Un calzolaio del Quattrocento - Fondazione Cassa di Risparmio di
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Un calzolaio del Quattrocento - Fondazione Cassa di Risparmio di
Un calzolaio del Quattrocento: Girolamo Talducci e la sua bottega in Porta Santa Trinita di Francesco Ammannati C i siamo imbattuti nella figura di Girolamo di Lorenzo Talducci in un precedente studio sul Sacco di Prato che mise a ferro e fuoco la città del Bisenzio nel 1512. Furono centinaia i pratesi che persero la vita per mano degli invasori spagnoli, mentre ai più fortunati, tra cui il Talducci, toccò la prigione e una pesante taglia sulla testa. Grazie alla lettura di un suo libro contabile conservato presso il fondo della Casa Pia dei Ceppi dell’Archivio di Stato di Prato era stato possibile ricostruire le vicende di quei turbolenti mesi d’estate che portarono al suo riscatto1. L’importanza di Girolamo Talducci nella società e nell’economia pratese va oltre il ruolo giocato, suo malgrado, durante le vicissitudini del Sacco. Il fondo dei Ceppi contiene infatti ben 29 registri contabili, che spaziano dalla fine del Trecento al 1521, appartenuti alla famiglia Talducci, molti dei quali relativi alla loro attività artigianale di calzolai e galigai. Nel 1512, quando fu catturato e costretto a più di quindici giorni di prigionia, Girolamo si trovava ormai alla soglia degli 80 anni e aveva abbandonato da tempo l’attività imprenditoriale in quella bottega di calzoleria che era stata una delle principali fonti di sostentamento della famiglia per almeno tre generazioni. I Talducci abitavano in Porta Santa Trinita già dai primi anni del Quattrocento, come confermato da un appunto annotato su un registro di ricordanze: il 31 marzo 1403 Giovanni e i figli Antonio e Cenni acquistarono dal galigaio Tommaso di Stefano Tini una casa per un valore di 146 fiorini2. Questo libro contiene le notizie più remote riguardo la famiglia Talducci: 1 F. Ammannati, Il costo della libertà nei conti di alcuni personaggi, in “Prato Storia e Arte”, 112, 2012, pp. 39-51. 2 Archivio di Stato di Prato (ASPo), Ceppi, 1276, c. 3. 143 iniziato il 3 marzo 1398 da Giovanni fu accantonato dopo poche pagine per essere ripreso in mano solo dopo mezzo secolo dal nipote Lorenzo, il padre di Girolamo, che lo utilizzò come registro di Debitori e Creditori3. Informazioni più dettagliate sui Talducci sono offerte dal catasto fiorentino del 1427 che la Dominante, con la legge del maggio 1428, estese al contado e quindi anche a Prato4. A questa data il fuoco risultava composto dal capofamiglia Cenni, la moglie Antonia, il figlio Lorenzo, già vedovo a 21 anni con un bambino di 8 mesi, e la figlia Domenica di 17 anni. In casa Talducci viveva anche la cognata di Cenni, Lucia, vedova del fratello Antonio5. Il capofamiglia si dedicava principalmente a lavorare i terreni di sua proprietà, che il catasto individuava in una serie di appezzamenti situati nelle vicinanze delle mura cittadine (7 staiora6 nei sobborghi di Porta Santa Trinita, 10 staiora nei sobborghi di Porta Leone, 9 staiora nel Chiasso Martinucci, 14 staiora in località Cuccioli, a San Giusto7). Si trattava di un discreto patrimonio fondiario da cui Cenni ricavava vino, olio e grano destinati al consumo familiare e alla vendita sul mercato locale. Il primo Talducci a impegnarsi nell’attività artigianale fu Antonio, uno dei fratelli di Cenni. Della sua bottega esiste una documentazione solo frammentaria8, ma lo troviamo firmatario dello statuto dell’Arte dei Cazolai nel 14129. Dopo la morte dello zio, fu Lorenzo a portare avanti la calzoleria: questo fatto è confermato dalla dichiarazione di Cenni nel Catasto del 1428, secondo il quale il figlio, allora ventunenne, “fa un traffico di scharpette in Prato”10 in una bottega posta in Santa Trinita. Lorenzo si sposò in seconde nozze il 3 aprile del 1429 con Lorenza, figlia di Domenico del Berna di Porta Santa Trinita, che portava in dote 110 fiorini11. Dall’unione nacque, il primo ottobre 1433, “uno fancullo maschio alle nove ore mezzo al quale puosi nome Girolamo12”. Nel 1462 fu celebrato il matrimonio fra Girolamo e Dada, figlia di Monte di Andrea Angiolini, esponente di una delle più importanti famiglie prate- 3 Ibid., c. 6r. E. Fiumi, Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato dall’età comunale ai tempi moderni, Firenze 1968 (Leo S. Olschki), p. 104. 5 Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Catasto, 176, c. 386. 6 Uno staioro pratese corrispondeva a circa 748 metri quadrati. G. Nigro, Vino, fiscalità e vinattieri in Prato nelle carte di Francesco Datini, in “Lunedì comincerà lo Schiavo nel nome di Dio a vendeniare”. Tracce di vino nelle carte e sui colli pratesi, Fondazione Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, Prato, 2008, pp. 7-35, n. 3, p. 9. 7 ASFi, Catasto, 176, c. 386. 8 ASPo, Ceppi, 1284. 9 ASPo, Arti, 8, c. 29r. 10 ASFi, Catasto, 176, c. 386. 11 ASPo, Ceppi, 1277, 5v. 12 Ibidem. 4 144 Un calzolaio del Quattrocento: Girolamo Talducci. Francesco Ammannati Scarpetta si, che alla fine del Trecento aveva annoverato nelle proprie fila anche uno stretto collaboratore del grande mercante Francesco di Marco Datini13. Una prova dell’agiatezza degli Angiolini è la consistenza della dote di cui fu fornita Dada, composta da 240 fiorini e un corredo dal valore di ben 140 fiorini! Poco prima che si sposasse Girolamo fu avviato all’esercizio dell’Arte della lana; dal primo settembre 1460, infatti, era stato assunto dal lanaiolo Duccio d’Andrea di Simone, presso le cui dipendenze lavorava a ragione di 40 lire l’anno14. Ma il destino di Girolamo non era nella lana: dopo cinque anni lo troviamo alle dipendenze del padre Lorenzo, che il 3 febbraio 1465 aveva costituito insieme a Lazzero d’Antonio di Porta Gualdimari una compagnia dedita all’Arte della Galigheria, ovvero quell’attività che, a partire dalla pelle animale, attraverso passaggi di lavaggio, concia e tintura, otteneva pelli destinate a essere tagliate secondo i diversi usi15. È chiaro che la nascita di questa nuova bottega era strumentale al lavoro della calzoleria, 13 ASPo, Ceppi, 1277, c.72v. Sugli Angiolini e in particolare sul Monte d’Andrea, omonimo del padre di Dada, collaboratore del Datini si veda E. Fiumi, Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato, cit., p. 288. G. Nigro, Francesco e la compagnia Datini di Firenze nel sistema dei traffici commerciali, in Francesco Datini l’uomo il mercante, a c. di G. Nigro, Firenze 2010 (Firenze University Press), pp 235-254, 238. F. Ammannati, Gli opifici lanieri di Francesco di Marco Datini, in Francesco Datini l’uomo il mercante, cit., pp. 497-523, 499-500. 14 ASPo, Ceppi, 1277, c. 69v. 15 Ibid., c. 76r. S. Gensini, Il cuoio e le pelli in Toscana, in Il cuoio e le pelli in Toscana. Produzione e mercato nel tardo Medioevo e nell’età moderna: incontro di studio, San Miniato, 22-23 febbraio 1998, a c. di S. Gensini, Pisa 1999 (Pacini), pp. 1-15. 145 a cui avrebbe fornito la materia prima necessaria al confezionamento delle scarpe. Lorenzo affidò al figlio Girolamo la tenuta del Giornale della Galigheria in modo che si impratichisse del mestiere, assai diverso da quello di lanaiolo, e potesse sostituirlo una volta passato a miglior vita. Le condizioni di salute di Lorenzo, infatti, non erano buone e una lunga malattia lo costrinse ad allontanarsi dal lavoro fino alla morte, avvenuta il 13 marzo 1466, all’età di 60 anni16. Nell’aprile dello stesso anno, Girolamo sciolse anticipatamente la società con Lazzero d’Antonio, che avrebbe dovuto durare per altri due anni, eseguì la chiusura della contabilità, compilò l’inventario del magazzino e divise le sostanze e gli utili col socio17. Ormai era in grado di destreggiarsi nel mondo della concia e della lavorazione delle pelli: nel volgere di poco tempo, una volta rilevata la calzoleria, Girolamo convertì una casa di sua proprietà in Porta Tiezi in bottega di galigheria, accordandosi per la fornitura del pellame coi beccai Giovanni di Domenico e Bartolomeo di Nanni, ai quali avrebbe corrisposto la cifra di 36 lire ogni 100 pelli. L’attività combinata di concia e lavorazione del cuoio trovava il suo sbocco commerciale grazie al banco per la vendita al dettaglio che Girolamo teneva nel mercato cittadino del lunedì, mercoledì e sabato. Il Comune di Prato suddivideva la piazza del mercato in aree (le “caselle” situate in Piazza del Duomo o in Piazza Mercatale) affittate ai venditori che in questo modo potevano disporre di un banco fisso18. I prodotti della calzoleria Talducci erano inoltre presenti alla fiera di fine estate, il più importante avvenimento cittadino dal punto di vista religioso ed economico, che culminava l’8 settembre con l’Ostensione della Sacra Cintola19. Una buona gestione aziendale e un consolidato patrimonio familiare garantirono a Girolamo un tenore di vita più che soddisfacente: lo troviamo infatti nel catasto del 1471 con un dazio complessivo di 3 lire e 8 soldi, un valore che lo collocava tra i primi 40 contribuenti della città20. Il suo buon livello di ricchezza immobiliare è confermato dal catasto del 1480, che permette di osservare più nel dettaglio il patrimonio immobiliare del Talducci: diverse terre nel contado, una casa a Porta Santa Trinita e due case a Porta Tiezi e via de’ Purgatori21. 16 ASPo, Ceppi, 1291, c. 32r, 1498, c. 58r. ASPo, Ceppi, 1498, c. 59r 18 S. Baldini, La Fiera di Prato e le caselle sulla piazza della Propositura, in “Archivio storico pratese”, XXI, 1953, n. 1-2, pp. 24-34. 19 ASPo, Ceppi, 1303, c. 93d. 20 Si noti che questa cifra era ottenuta sommando il dazio sul valsente, che ammontava a s. 15 di piccioli per ogni 100 fiorini, al dazio sulle teste. Si veda E. Fiumi, Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato, cit., p. 140. 21 Ibid., p. 486. 17 146 Un calzolaio del Quattrocento: Girolamo Talducci. Francesco Ammannati Pianella Forse fu proprio questo elevato livello di benessere che spinse Girolamo ad abbandonare ben presto l’attività imprenditoriale, almeno quella svolta direttamente in bottega, che comportava fatica, rischio e un’attenta gestione delle risorse aziendali. Nel 1473 la calzoleria fu venduta22, lasciando il Talducci libero di occuparsi dei suoi possedimenti immobiliari e di assumere importanti incarichi all’interno delle più rilevanti istituzioni civili e assistenziali cittadine. Già il padre Lorenzo era stato Camarlingo del Ceppo di Francesco di Marco intorno alla metà del Quattrocento. Tra il 1472 e il 1474 Girolamo tenne la carica di Camarlingo delle otto Porte, con la responsabilità di riscuotere i dazi presso quelle di Capo di Ponte, Porta a Corte, Gualdimare, Leone, San Giovanni, Santa Trinita, Tiezi e Travaglio23. Dal 1473 al 1495 fu Ufficiale delle Condannagioni24, col potere di graziare dietro pagamento di una somma di denaro le persone condannate; dopo una breve parentesi come Depositario del Monte di Pietà tra il 1476 e il 147725, assunse il ruolo di Spedalingo dell’Ospedale della Misericordia dal 1481 al 151226 e soprattutto fu Governatore del Ceppo tra il 1499 e il 151527. Nonostante questi molteplici impegni, Girolamo mantenne la bottega di galigaio, forse come socio finanziatore o semplicemente affidandone la gestione a terzi28. Ancora nel 1512, all’indomani del Sacco di Prato, an22 ASPo, Ceppi, 1295, c. 136v. ASPo, Ceppi, 1292, c. 32r, 1466. 24 ASPo, Ceppi, 1295, cc. 294v-295r. 25 Ibid., c. 284r. 26 Ibid., c. 312v. 27 L’intervallo temporale è calcolato grazie alla successione di registri da lui tenuti in qualità di Governatore del Ceppo. 28 In ASPo, Ceppi, 1308, inserto di 26 carte, è documentata l’esistenza della galigheria per gli anni 1478-1479. 23 147 notava sui suoi libri contabili i danni sofferti dalla galigheria: gli spagnoli avevano fatto irruzione nella bottega smurando e rubando una caldaia e un fornello29. Finita l’emergenza del sacco, il Talducci commissionò a un falegname, Niccolò di Antonio Coccolina, la ricostruzione di un uscio nuovo, dotato di sportello, e la “rapezzatura” di alcune finestre vittime della furia spagnola30. Il 22 ottobre 1500 predispose un primo testamento, conservato tra le carte del fondo della Casa dei Ceppi31: come era d’uso lasciò alla moglie Dada la sua dote di 240 fiorini e la designò usufruttuaria a vita di tutti i beni mobili e immobili, con l’impegno di devolverli allo Spedale della Misericordia. Si trattava di un cospicuo patrimonio che a quella data era composto da due case a Porta Santa Trinita con 18 staiora di terra vignata del valore complessivo di 430 fiorini, due casette nell’immediato contado in località le Carbonaie dotate di corte e orto stimate 150 fiorini e un terreno di 7 staiora valutato 70 fiorini, la galigheria in Porta Tiezi, una casa in Porta Leone. Tra il 1494 e il 1497 Girolamo aveva fatto costruire una cappella nella chiesa di Santa Trinita (che non esiste più dalla fine del Settecento) destinata ad accogliere la propria sepoltura; il Talducci ne aveva commissionato la decorazione a Tommaso di Piero Trombetto che dipinse una tavola raffigurante una croce circondata da figure di santi32. Il primo febbraio 1513 Girolamo fece rogare un nuovo testamento dal notaio ser Antonio di Bartolomeo Benamati in cui nominava suo erede universale il Ceppo di Francesco di Marco Datini, con l’obbligo di far celebrare, settimanalmente, tre messe in suo suffragio nella chiesa di Santa Trinita, con la corresponsione di congrue elemosine, “né troppo scarse né troppo grandi”, ai sacerdoti officianti33: a questo si deve, evidentemente, la conservazione della documentazione Talducci nel fondo archivistico del pio istituto. La bottega della calzoleria Dipinta con brevi pennellate la figura dell’uomo Girolamo Talducci, addentriamoci adesso nell’indagine dell’attività artigianale da lui condotta grazie all’analisi di alcuni registri utili a descrivere la vita quotidiana dell’azienda, i Quadernucci dei Lavoranti (in particolare relativi al periodo 29 ASPo, Ceppi, 1297, c. 86r. Ibid., c. 87r. 31 ASPo, Ceppi, 1308, carte sciolte. 32 R. Nuti, Notizie sulla costruzione della Chiesa in S Agostino in Prato, in “Archivio Storico Pratese”, XX, 1942, n. 3-4, pp. 109-125. 33 ASPo, Ceppi, 1308, carte sciolte. 30 148 Un calzolaio del Quattrocento: Girolamo Talducci. Francesco Ammannati Scarpetta 1467-147234). La bottega di calzoleria era ubicata, come abbiamo accennato, nel quartiere di Porta Santa Trinita, intorno al quale ruotò tutta la vita sociale e familiare del Talducci. Non dobbiamo aspettarci un opificio di grandi dimensioni: in linea con le aziende manifatturiere dell’epoca, nella bottega di Girolamo lavorava una manodopera relativamente esigua, spesso impiegata in modo discontinuo e per brevi periodi di tempo. Non che mancassero, come vedremo tra poco, salariati fissi, ma questi costituivano senz’altro un’eccezione rispetto al personale assunto occasionalmente. Lo studio della calzoleria ci offre l’opportunità di puntualizzare come sia fuorviante affidarsi alla documentazione statutaria corporativa per descrivere la pratica quotidiana del lavoro di bottega e invece quanto sia necessario ricorrere alle fonti di diretta promanazione aziendale per colmare il divario tra la teoria delle norme e la realtà delle aziende35. Lo Statuto dell’Arte dei Calzolai di Prato prevedeva, infatti, una struttura molto rigida del personale da impiegare negli opifici: garzoni, discepoli e il maestro, qualifica ottenibile solo al termine di un percorso di formazione effettuato per diversi anni presso una bottega36. All’interno dell’azienda di Girolamo, invece, si può apprezzare una certa elasticità nella composizione della forza lavoro. Il Talducci non era un ma34 Conservati anch’essi nel fondo della Casa dei Ceppi, ASPo, Ceppi, 1303, 1481. H. Swanson, The Illusion of Economic Structure: Craft Guilds in Late Medieval English Towns, in “Past and Present”, 121, 1988, pp. 29-48; R.A. Goldthwaite, La cultura economica dell’artigiano, in La grande storia dell’artigianato. Arti fiorentine, Volume 1: Il Medioevo, Firenze 1998 (Giunti), pp. 57-75, 69. 36 A. Doren, Le arti fiorentine, I-II, Firenze 1939 (Le Monnier), I, p. 221. 35 149 estro in senso stretto quanto piuttosto il mercante-artigiano, titolare della bottega, detentore dei capitali necessari all’organizzazione del processo produttivo e dedito al coordinamento del lavoro più che alla diretta attività manuale. Alcuni maestri, assunti in modo discontinuo, affiancavano Girolamo nella confezione delle scarpe, coadiuvati da alcuni garzoni che solo in modo limitato possiamo considerare discepoli-apprendisti, poiché i patti stipulati con l’azienda prevedevano semplicemente una prestazione di lavoro dietro la retribuzione di un compenso e non implicavano alcuna aspirazione a una carriera professionale o al raggiungimento di un preciso livello nella scala sociale-corporativa. I maestri impiegati nella bottega di Girolamo erano due: Gherardo di Bartolo di Piero Dogi e Giovanni di Cepriano. Le loro mansioni consistevano nella cucitura delle scarpe, nella produzione di suole e tomaie e, in alcuni casi, delle soprasuole e fermagli destinati ad abbellire la calzatura. Queste figure, che ci aspetteremmo destinate a costituire la “spina dorsale” del comparto produttivo, presentano invece un’elevata rotazione nell’arco dei 5 anni considerati, con permanenze discontinue e fluttuanti che raramente superarono i 6 mesi di impiego continuativo. Questo potrebbe significare una forte mobilità della manodopera specializzata in frequente movimento da una bottega all’altra.. Il numero dei garzoni era più elevato; è curioso notare come furono tre membri di questa categoria gli unici a essere impiegati in modo pressoché continuo all’interno dell’azienda. Paolo di Meo detto Cianchi, Nicolao di Jago di Nanni Pinutti detto Zuccherino e Piero di Nanni di Pasquino del Rozza detto Zoppo prestarono la propria attività ininterrottamente tra il 1467 e il 1472, mentre per tutti gli altri è possibile osservare una forte mobilità. I compiti dei garzoni erano pressoché gli stessi dei maestri, cucitura e produzione di suole e tomaie, anche se si può immaginare fossero impiegati in linee di produzione meno pregiate o destinati a operazioni più elementari. In generale, il personale che si avvicendò nella calzoleria Talducci durante i 5 anni considerati ammontò a 25 individui, 21 dei quali furono occupati in bottega per meno di un anno, e più della metà per tempi inferiori ai 30 giorni. Il 75% di questi ultimi prestò la propria opera per meno di 15 giorni! Si tratta quindi di un ritmo di ricambio delle maestranze assai elevato, i cui tempi massimi raggiungevano le due settimane. Buona parte dei lavoratori impiegati in modo più discontinuo proveniva da località esterne al territorio pratese: Firenze, Pistoia, Fiorenzuola, il Mugello, Parma e Modena37. Era frequente, inoltre, il passaggio della manodopera non specializzata da un impiego all’altro, ad esempio dal- 37 ASPo, Ceppi, 1303, cc. 22d, 92d, 98d; 1481, cc. 42d, 60d, 99d. 150 Un calzolaio del Quattrocento: Girolamo Talducci. Francesco Ammannati Calze solate la produzione di scarpe al lavoro nel lanificio o ovunque fosse richiesta la forza delle proprie braccia. Un fenomeno ben conosciuto è quello dell’alternanza di questi lavoratori tra le occupazioni urbane e quelle rurali: i ritmi dell’agricoltura finivano così per condizionare quelli della manifattura cittadina a livello di avvicendamento del personale. In occasione dei lavori agricoli più importanti dell’anno (vendemmia, mietitura, raccolta) la bottega si riempiva di nuovi lavoranti occasionali, mentre il personale solitamente occupato nella bottega si recava “a’ fossi” delle vigne o “di setembre in vendemia”38. Un computo approssimativo del numero delle giornate lavorative dell’anno, escludendo le feste religiose, le domeniche e via dicendo, è attuabile grazie alle fonti normative, statuti di emanazione comunale o corporativa, che stabilivano tassativamente i giorni in cui non era possibile aprire bottega o lavorare: questo tipo di informazione, se già permette una riflessione sulla profonda differenza rispetto all’età contemporanea della concezione del tempo da dedicare all’attività produttiva, non è sufficiente a calarsi nella realtà operativa, dato che come abbiamo visto era assai difficile che un lavoratore – quale che fosse il tipo di rapporto che lo legava al datore di lavoro – fosse automaticamente impegnato durante tutti i giorni permessi dalle leggi39. In questo senso risultano fondamentali le fonti prodotte dalle aziende, che permettono di ottenere dalla contabilità delle botteghe i dati relativi ai singoli lavoratori registrati sui rispettivi conti aperti dal datore di lavoro40. Prima di azzardare alcune cifre generali è necessario considerare la centralità, nella vita sociale dell’epoca, della pratica religiosa e il condi38 Ibid., cc. 18d e s.n. F. Franceschi, Oltre il Tumulto. Lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Firenze 1993 (Olschki), p. 237; G. Nigro, Il tempo liberato. Festa e svago nella città di Francesco Datini, Prato 1994 (Istituto Internazionale di Storia Economica “Francesco Datini”,p. 28. 40 G. Nigro, Gestione del personale e controllo contabile. Un significativo esempio nella Toscana basso-medievale, in I. Zilli (a cura di), Fra spazio e tempo. Studi in onore di Luigi De Rosa. I: Dal Medioevo al Seicento, Napoli 1995 (Edizioni Scientifiche Italiane), p. 809-821, 813 39 151 zionamento che questa esercitava nei confronti delle istituzioni pubbliche, sbilanciando il rapporto tra giorni lavorativi e festività. Tra Tre e Quattrocento le giornate festive oscillavano tra 60 e 70, a cui era necessario sommare le 52 domeniche e parte dei sabati, in cui la giornata lavorativa veniva ridotta41. In particolare lo Statuto dell’Arte dei Calzolai di Prato prevedeva che non si potesse lavorare il sabato “dopo a suono di vespro”, mentre la giornata finiva a suono di nona la vigilia di Natale, Pasqua, Pentecoste e nei giorni dedicati alla Madonna: 25 marzo, 15 agosto e 8 settembre”. Erano tollerate solo semplici attività come “talliare correghiuole per incoraggiare calzamenti e quelli calzamenti per incoraggiare, informare e intalliare e apicare appiccatoi”. Il lavoro era del tutto vietato il Venerdì Santo, giorno in cui era permesso solo di “tenere aperto un po’ l’uscio e vendere e rendere lavorìo fatto”42. Ne risultava un numero massimo teorico di circa 230 giorni, che comunque raramente veniva raggiunto da un lavoratore data la intrinseca precarietà del mondo del lavoro bassomedievale: i salariati, così come i cottimisti, raramente trovavano occupazione tutti i giorni feriali dell’anno e i vuoti tra un ingaggio e un altro potevano durare giorni, o settimane, a seconda del vigore dell’economia cittadina. Sulla base dei dati ricavabili dai Quadernucci dei Lavoranti della bottega di Girolamo, possiamo osservare come in un mese le giornate di impiego dei tre garzoni più assidui, Paolo, Nicolao e Piero, fossero in media 20, ma solo nei periodi in cui il lavoro procedeva a ritmo sostenuto. La misurazione del numero di ore lavorate durante il giorno, invece, presenta maggiori difficoltà poiché, pur sporadicamente ricordate dagli statuti cittadini o delle Arti, le prescrizioni obbligatorie sugli orari di lavoro potevano essere applicate solo ad alcune specifiche categorie di operatori (segnatamente quelli impiegati a intervallo di tempo, calcolato in giornate), mentre non aveva alcun senso nei confronti dei cosiddetti cottimisti che venivano retribuiti dall’azienda sulla base della quantità di prodotto lavorato43. È proprio questo il caso dei lavoratori della calzoleria Talducci, per questo possiamo esprimere qualche considerazione non tanto in merito al livello assoluto della retribuzione, che dipendeva dal tempo trascorso in bottega a lavorare, quanto alle differenze salariali tra le varie categorie di operatori e all’interno delle stesse. 41 G. Nigro, Il tempo liberato cit., p. 25 per altri settori lavorativi come l’edilizia. ASPo, Arti, 8 c. 5v. 43 S. Polica, Il tempo di lavoro in due realtà cittadine italiane: Venezia e Firenze (sec. XIIIXIV), in Lavorare nel medio evo. Rappresentazioni ed esempi dall’Italia dei secc. X-XVI, 1215 ottobre 1980, Todi 1983 (Accademia Tudertina, Convegni del Centro di Studi sulla Spiritualità medievale. Università degli Studi di Perugia, XXI), pp. 37-64, 57; F. Franceschi, Oltre il Tumulto cit., p. 235. 42 152 Un calzolaio del Quattrocento: Girolamo Talducci. Francesco Ammannati Zoccoli Per quanto riguarda l’ultimo caso, un fenomeno immediatamente percepibile è la variabilità dei compensi non solo in relazione al tipo di mansione, ma anche al tempo di permanenza all’interno dell’azienda: i lavoratori occasionali venivano ingaggiati saltuariamente, in periodi di forte domanda di mercato o di assenza improvvisa di qualche addetto. Per questo, a parità di compiti, un garzone assunto in modo occasionale veniva retribuito tendenzialmente meno di un operatore più assiduo: il salario quindi, soprattutto in corrispondenza di bassi livelli di specializzazione, non era necessariamente collegato alle capacità tecniche del lavoratore, ma veniva stabilito da Girolamo sulla base del rapporto diretto, della conoscenza e fiducia reciproca, che difficilmente si presentava coi collaboratori occasionali. Questo fatto è confermato se confrontiamo il compenso di due garzoni, Antonio e Prospero, assunti dal Talducci per svolgere le stesse funzioni in un breve periodo di tempo: il loro salario giornaliero era sostanzialmente identico, pari a sei soldi e sei denari. Il discorso si ribalta nel caso dei maestri che – indipendentemente dal tempo che dedicavano al lavoro in una singola bottega – ottenevano, date le loro competenze superiori e il loro pieno inquadramento all’interno di una corporazione di mestiere, retribuzioni sensibilmente più alte. Facciamo un ultimo accenno alle modalità con cui Girolamo pagava i propri lavoratori in bottega. Il contante era la forma più comune di liquidazione, la ritroviamo in circa il 60% dei casi. Non erano infrequenti i pagamenti in natura, che potevano consistere negli stessi prodotti fabbricati dalla calzoleria o in generi alimentari (frutta, verdura, carne, formaggi, ma anche grano o olio provenienti dai terreni dei Talducci) o ancora in indumenti che Girolamo procurava ai lavoranti. La retribuzione in natura copriva circa il 24% del totale. Il restante 16% consisteva in compensazioni di debiti verso terzi che il Talducci saldava in nome dei garzoni o dei maestri alle sue dipendenze. La paga era corrisposta usualmente con cadenza settimanale, ma non mancavano richieste, solitamente accordate, di anticipi sul salario della settimana successiva. Ma quali erano i prodotti che uscivano dalla bottega di calzoleria? Anche se il tardo medioevo vide lo sviluppo di un certo gusto nel vestire 153 presso le classi più agiate della società, con la conseguente nascita di nuove fogge di abiti e calzature, l’azienda Talducci pare fosse legata a linee sobrie, semplici e tradizionali, adatte a una clientela non troppo sofisticata abitante in città o proveniente dalle vicine Firenze, Vernio o Pistoia. I prodotti maggiormente richiesti erano le “scharpette” o “caligae”44, che sappiamo essere in uso dai primi decenni del Quattrocento. Questo tipo di calzatura fasciava il piede modellandosi sulle sue forme e presentava una tomaia di stoffa (panno di lana, lino o velluto) sopra una suola di cuoio. I bordi erano spesso colorati o rovesciati e talvolta decorati da fermagli che la bottega produceva in proprio45. La calzoleria fabbricava anche le “calze solate”, un lusso signorile all’epoca soggetto alle provvisioni delle leggi suntuarie che le proibivano alle fasce sociali più basse. Si trattava appunto di calze, alle quali veniva applicata una suola di cuoio che le rendeva parte integrante dell’abbigliamento e non un indumento intimo. Prima del Cinquecento, le calze, “solate” o meno, erano separate e i due “gambali” erano allacciati individualmente al farsetto. Solo successivamente i “gambali” vennero uniti a formare una specie di braca attillata. Sotto le calze era uso indossare i “chalçetti”, realizzati in tessuto di lino, aventi la funzione di riparare il piede. Girolamo acquistava la stoffa di lino necessaria da un tale monna Piera46. Un altro modello molto in voga nel Quattrocento prodotto dalla bottega Talducci era la “pianella”47. Si trattava una calzatura specifica per le donne, come recita un verso attribuito a un anonimo poeta del Quattrocento: “Più d’ un palmo le pianele per la tera vui portate, per parer maior e belle quando per la via passate”48. Si trattava infatti di scarpe di broccato o velluto dai tacchi sollevati su vari strati di cuoio e di stoffa più volte ripetuti. Altrettanto eleganti erano gli “zoccoli”, confezionati con pelle finissima e non di rado decorati, con la suola di legno assicurata al piede da strisce di cuoio. Questo era un capo essenzialmente maschile, al pari delle scarpe cosiddette “a becco d’anitra”. Una particolare lavorazione, che richiedeva la collaborazione tra sarto e calzolaio, era prevista per le “scharpette risuolate” in panno di velluto e seta colorati, dotate di suola rigida di cuoio che le rendeva simili alle calze solate. Dalla metà del Quattrocento, al di sopra delle calze, si portavano spesso anche degli stivali – i “cossali” – anche questi piuttosto attillati e a volte 44 Le “caligae” erano in origine calzature militari dotate di legacci per essere fissate alla caviglia e ai polpacci utilizzate dai legionari romani. In epoca medievale il termine assunse un significato più generale di scarpa con suola di cuoio. 45 ASPo, Ceppi, 1303, cc. 19s, 75s. 46 Ibid., cc. 41d, 60s. 47 Ibid., c. 113s. 48 T. Casini, Studi di poesia antica, Città di Castello 1913 (Lapi), p. 142. 154 Un calzolaio del Quattrocento: Girolamo Talducci. Francesco Ammannati riccamente decorati. La calzoleria Talducci ne produceva sporadicamente, per una clientela particolarmente sofisticata49. In conclusione, tentiamo un pur approssimativo calcolo della produzione della bottega di Girolamo negli anni dal 1467 al 1472, ottenuto elaborando i dati desunti dai registri. È difficile presentare un dato preciso dell’output complessivo, poiché alcuni semilavorati che venivano impiegati nella fabbricazione delle scarpe, come le suole e le tomaie, erano acquistati presso terzi di cui veniamo a conoscenza attraverso l’esame dei libri contabili dell’azienda. Una parte di questi semilavorati, inoltre, non entrava in produzione ma veniva venduta ad altri calzaturifici. Ci limiteremo quindi a proporre una stima delle scarpe confezionate. I dati mostrano un andamento altalenante lungo il periodo considerato, oscillando da circa 45005000 manufatti negli anni 1467, 1468, 1471 a meno di 1700 del 1470. Combinando questi dati col numero annuale dei lavoratori impiegati nella bottega nello stesso periodo, che scivola dai 12 del 1467 ai 3 del 1472, tra i quali non figura nemmeno un maestro, possiamo immaginare come l’interesse per l’attività artigianale di Girolamo stesse progressivamente diminuendo, in linea col rallentamento della produzione. 49 ASPo, Ceppi, 1303, c. 108s. 155