazione delle fasi e alla separazione conseguente dei fascicoli, mirando
a garantire anche la verginità conoscitiva dell’organo giudicante.
L’indicazione della Consulta secondo cui il giudice può adottare tutti gli interventi necessari ad acclarare la vicenda ipotizzata nell’imputazione 34 merita dunque di essere inserita nel novero di questa
funzione integrativa, volta a chiarire o approfondire anteriori risultanze processuali oppure meramente
sollecitatoria nei confronti delle parti per quanto attiene all’estensione delle investigazioni 35.
In altri termini, l’equidistanza tra giudici e parti può preservarsi soltanto laddove il potere del giudice
si esplichi in un momento successivo e nella stessa direzione dell’attività istruttoria delle parti, a conferma
del suo carattere residuale della riconducibilità contenutistica nei temi già introdotti 36.
In tal modo si coglie meglio anche la stretta funzionalità fra l’acquisizione della prova, ex art. 507
c.p.p. e il rispetto dei diritti fondamentali dell’imputato 37, fra i quali spicca il contraddittorio, poiché
non esiste «alcuna relazione privilegiata tra l’assunzione della prova ex officio ed il suo grado di concludenza dimostrativa, né riveste un particolare valore la circostanza per cui sarebbe stato lo stesso giudice
a deciderne l’immissione nel processo» 38.
Laddove, invece, l’intervento giudiziale mantenga la caratteristica sussidiarietà rispetto alle produzioni probatorie di parte, posizionandosi, al più, in termini di integrazione, esso diviene pienamente
compatibile anche con il canone di imparzialità 39.
L’INTEGRAZIONE PROBATORIA E IL DIRITTO ALLA PROVA CONTRARIA
L’accoglimento dei principi del “giusto processo” nell’art. 111 Cost. ha indotto ulteriori “sollecitazioni”
proprio con riguardo al nodo relativo all’assoluta mancanza di mezzi probatori, addotti dalle parti, attraverso il collegamento dell’iniziativa di integrazione del giudice con un “principio” di supporto probatorio 40.
Si è reso così necessario un secondo intervento delle Sezioni unite, fondato su una lettura delle norme costituzionalmente allineata ai principi emersi dalla riforma dell’art. 111 Cost. sul “giusto processo”
e ancorato al canone dell’imparzialità giudiziale. Si è pertanto nuovamente confermato il potere del
31
E. Amodio, Rovistando, cit., p. 2942, riconduce il principio dispositivo nell’ambito di tutela dell’art. 27 Cost.
32
O. Dominioni, La presunzione d’innocenza, in Le parti nel processo penale. Profili sistematici e problemi, Milano, 1985, p. 234; G.
Ubertis, I poteri del pretore ex artt. 506 e 507 c.p.p. e il principio di acquisizione processuale, in Cass. pen., 1996, p. 366.
33
In questi termini G. Ubertis, I poteri, cit., p. 365 ss.
34
C. cost., sent. 24 marzo 1993 n. 111, cit., p. 901 ss.
35
G. Ubertis, I poteri, cit., p. 367; analogamente, nel senso che l’acquisibilità ex officio di nuovi mezzi di prova consente al giudice di «sviluppare la sua iniziativa, senza prevaricazioni, solo all’interno delle lacune, dei vuoti probatori lasciati dall’inerzia
delle parti», P. Ferrua, I poteri, cit., p. 1073.
36
F.R. Dinacci, Giurisdizione penale, cit., p. 89; in giurisprudenza un’interpretazione di questo tipo si rinviene da parte di Trib.
Milano, sez. III, 25 febbraio 2000, in Foro ambrosiano, X, 2000, p. 480, secondo cui l’assunzione di prove d’ufficio deve necessariamente riprendere temi già emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale.
37
Più in generale C. Valentini, I poteri del giudice dibattimentale nell’ammissione della prova, Padova, 2004, p. 259 ss.
38
H. Belluta, Premesse, cit., p. 1234.
39
G. Di Chiara, L’incompatibilità endoprocessuale del giudice, Torino, 2000, p. 29.
40
Cass., sez. V, 1 dicembre 2004, n. 15631, in CED Cass., n. 232156.
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giudice di disporre, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., l’acquisizione di nuovi mezzi di prova pure nei casi di
inerzia delle parti, purché l’iniziativa probatoria sia assolutamente e miri all’assunzione di una prova
decisiva nell’ambito delle prospettazioni delle stesse parti 41. Del pari, si è ribadita, ai sensi dell’art. 507
c.p.p., la possibilità, dinnanzi a un materiale probatorio lacunoso o insufficiente, di ammissione di prove utili a «un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti», non ravvisandosi alcun pregiudizio né per la terzietà del giudice, né per la “parità delle armi”, visto che si tratta di un potere esercitabile anche per colmare le lacune probatorie della prospettazione difensiva ed evitare così di pervenire a
condanne ingiuste.
Da quest’angolo visuale, una lettura restrittiva dei poteri probatori officiosi del giudice risulterebbe
contrastare con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, più volte richiamato, ponendosi in
palese contraddizione con il ruolo del giudice dinnanzi alla richiesta di archiviazione avanzata dal
pubblico ministero. Ovviamente, per il corretto esercizio del potere d’integrazione probatoria: «la prova
deve avere carattere di decisività», non deve supportare probatoriamente una diversa ricostruzione da
parte del giudice, e deve rispecchiare le prospettazioni fornite dalle parti 42.
Nella stessa direzione si sono mosse le nuove indicazioni fornite dalla Consulta, volte a sottolineare
in modo peculiare la finalità compensativa e di riequilibrio della prova contraria 43, presidio della “giustizia del processo”, anche con riferimento al potere probatorio giudiziale.
L’eventualità di un vulnus all’imparzialità è stata inoltre esclusa ogni qualvolta l’intervento del giudice si muova nell’ambito della propria funzione e dia comunque vita a un’attività che segue le cadenze
del processo di parti. Infatti, in tal caso, il giudice non rivolge le domande ai dichiaranti, ma li rimette
direttamente alla parte che ha sollecitato la prova (art. 151, comma 1, norme att.). La controparte può,
poi, incidere sulla prova attraverso il controesame. Anzi, la sollecitazione di una delle parti pone il giudice in una sorta di condizione ineluttabile che ne limita la discrezionalità: egli deve ammettere la prova che soddisfi i requisiti di cui all’art. 507 c.p.p.
E in effetti, il potere di assunzione ex officio di nuovi mezzi di prova, contemplato nell’art. 507 c.p.p.,
è stato sempre più saldamente agganciato al metodo dialettico e al significato a esso attribuibile, quale
garanzia epistemologica nella ricerca della verità: non basta, infatti, che alle parti sia assicurata dall’art.
151, comma 2, norme att. c.p.p. la possibilità di un intervento nella fase acquisitiva del mezzo di prova,
disposto ex officio; alle medesime deve essere piuttosto garantito l’esercizio effettivo del diritto alla prova contraria, sancito dall’art. 495, comma 2, c.p.p. 44.
Anzi, può affermarsi che il diritto alla prova contraria abbia assunto il valore di sicuro “rimedio” rispetto all’amplificazione del potere giudiziale, consentendo di ricondurre a equità l’accertamento e impedendo forme di strapotere istruttorio. Si tratta di un’espressione essenziale del contraddittorio, vivificato dall’art. 111 Cost., che non soggiace alle rigide maglie dell’assoluta necessità che veicolano il potere giudiziale nell’assumere la prova, ai sensi dell’art. 507 c.p.p. Essa trova invece nell’ampiezza dei
criteri di ammissione dell’art. 190 c.p.p. le sue linee guida, seppure riferite alla funzione avversativa o
confutativa, tipica della prova contraria 45.
Il che, da un canto, comporta la garanzia per la parte di vedersi assicurata l’ammissione e l’acquisizione della prova contraria, in termini di assolutezza rispetto alle vicende genetiche della prova di cui
41
Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 41821, in Cass. pen., 2008, p. 1078.
42
La sentenza è stata commentata positivamente da B. Andò, Inerzia delle parti nella richiesta e poteri probatori del giudice, in
Giust. pen., 2008, III, c. 607; maggiori critiche manifestava E. Aprile, Sui limiti di applicabilità dell’art. 507: una nuova sentenza che
non elimina ogni dubbio interpretativo, in Cass. pen., 2007, p. 3346; H. Belluta, Irripetibilità congenita degli atti di indagine e poteri istruttori del giudice dibattimentale: dalle Sezioni Unite un intervento (non proprio) chiarificatore, in Cass. pen., 2008, p. 1087.
43
C. cost., sent. 26 febbraio 2010 n. 73, in Giur. cost., 2010, p. 842; Cass., sez. V, 4 maggio 2007, n. 29398, in CED Cass., n.
237257: in tema d’istruzione dibattimentale, il giudice che – nell’esercizio del potere eccezionale di cui all’art. 507 – ammetta
l’assunzione di una nuova prova deve ammettere anche l’eventuale prova contraria.
44
Cfr., per tutti, G. Ubertis, I poteri, cit., p. 369, che rafforza l’affermazione con il richiamo all’art. 24 Cost. Sul diritto alla prova contraria come correttivo dell’accertamento giudiziale si è nuovamente soffermata C. cost., sent. 26 febbraio 2010 n. 73, cit., p. 833 ss.
45
T. Rafaraci, La prova contraria, Torino, 2004, p. 207; analogamente alla previsione contenuta nell’art. 495, comma 2, c.p.p., il
diritto alla controprova è esercitabile dopo l’ordinanza pronunciata in base all’art. 507, perché, spesso, soltanto in seguito
all’effettiva assunzione della prova possono essere individuati, con chiarezza, i temi sui quali esercitare quel diritto. In argomento, altresì, H. Belluta, Riflessioni, cit., p. 1536; P. Ferrua, I poteri, cit., p. 1071; L. Marafioti, L’art. 507 c.p.p., cit., p. 847; E. Randazzo, L’interpretazione dell’art. 507 c.p.p. dopo le decisioni delle sezioni unite e della Corte costituzionale, in Cass. pen., 1993, p. 2237;
critico sulla possibilità di riferire la prova contraria a un’iniziativa probatoria esclusivamente giudiziale, si mostra, invece, A. De
Caro, Ammissione, cit., p. 408.
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si garantisce la confutabilità e, dall’altro canto, implica pure un forte limite per il giudice che non può
considerarsi l’assoluto dominus di questo segmento istruttorio, rimanendo nella disponibilità delle parti
il potere di contrastare la tesi probatoria giudiziale 46.
Tali principi, già emergenti dalle sopracitate pronunce delle Sezioni unite 47 e della Consulta 48, sono
stati costantemente ribaditi dalla giurisprudenza, protesa a ritenere che con l’articolo 507 c.p.p. il legislatore abbia concesso al giudice un potere “equilibratore”, atto a supplire alle carenze probatorie delle parti,
quando le stesse incidono in modo determinante sulla formazione del convincimento e sul risultato del
giudizio, in relazione allo scopo della ricerca della verità e nel pieno rispetto della legalità. In base alle
prevalenti affermazioni, il giudice può dunque disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova ex officio anche nel caso in cui non vi sia stata in precedenza alcuna acquisizione probatoria sia per mancata tempestiva richiesta probatoria, sia per altra causa, come, per esempio, l’assoluta inerzia della pubblica accusa 49.
Inoltre, il potere contemplato nell’art. 507 c.p.p. può dispiegarsi anche nella circostanza in cui le parti vi
abbiano rinunciato nel corso del dibattimento, e sebbene le parti non possano dolersi della mancata assunzione dello stesso mezzo di prova 50, visto che il giudice non è vincolato da tale rinuncia 51.
IL PARADIGMA “VAGO” DELL’ASSOLUTA NECESSITÀ PROBATORIA
In una visione realistica dell’attuale sistema probatorio, la dimensione dei poteri giudiziali nelle diverse
sedes codicistiche 52 costituisce il risultato di un costante «bilanciamento tra principi ed esigenze contrapposte, nel segno della ragionevolezza» 53. Condizione che, da un canto, fa apparire ampiamente superato il retaggio culturale – dominante le concezioni ottocentesche del processo civile – per il quale un
buon processo è esclusivamente quello in cui il giudice sia privato di poteri istruttori autonomi 54,
dall’altro, palesa come, altrettanto frequenti, le “deviazioni” del potere giudiziale nel processo che si
traducano in violazioni dei canoni oggettivi, funzionali o strutturali, poste in essere per perseguire finalità differenti, rispetto a quelli disegnati dal sistema 55.
Entro queste ridefinite cornici generali, l’effige del principio dispositivo può dirsi privata dei tratti
massimalisti del 1988 ed è empiricamente “temperata” 56 dalle prassi interpretative.
Si pensi ai parametri regolatori dell’esercizio del potere giudiziale, espressi nel noto dettame dell’art.
46
Si veda ancora T. Rafaraci, La prova contraria, cit., p. 206 ss.; la giurisprudenza peraltro condivide l’assunto secondo cui dall’ammissione di una nuova prova ex officio consegue l’ammissione di prove contrarie dedotte dalle parti: Cass., sez. VI, 6 novembre 2014, n.
48645, in CED Cass., n. 261256; Cass., sez. V, 4 maggio 2007, n. 29389, ivi, n. 237257; Cass., sez. VI, 6 aprile 2000, n. 5401, in Cass. pen.,
2001, p. 605; Cass., sez. VI, 26 giugno 1997, n. 10109, in CED Cass., n. 208817; Cass., sez. II, 2 dicembre 1992, n. 9483, ivi, n. 195311.
47
Cass., sez. un., 6 novembre 1992, n. 11227, cit., p. 822.
48
C. cost., sent. 24 marzo 1993 n. 111, cit., p. 901 ss.
49
Cass., sez. VI, 9 ottobre 2012, n. 43786, in CED Cass., n. 253955; Cass., sez. V, 14 dicembre 2007, n. 6347, ivi, n. 239111; Cass.,
sez. IV, 29 settembre 2003, n. 45998, in Guida dir., 2004, 9, p. 73; nonché, ex plurimis, Cass., sez. V, 20 aprile 2001, n. 23436, in Cass.
pen., 2002, p. 2417; Cass., sez. III, 22 novembre 1995, n. 363, ivi, 1997, p. 758; Cass., sez. III, 20 settembre 1995, n. 11191, in CED Cass.,
n. 203221; Cass., sez. I, 12 maggio 1995, n. 6683, in Cass. pen., 1996, p. 1202; Cass., sez. III, 2 febbraio 1995, n. 3428, in CED Cass., n.
202882; Cass., sez. I, 5 maggio 1994, n.7477, ivi, n. 198367; Cass., sez. VI, 17 gennaio 1994, n. 4616, in Cass. pen., 1995, p. 1877.
50
Fra la giurisprudenza più risalente, Cass., sez. I, 28 settembre 1995, n. 11805, in Cass. pen., 1996, p. 3353, il potere del giudice è di integrazione e completamento della prova richiesta dalle parti e non integra una sorta di illimitata supplenza contrastante con i principi ispiratori del nuovo processo penale; in chiave analogamente restrittiva, Cass., sez. I, 8 giugno 2000, n. 8566, in
Arch. n. proc. pen., 2001, p. 207.
51
Cass., sez. VI, 21 dicembre 2009, n. 15600, in CED Cass., n. 247019; Cass., sez. V, 3 febbraio 2004, n. 27509, in Guida dir.,
2004, 32, p. 86; Cass., sez. fer., 19 agosto 1993, n. 8528, in Cass. pen., 1994, p. 1263.
52
F. Giunchedi, I poteri istruttori del giudice, in www.archiviopenale.it.
53
Questo l’approccio metodologico suggerito da P. Tonini, Iniziativa d’ufficio del giudice, cit., p. 2010 ss.
54
Con ampiezza di riferimenti comparativi, M. Taruffo, Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, in Riv. trim. dir. e proc.
civ., 2006, p. 453 ss.
55
Si veda E. M. Catalano, L’abuso del processo, Milano, 2004, p. 6 ss., in ordine ai «comportamenti apparentemente conformi alle norme
processuali, ma incoerenti con la ratio del rimedio impiegato o con le linee portanti del sistema processuale». La deviazione dall’asse portante
il sistema processuale e lo sbocco dell’atto verso scopi e finalità diversi da quelli attribuiti alle parti sono elementi evidenziati pure
da G. Leo, L’abuso del processo nella giurisprudenza di legittimità, in Dir. pen. proc., 2008, p. 508; con riguardo alla legalità processuale,
G. Illuminati, Il tema: abuso del processo, legalità processuale e pregiudizio effettivo, in Cass. pen., 2012, p. 3593.
56
P. Tonini, Iniziativa d’ufficio del giudice, cit., pp. 20-24.
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507 c.p.p. secondo cui è acquisibile ope iudicis qualunque prova, se risulta «assolutamente necessaria».
L’inciso è stato ritenuto ridondante poiché: «l’avverbio escresce; enfatico anche l’aggettivo, ogni prova
influente essendo necessaria» 57 e non si è mancato di rimarcare, in più occasioni, l’eccessività della
formula e l’impossibilità concreta di differenziare la «necessità» dalla «rilevanza» 58. Il parametro pone,
infatti, una presunzione soltanto relativa di completezza delle prove precedentemente richieste dalle
parti, che può essere superata dal giudice soprattutto quando le stesse siano rimaste inerti 59.
Secondo letture più restrittive, il requisito dell’assoluta necessità subordina invece l’ammissione ex
officio delle prove a un riscontro positivo circa la rilevanza che deve essere particolarmente qualificata;
viene infatti rovesciata la tipica valutazione probatoria (basata sulla non manifesta superfluità o irrilevanza) tanto che la prova può essere acquisita solo ove appaia decisiva o serva a risolvere i dubbi di
un’istruzione dibattimentale insufficiente 60. È, cioè, assolutamente necessario il mezzo istruttorio il cui
«grado di rilevanza risulta indispensabile al giudice per superare il grado di incertezza probatoria» 61.
Come può intuirsi, particolarmente complesso risulta il vaglio dell’assoluta necessità e della novità
probatoria, che in taluni casi si configura alla stregua di un’attività doverosa, censurabile in sede di impugnazione 62, in altri, invece, appare marcatamente discrezionale 63.
L’ampiezza dell’apprezzamento valutativo lasciato al giudice 64 risalta soprattutto di fronte all’inerzia delle parti 65 ed è mitigata in taluni casi dalla richiesta di un’adeguata motivazione 66. Attraverso
prospettive discendenti dalla più meno accentuata ampiezza dello stesso potere, si guarda poi alla possibilità di censurare l’esercizio dell’attività giudiziale di tipo integrativo 67, con prevalenza dell’impostazione che tende a limitare forme e contenuti del controllo successivo 68.
57
F. Cordero, Procedura, cit., p. 942.
58
F. Iacoviello, Processo di parti, cit., p. 287 ss.
59
A. Nappi, Guida, cit., p. 532.
60
Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 41821, cit., p. 1078; Cass., sez. II, 27 settembre 1996, n. 6403, in CED Cass., n. 208009.
61
P.P. Paulesu, Giudice e parti, cit., p. 269; «avverbio e aggettivo ammoniscono a non abusare del potere»; secondo A. De Caro, Ammissione, cit., p. 406, il requisito rappresenta un «presupposto di primo piano per focalizzare contenuti ed essenza del controllo»; una
lettura restrittiva del canone dell’assoluta necessità che presuppone una più penetrante e approfondita valutazione della pertinenza e rilevanza probatoria, correlata alla più ampia conoscenza dei fatti di causa già acquisita, si riscontrava in Cass., sez. VI,
8 novembre 1993, n. 724, in Cass. pen., 1995, p. 308; Cass., sez. I, 17 marzo 1993, in Giust. pen., 1993, III, c. 552.
62
D. Manzione, sub artt. 506-507 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, V, Torino, 1990, p. 391.
63
E. Randazzo, L’assunzione di nuove prove e le integrazioni inquisitorie del giudice dibattimentale, in Cass. pen. 1991, p. 1690.
64
Escludeva qualsiasi limite all’esercizio del potere discrezionale giudiziale nell’assumere nuove prove Cass., sez. I, 12
maggio 1995, n. 6683, cit., p. 1202; nella stessa direzione, limitano la portata del parametro della necessità: Cass., sez. I, 27 giugno 2002, n. 30286, in CED Cass., n. 222583 e Cass., sez. I, 10 agosto 1995, n. 9707, in CED Cass., n. 202303; nega un dovere, in capo al giudice, di ricercare elementi di fatto posti a fondamento di determinate questioni sollevate dalle parti, Cass., sez. VI, 17
giugno 2003, n. 29740, in Riv. pen., 2004, p. 454.
65
Cass., sez. I, 28 novembre 2013, n. 3979, in CED Cass., n. 259137; Cass., sez. III, 28 maggio 2002, n. 26277, in Guida. dir.,
2002, 41, p. 78; Cass., sez. III, 23 gennaio 1997, n. 2542, in Cass. pen., 1998, p. 1130; nel senso che l’ammissione della prova è sempre rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, Cass., sez. I, 30 gennaio 1995, n. 3646, in Cass. pen., 1996, p. 2243; Cass.,
sez. III, 14 febbraio 1994, n. 4702, in Cass. pen., 1995, p. 1550; Cass., sez. III, 3 febbraio 1993, n. 3431, in Riv. pen., 1993, p. 1247.
Non si richiede una motivazione quando «dall’effettuata valutazione delle risultanze probatorie possa implicitamente evincersi la superfluità di un’eventuale integrazione istruttoria»: Cass., sez. IV, 3 ottobre 2013, n. 7948, in CED Cass., n. 259272; Cass., sez. II, 9 gennaio
2013, n. 6250, ivi, n. 254497.
66
Cass., sez. II, 16 marzo 2011, n. 20306, in CED Cass., n. 250355; Cass., sez. III, 25 ottobre 2007, ivi, n. 238273; insiste sulla discrezionalità del potere subordinata ad una congrua motivazione, Cass., sez. V, 16 aprile 1998, n. 5806, in Cass. pen., 1999, p.
2233; Cass., sez. III, 6 febbraio 1995, n. 2361, in Cass. pen., 1996, p. 1202; Cass., sez. IV, 20 settembre 2005, n. 36642, in Arch. n. proc.
pen., 2006, p. 31, ha ravvisato, per contro, il difetto di motivazione nella sentenza di assoluzione pronunciata ai sensi dell’art.
530, comma 2, c.p.p., che non indichi ragioni atte a giustificare il mancato accoglimento della sollecitazione rivolta dal pubblico
ministero al giudice per l’assunzione d’ufficio, ex art. 507 c.p.p., di una prova di potenziale decisività a sostegno dell’accusa;
analogamente, Cass., sez. III, 13 maggio 1997, n. 5747, in Cass. pen., 1998, p. 2634.
67
Secondo Cass., sez. III, 4 giugno 1997, n. 2273, in Cass. pen., 1998, p. 2634, l’esercizio del potere non è incondizionato ed è,
quindi, frutto di una valutazione, sindacabile in sede di legittimità; analogamente Cass., sez. V, 16 aprile 1998, n. 5806, cit., p.
2233. Sugli effetti della mancanza di motivazione in ordine al mancato esercizio di questo potere e sulla conseguente nullità della sentenza si vedano: Cass., sez. VI, 11 giugno 2010, n. 25157, in CED Cass., n. 247785; Cass., sez. III, 25 ottobre 2007, n. 44955,
ivi, n. 238273; Cass., sez. V, 11 ottobre 2005, n. 38674, in Dir. pen. proc., 2006, p. 2001.
68
Cass., sez. II, 9 gennaio 2013, n. 6250, in CED Cass., n. 254497; Cass., sez. III, 27 maggio 2010, n. 24259, ivi, n. 247290; analogamente, Cass., sez. IV, 29 settembre 2003, n. 45598, ivi, n. 227369; Cass., sez. V, 7 dicembre 2005, n. 5931, ivi, n. 233845.
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Viceversa, muovendo dal presupposto secondo cui l’ordinanza che dispone l’assunzione di nuovi
mezzi di prova deve essere motivata a pena di nullità, si è ritenuto che il provvedimento del giudice attestante l’«assoluta necessità» sia censurabile per violazione di legge, con ripercussioni sull’inutilizzabilità della prova e possibilità di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) 69; laddove, per contro, la richiesta di prova, sollecitata da una parte ex art. 507, non trovi accoglimento, il ricorso per cassazione dovrebbe esperirsi a norma dell’art. 606, comma 1, lett. d) e lett. e) 70.
Allo stesso tempo, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il rifiuto del giudice di assumere nuovi mezzi di prova, ex art. 507 c.p.p., non costituisce di per sé motivo di ricusazione, ferma restando la facoltà della parte di eccepire eventuali vizi del provvedimento contestato ex art. 586 c.p.p. 71.
Al di là della variegata casistica, a emergere tuttora è l’altissimo tasso di discrezionalità del giudice
nella valutazione della “necessità probatoria”, clausola vaga e poco idonea a contenere realmente gli
eventuali abusi degli interventi suppletivi giudiziali.
IL RECUPERO IUSSU IUDICIS DI ATTI FISIOLOGICAMENTE INUTILIZZABILI
Un tale inquadramento generale dei poteri istruttori del giudice è imprescindibile al fine di comprendere meglio le recenti sollecitazioni giurisprudenziali che hanno riguardato, in particolare, la possibilità di
sopperire, per il tramite offerto dall’art. 507 c.p.p., alle precedenti declaratorie di inutilizzabilità funzionali degli atti 72.
A tal proposito, è necessario muovere dalla posizione di partenza della giurisprudenza di merito,
che aveva ritenuto possibile “ripescare” una conversazione telefonica 73 – dichiarata inutilizzabile prima
dell’apertura del dibattimento perché non depositata ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p. – mediante un’acquisizione e una tardiva declaratoria di utilizzabilità, ex art. 507 c.p.p., in sede di completamento dell’istruttoria dibattimentale.
Nel caso di specie il ragionamento si era fondato sulla scomposizione del procedimento probatorio
dibattimentale in due fasi: quella introduttiva dei mezzi di prova che consta della presentazione (ex art.
493 c.p.p.) delle richieste di prova a opera delle parti e si svolge subito dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento; e quella, eventuale, che comporta l’esercizio di un potere probatorio d’ufficio in
capo al giudice e, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., «può» incardinarsi «terminata l’acquisizione delle prove».
In forza di questo frazionamento temporale e funzionale ai fini del decidere, al giudice sarebbe data
la possibilità di recuperare l’atto, visto che l’inutilizzabilità relativa agli atti non depositati in sede di
udienza preliminare non precluderebbe l’esercizio del potere istruttorio ex officio, per effetto dell’ampiezza della configurazione e per la finalità di accertamento della verità allo stesso sottese 74.
Allo scopo di suffragare la descritta esegesi si sottolineava, peraltro, come l’atto da recuperare
(un’intercettazione) non fosse una prova viziata in sé, né costituisse prova vietata ai sensi dell’art. 271
c.p.p., facendosi altresì leva sulla possibilità di applicare in ogni caso l’art. 270 c.p.p., relativo alle intercettazioni disposte in un diverso procedimento, allo scopo di recuperare l’atto probatorio non prodotto
illo tempore dal rappresentante dell’accusa.
Risaltava così la diversità dei contenuti, eventualmente “sananti”, dell’intervento giudiziale nel caso
di omesso deposito di atti d’indagine, con particolare riguardo alle patologie relative a intercettazione
69
F. Plotino, Assunzione delle prove in dibattimento ad istanza di parte e d’ufficio, in Giur. merito, 1994, p. 219.
70
D. Potetti, Vicende del diritto alla prova nella fase del giudizio, in Cass. pen., 1994, p. 1406.
71
Cass., sez. un., 27 novembre 2005, n. 41263, in Dir. pen. proc., 2006, p. 1089, con nota adesiva di M. Neppi Modona; Cass.,
sez. III, 29 aprile 2009, n. 17868, in Giur. it., 2010, p. 192.
72
Si tratta della vicenda di merito da cui prende avvio la decisione poi censurata da Cass., sez. I, 12 marzo 2014, n. 27879, in
Proc. pen. giust., 2015, 1, p. 35 ss., con nota di I. Guerini, Potere istruttorio d’ufficio del giudice e prove inutilizzabili.
73
Cfr., in argomento, L. Filippi, Intercettazione, in P. Ferrua-E. Marzaduri-G. Spangher (a cura di), La prova penale, Torino,
2013, p. 899, il quale sottolinea opportunamente la finalità difensiva svolta dal deposito.
74
Cass., sez. I, 13 febbraio 1997, n. 5364, in CED Cass., n. 207815, secondo cui l’inutilizzabilità degli atti, non trasmessi al giudice per l’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 416, comma 2, c.p.p., è una sanzione di carattere generale che non è limitata ad
una sola fase processuale, ma può essere rilevata di ufficio in ogni stato e grado del procedimento; «pur tuttavia, detti atti possono
essere acquisiti, e conseguentemente utilizzati, dal giudice del dibattimento ex art. 507 c.p.p., attesa la natura sostanziale di tale norma che è
diretta alla ricerca della verità, indipendentemente dalle vicende processuali che determinano la decadenza della parte al diritto alla prova».
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telefoniche formate in violazione degli artt. 195 e 526 c.p.p.; queste ultime insuscettibili di recuperi probatori postumi.
Asse portante del ragionamento era la diversità fra la dimensione “fisiologica” di un atto non idoneo
«a formare la prova dibattimentale» (ovvero all’impossibilità di impiego di «un atto delle indagini preliminari in sede probatoria»), e la dimensione “patologica” della sanzione che attiene, com’è noto, «a un
vizio intrinseco dell’atto» 75.
Il prospettato salvataggio ex art. 507 c.p.p. ha anche risentito delle ricorrenti affermazioni secondo le
quali il potere istruttorio giudiziale non può essere limitato dal principio della discovery che opera esclusivamente nei rapporti fra le parti 76, consentendo per questa via il superamento dell’inutilizzabilità di
tipo fisiologico.
Sconfessando questo tipo di approccio, un’importante lettura critica della Corte di legittimità ha posto,
tuttavia, nella giusta evidenza il valore del deposito ex art. 416 c.p.p.: esso infatti è essenziale ai fini di contestare la fedeltà della trascrizione delle intercettazioni, richiedendo eventualmente l’ascolto diretto. Pertanto, l’evidente vulnus conseguente all’omesso deposito di un atto d’indagine da parte del pubblico
ministero, ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p., da un lato, comporta l’inutilizzabilità della prova, dall’altro,
inibisce al giudice di integrare il quadro probatorio, procedendo ex officio all’acquisizione della suddetta
prova. L’inutilizzabilità funzionale derivante dall’omissione della discovery non è dunque suscettibile di
essere in alcun modo aggirata dai poteri istruttori giudiziali, proprio perché si violerebbe, altrimenti, un
principio essenziale e cardine del processo ossia la “parità delle armi” 77.
Il canone richiamato dalla Cassazione diviene dunque elemento di compensazione interno rispetto
all’eccessivo ricorso ai poteri di integrazione giudiziale e assurge a strumento di controllo di eventuali
abusi. Esso funge da chiave di lettura sistematica delle disposizioni in tema di prova e in questa dimensione garantistica disegna limiti alla disciplina dell’art. 507 c.p.p., in relazione agli atti non conosciuti né
conoscibili dalla difesa.
Il dato merita particolare sottolineatura perché è strategicamente utile alla Corte per evitare di esaurire tutte le argomentazioni intorno all’unico profilo dell’utilizzabilità-inutilizzabilità degli atti, nella
perfetta consapevolezza del giudice nomofilattico dei connotati odierni dell’art. 191 c.p.p. e dei molteplici pendolarismi concettuali della prassi in materia 78.
È sufficiente richiamare al proposito le declinazioni dell’inutilizzabilità in bonam partem per non ignorare elementi di giudizio “favorevoli alla difesa” 79, ovvero le soluzioni che sanciscono un’operatività della
sanzione a esclusivo “carico” del pubblico ministero 80 o, infine, quelle che convertono fattispecie di inutilizzabilità patologica in forme di fisiologia probatoria 81, per comprendere la scelta della Corte di legittimità di non soffermarsi in chiave esclusiva sulla portata della massima sanzione probatoria.
Invero, spesso la distinzione tra inutilizzabilità fisiologica, patologica e “relativa” ha consentito alla
prassi di ampliare i cataloghi di utilizzo degli atti, al fine di rendere fruibile la prova sia nell’ambito del
giudizio abbreviato, sia ai fini dell’applicazione delle misure cautelari 82.
75
Il conio della celebre distinzione si deve a E. Amodio, Fascicolo processuale e utilizzabilità degli atti, in Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1989, pp. 172-173.
76
Cass., sez. II, 18 febbraio 2014, n. 13938, in CED Cass, n. 259710. Nella fattispecie, il tribunale aveva disposto l’acquisizione,
ai sensi dell’art. 507 c.p.p., quali atti irripetibili, di fotografie formate da un teste di polizia giudiziaria nell’imminenza dell’udienza in cui doveva essere esaminato, e, quindi non presenti nel fascicolo del p.m., attraverso la stampa di immagini estrapolate dal filmato che aveva documentato un servizio di osservazione, pedinamento e controllo effettuato durante le indagini.
77
Cass., sez. I, 12 marzo 2014, n. 27879, cit., p. 35 ss.
78
Sulla possibilità che lo strumento di legalità finisca per divenire strumento di abuso processuale, N. Galantini, Inutilizzabilità della prova e diritto vivente, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 64 ss.; segnala le deviazioni della prassi, C. Conti, Il volto attuale
della inutilizzabilità: derive sostanzialistiche e bussola della legalità, in Dir. pen. proc., 2010, p. 781 ss.; F.R. Dinacci, L’inutilizzabilità nel
processo penale. Struttura e funzione del vizio, Milano, 2008, p. 162, si sofferma sulle implicazioni esercitate dall’art. 111 Cost.
79
Cass., sez. I, 26 novembre 1996, n. 11027, in CED Cass., n. 207332. Altresì, Cass., sez. III, 26 febbraio 2003, n. 18765, ivi, n.
224910, a proposito delle dichiarazioni favorevoli all’indagato assunte in violazione dell’art. 63, comma 2, c.p.p. Condivisibile
l’analisi di N. Galantini, Inutilizzabilità della prova, cit., p. 87, nt. 124.
80
Cass., sez. I, 26 maggio 2009, n. 24062, in CED Cass., n. 243916, sull’interrogatorio fuori termine ex art. 415-bis c.p.p.
81
Ciò è avvenuto soprattutto riguardo ai giudizi speciali, riconducendo nella fisiologia della sanzione ricognizioni svolte in
incidente probatorio senza le forme previste (Cass., sez. III, 5 maggio 2010, n. 23432, in CED Cass., n. 247638) ovvero atti di indagine svolti fuori termine (Cass., sez. V, 12 luglio 2010, n. 38420, ivi, n. 248506).
82
La nota distinzione è stata ripresa da Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 16, in Giur. it., 2001, p. 116.
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Un esempio paradigmatico all’interno di questo tertium genus 83 si rinviene nella possibilità di avvalersi, anche iussu iudicis, delle dichiarazioni tardive dei collaboratori di giustizia, rese alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero oltre i centottanta giorni dall’apertura del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione 84.
Certamente, in quest’ultimo caso, la soluzione risente della speciale clausola di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese oltre il termine semestrale, consentendo anche l’affermazione di contenuti nuovi nel contraddittorio dibattimentale, o, con riguardo proprio agli interventi probatori officiosi del giudice, dell’abbreviato 85. Ma è altrettanto indubbio che il background in tema di inutilizzabilità abbia influenzato gli argomenti prescelti dalla Suprema corte al fine di individuare più precisi margini dell’intervento giudiziale.
Una consapevolezza per molti versi simile ha indotto poi la Cassazione a “glissare” sulla possibilità
di acquisire le intercettazioni tardive ritenendole provenienti da un procedimento diverso: la recente
consolidazione della intercettazione formata in un procedimento “diverso” quale “corpo di reato”, ai
fini di affermarne aliunde l’utilizzabilità concreta 86, unitamente alla palese identità e uguaglianza del
procedimento e del fatto storico oggetto dell’indagine 87, hanno spinto la Cassazione a privilegiare percorsi motivazionali differenti, incentrati appunto principalmente sulle eventuali lesioni della “parità
delle armi”.
Il presidio sistematico, atto a paralizzare il recupero giudiziale dell’atto, muove dal presupposto che
il dato oggetto del trasferimento probatorio sia un atto legittimamente formato 88 e tiene conto sia delle
dimensioni reali del potere di acquisizione della prova ope iudicis 89, sia delle ridotte potenzialità selettive della sanzione espressa nell’art. 191 c.p.p.
I POTERI DEL GIUDICE FRA COMPLETEZZA DELLE INDAGINI E DIRITTO DI DIFESA
Orbene, se quest’opzione esegetica non rimanesse isolata, i contenuti dell’integrazione giudiziale si
sposterebbero condivisibilmente lungo la traiettoria della “completezza delle indagini”, valore assoluto
al processo 90 governato dal diritto di difesa, determinante sia per l’azione penale sia per le scelte dei riti
alternativi.
Si consoliderebbe in tal modo il collegamento fra l’intervento officioso ex art. 507 c.p.p., il potere del
pubblico ministero di selezione degli elementi d’indagine contemplato dall’art. 130 norme att. c.p.p. e i
diritti difensivi dell’indagato-imputato (espressi anche nell’art. 415-bis c.p.p.) nel “polimorfismo” tipico
dell’inchiesta preliminare 91.
Del resto, non può esservi dubbio che i canali di “approvvigionamento” che il codice sagoma parite83
Cass., sez. un., 25 settembre 2008, n. 1149, in Cass. pen., 2009, p. 2278.
84
Sulla peculiare sanzione conseguente alle violazioni dell’art. 16-quater d.l. n. 8 del 1991, conv. in l. n. 82/1991, sia consentito rinviare a P. Maggio, Il verbale illustrativo della collaborazione giudiziale, in A. Bargi (a cura di), Il «doppio binario» nell’accertamento dei fatti di mafia, Torino, 2013, p. 632 ss.
85
Cass., sez. II, 18 settembre 2013, n. 40724, in CED Cass., n. 256730; secondo Cass., sez. I, 17 settembre 2014, n. 44223, ivi, n.
260898, l’inutilizzabilità, dettata per le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni previsto per la redazione del verbale illustrativo, non si applica alle dichiarazioni rese al giudice nel corso dell’integrazione probatoria del giudizio abbreviato di primo o di secondo grado.
86
Cass., sez. un., 23 luglio 2014, n. 32697, in Proc. pen. giust., 2014, 6, p. 33. In questa dimensione, il contenuto non comunicativo di intercettazioni ambientali autorizzate e disposte in un diverso procedimento viene ritenuto mezzo di prova atipico e
dunque non soggetto al divieto contemplato dall’art. 270 c.p.p. Secondo A. Scalfati, Premessa, in A. Scalfati (a cura di), Le investigazioni atipiche, Torino, 2014, p. XVII, «quando ci si serve dell’art. 189 c.p.p. come passepartout per legittimare le indagini atipiche si
imbastisce un’operazione interpretativa claudicante».
87
Sulle caratteristiche dell’“alterità” o “non uguaglianza”, ai fini della identificazione del procedimento diverso, si soffermano: Cass., sez. II, 10 ottobre 2013, n. 3253, in CED Cass., n. 258591; Cass. sez. IV, 11 dicembre 2008, n. 4169, ivi, n. 242836.
88
N. Galantini, L’inutilizzabilità, cit., p. 82.
89
Secondo Cass., sez. I, 26 giugno 2014, n. 27879, cit., p. 45 ss., non è dunque consentito l’esercizio del potere istruttorio ex officio, di cui all’art. 507 c.p.p., al fine di recuperare al fascicolo del dibattimento un atto ontologicamente irripetibile del medesimo
procedimento (nella specie, intercettazione telefonica), dichiarato inutilizzabile a causa del suo omesso deposito ai sensi degli
artt. 415-bis e 416 del codice di rito.
90
Interessanti notazioni sono espresse da F. Siracusano, La completezza delle indagini nel processo penale, Torino, 2005, p. 81.
91
Cfr. T. Bene, Il polimorfismo dell’inchiesta preliminare, in Arch. pen., 2009, p. 29 ss.; F. Cassibba, La “completezza” e la “concludenza” delle indagini alla luce della rinnovata udienza preliminare, in Cass. pen., 2006, p. 1230.
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ticamente rispetto al singolo momento processuale verrebbero gravemente alterati da una funzione di
recupero tardiva da parte del giudice. Allo stesso modo, il diritto alla prova deve radicarsi nella tempestiva conoscibilità degli atti del procedimento penale 92, congruamente temperata dal valore della segretezza, in relazione a eventuali posizioni soggettive ancora oggetto di indagine 93.
Siffatti sfondi, poi, consentirebbero di amplificare le potenzialità teoriche della sanzione conseguente
all’omesso deposito di atti ex art. 415-bis c.p.p., individuabile nella nullità della richiesta di rinvio a giudizio 94, in forza della centralità assegnata al diritto di difesa, della mancata conoscenza del difensore e
del conseguente difetto di assistenza per l’imputato 95.
Ciò pure nella consapevolezza delle prevalenti affermazioni giurisprudenziali ancorate alla mera
inutilizzabilità degli atti che, in taluni casi, si spinge addirittura sino a negare la sussistenza di patologie
delle attività integrativa, non ravvisando alcuna violazione dei diritti difensivi 96.
Queste ultime opzioni sono state, com’è noto, supportate dalla stessa Consulta, secondo cui l’interesse costituzionalmente tutelato delle parti e dell’intera collettività a un sollecito svolgimento del processo penale richiede che non si irrigidisca, con una previsione di nullità, l’effetto della violazione delle
disposizioni sulla formazione del fascicolo, ma che si lascino invece al giudice il potere e la responsabilità di adottare provvedimenti ispirati a una reazione flessibile, proporzionale alle irregolarità riscontrate, nella prospettiva del soddisfacimento, nei singoli specifici casi, della prescrizione di cui all’art. 111,
comma 3, Cost., in ordine alla garanzia per ogni persona accusata di un reato di disporre del tempo e
delle condizioni necessarie per preparare la propria difesa 97.
A ben vedere, però, gli argomenti offerti dalla Corte costituzionale possono essere sfruttati per avvalorare prospettive interpretative opposte, supportando sempre più – alla stregua di quanto affermato dalla Cassazione a proposito dell’art. 507 c.p.p. – proprio il valore della conoscibilità degli atti del procedimento 98.
Se così fosse, tutte le interpretazioni improntate alla «singolare cedevolezza» della garanzia costituzionale difensiva 99, potrebbero essere confutate alla luce della centralità attribuita al canone della
“parità delle parti”. Del resto, nitidi ragguagli nella medesima direzione sembrano provenire dalle
fonti europee, recepite dal legislatore italiano con il d.lgs. 1 luglio 2014, n. 101, mediante una sorta di
“rielencazione” dei diritti procedurali spettanti ai soggetti indagati, ovvero imputati, nei procedimenti penali 100. Si tratta di conferme della stretta interdipendenza esistente fra atti depositati e contenuti del successivo giudizio 101, inibente la possibilità per il pubblico ministero di avvalersi succes92
A. Marandola, I registri del pubblico ministero. Tra notizia di reato ed effetti procedimentali, Padova, 2001, p. 89 ss.
93
S. Ciampi, L’informazione all’indagato nel procedimento penale, Milano, 2010, p. 10 ss.
94
C. Bonzano, Avviso di conclusioni delle indagini: l’effettività della discovery garantisce il sistema, in Dir. pen. proc., 2009, p. 1281
ss. Su questi temi, altresì, F. Falato, Natura e valore dell’avviso di chiusura delle indagini prelimari, in Giust. pen., 2013, p. 698 ss.
95
P.F. Bruno, voce Intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 197. In prospettiva diversa, M. Nobili, Divieti probatori e sanzioni, in Giust. pen., 1991, III, p. 641, che ritiene la previsione dell’art. 416, comma 2, come un divieto «indiretto», in cui la disposizione è dettata «in chiave di permissione» ed è afferente al «quomodo del procedimento probatorio».
96
Cass., sez. IV, 8 novembre 2013, n. 7597, in CED Cass., n. 259121.
97
C. cost., sent. 8 maggio 2009 n. 142, in Giur. cost., 2009, p. 3931, ha ritenuto infondata la questione di legittimità – sollevata
con riferimento agli art. 24, comma 2, e 111, comma 3, Cost. – dell’art. 416 c.p.p., nella parte in cui non prevede una sanzione di
nullità per i casi in cui il fascicolo trasmesso al giudice con la richiesta di rinvio a giudizio non sia predisposto con l’osservanza
delle prescrizioni contenute nello stesso art. 416 c.p.p., nell’art. 130 delle «norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice
di procedura penale» e nell’art. 3 d.m. 30 settembre 1989, n. 334 (regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale).
98
Cfr. artt. 4 e 5 della Direttiva 25 maggio 2012 (2012/13/UE) del Parlamento europeo e del Consiglio, nonché i punti 22 e 23
dei “considerando”. Sul diritto all’informazione, S. Ciampi, “Letter of rights” e “full disclosure” nella Direttiva europea sul diritto
all’informazione, in Dir. pen proc., 2013, p. 21 ss. La complessità delle fonti e le recenti ripercussioni sull’interprete interno sono
analizzate da F. Ruggieri, Guida minima alla lettura dei provvedimenti UE a tutela dei diritti dell’indagato, in Cass. pen., 2014, p. 2684;
T. Rafaraci, Diritti fondamentali, giusto processo e primato del diritto UE, in Proc. pen. giust., 2014, 3, p. 5 ss.; R. Puglisi, Le nuove garanzie informative nel procedimento cautelare, ivi, 2015, 2, p. 84 ss.
99
L’espressione è ripresa da G.P. Voena, Difesa: III) difesa penale, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1989, p. 15.
100
Con il d.lgs. 1 luglio 2014, n. 101, l’Italia ha attuato la Direttiva 2012/13/UE in ordine alla comunicazione scritta sui diritti
dell’accusato nei procedimenti penali, in linea con la Direttiva 2010/64/UE sulla traduzione e interpretazione che attua la prescrizione dell’art. 82, § 2, TFUE, individuando nei «diritti della persona nella procedura penale» un ambito nel quale l’Unione può
stabilire norme minime «per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e
giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale».
101
Nessuna violazione sussiste quando il pubblico ministero non depositi gli atti espletati in altro procedimento e quegli atti
non vengano utilizzati in dibattimento neppure per le contestazioni, dato che il contraddittorio deve essere garantito per gli atti
sui quali deve formarsi il convincimento giudiziale: Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, n. 1245, in CED Cass., n. 210030.
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sivamente, a processo già instaurato, di atti non trasmessi illo tempore 102.
L’assunto trova poi conforto ulteriore sul versante ordinamentale 103 nel d.lgs. 20 febbraio 2006, n.
106, che ha imposto fra l’altro di assicurare «il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale e il rispetto delle norme sul giusto processo da parte delle Procure», nell’ottica di un sostanziale rafforzamento del ruolo di direzione dei vertici dell’ufficio. Muovendosi in questo specifico contesto e valorizzando la “parità delle armi” per i casi di attività d’indagine svolte dal medesimo ufficio 104, si potrebbe ritenere inopponibile (ossia inutilizzabile) ai danni dell’imputato l’atto d’indagine raccolto da altro pubblico ministero, prima dell’invio dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. La verticalizzazione della titolarità dell’azione penale non potrebbe infatti trasferire sull’imputato l’inefficienza o l’incompletezza del
coordinamento all’interno del medesimo ufficio, con eventuali ripercussioni delle regole di cui al d.lgs.
106 del 2006 pure sull’invalidità dell’atto 105.
La visione unitaria e congiunta di tutte le disposizioni appena richiamate esclude dunque la possibilità di «attribuire alla previsione eccezionale dell’art. 507 c.p.p. alcuna efficacia validante di condotte
determinanti un vero e proprio vizio del procedimento probatorio» 106, con la conseguenza che il percorso ad integrandum del giudice dibattimentale non può porre riparo a selezioni casuali (o strumentali)
del rappresentante dell’accusa.
Anzi, proprio rovesciando il richiamo all’unicità del procedimento probatorio – che la giurisprudenza di merito aveva adoperato per avvalorare la tesi della “sanatoria” ex art. 507 c.p.p. – appare di semplice confutazione il preteso recupero di materiali inutilizzabili: nella sequela di atti regolati per legge,
legati da un nesso giuridico-funzionale, il vizio si proietta infatti sull’attività conseguente 107 e la discovery parziale si traduce in un’omissione “invalidante” che non può in alcun modo essere rimediata da un
intervento officioso ex post.
Ne discende che dal mancato deposito di un elemento acquisito (sia pur ritualmente) nel corso
delle indagini preliminari e disponibile negli atti detenuti dal pubblico ministero, ove lo stesso sia
“riferibile” ai fatti oggetto di esercizio dell’azione penale, deriva un vero e proprio vizio sanzionato
con l’inutilizzabilità del dato probatorio non depositato. Il vizio è desumibile dalla previsione inequivoca degli artt. 415-bis e 416 del codice di rito (espressione del principio costituzionale e sovranazionale di “parità delle armi”), non attenuata né limitata dalla previsione integrativa dell’art. 130
disp. att. c.p.p.
Quest’ultima disposizione, pur consentendo, nel caso di pluralità di soggetti e di imputazioni, di selezionare gli atti d’indagine, non attribuisce infatti al rappresentante dell’accusa un potere discrezionale
e incontrollato ma, viceversa, lo orienta esclusivamente alla soddisfazione delle esigenze di segretezza
investigativa 108.
Alla linearità di tali assunti si potrebbe però obiettare la possibilità di recupero giudiziale delle
omissioni in bonis, che astrattamente consentirebbe di utilizzare l’elemento non depositato proprio in
forza del principio di “parità delle parti”, quale dato equilibratore della situazione di deficit conoscitivo
in cui versa la difesa. Sembra, cioè, divenire più forte la tentazione di leggere l’utilizzabilità contemplata nell’art. 415-bis c.p.p. come unilateralmente orientata: gli atti medesimi possono essere prodotti in
giudizio dalla difesa, sebbene l’obbligo di deposito non possa riguardare quelli esistenti al momento
della chiusura delle indagini che appartengano ad altri procedimenti 109.
L’asserzione dovrebbe tuttavia imporsi sulle determinazioni giurisprudenziali che prospettano problematicamente questa proiezione in bonam partem in assenza di indicatori normativi univoci, dato che
102
O. Dominioni, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in Il nuovo processo penale, Milano, 1989, p. 87.
103
Cfr., analogamente, A. Cisterna, Impossibile recuperare i documenti "occultati" senza violare il diritto di difesa dell’imputato, in
Guida dir., 2014, 33, p. 44.
104
Questi principi sono stati enunciati da Cass., sez. I, 12 marzo 2014, n. 27879, cit., p. 35 ss.
105
Cass., sez. un., 22 gennaio 2009, n. 8388, in Cass. pen., 2009, p. 4157; Cass., sez. II, 10 novembre 2011, n. 42994, in CED Cass.,
n. 251582, secondo cui non integra il caso fortuito o la forza maggiore il ritardo nella trasmissione del fascicolo da parte del
pubblico ministero; pertanto, esso non legittima la restituzione nel termine del predetto organo.
106
Cass., sez. I, 12 marzo 2014, n. 27879, cit., p. 35 ss.
107
F.M. Grifantini, Inutilizzabilità, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 242; G. Illuminati L’inutilizzabilità della prova nel processo penale italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 521.
108
C. cost., sent. 5 aprile 1991 n. 145, in Giur. cost., 1991, p. 1314 ss.
109
Cass., sez. II, 9 maggio 2012, n. 32841, in Arch. n. proc. pen., 2012, p. 636.
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il divieto d’uso di un atto contro una determinata persona non necessariamente ne implica un utilizzo a
favore 110.
LA PARITÀ DELLE PARTI: “ANTIDOTO” SISTEMATICO ALLA DERIVA DEL POTERE GIUDIZIALE
Il complesso dei profili trattati enfatizza ancor più il canone della “parità delle armi”, essenza strutturale del modello accusatorio 111 e principio elevato al rango di requisito costituzionalmente indefettibile
della giurisdizione grazie all’inserimento nell’art. 111 Cost.
Senza tacere poi delle costanti riaffermazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno
consolidato i contenuti di una fairness processuale “onnivalente”, destinata a rilevare nei momenti
dell’ammissione e dell’assunzione probatoria, mediante la sinallagmatica compresenza e partecipazione delle parti che consenta di evitare qualsivoglia forma di svantaggio per l’accusato 112. Allo stesso
tempo, il paradigma prescritto dall’art. 6 C.e.d.u. trova realizzazione già prima del rinvio a giudizio 113,
inibendo posizioni di subalternità per l’indagato che lo rendano suscettibile di subire una decisione
fondata su elementi espressivi di uno scompenso conoscitivo per la difesa.
Il precetto dogmatico, mirante a recuperare i tratti del rito accusatorio, ben si coniuga poi con le letture di tipo garantista della prescrizione contenuta nell’art. 191 c.p.p., interpretata come facente riferimento a qualsivoglia esperimento conoscitivo derivante da modalità non corrette 114, in modo da rappresentare un efficace strumento in grado di assicurare la «più intensa tutela dei diritti» 115 processuali.
Di più, è lo stesso “processo come diritto” che nega la possibilità del recupero di dati probatori mediante alterazioni arbitrarie del significato delle norme processuali che si riflettano negli atti che le applicano 116.
Per questo, porre al centro della trama esegetica delle norme codicistiche il principio della “parità
delle armi” non vuol dire discettare di generiche garanzie difensive dell’imputato o di prerogative inquisitorie del pubblico ministero, ma significa piuttosto interpretare sistematicamente le disposizioni
sull’acquisizione della prova, la cui inosservanza, come stabiliscono gli artt. 191 e 526 c.p.p., è causa di
inutilizzabilità dell’atto in tutti i casi in cui la legge non prescriva diversamente. È, del resto, indubbio
che tali divieti legislativi espressi inibiscano un monopolio esclusivo del thema probandum da parte del
rappresentante dell’accusa capace di alterare le sequenze fisiologiche del rito penale.
Così intesa, la “parità delle armi” sfugge altresì alle problematiche del principio astratto di deriva110
N. Galantini, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Milano, 1992, p. 76 ss. Sul tema, altresì, C. Conti, Accertamento
del fatto e inutilizzabilità nel processo penale, Padova, 2007; F.R. Dinacci, L’inutilizzabilità nel processo penale, cit., p. 37; G. Pierro, Una
nuova specie d’invalidità: l’inutilizzabilità degli atti processuali penali, Salerno, 1992; A. Scella, Prove penali e inutilizzabilità. Uno studio
introduttivo, Torino, 2000.
111
In tema di parità delle armi e diritto di difesa, imprescindibile, G. Vassalli, Il diritto alla prova nel processo penale, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1968, p. 32. Esaltano i rapporti fra parità delle parti dinanzi al giudice e contraddittorio, G. Giostra, Contraddittorio
(principio del) – II) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, VIII, Roma, 2001, p. 1; G. Illuminati, I principi generali del sistema
processuale penale italiano, in Pol. dir., 1999, p. 305; P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, II ed., Bologna, 2012, pp. 99 ss.; G. Ubertis, Sistema
di procedura penale, I, Principi generali, Torino, 2007, pp. 147 ss.
112
Affermazioni già presenti nelle prime decisioni in materia Corte e.d.u., sent. 17 gennaio 1970, Delcourt c. Belgio, § 27, in
www.hudoc.echr.coe.int; Corte e.d.u., sent. 27 giugno 1968, Neumeister c. Austria, § 22, ivi; Corte e.d.u., sent. 19 ottobre 2004, Makhfi
c. Francia, § 42, ivi. La parità delle parti opera anche laddove si discuta di libertà personale (Corte e.d.u., Grande camera, sent. 25
marzo 1999, Nikolova c. Bulgaria, § 58, in www.hudoc.echr.coe.int) o nelle fasi delle impugnazioni (Corte e.d.u., sent. 25 marzo 1998,
Belziuk c. Polonia, § 37, in www.hudoc.echr.coe.int. Si veda l’analisi di G. Ubertis, Principi di procedura penale europea. Le regole del
giusto processo, Milano, 2009, p. 52 ss.
113
Richiami generali alla necessità che l’equità del giudizio sia rispettata sin dalle sue fasi iniziali si rinvengono nel noto caso
Corte e.d.u., sent. 24 novembre 1993, Imbrioscia c. Svizzera, § 36, in www.hudoc.echr.coe.int; nell’orientamento ormai consolidato,
ex pluribus, Corte e.d.u., Grande camera, sent. 27 novembre 2008, Salduz c. Turchia, § 50, in www.hudoc.echr.coe.int. Di recente,
Corte e.d.u., sent. 17 ottobre 2013, Horvatić c. Croazia, § 77, in www.hudoc.echr.coe.int, con riguardo all’utilizzabilità del dato probatorio scientifico.
114
G. Ubertis, Prova, in Dig. disc. pen., X, Torino, 1995, p. 324.
115
I concetti sono ben sviluppati da A. Ruggeri, Dialogo tra le Corti e tecniche decisorie a tutela dei diritti fondamentali, in Id., Itinerari di una ricerca nel sistema delle fonti, XII, Torino, 2014, p. 405.
116
Cfr. F. M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano, 2013, p. 134. In precedenza, V. Esposito, “Fair
trial” anglosassone, “procès équitable” europeo, “processo giusto” italiano, in Rass. pen. e crim., 1982, p. 1 ss., secondo cui il processo
non giusto ex art. 6 C.e.d.u. si traduce in una nullità del sistema.
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153
zione sovranazionale 117 e si configura, piuttosto, come una proiezione concreta e diretta del contesto
“valoriale sistemico” del tessuto costituzionale e del codice di rito del 1988 118, che impone all’interprete
di cogliere le prescrizioni codicistiche senza alterarne il significato per il tramite di “artifici” esegetici in
malam partem.
Non si tratta, dunque, di scardinare il principio della legalità processuale, quanto piuttosto di rinvigorirne le forme e i contenuti essenziali alla luce di una “parità delle armi” affermata e imposta dalle
disposizioni processuali esistenti.
Peraltro, il delineato percorso è utile a rinsaldare la stessa connotazione della ricerca della verità negli ordinamenti democratici che non può essere un’«impresa solipsistica» ma deve rappresentare
un’esperienza collettiva 119, mediata dal principio del contraddittorio. Infine, esso è essenziale per ribadire come il ruolo integrativo giudiziale debba muoversi nella fisiologia del rito, all’interno dei suoi
presidi normativi.
Ne discende che, ogni qualvolta emerga un vizio interno del procedimento probatorio che accenda
più di un profilo di sospetto sulla ritualità dell’atto, l’inutilizzabilità non può essere raggirata in virtù
del potere suppletivo del giudice, che – lo si ribadisce – è esercitabile con finalità di integrazione delle
indagini incomplete in un contesto dominato dal “ragionevole dubbio”.
La richiamata “parità delle armi” funge dunque da strumento di contrasto efficace degli “abusi” o
delle irregolarità nel potere di selezione degli atti accordato al pubblico ministero che originino totali
deficit di “completezza”. E in quest’accezione empirica essa diviene parametro commisurativo degli
spazi concessi all’accusa e alla difesa nella ricerca, nella verifica e nell’elaborazione probatoria, in posizione simmetrica e paritaria dinanzi a un giudice imparziale contribuendo, forse, a realizzare l’obiettivo
antico (e assai spesso eluso) di «concedere un ugual numero di gironi al reo e all’accusatore per sostenere la verità dell’accusa 120».
117
Sulla tematica complessa del rapporto fra fonti interne ed europee si segnalano, da ultimi, O. Di Giovine, Antiformalismo
interpretativo: il pollo di Russell e la stabilizzazione del precedente giurisprudenziale, in www.penalecontemporaneo.it; D. Pulitanò, Due
approcci sui rapporti fra Costituzione e Cedu in materia penale, Questioni lasciate aperte da Corte cost. n. 49/2015, ivi.
118
A esso fa richiamo F. Cassibba, Parità delle parti ed effettività del contraddittorio nel procedimento di sorveglianza, in www.
penalecontemporaneo.it, III/IV, 2012, p. 13 ss.; al principio si ispirano, fra le tante, C. cost., sent. 5 giugno 2015 n. 97, in www.
processopenaleegiustizia, e C. cost., sent. 21 maggio 2014 n. 135, in Giur. cost., 2014, p. 2256.
119
G. Fiandaca, Il giudice tra giustizia e democrazia nella società complessa, in Id., Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2002,
p. 32.
120
G. Filangieri, La Scienza della legislazione, Napoli 1780-1785, ried. crit., Venezia, 2003-2004, [III, 7], 3, p. 64.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | I POTERI ISTRUTTORI DEL GIUDICE PENALE
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
154
GIUSEPPE BISCARDI
Ricercatore di procedura penale – Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Atti a finalità mista, indizi di reato e garanzie difensive.
Una sintesi difficile
Actions with mixed purposes, crime indicias and defensional
guarantees. A difficult balance
Come noto, l’art. 220 norme coord. c.p.p. stabilisce che, all’atto dell’emersione di indizi di reato, ispezioni e verifiche amministrative debbano essere condotte – per quanto concerne l’indagine su ipotesi criminose – previo allestimento delle forme e garanzie previste dal codice di rito. Il tema centrale è quindi stabilire quando tali indizi debbano considerarsi sussistenti. Specifici aspetti problematici, peraltro, sorgono laddove il procedimento extrapenale
riguardi verifiche fiscali che poi sfociano in delitti tributari connotati da soglie di punibilità.
As we know, art. 220 of the coordinated criminal procedure code establishes that, when there is serious suspicion that an offence has been committed, administrative inspections and enquiries must be conducted –as far as
they concern crimes – with the forms and guarantees provided by the criminal procedure code. The main issue,
therefore, is to establish when those indicias emerge. Specific controversial issues arise when any extra-criminal
proceeding concerns tax investigations revealing tax crimes with a punishment threshold.
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO E FUMUS COMMISSI DELICTI
Dando vita ad un novum 1 apprezzabile almeno nelle intenzioni, il codice di procedura penale vigente ha inteso disciplinare in modo espresso 2 la questione – complessa e non di rado sfuggente –
dell’emersione di indizi di reato nel corso di accertamenti aventi natura extrapenale 3. Se, tuttavia, si
esamina l’elaborazione giurisprudenziale in argomento 4, può dirsi che la previsione normativa in
discorso non brilla per chiarezza ed univocità 5, essendo sorti nella prassi rilevanti profili problematici.
Eppure, all’apparenza, la soluzione legislativa non sembra tortuosa 6. Come noto, l’art. 220 norme
coord. c.p.p. dispone che, se nel corso di attività ispettive o di vigilanza 7 emergono indizi di reato, gli
1
Cfr. R.E. Kostoris, sub art. 220, in E. Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario del nuovo codice di procedura penale,
Appendice, Milano, 1990, p. 74; G. Fumu, sub art. 220, in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale – La normativa complementare – II – Norme di coordinamento e transitorie, Torino, 1992, p. 101.
2
Peraltro, la regola dettata dall’art. 220 norme coord. c.p.p., a parere di N. Furin-L. Tedeschi, Garanzie di difesa tra attività
amministrative di vigilanza e attività investigative di polizia giudiziaria in materia di igiene e sicurezza del lavoro, in Cass. pen., 1997, p.
1511, non fa che esplicitare quanto già ricavabile da altre disposizioni del codice (ad es. artt. 63, 331, 335, 347).
3
Tributaria (infra), sanitaria, ambientale, previdenziale, etc.; cfr. G. Fumu, sub art. 220, cit., p. 104, nota 17.
4
Infra.
5
In termini Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, in Cass. pen., 2002, pp. 1304 ss.
6
In tal senso G. Fumu, sub art. 220, cit., p. 102.
7
«Previste da leggi o decreti»; in proposito R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 78, rileva l’omessa inclusione dei regolamenti tra
le fonti citate dall’art. 220 norme coord. c.p.p.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ATTI A FINALITÀ MISTA, INDIZI DI REATO E GARANZIE DIFENSIVE
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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atti di assicurazione delle fonti di prova 8 devono essere compiuti nel rispetto delle prescrizioni impartite dal codice di procedura penale 9. Si tratta di opzione aderente a numerosi dicta della giurisprudenza
costituzionale 10. La quale, appunto, ha escluso che le garanzie difensive debbano operare prima di tale
emersione 11; a meno che non si tratti di compiere atti fisiologicamente irripetibili, dei quali deve essere
dato previo avviso «all’interessato» 12, posto che gli stessi entrano a far parte del fascicolo per il dibattimento (art. 223, comma 3, norme coord. c.p.p.) 13.
ATTIVITÀ ISPETTIVE E DI VIGILANZA: QUESTIONI RILEVANTI
Un primo tema da esaminare concerne la perimetrazione delle attività nel corso delle quali 14 emergano
indizi di reato. A tal riguardo, la giurisprudenza 15 ha tentato di distinguere tra ispezione e vigilanza,
ritenendo la prima un’esplicazione del rapporto gerarchico tra ispettore ed ispezionato, e la seconda
l’esercizio di poteri pubblici di controllo sul rispetto di obblighi normativi da parte dei soggetti ad essi
tenuti 16. Tuttavia, tale linea di demarcazione non appare sempre netta. Ad esempio, e per quel che qui
più interessa 17, la Guardia di Finanza e gli uffici finanziari ispezionano la contabilità del contribuente,
anche in loco, e lo fanno al fine di controllare il (id est vigilare sul) rispetto degli obblighi imposti dalla
normativa tributaria. Per questa ragione, è necessario che le attività rilevanti ai fini dell’applicazione
dell’art. 220 norme coord. c.p.p. vengano individuate tramite l’accezione più ampia possibile 18.
8
Versandosi in uno stadio preprocessuale, deve ritenersi che il legislatore non si riferisca tout court alle prove, ma ad elementi che
possano assumere tale sembianza se e quando acquisiti in contraddittorio (ad esempio, le sommarie informazioni testimoniali di cui
all’art. 351 c.p.p.). Nondimeno, è impossibile pensare ad un’esclusione, nella fattispecie, degli atti irripetibili (ad esempio, il sequestro di
cose pertinenti al reato, art. 354, comma 2, ultimo periodo, c.p.p.) la cui valenza probatoria è fuori discussione.
9
Artt. 347 ss. c.p.p. In proposito, un utile quanto sintetico catalogo degli atti che possono essere compiuti è fornito dalla Circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza, vol. III, parte VII, in www.fiscoetasse.com, pp. 162 ss; nonché da L. Ambrosi-A. Iorio (a
cura di), Dal legale al domicilio, procedura più rigida, in Sole 24 Ore, 16 febbraio 2015, p. 22. Sebbene si tenda talora a circoscrivere la
portata applicativa dell’art. 220 norme coord. c.p.p. alle attività di iniziativa della polizia giudiziaria – paradigmatica al riguardo
la Circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza, cit., ibidem –, non vi è dubbio che tale disposizione imponga l’immediata operatività di ogni altra norma in ipotesi rilevante, tra cui il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’indagato (art. 62, comma
1, c.p.p.), ed il regime delle dichiarazioni auto ed eteroindizianti (art. 63 c.p.p., infra).
10
Sentt. 12 giugno 1996, n. 194; 26 giugno 1990, n. 330; 28 gennaio 1986, n. 15; 28 luglio 1983, n. 248; 8 maggio 1974, n. 122; 18
maggio 1972, n. 95; 2 febbraio 1971, n. 10; 6 luglio 1970, n. 118; 22 gennaio 1970, n. 2; 3 dicembre 1968, n. 149; 7 luglio 1968, n. 86;
17 giugno 1968, n. 69, tutte in www.cortecostituzionale.it.
11
Esprime decisa contrarietà al riguardo N. Furin, Polizia amministrativa e polizia giudiziaria: possono le pretese distinzioni tra
queste funzioni limitare le garanzie difensive nell’ambito dell’attività ispettiva e di vigilanza amministrativa?, in Cass. pen., 1999, pp.
2452-2453.
12
V. art. 223, commi 1 e 2, norme coord. c.p.p.
13
In sostanza, va garantita la difesa di chi potrebbe subire gli effetti dei risultati cui si perviene con l’atto irripetibile. D’altra
parte, in una fase meramente preliminare non è sempre agevole individuare tale soggetto.
14
Deve trattarsi quindi di un procedimento già iniziato e in itinere, il cui esordio, attese le caratteristiche extrapenali che lo
connotano, non implica un previo allestimento di garanzie difensive (supra). È un’impostazione non irragionevole, anche se diversa soluzione è adombrata da R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 77. In effetti, gli atti cui fa riferimento l’art. 220 norme coord.
c.p.p. hanno finalità mista (M. Nobili, Atti di polizia amministrativa utilizzabili nel processo penale e diritto di difesa: una pronuncia
marcatamente innovativa, in Foro it., 1984, I, c. 376), non potendosi predeterminare le risultanze cui giungeranno, le quali potranno avere anche rilevanza penale. In proposito, la giurisprudenza (Cass., sez. III, 17 giugno 2014, n. 27682, in www.dejure.giuffre.it)
ha affermato che quando venga effettuato un controllo amministrativo di altrui documentazione che “fotografi” un’ipotesi di
reato – nella fattispecie, omesso versamento delle ritenute previdenziali di cui all’art. 2, comma 1-bis, l. 11 novembre 1983, n. 638
– non può porsi questione di applicabilità dell’art. 220 norme coord. c.p.p. L’assunto non è del tutto erroneo (v. infatti infra); ma
qualche precisazione è obbligata. Anzitutto, si cadrebbe in errore ritenendo che le attività di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p.
implichino di necessità l’accesso presso luoghi diversi dalla sede dell’amministrazione accertante (aziende, abitazioni, etc.). Potendo le stesse sostanziarsi anche, ad esempio, in richieste di documenti da inviare o consegnare presso tale sede (cfr. N. Furin,
Polizia amministrativa, cit., p. 2438). Inoltre, se dal controllo cartolare emerge la necessità di assumere informazioni dall’interessato o da terzi, queste ultime, ricorrendone le condizioni, saranno soggette alla disciplina di coordinamento. È chiaro, d’altra
parte, che se ciò non occorre in quanto l’indizio di reato si è già manifestato in forme sufficienti (infra), l’unico possibile seguito
sarà la trasmissione della notizia a norma dell’art. 331 c.p.p. (infra).
15
Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit.
16
Si veda G. Fumu, sub art. 220, cit., p. 104.
17
Infra.
18
In termini Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit.; G. Fumu, sub art. 220, cit., ibidem. Per tale motivo, non è condi-
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Ciò premesso, desta perplessità recente e reiterata giurisprudenza 19 secondo cui l’attività del curatore fallimentare, finalizzata alla presentazione della relazione di cui all’art. 33 r.d. 16 marzo 1942, n. 267,
esula dall’ambito di applicabilità dell’art. 220 norme coord. c.p.p.; e le dichiarazioni rilasciate dal fallito
in tale circostanza non soggiacciono alla disciplina di cui all’art. 63 c.p.p. Quest’ultima affermazione è
esatta, non potendosi qualificare il curatore come soggetto appartenente alla polizia giudiziaria 20. La
prima è da precisare, nei termini che seguono. Il curatore è legittimato ad ispezionare i libri contabili
dell’impresa fallita; così come è autorizzato, rectius obbligato, a verificare l’andamento gestionale dell’impresa nel periodo prefallimentare. Si tratta di un’attività ad esiti non predeterminabili (supra), nel
corso della quale non può escludersi l’insorgenza di indizi di reato. Ed allora, se vuol dirsi che nella fattispecie l’art. 220 norme coord. c.p.p. non si applica in quanto il curatore non appartiene alla polizia
giudiziaria, il rilievo è corretto, poiché a seguito di tale insorgenza non resterà che trasmettere la notizia
di reato a norma dell’art. 331 c.p.p. (infra). Ciò, tuttavia, non potrà impedire l’applicazione dell’art. 62
c.p.p., con conseguente divieto di testimonianza delle dichiarazioni rese dall’indagato 21. In tali casi, infatti, vi è l’obbligo di adottare una nozione di «procedimento» quanto più ampia possibile 22.
In pari, se non maggiore, misura, desta perplessità altra giurisprudenza 23, per la quale l’art. 220
norme coord. c.p.p. non trova spazio applicativo nel caso in cui gli insegnanti di una scuola provvedano a verbalizzare dichiarazioni sottoscritte da studenti, ed acquisibili a norma dell’art. 234 c.p.p., al fine
di individuare i responsabili di atti vandalici commessi all’interno dell’edificio scolastico. Poiché
l’attività ispettiva sarebbe riservata ai funzionari ministeriali ed al dirigente dell’istituto. A parte che la
motivazione non esplicita se si trattasse di dichiarazioni auto od eteroincriminanti, pare evidente la pericolosità di tale impostazione. Sussistendo indizi di reato 24, sarebbe sufficiente incaricare (od autoinvestirsi) di atti ispettivi in assenza dei requisiti soggettivi per compierli 25, per raccogliere elementi utilizzabili nel processo penale. Viceversa, appare applicabile l’art. 62 c.p.p., se gli imputati siano coloro che
rendono dichiarazioni autoincriminanti. Come già in parte precisato, la circostanza che le dichiarazioni
debbano essere rese «nel corso del procedimento» 26, non implica la formale instaurazione di quest’ultimo 27. Sebbene si tenda a ritenere possibile la testimonianza su dichiarazioni rese “al di fuori” del procedimento 28, tali dovranno intendersi solo quelle del tutto avulse da quest’ultimo. Come quando, ad
esempio, siano rese a parenti, affini od amici in contesti extraprocedimentali 29.
APPARTENENZA ALLA POLIZIA GIUDIZIARIA DEI SOGGETTI INCARICATI DELL’ISPEZIONE O DELLA VIGILANZA
Riprendendo un aspetto già accennato, appare indispensabile un chiarimento preliminare. Va distinto il
caso in cui l’accertamento extrapenale sia condotto da soggetti appartenenti alla polizia giudiziaria 30,
da quello in cui tale qualifica manchi. In quest’ultima ipotesi, gli atti previsti nell’art. 220 norme coord.
visibile quanto sostenuto da Cass., sez. IV, 21 dicembre 2011, n. 11197, in www.dejure.giuffre.it, per la quale – sebbene con riferimento all’art. 223 norme coord. c.p.p. – le garanzie approntate dal codice non operano se la vigilanza è richiesta dal privato interessato. Sembra un distinguo non sostenibile: purché il controllo sia previsto in via normativa (supra), l’eventuale emersione di
indizi di reato impone una soluzione uniforme.
19
Cass., sez. V, 20 giugno 2013, n. 35347, in Guida dir., 2013, 40, p. 91; Cass., sez. V, 18 gennaio 2013, n. 13285, in
www.dejure.giuffre.it; conforme Cass., sez. V, 4 ottobre 2004, n. 46795, in Cass. pen., 2006, p. 2224.
20
Art. 57, comma 3, c.p.p., infra. Nello stesso senso C. cost., sent. 27 aprile 1995, n. 136, in www.cortecostituzionale.it.
21
Contra, sebbene in una fattispecie avente ad oggetto il verbale di apposizione sigilli redatto in costanza di fallimento,
Cass., sez. V, 23 settembre 2005, n. 44285, in www.dejure.giuffre.it.
22
C. cost., sent. 28 luglio 1983, n. 248, cit.; Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit. Anche se va riconosciuto che nella
prassi tale regola è spesso disattesa, consentendosi l’acquisizione della relazione del curatore a norma dell’art. 234 c.p.p.
23
Cass., sez. II, 7 dicembre 2012, n. 11888, in www.dejure.giuffre.it.
24
E nel caso era già in corso un’indagine preliminare (sic).
25
E quindi contra legem.
26
Art. 62, comma 1, c.p.p.
27
Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit. Anche se, come visto, nel caso un procedimento era già pendente.
28
Cass., sez. II, 18 febbraio 2000, n. 7255, in Cass. pen., 2001, p. 1847.
29
Nello stesso ordine di idee cfr. Cass., sez. V, 25 giugno 2001, n. 32464, in www.dejure.giuffre.it.
30
Al riguardo un’utile ricognizione è effettuata da R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 74, nota 4.
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c.p.p. saranno inibiti, residuando solo l’obbligo di denuncia a norma dell’art. 331 c.p.p. 31. In altri termini, la disposizione di coordinamento in esame non può valere ad attribuire poteri investigativi, nel procedimento penale, a chi non sia autorizzato dalla disciplina generale (artt. 55 ss. c.p.p.) 32.
Vale la pena segnalare, inoltre, che l’emersione di indizi di reato nel corso di accertamenti amministrativi non imporrà, salve contrarie previsioni di diritto positivo, l’interruzione o sospensione degli
stessi, purché circoscritti all’ambito extrapenale 33.
IL DIES A QUO APPLICATIVO DELLE PREVISIONI DI CUI ALL’ART. 220 NORME COORD. C.P.P.
Come può intuirsi, in subiecta materia punto centrale è stabilire quando si verifichi l’emersione di indizi
di reato, che a sua volta impone l’allestimento dell’apparato di garanzie predisposto dall’art. 220 norme
coord. c.p.p. 34. Al riguardo, un dato pare incontestabile, proprio alla luce dell’esame testuale della disposizione. Rileva l’ipotesi di un fatto qualificabile come penalmente illecito, a prescindere da – e quindi anche in assenza di – elementi che possano attribuirlo ad un determinato soggetto 35. In altri termini,
non è di ostacolo all’immediata operatività della previsione la circostanza che non ancora vi sia un soggetto sottoposto ad indagini. Del resto, se ciò fosse, a fortiori si imporrebbe tale immediata operatività.
In ogni caso, si è ritenuto 36 che la valutazione di idoneità degli elementi indizianti a far scattare il meccanismo di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p. spetti al giudice di merito.
In argomento, il punctum dolens è senz’altro da individuare nell’ipotesi in cui l’emersione degli indizi
coincida con dichiarazioni autoincriminanti 37. In tal caso 38, sembrerebbe inapplicabile la previsione di
cui all’art. 62 c.p.p., che come visto postula che le dichiarazioni su cui è vietato testimoniare siano rese
nel corso del procedimento (penale, deve intendersi). Quindi non prima che quest’ultimo sia configurabile. Al riguardo, tuttavia, deve segnalarsi che la giurisprudenza 39 sembra ritenere operante il divieto
de quo anche quando il pubblico ufficiale che riceve la dichiarazione trasmetta la denuncia a norma
dell’art. 331 c.p.p. D’altra parte, se il soggetto ricevente appartiene alla polizia giudiziaria, sembra applicabile l’art. 63, comma 1, c.p.p., anche nella parte in cui vieta l’uso contra se della dichiarazione 40.
Sempre in ordine al momento in cui deve ritenersi verificata l’emersione degli indizi di reato, si è affermato che ciò avverrà quando sarà possibile prospettare una «mera possibilità di attribuire ... rilevanza
penale al fatto» 41.
31
R. E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 80.
32
G. Fumu, sub art. 220, cit., p. 105. Conclusione inevitabile, che tuttavia potrebbe condurre alla dispersione delle fonti di
prova che l’art. 220 norme coord. c.p.p. tende a salvaguardare. Per quanto concerne i reati tributari, è noto che l’art. 32, l. 7 gennaio 1929, n. 4, qualifica in modo sussidiario i poteri della polizia giudiziaria «ordinaria», stabilendo che all’atto dell’apprensione
della notizia di reato la stessa debba avvertire «senza indugio» la polizia tributaria (art. 31, l. n. 4 del 1929), provvedendo medio
tempore a che «nulla sia mutato nello stato delle cose».
33
G. Fumu, sub art. 220, cit., ibidem. Per quel che qui più interessa, la regola è esplicitata nell’art. 20 d.lgs. 10 marzo 2000, n.
74, che come noto, pendente il procedimento penale avente ad oggetto «i medesimi fatti» oggetto di procedimento amministrativo, ovvero «fatti dal cui accertamento» dipende la definizione del procedimento amministrativo, vieta la sospensione di quest’ultimo.
34
Non sembrando dubbio che tale previsione abbia il fine principale di evitare “penalizzazioni” nei confronti di chi, eventualmente, dovrà “subire” le risultanze degli accertamenti (R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 79). Si veda tuttavia infra.
35
Cfr. Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit. La precisazione appare importante anche nel settore dell’accertamento
tributario, quando effettuato nei confronti di società o comunque di enti “collettivi”. In tal caso, infatti, l’esistenza di previsioni statutarie o di atti contenenti deleghe di funzioni (R.E. Kostoris, sub art. 223, in E. Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario, cit.,
p. 127) può rendere non agevolmente attribuibile il fatto ad una determinata persona fisica. Peraltro, la prassi non condivisibile
dell’amministrazione finanziaria è orientata nel senso dell’attribuzione della condotta al legale rappresentante dell’ente.
36
Da parte di Cass., sez. III, 19 febbraio 2014, n. 12254, in Guida dir., 2014, 15, p. 102.
37
Supra. Meno dirompente è il caso di dichiarazioni contra alios, che in prosieguo dovranno comunque essere acquisite nelle
forme proprie del procedimento penale (artt. 351 c.p.p. e 220 norme coord. c.p.p.).
38
V. ad es. Cass., sez. V, 23 settembre 2005, n. 44285, cit.
39
Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit.
40
In termini, sebbene incidentalmente, Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit. Nello stesso senso sembrano orientati
Cass., sez. V, 25 giugno 2001, n. 32464, in www.dejure.giuffre.it, e Trib. Piacenza, 16 ottobre 2001, in Riv. pen., 2002, p. 408.
41
Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit. Meno garantista l’impostazione di Cass., sez. III, 18 novembre 2014, n.
4919, in www.dirittoegiustizia.it, secondo cui occorre una «concreta probabilità» di commissione del reato (infra).
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LA NOZIONE DI INDIZIO RILEVANTE IN MATERIA
Appare certo che con l’espressione «indizi» l’art. 220 norme coord. c.p.p. 42 non abbia voluto riferirsi alla
fattispecie di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. 43. Dovendo piuttosto l’interpretazione ancorarsi al riferimento alla «notizia di reato» di cui all’art. 347, comma 1, c.p.p. 44. In altre parole, non occorre una particolare pregnanza ed incisività del quadro indiziario per rendere operativa la disciplina di coordinamento 45.
Tali puntualizzazioni, pur ineccepibili, non paiono tuttavia tranquillizzanti per l’interprete; come
per l’operatore. Questo, anche a non voler dare eccessivo risalto all’antica, e talora riaffiorante 46, distinzione tra indizi e sospetti 47. Il nodo essenziale è che l’art. 220 norme coord. c.p.p. è destinato ad incidere
in ambiti di regola connotati da tecnicismo, complessità e (non di rado) oscurità elevati. E quest’ultima
caratteristica, in particolare, consente a volte che l’ispezione o la vigilanza siano condizionate, quanto
alla loro evoluzione 48, da fattori soggettivi. Così, può accadere che il meccanismo “di garanzia” sia anticipato. E, più spesso, che esso sia pericolosamente 49 ritardato, se non addirittura vanificato 50.
Del resto, che in tale ambito, anche al netto di soggettivismi non del tutto evitabili, ancora si evidenzino e persistano impostazioni contraddittorie, è dimostrato a fortiori da una recentissima pronuncia 51.
Nel caso, la polizia tributaria, nel corso di un’ispezione amministrativa, aveva provveduto a riversare
su supporto informatico il contenuto degli account di posta elettronica riconducibili ad amministratori e
dirigenti di una società. Le mail così rinvenute erano state lette dai verificatori, e solo dopo tale lettura si
era provveduto a trasmettere la notizia di reato al pubblico ministero, il quale aveva disposto il sequestro probatorio della corrispondenza 52. A prescindere dalla decisione dei giudici di legittimità 53, appare
solare la violazione dell’art. 220 norme coord. c.p.p. Atteso che la polizia tributaria, appena ravvisati gli
indizi di reato 54, avrebbe dovuto operare nel rispetto degli artt. 347 ss. c.p.p. 55.
42
Che oltretutto non restringe con aggettivi il campo semantico. Non occorrendo, pertanto, che gli indizi siano dotati di gravità e/o precisione e/o concordanza (R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., ibidem).
43
R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., ibidem.
44
Nonché art. 331, comma 1, c.p.p.
45
In termini, come già visto, Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit. Secondo la Circolare n. 1/2008 della Guardia di
Finanza, cit., p. 159, gli indizi di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p. si collocano in uno stadio temporalmente anteriore alla notizia di reato, rectius all’obbligo di trasmissione di quest’ultima, che sorge a fronte di «una fattispecie criminosa sufficientemente determinata nei suoi principali elementi oggettivi». Con ciò vuole intendersi, forse, che l’art. 220 norme coord. c.p.p. trova applicazione prima che la polizia giudiziaria riferisca al pubblico ministero sulle attività svolte (art. 347, commi 1, 2-bis, e 3, c.p.p.).
In argomento v. anche Cass., sez. III, 18 novembre 2014, n. 4919, cit.; Cass., sez. III, 19 febbraio 2014, n. 12254, cit.; C. Santoriello, Precisazioni della Cassazione in tema di definizione dell’imposta evasa nel processo penale, in Riv. dir. trib., 2011, 11, III, p. 249.
46
V. ad es. Circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza, cit., p. 182, sebbene in un’accezione analoga agli «indizi» di cui
all’art. 220 norme coord. c.p.p.; Cass., sez. III, 10 aprile 1997, n. 4432, in Cass. pen., 1998, p. 651.
47
Conseguenza di tale implausibile discrimine sarebbe che i sospetti, a differenza degli indizi, non impongono l’applicazione dell’art. 220 norme coord. c.p.p. In senso critico, qui condiviso, R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., ibidem.
48
Ossia all’individuazione del momento da cui si rende necessaria l’applicazione delle forme del procedimento penale (supra).
49
Mette in guardia da tale inconveniente R. E. Kostoris, sub art. 220, cit., pp. 75-76, il quale rammenta che nel corso dei lavori
preparatori del codice si era proposto di anticipare le garanzie rispetto all’emersione di indizi di reato, ogniqualvolta si versasse
nella fattispecie di atti a finalità mista (p. 77; supra). Nella stessa direzione, come già ricordato, N. Furin, Polizia amministrativa,
cit., pp. 2452-2453.
50
Infra. Si ponga mente al settore qui di maggior interesse: l’accertamento tributario. Con riferimento, ad esempio, al delitto
di cui all’art. 10, d.lgs. n. 74 del 2000 (su cui v. in ultimo Cass., sez. III, 15 ottobre 2014, n. 11248, in www.dejure.giuffre.it; Cass.,
sez. III, 26 giugno 2014, n. 11479, in www.dejure.giuffre.it) il singolo appartenente all’amministrazione finanziaria potrà ritenerne
sussistenti gli indizi a fronte della mancata esibizione dell’attestazione che le scritture contabili sono detenute da terzi. Altro dipendente della stessa amministrazione riterrà invece necessari ulteriori approfondimenti in sede amministrativa, sul presupposto – non proprio errato – che tale omissione rilevi solo in detta sede (art. 52, commi 5 e 10, d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633).
51
Cass., sez. III, ordinanza 25 settembre 2014, n. 29072, in www.dirittoegiustizia.it. Il deposito del provvedimento si è avuto
solo lo scorso 8 luglio.
52
Al fine di dimostrare l’”esterovestizione” della società, e quindi la sottrazione all’obbligo, nel caso penalmente rilevante
(art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000), di presentazione della dichiarazione.
53
Che hanno ritenuto inammissibile il ricorso proposto dagli indagati, in quanto carente di interesse, individuato nell’esigenza di rimediare a menomazioni della propria sfera giuridica, e non in quello di vagliare la legittimità dell’acquisizione delle fonti di prova (contra Cass., sez. VI, 1 luglio 2003, n. 36775, in Cass. pen., 2005, p. 914).
54
Il che, nella fattispecie, sarebbe dovuto avvenire prima dell’apprensione, e ancor più della lettura, della corrispondenza te-
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Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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SANZIONI PROCESSUALI PER IL VULNUS AL MODUS PROCEDENDI
Resta da stabilire cosa accada laddove la prescrizione di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p. venga disattesa 56.
La giurisprudenza prevalente 57 ritiene che in tal caso gli atti compiuti post indizi siano inutilizzabili.
Tuttavia, non mancano pronunce 58 che inquadrano la fattispecie nell’ambito della nullità intermedia di
cui all’art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p.
In realtà, la tesi che impone di ravvisare inutilizzabilità non pare contestabile. Al riguardo, l’argomento di contrasto consiste nell’osservare che l’art. 220 norme coord. c.p.p. impone il rispetto di determinate forme procedimentali. Se queste sono carenti, in tutto o in parte, si ha deviazione dal modello
legale di riferimento, che costituisce come noto l’essenza della nullità; e non la violazione di un divieto
probatorio 59. In tal modo, tuttavia, si trascura di considerare che il rispetto delle forme, nella fattispecie,
è prescritto per assicurare le «fonti di prova» (art. 220 norme coord. c.p.p.) 60. Non si vede, quindi, come
possa negarsi che il divieto di assicurare quanto sopra in forme diverse da quelle scolpite nel codice di
rito equivalga ad un divieto probatorio. Ossia: se le forme stabilite non sono osservate, l’atto non potrà
avere valore, diretto od eventuale 61, di prova.
Tuttavia, la tesi della nullità può essere recuperata, sebbene in chiave residuale e con i dovuti adattamenti. Nel testo dell’art. 220 norme coord. c.p.p., il rispetto delle forme del procedimento penale è
stabilito – oltre che per assicurare le fonti di prova– anche per «raccogliere quant’altro possa servire per
l’applicazione della legge penale». Sebbene l’espressione non paia eccelsa sul piano stilistico, da essa 62
emerge con sufficiente chiarezza che le disposizioni del codice di rito vanno osservate anche in relazione ad atti che con le prove, rectius con la salvaguardia delle loro fonti, non hanno a che vedere. In
quest’ultimo caso, ove dovesse riscontrarsi un deficit delle forme prescritte, la sanzione di inutilizzabilità parrebbe extravagante, potendo al più configurarsi una nullità 63.
In ogni caso, l’indirizzo minoritario, che nella violazione del precetto di cui all’art. 220 norme coord.
c.p.p. intravede nullità intermedia a norma dell’art. 178, lett. c), c.p.p., trae da tale premessa conseguenze
lematica. Atteso che la compatibilità tra atti di indagine meramente amministrativa e lesione dell’art. 15 Cost. appare molto più
che problematica. Comunque, anche al verificarsi di quest’ultima evenienza, alla lettura della prima comunicazione “incriminante” la polizia tributaria avrebbe dovuto procedere a norma degli artt. 347 ss. c.p.p.
55
In proposito, la difesa dei ricorrenti ha espressamente richiamato l’art. 353, commi 1 e 2, c.p.p. (cfr. Cass., sez. III, ord. 25
settembre 2014, n. 29072, cit.).
56
Ferme restando le criticità palesate supra, in ordine all’individuazione del momento a partire dal quale debbono operare le
garanzie procedimentali.
57
Cass., sez. III, 18 novembre 2014, n. 4919, cit.; Cass., sez. III, 19 febbraio 2014, n. 12254, cit.; Cass., sez. III, 9 febbraio 2011, n.
28053, in Riv. dir. tributario, 2011, 11, III, p. 244; Cass., sez. III, 10 febbraio 2010, n. 15372, in Cass. pen., 2012, p. 1069; Cass., sez. III,
18 novembre 2008, n. 6881, in www.dejure.giuffre.it; Cass., sez. V, 23 settembre 2004, n. 43542, in Cass. pen., 2006, p. 2542, in relazione all’inutilizzabilità “patologica” nel giudizio abbreviato; Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit.
58
In ultimo Cass., sez. fer., 27 luglio 2010, n. 38393, in Cass. pen., 2012, p. 206.
59
Così Cass., sez. fer., 27 luglio 2010, n. 38393, cit.
60
Nonché le prove tout court, in caso di irripetibilità dell’atto (supra).
61
Si pensi ad esempio alle sommarie informazioni di cui all’art. 351 c.p.p., suscettibili di uso processuale a norma dell’art.
500, comma 1, c.p.p., e persino di valenza probatoria autosufficiente (art. 500, comma 4, c.p.p.).
Nel senso che il mancato rispetto dell’art. 220 norme coord. c.p.p. conduce al reperimento di «prove illegittimamente acquisite
in violazione dei divieti stabiliti dal codice di rito», Cass., sez. III, 10 febbraio 2010, n. 15372, cit.; in termini G. Fumu, sub art. 220, cit.,
pp. 102-103. Nel senso che dall’art. 220 norme coord. c.p.p. «discenda il divieto di raccogliere in sede amministrativa fonti probatorie
riguardanti un illecito penale del quale siano già emersi gli indizi», R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 85, che tuttavia lascia aperta la
possibile alternativa della nullità intermedia (ibidem).
È forse opportuno rimarcare che la sanzione di inutilizzabilità colpisce esclusivamente l’impiego degli atti in sede processuale penale, non sussistendo analoga previsione in ambito extrapenale, compreso l’ordinamento tributario. Con la conseguenza che nel relativo procedimento possono trovare ingresso atti inutilizzabili a norma dell’art. 191 c.p.p. (Cass., sez. trib., 12 novembre 2010, n. 22984, in Giust. civ. mass., 2011, p. 1445. Contra, asserendo un’implausibile osmosi tra procedimento penale e
provvedimento amministrativo, Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, sez. V, 21 ottobre 1997, n. 174, in Corriere trib., 1998, p. 447,
che peraltro ravvisa nullità e non inutilizzabilità).
62
Ed in particolare dal riferimento esplicito all’alterità, rispetto agli atti di assicurazione delle fonti probatorie.
63
Si pensi, ad esempio, ai verbali redatti nel corso dell’attività susseguente all’emersione di indizi di reato. La mancata sottoscrizione degli stessi da parte del pubblico ufficiale che li ha formati, ovvero l’incertezza assoluta sulle persone intervenute,
causerebbe nullità relativa a norma dell’art. 142 c.p.p. (cfr. art. 373, comma 2, c.p.p.).
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erronee, in punto di regime di rilevabilità del vizio. Se si tratta di nullità intermedia, la disposizione applicabile è quella racchiusa nell’art. 180 c.p.p. E siccome l’asserità nullità si è verificata prima del giudizio, la
stessa sarà rilevabile anche d’ufficio sino a quando non venga deliberata la sentenza di primo grado 64. Non
trovando spazio applicativo l’art. 181 c.p.p., concernente come noto le nullità relative. E non operando, pertanto, lo sbarramento temporale costituito dalla pronuncia conclusiva dell’udienza preliminare ovvero, in
assenza di quest’ultima, dalla proposizione di questioni a norma dell’art. 491, comma 1, c.p.p. 65.
USO DEGLI ATTI COMPIUTI PRIMA DELL’EMERSIONE DI INDIZI
Un consolidato orientamento giurisprudenziale 66 ritiene fruibili nel processo penale, alla stregua di
prova documentale (art. 234 c.p.p.), gli atti compiuti durante le attività ispettive o di vigilanza di cui
all’art. 220 norme coord. c.p.p., e che precedano l’insorgenza di indizi di reato.
Tale impostazione, pur stabile e reiterata di recente, non pare immune da censure. Sotto due profili,
che del resto presentano evidenti connessioni. Anzitutto, volendo aderirsi ad un indirizzo rigoroso, il
“documento” di cui all’art. 234 c.p.p. proverebbe esclusivamente la sua esistenza 67, e non i fatti, e a fortiori le valutazioni, in esso rappresentati ed espresse 68. Inoltre, e forse con maggiore pregnanza sistematica, va osservato che il processo penale vigente è imperniato sulla regola costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova (art. 111, comma 4, primo periodo, c.p.p.). Ciò non può autorizzare il
ripudio – irragionevole 69 – delle cosiddette prove precostituite. Ma almeno impone un uso residuale.
Nel senso che le stesse non saranno ammissibili qualora lo stesso risultato conoscitivo possa essere ottenuto mediante l’esame di testi e periti. In sostanza, la regola costituzionale in discorso condurrebbe a
configurare una gerarchia probatoria 70, con il materiale costituendo in posizione dominante, e quello
precostituito in soggezione 71. Ciò, in aderenza ad un’accezione ampia 72 del principio di oralità. Comprensivo non solo del paradigma tradizionale del rapporto diretto tra giudice e fonte probatoria, ma
anche della prevalenza del work in progress – la formazione della prova al cospetto del giudice –, rispetto al materiale scritto e preconfezionato. In quest’ottica, andrà privilegiato l’apporto conoscitivo scaturente dall’esame testimoniale del soggetto che ha effettuato l’attività di ispezione o vigilanza 73. Il quale,
oltretutto, potrà avvalersi di quanto disposto dall’art. 499, comma 5, c.p.p. 74.
Anche al netto della ricordata avversione giurisprudenziale, tralaltro avallata dal giudice delle leggi,
è doveroso segnalare che tale linea interpretativa, pur condivisibile, rischia in determinati ambiti di essere confinata a poco più che petizione di principio. Ciò accade laddove sia necessario «disporre con esattezza di cifre, percentuali, misurazioni» 75. Nel qual caso il rischio è che la ricordata disposizione di cui
all’art. 499, comma 5, c.p.p., lungi dal costituire mero ausilio mnemonico, tramuti l’esame testimoniale
in lettura tout court.
64
Argomentando a contrario dalla previsione appena citata.
65
Cfr. art. 181, comma 2, c.p.p. Proprio a tale sbarramento, invece, si riferisce Cass., sez. fer., 27 luglio 2010, n. 38393, cit.
66
Con riferimento al verbale di constatazione di cui all’art. 24 l. n. 4 del 1929, cfr. Cass., sez. III, 18 novembre 2014, n. 4919,
cit.; Cass., sez. III, 19 febbraio 2014, n. 12254, cit.; Cass., sez. III, 9 febbraio 2011, n. 28053, cit.; Cass., sez. III, 18 novembre 2008, n.
6881, cit.; Cass., sez. III. 7 marzo 2000, n. 5020, in Giur. imposte, 2000, p. 1081. Si tratta, del resto, di impostazione aderente alla
giurisprudenza costituzionale citata supra, nota 10.
67
Data, identità del redattore e sottoscrittore, generalità dei partecipanti.
68
Cass., sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, in Cass. pen., 2005, p. 3732, con riferimento alle sentenze non irrevocabili; Cass., sez.
III, 23 aprile 2008, n. 22265, in www.dejure.giuffre.it, in relazione alla consulenza tecnica d’ufficio espletata nel processo extrapenale (contra, sotto quest’ultimo aspetto, Cass., sez. VI, 12 novembre 2010, n. 43207, in www.dejure.giuffre.it).
69
Specie se si tratti di elemento connotato da esclusività e decisività.
70
In termini, a quanto sembra, Cass., sez. III, 11 giugno 2013, n. 37241, in www.dejure.giuffre.it.
71
Contra, tuttavia, C. cost., sent. 6 febbraio 2009, n. 29, in www.cortecostituzionale.it, sebbene con motivazioni opinabili. Contra
altresì L. Iafisco, Acquisizione della prova-sentenza ex art. 238-bis c.p.p. e contraddittorio nel momento della formazione della prova, in
Giur. cost., 2009, p. 221 ss.
72
R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 83.
73
Tranne, beninteso, i casi di irripetibilità sopravvenuta. Anche se in tale ipotesi sarà necessario sostenere l’assimilazione tra
verbale ispettivo e verbale di dichiarazioni (art. 511, comma 2, c.p.p.).
74
Come rammenta in modo opportuno R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 84.
75
R.E. Kostoris, sub art. 223, cit., p. 135.
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In conclusione, qualche breve cenno può essere dedicato all’indirizzo giurisprudenziale 76 che include il processo verbale di constatazione di cui all’art. 24, l. n. 4 del 1929 tra gli atti irripetibili, suscettibili
di immissione senza riserve nel fascicolo per il dibattimento (art. 431, lett. b, c.p.p.). Anche tale affermazione non sembra poggiare su solide fondamenta esegetiche e di sistema. Non si vede, infatti, quale
contenuto – descrittivo, ricostruttivo o valutativo che sia – del verbale non possa essere replicabile 77 a
mezzo di esame testimoniale, e se del caso peritale.
ASPETTI PROBLEMATICI NELL’AMBITO DEL PROCEDIMENTO TRIBUTARIO
Al tema in genere, già foriero di approdi interpretativi difformi e sfuggenti, si aggiungono altri problemi quando gli atti ispettivi o di vigilanza di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p. siano costituiti da accertamenti di natura tributaria. Come noto, in tale settore, rectius nel sottosettore “trainante” delle imposte
sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, il discrimine tra rilevanza amministrativa o penale del
fatto è dato, di regola, dalle cosiddette “soglie di punibilità” 78, individuate nel quantum di imposta evasa 79, ovvero nel quantum di imponibile sottratto all’imposizione 80.
In astratto, tale atteggiarsi delle norme sostanziali non dovrebbe incidere sulla soluzione da adottare
a norma dell’art. 220 norme coord. c.p.p. Al raggiungimento della soglia, i soggetti accertatori 81 dovrebbero applicare tale ultima disposizione. Al più, incrementi successivi degli importi evasi dovrebbero formare oggetto di ulteriori informative al pubblico ministero 82. Le cose, tuttavia, non sono così
semplici; specie quando la soglia incriminante attenga al quantum di evasione 83. In tal caso i verificatori,
accertato ad esempio un imponibile “sommerso”, dovrebbero applicare a quest’ultimo la relativa aliquota d’imposta, la cui percentuale può variare da caso a caso. Il tutto, previa “depurazione” di costi
deducibili, anche non contabilizzati. Quindi proseguire applicando le detrazioni d’imposta, e solo a
questo punto quantificare il debito, al netto dei versamenti già effettuati 84. È evidente il concreto pericolo che le garanzie di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p. vengano posticipate, se non vanificate 85. Tralaltro, è prassi radicata il prosieguo della verifica in forma meramente amministrativa sino a quando non
viene scovato tutto l’imponibile sottratto ad imposizione, e quantificata su di esso l’imposta (ancora) da
versare 86. Tale “stato dell’arte” appare ancora più inquietante, se si considera che recente giurispruden-
76
Si veda ad esempio Cass., sez. III, 10 aprile 1997, n. 4432, cit.
77
Tranne come sempre i casi di irripetibilità sopravvenuta.
78
Che la giurisprudenza colloca nell’alveo degli elementi costitutivi del reato, anziché tra le condizioni obiettive di punibilità.
79
V. ad es. artt. 3, lett. a), 4, lett. a) e 5, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000. La nozione penalistica di imposta evasa è scolpita
nell’art. 1, lett. f), d.lgs. n. 74 cit. È opportuno precisare che la determinazione e quantificazione della stessa spetta al giudice penale, senza che questi possa subire condizionamenti da identiche attività svolte in sede tributaria amministativa o processuale.
Né tra i due rami di giurisdizione pare possibile l’eventuale raccordo di cui all’art. 479 c.p.p. A tacer d’altro, infatti, nel processo
tributario vigono limiti di prova (art. 7, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), che lo inibiscono. Già da questi brevissimi cenni si comprende l’erroneità dell’affermazione, pur ricorrente, secondo cui la struttura delle fattispecie incriminatrici di cui al d.lgs. n. 74
del 2000 avrebbe condotto in sostanza alla reintroduzione della pregiudiziale tributaria (per richiami in tema C. Santoriello, Precisazioni, cit., p. 250). Vero che il giudice penale, nell’operare la ricostruzione di cui sopra, è vincolato al rispetto di regole tecniche proprie dell’ordinamento di settore (Cass., sez. III, 9 febbraio 2011, n. 28053, cit.). Che tuttavia applica, si ripete, in totale autonomia. Ciò non toglie, d’altra parte, che l’accertamento dell’evasione di imposta abbia natura pregiudiziale rispetto all’oggetto
del giudizio penale (id est verifica della colpevolezza). Perlomeno se la pregiudizialità viene intesa, come di regola avviene, nella
presenza di una fattispecie minor che compone una fattispecie complessa, laddove l’accertamento della prima può formare oggetto di controversia autonoma (P. Corvi, Questioni pregiudiziali e processo penale, Padova, 2007, p. 25 ss.).
80
Artt. 3, lett. b), e 4, lett. b), d.lgs. n. 74 del 2000. Ciò non toglie, d’altra parte, che vi siano in subiecta materia fattispecie incriminatrici, anche rilevanti, che prescindono da tali quantificazioni (ad es. art. 2, d.lgs. n. 74 cit.).
81
Infra.
82
Cfr. R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 76, nota 6.
83
Ma lo stesso, in sostanza, può dirsi circa l’imponibile sottratto ad imposizione – che peraltro segna la rilevanza penale del
fatto congiuntamente all’evasione: cfr. artt. 3 e 4, d.lgs. n. 74 del 2000 –, alla luce della condotta tipizzata dal legislatore.
84
Art. 1, lett. f), d.lgs. n. 74 del 2000.
85
V. infatti la Circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza, cit., p. 161; nonché la fattispecie analizzata da Cass., sez. III, ordinanza 25 settembre 2014, n. 29072, cit.
86
Cfr. L. Ambrosi-A. Iorio (a cura di), Indizi di reato, verbali a utilizzo ridotto, in Sole 24 Ore, 16 febbraio 2015, p. 22. Contra, in
base al giusto rilievo per cui tale modus procedendi condurrebbe ad una «interpretazione abrogatrice» dell’art. 220 norme coord.
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za 87 ha nella sostanza istituzionalizzato il principio del “contraddittorio preventivo endoprocedimentale”; da instaurarsi quindi prima dell’emissione del provvedimento amministrativo. Il che, se da un lato
costituisce meritorio strumento di anticipazione del diritto di difesa, dall’altro aumenta il rischio che il
destinatario della verifica fiscale renda dichiarazioni contra se 88.
Stando così le cose, per tentare di rimuovere le criticità sopra descritte sembra possibile un’unica soluzione. Appena accertata l’esistenza di imponibile sottratto ad imposizione 89, gli accertatori dovranno
procedere ad applicare l’aliquota d’imposta prevista nella fattispecie concreta 90. E quindi a determinare
l’imposta dovuta, sottraendo i versamenti già effettuati 91. Appena ciò condurrà alla quantificazione di
un debito penalmente rilevante, sarà ineludibile l’osservanza delle prescrizioni di cui all’art. 220 norme
coord. c.p.p. Altrimenti, gli atti compiuti in prosieguo saranno inutilizzabili 92.
Sembra, si ripete, una soluzione obbligata; che non vuol dire soddisfacente. A parte la diseconomicità in chiave amministrativa, che comunque non può giustificare il ritardo nell’allestimento delle garanzie, tale modus procedendi potrebbe persino penalizzare l’interessato 93. Che potrebbe ritrovarsi sottoposto ad indagine preliminare pur nella disponibilità di un robusto apparato documentale e/o paratestimoniale in grado di dimostrare l’irrilevanza penale della condotta addebitatagli. Detta soluzione, inoltre, può condurre ad un ingolfamento a volte inutile dei carichi giudiziari. Ma – si ripete – altro non
sembra possibile. Atteso che non pare proprio dirimente osservare 94 che, ai fini dell’operatività di
quanto prescritto dall’art. 220 norme coord. c.p.p., è sufficiente ritenere “concretamente probabile” 95 il
superamento della soglia di punibilità. Senza che possa dubitarsi delle caratteristiche “deboli” degli indizi previsti dall’art. 220 norme coord. c.p.p 96, la traslazione del rilievo in subiecta materia non è agevole,
proprio alla luce delle condotte tipizzate del legislatore. In altri termini: se la rilevanza penale è subordinata al compimento di attività complesse, non è facile individuare il momento a partire dal quale,
mentre tali attività sono in corso, si rende necessario l’allestimento delle forme imposte dalla disciplina
di coordinamento 97.
c.p.p., Cass., sez. III, 18 novembre 2014, n. 4919, cit. D’altra parte, non può negarsi che tale grave inconveniente è causato anche
dalla struttura delle fattispecie incriminatrici, pregne di richiami tecnici di notevole complessità, e quindi di laboriosa riscontrabilità.
A tal proposito, è forse utile rammentare che il verbale di constatazione di cui all’art. 24 l. n. 4 del 1929 non costituisce una
modalità particolare per la denuncia della notizia di reato (art. 221 norme coord. c.p.p.); obbligo che incombe a prescindere dalla
compilazione ed ultimazione del verbale. Tuttavia, alla luce dell’illustrato “trascinamento” della notitia criminis al termine delle
attività di verifica, tale distinguo rischia di essere meno che formale.
87
Cass. civ., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19667, in www.dejure.giuffre.it; Cass. civ., sez. un., 29 luglio 2013, n. 18184, in
www.dirittoegiustizia.it.
88
Supra.
89
La questione si complica ancora qualora tale accertamento avvenga con metodi induttivi, ossia prescindendo dalle risultanze contabili, ovvero in assenza di quest’ultime. Peraltro, proprio di recente la giurisprudenza sembra essersi decisa a negare
la rilevanza penale di simili ricostruzioni (cfr. Cass., sez. III, 4 dicembre 2014, n. 6823, in www.dejure.giuffre.it).
90
Senza tener conto, sembra doversi ritenere, di eventuali riduzioni spettanti al riscontro di determinate circostanze, a meno
che queste ultime non siano già emerse in modo certo nel corso della verifica.
91
A condizione che gli stessi siano immediatamente documentabili. D’altro canto, tale accertamento non presenta soverchie
difficoltà alla luce dei poteri amministrativi vigenti, esercitabili anche per via telematica.
92
Supra.
93
Che a sua volta può, o meno, coincidere con il destinatario della verifica fiscale.
94
Come fa Cass., sez. III, 18 novembre 2014, n. 4919, cit.
95
Peraltro con significativa restrizione dei casi di applicabilità del meccanismo di garanzia, rispetto alla mera possibilità di
commissione di un reato. Ritenuta sufficiente, come visto, da Cass., sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, cit.
96
Supra.
97
Problemi senz’altro minori sorgono invece quando il delitto tributario non preveda, per la sua configurabilità, il raggiungimento di una soglia di evasione (v. ad es. artt. 2 e 8, d.lgs. n. 74 del 2000). Viceversa, appare difficile negare l’impraticabilità
del meccanismo di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p. per i delitti tributari «a cognizione istantanea» (Circolare n. 1/2008 della
Guardia di Finanza, cit., p. 160): ad esempio, gli artt. 10-bis e 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000. In tali casi, l’accertamento della violazione avviene su base “cartolare”, disponendo l’amministrazione dei dati da cui trarre gli elementi per riscontrarla. All’esito,
non rimarrà che trasmettere la notizia di reato a norma dell’art. 331 c.p.p. (supra. Cfr. Cass., sez. III, 17 giugno 2014, n. 27682,
cit.). Se invece al riscontro della violazione dovesse seguire ulteriore attività procedimentale – magari su sollecitazione del contribuente, in possesso di atti e documenti idonei ad abbassare la soglia di punibilità al di sotto della rilevanza penale –
quest’ultima non potrà che rivestire le forme di cui all’art. 220 norme coord. c.p.p.
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Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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(SEGUE:) LE ATTRIBUZIONI DEI DIPENDENTI “CIVILI” DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Si è ricordato in precedenza che è necessario distinguere il caso in cui l’attività ispettiva o di vigilanza è
condotta da soggetti appartenenti alla polizia giudiziaria, da quello nel quale tale appartenenza manchi. In quest’ultima ipotesi, il prosieguo degli accertamenti destinati ad avere rilevanza penale è inibito 98, null’altro potendo farsi se non trasmettere la denuncia di reato a norma dell’art. 331 c.p.p.
Il richiamo è utile per affrontare, in estrema sintesi, una questione antica, e per molti aspetti depotenziata: l’appartenenza o meno alla polizia giudiziaria, rectius tributaria 99, dei dipendenti degli ex uffici IVA e imposte dirette, oggi unificati nell’Agenzia delle Entrate.
Appare ragionevole l’approdo interpretativo cui si è giunti da tempo: non può negarsi l’appartenenza di tali soggetti alla polizia tributaria 100. Gli stessi, infatti, devono ritenersi investiti del potere di
accertare i reati tributari, rientrando pertanto a pieno titolo nelle previsioni di cui all’art. 31, comma 2, l.
n. 4 del 1929, e 57, comma 3, c.p.p. 101. Del resto, a concludere in modo contrario non si spiegherebbero
le previsioni di cui agli artt. 75 d.p.r. n. 633 del 1972 e 70 d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, per i quali, come noto, tranne previsioni in deroga nel corso delle verifiche tributarie si applicano «le norme del codice
di procedura penale». Tuttavia, non può tacersi che ad oggi manca un’attribuzione espressa della qualifica, a differenza di quanto riscontrabile in altri ambiti della disciplina di settore 102. Si tratta di una lacuna che non sembra in grado di mutare le conclusioni qui accolte; ed imposte dall’interpretazione sistematica, oltre che dalle disposizioni generali. Anche se colmarla non costituirebbe esercizio del tutto vano, se non altro contribuendosi ad impedire qualsivoglia oscillazione applicativa in un ambito in cui
non c’è necessità di perpetuare o introdurre altri profili controversi.
98
Al contrario degli accertamenti extrapenali: supra.
99
Supra.
100
Cfr. art. 31, comma 2, l. n. 4 del 1929.
101
Con riferimento a quest’ultima disposizione cfr. R.E. Kostoris, sub art. 220, cit., p. 80, nota 19; G.P. Voena, sub art. 221, in
E. Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario, cit., p. 90, anche nota 13, per richiami al dibattito dottrinale in argomento.
D’altro canto, sostenere che ai soggetti in esame spetti la qualifica di appartenenza alla polizia giudiziaria, ma non a quella tributaria, non pare accettabile. Anzitutto per la sostanziale equivalenza testuale dell’art. 57, comma 3, c.p.p., e dell’art. 31, comma
2, l. n 4 del 1929. Inoltre, perché tale conclusione condurrebbe alla conseguenza paradossale per cui i dipendenti civili dell’amministrazione, all’atto dell’emersione di indizi di reato tributario, dovrebbero limitarsi a darne notizia agli appartenenti alla polizia tributaria, pur potendo compiere atti di salvaguardia delle fonti probatorie in attesa dell’arrivo di questi ultimi (art. 32,
comma 1, l. n. 4 del 1929, supra).
102
Si veda ad esempio l’art. 324, d.p.r. 23 gennaio 1973, n. 43 (c.d. Testo Unico delle leggi doganali).
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Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | LA PROVA GENETICA TRA PRASSI INVESTIGATIVE E REGOLE PROCESSUALI
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ALBERTO CAMON
Professore ordinario di procedura penale – Università di Bologna
La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali *
DNA evidence between investigative practices and
rules of procedure
La relazione mette in luce carenze e virtù della disciplina italiana sulla prova genetica, proponendo alcuni spunti di
riflessione e di riforma; si toccano pure gli aspetti operativi propri delle diverse fasi del procedimento probatorio.
This essay aims to bring into focus the major virtues and flaws of Italian legislation on DNA evidence, suggesting
avenues for further reflection and for reform; it also touches upon the practical aspects proper to the different
phases of probative procedure.
I. Il titolo del tema che m’accingo ad affrontare gioca sulla contrapposizione fra due poli: la prassi e le
regole. Cercherò di tener presente questo binomio, svolgendolo lungo le scansioni in cui s’articola la
prova del DNA. Per comodità espositiva, spezzerò il procedimento probatorio in tre fasi: l’individuazione e la raccolta del reperto biologico; il prelievo del campione dal corpo d’un individuo; l’estrazione
del profilo dal reperto e dal campione ed il raffronto fra i dati ottenuti.
Naturalmente si tratta d’una classificazione convenzionale e, come tutte le convenzioni, ha un certo
grado d’arbitrarietà; malgrado ciò, la tripartizione è utile, perché permette d’avvicinarsi rapidamente
ad un paradosso: in ambito penale, la prova del DNA è stata disciplinata con una legge del 2009 (la l. 30
giugno 2009, n. 85), la quale non s’è occupata né della prima né della terza ma soltanto della seconda
fase, cioè dell’unica porzione del procedimento che potrebbe anche mancare (a volte, infatti, non c’è bisogno di toccare una persona per procurarsi un suo campione biologico; lo si può fare altrimenti; oppure può succedere che il suo profilo genetico sia già archiviato in una banca dati).
Questa scelta legislativa ha una spiegazione nota: il caso della madonnina di Civitavecchia; la dichiarazione d’incostituzionalità della norma (art. 224, comma 2, c.p.p.) che fino ad allora aveva consentito di procacciarsi coattivamente i campioni di sostanza organica da sottoporre all’analisi 1; l’apertura
d’un periodo d’interregno, durante il quale gli organi dell’investigazione, privi d’uno strumento normativo appropriato, furono costretti ad escogitare stratagemmi (alcuni estrosi, alcuni discutibili) per
procurarsi il campione senza però incidere sulla libertà personale del sospettato; infine, l’esigenza impellente di colmare il vuoto aperto dalla Consulta. La lacuna normativa è dunque comprensibile; però
non è indolore: lo capiamo accostandoci alla prima fase del procedimento.
Anche se non si può escludere il ricorso ad altri strumenti ed in particolare ad alcuni mezzi di ricerca della prova quali le ispezioni o le perquisizioni, per lo più il reperto viene raccolto nel corso del sopralluogo. La disposizione che regola tale attività (art. 354 c.p.p.) fu redatta nel 1988 e, in seguito, è stata
ritoccata solo su aspetti che non hanno stretta attinenza con la nostra materia; siccome il test del DNA
fu adoperato nel processo per la prima volta in una vicenda del 1987 2, questo significa che l’art. 354
*
Testo, rivisto e corredato da riferimenti bibliografici, della relazione svolta al convegno su “Prova genetica ed errore giudiziario” (Milano, 23 marzo 2015).
1
C. cost., sent. 9 luglio 1996, n. 238, in Giur. cost., 1996, p. 2142 ss.
2
E. Stefanini, Dati genetici e diritti fondamentali, Padova, 2008, p. 161.
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c.p.p. è stato scritto senza nemmeno sapere che la prova genetica esistesse. Non solo: nei ventisette anni
ormai trascorsi da quando il codice è stato varato, lo sviluppo della tecnica è stato così veloce che la
prova genetica d’oggi assomiglia poco a quella d’allora. Se mettiamo insieme questi dati, comprendiamo perché l’art. 354 c.p.p. sia una norma obsoleta: arranca, non ce la fa, non sta al passo con i tempi; per
limitarsi, ora, all’esempio più vistoso, è tuttora incentrata su una distinzione (quella tra i meri «rilievi» e
gli autentici «accertamenti») che è stata messa a dura prova dall’irruzione della prova scientifica e diventa sempre più precaria ogni giorno che passa.
L’inerzia del legislatore è dannosa, perché il maggior pericolo d’errori s’annida proprio in questa fase. V’è il rischio di negligenze, di manovre maldestre, di inquinamenti della scena del delitto: per quasi
dieci anni il mondo intero s’è chiesto col fiato sospeso dove e come, esattamente, sia stato preso un certo gancetto di un certo reggiseno; se in quell’occasione fu commesso uno sbaglio (e probabilmente lo
fu), fu commesso qui, nel sopralluogo. Ancora: v’è il rischio d’una scelta arbitraria dei reperti, d’una
scorretta conservazione, della mancata sistemazione della catena di custodia. Difficoltà e pericoli ancora
maggiori sorgono quando si tratta di raccogliere tracce promiscue, scarse o degradate. Temi, tutti questi, sui quali l’art. 354 c.p.p. è silente.
Probabilmente il vero rimedio sarebbe ripensare da cima a fondo le regole sull’esame della scena del
crimine. Ma se non si prende questa strada, bisogna almeno affrontare tre problemi. Primo: occorre risolvere un’antinomia: le attività compiute durante il sopralluogo sono, come s’è detto, delicatissime;
inoltre, sono per lo più irripetibili 3; eppure, la legge non tutela il contraddittorio: il difensore ha diritto
d’assistere ma non ha diritto al preavviso, cosicché non assiste mai (art. 356 c.p.p.).
Sono state pensate alcune soluzioni. Una risale ad un disegno di legge presentato il 20 marzo 2009
dal guardasigilli Alfano, e in sostanza propone di estendere l’art. 360 c.p.p. (che, sia pure in misura imperfetta, garantisce il contraddittorio) a tutte le indagini tecnico-scientifiche che modificano irreversibilmente lo stato dei luoghi, a prescindere dalla loro qualificazione (accertamenti, rilievi o altro ancora) 4. È una proposta eccellente: semplice, efficace, a costo zero.
Certo, resterebbe il problema dei sopralluoghi eseguiti quando ancora non esiste una persona sottoposta alle indagini né, di conseguenza, un difensore da avvertire. Per questi casi s’è suggerito di istituire «un responsabile che garantisca i modi di raccolta e quelli di conservazione dei reperti», anche nel
nome e nell’interesse di quel difensore che ancora non può partecipare 5. È un’idea più complicata della
precedente; ma è stimolante e varrebbe la pena rifletterci.
Il secondo punto da affrontare riguarda le modalità di documentazione del sopralluogo, che sono
ormai intollerabilmente antiquate. L’ha mostrato assai bene il processo per l’omicidio di Meredith Kercher: le anomalie commesse nell’apprensione del gancetto del reggiseno appartenuto alla vittima sono
state scoperte solo perché la polizia aveva deciso di videoregistrare le operazioni 6; ma non era tenuta a
farlo: avrebbe potuto, legittimamente, limitarsi a stendere un verbale (art. 357, comma 2, lett. e), c.p.p.) e
se l’avesse fatto l’intera faccenda, con ogni probabilità, sarebbe passata sotto silenzio. Possiamo trarne
un insegnamento: la videoregistrazione dev’essere resa obbligatoria 7.
3
«Le decisioni prese sul luogo del crimine sono definitive e tutto il potenziale informativo che viene perso in questa fase non
potrà più […] essere riacquistato in seguito»: così, icasticamente, F. Taroni-J. Vuille, Non è tutto oro quel che luccica. Il giudice penale e il valore probatorio dell’indizio scientifico, in Questioni giustizia, 2013, p. 93.
4
Art. 370 bis c.p.p., nella stesura immaginata dall’art. 5, comma 1, lett. e) del disegno di legge citato nel testo.
Soluzioni analoghe, in dottrina, sono caldeggiate da P. Felicioni, L’acquisizione di materiale biologico a fini identificativi o di ricostruzione del fatto, in A. Scarcella (a cura di), Prelievo del DNA e banca dati nazionale, Padova, 2009, p. 234; Id., La prova del DNA tra
esaltazione mediatica e realtà applicativa, in M. Montagna (a cura di), L’assassinio di Meredith Kercher. Anatomia del processo di Perugia,
Roma, 2012, p. 187; Id., L’Italia aderisce al Trattato di Prüm: disciplinata l’acquisizione e l’utilizzazione probatoria dei profili genetici, in
Dir. pen. proc., 2009, speciale n. 2, p. 23; Id., Processo penale e prova scientifica: verso un modello integrato di conoscenza giudiziale, in
Cass. pen., 2013, p. 1639; Id., Questioni aperte in materia di acquisizione e utilizzazione probatoria dei profili genetici, in C. Conti (a cura
di), Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, Milano, 2011, p. 174; P. Maggio, Esame del DNA e prova scientifica: le
esperienze italiana e tedesca a confronto, in Indice pen., 2011, p. 470 ss.; R. Orlandi, Il problema delle indagini genetiche nel processo penale, in Medicina legale. Quaderni camerti, 1992, p. 420 ss.
5
G. Spangher, Brevi riflessioni, sparse, in tema di prova tecnica, in C. Conti (a cura di), Scienza e processo penale, cit., p. 28.
6
Ass. app. Perugia, 3 ottobre 2011, p. 90, in www.penalecontemporaneo.it.
7
Se non si va errati, il primo ad esprimersi in tal senso è stato F. Caprioli, La scienza «cattiva maestra»: le insidie della prova
scientifica nel processo penale, in Cass. pen., 2008, p. 3530.
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Terza questione: legge e prassi – i due termini del binomio su cui stiamo riflettendo – sono sfasate.
In questi anni si stanno moltiplicando i protocolli operativi per l’esame della scena del crimine: decaloghi, linee guida, elenchi degli errori più comuni, delle cose da fare e da non fare, stilati da studiosi,
gruppi di lavoro, finanche (in alcuni ordinamenti) istituzioni governative; e mentre succede tutto questo, il nostro legislatore è al palo. Ecco allora la proposta di appaiare il diritto e la pratica “normando”
le regole tecniche, portandole dentro l’ordinamento giuridico, magari attraverso regolamenti 8.
Qui conviene essere cauti; qualcosa forse si può fare, per esempio sul tema della catena di custodia,
dove la legge sta già andando in questa direzione: gli originari, scarni riferimenti ai sigilli apposti sulle
cose sequestrate ed al verbale del sequestro (artt. 259-261 c.p.p.; artt. 80-82 norme att. c.p.p.; art. 10 reg.
esec. c.p.p.) sono stati estesi dalla l. 18 marzo 2008, n. 48, che ha interpolato la disciplina del sopralluogo
(art. 354, comma 2, c.p.p.), delle ispezioni (art. 244, comma 2, c.p.p.), delle perquisizioni (artt. 247, comma 1-bis e 352, comma 1-bis, c.p.p.), dei sequestri (art. 254 bis c.p.p.). Ne è risultata, però, una disciplina
frammentaria, disorganica e reticente su alcuni punti chiave (da qui nascono le incertezze giurisprudenziali in materia di mancata apposizione dei sigilli). Sarebbe bene mettere ordine fra queste disposizioni. Ma non andrei molto più in là: i protocolli per l’analisi della scena del crimine cambiano troppo
velocemente; finiremmo per sclerosare la disciplina e ci troveremmo presto a fare i conti con una normativa – a quel punto, non tecnica ma giuridica – superata.
II. La seconda fase del procedimento (il prelievo del campione da un individuo) è, come si diceva, quella su cui s’è indirizzata la riforma del 2009: una legge strana, con cadute rovinose e picchi d’autentica
eccellenza. Fra le prime possiamo menzionare l’assetto delle invalidità: sparpagliato (artt. 224-bis, commi 2 e 7 e 359-bis, comma 3, c.p.p.), pletorico, contraddittorio, confuso a tal punto da risultare quasi illeggibile.
Fra i secondi va senz’altro ricordato il precetto (art. 224 bis, comma 5, c.p.p.) secondo il quale «in
ogni caso, a parità di risultato, sono prescelte le tecniche meno invasive». Esso si riallaccia ad un tema à
la page: fra i tanti lasciti che l’irruzione delle istituzioni europee nell’ambito penale ha portato, un posto
di speciale importanza è occupato dal principio di proporzionalità: autentico vessillo del diritto europeo 9, è oggetto di attenzioni sempre più ficcanti da parte della dottrina.
Se si eccettuano alcune aperture dedicate all’area dei diritti inviolabili (che potrebbero essere compressi, per l’appunto, solo nella misura strettamente indispensabile 10), meno studiato è il legame fra il
principio di proporzionalità e la costituzione nostrana. Eppure, c’è spazio per sostenere che una copertura costituzionale venga dalla clausola sul giusto processo.
Sappiamo come il significato dell’espressione sia tutt’altro che perspicuo. Da una parte si dice che «il
predicato “giusto” svolge soprattutto una funzione riassuntiva e simbolicamente rafforzativa di connotati altrove più dettagliatamente sviluppati» 11; dall’altra s’obietta che le singole, specifiche garanzie,
8
S. Lorusso, L’esame della scena del crimine tra esigenze dell’accertamento, istanze difensive e affidabilità dei risultati, in C. Conti (a
cura di), Scienza e processo penale, cit., p. 60; R.V.O. Valli, Le indagini scientifiche nel procedimento penale, Milano, 2013, p. 128 ss.
Un passo in questa direzione era stato mosso dall’art. 3 della proposta di legge d’iniziativa dei deputati Franz ed altri, presentata il 15 luglio 2003 (atto camera C 4161).
9
Si allude sia all’area dell’Unione europea (dove il criterio è consacrato nell’art. 5, par. 4, TUE e caratterizza in misura eminente le funzioni di controllo svolte dalla Corte di giustizia, la quale tende ad elevare la proporzionalità al rango di principio
generale del diritto dell’Unione) sia all’area del Consiglio d’Europa e in specie alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo
(che lo adopera come parametro per la verifica del grado di tutela dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Cedu).
10
Cfr. M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in Diritto penale contemporaneo, 2014, 3-4, p. 148 e 158.
In giurisprudenza, l’idea ha trovato sbocco soprattutto nelle numerose dichiarazioni d’incostituzionalità della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere stabilita per alcune fattispecie criminose (C. cost., sent. 26 marzo 2015, n.
48, in www.penalecontemporaneo.it; Id., sent. 23 luglio 2013, n. 232, in Giur. cost., 2013, p. 3458 ss.; Id., sent. 18 luglio 2013, n. 213,
ibidem, 2013, p. 2970 ss.; Id., sent. 29 marzo 2013, n. 57, ibidem, 2013, p. 863 ss.; Id., sent. 3 maggio 2012, n. 110, ibidem, 2012, p. 1619
ss.; Id., sent. 16 dicembre 2011, n. 331, ibidem, 2011, p. 4554 ss.; Id., sent. 22 luglio 2011, n. 231, ibidem, 2011, p. 2950 ss.; Id., sent. 12
maggio 2011, n. 164, ibidem, 2011, p. 2149 ss.; Id., sent. 21 luglio 2010, n. 265, ibidem, 2010, p. 3169 ss.), pronunce che a loro volta hanno portato alla recente riformulazione in senso restrittivo di quella presunzione (art. 4, comma 1, l. 16 aprile 2015, n. 47).
11
P. Ferrua, Il «giusto processo», III ed., Bologna, p. 91, in nota.
In prospettive analoghe, V. Grevi, Garanzie soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, p. 728 e, fra i civilisti, S. Chiarloni, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile,
in M.G. Civinini-C.M. Verardi (a cura di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile (atti del convegno
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«costituiscono solamente esplicitazioni e determinazioni, le quali vanno intese senza perdere di vista il
“tronco comune” e, d’altro canto, senza pretendere che, di quella nozione, esse possano esaurire tutti i
contenuti» 12. Sul piano ideologico, peraltro, questo secondo filone di pensiero non è omogeneo ed anzi
abbraccia posizioni il cui unico tratto comune è proprio il rifiuto di considerare quella formula come
una clausola vuota; per il resto, le distanze sono enormi: si va da chi, gagliardo avversario d’ogni lettura dell’art. 111 Cost. «nella chiave di un’oggettività-efficienza del sistema» 13, conclude perentorio: «non
ci sono […] garanzie diverse da quelle soggettive» 14; a chi – esattamente all’opposto – sostiene che il
processo «deve essere ispirato al criterio di ottenere una sostanziale giustizia non paralizzata dai formalistici diaframmi della procedura» 15; fra i due estremi, tante soluzioni mediane 16.
Di fronte ad una gamma così eterogenea di opinioni non si può pretendere di dire, qui, la parola definitiva. Tuttavia, è significativo come la forza evocativa dell’espressione, le sue ascendenze 17, il carico
di riferimenti extratestuali che la accompagna 18, siano tali, che persino i fautori del primo indirizzo finiscono poi per concedere qualcosa. Nel tentativo di chiarire cosa significhi processo “giusto” s’è infatti
suggerito di «riprendere, adattandola al nostro caso, la famosa allegoria rawlsiana del velo d’ignoranza,
nella quale i principi di giustizia sono scelti da individui all’oscuro della loro futura posizione nella società. “Giusto processo” può essere definito quello che sarebbe scelto da persone razionali in situazione
di ideale imparzialità, perché ignare del ruolo che le attende: attore, convenuto, imputato, giudice, accusatore o vittima del reato. Non è difficile, allora, immaginare i fondamentali aspetti su cui convergerebbe il consenso» 19.
È un’immagine magnifica, ed ha ricadute evidenti sulla questione che stiamo esaminando. Chi –
prima di sapere se dovrà indossare i panni dell’accusato, quelli della persona offesa o quelli d’un estraneo – accetterebbe un sistema nel quale i diritti, le libertà, i legittimi interessi (dell’imputato o di terzi)
dell’Elba, 9-10 giugno 2000), Milano, 2001, p. 16; G. Costantino, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il «giusto processo civile». Le
garanzie, ibidem, p. 258.
12
E. Marzaduri, Art. 1 l. cost. 23/11/1999 («giusto processo»), in Legislazione pen., 2000, p. 764.
Nel corso dei lavori preparatori della l. cost. 23 novembre 1999, n. 1, prese di posizione in tal senso sono venute dal relatore
del disegno di legge costituzionale n. 3619 ed abbinati, M. Pera (Senato, seduta del 18 febbraio 1999, n. 549).
Con riguardo all’art. 130 del progetto elaborato nel 1997 dalla commissione bicamerale per le riforme istituzionali, G. Ubertis, La previsione del giusto processo, in Dir. pen. proc., 1998, p. 45.
Ulteriori citazioni nelle note successive.
13
E. Amodio, Giusto processo, procès équitable e fair trial: la riscoperta del giusnaturalismo processuale in Europa, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2003, p. 98.
14
E. Amodio, La procedura penale dal rito inquisitorio al giusto processo, in Cass. pen., 2003, p. 1422.
15
M. Pivetti, Per un processo civile giusto e ragionevole, in M.G. Civinini-C.M. Verardi (a cura di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, cit., p. 64.
16
Senza pretese di completezza, possiamo ricordarne qualcuna. Secondo N. Trocker, Il valore costituzionale del «giusto processo», in M.G. Civinini-C.M. Verardi (a cura di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, cit., p. 49 ss., «la formula del giusto processo dà espressione all’esigenza di coordinare sistematicamente fra loro le diverse garanzie afferenti al processo»; quelle garanzie «hanno bisogno di un’interpretazione e ricostruzione che non si limiti ad analizzarle come entità a sé
stanti, da scomporre e ricomporre di volta in volta nei rispettivi elementi testuali, ma sappia coglierne il significato “relazionale” entro una serie di collegamenti e di interdipendenze funzionali. In sostanza, l’art. 111 Cost. dispiega come non disprezzabile
risvolto concreto anche quello di mettere in evidenza che il diritto fondamentale dell’individuo ad un (o il principio fondamentale del) giusto processo non si cristallizza, né tantomeno si esaurisce, in garanzie singole, ma si basa sul necessario coordinamento di più garanzie concorrenti». Adesivamente, A. Proto Pisani, Relazione conclusiva, in M.G. Civinini-C.M. Verardi (a cura
di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, cit., p. 318. Non troppo lontano da Trocker incontriamo pure E.
Marzaduri, Art. 1 l. cost. 23/11/1999 («giusto processo»), cit., p. 765, il quale si dichiara ostile a «statuizioni che sviluppano unilateralmente profili di tutela dell’accusato fino al punto da provocare eccessive compressioni degli interessi di altri soggetti coinvolti nel processo».
17
Sulle quali si può vedere G. Ferrara, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e «giusto processo», in Rass. parl., 1999, p. 539 ss.
18
Scrive assai efficacemente E. Amodio (Giusto processo, procès équitable, cit., p. 94) che la formula «riecheggia un modo
espressivo tipico dell’età anteriore alle codificazioni», e «rivela un’adesione a valori etico-politici che si collocano al di sopra della legge scritta, ricavati dalla natura e dalla ragione secondo i moduli del giusnaturalismo».
Di «neo-giusnaturalismo costituzionale in Italia» aveva parlato, ancor prima, L.P. Comoglio, Le garanzie fondamentali del
«giusto processo», in Nuova giur. comm., 2001, II, p. 8. Si veda anche L. Lanfranchi, voce Giusto processo (processo civile), in Enc.
Giur., XV, Roma, 2001, p. 7.
19
P. Ferrua, Il «giusto processo», cit., p. 89.
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vengono sacrificati senza necessità? Chi chiamerebbe “giusto” un processo che comprime questi valori
in misura superiore allo stretto indispensabile?
Agli stessi risultati, d’altronde, si arriva anche rifiutando cedimenti a suggestioni giusnaturalistiche
e rimanendo ancorati al diritto positivo. In questo quadro si può ritenere che la giustizia del processo
debba essere valutata «in rapporto alla sua maggiore o minore conformità […] ai principi […] fondamentali del tipo di ordinamento nel quale il processo s’inquadra» 20; e nessun sistema autenticamente
liberale potrebbe sopportare che la macchina processuale macinasse diritti altrui anche quando non è
necessario o (ma in fondo, è la stessa cosa) in grado superiore al necessario.
Vi sono quindi buone ragioni per ritenere che la clausola sul giusto processo costituzionalizzi il
principio di proporzionalità, e che l’art. 224-bis, comma 5, c.p.p. si riallacci immediatamente a quella
clausola. In ogni caso, l’art. 224-bis, comma 5, c.p.p. è una disposizione pregevole: se fosse riformulata
in termini più generali, potrebbe essere una bandiera superba, che non sfigurerebbe affatto in apertura
del codice, quale articolo 1.
Ma sono costretto a selezionare; dovrò quindi lasciar cadere l’argomento, per dedicarmi all’aspetto centrale della riforma approvata nel 2009: la scelta di accentrare nel giudice (art. 224-bis, comma 1, c.p.p.) il potere di disporre un prelievo forzoso. È una soluzione che alcuni ritengono troppo garantista, dal momento
che atti più lesivi quali le ispezioni o le perquisizioni sono lasciati al pubblico ministero 21. Personalmente,
rovescerei a centottanta gradi l’osservazione. Lasciamo pure da parte il profilo – in verità difficile ed opinabile – relativo a questa “classifica d’intensità” degli effetti lesivi d’un atto 22; piuttosto va sottolineato come, ancor oggi, gran parte degli strumenti investigativi che toccano sfere di libertà siano governati dal
pubblico ministero. Soltanto l’abitudine, le incrostazioni culturali che decenni di processo misto hanno fatto sedimentare, c’inducono ad accettare quest’assetto; in realtà, il compito di mediare fra le ragioni dell’individuo e le ragioni dell’autorità dovrebbe sempre essere appannaggio d’un organo imparziale. Naturalmente, con la possibilità, nei casi urgenti, d’un intervento provvisorio del pubblico ministero (cosa che la
legge del 2009 ha previsto: art. 359-bis, comma 2, c.p.p.) o addirittura della polizia (cosa che la legge del
2009 non ha previsto); ma, cessata l’emergenza, anche la convalida dovrebbe promanare dal giudice.
Questo schema dovrebbe essere adottato per tutti gli atti d’indagine che comprimono libertà costituzionalmente garantite; probabilmente la disciplina migliore, da adoperare come modello, sarebbe quella del sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.), proprio perché concede un margine d’intervento anche alla
polizia; ma le disposizioni sull’indagine genetica segnano comunque un passo nella giusta direzione.
E la prassi? Come si muove, in questo contesto? Naturalmente, cerca di scappar via dalla riserva
giurisdizionale, facendo ricorso a quegli stessi stratagemmi (ad esempio, convocare in questura il sospettato e offrirgli dell’acqua, solo per analizzare poi le tracce di saliva lasciate sul bicchiere) che in passato avevano permesso di far fronte alla dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 224, comma 2,
c.p.p. 23. Lo può fare ancora?
C’imbattiamo in due posizioni contrapposte: una, portata avanti in dottrina, sostiene che quelle pratiche avevano ragion d’essere solo nel periodo dell’emergenza causata dalla lacuna normativa; adesso
che una disposizione esiste, non si potrebbero più tollerare metodi paralleli e “semplificati” di acquisizione del medesimo elemento di conoscenza 24. L’altra, abbracciata dalla Corte di cassazione, li considera invece legittimi, a patto che non comportino una coercizione fisica 25.
Ma forse non esiste una risposta unica, valida per ogni situazione; sembra infatti sensato raggruppare quegli espedienti in tre classi. Nella prima possiamo mettere le tecniche certamente legittime: per
esempio, raccogliere il mozzicone di sigaretta che il sospettato lascia cadere sul marciapiede. Non sol20
Così S. Fois, Il modello costituzionale del «giusto processo», in Rass. parl., 2000, p. 571; nella stessa direzione, M. Cecchetti, voce
Giusto processo (diritto costituzionale), in Enc. dir., Agg., V, Milano, 2001, p. 608.
21
M. Stramaglia, Prelievi coattivi e garanzie processuali, in L. Marafioti-L. Luparia (a cura di), Banca dati del dna e accertamento
penale, Milano, 2010, p. 269 ss.
22
Qualche considerazione al riguardo è stata svolta da chi scrive in La disciplina delle indagini genetiche, in Cass. pen., 2014, p.
1435 ss.
23
Supra, nota 1.
24
S. Marcolini, Le indagini atipiche a contenuto tecnologico nel processo penale: una proposta, in Cass. pen., 2015, p. 765, nota 20; A. Presutti, L’acquisizione forzosa dei dati genetici tra adempimenti internazionali e impegni costituzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 559.
25
Cass., sez. II, 9 maggio 2014, n. 33076, in Guida dir., 2014, 37, p. 65, con nota di A. Cisterna, L’esigenza di mantenere riservate le
investigazioni giustifica i prelievi occulti senza modalità invasive.
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tanto non esiste alcun solido argomento per diagnosticare un divieto probatorio 26, ma si tratta anzi di
una pratica raccomandabile, perché evita di incidere senza necessità il bene della libertà personale.
Nella seconda classe incontriamo le tecniche altrettanto sicuramente proibite: per esempio, usare,
come prova contra reum, il rifiuto dell’imputato di cedere sostanza organica. Per questa via il diritto a
non autoincriminarsi viene raschiato e sostituito da un inquietante onere di fornire contributi probatori
potenzialmente nocivi 27.
Nella terza classe possiamo collocare i casi “difficili”, nei quali c’è spazio per sostenere l’una e l’altra
opinione. Volendo limitarsi ad un esempio famoso, pensiamo all’indagine sull’omicidio di Yara Gambirasio: le maglie del family test si stavano stringendo; era emerso che il profilo estratto dal corpo della
vittima (passato alle cronache come “Ignoto 1”) apparteneva ad un figlio di Ester Arzuffi; a quel punto,
la polizia decide di fermare Massimo Giuseppe Bossetti (per l’appunto, figlio di Arzuffi) mentre è alla
guida, per sottoporlo ad un “finto” accertamento con l’alcooltest, allo scopo di eseguire informalmente
un prelievo di sostanza organica.
Da una parte si potrebbe sostenere che i presupposti per compiere l’atto sono così blandi che in sostanza la polizia lo può eseguire verso chiunque e in qualsiasi momento: dunque, anche verso chi sia
sospettato d’un omicidio. Dall’altra parte si potrebbero notare due anomalie. Sul lato degli inquirenti,
c’è qualcosa che ricorda lo sviamento di potere, perché l’atto punta a scopi diversi da quelli che la legge
gli assegna (i “pretest” possono essere effettuati «al fine di acquisire elementi utili per motivare l’obbligo di sottoposizione agli accertamenti» veri e propri: art. 186, comma 3, c. str.; qui il fine è affatto differente). Sul lato della persona sottoposta ad indagini, la questione s’intreccia con un problema di fondo
della normativa sull’“etilometro”, la quale si colloca all’estremo limite consentito – forse oltre – dal
principio nemo tenetur se detegere 28: l’autorità si presenta al cospetto dell’individuo e lo costringe (l’obbligo non è coercibile, ma la violazione è penalmente sanzionata) ad un comportamento che può portarlo ad autoincriminarsi. In questo quadro, di per sé poco rassicurante, si inserisce l’elemento dell’inganno sulle autentiche finalità dell’operazione: un elemento che ovviamente distorce la scelta della persona sottoposta ad indagini di accettare l’alcooltest e soffiare nell’apparecchio 29. Nel complesso, gli argomenti contrari a questa pratica sembrano predominanti.
III. Come la prima, anche l’ultima fase dell’iter, quella propriamente peritale, è uscita intatta dalla riforma del 2009; ma in questo caso il difetto è meno grave, sia perché le disposizioni del codice sugli accertamenti tecnico-scientifici reggono meglio l’incedere del tempo, sia perché durante l’estrazione e la
comparazione dei profili il rischio d’errori è meno alto. Questo tuttavia non significa che la perizia genetica sia infallibile: la letteratura internazionale l’ha ampiamente dimostrato.
Vanno anzitutto ricordati alcuni pericoli che si collocano per così dire sullo sfondo: eventualità poco
frequenti, sulle quali si può quindi glissare, ma che sarebbe sbagliato non ricordare nemmeno. Alludo
alla possibilità di negligenze o imperizie dei genetisti 30; di falsità intenzionali (ce ne sono state; persino
in casi puniti con la pena capitale 31); di macthes occasionali 32.
26
Nel medesimo senso, C. Fanuele, Dati genetici e procedimento penale, Padova, 2009, p. 93; P. Felicioni, Perquisizione, sequestro
e prelievo di materiale biologico, in Osservatorio sul processo penale, 2008, 3, p. 19. Contra, B. Galgani, Libertà personale e «raccolta» di
campioni biologici: eccessi di zelo difensivo o formalismi della Suprema Corte?, in Riv. it. dir. proc. pen, 2008, p. 1830.
27
Valutare, come elemento di prova a carico, il rifiuto di prestarsi all’accertamento genetico, è legittimo secondo Cass., sez.
II, 8 luglio 2004, in CED Cass., n. 230245; Id., sez. I, 20 settembre 2002, in Cass. pen., 2004, p. 4166 ss.; Id., sez. VI, 2 novembre
1988, in CED Cass., n. 213448. Adesivamente, M. Bordieri, Sul valore probatorio del rifiuto ingiustificato dell’imputato di sottoporsi al
prelievo di Dna, in Cass. pen., 2004, p. 4168; R.V.O. Valli, Le indagini scientifiche, cit., p. 470. Contra, M. Montagna, Accertamenti tecnici e prova del DNA, in AA.VV., Prova penale e metodo scientifico, Torino, 2009, p. 127; L. Picotti, Trattamento dei dati genetici, violazioni della privacy e tutela dei diritti fondamentali nel processo penale, in Dir. informaz. e informatica, 2003, p. 711; E. Segatel, Il rifiuto
dell’imputato di sottoporsi a prelievi biologici, in Riv. dir. processuale, 2007, p. 349 ss.
28
Contra, Cass., sez. IV, 6 ottobre 2009, n. 40911, in Iusexplorer (banca dati on line).
29
V. tuttavia, per un’impostazione diversa, R.V.O. Valli, Le indagini scientifiche, cit., p. 434 ss.
30
Celebri quelle che portarono a chiudere la DNA and serology section dello Houston Police Department Crime Laboratory.
31
M. Strutt, Legally Scientific? A Brief History of DNA Evidence in the Criminal Justice System, 9 giugno 2001, in http://www.
justiceaction.org.au/oldWebsite/actNow/Campaigns/DNA/pdf_files/02_Legal.pdf; W.C. Thompson, The Myth of Infallibility, in S. Krimsky-J. Gruber, Genetic Explanations: Sense and Nonsense, Harvard University Press, 2013, p. 237 ss.
32
Diversamente da quel che in genere si crede, non si tratta di casi di scuola: in letteratura sono documentati episodi di per-
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Ma le principali cause d’errori sono tre. Anzitutto, le contaminazioni. Come abbiamo visto, è soprattutto durante il sopralluogo che il materiale organico da sottoporre al test può subire inquinamenti; però non solo lì: può accadere anche all’interno dei laboratori: vi sono stati casi in California, Florida, New
Jersey 33, Nuova Zelanda 34, Australia 35, Scozia 36…
Per quanto ciò possa sembrare strano, una seconda, potente causa di errori giudiziari è rappresentata dalle scorrette etichettature o, più in generale, dagli scambi di campioni: in alcuni episodi, il DNA
mix-up ha portato all’esecuzione di pesanti condanne a pene detentive 37; in altri, più fortunati, l’errore è
stato scoperto prima del verdetto 38.
Infine, soprattutto quando i reperti siano scarsi, misti o rovinati, l’errore può nascere da un difetto
nell’interpretazione dei risultati del test. A questo riguardo, due studiosi anglosassoni hanno condotto
un esperimento eloquente. In una vicenda relativa ad uno stupro di gruppo, uno degli imputati, in
cambio d’un trattamento sanzionatorio mite, aveva ammesso la propria responsabilità e reso dichiarazioni a carico dei complici. In base alla legge dello Stato in cui il crimine era stato commesso, la chiamata di correo, da sola, non bastava nemmeno per incriminare i responsabili. Ma c’era un’altra prova: una
traccia biologica mista (ossia lasciata da più individui), che venne sottoposta ad analisi: i periti conclusero nel senso che i soggetti chiamati in correità rientravano fra i possibili donatori e il processo poté
dunque partire. Dopo la definizione della causa, i due studiosi sottoposero i profili genetici della traccia
mista e degli imputati ad un gruppo di diciassette genetisti; ed ecco il punto chiave: a costoro – diversamente da quanto era accaduto nel corso del procedimento penale – non venne fornita alcuna informazione sulle circostanze del reato e sulla posizione processuale dei vari soggetti che avevano fornito il
DNA. Per un imputato, la conclusione dei diciassette esperti fu sorprendente: uno soltanto ritenne che
il suo profilo genetico fosse compatibile con la traccia mista; quattro conclusero nel senso che i dati erano inconcludenti; dodici, nel senso che l’imputato doveva essere senza dubbio escluso dal novero dei
possibili donatori 39. Lo studio mostra bene come le informazioni relative al contesto in cui le tracce biologiche sono state raccolte possano influenzare pesantemente il parere di periti e consulenti.
Il fenomeno è stato analizzato soprattutto da William C. Thompson, il quale ha provato come la “fallacia del cecchino texano” (il tiratore che prima sparava a casaccio sulla facciata d’un granaio, poi dipingeva il bersaglio attorno ad ogni foro e alla fine, quando la pittura s’era seccata, chiamava i vicini
per far loro ammirare la sua precisione) si presenti anche nel test del DNA: quando il profilo estratto
dal reperto è incompleto (cosicché l’analisi non può fornire informazioni sugli alleli d’una certa regione); oppure quando la traccia risale a più donatori, il bersaglio è poco nitido e può essere spostato (per
lo più senza volere) dal genetista che sappia chi è sospettato, così da produrre “artificialmente” una
coincidenza fra il profilo di quest’ultimo e quello raccolto sulla scena del crimine 40.
Oltreoceano sono anche stati proposti alcuni rimedi: per esempio, ricorrere a procedure automatiz-
sone arrestate, imputate o addirittura condannate per effetto d’una casuale coincidenza del loro profilo genetico con quello del
colpevole (M. Strutt, Legally Scientific?, cit.; W.C. Thompson, The Myth of Infallibility, cit., p. 244 ss.). Tuttavia, ciò è accaduto soprattutto in passato, quando l’analisi delle varianti alleliche era circoscritta ad un numero basso di “regioni” (o “loci”); con
l’allargamento del test ad ulteriori loci, l’eventualità s’è fatta più rara.
33
M. Dolan-J. Felch, The peril of DNA: it’s not perfect, in Los Angeles Times, 26 dicembre 2008, in http://articles.latimes.com/2008/
dec/26/local/me-dna26; W.C. Thompson, The Myth of Infallibility, cit., p. 230.
34
M. Strutt, Legally Scientific?, cit.
35
G. Johnson (State Coroner), Inquest into the Death of Jaidyn Raymond Leskie, Coroner’s Case No. 007/98, 31 luglio 2006, in
http://www.bioforensics.com/download-articles/.
36
Opinion in the Reference by the Scottish Criminal Cases Review Commission in the Case of Brian Kelly, Appeals Court,
High Court of Justiciary, 6 agosto 2004, in http://www.scotcourts.gov.uk/opinions/XC458.html.
37
J. Valley, Metro reviewing DNA cases after error led to wrongful conviction, Las Vegas sun, 7 luglio 2011, in http://lasvegas
sun.com/news/2011/jul/07/dna-lab-switch-led-wrongful-conviction-man-who-ser/.
38
W.C. Thompson-F. Taroni-C.G.G. Aitken, How the Probability of a False Positive Affects the Value of DNA Evidence, in Journal
of forensic sciences, 2003, 48, 1, p. 48.
39
I.E. Dror-G. Hampikian, Subjectivity and bias in forensic DNA mixture interpretation, in Science and Justice, 51, 2011, p. 204 ss.
40
W.C. Thompson, Painting the target around the matching profile: the Texas sharpshooter fallacy in forensic DNA interpretation, in
Law, Probability and Risk, 8, 2009, p. 257 ss.
Fra gli studi in italiano, si veda V.L. Pascali, L’uso del dna-profiling nel procedimento penale: fatti e misfatti, in Riv. it. medicina legale, 2011, p. 1351 ss. La questione è stata sfiorata anche nel processo sull’omicidio di Meredith Kercher: cfr. Ass. app. Firenze,
30 gennaio 2014, a quanto risulta inedita.
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zate (anziché manuali) per comparare e interpretare i profili, così da rimuovere la discrezionalità
dell’operatore umano 41. Si tratta però d’una soluzione prematura: molti dei programmi che eseguono
questi raffronti sono “proprietari”, cioè non consentono di accedere ai codici sottostanti: far fare il lavoro a quei software significherebbe quindi tagliar fuori la difesa e, più in generale, eliminare il contraddittorio intorno alla prova scientifica. Esistono, è vero, anche programmi open source, ma per adesso forniscono risultati assai disomogenei e non sembrano quindi particolarmente affidabili. Più convincente
l’idea di adottare procedure di mascheramento, cioè di costringere l’esperto a stilare conclusioni prima
di sapere se un determinato profilo genetico sia riconducibile ad un sospettato.
In questo scenario, agitato da studi e discussioni brillanti, il panorama interno sembrava piuttosto
stagnante; negli ultimi anni, però, le cose stanno rapidamente cambiando.
Così, il tema delle contaminazioni da noi è stato a lungo affrontato con esclusivo riferimento ad
eventuali inquinamenti della scena del delitto ad opera degli agenti accorsi sul luogo: quasi che le fasi
successive fossero al di sopra d’ogni sospetto; quasi che i nostri gabinetti scientifici fossero i migliori del
pianeta. Il processo sull’omicidio di Meredith Kercher ha però dato una scossa al dibattito e potrebbe
rappresentare un punto di svolta 42.
Anche sulla rottura della catena di custodia, qualcosa si sta muovendo. Per anni la giurisprudenza
ha ritenuto che causasse mera irregolarità 43; di recente, però, la Corte di cassazione ha cambiato atteggiamento, arrivando ad ipotizzare addirittura una inutilizzabilità 44. A dire il vero, quest’ultimo indirizzo non pare ineccepibile, perché si fatica a rintracciare nella legge un autentico divieto probatorio; probabilmente la soluzione più corretta è nel senso che, in simili evenienze, sul giudice che intenda usare la
prova incombe il dovere di motivare con particolare cura circa le ragioni che, malgrado l’errore, inducono a riporre fiducia sulla genuinità del reperto. Ad ogni modo, resta il segno d’un dibattito in fermento.
Dove invece siamo ancora fermi, è sulle informazioni superflue (ma fuorvianti) che possono essere
passate al genetista. L’argomento è sfiorato da due disposizioni maldestre (artt. 228 e 359, comma 2,
c.p.p.), che, probabilmente, nascono da una sottovalutazione del problema. Malgrado ciò, non sono sicuro che la via maestra sia quella d’una modifica normativa, perché il codice non può inseguire ogni
singola difficoltà sorta sul terreno della prassi; se non la legge, però, almeno i giuristi dovrebbero iniziare ad occuparsene.
V’è infine un ultimo rischio da tenere in considerazione: a differenza dei precedenti, non riguarda
specificamente una delle tre fasi in cui può essere scomposta la prova genetica ma attraversa l’intero
procedimento. È il pericolo che gli organi dell’indagine, elettrizzati dalla scoperta d’un match, ritengano
d’aver chiuso il caso e trascurino strumenti d’indagine più tradizionali 45. Non è un’eventualità che riguardi soltanto la prova del DNA (per fare un unico esempio, quante volte abbiamo sentito dire che i
pubblici ministeri non dovrebbero adagiarsi sulle intercettazioni?), ma certo la leggenda dell’infallibilità del test genetico potrebbe giocare un ruolo importante.
Inutile dire che si tratterebbe d’un atteggiamento superficiale e pericoloso. Si pensi solo alla possibilità che il vero colpevole, per sviare l’indagine, dissemini apposta tracce biologiche altrui. Si ricorderà,
41
Il suggerimento, così come quello di cui si dirà fra poco nel testo, viene da W.C. Thompson, Painting the target around the
matching profile, cit., p. 272 ss.
42
Come si sa, in quella vicenda s’è discusso a lungo, non solo sugli accertamenti genetici eseguiti sul gancetto del reggiseno
della vittima e sulle macchie di sangue trovate in uno dei bagni dell’appartamento (qui gli errori segnalati dai difensori degli
imputati sono in realtà caduti sul prelievo dei reperti) ma anche intorno a quelli condotti sul coltello reperito in casa di Raffaele
Sollecito, con riferimento ai quali è stata denunciata l’inosservanza dei protocolli e delle raccomandazioni suggeriti dalla letteratura scientifica internazionale per le perizie sulle tracce scarse (Low copy number): cfr. Cass., sez. I, 26 marzo 2013, n. 26455, in
CED Cass., rv. 255678; Ass. app. Perugia, 3 ottobre 2011, cit., p. 66 ss.
43
Cfr., con riguardo alla mancata apposizione dei sigilli sulle cose sequestrate, Cass., sez. VI, 29 ottobre 1992, n. 3655, in CED
Cass., rv. 193673; Id., sez. I, 12 febbraio 1997, n. 2967, in CED Cass., rv. 207224. Con riferimento ad una perizia su reperti biologici
contenuti in un plico etichettato scorrettamente (il contenuto non corrispondeva a quello indicato sulla copertina), Cass., sez. I,
22 febbraio 2007, in CED Cass., n. 236291.
44
A fronte della mancata apposizione dei sigilli, il giudice dovrebbe svolgere accertamenti per verificare che i reperti non
siano stati confusi o manomessi; qualora non ci fossero certezze al riguardo, la prova sarebbe inutilizzabile: in tal senso, Cass.,
sez. III, 16 dicembre 2009, n. 2270, in Dir. pen. proc., 2010, p. 1076 ss., con nota di V. Casini, Sanzionata dalla Cassazione l’omessa
catena di custodia.
45
Cfr. S. Salardi, Dna ad uso forense: paladino di giustizia o reo di ingiustizie?, in Riv. it. medicina legale, 2011, p. 1372 ss.
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per esempio, il “delitto delle mani mozzate”: durante la colluttazione con la vittima, l’omicida, Giuseppe Piccolomo, era stato graffiato sul volto, ed aveva pensato che sotto le unghie del cadavere fossero
rimasti frammenti di materiale organico che avrebbero potuto portare gli inquirenti sulle sue tracce; di
qui la decisione di tagliargli le mani. Ma l’assassino non si limitò a questo; lasciò sul teatro del delitto
mozziconi di sigaretta di varie marche, fumati da altri, in modo da far pensare ad una pluralità di correi. L’indagine ebbe una svolta quando una cittadina, dopo avere appreso le circostanze del fatto guardando la televisione, si presentò alla polizia per dichiarare d’aver visto un uomo che, all’ingresso d’un
centro commerciale della zona, aveva svuotato un posacenere e s’era portato via le cicche 46.
Anche qui, peraltro, la legge non può far molto; la partita si gioca tutta sul piano culturale: toccherà
dunque ai giuristi tener desta l’attenzione sul fatto che ogni prova, persino quella genetica, da sola è
difficilmente risolutiva e pretende perciò d’essere calata in un più ampio contesto che globalmente assecondi una certa ricostruzione dei fatti.
46
Alcuni quotidiani locali ipotizzarono che l’idea del depistaggio fosse venuta a Piccolomo dalla trasmissione CSI, della quale era un affezionato spettatore: http://www.corriere.it/cronache/09_novembre_27/omicida-tipografa-mani-mozzate_ad397712-db2411de-abc5-00144f02aabc.shtml.
Per ulteriori casi di DNA forgery si veda M. Strutt, Legally Scientific?, cit.
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ÁNGEL TINOCO PASTRANA
Profesor de Derecho Procesal – Universidad de Sevilla
El Estatuto español de la víctima del delito
y el derecho a la protección
The Spanish Crime victim Statute and the right to protection
Vamos a tratar la protección de las víctimas tras la promulgación del Estatuto de la víctima del delito, que transpone
la Directiva 2012/29/UE y codifica los derechos procesales y extraprocesales de las víctimas. Estudiaremos si
existen buenas prácticas en el Derecho español en esta materia. Los problemas derivados de la antigüedad de la
Ley de Enjuiciamiento Criminal de 1882 y la dispersión normativa, requieren una seria y precisa regulación de la
materia. El Estatuto reforma la Ley de Enjuiciamiento Criminal, siendo relevantes las innovaciones que introduce
en el tratamiento de las víctimas con necesidades especiales de protección y en la protección de la víctima
durante las fases de investigación y enjuiciamiento. El Estatuto respeta y supera las normas mínimas de la Directiva
e introduce importantes novedades, pero existen extremos que no están lo suficientemente precisados, lo cual
junto con la carencia de medios y recursos, puede obstaculizar la eficacia y aplicación práctica de la nueva normativa.
We are going to study the protection of victims following the enactment the Crime victim Statute. The Statute
transposes the Directive 2012/29/UE, and codifies the procedural and extra-procedural rights of victims. We are to
investigate if good practices exist in Spanish Law. The problems derived from the antiquity of the Act of Criminal
Procedure of 1882 and the multiplicity of the regulations, require a new, serious and precise regulation of the matter. The Statute reform the Act of Criminal Procedure, being relevant the innovations in the treatment of victims
with specific protection needs and the protection of the victim during criminal investigations and court proceedings. The Statute respects and exceeds de minimum standards of the Directive and introduces important innovations, but there are extremes which are not sufficiently specified, which together with the lack of means and resources, it can hinder the effectiveness and practical application of the new regulation.
INTRODUCCIÓN
Recientemente se acaba de promulgar en España la Ley 4/2015 de 27 de abril, del Estatuto de la
Víctima del delito (LEVD) 1, que transpone la Directiva 2012/29/UE 2. Vamos a tratar la protección de
1
La LEVD entró en vigor a los seis meses de su publicación en el BOE, es decir, el 28 de octubre de 2015. Dada la vocación
unificadora del Estatuto y ante la carencia de una regulación específica para determinados colectivos de víctimas con especial
vulnerabilidad, les otorga una protección especial transponiendo igualmente otras dos Directivas recientes. La Directiva
2011/93/UE del Parlamento Europeo y del Consejo, de 13 de diciembre de 2011, relativa a la lucha contra los abusos sexuales y la
explotación sexual de los menores y la pornografía infantil, y la Directiva 2011/36/UE del Parlamento Europeo y del Consejo, de 5
de abril, relativa a la prevención y lucha contra la trata de seres humanos y la protección de las víctimas. De este modo la LEVD
está en consonancia con el espíritu del “Programa de Estocolmo – Una Europea abierta que sirva y proteja al ciudadano”, adoptado
por la Consejo Europeo en 2009, en cuyas orientaciones estratégicas se establece la protección de los derechos de los más
vulnerables, entre las que se encuentran las víctimas protegidas en dichas Directivas (4.4.3 y 4.4.3). Con la Resolución del Consejo
de 10 de junio de 2011, sobre un Plan de Trabajo para reforzar los derechos y la protección de las víctimas, en particular en los
procesos penales (“Plan de Trabajo de Budapest”) se da respuesta por la Comisión Europea al “Programa de Estocolmo”. Las
víctimas con necesidades especiales están igualmente reconocidas en la Medida E del “Programa de Budapest”, debiendo
establecerse normas sobre su asistencia, apoyo y protección. Nos vamos a centrar fundamentalmente, en la transposición de la
Directiva 2012/29/UE.
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las víctimas y el reconocimiento de las víctimas con necesidades especiales de protección en la LEVD,
materia que se regula en su Título III.
La LEVD lleva a cabo una sobresaliente codificación de los derechos procesales y extraprocesales de
las víctimas de delitos. No sólo reconoce los derechos mínimos de la Directiva sino incluso otros
adicionales, introduciendo importantes novedades sobre la materia. Constituye un texto más ambicioso
que traslada las demandas de la sociedad española, dada la “postración de los derechos y necesidades
de las víctimas”, conforme al valor superior de justicia. La promulgación de la LEVD conlleva que
España esté entre los países pioneros de la UE al regular en una sola norma los derechos de las
víctimas 3. La protección y el apoyo que ofrece a la víctima ostentan también una dimensión extraprocesal. Se funda en un concepto amplio de reconocimiento, protección y apoyo en aras a la salvaguarda
integral de la víctima, incluyendo medidas de protección concretas para determinados colectivos. La
LEVD se presenta y publica como Anteproyecto, informado en Consejo de Ministros, el 24 de octubre
de 2013. El Anteproyecto se presenta en el contexto de la importante repercusión y rechazo que tuvo
fundamentalmente en gran parte de la sociedad, la condena a España por la sentencia del Tribunal
Europeo de Derechos Humanos en el asunto Del Río Prada c. España (Demanda n. 42750/09), de 21 de
octubre de 2013, que conllevó derogación de la denominada “doctrina Parot”, o doctrina del “doble
cómputo legal”, y en gran medida parece que intenta satisfacer ciertas demandas de la sociedad y de
las víctimas del delito.
En este trabajo estudiaremos el grado de cumplimiento y desarrollo de los derechos reconocidos y
las medidas de protección establecidas en el Capítulo III de la Directiva en el ordenamiento español tras
la promulgación de la LEVD, y la correlativa reforma de la Ley de Enjuiciamiento Criminal de 1882
(LECRIM) que la LEVD lleva a cabo. Veremos si existen buenas prácticas en el proceso penal español
para el cumplimiento de la Directiva 4.
El Derecho español carece de una codificación completa en el proceso penal, planteando la LECRIM
importantes problemas de interpretación y de aplicación como consecuencia, entre otros factores, de su
antigüedad. A pesar de esta reforma de la LECRIM que la LEVD lleva a cabo, continúa siendo necesaria
una nueva Ley procesal penal que modernice el proceso penal y solvente estos inconvenientes, además
de su adecuación a las normas internacionales en materia de protección de los derechos humanos. En la
actual legislatura se difundió el Borrador de nuevo Código Procesal Penal (BCPP) 5, que contiene en los
arts. 59 a 68 el “Estatuto Procesal de la Víctima”, el cual en modo alguno tiene la relevancia y alcance de
la LEVD en esta materia, ni perspectiva de que se inicie su tramitación legislativa, por lo que no existe
2
La Directiva establece normas mínimas sobre derechos, el apoyo y la protección de las víctimas de delitos, sustituye a la
Decisión Marco 2001/220/JAI del Consejo, y tiene que ser incorporada a los ordenamientos internos de los Estados miembros
con la fecha límite del 16 de noviembre de 2015. La Directiva tiene por tanto como objetivo revisar y reforzar los derechos de las
víctimas en los procesos penales, aumentando de forma significativa su nivel de protección respecto a la Decisión Marco, dados
además los avances en la creación del espacio de libertad, seguridad y justicia en la Unión Europea (UE).
3
Así se observa en el Considerando II del Preámbulo LEVD, donde se añade que tiene la finalidad de completar el diseño
del Estado de Derecho, casi siembre centrado en los derechos y garantías del imputado, procesado, acusado o condenado.
Además se destaca que según el Informe de la Comisión Europea de abril de 2009, ningún Estado miembro había aprobado un
único texto legal que de forma sistemática, recoja todos los derechos de la víctima.
4
M. De Hoyos Sancho, Reflexiones sobre la Directiva 2012/29/UE, por la que se establecen normas mínimas sobre los derechos, el
apoyo y la protección de las víctimas de delitos, y su transposición al ordenamiento español, Revista General de Derecho Procesal, 2014, pp.
9 a 11. La transposición de la Directiva en los ordenamientos de los Estados, se tendrá que efectuar haciendo referencia a que
sus disposiciones son consecuencia de esta norma de armonización. Se establece un sistema de seguimiento de su transposición
por parte de la Comisión sobre la adopción por los Estados de las disposiciones necesarias para cumplirla. Hubiera sido
deseable una aproximación más intensa y al alza, no sólo por mejorar los derechos y protección de las víctimas, sino además
porque desde la Sentencia del TJUE (Gran Sala), de 26 de febrero de 2013 (Caso Melloni), si la materia está armonizada en la UE,
un Estado no puede invocar las disposiciones de su Derecho interno en función del “principio de primacía del Derecho de la
Unión Europea”. La Directiva impone a los Estados obligaciones de forma más clara y eficaz que la Decisión Marco de 2001,
pudiendo además ser controlada su aplicación por el Tribunal de Justicia, pudiéndose hacer uso del “recurso por
incumplimiento” (arts. 258 y 260.3 TFUE), todo lo cual redunda en una mayor efectividad de la Directiva en los Estados que
constituyen el “espacio de libertad, seguridad y justicia”.
5
Difundido por el Ministerio de Justicia, el 25 de febrero de 2013, si bien su tramitación como Anteproyecto no se ha
iniciado. Además de los arts. 59 a 68, trata específicamente la tutela y protección de las víctimas, entre otros, en los arts. 14, 43 a
45, 190 a 194 y 656.
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por el momento posibilidad alguna de que tengamos una nueva Ley procesal penal 6. Evidentemente es
más realista y viable la necesaria reforma puntual y parcial de la LECRIM para adaptarla a la LEVD,
que una nueva LECRIM. Esta conclusión se comprueba igualmente en la reciente Ley Orgánica 13/2015
de modificación de la Ley de Enjuiciamiento Criminal para el fortalecimiento de las garantías
procesales y la regulación de las medidas de investigación tecnológica, del mismo que en la también
reciente Ley 41/2015 de modificación de la Ley de Enjuiciamiento Criminal para la agilización de la
justicia penal y el fortalecimiento de las garantías procesales, ambas de 5 de octubre de 2015 7.
Una vez hechas estas observaciones sobre el contexto legislativo actual español, vamos a desarrollar
la materia que nos ocupa, y por tanto la protección de las víctimas según lo establecido en Título III de
la LEVD. El Estatuto de la Víctima se funda en un concepto amplio de reconocimiento, protección y
apoyo de la víctima para su salvaguarda integral. Aunque existen otros derechos y disposiciones que
coadyuvan a su protección, tales como el derecho de información, apoyo y participación, éstos exceden
de nuestro estudio, en el que nos vamos a centrar en el Título III.
De forma previa vamos a precisar el concepto de víctima conforme al art. 2 LEVD, que diferencia
entre las víctimas directas e indirectas. Las víctimas directas son las personas físicas que hayan sufrido
un daño o perjuicio sobre su persona o patrimonio, causados por la comisión del delito. Las víctimas
indirectas en los supuestos de muerte o desaparición de una persona causadas por el delito, son el
cónyuge o persona unida por análoga relación de afectividad, hijos, progenitores, parientes en línea
recta o colateral dentro del tercer grado que estuvieran bajo su guarda, y las personas sujetas a tutela,
curatela o acogimiento. Si éstos no existieran, serán los demás parientes en línea recta y hermanos.
En cuanto a la protección de la víctima, y en gran medida conforme a la sistematización que se lleva
a cabo en el Estatuto de la Víctima, vamos a ver en primer lugar la evaluación individual de las
víctimas, a continuación los derechos y medidas de protección relevantes y específicos para la fase de
investigación, y finalmente los derechos y medidas de protección de la fase de enjuiciamiento. Iremos
exponiendo las respectivas conclusiones conforme desarrollemos las diversas instituciones y analicemos la materia en sus correspondientes apartados.
LA EVALUACIÓN INDIVIDUAL DE LAS VÍCTIMAS
El Estatuto de la Víctima establece un sistema de evaluación individual de las víctimas para determinar
sus necesidades especiales de protección 8 y en consecuencia, qué medidas de protección especiales
de los arts. 25 y 26 9 deben ser adoptadas para evitar los perjuicios que pudieran derivarse del pro-
6
Ya ha sucedido con otros intentos como el “fallido” Anteproyecto de Ley de Enjuiciamiento Criminal de 2011. Fue
aprobado por el Consejo de Ministros el 22 de julio de 2011, prácticamente al final de la anterior legislatura, sin que se iniciara
su tramitación legislativa.
7
En sus respectivas Exposiciones de Motivos (Considerando I), se destaca la necesidad de afrontar de forma inmediata
determinadas cuestiones que no pueden esperar a ser resueltas hasta la promulgación de un nuevo Código Procesal Penal, dado
que éste plantea un cambio radical del sistema de justicia penal que requiere un amplio consenso y está sometido a un debate
que aún se mantiene. Desde hace décadas se está evolucionando en los diversos sistemas procesal penales europeos, desde el
sistema acusatorio formal o mixto de origen francés, hacia el sistema acusatorio puro, el cual incrementa las atribuciones al
Ministerio Fiscal en detrimento de la figura del Juez Instructor, atribuyéndole a aquél la fase preliminar de investigación. Este es
el sistema que se establece en el BCPP y en el anterior Anteproyecto de Ley de Enjuiciamiento Criminal de 2011. Dentro de esta
evolución posee una gran trascendencia la influencia del sistema adversativo (adversary system) del Common Law, fundamentalmente de los EE.UU.
8
M. De Hoyos Sancho, op. cit., pp. 18 a 20. Estamos ante una novedad de la Directiva respecto a la Decisión Marco de 2011,
dado que en ésta casi no se hacía referencia a las víctimas con necesidades especiales de protección. En la Propuesta de Directiva
de 2011 se identificaban expresamente a las víctimas vulnerables (art. 18). Sin embargo la Directiva ha optado por no establecer
ninguna definición de víctima necesitada de protección o especialmente vulnerable, por lo que en principio cualquier persona
puede llevar a serlo, en virtud del tipo de persona, situación, y de las consecuencias del delito sobre la persona y su entorno. La
autora propone que también debería considerarse aquellas víctimas en las que su especial vulnerabilidad radica en que ni
siquiera es capaz de denunciar los hechos y acceder al sistema policial o judicial, en virtud de sus características, circunstancias
o efectos del delito. Ello sí se considera como motivos especiales de vulnerabilidad en instrumentos internacionales como las
“Reglas de Brasilia” o las “Guías de Santiago”.
9
El art. 23.1 del Estatuto de la Víctima sólo se refiere respecto a las medidas a adoptar a las “reguladas en los artículos
siguientes”, y por tanto a las contempladas los arts. 25 y 26, lo cual está en consonancia con el tenor del art. 22 de la Directiva. Se
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ceso 10. Desde un punto de vista subjetivo en esta valoración se tienen en cuenta las características
personales de las víctimas, especialmente si se trata de una persona discapacitada o si existe una
relación de dependencia entre la víctima y el hipotético autor de los hechos. Además se tiene en especial
consideración si se trata de víctimas menores de edad o de víctimas necesitadas de especial protección
o con especial vulnerabilidad. Desde un punto de vista objetivo en la evaluación individual se
considera especialmente la naturaleza del delito, la gravedad de los perjuicios causados a la víctima, y
el riesgo de reiteración delictiva. En concreto se valoran especialmente las necesidades de protección de
las víctimas de un elenco específico de delitos. Se trata de los delitos de terrorismo, los cometidos por
una organización criminal, violencia de género, violencia doméstica, contra la libertad o indemnidad
sexual, trata de seres humanos, desaparición forzada, los cometidos por motivos racistas, antisemitas,
ideología, religión o creencias, situación familiar, pertenencia a una etnia, raza, nación, origen nacional,
sexo, orientación o identidad sexual, enfermedad o discapacidad 11. También se tendrán en cuenta en la
evaluación las circunstancias del delito, especialmente si se trata de delitos violentos 12.
Observamos que las referencias a estas víctimas que consideran especialmente, en modo alguno
excluye la evaluación individual de otras posibles víctimas que presenten otras características subjetivas o sean víctimas de otros delitos o bajo otras circunstancias, en la medida en que sea necesario
evitarles los perjuicios que se pudieran derivar del proceso. Por tanto la evaluación individual se prevé
para todas las víctimas, si bien las medidas especiales de los arts. 25 y 26 13 sólo se reconocerán a las
víctimas que tras la evaluación sean consideradas con necesidades especiales de protección 14.
Las víctimas menores de edad poseen un tratamiento específico. La Directiva establece un concepto
objetivo de vulnerabilidad en virtud del cual siempre se las considerarán con necesidades especiales de
protección, teniendo que someterse a la evaluación individual para determinar si deben beneficiarse y en
qué grado, de las medidas especiales de protección (art. 22.4) y las específicas para los menores de edad (art.
24), si bien reiteramos que ello no impide que también se adopten otras medidas de carácter general.
Por ello el Estatuto de la Víctima establece una serie de disposiciones para proteger a estas víctimas.
Consideramos que a pesar de que en el Estatuto no las reconozca de forma expresa en términos similares
trata por tanto de las medidas específicas para proteger a las víctimas con necesidades especiales de protección. Pero también
existen otras medidas de protección para las víctimas en general reguladas en preceptos anteriores, por lo que estimamos que
debemos efectuar una interpretación extensiva en el sentido de que nada impide adoptar estas otras medidas para proteger a las
víctimas con necesidades especiales. La evaluación individual coadyuva a la seguridad jurídica en las medidas de protección a
las que tendría derecho la víctima.
10
Estos riesgos consisten en que sean especialmente vulnerables a la victimización secundaria o reiterada, intimidación o
represalias, como se establece en el art. 22.1 de la Directiva.
11
Ello respeta el art. 22.2, b) de la Directiva, que establece que en la evaluación individual se tendrá especialmente en cuenta
el tipo o naturaleza del delito, y además concreta en el Derecho penal español los delitos cuyas víctimas serán objeto de una
consideración especial según el art. 22.3 de la Directiva. Este elenco de delitos está actualizado conforme a la reciente e
importante reforma del Código Penal (CP) que se llevó a cabo por la LO 1/2015 y la LO 2/2015, ambas de 30 de marzo y por
tanto previas a la promulgación de la LEVD. La violencia de género se entiende en los términos del art. 1 de la LO 1/2004,
integral contra la Violencia de Género (LOIVG), que la limita a la violencia del hombre sobre la mujer en las relaciones afectivas,
a diferencia de otras posibles regulaciones comparadas que amplíe el ámbito de las víctimas de violencia de género que estén
vinculadas al agresor por otro tipo de relaciones. Por otro lado la Directiva también hace referencia a la “violencia en las
relaciones personales”, por lo que creemos que puede ser deficiente en este sentido el Estatuto de la Víctima que sólo especifica
la violencia doméstica, olvidando otro tipo de fenómenos de criminalidad en las relaciones personales preocupantes que
ocurren fuera del ámbito doméstico, como por ejemplo, entre otros, el acoso laboral, la violencia sobre los ancianos, y el acoso
escolar. En cuanto a este elenco, observamos por otro lado, que está en consonancia con la transposición que también efectúa el
Estatuto de la Víctima de la Directiva 2011/92/UE y de la Directiva 2011/36/UE.
12
La referencia expresa a los delitos violentos constituye una innovación del Estatuto de la Víctima, ya que la Directiva en el
art. 22.3 sólo considera las circunstancias del delito.
13
El Estatuto de la Víctima a diferencia de la Directiva, no establece de forma general que estas medidas no se ofrecerán si
existieran limitaciones operativas o prácticas que lo impidieran o si hay que tomar declaración de forma urgente a la víctima,
para evitar que ésta u otra persona pueda lesionarse o perjudicarse el curso del proceso (art. 23.1 de la Directiva). Sólo se tiene
en cuenta el posible perjuicio en el desarrollo del proceso, como veremos. Estimamos que ello constituye una mejora del
Estatuto respecto a la Directiva, dado que como observa M. De Hoyos Sancho, op. cit., p. 22, esta salvedad que establece la
Directiva puede “vaciar de facto” el contenido de los derechos de protección especial de las víctimas, y lo más lógico es que los
Estados pongan los medios necesarios para que dichas limitaciones operativas o prácticas no se produzcan.
14
Así se extrae del tenor del art. 22 de la Directiva, en relación con el art. 23 del Estatuto, a pesar de la poca claridad de éste
que a diferencia de la Directiva, no habla de “medidas especiales” de forma expresa.
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a la Directiva como víctimas con necesidades especiales, en estas disposiciones se las está reconociendo
igualmente en el mismo sentido, aunque de forma quizá más tácita. En concreto se establece que la
Fiscalía velará especialmente por el derecho de protección de las víctimas menores de edad, adoptándose
las medidas adecuadas conforme a su interés superior 15, si resulta necesario para protegerlas frente a los
perjuicios del proceso (art. 19.2). Además las autoridades deberán proteger su intimidad impidiendo la
difusión de cualquier información que pueda facilitar la identificación de estas víctimas (art. 22).
La condición de menor de edad de la víctima se tendrá especialmente en la evaluación individual y
durante todo el proceso, y en concreto su situación personal, necesidades inmediatas, edad, género,
discapacidad y madurez, respetándose plenamente su integridad física, mental y moral (art. 22.3). Las
víctimas menores de edad que más claramente se consideran de forma objetiva con necesidades
especiales de protección en el Estatuto de la Víctima, son las de delitos contra la libertad e indemnidad
sexual, ya que en todo caso serán beneficiarias de medidas específicas para su declaración en la fase de
investigación (art. 23.4). En concreto declararán en dependencias especiales o adaptadas, se les tomará
declaración por profesionales con formación especializada y siempre les tomará declaración la misma
persona, salvo que esto último pueda alterar el desarrollo del procedimiento o deba tomarle declaración el Juez o el Fiscal, por lo que el Estatuto supera los mínimos de la Directiva al establecer la aplicación obligatoria de estas medidas 16. Y ello al margen de otras medidas adicionales que se adopten
tras la evaluación individual que siempre se va a efectuar.
Las medidas de protección específicas para las víctimas menores de edad, también se aplicarán a las
víctimas discapacitadas necesitadas de especial protección 17. Consisten en la grabación de las declaraciones efectuadas durante la instrucción y su reproducción en el juicio oral conforme a la LECRIM y
que se les pueda tomar declaración a través de expertos 18. Además el Fiscal solicitará el nombramiento
de un defensor judicial del menor de edad o de la persona con capacidad judicialmente modificada
para que la represente durante todo el proceso, si considera que sus representantes legales tienen un
conflicto de intereses con estas víctimas, si el conflicto existe con un progenitor y el otro no está en
condiciones de representar o asistir a la víctima, y finalmente si la víctima no está acompañada o está
separada respecto a sus padres o tutores. En caso de duda sobre la edad de la víctima, siempre se
considerará que se trata de un menor de edad 19. Para la protección de los menores de edad o personas
15
En la Directiva (considerando 14), se establece que en su aplicación es primordial el interés superior del menor, conforme
con la Carta de Derechos Fundamentales de la Unión Europea y la Convención de Naciones Unidas sobre los Derechos del Niño
de 20 de noviembre de 1989. Vemos aquí la vigencia de este criterio enfocado al menor víctima del delito. El interés superior del
menor ya fue introducido en el ordenamiento español por la LORPM desde la perspectiva del menor infractor, siendo
relevantes para su valoración las ciencias no jurídicas y las directrices establecidas en instrumentos internacionales. En gran
medida estamos ante un concepto jurídico indeterminado cuyo alcance deberá determinarse en cada caso concreto teniendo en
cuenta estos elementos, pudiendo ser de utilidad la experiencia previa de su aplicación en el proceso penal de los menores y la
doctrina jurisprudencial que se ha generado sobre el mismo.
16
Estas medidas son las previstas en el art. 23.2 a), b) y c) de la Directiva, donde no se establece nada respecto a que siempre
se tengan que aplicar a estas víctimas menores de edad.
17
Ello constituye una diferencia del art. 26 del Estatuto de la Víctima respecto a la Directiva, dado que ésta en su art. 24 sólo
hace referencia a los menores de edad. Por tanto se equipara los discapacitados a las víctimas menores de edad. Pero el Estatuto
trata a las víctimas discapacitadas de forma confusa, dado que en el art. 22, 23.2,1º, 24.3 y 26.1, entre otros, habla de víctimas
discapacitadas, y sin embargo cuando determina las medidas específicas que según el art. 26.2 se aplicarán a estas víctimas, del
mismo modo que a los menores, habla de “víctimas con capacidad judicialmente modificada”. Además la LEVD, reforma el art.
544 ter, 7 LECRIM (precepto que regula la orden de protección de las víctimas de violencia doméstica), y entre otras
modificaciones, fundamentalmente sustituye el término “incapaces”, por “personas con la capacidad judicialmente modificada”. La nomenclatura utilizada requiere efectuar una interpretación al respecto, dado que un discapacitado sería aquella persona a la que administrativamente se le reconoce un grado concreto de minusvalía, mientras que las que tienen su capacidad
judicialmente modificada, son aquellas que judicialmente tienen limitada o reducida su capacidad de obrar como consecuencia
de un proceso de incapacitación estando sometidas a la tutela de una persona física o jurídica, si bien quedarían excluidos los
pródigos, dado que el Estatuto sólo hace referencia a los tutores y no a los curadores, lo cual puede ser consecuencia de un
olvido del legislador. Nosotros observamos que debemos efectuar una interpretación extensiva, que permitiría que aquellos
discapacitados físicos o psíquicos que no tuvieran judicialmente complementada deberían ser tratados como víctimas con
especial vulnerabilidad, si bien las medidas específicas del art. 26.2 sólo serán de aplicación a las personas cuya capacidad está
judicialmente modificada.
18
Esta posibilidad tampoco la establece la Directiva, si bien estimamos que constituye una necesidad absoluta, dada las
características concretas que tienen estas víctimas como fuente de prueba.
19
Si bien estas medidas de protección específicas en principio respetan e incluso superan los mínimos establecidos por el art.
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con capacidad judicialmente complementada, se introduce además por la LEVD una serie de medidas
de carácter civil (nuevo art. 544 quinquies LECRIM), para los casos en los que se investigue un delito del
art. 57 CP 20. Estas medidas completan la protección de estas víctimas respecto a sus padres, tutores,
guardadores o acogedores. Permiten la suspensión de la patria potestad, tutela, curatela, guarda,
acogimiento, el establecimiento de un régimen de visitas, modificarlo o suspenderlo, supervisar la patria
potestad, tutela u otra función tutelar o de protección. Por otro lado, con independencia de que estemos
ante los delitos del art. 57 CP, se comunicará la existencia de una situación de riesgo o desamparo del
menor, a la entidad pública competente y al Fiscal. Cuando termine el procedimiento, teniendo en cuenta
exclusivamente el interés de la persona afectada, se ratificarán o alzarán estas medidas. Volveremos sobre
todas las medidas para la protección de estas víctimas y las desarrollaremos, teniendo en cuenta la
reforma que la LEVD lleva a cabo en la LECRIM, en los apartados siguientes.
La evaluación de las necesidades de la víctima y la determinación las medidas de protección que se
aplicarán, se puede realizar tanto durante la fase de investigación como en la de enjuiciamiento,
regulándose la competencia y procedimiento en el art. 24 del Estatuto de la Víctima. Si bien consideramos que el momento lógico es el comienzo de las actuaciones 21, y por tanto incluso en las primeras
diligencias policiales que se practiquen, esta previsión permite modificar una evaluación inicialmente
efectuada durante el procedimiento, dado que siempre las medidas se adoptarán rebus sic stantibus 22.
Además la evaluación individual se puede llevar a cabo durante la fase plenaria, si bien estimamos que
ello dependería fundamentalmente de que se modificaran las características subjetivas de la víctima,
sobre todo dado que los factores objetivos que se tienen en cuenta en la evaluación se determinan en la
fase instructora. Durante la fase de investigación las autoridades competentes son el Juez de Instrucción
o el de Violencia sobre la Mujer, aunque de forma provisional también podrán efectuar la evaluación la
policía en la fase inicial de las investigaciones, y el Fiscal 23 en sus diligencias de investigación y en los
procesos de responsabilidad penal de los menores 24. Durante la fase de enjuiciamiento, la evaluación la
llevará a cabo el Juez o Tribunal que conozca de la causa.
La evaluación, que se efectúa a través de resolución motivada 25, tendrá en cuenta las necesidades
manifestadas por la víctima y la voluntad que exprese, pudiendo renunciar 26 a las medidas de pro-
24 de la Directiva, se echa en falta en el Estatuto la referencia expresa que se realiza en este precepto al derecho a la asistencia
letrada del menor en su propio nombre.
20
Se trata de los delitos de homicidio, aborto, lesiones, contra la libertad, de torturas y contra la integridad moral, trata de
seres humanos, contra la libertad e indemnidad sexuales, la intimidad, el derecho a la propia imagen y la inviolabilidad del
domicilio, el honor, el patrimonio y el orden socioeconómico.
21
S. Oromí I Vall-Llovera, Víctimas de delitos en la Unión Europea. Análisis de la Directiva 2012/29/UE, Revista General de Derecho
Procesal, 2013, p. 24. Lo razonable es que la evaluación se efectúe al inicio del proceso penal, de lo contrario podría perder su
eficacia y objetivo. La Directiva no establece quién o en qué momento del proceso debe efectuar la evaluación, ni tampoco el
procedimiento, todo lo cual tendrán que determinar las legislaciones nacionales. Como estamos viendo, el Estatuto concreta
estos importantes extremos.
22
Cualquier modificación relevante de las circunstancias de la evaluación individual, requerirá que las medidas adoptadas
se actualicen e incluso modifiquen (art. 24.5 del Estatuto de la Víctima).
23
La Disposición final primera de la LEVD modifica el art. 282.2 LECRIM, para que la policía efectúe una valoración de las
circunstancias particulares de las víctimas, para determinar de forma provisional las medidas de protección necesarias para
garantizarles una adecuada protección, sin perjuicio de la decisión final que tendrá que adoptar la autoridad judicial. Además
cumplirá con los deberes de información a las víctimas. También modifica el art. 773.2 LECRIM, que establece que el Fiscal en
cuanto tenga noticia de un hecho aparentemente delictivo, llevará a cabo una evaluación y resolución provisionales de las
necesidades de la víctima, además de informarle de los derechos que se les reconoce en la Ley.
24
En estos procesos instruye el Fiscal al haberse adoptado el modelo adversativo en la LO 5/2000, reguladora de la
responsabilidad penal de los menores (LORPM), el cual coexiste con el sistema acusatorio formal o mixto del proceso penal de
los adultos. Consideramos que en este proceso la resolución del Fiscal no tendría por qué ser de carácter provisional como
parece que establece el art. 24.1, dado que es la autoridad competente para la instrucción de la causa, y no existe referencia
alguna al Juez de Menores, que actúa en este proceso durante la fase de investigación, con funciones análogas a las de Juez de
garantías constitucionales.
25
No se establece nada respecto a los recursos que cabrían contra dicha resolución. Estimamos que en todo caso, serían de
aplicación los previstos en la legislación procesal penal, LECRIM y LORPM.
26
M. De Hoyos Sancho, op. cit., pp. 24-25 y 32. La víctima no puede ser tratada como si no tuviera criterio para decidir sobre
lo que en forma de medidas de protección o apoyo, pueda afectarle directa y significativamente. De forma general no se puedan
acordar medidas de protección o asistencia en contra de la voluntad de la víctima que está en pleno ejercicio de sus derechos
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tección acordadas de los arts. 25 y 26 del Estatuto de la Víctima 27. De forma concreta se establece que en
los supuestos de víctimas menores o discapacitadas necesitadas de especial protección, se tendrán en
cuenta sus opiniones e intereses 28. Finalmente se establece que los servicios de asistencia a las víctimas
sólo podrán facilitar a terceros la información que recibieran de la víctima, con su consentimiento
previo e informado 29. En otros casos sólo se podrá dar esta información con carácter reservado a la
autoridad que adopte la medida de protección.
A continuación vamos a tratar los derechos y medidas de protección que se reconocen en el Estatuto
de la Víctima. Si bien ya hemos hecho referencia a las medidas de protección específicas para los
menores y personas discapacitadas con necesidades especiales de protección, las desarrollaremos en
función de su relevancia durante las fases de investigación y de enjuiciamiento.
LA PROTECCIÓN DURANTE LA INVESTIGACIÓN PENAL
Vamos a tratar los derechos y medidas de protección específicos para esta fase, y aquellos que tienen un
especial protagonismo durante la misma, sin perjuicio de que también tengan vigencia o relevancia
ulteriormente en la fase de enjuiciamiento, dado que no se limitan sus efectos a la fase de investigación.
Además diferenciaremos entre los derechos y medidas regulados con carácter general y las medidas
previstas para las víctimas con necesidades especiales de protección.
El derecho a la protección de las víctimas y sus familiares se reconoce en el art. 19 del Estatuto de la
Víctima. El contenido de este precepto en gran medida constituye el prefacio de la protección a las
víctimas que se desarrolla en el Título III (arts. 19 a 26), por lo que tiene relevancia tanto en el inicio de
las actuaciones como en el resto del procedimiento. Conforme a lo establecido en la LECRIM 30, las
autoridades y funcionarios encargados de la investigación y enjuiciamiento, adoptarán las medidas
civiles. No obstante, como resolvió el Tribunal de Luxemburgo en la Sentencia de 15 de septiembre de 2011 respecto a la
Decisión Marco de 2001, se puede adoptar una medida de alejamiento preceptiva en los casos de violencia doméstica aunque la
víctima se oponga, ya que no sólo se están protegiendo los intereses de la víctima, sino también otros más generales de la
sociedad. Estimamos que ello debe tenerse en cuenta por tanto, en cuanto a la posible disponibilidad de la medida de protección
que se adopte, ya que no todas tienen la misma envergadura y siempre debe prevalecer el orden público.
27
Observamos que sólo se hace referencia a estas medidas de protección, pero nada impediría la renuncia a medidas de
protección diferentes y reguladas en otros preceptos. Esta posibilidad de renuncia respecto a las medidas de protección de las
víctimas con necesidades especiales, aunque respeta lo previsto en el art. 22.6 de la Directiva, estimamos que debe tener en
cuenta el grado de victimización de la persona beneficiaria de la medida. Es decir, dada la gravedad de los delitos respecto a los
que se pueden acordar las medidas de dichos preceptos, el grado de dependencia respecto al infractor, sus características
personales y los daños que ha sufrido, entre otros factores, puede ser que no esté en condiciones de ser plenamente consciente
de las consecuencias de renunciar a estas medidas de protección específicas. Por ello será necesario que la víctima confíe en que
está verdaderamente protegida y que tenga el adecuado asesoramiento y protección conforme a su grado de victimización, para
conocer el alcance de las medidas y de las consecuencias de la renuncia a las mismas. Por otro lado observamos que en el caso
de las medidas del art. 26, específicas para los menores, discapacitados y personas con la capacidad judicialmente modificada,
tanto la voluntad que expresen como la posible renuncia, deberá realizarse con la intervención de su representante legal o
defensor judicial designado, y que debería recabarse la opinión del Fiscal a modo de control e incluso la autorización judicial,
para que se pudiera admitir la renuncia, dadas las características de estas víctimas con especial vulnerabilidad.
28
Al margen de que creemos que esta previsión del art. 24.3 del Estatuto de la Víctima podría ser redundante dado que en el
24.2 ya se trata esta cuestión aunque en términos diferentes, extrapolamos aquí lo que acabamos de exponer sobre la
intervención adicional de los representantes, defensores judiciales de estas víctimas y del Fiscal, el cual tiene atribuciones
específicas para velar por la protección de las víctimas y los menores, incapaces y personas desvalidas. Además de ello,
consideramos que es necesario que los menores y discapacitados necesitados de especial protección, sean oídos con la
intervención de profesionales con una formación específica y adecuada.
29
Estimamos que esta posibilidad del art. 24.4 del Estatuto de la Víctima que no está prevista en la Directiva, en todo caso
deberá tener en cuenta el derecho a la protección de la intimidad, y las necesarias reservas si las víctimas son menores o
discapacitadas necesitadas de especial protección (art. 22 del Estatuto y 21 de la Directiva). La posibilidad de facilitar a terceros
información, consideramos que en todo caso deberá tener en cuenta que la protección de la identidad de estas concretas
víctimas es indisponible, por lo que esta última previsión podría tener una redacción defectuosa al haberse efectuado con
carácter general. Y ello al margen de reproducir las observaciones anteriores que estamos efectuando sobre la participación de
los representantes, defensor judicial y control del Fiscal, en cuanto a la manifestación del consentimiento informado de menores
y discapacitados con necesidades especiales.
30
Estimamos que ello debe entenderse sin perjuicio de otras Leyes procesales penales especiales que sean de aplicación,
como la LORPM, LO 19/1994, de protección a testigos y peritos en causas criminales (LOPTP) y la LOIVG.
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necesarias para garantizar la vida, integridad física y psíquica, libertad, seguridad, libertad e indemnidad sexuales. Para ello destacamos que son relevantes la medida de alejamiento, la orden de protección
para las víctimas de violencia doméstica y la orden de protección para las víctimas de violencia de
género 31. También se adoptarán las medidas necesarias para proteger de forma adecuada su intimidad
y dignidad, sobre todo cuando se les tome declaración en la instrucción o sean testigos en la fase de
enjuiciamiento, y para evitar los riesgos de victimización secundaria o reiterada. Su tenor difiere del
correlativo art. 18 de la Directiva, ya que el Estatuto diferencia entre las medidas para “garantizar” y
para “proteger”, por lo que dada la nomenclatura utilizada, refuerza y otorga un valor adicional a los
derechos y bienes jurídicos que garantiza. Otra diferencia en relación a dicho precepto de la Directiva es
que hace referencia expresa al derecho de protección de las víctimas menores de edad, encomendando
a la Fiscalía velar por su cumplimiento adoptando las medidas adecuadas conforme a su interés
superior, para impedir o reducir los perjuicios que se pudieran derivar del desarrollo del proceso.
Igualmente existen otras novedades del Estatuto de la Víctima que fortalecen la protección a la
víctima, pero forman parte del reconocimiento de otros derechos diferentes. De este modo sucede con
el derecho a la información de la víctima reconocido en el art. 7 del Estatuto, respecto a las resoluciones
que acuerden la puesta en libertad o fuga del infractor, las resoluciones sobre medidas cautelares
personales que modifiquen las ya acordadas si tuvieran como finalidad garantizar la seguridad de las
víctimas, y las resoluciones de las autoridades judiciales o penitenciarias que afecten a condenados por
delitos cometidos con violencia o intimidación y que supongan un riesgo para la seguridad de la
víctima. Lo mismo sucede con el derecho a la participación de la víctima en la ejecución del art. 13, que
permite que las víctimas recurran las resoluciones del Juez de Vigilancia Penitenciaria por las que se
clasifica al penado en tercer grado, se acuerden beneficios penitenciarios, permisos de salida, y se
conceda la libertad condicional. Si bien el análisis de los derechos de información y participación
excede de este estudio, señalamos estas otras posibilidades en la medida en que son útiles para
preservar la seguridad y protección de las víctimas, sobre todo de determinado tipo de delitos como los
de carácter violento o los que provoquen a las víctimas situaciones de especial vulnerabilidad.
Otro derecho es el derecho a que se evite el contacto entre la víctima y el infractor, el cual tiene
relevancia desde el inicio de las actuaciones y durante el resto del procedimiento (art. 20 del Estatuto de
la Víctima). Consiste en que las dependencias donde se desarrollen los actos del procedimiento penal,
tengan la disposición adecuada para evitar el contacto entre la víctima y sus familiares y el presunto
infractor, conforme a lo establecido en la LECRIM. Este derecho tiene además una importancia
específica para determinadas víctimas cuyo contacto directo con el agresor puede implicar un auténtico
riesgo para su integridad física, como sucede con las víctimas de la criminalidad organizada, terrorismo, delitos sexuales, violencia doméstica y de género, entre otras, las cuales se tienen especialmente
en cuenta en la evaluación individual, por lo que está estrechamente relacionado con la medida del art.
25.1 a) del Estatuto 32.
31
La medida cautelar de alejamiento del art. 544 bis LECRIM, consiste en prohibir residir o acudir a un determinado lugar, o
en aproximarse o comunicarse con determinadas personas, para proteger a la víctima si se investiga un delito del art. 57 CP.
También existe la medida cautelar de alejamiento específica en el proceso penal de los menores (art. 28.1,2 LORPM). La orden
de protección para proteger a las víctimas de violencia doméstica (art. 544 ter LECRIM, cuyo párrafo 7 ha sido modificado por la
LEVD, como hemos visto), no constituye en sí una medida cautelar, sino que abarca un extenso conjunto de medidas cautelares
tanto civiles como penales y medidas de protección y asistenciales de diversa naturaleza, constituyendo una protección de
carácter integral. Se adopta para proteger a las personas del art. 173.2 CP y conlleva el alejamiento en supuestos no contemplados en la medida del art. 544 bis. La orden de protección en materia de violencia de género, se adopta para proteger a la
mujer contra la violencia ejercida por el hombre, siempre que sea o haya sido su cónyuge, o esté o haya estado ligado a la mujer
por relaciones similares de afectividad, con o sin convivencia (art. 1 LOIVG), al igual que para proteger a sus descendientes,
menores, incapaces, entre otras personas dependientes de la esposa o conviviente, los cuales son consideradas como víctimas
indirectas (arts. 44.1, a) y 58 LOIVG). Esta orden de protección tiene características similares a la anterior, siendo del mismo
modo de carácter integral, incluyendo la protección que reconoce el art. 544 ter LECRIM, además de otras medidas adicionales,
cautelares civiles y penales, asistenciales, laborales, y económicas, entre otras, establecidas en la LOIVG. Como hemos visto
todas estas víctimas son especialmente consideradas en la evaluación individual, para determinar sus necesidades especiales de
protección. Destacamos estos instrumentos por su importancia y transversalidad, para la protección de estas víctimas en toda su
extensión.
32
J.L. Gómez Colomer, Estatuto jurídico de la víctima del delito. La posición jurídica de la víctima del delito ante la Justicia Penal. Un
análisis basado en el Derecho Comparado y en las grandes reformas españolas que se avecinan, Cizur Menor, 2014, pp. 359-360, que
destaca la importancia de este derecho para proteger a estas víctimas.
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El derecho a evitar el contacto abarcaría las dependencias judiciales y las policiales, y tanto las
actualmente existentes como las de nueva creación, dado que en el Estatuto no se establece
diferenciación al respecto, por lo que parece que reconoce este derecho de forma más extensa. A
diferencia de la Directiva el Estatuto omite la referencia a la creación de salas de espera en las
dependencias judiciales nuevas, pero sólo habla de la disposición de las dependencias y omite
cualquier alusión a las salas de espera separadas para las víctimas. Se ha objetado que la Directiva si
bien obliga a los Estados a crear salas de espera en los órganos jurisdiccionales, sólo lo establece para
las dependencias judiciales de nueva creación, no obliga a la creación de estas salas en las ya existentes
ni en otros lugares en los que hay que respetar este derecho, tales como las dependencias policiales y
los servicios y organizaciones de apoyo a las víctimas, en los que también sería recomendable 33. A
pesar de ello estimamos que la regulación española es vaga e inconcreta, no sólo por la omisión de la
referencia a las salas de espera, sino porque no establece nada respecto a la creación de las mismas ni
sobre cómo proceder donde no existan, por lo que el reconocimiento de este derecho puede quedar
vacío en la práctica, especialmente en el contexto actual de restricciones económicas que se refleja en el
propio Estatuto, como se pone de manifiesto en su Disposición adicional segunda.
Otro derecho reconocido durante todo el proceso y que es relevante desde esta fase, es el derecho a
la protección de la intimidad contemplado en el art. 22 del Estatuto de la Víctima, con un contenido
más exiguo que el correlativo art. 21 de la Directiva. Aunque a diferencia de ésta equipara las víctimas
discapacitadas con necesidades especiales de protección a los menores de edad, no hace mención
alguna a las medidas de autorregulación de los medios de comunicación 34 para respetar la intimidad,
integridad personal y datos de las víctimas. Las medidas serán adoptadas por los Jueces, Tribunales,
Fiscales y las autoridades y funcionarios encargados de las investigaciones, y por todos los que de
algún modo intervengan en el proceso. No se establece un conjunto de medidas específicas, remitiéndose a todas las necesarias para proteger la intimidad de todas las víctimas y sus familiares, y sobre
todo para impedir la difusión de toda información que permita identificar a las víctimas menores de
edad o discapacitadas necesitadas de especial protección, conforme a lo establecido en la Ley. Es decir,
se podrán adoptar todas las previstas en el ordenamiento, por lo que además de la LECRIM 35 y el
propio Estatuto adquieren relevancia otras legislaciones especiales, como la LOPTP y la LOIVG, entre
otras. Volveremos sobre estos derechos cuando tratemos la protección durante el enjuiciamiento.
Para la protección de la víctima durante las investigaciones penales, se establecen en una serie de
medidas de carácter general (art. 21 del Estatuto de la Víctima), que se podrán adoptar para todas las
víctimas con independencia de que tras la evaluación individual se determinen necesidades especiales de
protección. Estas medidas se preocupan por la toma de declaración de las víctimas, la práctica de las
diligencias de investigación y los reconocimientos médicos que se les practiquen. Las autoridades y funcionarios encargados de la investigación penal tendrán que velar por su aplicación, siempre que no perjudiquen la eficacia del proceso, lo cual como veremos genera indeterminación en su aplicación real y efectiva.
La toma de declaración se practicará sin dilaciones injustificadas, si bien no se establece que ello
tendrá lugar una vez que se haya presentado la denuncia de la infracción penal, como hace la Directiva
(art. 20.1,a). Observamos que la omisión de la referencia a la denuncia puede constituir una mejora de
la regulación española que amplía esta previsión, al omitir cualquier referencia a la comunicación de la
33
Sobre la Directiva (art. 19), S. Oromí I Vall-Llovera, op. cit., pp. 20-21. Sólo Alemania ha incorporado la exigencia de que
existan espacios reservados. En España e Italia sólo se aplica parcialmente, dado que sólo se prevé cuando la víctima actúa como
testigo. Además en España este derecho se reconoce de forma expresa en la Carta de derechos de los ciudadanos ante la Justicia,
y en la audiencia para la adopción de la orden de protección para las víctimas de violencia doméstica. En otros Estados se
garantiza la existencia de los espacios separados, pero no los prevé ninguna normativa.
34
En la reforma del art. 682 LECRIM que lleva a cabo la LEVD, se contempla la restricción de la presencia de los medios de
comunicación en el juicio. Pero estimamos que ello es insuficiente, dado que con frecuencia se divulgan numerosos e
importantes datos durante la fase de investigación por los medios de comunicación, lo cual provoca con frecuencia “juicios
paralelos” en la sociedad desde que comienzan las investigaciones, además de los perjuicios que puede tener en el propio curso
de las investigaciones y sobre todo en la intimidad de las víctimas. Por ello es criticable que el Estatuto de la Víctima no haga
referencia alguna a la autorregulación de los medios de comunicación, como hace el art. 21.2 de la Directiva. Para preservar las
diligencias del sumario, el art. 301 LECRIM, también modificado por la LEVD, establece la reserva de las actuaciones del
sumario, con las excepciones que establezca la Ley, y un sistema de sanciones a quienes desvelaren el contenido del sumario, lo
cual puede ser útil para paliar el importante problema de que se divulgue información de forma continua durante esta fase.
35
La LEVD ha reformado los arts. 301 bis, 681 y 682 y 707 LECRIM, relevantes respecto a la protección de la intimidad.
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notitia criminis a través del cauce de la denuncia, que podría ser una condición. Por tanto igualmente la
víctima declarará de forma inmediata cuando se iniciaran las investigaciones penales de oficio, sin que
se excluya en modo alguno la inmediatez cuando la víctima presentara denuncia o querella.
También se limita el número de las tomas de declaración de las víctimas, que sólo se practicarán
cuando resulten necesarias para los fines de la investigación y en el menor número de ocasiones
posible. Pero se carece de una determinación específica o cuantitativa de dichos límites. Para evitar la
victimización secundaria la reducción de las declaraciones ostenta un papel fundamental, habiéndose
propuesto incluso que la primera declaración de la víctima pueda servir para fundamentar la
acusación, e incluso que no vuelva a declarar en el juicio oral, utilizándose los testimonios previamente
grabados, siempre que se preserven las garantías de la actividad probatoria y por tanto, la necesaria
contradicción y el derecho de defensa 36, constituyéndose por tanto una prueba anticipada. Pero estas
posibilidades no han sido establecidas por el legislador español para todas las víctimas, por lo que la
limitación del número de declaraciones se reduce a un principio general que tendrá que ser respetado
para la averiguación de la verdad material, y en cuanto a la posibilidad de anticipar la prueba testifical,
habrá que aplicar las reglas generales en la materia. Tan sólo se introduce de forma expresa la
grabación de la declaración durante la investigación y su reproducción en el juicio conforme a la
LECRIM, como medida de protección específica para menores y discapacitados necesitados de especial
protección, como hemos visto.
Otra medida consiste en que las víctimas puedan estar acompañadas por una persona de su elección
mientras que se practiquen las diligencias de investigación en las que deban intervenir, a menos que
para preservar su correcto desarrollo se resuelva lo contrario motivadamente por el funcionario o
autoridad que se encargue de la práctica de las mismas 37. Además los reconocimientos médicos de las
víctimas se reducirán al mínimo, y sólo se llevarán a cabo cuando resulten imprescindibles para los
fines del proceso penal.
Estas medidas están sometidas a la eficacia del proceso, la cual prevalece, por lo que de alguna
manera estamos ante un concepto jurídico indeterminado, e incluso ante una declaración de principios
que en modo alguno impide que la declaración no sea inmediata, que se reiteren las declaraciones de la
víctima, que no estén acompañada en las diligencias o que se reduzcan realmente los reconocimientos
médicos. Además ello tendrá que ser valorado por las autoridades y funcionarios, constituyendo una
carencia del Estatuto el que no establezca de un sistema de límites más específico que constituya un
verdadero reconocimiento de derechos subjetivos de la víctima, que nos permita afirmar que realmente
existen cambios significativos en la materia. Sólo parece existir mayor seguridad jurídica en el derecho
de las víctimas a estar acompañadas, dado que para restringirlo es necesario que el funcionario o la
autoridad encargada resuelvan lo contrario de forma motivada 38. Hubiera sido deseable una regulación
más completa y precisa en esta materia, que no se limite a reproducir el contenido de la Directiva y que
supure la declaración de principios que parece constituir, y de este modo concretar el contenido de
estos derechos, lo cual contribuye a preservar la necesaria seguridad jurídica. A ello se suma la
antigüedad de la LECRIM, cuya regulación sería insuficiente para garantizar adecuadamente la protección de la víctima en cuanto al establecimiento de límites más concretos.
Ya de forma previa a la promulgación del Estatuto de la Víctima, nos percatamos de una falta de
reconocimiento específico o autónomo de las víctimas en el Derecho probatorio, de una escasez de
disposiciones sobre la protección y reconocimiento de la víctima en la LECRIM. Estas carencias han
provocado que con frecuencia la víctima no colabore cuando se incoa el proceso penal, tanto si presenta la
denuncia como si se inicia previo atestado policial o denuncia de terceros, al ser consciente de la situación
de victimización secundaria a la que se somete. Sin perjuicio de volver sobre esta cuestión cuando tratemos
la protección de la víctima como testigo en el juicio oral, hay que señalar que ello además provoca un
elevado número de suspensiones de juicios como consecuencia de la incomparecencia de la víctima 39.
36
S. Oromí I Vall-Llovera, op.cit., p. 23, que considera la jurisprudencia del Tribunal Supremo en la materia, en la que
además se establece el requisito de que resulte imposible la reproducción en el juicio oral del testimonio.
37
La LEVD reforma el art. 433.3 LECRIM para reconocer este derecho, si bien sólo se contempla la posibilidad de que se
restrinja si el Juez Instructor resuelve lo contrario, omitiéndose la referencia a otras autoridades.
38
Aunque no se establece un sistema de recursos contra estas resoluciones, estimamos que se podrían interponer los que
estén previstos por la legislación procesal con carácter general, en virtud de las resoluciones específicas que se dicten.
39
Sobre las mencionadas carencias, V. Magro Servet, El nuevo estatuto de la víctima en el proceso penal, La Ley, 2010, p. 3. Para
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Queda por ver si las premisas de la inmediatez y reducción del número de declaraciones, cuya
indeterminación de límites específicos ya ha sido destacada, son suficientes para paliar estos
inconvenientes.
Como medidas específicas para las víctimas con necesidades especiales de protección durante la fase
de investigación, el art. 25.1 del Estatuto de la Víctima reconoce una serie de medidas que podrán
adoptarse en esta fase. En ellas se vuelve a poner de manifiesto la preocupación del Estatuto de la
Víctima en consonancia con la Directiva, por la toma de declaración de las víctimas durante la
investigación. Se trata de que se les tome declaración en dependencias especialmente concebidas para
este fin, que se les reciba declaración por profesionales con formación especial o con su ayuda, que
siempre les tome declaración la misma persona, salvo que ello pudiera perjudicar de forma relevante el
desarrollo del proceso o deba declarar ante el Juez o el Fiscal. Además en concreto para las víctimas de
violencia doméstica, de género, de delitos contra la libertad e indemnidad sexual, y víctimas de trata
con fines de explotación de sexual, las cuales se consideran especialmente en la evaluación individual,
se establece que les podrá tomar declaración una persona del mismo sexo si así lo solicitaran, salvo que
ello pueda perjudicar de manera relevante el desarrollo del proceso o deba tomarles declaración
directamente el Juez o el Fiscal.
En estas medidas específicas se echa en falta igualmente una mayor determinación legislativa de
cuándo, cómo se adoptarán, o qué requisitos sería necesario verificar, o en definitiva, cuáles son sus
límites y cómo se determinan los mencionados perjuicios relevantes en el desarrollo del proceso, lo cual
dificulta que las víctimas pudieran exigirlas. Por tanto trasladamos aquí nuevamente las objeciones que
acabamos de efectuar cuando tratamos las medidas generales, sobre la falta de concreción de los
límites, la cual también existe en estas medidas específicas. El Estatuto de la Víctima debería haber
concretado todos estos extremos, sin que se limite a reproducir el contenido de la Directiva o a enunciar
estas medidas sin la necesaria precisión. Además es menos taxativo que la Directiva, dado que ésta
establece que las víctimas “tendrán a su disposición” estas medidas, y el Estatuto se limita a decir que
“podrán” ser adoptadas. No creemos que la indeterminación en la adopción de estas medidas de la que
estamos hablando, y en definitiva su tímido reconocimiento, constituya sin más una mera consecuencia
de una deficiente técnica legislativa del Estatuto de la Víctima, sino que más bien puede ser el resultado
del coste económico que podrían tener medidas como la creación de dependencias específicas 40, la
formación de profesionales, que siempre sea la misma persona quien les tome declaración, o que ésta se
efectúe por personas del mismo sexo. De hecho el tenor de la Disposición adicional segunda LEVD
expresamente establece que las medidas que incluye esta Ley, en modo alguno podrá suponer un
incremento de dotaciones de personal, de retribuciones ni otros gastos de personal, y como es obvio la
adopción de estas medidas requieren inversiones económicas, dadas las carencias y restricciones que
actualmente existen.
Otras medidas específicas que se pueden adoptar en la fase de investigación, son las previstas para
los menores y discapacitados con necesidades especiales de protección, las cuales ya han sido
expuestas. Recordemos que se trata de la grabación de las declaraciones efectuadas en la investigación
y su reproducción en el juicio oral, la toma de declaración a través de expertos y la designación de un
defensor judicial de la víctima, medida que también se podrá adoptar en la fase de enjuiciamiento.
Además existen medidas de protección previstas para la fase de enjuiciamiento, que son específicas
para las víctimas con necesidades especiales de protección, y que también podrán acordarse durante la
fase de investigación (art. 25.2 a y c del Estatuto de la Víctima). Son las consistentes en evitar el contacto
visual entre la víctima y el supuesto autor de los hechos, y las que evitan que se formulen preguntas
relativas a la vida privada que sean irrelevantes para los hechos, salvo que el órgano jurisdiccional
considere que se deben responder para valorar los hechos o dar credibilidad a la declaración de la
víctima.
Finalmente se podrán acordar en esta fase las medidas de protección del art. 2 de la LOPTP.
Trataremos estas medidas en el siguiente apartado, del mismo modo que las previstas para el enjuiciamiento que acabamos de mencionar.
que las víctimas comparezcan a declarar en la instrucción o en el juicio oral, es necesario que existan garantías de protección
absoluta y que las medidas asistenciales sean verdaderamente efectivas.
40
Recordemos lo expuesto ut supra sobre las salas de espera separadas.
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LA PROTECCIÓN DURANTE LA FASE DE ENJUICIAMIENTO
En esta fase tienen igualmente vigencia y protagonismo los derechos a la protección, a evitar el contacto
entre víctima e infractor y el derecho a la protección a la intimidad, expuestos ut supra cuando hemos
tratado la protección en la investigación. Por otro lado determinadas medidas adoptadas durante la
anterior fase igualmente tienen repercusiones en ésta, como sucede por ejemplo con la grabación de las
declaraciones de los menores de edad y discapacitados con necesidades especiales de protección, su
reproducción en el juicio oral y la designación de defensores judiciales. Fundamentalmente vamos a
tratar la protección de las víctimas teniendo en cuenta todo ello, las medidas específicas para víctimas
con necesidades especiales de protección del art. 25.2 del Estatuto, y además la protección de las
víctimas que sean beneficiaras de las medidas de la LOPTP, entre otras legislaciones especiales.
Las medidas específicas que acabamos de referir consisten en evitar el contacto visual entre la
víctima y el presunto autor de los hechos, incluyendo la práctica de la prueba. Para ello se podrán
utilizar las tecnologías de la comunicación, del mismo modo que en la medida que garantiza que la
víctima pueda ser oída sin estar presente en la sala. También se reconocen medidas para evitar que se
formulen preguntas referentes a la vida privada de la víctima y que sean irrelevantes para los hechos,
salvo que el Juez o Tribunal de forma excepcional, estime que deben ser contestadas para valorar los
hechos o la credibilidad de la declaración de la víctima. Finalmente se contempla la celebración del
juicio a puerta cerrada, supuesto en el que el Juez o Tribunal de forma excepcional, podrá autorizar la
presencia de personas que acrediten un especial interés en la causa. Estas medidas fundamentalmente
se centran en la protección de la víctima como testigo.
Durante el proceso penal a la víctima se la puede someter a diversos y sucesivos interrogatorios o
formularle preguntas que pueden afectar a su intimidad, lo cual puede constituir un elemento
importante de victimización secundaria 41. La actuación de la víctima como testigo en el juicio oral
puede ser un momento de extrema dureza para ésta, al exponer públicamente facetas íntimas de su
vida privada, las estrategias defensivas de culpabilización de la víctima por el acusado, y sobre todo
por el temor a la confrontación con él 42. Ello puede incluso influir en el propio contenido de la
declaración de la víctima, e incluso puede implicar que decida no declarar, se retracte, y se sienta
intimidada, sobre todo si se trata de víctimas con necesidades especiales de protección, como por
ejemplo aquellas que tienen relaciones de dependencia con el infractor. Además en los menores de
edad su declaración como testigo puede afectar al propio desarrollo de su personalidad. Por ello antes
del Estatuto de la Víctima ya se había propuesto doctrinalmente que una única declaración pudiera
servir como prueba durante todo el proceso 43. Esta cuestión reviste una especial trascendencia especial
en procesos en los que existan serias dificultades probatorias y el testimonio de la víctima tenga una
gran relevancia como prueba de cargo para desvirtuar la presunción de inocencia 44. Recordemos lo
expuesto anteriormente sobre los déficits tradicionales de la LECRIM en esta materia, por lo que para el
respeto de estos derechos y las medidas específicas del Estatuto de la Víctima, se efectúa una correlativa
reforma de la LECRIM 45. Nos vamos a centrar fundamentalmente en la protección de la víctima como
testigo en la fase de enjuiciamiento conforme a las normas mínimas de la Directiva, y trataremos cuál es
el grado de cumplimiento de la Directiva en el Derecho español tras el Estatuto de la Víctima.
41
A. Sanz Hermida, La situación jurídica de la víctima en el proceso penal, Valencia, 2008, p. 32. Destaca el riesgo de atentar
contra la dignidad e intimidad de la víctima, además de las consecuencias negativas si la víctima decide no denunciar para
evitar los interrogatorios.
42
X. Ferreiro Baamonde, La víctima en el proceso penal, Madrid, 2005, pp. 336 y 337.
43
A. Sanz Hermida, op. cit., p. 70.
44
C. Navarro Villanueva, “La protección del testimonio de la mujer víctima de violencia de género”, en M. De Hoyos
Sancho (a cura di), Tutela jurisdiccional frente a la violencia de género. Aspectos procesales, civiles, penales y laborales, Valladolid, 2009,
pp. 480 a 485. Así sucede en los casos de violencia doméstica y de género. El órgano sentenciador ante la negación de los malos
tratos en el juicio oral, podrá considerar las declaraciones efectuadas durante la instrucción, pero tendrá que argumentarlo y
explicarlo en la sentencia y ponderar todas las circunstancias de cada caso en concreto. Propone como solución la aplicación de
las previsiones legales en materia de protección de testigos y de las medidas de protección de la LOIVG. Esta solución
jurisprudencial constituye una cuestión recurrente en la práctica, dadas las dificultades probatorias existentes.
45
La Disposición final primera de la LEVD reforma entre otros, los arts. 301 bis, 433, 488, 680, 681, 682, 707, 709 y 730, los cuales
fundamentalmente desarrollan las medidas de protección del art. 25.2 y 26 del Estatuto de la Víctima, a algunos de los cuales ya
hemos hecho referencia, y que serán tratados a continuación dada su relevancia para el estudio de la materia que nos ocupa.
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De forma general se permite que los testigos declaren con la utilización de los medios necesarios, a
través de videoconferencia u otro sistema similar (arts. 325 (fase de investigación), 731 bis LECRIM y
229.3 de la Ley Orgánica del Poder Judicial (LOPJ). Esta posibilidad se contempla de forma específica
en la declaración de los testigos menores de edad, discapacitados y víctimas con necesidades especiales
de protección, para evitar la confrontación visual con el presunto infractor, tras la modificación del art.
707 LECRIM, en desarrollo de las medidas del art. 25.2, a) y b) LEVD y conforme al art. 23.3 a) y b) de la
Directiva.
En el art. 709 LECRIM se reproduce el contenido del art. 25.2, c) del Estatuto de la Víctima, que
permite medidas para evitar que se formulen preguntas relativas a la vida privada de la víctima. Pero
dada la trascendencia que puede tener impedir que se formulen determinadas preguntas a la víctima
como testigo, y que la valoración de la posible intrascendencia para la obtención del convencimiento
del juzgador puede afectar a la tutela judicial efectiva, el art. 709 establece que la decisión de impedir la
formulación de estas preguntas, debe adoptarse a través de la correspondiente resolución. Ésta podrá
recurrirse a través del recurso de casación, si se efectuare en el acto la correspondiente protesta que
constará en el acta. Por tanto completa el contenido de esta medida, preservando el derecho de defensa
del acusado.
Los Jueces o Tribunales podrán acordar de oficio o a instancia de parte, que las vistas se desarrollen
a puerta cerrada y que las actuaciones sean reservadas, por razones de seguridad, orden público,
proteger los derechos fundamentales como el derecho a la intimidad de la víctima, el respeto a la víctima o su familia, o si resulta necesario para evitar perjuicios relevantes derivados del proceso. Podrán
autorizar la presencia de personas que acrediten un especial interés en la causa. Ello se regula en el art.
681.1 LECRIM, que también ha sido modificado y desarrolla y concreta el art. 25.2, c) del Estatuto de la
Víctima y además respeta el art. 23.3, d) de la Directiva.
También los Jueces y Tribunales pueden adoptar la prohibición de divulgar información sobre las
víctimas, imágenes de las víctimas o sus familiares. Todo ello siempre estará prohibido en los casos de
víctimas menores de edad o discapacitadas con necesidades especiales de protección (art. 681.2 y .3
LECRIM). En el ámbito de la violencia de género, en las actuaciones y procedimientos se protegerá la
intimidad de las víctimas, especialmente sus datos personales, los de sus descendientes y cualquier otra
persona que esté bajo su guarda y custodia (art. 63 LOIVG). Ello supone igualmente el desarrollo del
art. 22 del Estatuto de la Víctima y respeta el art. 21 de la Directiva, si bien reproducimos aquí lo que
antes hemos expuesto sobre la criticable omisión en el Derecho español, a las medidas de autorregulación de los medios de comunicación para proteger estos derechos que se contemplan en la
Directiva. La posibilidad de restringir de la presencia de los medios de comunicación en las sesiones del
juicio y la prohibición de grabaciones, divulgación de las mismas y de facilitar la identificación de los
testigos o peritos (regulada en el art. 682 LECRIM tras su modificación), si bien coadyuva a la protección de estos derechos y a la efectividad de estas medidas especiales de protección, podría ser
insuficiente al depender de la posibilidad de que el Juez o Tribunal lo puedan decidir, y además
quedan al margen los procedimientos donde no se acuerden estas restricciones.
Por otra parte la Ley 35/1995 de asistencia a las víctimas de delitos violentos y contra la libertad
sexual, encomienda al Ministerio Fiscal la protección a la víctima de toda publicidad no deseada,
pudiendo solicitar la celebración del proceso penal a puerta cerrada (art. 15.5). Además las escasas
disposiciones de la LOPTP, gozan sin embargo de una aplicación relevante respecto a la protección
de las víctimas 46. Pero para que se apliquen es necesario que se las reconozca expresamente como
testigos protegidos (art. 1). La LOPTP prevé medidas para proteger la identidad 47, la intimidad,
impedir la localización de la víctima, evitar todo contacto visual entre la víctima y el agresor, e
impedir la difusión pública de cualquier información. Estas posibilidades se establecen con carácter
general y con independencia de la evaluación individual efectuada, por lo que las víctimas tendrían
en todo caso estas otras posibilidades de protección adicional, si bien el art. 25.3 del Estatuto de la
46
C. Navarro Villanueva, op. cit., pp. 488 a 499. Sistematiza las medidas de protección de testigos reconocidas en la LOPTP
en “extraprocesales” en el sentido de que no afectan al desarrollo del proceso y “procesales”, que no podrán prolongarse tras la
conclusión del proceso.
47
S. Oromí I Vall-Llovera, op. cit., p. 22. El art. 4.3 LOPTP, establece que si alguna de las partes solicita la identificación del
testigo protegido en la fase de juicio oral, el Juez o Tribunal deberá facilitar su nombre y apellidos, lo cual incumple lo
establecido en el art. 21 de la Directiva.
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Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
187
Víctima cuando regula las medidas específicas se remite también a la LOPTP.
En cuanto a la protección de las víctimas menores de edad, ya de forma previa a la promulgación del
Estatuto de la Víctima en el ordenamiento español, la víctima menor de edad gozaba de una especial
protección como testigo. Como regla general siempre tendrá que declarar evitando la confrontación con
el acusado, las declaraciones que efectúe durante la instrucción podrán servir como prueba durante el
juicio oral 48, y también como regla general no se practicarán careos con testigos menores de edad 49. Los
menores víctimas de violencia doméstica o de género poseen además una protección adicional.
Consiste en permitir que declaren en presencia de sus padres o representantes legales, que declaren a
través de otras personas, en evitar que se reiteren sus declaraciones y los reconocimientos de médicos o
psicólogos, y además no tendrán que prestar juramento (arts. 434 y 706 LECRIM). Por tanto las
novedades del Estatuto de la Víctima residen, entre otras, en el fortalecimiento conforme a la Directiva
de su reconocimiento y protección y en que se les equiparan las víctimas discapacitadas con necesidades especiales de protección.
La Directiva establece medidas consistentes en que la declaración de la víctima se realice por
profesionales con formación adecuada (art. 23.2, b)), y que las tomas de declaración al menor puedan
utilizarse como prueba en el juicio oral (art. 24.1, a)), lo cual se contiene en el art. 26.1 del Estatuto de la
Víctima, como hemos visto. En consonancia con ello, se modifica el art. 730 LECRIM que permite que se
lean o reproduzcan las declaraciones recibidas durante la fase de investigación a los menores y
discapacitados con necesidades especiales de protección. Estas declaraciones conforme a la modificación del art. 448.3 LECRIM, se podrán efectuar evitando la confrontación visual con el inculpado y
utilizando para ello cualquier medio técnico que permita la práctica de esta prueba. Además con la
modificación del art. 433.3 LECRIM se permite que el Juez podrá acordar que se les tome declaración
con la intervención de expertos y del Ministerio Fiscal, incluso excluyéndose la presencia de las otras
partes. Pero en estos casos el Juez tendrá que facilitar que éstas puedan trasladar preguntas o pidan
aclaraciones a las víctimas 50, si ello fuera posible.
Por otro lado hay que observar que las víctimas menores de edad al igual que las víctimas con
discapacidad, y otras como los ancianos con fallos en la percepción y facultades disminuidas, efectúan
declaraciones que presentan especiales dificultades de valoración, lo cual afectaría a la credibilidad de
los hechos que relaten. Ello deberá tenerse en cuenta por el Juez o Tribunal al valorar la prueba, pero en
modo alguno debe excluirse estos testimonios 51. Por ello es fundamental que estas víctimas como
testigos, gocen de estas medidas de protección específicas y adicionales.
En conclusión, el Estatuto de la Víctima respeta, desarrolla y completa la protección de las víctimas
como testigo en la fase de enjuiciamiento regulada en la Directiva, si bien en algunos extremos puede
ser insuficiente, al depender de la valoración que efectúe el Juez o Tribunal sobre la aplicación de estas
medidas durante el juicio, dado que no se han determinado de forma más concreta los límites o requisitos
para acordarlas. Además existen algunas omisiones, como hemos visto, tales como la ausencia de la
referencia a la autorregulación de los medios de comunicación en la información que proporcionen
durante todo el proceso. También se pueden efectuar objeciones a la nueva regulación, en el sentido de las
dificultades que puede presentar su aplicación, por un lado por la antigüedad de la LECRIM y por otro
por la escasez de medios en la Administración de Justicia. Para proteger adecuadamente a las víctimas
son necesarias inversiones en las instalaciones judiciales, medios tecnológicos, servicios específicos y una
formación especializada por expertos y profesionales, lo cual es imprescindible para que el Estatuto de la
Víctima no quede en una mera declaración de intenciones, en una transposición de la Directiva que luego
puede tener serios obstáculos para su aplicación efectiva y práctica.
48
S. Pereira Puigvert, Normas mínimas para las víctimas de delitos: análisis de la Directiva 2012/29/UE. Especial referencia al derecho
de información y apoyo, in Revista General de Derecho Europeo, 2013, p. 9. Para dar valor probatorio a la declaración del menor en la
fase de instrucción, debe efectuarse con inmediación del Juez Instructor y de forma contradictoria.
49
Véanse la LO 1/1996 de Protección Jurídica al Menor (art. 11.2), los arts. 445, 448, 707, 731 bis LECRIM, y la Circular
3/2009 de la Fiscalía General del Estado.
50
S. Oromí I Vall-Llovera, op. cit., nota 18, pp. 27, 28 y 30. No podemos obviar la jurisprudencia del Tribunal Europeo de
Derechos Humanos (art. 6 del Convenio), según la cual el acusado debe tener la posibilidad de interrogar a los testigos decisivos
que declaren en su contra; se vulnera este artículo si las condenas se basan en declaraciones de niños sin que el acusado o su
abogado pudieran presenciar la declaración o formular preguntas.
51
X. Ferreiro Baamonde, op. cit., pp. 333 a 336.
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Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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BIBLIOGRAFÍA
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derechos, el apoyo y la protección de las víctimas de delitos, y su transposición al ordenamiento español, en Revista
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Justicia Penal. Un análisis basado en el Derecho Comparado y en las grandes reformas españolas que se avecinan,
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ANALISI E PROSPETTIVE | EL ESTATUTO ESPAÑOL DE LA VÍCTIMA DEL DELITO Y EL DERECHO A LA PROTECCIÓN
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
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Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Antonio Balsamo
Corti europee / European Courts
Giuseppe Biscardi
Atti a finalità mista, indizi di reato e garanzie difensive. Una sintesi difficile / Actions with mixed purposes, crime indicias and defensional guarantees. A difficult balance
20
154
Giada Bocellari
Decisioni in contrasto
42
Michele Bonetti
Procedimenti in corso e giudizio in absentia / Process already underway and the trial in absence of the
accused
90
Alberto Camon
La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali / DNA evidence between investigative practices and rules of procedure
165
Donatella Curtotti
Corte costituzionale
24
Marcello D’Aiuto
De jure condendo
18
Messa alla prova da giudizio sul fatto a giudizio da imputato / Probation: by the judgement made in the judgement on the defendant
103
Luca Della Ragione
La Suprema Corte si pronuncia sull’applicabilità dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p. al procedimento davanti al giudice di pace / The Corte di Cassazione rules on the applicability of paragraph
3-bis of art. 408 Code of Criminal Procedure the proceedings in the justice of the peace
130
Giulio Garuti
L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali / The nonapplication of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspects
1
Paola Maggio
Sezioni Unite
27
I poteri istruttori del giudice penale tra interpretazioni consolidate e nuovi limiti dettati dal
principio della “parità delle armi” / The investigative powers of criminal judges between established
interpretations and new limits dictated by the principle of the “equality of arms”
139
Eva Mariucci
L’astensione degli avvocati tra punti fermi e qualche impasse / Old questions and new statements
about lawyers’ strike
123
Carla Pansini
Novità legislative interne / National legislative news
INDICI
9
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
190
Àngel Tinoco Pastrana
El Estatuto español de la víctima del delito y el derecho a la ptotección / The Spanisish Crime victim
Statute and the right to protection
174
Antonio Pulvirenti
Sequestro e Internet: dalle Sezioni Unite una soluzione equilibrata ma “creativa” / Seizure and
Internet: the Supreme Court judgement
78
Caterina Scaccianoce
Il diritto di difesa tra effettività e necessità: le garanzie prevalgono nella lettura delle Sezioni
Unite / The right of defence between effectivity and necessity: the protection of the constitutional rights
prevails according to the interpretation of Cassazione Court
56
Daniela Vigoni
Novità sovranazionali / Supranational news
12
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., ord. 15 luglio 2015, n. 165
C. cost., sent. 23 luglio 2015, n. 184
25
24
Corte di Cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 26 marzo 2015, n. 24630
sentenza 14 aprile 2015, n. 15232
sentenza 17 luglio 2015, n. 31022
sentenza 22 luglio 2015, n. 32243
sentenza 28 luglio 2015, n. 33040
sentenza 28 luglio 2015, n. 33041
sentenza 29 luglio 2015, n. 33583
sentenza 31 luglio 2015, n. 33864
sentenza 15 settembre 2015, n. 37107
sentenza 22 settembre 2015, n. 38518
45
109
62
27
31
29
34
36
38
40
Corte di Cassazione – Sezioni semplici
Sezione II, sentenza 16 gennaio 2015, n. 18265
Sezione III, sentenza 29 aprile 2015, n. 23271
Sezione V, sentenza 28 maggio 2015, n. 22991
96
87
128
Corte europea dei diritti dell’uomo
28 settembre 2015, Bouyid c. Belgio
22
Corte di giustizia dell’Unione europea
8 settembre 2015, Taricco ed altri
20
Decisioni in contrasto
Sezione II, 7 luglio 2015, n. 28790
42
Atti sovranazionali
Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il Governo della Repubblica italiana
e il Governo della Repubblica federativa del Brasile del 2008
Trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati uniti messicani del 2011
INDICI
12
13
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
191
Trattato in materia di assistenza giudiziaria penale tra il Governo della Repubblica italiana
e il Governo degli Stati uniti messicani del 2011
15
Norme interne
D.M. 12 agosto 2015, nn. 143 e 144 «Regolamento concernente disposizioni relative alle forme
di pubblicità dell’avvio delle procedure per l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, a norma dell’articolo 47, comma 7, della legge 31 dicembre 2012, n.
247» e «Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di
avvocato specialista, a norma dell’articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247
9
De jure condendo
Disegno di legge S. 1957 «Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di
cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, volte a rendere più efficiente l’attività dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, a favorire la vendita di beni confiscati e il reimpiego del ricavato per finalità sociali nonché a rendere produttive le aziende confiscate. Delega al Governo per la disciplina della gestione delle aziende confiscate»
Disegno di legge S. 2032 «Modifiche all’articolo 438 del codice di procedura penale, in materia di
di inapplicabilità e di svolgimento del giudizio abbreviato»
Disegno di legge C. 3148 «Modifiche all’articolo 67 della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia
di visite agli istituti penitenziari»
18
18
19
MATERIE / TOPICS
Applicazione della pena su richiesta delle parti
 Illegalità sopravvenuta della pena e nullità dell’accordo sottostante al patteggiamento
(Cass., sez. un., 28 luglio 2015, n. 33040)
 Spetta al giudice dell’esecuzione rideterminare la pena patteggiata “illegale” conseguente a
declaratoria di illegittimità costituzionale (Cass., sez. un., 15 settembre 2015, n. 37107)
31
Archiviazione
 L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali / The nonapplication of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspect, di Giulio Garuti
 Procedimento innanzi al giudice di pace, avviso della richiesta di archiviazione e art. 408,
comma 3-bis, c.p.p. (Cass., sez. V, 28 maggio 2015, n. 22991), con nota di Luca Della Ragione
1
128
Confisca
 Misure di prevenzione e confisca (Disegno di legge S. 1957 «Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, volte a rendere più efficiente l’attività dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata, a favorire la vendita di beni confiscati e il reimpiego del ricavato per finalità sociali nonché a rendere produttive le aziende confiscate. Delega al Governo per la
disciplina della gestione delle aziende confiscate»)
18
Contumacia
 Il rito abrogativo sopravvive per il “contumace non irreperibile” (Cass., sez. III, 29 aprile
2015, n. 23271), con nota di Michele Bonetti
87
Cooperazione giudiziaria
 Trattato di estradizione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati uniti messicani del 2011
 Trattato in materia di assistenza giudiziaria penale tra il Governo della Repubblica italiana
e il Governo degli Stati uniti messicani del 2011
INDICI
38
13
15
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
192
 Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il Governo della Repubblica italiana
e il Governo della Repubblica federativa del Brasile del 2008
12
Dibattimento
 I poteri istruttori del giudice penale tra interpretazioni consolidate e nuovi limiti dettati dal
principio della “parità delle armi” / The investigative powers of criminal judges between established interpretations and new limits dictated by the principle of the “equality of arms”, di Paola
Maggio
 L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali / The nonapplication of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspect , di Giulio
Garuti
Dichiarazioni autoindizianti
 Le dichiarazioni rese in assenza dell’avvertimento contemplato nell’art. 64 comma 3 lett. c)
sono inutilizzabili anche nei casi di connessione debole (Cass., sez. un., 29 luglio 2015, n.
33583)
Difesa e difensori
 Astensione del difensore anche nelle udienze a contraddittorio eventuale (Cass., sez. un., 14
aprile 2015, n. 15232), con nota di Eva Mariucci
 Atti a finalità mista, indizi di reato e garanzie difensive. Una sintesi difficile / Actions with
mixed purposes, crime indicias and defensional guarantees. A difficult balance, di Giuseppe Biscardi
 È valida la notifica al difensore eseguita per via telematica prima del dicembre 2014 (Cass.,
sez. un., 22 luglio 2015, n. 32243)
 La riforma della professione di avvocato (D.M. 12 agosto 2015, nn.i 143 e 144)
 Nel procedimento di sorveglianza l’omesso avviso al difensore di fiducia integra una nullità assoluta (Cass., sez. un., 26 marzo 2015, n. 24630), con nota di Caterina Scaccianoce
139
1
34
109
154
27
9
45
Diritti fondamentali (tutela dei)
 Divieto di trattamenti degradanti (Corte e.d.u., 28 settembre 2015, Bouyid c. Belgio)
22
Esecuzione penale
 Spetta al giudice dell’esecuzione rideterminare la pena patteggiata “illegale” conseguente a
declaratoria di illegittimità costituzionale (Cass., sez. un., 15 settembre 2015, n. 37107)
38
Giudice di pace
 Non sussiste l’interesse della parte civile a impugnare le sentenze estintive del reato emesse
dal giudice di pace in seguito a condotte riparatorie (Cass., sez. un., 31 luglio 2015, n. 33864)
 Procedimento innanzi al giudice di pace, avviso della richiesta di archiviazione e art. 408,
comma 3-bis, c.p.p. (Cass., sez. V, 28 maggio 2015, n. 22991), con nota di Luca Della Ragione
128
Giudizio abbreviato
 Ricorso al giudizio abbreviato (Disegno di legge S. 2032 «Modifiche all’articolo 438 del codice di
procedura penale, in materia di inapplicabilità e di svolgimento del giudizio abbreviato»)
18
Impugnazioni
 L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali / The nonapplication of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspect, di Giulio
Garuti
 Le Sezioni Unite tornano sul rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e applicazione
delle cause di non punibilità: il persistente problema della prescrizione (Cass., sez. II, 7 luglio
2015, n. 28790)
INDICI
36
1
42
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
193
 Non sussiste l’interesse della parte civile a impugnare le sentenze estintive del reato
emesse dal giudice di pace in seguito a condotte riparatorie (Cass., sez. un., 31 luglio 2015,
n. 33864)
36
Indagini preliminari
 La ragionevole durata delle indagini preliminari (C. cost., sent. 23 luglio 2015, n. 184)
24
Invalidità
– nullità
 Nel procedimento di sorveglianza l’omesso avviso al difensore di fiducia integra una nullità assoluta (Cass., sez. un., 26 marzo 2015, n. 24630), con nota di Caterina Scaccianoce
45
Messa alla prova
 Messa alla prova e regime transitorio (Cass., sez. II, 16 gennaio, n. 18265 ), con nota di Marcello D’Aiuto
96
Misure cautelari personali
 Rilevanza delle aggravanti a effetto speciale nella determinazione della durata massima
delle misure cautelari (Cass., sez. un., 22 settembre 2015, n. 38518)
 Tossicodipendenza e cautele personali: vietati indiscriminati automatismi (C. cost., ord. 15
luglio 2015, n. 165)
40
25
Misure cautelari reali
– riesame
 È ammissibile la richiesta di riesame proposta dal difensore avverso il decreto di sequestro
preventivo ai danni dell’ente non formalmente costituito (Cass., sez. un., 28 luglio 2015, n.
33041)
29
– sequestro preventivo
 Limiti al sequestro per la testata giornalistica on line (Cass., sez. un., 17 luglio 2015, n. 31022),
con nota di Antonio Pulvirenti
62
Misure di prevenzione
 Misure di prevenzione e confisca (Disegno di legge S. 1957 «Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, volte a rendere più efficiente l’attività dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata, a favorire la vendita di beni confiscati e il reimpiego del ricavato per finalità sociali nonché a rendere produttive le aziende confiscate. Delega al Governo per la
disciplina della gestione delle aziende confiscate»)
18
Ordinamento penitenziario
 Visite agli Istituti penitenziari (Disegno di legge C. 3148 «Modifiche all’articolo 67 della legge 26
luglio 1975, n. 354, in materia di visite agli istituti penitenziari»)
19
Parte civile
 Non sussiste l’interesse della parte civile a impugnare le sentenze estintive del reato emesse
dal giudice di pace in seguito a condotte riparatorie (Cass., sez. un., 31 luglio 2015, n. 33864)
36
“Particolare tenuità del fatto”
 L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali / The nonapplication of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspect , di Giulio
Garuti
1
INDICI
Processo penale e giustizia n. 6 | 2015
194
Pena
 Spetta al giudice dell’esecuzione rideterminare la pena patteggiata “illegale” conseguente a
declaratoria di illegittimità costituzionale (Cass., sez. un., 15 settembre 2015, n. 37107)
38
Persona offesa
 El Estatuto español de la víctima del delito y el derecho a la ptotección / The Spanisish
Crime victime Statute and the right to protection, di Àngel Tinoco Pastrana
174
Prescrizione
 Le Sezioni Unite tornano sul rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e applicazione
delle cause di non punibilità: il persistente problema della prescrizione (Cass., sez. II, 7 luglio
2015, n. 28790)
 Tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea e disapplicazione della prescrizione
nelle frodi in materia di IVA (C. giust. UE, 8 settembre 2015, Taricco e altri)
20
Procedimento di sorveglianza
 Nel procedimento di sorveglianza l’omesso avviso al difensore di fiducia integra una nullità assoluta (Cass., sez. un., 26 marzo 2015, n. 24630), con nota di Caterina Scaccianoce
45
42
Prova
– prova generica
 La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali / DNA evidence between investigative practices and rules of procedure, di Alberto Camon
154
Riti speciali
 L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali / The nonapplication of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspect , di Giulio
Garuti
1
Udienza preliminare
 L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: profili processuali / The nonapplication of the penalty due to “particular tenuity of the fact”: procedural aspect , di Giulio
Garuti
1
INDICI