un tour estivo intorno alla riserva di biosfera “urban mab unesco”

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un tour estivo intorno alla riserva di biosfera “urban mab unesco”
UN TOUR ESTIVO INTORNO ALLA RISERVA DI
BIOSFERA “URBAN MAB UNESCO” COLLINAPO
ALLA SCOPERTA DEI PAESAGGI TORINESI TRA
AGRICOLTURA, NATURA, STORIA, FLORA, FAUNA, PAESAGGIO, BENI
ARTISTICO CULTURALI E TRADIZIONI
Nel 2012 nasce il geomarchio di territorio CollinaPo, una iniziativa del Parco regionale del Po e Collina torinese che muove
i suoi passi da una semplice constatazione: i singoli beni, i singoli monumenti e paesaggi che distinguono il territorio fra Po
e collina torinese intorno a Torino, possono diventare una opportunità di richiamo turistico e marketing territoriale se
inanellati in un unico palcoscenico unitario, somma di tante locali eccellenze e possono ambire complessivamente a un
riconoscimento mondiale UNESCO come quello proposto dal Programma MAB Man and Biosphere. E’ nato quindi,
grazie a varie expertise un progetto di promozione integrata, che comprende un vasto comprensorio, che ha un valore di
scala regionale e non solo, e per tale ragione nel 2014 viene candidato nella lista delle Riserve della Biosfera del MAB
UNESCO e portato poi con successo a Nomina nel 2016 con il supporto di Istituto SiTI e Gruppo IREN a cui si sono
poi aggiunti Smat e GTT, insieme a un centinaio di Soggetti Partner.
In questa prima estate, dopo il riconoscimento ricevuto il 19 marzo 2016 in occasione del congresso Mondiale
delle Riserve UNESCO a Lima, ecco una prima proposta per un “Un Tour in CollinaPo” che lanciamo in
occasione dell’appuntamento finale con il Superga Park Tour - domenica 11 settembre ore 13,30 presso la Stazione
Dentera Gtt a Superga - al quale vi aspettiamo per approfondire con tanti Ospiti prestigiosi il tema “Uomo,
Natura e Creatività” con l’apertura lavori a cura di Valter Giuliano, Presidente Parco del Po e Collina Torinese.
A metà luglio 2016 abbiamo infatti proposto ai Comuni di segnalarci entro fine agosto 2016 ciò che loro ritenevano essere
il loro fiore all’occhiello. I focus proposti erano: PUNTO 1Specie di flora e fauna autoctona, luoghi ameni, parchi e spazi
verdi, aree agricole e boschive di particolare interesse. PUNTO 2 Aree archeologiche e rurali, beni architettonici e culturali
di rilievo, strutture turistico ricettive con forte componente naturalistica/ambientale. PUNTO 3 Dimore, musei, mostre e
manifestazioni flori agroalimentari, green, storico, sacro religiose, artistiche o culturali filologicamente accreditate al luogo.
PUNTO 4 Prodotti tipici, artigianato, design e produzione km0, bio, eco-friendly, sostenibile, circolare, sistemica Ed ecco
quindi il risultato, anche grazie a coloro che hanno risposto inviandoci materiali e spunti dopo la prima
assemblea tenutasi il 30 giugno alla sede della Riserva alle Vallere di Moncalieri.
Questo viaggio propone una prima campionatura “focus” su una porzione degli 85 Comuni coinvolti nella prestigiosa
nomina UNESCO. Godiamoci dunque questo primo tour estivo intorno alla Riserva di Biosfera Mab UNESCO Collinapo
tra agricoltura, natura, storia, paesaggio, flora, fauna, beni artistco-culturali e tradizioni. Dalla Real Basilica di Superga, la
Vetta, lo sguardo spazia sul territorio che descriviamo in un sentiero che segue il Po e i suoi affluenti. Acque che ci aiutano
a esplorare le ricchezze intorno a quella che era il capoluogo della produzione industriale oggi riconvertita in mille altre
funzioni toccando le tipicità dei Comuni che hanno messo in valore le loro eccellenze. Paesaggi e scenari tra piane e
colline, città, borghi, aree coltivate e boschi. Seguendo le acque del Po che giungono dal Monviso nell’area a sud Torino le
prime tappe sono a Carignano, Carmagnola e Poirino e alla sua sinistra i territori lungo il Sangone con Orbassano.
Dove sorge la città e l’area urbana di Torino ecco Moncalieri, San Mauro torinese e Gassino torinese, posti ai piedi
della Cresta collinare dove sorgono Sam Mauro To.se, Baldissero torinese e Pecetto. Il Po continua verso oriente e
incontriamo il Chivassese con Castagneto Po, Chivasso, Brusasco e San Raffaele Cimena, mentre più a nord
confinano con il canavese Rondissone e Volpiano. Una Cicogna in volo ci conduce ancora più a est dove incontriamo i
Comuni di Aramengo, Verrua Savoia e Monteu da Po e dall’alto scollinando scendiamo a Piovà Massaia, per poi
incontrare il Chierese con Passerano Marmorito, Marentino, Chieri e Moncucco, paesaggi che dialogano con
l’astigiano, dove domina il Tanaro, che incontra il Po a Valenza proprio alla fine della Collina che un tempo emergeva, da
Torino alla Città dell’Oro, da un grande mare 5 milioni di anni fa.
Buon viaggio tra alcune eccellenze della Riserva della Biosfera Mab UNESCO CollinaPo!
Si ringraziano i Comuni che hanno risposto alla proposta e vari Autori delle immagini riprodotte.
Appuntamento con il Parco, domenica 11 settembre ore 13,30-15,30 presso la Stazione Dentera GTT a Superga.
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Raccolta testo, redazione documento ed elaborazione a cura di Monica Nucera Mantelli
Progettazione culturale, facilitazione reti, eventi, mkt territoriale e comunicazione. Riserva Biosfera CollinaPo - Programma MAB UNESCO
PRESS: [email protected] cell +393665612917 o cell +39 3356616255
A SUD SI TORINO
Lungo lo scorrere del Po ecco la tappa inziale: la bella Carmagnola – un altro
dei Comuni della Riserva di Biosfera MAB UNESCO CollinaPo. Il carattere sabbioso del suolo ha reso la sua piana poco
adatta alla coltivazione del frumento, ma molto adatta ad una coltivazione che costituì la ricchezza della località: la canapa
(nei secoli scorsi e fino all'affermarsi delle tecnofibre la canapa era indispensabile per la marina, per le vele e soprattutto le
gomene) di cui Carmagnola diventò il centro non solo di coltivazione, ma anche delle fasi di lavorazione e commercio verso
la Liguria e la Francia, soprattutto Marsiglia, e poi naturalmente del peperone, che quest’anno porta alla 67^ edizione di
“Peperò –Sagra del Peperone” (da venerdì 26 Agosto a domenica 4 Settembre) un vero e proprio Festival che propone
dieci giorni di eventi gastronomici, culturali, artistici oltre ad esperienze creative e coinvolgenti per tutti i sensi e per tutte
le fasce di età. Star della kermesse, ovviamente, il peperone, solanacea esotica giunta in Europa dal Perù alla fine del XVIII
secolo, ma che fin dall’inizio del Novecento– grazie all’ ambiente pedoclimatico ideale del Carmagnolese – viene introdotto
e coltivato nella zona da Domenico Ferrero di Borgo Salsasio. E’ presente ad oggi sul mercato nelle quattro varietà locali:
Quadrato di Carmagnola, adatto al consumo crudo, ripieno e per preparazioni al forno; Lungo o Corno di bue, ideale per
la peperonata e la conservazione; Trottola, con punta leggermente estroflessa o con punta troncata, versatile in tutte le
preparazioni culinarie; Tomaticot, ibrido di forma tondeggiante schiacciata ai due poli, la cui forma compatta e la polpa
spessa lo rendono adatto alla preparazioni di antipasti e alla conservazione. Il tutto all’insegna dei requisiti di qualità, tipicità
e genuinità garantiti dal Consorzio del Peperone, creato nel 1998 da Coldiretti e Comune di Carmagnola. Quest’anno in
occasione della Sagra, nella Chiesa di San Filippo e nei Giardini di Carmagnola vengono proposti laboratori in lingua inglese
per bambini sui temi della natura e dell’orticoltura a cura della Scuola di Lingue Internazionali Language Connection.
Tradizione invece, con eccellenze locali e dei vari territori italiani, in Piazza Mazzini e Piazza Bobba. Nei giardini del Castello
c’è la “Cascina Piemonte” mentre lo Street Food è protagonista di Piazza Raineri e Piazza Bastioni, con ricette e
preparazioni adatte anche per celiaci – evviva l'attenzione alle intolleranze e allergie alimentari !!! - da gustare sia seduti a
tavola che passeggiando, ascoltando musica ed assistendo agli spettacoli. E per non farci mancare nulla, ora parliamo di
fauna: l’area fra Carignano e Carmagnola è anche il territorio dove è stato avviato - ed in parte computo - il percorso di
riqualificazione delle attività estrattive presenti di sabbia e ghiaia. Grazie al Parco regionale del Po e Collina Torinese sono
infatti proseguite le attività di scavo nei territori delle cave, ma contestualmente al recupero di tanti ambienti naturali e di
aree umide lungo il Po, permettendo a tante specie, in particolare di avifauna di fare ritorno negli ambienti acquatici della
piana fluviale di questo straordinario corridoio ecologico che è il nostro grande fiume. Dall’Airone rosso, al Gruccione
passando per il Topino, la Rondine del Po e tanti piccoli passeriformi
come le Cince, i Fringuelli e i simpatici Cannareccioni e Cannaiole che
vivono appunto negli ambienti dei canneti. Non mancano poi le
anatre di superficie come Germani reali, Mestoloni, Alzavole per
arrivare a rari passaggi come quelli delle anatre Volpoche. Tutti
animali che non sono al vertice della catena alimentare come invece i
rapaci, che anche qui cacciano, dal Gheppio, allo Sparviere fino al
Falco di Palude o all’Albanella di passo nelle stagioni delle migrazioni.
Oltre 400 ettari di aree emerse riqualificate in un territorio che va
Pancalieri fino a Moncalieri. Canneti, lanche, saliceti di ripa e boschi
ripariali sono quindi ambienti che sono stati conservati anche grazie
agli investimenti fatti dalle società estrattive guidati dal Piano d’Area
del Parco. Questi progetti sono stati anche alla base dell'evoluzione
della pianificazione che con il Masterplan Po dei Laghi ha proposto al
territorio una ulteriore fare si maturazione dello strumento a scala
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territoriale più vasta. l'Ente di gestione del parco del Po torinese ha attivato un progetto per individuare le forme future di
destinazione d'uso e di gestione di un'area che si colloca a sud di Torino e che interessa le sponde del Po. E infine parliamo
di come fino a circa 6-7000 anni fa tutta la Pianura Padana era ricoperta da una grande foresta interrotta solamente da
imponenti fiumi e zone paludose. La presenza di ampi residui di questo antico
bosco è ben rappresentata nei documenti di vari periodi storici legati all’area e
qualche piccolissima traccia è anche giunta sino ai giorni nostri. Nella pianura
Sud di Torino, poco oltre il confine cuneese, possiamo renderci conto di come
poteva essere quest’area boscata passeggiando tra le querce ed i biancospini del
Bosco del Merlino. Più consistenti sono gli esempi che si trovano nel vercellese
(Bosco della Partecipanza di Trino) o presso Mantova (Bosco Fontana). A
partire dal 1987 l’Amministrazione della Città di Carmagnola ha cercato di
ricreare un lembo di questa foresta originaria sulla sponda destra del Po di
Carmagnola, nell’area denominata Gerbasso, su fertili terreni comunali in
precedenza coltivati. La ricostruzione del querco-carpineto è avvenuta in fasi
diverse, prevalentemente 4, ed attualmente il bosco, incluse alcune aree volutamente tenute a radura, copre una superficie
totale di circa 180.000 m2. Sul bordo settentrionale del querceto, verso il corso del Po e nel suo letto di piena, si trova
un’altra ampia area di circa 90.000 m2, in parte piantata a salice e pioppo bianco, in parte ricoperta da arbusti spontanei.
Nell’impianto del bosco del Gerbasso, sulla base delle ricerche preventivamente realizzate sui piccoli lembi di bosco relitti
del Piemonte occidentale, sono state utilizzate 15 specie arboree, 15 arbustive e 26 specie di erbe nemorali. E’ stato anche
predisposto il trasferimento di fogliame marcescente ed humus, in modo da facilitare l’introduzione della microfauna legata
al sottobosco ed agli strati di terreno più superficiali. La ricostruzione del bosco tipico della Pianura Padana, inteso come
il ripristino di un ecosistema complesso ed articolato, è in grado di riportare in quest’area della pianura, così pesantemente
sfruttata ed impoverita da tempi immemorabili, la massima diversità biologica possibile.
Fa da contraltare sulla sponda opposta del Po l'elegante Carignano, le cui
evidenti tracce medioevali accolgono il visitatore col fascino intatto di tempi di grandezza politica ed economica risalenti a
quando la Città (titolo concesso dal duca Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1683) primeggiava nel territorio piemontese.
Chiese e palazzi, dai ricchi decori e dall’estrosa architettura, punteggiano la cittadina, inserendosi senza interferire nella
visione unitaria del centro medioevale. Tra le maestose costruzioni ad opera di ingegno ed estro umano non comune, la
chiesa monastica di S. Giuseppe, opera dell’architetto ducale Carlo Emanuele Lanfranchi; la Chiesa dello Spirito Santo con
gli straordinari affreschi dei fratelli Gioannini di Varese; il Duomo, dedicato ai S. Giovanni Battista e Remigio vescovo,
capolavoro assoluto di Benedetto Alfieri (Primo architetto del Re di Sardegna Carlo Emanuele III di Savoia), la cui
spettacolare navata accoglie opere d’arte realizzate dai maggiori artisti del ‘700, attivi in quasi tutti i cantieri di corte;
l’Ospizio di Carità, grande opera dell’arch. Bernardo Antonio Vittone. Nella campagna verso Virle, spicca la grande mole
del santuario del Valinotto (nella foto), anch’essa pregevole architettura di Vittone, che trasforma la luce in un elemento
architettonico nella meravigliosa e complessa cupola che vale una visita in assoluto. Pregevole l'attività svolta intorno agli
Itinerari de “La Città del Principe” promossa dall’Associazione Progetto Cultura e Turismo, legati alla presenza della casata
principesca dei Savoia-Carignano e dell’antica nobiltà piemontese, che consentono la visita ai centri storici di ben dieci
municipalità in cui sono conservati splendidi edifici pubblici e privati in gran parte di committenza nobiliare o di un clero
colto e aggiornato sulle novità artistiche. Si va dalla pieve romanica di Piobesi Torinese ala grande fabbrica rinascimentale
del Castello Della Rovere di Vinovo, dalla parrocchiale barocca di Osasio alla chiesa confraternale di S. Bernardino in
Pancalieri, dagli altorilievi di Amedeo Lavy, allievo di Antonio Canova, nella parrocchiale di Castagnole Piemonte, al
neoclassico della Chiesa della Madonna dei Dolori a Borgo Cornalese di Villastellone, dalla grandiosa abbazia di Casanova
a Carmagnola ai grandiosi palazzi di Virle Piemonte, agli arredi raffinati della Chiesa dell’Immacolata a Lombriasco. Se la
curiosità non è carente, ce n’è veramente per tutti i gusti.
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Altro che acqua in bocca….Assaggiatela! Da Poirino, uno dei Comuni della Riserva di
Biosfera Mab UNESCO CollinaPo un'altra squisita eccellenza del territorio: la «Tinca Gobba Dorata del Pianalto di
Poirino». Il prodotto si caratterizza rispetto alle altre tipologie di Tinca poiché non denota al gusto e all'olfatto il sapore di
«fango» o «erba» e le carni sono tenere. Questa peculiarità è direttamente determinata dal tipo di gestione delle peschiere
che si distinguono rispetto alle altre perché in esse il fondo melmoso non riesce a formarsi con continuità e la massa d'acqua
presenta condizioni estremamente variabili per gran parte della stagione produttiva, impedendo l'instaurarsi delle condizioni
favorevoli alla proliferazione delle alghe. La presenza della Tinca Gobba Dorata del Pianalto di Poirino (autoctona)
conosciuta ed apprezzata per il suo valore alimentare ed economico è inoltre comprovata da documenti risalenti al XIII
secolo che attestano come tra le tante tasse che affliggevano la popolazione rurale di Ceresole d'Alba una imponesse la
consegna di quantitativi variabili di tinche!!! Appuntamento in loco a maggio per la Fiera e prima nei ristoranti del luogo.
DA OVEST ARRIVA IL SANGONE
Nella pianura a ovest del Po e lungo il
Torrente Sangone, sorge Orbassano città
dello sviluppo economico ma anche della campagna in via di
recupero. Un territorio dove la tradizione sopravvive come nel
Castello del Drosso, il complesso costituito da un castello fortificato
e da due cascine di pertinenza, la Torta già Gromis ad est e la Perino
già Robilant a nord. Uno spazio agricolo e fluviale di circa mezzo
chilometro quadrato le cui origini rimandano ad una antica Grangia
cistercense nata sulla corte quadrata di una più antica villa romana.
Fra il terzo e il quarto decennio del XII secolo giungono presso il
Drosso i monaci di Staffarda, abbazia cistercense fondata nel 1138 a
Revello. L’operosità cistercense crea prosperità: vi stabiliscono una
sede produttiva per diverse attività, fra le quali la sartoria, la conceria,
la mascalcia, la calzoleria, il mulino e il forno, attività che, unite all’allevamento e all’agricoltura, costituiranno una vera e
propria azienda agricola, definita grangia. I monaci, necessitando dunque di nuovi spazi, costruiscono ulteriori edifici
annessi, depositi agricoli costituiti da pali di legno infissi nel terreno e coperture di paglia, che si trasformeranno nei secoli
nelle odierne cascine. Un destino che poi cambia sul finire del Duecento quando il tracollo finanziario dell’abbazia che
costringe i monaci a vendere definitivamente la grangia di Drosso al torinese Corrado di Gorzano, castellano di Moncalieri.
Sono poi i nuovi proprietari, i Vagnone, che si adoperano per la fortificazione dell’edificio fino a trasformarlo in un castello,
così come appare parzialmente oggi. Il grande complesso fondiario viene
dichiarato a catasto dal Comune di Torino soltanto nel 1464, occasione in
cui esso viene indicato sia come «grangia Droxii cum ayralibus et viridariis […]
fossati set fortalitiis circumcircha» sia come «castrum seu palacium sive locus Drozii».
Nel XV secolo attorno al castello sorge il “ricetto”, termine che designa
un’area fortificata destinata alla protezione degli abitanti e dei prodotti
agricoli nei momenti di emergenza. Dopo altri passaggi di proprietà, che
testimoniano anche la continua parcellizzazione delle antiche proprietà
unitarie nel torinese nel 1539 Guglielmo Gromis di Trana, generale delle
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finanze sotto i Duchi di Savoia Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele e Consigliere di Stato, acquista gran parte della
proprietà del castello. Per un secolo il castello cessa di far parlare di sé, diventando residenza di campagna delle nobili
famiglie proprietarie che frequentano la corte ducale della vicina reggia di Miraflores, distante pochi chilometri verso est,
in riva al Sangone. La vicinanza col castello di Mirafiori mette in ombra il castello del Drosso che viene così risparmiato
dalle truppe che nel 1640 partecipano alla guerra civile fra Tommaso di Savoia e Madama Reale Maria Cristina di Francia.
La guerra sfiora di nuovo le antiche mura del Drosso durante l’assedio di Torino del 1706: l’edificio era infatti situato
all’estremità meridionale della linea di circonvallazione ed è coinvolto in sporadiche azioni belliche durante l'assedio stesso.
Orbassano però accoglie anche esempi della contemporaneità, dove le attività del design e dell’artigianato di eccellenza
aprono il dialogo con il territorio come la recete operazione Casa Format. Dalla Credenza di San Maurizio Canavese, alla
cucina d'autore democratica del risto & bistrot all’interno di Fiorfood Coop a Torino “cucina stellata alla portata di tutti”
dove CollinaPo ha presentato la Riserva di Biosfera nel centro di Torino in occasione di Contemporary Art 2015, la premiata
ditta Giovanni Grasso e Igor Macchia triplica l'offerta con Casa Format. Un nuovo tassello questa volta a due passi dal
Sangone, la terza via al piacere del gusto (e non solo) fatta di “cucina e ospitalità responsabile”. Gli ingredienti sono una
campagna tranquilla alle porte di Torino - a pochi minuti dalla Palazzina di Caccia di Stupinigi, residenza sabauda
Patrimonio dell’Unesco con ampio parco; un’azienda di mobili di design votata all’architettura sostenibile; una coppia di
collaudata esperienza in fatto di cucina d’eccellenza come
Grasso&Macchia che hanno dato la linea; e una nuova coppia operativa
di giovani talentuosi: lo chef Stefano Malvardi e il maître Alessandro
Gioda, entrambi ex del ristorante torinese Q.B. - Quanto Basta; più un
manipolo di altri giovani motivati, al lavoro nella cucina a vista. Una
proposta che prende sede in un edificio di lineare semplicità a metà fra un
museo contemporaneo e la villa di un archistar. Interamente in legno,
totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico, ultraluminosa e
minimal, nei colori e negli arredi. L’idea di fondo è riportare la cucina alla
sua dimensione di mestiere artigianale, con buona pace degli eccessi di
genialità creativa accompagnata dall’orto e dalla cultura a chilometro zero
e da molta filosofia green. Ma la novità più grande è l’orto: 2000 mq
riservati alle verdure per una cucina al ritmo delle stagioni: Igor Macchia ne ha fatto la “sua” creatura e progetta una
autosussistenza anche più ampia in futuro per la frutta e (perché no?) le carni con un pollaio. Infine un distaccamento
dell’orto grande è la serpentina di piante aromatiche che raggiunge lo spazio eventi, decorativa ma anche produttiva!
IN CITTA’: Approdiamo ora a Moncalieri nell’area del Po più urbana e delle città, dove
ogni anno, il secondo sabato di luglio, si celebra il Patrono Beato Bernardo (morto il 15 luglio del 1458) con una
rievocazione storico-religiosa, seguita dalla processione/fiaccolata con l’Urna delle reliquie fino alla chiesa del Beato
Bernardo di Baden in Borgo Aie. Si ripropongono, in una intensità religiosa, gli eventi del XV secolo legati alla figura del
principe di Baden Baden (con cui Moncalieri è gemellata) il quale morì in tale città, alla periferia di Torino sulla strada per
Genova, da cui era di ritorno come ambasciatore per trattare l’alleanza della flotta genovese con quella veneziana contro il
pericolo turco. La storia gli attribuisce la guarigione di un certo Giorgio Corderio, ciabattino, storpio, che rivolgendosi a lui
durante la cerimonia funebre, venne risanato all’improvviso. La devozione al Beato Bernardo è iniziata a Borgo Aie più
di un secolo fa, come si può vedere dallo “Statuto della Società di Patronato per la Festa annua del Beato Bernardo”. Per
molti anni si rese omaggio alla sua statua, che è tutt’ora conservata nella chiesa del Beato Bernardo, mentre l’urna contenente
i resti del Principe Bernardo è conservata nella chiesa della Collegiata di Santa Maria della Scala. La processione, che
coinvolge più di quattrocento figuranti in costume d’epoca (con cavalli, cavalieri, nobili, notai, damigelle, popolani, frati e
prelati), si snoda lungo i tre chilometri del percorso. I personaggi vengono suddivisi nelle quattro casate di nobili del tempo
con sindaci e notai, quindi gli armigeri e le damigelle; infine i popolani. Dopo la rievocazione, il corteo si muove da Piazza
Vittorio Emanuele (di fronte al Municipio) percorrendo Via Santa Croce, Viale Porta Piacentina (antica porta moncalierese),
Via Tenivelli, Strada Genova, Strada Villastellone, Via Don Minzoni, per concludere nel piazzale antistante la chiesa del
Beato Bernardo. Alcune "scene di vita", lungo il percorso, ci fanno tornare indietro nel tempo. All’incrocio con l’attuale
Strada Villastellone, dove l’antica tradizione popolare vuole che il principe Bernardo cadesse da cavallo stremato dalla peste,
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è presentato un quadro vivente che rappresenta la scena. La processione ha da alcuni anni è vissuta come una grande
manifestazione di fede e preghiera, accompagnata da canti e invocazioni. La festa liturgica del Patrono veniva solennizzata
nel centro storico il 15 luglio. L’ultimo fine settimana di luglio la Società del Beato Bernardo organizzava una duplice
processione: il sabato sera il “corteo degli uomini” partiva dalla piazza del Municipio e raggiungeva la cappella dedicata al
Beato (ora rasa al suolo) su Strada Genova. La domenica mattina tutto il popolo, con la banda musicale, rifaceva lo stesso
percorso portando fiori. I festeggiamenti venivano fatti nelle vicinanze della cappella di Strada Genova. La domenica c’era
il grande Ballo Pubblico in prossimità di Piazza Failla e, nel cortile del “Leon d'oro” venivano fatti i giochi per i bambini.
Tutto questo fino al 1964, anno in cui veniva
inaugurata la chiesa parrocchiale dedicata al
Beato Bernardo di Baden. Dopo il 1964, la
processione percorreva le vie di Borgo Aie
partendo dalla nuova chiesa e facendovi
ritorno. Memorabili le prime processioni di
don Silvio con la statua del Beato lungo
“l’autostrada dei pomodori” (così chiamava
l’attuale via Don Minzoni, allora attorniata da
campi coltivati). Nel 1987 la processione fu
integrata da un folto gruppo di figuranti con
costumi del Quattrocento. Poi, i responsabili
della Società del Beato Bernardo chiesero al parroco della Collegiata don Paolo Alesso il permesso di sfilare per le vie della
città con l’Urna contenente le reliquie del Beato. Il permesso fu concesso e dal 1988 iniziò così l’usanza di portare in
processione le reliquie del Patrono fino alla chiesa a lui dedicata.
Di Moncalieri però non si può non citare il suo poderoso Castello, già Sito UNESCO, e il suo contesto di verde di pianura
e collinare in cui distendere l’anima e riprendersi dalle corse dello stress quotidiano, assaporare emozioni e scoprire nuovi
posti, vivendoli in modo sostenibile, magari proprio nel Parco Le Vallere, una delle due sedi operative del Parco del Po e
Collina Torinese che ha candidato il comprensorio CollinaPo a Riserva di Biosfera MAB UNESCO. E per chi ama
girovagare, segnaliamo, proprio a fianco all’ingresso del parco Le Vallere la nuovissima area Camper GrinTO – a breve con
anche Ristorante attento alle intolleranze alimentari – guidato nella sua filosofia imprenditoriale da tre parole chiave:
Landscape: visitare una città per viverla a 360 gradi, Leisure: divertirsi, stare bene, possibilmente nella natura, Learning:
vivere un’esperienza che porti nuove conoscenze/ esperienze. Il tutto in modo Sostenibile, come piace al Mab UNESCO!
Eccoci dall’altro capo del Po in Torino al
complesso dell’Abbazia di Santa Maria della
Pulcherada di San Mauro Torinese che vanta
importanti preesistenze architettoniche e pittoriche, risalenti all’anno
1.000 d.C. e culminanti col ciclo di affascinanti affreschi riferito al Cristo
Pantocratore. Le indagini preliminari, i lavori e i primi restauri terminati
nel 2013 dal Consorzio San Luca hanno evidenziato la presenza di un
ambiente ipogeo nella parte sottostante l’attuale abside, e chiaramente
identificato dalla presenza di un articolato complesso di archi e volte in
muratura, probabilmente risalenti all’epoca medievale. Tali ritrovamento
lasciano ipotizzare un analoga struttura in corrispondenza dell’attuale
chiesa della Madonnina, attualmente non ancora toccata da restauri e ad
oggi necessitante di ingenti lavori di ripristino. La scoperta di tali elementi ha destato l’interesse della comunità scientifica
torinese e di alcuni tra i più importanti esperti di storia medievale europei, al punto da costituire un Gruppo permanente di
Lavoro sulla Pulcherada, finalizzato allo studio ed alla valorizzazione del
complesso abbaziale, del quale fanno parte: esponenti delle
Soprintendenze a cui è affidata la tutela dei beni storici vincolati; esperti e
tecnici di istituzioni pubbliche e private operanti dell’area metropolitana
torinese al lo scopo di salvaguardare i beni culturali, artistici ed
architettonici; esponenti della comunità locale sanmaurese e docenti e
professori dell’Università di Torino e del Politecnico di Torino coordinati
dal Prof. Luigi Romano e dall’allora Servizio Opere Pubbliche
dell’Assessorato all’Urbanistica del Comune di San Mauro Torinese. Il
complesso abbaziale della chiesa di Santa Maria della Pulcherada
Pulcra+Rada = Bella Riva del fiume Po ndr), parrocchia della Diocesi di
Torino dal 1803, adibita a luogo di culto e ad oratorio, è stata da tempo
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inserita nel circuito dei beni culturali, naturalistici e territoriali del geomarchio "CollinaPo" della Riserva di Biosfera Mab
UNESCO del Parco regionale del Po e Collina torinese. La Pulcherada, fondata presumibilmente nel periodo della
dominazione franca, ovvero tra il 773 e l’875 d.C., si colloca quindi non solo come monumento di pregevole contenuto
artistico grazie ad affreschi millenari “di una straordinaria, eccentrica visione celeste sul Cristo Pantocratore” (Costanza
Segre Montel), ma anche come bene storico-architettonico di «appeal» per promuovere il territorio con il marchio comunale
promosso dalla Proloco Sanmaurese “I Love Pulcherada”. “La chiesa è appartenuta al complesso abbaziale benedettino
di San Mauro, citato per la prima volta nella documentazione scritta nel 991 d.C., ma si ignora l’anno preciso della
fondazione dell’Abbazia. Probabilmente l’edificio sorgeva dove esistevano importanti costruzioni romane ruinate di un
vicus o pagus oppure di una villa, sopra la strada romana che fiancheggiava la sponda destra del Po, collegante villaggi e
città come Industria (Monteu da Po) e Cavagnolo. È un dato storicamente accertato quello della sua distruzione nel periodo
delle incursioni saracene, tra il 937 e il 954. Solo nel 991 i monaci poterono ritornare nel complesso, riedificato grazie
all’opera del marchese del Monferrato Anselmo I e donato al monastero di Spigno presso Acqui. Nel 1029 il monastero
venne assoggettato da Manfredo II e da suo fratello Olrico, Vescovo di Asti, al monastero di San Giusto a Susa ed in
seguito eretto in abbazia nel 1159" (Cuniberti, 1970). I benedettini mantennero la proprietà fino al 1603. Nel 1665 l’Abate
Commendatario Aghemio Petrino, canonico della Metropolitana di Torino, decise di trasformare radicalmente la
distribuzione dello spazio religioso nella forma attuale. Durante la prima fase di restauri attuati dal Consorzio San Luca è
venuto alla luce, nel catino absidale, un ciclo di affreschi coevo - secondo gli storici dell’arte - alla sottostante Crocifissione:
al centro del catino absidale vi è l’imponente figura di Cristo Pantocratore in mandorla, assiso in trono nell’atto di benedire
con la mano destra e con il volume del Vangelo nella sinistra, ai lati un coro di angeli e arcangeli con a sinistra la figura della
Vergine e a destra quella di san Giovanni; alla base del catino vi è una fascia con una scritta che verosimilmente loda il
Pantocratore e della quale si leggono ora solo le seguenti lettere a carattere capitale: “..S ...VS MITIS PIUS ARBITER
AEQUUS … …VO LIGO … … …(E)NTES (…)EBITA MORES ASTANT MAGNIFICAN(T) …“. A delimitare
la scena dell’empireo vi è una grande fascia istoriata che borda l’arcone, di cui è ancora chiaramente leggibile un Sacrificio
di Abele e alcuni riquadri con clipei e motivi vegetali. Nel registro sottostante, ai lati della cornice in stucco barocca, si
trovano le figure frammentarie di san Pietro (a sinistra) e di san Paolo (a destra) rivolti verso il Pantocrator, mentre ai due
lati le imponenti seppure frammentarie figure di profeti, rivolte verso gli astanti, e recanti in mano un tondo con tre figurette
di anime. Sono anche state recuperate due delle tre monofore ancora esistenti (quella centrale insiste sul retro dell’affresco
barocco con l’Assunzione della Vergine) che hanno rivelato ricchi motivi geometrici lungo la spalla interna e un tondo nel
mezzo recante le scritte CLARITAS (a destra) e LUX (a sinistra)“ Esiste a documentazione del lavoro di restauro grazie un
libro edito sempre dal Consorzio San Luca sul recupero degli affreschi interni a cura dei professori Costanza Segre Montel
e Giovanni Romano e contributi di Jacopo Chiara, Alberto Crosetto, Mauro Luca De Bernardi, Cristina Lucca, Ippolito
Ostellino, Gabriella Pantò, Giovanni Romano, Costanza Segre Montel, Giuseppe Sergi, Carlo Tosco, Monica Nucera
Mantelli. Il progetto di mkt territoriale I LOVE PULCHERADA lanciato dalla Proloco del Comune di San Mauro tra il
2013 e il 2015 ha proposto nuovi modi di interpretare e vivere il complesso abbaziale della chiesa di Santa Maria della
Pulcherada in una visione olistica e interdisciplinare che ha coinvolto i vari settori della collettività e le molteplici attività
artistiche, sociali, turistiche, paesaggistiche, sportive, didattiche, religiose, museali, commerciali, storico-archeologiche e
culturali annesse al comprensorio. La Parrocchia, adibita a luogo di culto e ad oratorio, appartiene alla Diocesi di Torino
dal 1803 e l’Abbazia contribuisce a rendere San Mauro To.se uno dei luoghi paesaggisticamente più ricchi nella Corona di
Delizie dell’area metropolitana torinese inserita nel Mab UNESCO CollinaPo.
Sulla sponda destra del fiume Po, alla confluenza di tre piccole valli,
propaggini della collina torinese, ecco comparire Gassino torinese, altro
Comune della Riserva di Biosfera CollinaPo, che suscita da tempo l’interesse dei geologi, i quali hanno dibattuto a lungo
sull’età dei fossili (conchiglie e animali marini, come i crinoidi, dall’elegante forma a giglio) e in relazione alla formazione
dei suoi terreni, composti da calcare, marne e sabbie. La formazione più conosciuta, nota come "pietra di Gassino" o
"calcare di Gassino" o “marmo di Gassino”, è un calcare fossilifero, prodotto nella valle di Bardassano, dove erano attive
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le Cave di Gassino. È di colore grigio o biancastro dall'originale aspetto cromato, grazie alla presenza dei fossili, lucido e
non molto duro. Il giacimento, che si estende nella valle della frazione Bardassano, trovò largo impiego per colonne,
pavimentazioni e anche statue in molte chiese e palazzi di Torino. Del calcare di Gassino ne fecero uso famosi architetti
tra cui il Guarini, Amedeo di Castellamonte, Lanfranchi, Juvarra, Vittozzi, per la realizzazione di importanti opere. Tra
queste figurano il Palazzo di Città di Torino, la Reggia di Venaria, il Palazzo dell’Accademia delle Scienze, l’ex Ospedale
Maggiore di San Giovanni Battista, il loggiato del Palazzo dell’Università, Palazzo Carignano, il colonnato della Basilica di
Superga, le chiese del Corpus Domini, di San Filippo, della Consolata, di Santa Cristina, il colonnato del Palazzo dei
Marchesi di Barolo, la facciata di Palazzo Madama, l'altare maggiore della chiesa di Santa Teresa a Torino, il ponte
napoleonico sul Po e, a Chieri, quella della Madonna delle Grazie. Questa stessa pietra venne utilizzata anche per la chiesa
gassinese della Confraternita dello Spirito Santo, dalla singolare alta cupola, che domina dal punto più elevato l’abitato
cittadino. Edificata nel primo quarto del Settecento, a pianta centrale, con la forma di un ottagono allungato, conserva
all’interno, oltre alle decorazioni a stucco coeve alla sua costruzione, gli affreschi realizzati dal pittore Francesco Gonin nei
peducci triangolari della cupola (1829). Nel corso del tempo furono molte le famiglie di Gassino ad essere coinvolte in
questa attività. Tra le altre figurano i Vaudetti, i Gianone, i Caviglione, i Chiesa. Alcuni resti della passata attività antropica,
sarebbero ancora rintracciabili a valle della Cascina Aprile, dove sarebbe ancora presente un piazzale di cava ora totalmente
nascosto da una fitta coltre arborea spontanea, e in uno sparuto affioramento lungo la strada comunale tra Bardassano
Gassino, in prossimità di un tornante vicino a Cascina Bosco. Inoltre, la zona pianeggiante del territorio, formata da strati
di argilla e ghiaia, era utilizzata per la produzione di laterizi di buona qualità: già nel Quattrocento erano attive fornaci che
producevano mattoni ed elementi decorativi per finestre e portali, che ornano ancora oggi alcuni degli edifici più antichi:
un esempio è la monofora della casa di via Tubino (del XIV secolo), attualmente murata e affrescata con lo stemma del
Comune. Nel Rinascimento erano attive diverse fornaci che fabbricavano, oltre ai mattoni, anche ornamenti e decorazioni
per finestre e portali. Quando il duca Emanuele Filiberto di Savoia diede inizio alla costruzione della Cittadella di Torino,
e a partire dall'anno 1564 requisì per un anno tutta la produzione di mattoni fabbricata ivi e dintorni.
Il nucleo originale di Gassino Torinese è costituito da una struttura ad anello, delineato da un fossato, che indica la
prevalente funzione difensiva del luogo. L'impianto è semplice, posto su due assi ortogonali facilmente riconoscibili;
all'interno sono concentrati i monumenti più importanti della città: la chiesa della Confraternita dello Spirito Santo, una
casa del XIV secolo e il pregevole Palazzetto del
Municipio che, ancora oggi, conserva nei suoi archivi
antichi statuti duecenteschi. L'asse principale
dell'impianto urbanistico corrisponde alle attuali via
Tubino, piazza A. Chiesa, via Dovis, con pregevoli portici
a sesto acuto. Camminando per il centro storico si respira
un’atmosfera che ha cura e attenzione per il passato. Ma
Gassino non è solo geologia e storia, è anche
pianificazione del futuro: dall’estate 2016 a preso il via la
Summer School internazionale di architettura "Sewing a
small town" tenutosi anche con gli interventi del
Guardaparco del parco del Po e Collina Torinese Dino
Genovese e il docente del Politecnico Riccardo Palma: per
due settimane un gruppo di studenti provenienti da 9
paesi del mondo sono stati impegnati nell'analisi
territoriale e nell'elaborazione di alcune proposte
progettuali per i Comuni coinvolti. Un Comune anche
baciato dalla fortuna di essere da anni sede di una curiosa e simpatica coppia di cicogne, che lo hanno scelto a loro dimora.
Questi Si che è essere Urban MAB!
SALITI SULLA CRESTA COLLINARE
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Ed eccoci ora a Baldissero Torinese: era il 1609 quando l'orafo di corte, ed architetto, Giovanni
Battista Croce (noto anche come il gioielliere di “Sua Altezza Serenissima”, il Duca Emanuele Filiberto) diede alle stampe
“Dell'eccellenza dei vini e loro diversità che nella montagna di Torino si fanno e del modo di farli”, trattando anche dei
vini della sua piccola “vigna” in Valsalice. Croce cita il Cari come “Cario”, elogiandolo come vino delicato, dolce, buono
“che meglio dir si potria caro per la bontà sua”. Il Cari viene anche celebrato per le sue qualità afrodisiache, contenute nei
suoi acini: era molto di moda servirlo nelle locande della collina alle coppie di innamorati che vi salivano a piedi alla ricerca
di intimità. Quest’anno dunque da non perdere la tipica manifestazione domenica 2 ottobre a Baldissero Torinese con la
Sagra dell’Uva e del vino Cari, capace di valorizzare le origini di questa bella parte della Riserva di Biosfera, mostrando
l’eccellenza delle produzioni locali e rivisitando gli antichi mestieri del passato. Accanto alla tradizionale esposizione dei
prodotti tipici del territorio collinare del Parco Naturale di Superga, si affianca la rievocazione itinerante della mestieranza
contadina con antichi carri trainati dai buoi che animano le vie del centro paese. In quell’occasione, tanti cittadini
partecipano rispolverando dagli armadi le antiche vesti delle nonne o gli utensili delle lavorazioni agricole di un tempo. E
dopo un prodotto locale, passiamo alla trasmissione dei saperi artigiani sostenibili: occorre sapere che in passato quasi in
tutte le case contadine di Baldissero Torinese si coltivava la canapa da fibra, una pianta dalle foglie palmate e dai fiori rosamalva che ancora oggi si trova ai bordi dei prati o lungo le scarpate. La canapa si seminava sul “tarò”, cumulo di letame e
terra prevalentemente utilizzato per la fertilizzazione dei prati, qui la pianta si sviluppava sino a raggiungere, in alcuni casi i
tre metri. Veniva poi raccolta e posta a macerare nelle “tampe”, piccoli stagni
scavati nell’argilla prevalentemente allo scopo di ricavare la terra necessaria
per ottenere i mattoni utilizzati per la costruzione della casa e dove
abitualmente si lavavano i panni. Si procedeva poi all’estrazione della fibra
tramite la “battitura”, quando la fibra era asciutta, con il fuso o con il filarello
si filava, le mani esperte sapevano ottenere un filo sottile e molto resistente.
La preparazione dell’ordito, in quanto operazione complessa, veniva
generalmente affidata a persone che in questo si erano specializzate: si
forniva loro il filato e si otteneva il “subj” cioè un tondino di legno dove era
stato arrotolato l’ordito, questo veniva posto nella parte posteriore del telaio
ed i fili che lo componevano venivano ordinatamente passati attraverso il
liccio per poi essere fissati alla parte anteriore del telaio. Il telaio, così preparato, era posto in un angolo della stalla, in
quanto si tesseva generalmente in inverno e quello era l’unico posto caldo della cascina, approntata la navetta si poteva
stendere la trama ed alternativamente azionare il liccio per intrecciare i fili ed ottenere la tela. La larghezza del telaio era di
circa sessanta centimetri per cui la tela prodotta non poteva avere altezza superiore e costringeva, per la confezione delle
lenzuola a cucire più teli uno accanto all’altro, i letti erano però più piccoli degli attuali ed in genere erano sufficienti tre teli.
Il capo di biancheria ottenuto sia lenzuolo, tovaglia o altro si impreziosiva spesso con il ricamo e allo scopo le donne si
recavano dalle suore nel Convento di San Quirico per imparare le tecniche più eleganti ed elaborate.
E tra le eccellenze territoriali non si può non segnalare che proprio a Pino
Torinese vive ed opera il Maestro Leonardo Mosso ed esiste uno spazio dove sono raccolti
e ricoverati i pezzi storici dell' ISTITUTO ALVAR AALTO MUSEO DELL’ARCHITETTURA ARTI APPLICATE E
DESIGN fondato da lui. Mosso è un pezzo di patrimonio vivente, architetto e artista
italiano ancora troppo poco valorizzato, nonostante i recenti segnali culturali da parte del
mondo dell'architettura, del design e del cinema che lo hanno invitato a contribuire alla
rievocazione memoriale del nostro territorio. Ma questo omaggio all'Uomo non può
essere sufficente a trasformare un deposito di collezione personale in un museo aperto e
fruibile, ovvero in un patrimonio condivisibile con la collettività, dal quale partire per fare
dei ragionamenti sul rapporto tra creatività, filiera di progetto, design e natura. Mosso
quindi fa parte di quell'humus che va sostenuto materialmente, non solo moralmente,
anche attraverso la Riserva di Biosfear Mab UNESCO CollinaPo. Per chi non è così
addentro ai temi di design, ricordo che si inizia a parlare per la prima volta di un approccio
organico al design nel XIX secolo. E' un design sperimentale di carattere olistico e
umanistico, correlato alle armonie con la Natura, le cui prime applicazioni in architettura
sono da attribuirsi a Charles Reinne Mackintosh e Frank Loyd Wright. E a seguire,
naturalmente, a Alvar Alto. Leonardo Mosso è ospite dell’ultima edizione del Superga
Park Tour (domenica 11 settembre 2016 presso la stazione Dentera GTT) nasce a Torino
nel 1926, figlio dell’architetto futurista e razionalista Nicola Mosso, è stato partner di Aalvar Aalto, frequentando e
collaborando con maestri indiscussi dell’architettura e della cultura del Novecento come Le Corbusier, Richard Neutra,
Carlo Mollino, Gustavo Colonnetti, Giò Ponti, Ernesto N. Rogers, Carlo Ludovico Ragghianti, Bruno Munari e Vilém
Flusser. Importante è stata anche la sua figura di docente per diverse Università e Politecnici europei come Berlino –
Technische Universitaet – Milano, Grenoble, Torino, e l’Università Fridericiana di Karlsruhe tra gli altri. Dalla fine degli
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anni Cinquanta Leonardo Mosso concepisce ed elabora, insieme a Laura Castagno (sua moglie e docente presso la Facoltà
di Architettura di Torino), la “Teoria della Progettazione strutturale Semiotica”, tesa ad individuare elementi primari
modulari e loro sintassi costruttive, per una gestione flessibile delle forme edilizie e ambientali; teoria che si esprimerà nel
progetto di “Città – Territorio programmata e autogestibile” (1968-69) e nelle ricerche di cibernetica applicata
all’architettura e all’arte. La ricerca personale di Mosso ha suscitato in Europa e nel Mondo sempre grande interesse,
divenendo oggetto di studio e ricevendo importanti riconoscimenti come il prestigioso Gran Premio Trigon 69 alla Biennale
delle tre nazioni di Graz. Tra le grandi opere di arte costruttiva in musei e ambienti storici si ricordano: la grande scultura
aerea Nuvola Rossa di Palazzo Carignano a Torino, la Polichrome Wolke alla Zeilgalerie di Francoforte, la Jenaer Reflexion
nella Zeiss Hochhaus di Jena, le strutture aeree nello scalone Van de Velde all’Osthaus Museum di Hagen, nel Museo d’Arte
Moderna di Anversa, nella Kunsthalle di Darmstadt e Düsseldorf, nel Museo industriale Zollverein a Essen. Negli anni ’90
la ricerca di Mosso è proseguita con la costruzione di sistemi di strutture di luce in vetro, acciaio inox e neon per edifici
storici e ambienti urbani europei (ricordiamo tra gli altri il Ministero della Difesa a Bonn, le città di Vlissingen e Erfurt, il
chiostro del Palladio alle Zitelle di Venezia, la Meistersingerhalle a Norimberga, l’Accademia delle Arti Circensi e l’isola dei
Musei a Berlino, fino all’intervento sul Forte di Fenestrelle – Monumento simbolo della Provincia di Torino – per le
Olimpiadi Invernali di Torino 2006); interventi ‘minimi’, non invasivi, che dialogano con l’esistente arricchendolo di
significati tramite elaborazioni plastiche e pittoriche. Mosso ha appunto fondato nell'area geografica di Riserva della
Biosfera di CollinaPo - a Pino To.se - insieme a Laura Castagno, il padre Nicola Mosso e ad alcuni amici artisti e architetti,
l’Istituto Alvar Aalto – costituito come associazione senza scopo di lucro nel 1979 e integrato nel 1984 con l’atto costitutivo
del Museo dell’Architettura e delle Arti Applicate, di cui Mosso stesso è presidente e in cui sono conservate importanti
collezioni e testimonianze del Novecento europeo, grazie anche al supporto del figlio Stefano Mosso.
A Pecetto, altro Comune del Mab UNESCO CollinaPo, le memorie di padri e nonni
autoctoni ci raccontano che le prime fotografie tra il 1800 e il 1900 confermano che erano molti i ciliegi anche secolari di:
vitton-e, nejran-e, grafion bianch e grafion neir (oggi scomparsi) e griotte, impiantati lungo le capezzagne delle vigne, come
robusto sostegno di testata delle “baragne” di viti e nei piccoli prati di fondo valle. In quegl’anni si abbatté sulle vigne la
peronospora, facendole deperire. Fu allora che alcune personalità locali lungimiranti, tra cui il futuro sindaco avv. Mogna
e i parroci - e vice - che si susseguirono a Pecetto: teol.Bossi, teol.Marchetti e teol. Brunero, lanciarono l’idea (sostenuta, si
dice, anche dal primo ministro Giolitti) di diffondere la coltivazione del ciliegio in sostituzione della vite e portarono avanti
con grande impegno un vero programma di impianti soprattutto di ciliegio dolce e duroni, quando nella zona prevalevano
le griotte, introducendo anche nuove varietà dal sud della Francia. Una dozzina di anni dopo, nel 1916, quando i nuovi
impianti incominciavano a fruttificare e i giovani erano in guerra, il Sindaco di Pecetto Mogna istituì il Mercato delle ciliegie
serale, che, a conferma dell’ottimo risultato, già nell’anno successivo fu reso giornaliero. In quel 1917 si vendettero 722 q
di frutta, di cui oltre il 50% erano ancora agriotte, il 27% ciliegie, il 18% graffioni (duroni) e poi un 5% di pere. Da questi
dati molto significativi, considerato i sistemi di coltivazione di allora e quindi che solo una parte minoritaria della produzione
proveniva dai nuovi impianti, appare evidente la consistenza della produzione cerasicola pecettese già a fine Ottocento,
costituita a gran prevalenza da ciliegie acide, prevalenza che è rimasta fino a oggi a Trofarello e un po’ in tutto il Piemonte.
Nel frattempo si faceva promozione delle ciliegie di Pecetto; già nel 1911 all’Esposizione Internazionale di Torino Pecetto
offri ai visitatori graffioni sotto spirito e nel 1922 in un quartiere di Torino le (ragazze) ceresere offrirono le ciliegie, sempre
in collaborazione tra istituzioni civile e ‘religiosa’. In quegli anni la locale distilleria (di vinacce) Levetto iniziava a
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confezionare artigianalmente i graffion sotto spirito, come si usava nelle famiglie. Nel 1925 anche nel chierese arrivò la
fillossera che in pochi anni distrusse i vigneti, a cui si aggiunsero a Pecetto nel 1929 e 1930 due grandinate che distrussero
totalmente la produzione viticola e compromisero quella degli anni successivi. Per effetto conseguente, anche la
cerasicoltura, ormai affermata come produzione non più marginale, si sviluppò ulteriormente. Occorre ricordare negli anni
successivi il lavoro di miglioramento tecnico svolto dalle Cattedre Ambulanti di Agricoltura e l’introduzione di nuove
varietà, tra cui: la Vigevano, i Galucio e la Martini, introdotta appunto dal prof. Martini di quella Cattedra.
Negli anni 50 e 60 in tutta la zona di più tradizionale coltivazione del ciliegio: Pecetto, Trofarello, Revigliasco e dintorni,
con l’esodo dalle campagne e con esso dei raccoglitori stagionali provenienti in massima parte dalle montagne del Saluzzese,
lo sviluppo della cerasicoltura si è fermato; non si sostituivano
più le piante che morivano più frequentemente a
seguito della meccanizzazione o venivano sradicate per dare spazio alla stessa. Solo dagli anni 70 in particolare a Pecetto,
con l’aiuto dell’Osservatorio fitopatologico, dell’Università di Torino e della Regione, si è iniziato da parte di alcuni
frutticoltori, in primis Miravalle, a impiantare cereseti con sistemi e tecniche di conduzione ‘moderni’: portinnesti
nanizzanti, nuove cultivar dall’esterno, sistemi di allevamento bassi, a spalliera, lotta più attenta ai parassiti e alle malattie.
Con la nascita, nel 1984, della Associazione FACOLT e una collaborazione più stretta e organica con Regione, Università,
Comune, Organizzazioni Professionali Agricole e, in questi ultimi anni, Provincia si è iniziata una nuova fase di rinnovo e
modernizzazione della cerasicoltura (potremmo dire globalizzazione, nel bene e nel male, almeno per il numero e la varietà
di cultivar introdotte) con notevole impegno sulla ricerca e sperimentazione, sul marketing e promozione.
Ma tornando alla storia agricola e all’economia “green” di allora, si deve sapere che sin oltre il 1930 erano molte le massaie
che prima dell’alba partivano dal versante meridionale della Collina torinese: da Cavoretto, da Revigliasco, Pecetto, Pino,
Baldissero, con due, tre ceste in spalla o al braccio piene di pollame, uova e frutta di stagione (talvolta usufruivano di un
passaggio su qualche carretto che scendeva dall’Eremo) per raggiungere il mercato di Porta Palazzo, in un’ora e mezza-due.
I negozianti invece, con cavallo e biroccio, preferivano passare dalla pianura attraverso Moncalieri, per venire, verso fine
giornata, fino a Trofarello e Pecetto a rifornirsi del prelibato frutto. Gli storici locali ci parlano anche della promozione
svolta dagli Eremiti camaldolesi dell’Eremo di Pecetto, che nei secoli XVII e XVIII usavano le ciliegie ed in particolare i
piccioli per confezionare tisane diuretiche e marmellate, e dai Duchi di Savoia, che andavano a caccia degli uccelli attirati
dalle ciliegie. Le ciliegie prodotte su tutto il versante meridionale della Collina Torinese da Moncalieri a Sciolze e Arignano,
che hanno avuto i loro centri di aggregazione nel Mercato delle Ciliegie di Pecetto e nel Mercato dell’Amarena a Trofarello
sono oggi prodotte con metodi ecosostenibili. Questi splendidi frutti sono riconosciuti da Regione Piemonte come
Prodotto Agroalimentare Tradizionale (P.A.T.) e inserite nell’albo nazionale con il nome di «Ciliegie di Pecetto». Le
principali varietà tipiche locali sono (in ordine di maturazione) la Vigevano, la Mollana, la Vittona, la Galucia, la Cacciatora
o Moncalera, la Vitton-a dle Spi, la Martini e la Ciliegia Bianca; per i duroni: il Galucio e il Grafion bianch; e per le agriotte:
l'Amarena di Trofarello o semplicemente Griotta e la Marisa. A queste si affiancano varietà di recente introduzione (ultimi
tre decenni) riconosciute di rilevante qualità. Questo è il risultato di un ambiente pedo-climatico decisamente favorevole: i
versanti meridionali, e in particolare quelli rivolti a levante, sono ricoperti di uno strato di terreno limoso (loess) ideale per
la specie. Il versante collinare meridionale, elevato sulla pianura e ben esposto, non è soggetto alle nebbie ed elevate umidità
della lunga stagione invernale e alle gelate tardive primaverili. E allora…long life to Pecetto!
NEL CHIVASSESE
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Ai primi del Novecento, nel Comune di Chivasso, oggi parte integrante della Riserva di
Biosfera Mab UNESCO CollinaPo, l’area dell’attuale “Parco del Bricel” era occupato da impianti di lavorazione della ghiaia.
Successivamente il sito ospitò oleodotti e reti elettriche superficiali e sotterranee. Fortunatamente negli anni Duemila
l’amministrazione chivassese, a seguito della ricostruzione del ponte sul Po (distrutto durante l’alluvione del 1994) decise
di recuperare l’area degradata trasformandola nel 2003 in quella che
oggi è l’area verde del "Bricel" che significa “Barchetta”, mezzo di
navigazione tipico del fiume Po. Per gli amanti del Birdwatching, nel
Parco c’è un Capanno di osservazione avifaunistica con pareti di
schermatura e feritoie per osservare gli uccelli di fiume quali anatidi,
ardeidi, rapaci che stanziano normalmente nei pressi dell’Edificio di
Presa del Canale Cavour, altro gioiello chivassese. Le specie diffuse
all’interno del Parco sono quelle tradizionali delle zone di ripa
piemontesi (Flora Planiziale e Ripariale). Sono inoltre presenti alcuni
arbusti ornamentali non autoctoni, innestati al fine di favorire la
presenza di “macchie di colore” nelle zone di arredo. L’oasi faunistica
è costituita da un'area di 6.500 mq recintata ed interdetta al pubblico allo scopo di favorire e non disturbare la nidificazione
delle specie di uccelli ripariali tra cui la Garzetta, l’Airone Cinerino e il Martin Pescatore. All’interno del Parco è inoltre
presente il casotto di servizio della cava murandone per fornire ospitalità agli uccelli notturni. Tra gli alberi che abitano il
Parco e alimentano il polmone verde chivassese: Acero Campestre, Acero Platanoide, Carpino, Ciliegio da legno, Frassino,
Gelso, Pioppo Cipressino, Pioppo Bianco. Quercia Farnia e Platano. Si segnalano un Ciliegio ed un Pioppo Bianco di lunga
vita. Tra gli arbusti autoctoni: Biancospino, Evonimo Europeo, Ginestra, Nocciolo, Ontano Nero, Prugnolo e Salicone.
Anche questo è Riserva di Biosfera CollinaPo.
Ma Chivasso ha anche un immaginario “dolce” grazie ai suoi Nocciolini che hanno ben duecento anni di storia: il loro
inventore fu il maestro pasticcere Giovanni Podio. “Colui che ebbe una parte determinante nella valorizzazione e nella
diffusione su larga scala di questa tipica specialità”, fu però il genero del Podio, Ernesto Nazzaro. Il cavalier Nazzaro fece
conoscere i dolcetti chivassesi all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 - e in quell’occasione ricevette anche un attestato
di merito - nonché all’Esposizione di Torino del 1911; per essi, nel 1904, ottenne il brevetto col relativo marchio di fabbrica
rilasciato dal Ministero del Commercio del Regno d’Italia. Lo stesso Vittorio Emanuele III di Savoia concesse
all’intraprendente produttore chivassese il titolo di “fornitore della Real Casa”, e analogamente si comportarono i duchi di
Genova. Il primo nome della specialità fu quello di “noisettes”: voce francese che significa, semplicemente, “nocciole”. Il
nome “nocciolini” comparve negli anni Trenta del Novecento: si era infatti nella cosiddetta Era Fascista, e le direttive del
regime imponevano di depennare i termini stranieri. Ancor oggi i nocciolini sono prodotti artigianalmente, seguendo la
ricetta ottocentesca. I dolcetti vengono venduti in confezioni di vario tipo, ma soprattutto nell’ormai classico sacchetto di
carta rosa: a utilizzare per primo questo involucro, in sostituzione delle scatole metalliche usate precedentemente, fu il
pasticcere Luigi Bonfante che – più di vent’anni fa - ebbe il merito di commercializzare i nocciolini a livello nazionale.
L’antica specialità, descritta dal Commendator Bertolino, viene realizzata con tre soli ingredienti: nocciole del Piemonte,
della pregiata varietà "Tonda e Gentile delle Langhe", naturalmente sgusciate e tostate al punto giusto, zucchero e albume
d’uovo; il tutto opportunamente raffinato e impastato da speciali macchine. L’impasto viene poi portato a densità colante
e immesso entro apposita macchina colatrice che provvede a stillare, in appositi fogli di carta paglia speciale, tante piccole
goccioline, che devono essere lasciate asciugare per circa quindici o venti minuti e poi passate in forno per la debita cottura.
I piccoli gustosi dolci vengono successivamente racchiusi negli appositi sacchetti a tutti ben noti [...]. Va fatto rilevare che
i nocciolini sono igroscopici e pertanto soggetti a deterioramento, quindi vanno conservati sempre chiusi nei loro
contenitori”. Nel 2010, il marchio dei nocciolini di Chivasso diventa di proprietà del Comune, ceduto dal Grande Ufficiale
Mario Bertolino, della 'Confraternita del Sambajon e dij Noase't', che con questo atto intendeva donare alla cittadinanza un
simbolo che sin dagli ultimi anni dell'Ottocento è stato per tutti i chivassesi un emblema e che ha contribuito a diffondere
non solo nella nostra Regione ma in tutto il Paese il nome di Chivasso". La storia dei dolcetti a forma di goccia, è costellata
di numerosi riconoscimenti e tappe significative, ad iniziare dalla loro esposizione a Roma nel 1888 per passare alla più alta
onorificenza internazionale all'Esposizione di Parigi nel 1900, agli ori a Bordeaux, Milano, Cuorgné, Casale, Torino, Fiume,
fino all'ambito riconoscimento della Real Casa, di cui Nazzaro divenne fornitore. E a proposito di produttori: n questi
anni, la rinomata Pasticceria Bonfante-Ortalda ha anche collaborato tecnicamente con il Parco del Po e Collina To.se,
portando in due occasioni le sue proposte di assaggio per il pubblico
partecipante agli eventi dell'Ente. Fortunato chi era presente in tali
gustose occasioni! (Superga Park Tour 2014 e Meeting per la Candidatura
a Mab UNESCO presso Oratorio San Filippo di Chieri nel 2015).
E a pochi km ad est di Chivasso ecco
San Sebastiano da
Po con castelli, splendide vedute panoramiche e antiche tradizioni
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agricole come quella del Pom Matan. Per non parlare delle visioni botaniche che il grande architetto paesaggista europeo
Xavier Kurten ideò e progettò nel giardino del Castello.
Non distante si raggiunge Brusasco con il suo bel Castello, che porta nella Riserva
di Biosfera di CollinaPO una interessante innovazione sul tema delle acque reflue, unitamente alla sua ricchezza di paesaggi
fluviali e verdi nel Mab UNESCO. Iniziamo parlando in particolare di Marcorengo - Frazione del Comune di Brusasco che
- attraverso Regione Piemonte e i filoni di sostegno economico del Programma Attuativo Regionale del Fondo di Sviluppo
e Coesione 2007/2013, PAR FCS Piemonte (già Fondo Aree Sottoutilizzate FAS) - si è mossa pionieristicamente su temi
di sostenibilità ambientale ed efficienza energetica. Infatti fa parte del progetto “Sistema fluviale del PO e reti idriche Interventi del servizio idrico integrato” un’azione che è
parte di un più ampio intervento in corso denominato
“Interventi del servizio idrico integrato nell’area
Monferrato” a regia del vasto Acquedotto del
Monferrato (CCAM), che opera in un territorio
caratterizzato da un’urbanizzazione molto frammentata
e da un’orografia prettamente collinare. L’obiettivo è
quello di raccogliere con il massimo dell’efficienza e
della capillarità gli scarichi civili per una popolazione di
circa 650 abitanti. Un progetto che ha compreso la
costruzione di nuovi tratti fognari nonché dell’impianto
di depurazione ispirato ai criteri di realizzazione di un
impianto di semplice costruzione (compatto),
economico e di gestione estremamente semplice, con
costi di installazione ridotti, ridotti consumi di energia
elettrica; elevato rendimento di depurazione; percolatori
aerobici dotati di sedimentatori primari. Un corretta azione per equilibrare presenza delle residenze e qualità delle acque,
che rappresenta e garantisce in fondo qualità del suolo e degli ambienti in cui viviamo se pensiamo che in media un cittadino
italiano consuma 180 litri d’acqua al giorno. E per continuare a parlare di acqua, ma questa volta in ambito fluviale, è
estremamente suggestiva la zona della confluenza della Dora Baltea, le cui acque in caso di piena invadono una rete di
lanche fra le più belle e popolate di uccelli e pesci dell'intero tratto piemontese del fiume Po. Tipico di questa zona ed
interessante anche dal punto di vista bio-faunistico è il fenomeno dell'incontro delle gelide acque della Dora Baltea con le
tiepide acque del Po, che scorrono parallele senza mescolarsi per alcune centinaia di metri. Questo è l’habitat presso cui si
possono trovare numerose specie ittiche come trote marmorate, temoli e scazzoni. Importante e non meno rilevante l’area
dal punto di vista faunistico di terra. Ecco che tale area è luogo di nidificazione di numerose specie di uccelli tra cui gli
aironi. Non è un caso che proprio nell’area di Brusasco sorga la Riserva del Baraccone ovvero Riserva Naturale Speciale
della Confluenza della Dora Baltea, comprende parte del territorio del Comune di Brusasco su entrambe le sponde del Po.
Tutta la riserva è Sito di Importanza Comunitaria ed entità ecologica di rilevante interesse per la conservazione della natura.
Come tale al suo interno sono presenti numerose ed abbondanti specie vegetali ripariali, tanto erbacee, quanto arbustive
ed arboree, sia spontanee, sia inserite con rimboschimenti, per favorire l'avifauna nidificante e di passo. La cascina
Baraccone che dà il nome alla riserva è una proprietà privata e parte del territorio della riserva si sviluppa su superficie
privata. Ma vi sono anche terreni di proprietà pubblica, coltivati e siti di piantagioni di pioppeti. Tutta la zona, insieme
all'Ente Parco del Po e Collina Torinese, è monitorata costantemente ed oggetto di proposte che vanno da nuove colture
agricole a sentieri ed aree attrezzate per le passeggiate, anche a cavallo! L'associazione ProLoco-ProMarcorengo promuove
a tal riguardo, in modo articolato le bellezze storiche e naturalistiche, propone itinerari, segnala strutture ricettive ed eventi
tra cui quelli che si svolgono a Palazzo Ellena (XVIII secolo) sobrio edificio settecentesco attribuito all'Arch. Giovanni
Maria Molino che si sviluppa in forma quadrata su tre piani che guardano all’ampio parco, dove ha anche sede la Biblioteca
Comunale e l'Archivio Storico con documenti storici risalenti al 1622 e fino al 1930. Il palazzo ambisce a diventare una
sorta di “Progetto ARCA” (aggregazione- rete- comunità- arte) come “Centro polifunzionale per i giovani, l’arte ed il
sociale.” Per i giovani affinché trovino un punto di aggregazione funzionale: per il sociale perché salute, lavoro e ambiente
sono essenziali per la vita umana. Per l’arte, espressione dell’ingegno e dell’intelletto umano. Un progetto “centro”, ed “al
centro”: dell’attenzione, delle proposte, della realizzazione, della partecipazione. L’idea-cardine è quella di creare, in un
punto centrale del paese ma centrale anche rispetto ai paesi aderenti all’unione dei Comuni, dove possano convivere
esperienze nuove e meno nuove, dove tutto sia “cultura” in modo semplice e naturale, dove sia possibile ripristinare la
creatività delle persone, della cittadinanza, attraverso una condivisione partecipata delle strategie territoriali future. Che
però, come cita bene l'Amministrazione attuale, guarda con rispetto anche al passato. "..Quel mondo contadino, da cui tutti
noi discendiamo, era fatto di persone che amavano la natura, la rispettavano, a volte la subivano, ma poi ricominciavano a
lavorarla. Poi, anche da noi, per un po' di tempo è prevalsa una certa idea di modernità, di progresso tecnico e meccanico,
di abbandono delle vecchie tradizioni. A volte, è stato abbandonato anche il territorio. Oggi si sta cercando un equilibrio,
tra ambiente e sviluppo, tra benessere materiale e qualità dell'ambiente in cui si vive...."
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Il paesaggio agricolo di San Raffaele Cimena invece è un territorio caratterizzato da terreni
pianeggianti, fertili e irrigui, da sempre vocato per la fragolicoltura dei Galucet, varietà di fragole tipiche di quest’area del
Mab UNESCO CollinaPo. Ad oggi si coltivano cultivar
caratterizzati da frutti di grandi dimensioni (pezzature
comprese tra 15 e 35 g/frutto), botanicamente
riconducibili alla specie Fragaria x ananassa L. Grazie alle
intense escursioni termiche giornaliere, alla buona
insolazione e ad una tecnica colturale razionale i frutti
delle varietà coltivate presentano ottima consistenza della
polpa e buona serbevolezza; da tempo è in corso il
recupero di alcuni siti di coltivazione originale come
Cascina Bianca, Tetti Dematteis e Borgo Virone. Le
caratteristiche geomorfiche dell’area consentono al
prodotto locale di essere trasportato dalle aree di
produzione verso i vicini mercati. Per quanto riguarda le
caratteristiche varietali, va sottolineato che in gran parte si
tratta di cultivar di fragole a frutto grosso o fragoloni
mentre, ormai, è molto piccola – ma con desiderio di crescita - la presenza delle fragole a frutto piccolo o fragoline,
notoriamente denominate “fragole di bosco”. Si è passati dalle precedentemente soppresse “Suprise des malles”, “Red
Gauntled”, “Senga/Sengana”, “Madame Moutot”, ecc., tipiche degli
anni ‘50/’60, alla “Pocahontas”, “Gorella”, “Belrubt”, triade regina
nelle produzioni degli anni ’70- primi anni ’80, ormai superate e
rimpiazzate, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, da “Cesena”,
“Addie”, “Moneoye”, fino alle più recenti “Favette”, “Dana”, “Miss”,
“Idea”, “Gea”, ecc., anch’esse destinate ad essere sostituite.
Attualmente, la cultivar più interessante è la “Maya” una cultivar
precoce a frutto conico-allungato e regolare, di colore rosso brillante
e buona consistenza della polpa, con piante di media vigoria e di
elevata produttività. Va precisato che, nel medioevo, San Raffaele era
terra dei Marchesi del Monferrato che avevano la loro capitale in
Chivasso dove, nel 1248, esisteva un mercato di prodotti
ortofrutticoli molto rinomato e che a tutt’oggi, riveste grande
importanza. Nel verbale della seduta comunale del 30 maggio 1870,
nel quale si dava piena adesione alla costruzione della “ferrovia
Torino-Gassino-Casale” (che tanto avrebbe contribuito all’economia agricola del paese, visto che sul cosiddetto “tram”
venivano trasportate non solo le persone, ma anche le merci agricole verso il mercato di Porta Palazzo di Torino), si
apprende che “annualmente vengono esportati 3.000 miriagrammi di uva e 20.000 miriagrammi di frutta”. Da questi dati
si rileva che sta crescendo il peso dell’ortofrutta rispetto ai vitigni. Nel 1953, viene istituito, nella piazzetta di San Bernardo,
il “Mercato delle fragole e delle ciliegie”, ora non più esistente, dove, venivano commercializzati tutti i prodotti ortofrutticoli
della zona. Nel 1962, furono commercializzati nel mercato di San Raffaele 18.939 kg di fragole al prezzo medio di lire 300
al kg e 33.693 di ciliegie al prezzo medio di lire 130 al kg. In quegli anni un nutrito gruppo di giovani agricoltori,
particolarmente intraprendenti e capaci, coadiuvati da un giovane e valente tecnico, Giuseppe Fassino, diede vita a uno dei
primi “Club 3 P” (Provare, Produrre, Progredire) del Piemonte, istituendo dei corsi di formazione professionale, prove in
campo e viaggi di studio in tutta Italia con visite ad aziende all’avanguardia nel settore ortofrutticolo e ad altri istituti di
ricerca ed instaurando con essi ottimi rapporti di collaborazione. Tutto ciò permise l’introduzione di nuove tecniche di
coltivazione, allora sconosciute in Piemonte, come l’introduzione di piante selezionate. Di pari passo, furono introdotte la
coltura pacciamata e la fertirrigazione. I giovani orticoltori dell’epoca si associarono per contenere i costi nell’acquisto delle
prime macchine trapiantatrici. Ancora oggi, sono disponibili per i soci una trapiantatrice di ortaggi e una di patate. Grazie
a questi pionieri, l’agricoltura locale fece un decisivo salto di qualità; le nuove metodiche di coltivazione fecero sì che i
prodotti locali divenissero le primizie dei mercati generali di Torino e del mercato di Chivasso. Successivamente il materiale
vegetale di propagazione è stato reperito, in particolare dall’inizio degli anni ’70, da vivaisti specializzati che operano nel
nord Italia tramite l’acquisto collettivo di tutti i produttori della zona al fine di contenere i costi, e in occasione della Festa
Patronale, si è istituita una Mostra Mercato dei prodotti ortofrutticoli locali. La coltura è praticata su terreno pacciamato da
film plastico nero per contenere le malerbe mentre si provvede al diserbo chimico in fase di post-trapianto ed alla ripresa
vegetativa nell’interfila. L’irrigazione avviene con l’utilizzo di una manichetta posta sotto la pacciamatura così come la
somministrazione di concimi avviene per fertirrigazione. Per anticipare i cicli di maturazione gli impianti vengono “forzati”
a partire dal mese di febbraio. In questo periodo, a seconda dell’andamento climatico, si provvede alla copertura dei tunnel-
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serra con film plastici; gli incrementi di temperatura che si registrano all’interno dei tunnel determinano un anticipo della
fase di fioritura e di raccolta. La raccolta avviene da metà aprile per le cultivar precoci (in coltura protetta) e fino a metà
giugno, per le colture tardive (non sottoposte a forzatura in tunnel). La coltura annuale è la più diffusa; solo nei piccoli
appezzamenti si pratica anche la coltura biennale. Ma non va dimenticato il vino nella lunga storia di San Raffaele Cimena,
la cui coltivazione agricola ha sempre rivestito un’importanza fondamentale come testimonia la Relazione del Sicco, datata
1753 la quale dice testualmente “(…) Li terrazzani accudiscono ai travagli dell’agricoltura ad esclusione di tre in quattro che
sono soliti negoziare nella compra-vendita di vini”. All’epoca, vennero censite 395 giornate di vigna, 280 di campi e 250 di
prati. Si evince, pertanto, che la coltivazione più diffusa era quella della vite, favorita dall’ottima esposizione collinare, che
forniva vini di pregevoli qualità, e, quindi, fonte di reddito non indifferente per gli agricoltori dell’epoca. Tale situazione è
perdurata fino all’inizio del ‘900, quando le popolazioni agricole hanno abbandonato le colline per scendere a valle nella
fertile pianura prospiciente il fiume Po, ricca di acque che ben si prestava alla coltivazione di cereali e ortofrutticoli.
E per chi gradisce un po' di relax nel verde
Torinese, ecco la Fattoria Sequoia di
Castagneto Po, circondata da ben 10 ettari di terreno
immersi nella Riserva di Biosfera MAB UNESCO CollinaPo. Dotato
di attrazioni per tutta la famiglia quali un maneggio, una piscina con
solarium tra castagni allietati da varie specie di uccelli, un'area giochi
per bambini e animali da fattoria, l'agriturismo “green” offre
caratteristiche di eco-turismo molto vicine allo stile “Uomo e
Biosfera” promosso dall’UNESCO. La Fattoria infatti prende il nome
dal grande e splendido albero che sorge nel suo terreno e tra le molteplici opportunità di svago nella natura, dopo la
colazione giornaliera in un salotto con caminetto originale, offre escursioni a piedi, a cavallo o in bicicletta nel famoso
Bosco del Vaj, area boschiva ricca di splendidi esemplari di faggi che fanno parte della Riserva Naturale del Parco del Po e
Collina Torinese. Nell’eventuale altro tempo libero è possibile fare barbecue e organizzare pic-nic sul bellissimo prato
verde, oppure lanciarsi in escursioni in mountain-bike. Un territorio dove i boschi raccontano di periodi climatici antichi:
erano 100.000 anni fa quando i ghiacci raggiungevano con le lunghe lingue glaciali come quelle che oggi si vedono in
Himalaya, le porte di Rivoli ed Avigliana come quelle di Ivrea: e con loro i freddi climi che portavano la flora montana e
alpina sino giù nella pianura. Poi verso i 6000 anni fa ritiratisi di fronte a climi più miti, alberi e flora della montagna rimasero
a volte riparati in freschi versanti, a costituire quel piccolo drappello che i botanici chiamano “relitti glaciali”, che oggi sono
mantenuti come testimoni biologici del passato nelle riserve naturali del Piemonte.
AL CONFINE CON IL CANAVESE
Ed eccoci a Rondissone,
territorio del Mab UNESCO CollinaPo ma anche dell'antico Principato di
Masserano e Marchesato di Crevacuore, dove s'incontrano numerose aree boschive, composte da ontani, pioppi e salici,
querce e frassini che arricchiscono naturalisticamente la pianura alluvionale della Dora Baltea. Nella zona fluviale
dell'affluente del Po è conservato un vecchio molino, adibito a museo, in cui trovano ristoro i visitatori ed escursionisti di
questa bella area naturalistica. Il Molino Vecchio ospita infatti alcune interessanti opere idrauliche di antica fattura. E a
proposito di tempi passati... il Comune, che fa parte della Riserva di Biosfera CollinaPo, organizza annualmente la “Sagra
del Canestrello” (seconda domenica di ottobre), manifestazione nata per valorizzare le tradizioni passate a cui partecipano
attivamente pasticceri ed esperti locali - muniti dei tipici "ferri" - che con il loro impasto, preparano direttamente i canestrelli
per i visitatori. Il nome “Canestrello” deriva, probabilmente, dai tipici recipienti di vimini intrecciati, detti appunto
“canestri”, nei quali si deponevano i dolci dopo la cottura. Il Canestrello è un prodotto locale molto sostenibile, pertanto
in sintonia con le buone pratiche della Mab UNESCO di cui Rondissone fa parte. Questo dolce risale all’epoca medievale,
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quando veniva prodotto in occasioni speciali per essere poi conservato per molti mesi. Altre quattro sono le zone di
produzione del canestrello riconosciute nell’area metropolitana torinese, ed in particolare nella zona del Canavese:
Montanaro, Tonengo di Mazzè, Vaie e Borgofranco d'Ivrea. Ogni paese ha la sua ricetta e anche a pochi chilometri di
distanza cambiano completamente sia il gusto che la forma che gli ingredienti. Una data certa della produzione della
caratteristica cialda si ha grazie al ritrovamento di un esemplare del caratteristico attrezzo in ferro per la cottura dei
canestrelli, recante la data del 1750. Il primo documento scritto di cui si ha notizia e nel quale compaia la parola "canastrelli",
risale all'anno 1805. Si tratta della "Notice sur l'arrondissement de Bielle, Département de la Sésia", un manoscritto cartaceo
redatto durante la dominazione napoleonica e conservato nella Biblioteca Reale di Torino (misc. 82/17). Infine: per
preparare i canestrelli occorre amalgamare prima tutti gli ingredienti asciutti sino ad ottenere un composto di colore
omogeneo, quindi, aggiungere gli altri ingredienti e impastare bene il tutto. Dall'impasto, diviso in pezzetti, vengono
modellate tante palline, che vengono poi schiacciate tra due lastre di ferro, poste all'estremità di una lunga pinza. La pinza
viene quindi posta direttamente sul fuoco, alternando i due lati, per circa trenta secondi (la tradizione dice "per il tempo di
un Avemaria recitata con devozione"). Sulle lastre sono normalmente incise le iniziali della famiglia alla quale apparteneva
il curioso strumento, insieme con altri simboli e disegni; durante la cottura tali segni grafici vengono trasferiti in rilievo sulla
superficie del canestrello. Venivano anche chiamati "nebule" e costituivano una sorta di variante alla produzione delle ostie
della liturgia cattolica.
E ora un po’ di tradizione e archeologia con Volpiano, nel Canavese, dove il 17 e 18
settembre si rievocano con la manifestazione biennale "De Bello Canepiciano" le intricate e affascinanti vicende dei
Marchesi del Monferrato appartenenti alla casa dei Paleologi e i Conti di Savoia. Perno della discordia è quanto si accese
fra i Conti di Valperga e quelli di San Martino, gli uni - Ghibellini - e spalleggiati dai Paleologi, gli altri - Guelfi - e protetti
dai Savoia. Di ciò che accadde in quegli anni, il De Bello si focalizza in particolare sull'ingegnosa presa del Castello di
Volpiano, avvenuta nel 1339 ad opera di un certo Pietro da Settimo che, alle dipendenze del Marchese Giovanni II
Paleologo, riuscì a compiere l’impresa con un sotterfugio. Per meglio valorizzare la storia e il territorio è stata fatta una
mappatura dei resti medievali volpianesi e la creazione di un percorso culturale attraverso le vie ed i cortili del centro storico.
Sarà così possibile, grazie all'impegno profuso dal Comune e dall'Associazione Cicolo Culturale Tavola di Smeraldo visitare
siti risalenti al XIV e XV secolo, inseriti nel contesto del tessuto abitativo moderno. Per meglio valorizzare la storia e il
territorio è stata fatta una mappatura dei resti medievali volpianesi e la creazione di un percorso culturale attraverso le vie
ed i cortili del centro storico. Sarà così possibile, durante la manifestazione medievale che si tiene ogni due anni, visitare siti
risalenti al XIV e XV secolo, inseriti nel contesto del tessuto abitativo moderno, un affascinante percorso di esplorazione
archeologica in un paese che solo apparentemente non conserva più molto del suo passato. Infine, con i Comuni di San
Benigno C.se (TO), San Martino C.se (TO), Volpiano (TO), Settimo T.se (TO), Valperga (TO), Caluso (TO) e Rivarolo
C.se (TO), che sono stati realmente toccati dalle vicende storiche, è in corso la valutazione per la creazione di un percorso
di valorizzazione e studio dei territori canavesani coinvolti nella guerra del canavese del XIV secolo in previsione della
celebrazione del 700 anno della nascita del Marchese Giovanni II Paleologo che avverrà nel 2021.Un affascinante percorso
di esplorazione archeologica in un paese che solo apparentemente non conserva più molto del suo passato. Da menzionare,
sempre sul tema tradizioni, il Gruppo Storico Castrum Vulpiani, che nasce con la finalità di rievocare la Guerra del Canavese
del XIV secolo ed in particolare la figura del Marchese del Monferrato Giovanni II Paleologo. Questi prese il castello di
Volpiano nel 1339 e da qui partì per la conquista delle terre canavesane appoggiando la famiglia ghibellina dei Conti di
Valperga nella disputa con i San Martino, a loro volta spalleggiati dai Conti di Savoia, schierati politicamente con il partito
guelfo. L’importanza della figura del Marchese Giovanni II per Volpiano è dovuta anche alla stesura del suo Testamento e
la morte avvenuta nelle mura del castello volpianese. Durante la manifestazione dedicata alle vicende descritte vengono
rievocati la presa del castello di Volpiano e momenti riguardanti la vita del Marchese del Monferrato Giovanni II.
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VERSO LE RISAIE ALLA CONFLUENZA DORA BALTEA
Lungo il Po prima di arrivare alla Rocca di Verrua Savoia, si trova Monteu
da Po, dove il grande fiume spingeva le sue acque ai tempi dei romani e dove la grande civiltà costruì un porto ed un
insediamento d’artigianato di eccellenza: qui sorgeva e oggi sono presenti le rovine dell’antica Città Romana di Industria.
Un sito di grande importanza inserito nella mostra ricerca "Il Nilo a Pompei. Visioni d'Egitto nel mondo romano". Qui infatti
sorge un raro esempio di tempio dedicato ad Iside, la divinità egizia, che insieme agli opifici per la produzione di bronzi e
oggetti in metallo. I forgiatori devoti a Iside, operavano nella città romana sorta in posizione strategica sulla riva destra del
Po, quasi alla confluenza con la Dora Baltea, tra la fine del I secolo a.C. e l'inizio del I secolo d.C., in seguito alla
romanizzazione dell'area che in precedenza era abitata da popolazioni celto-liguri. Industria deve la sua importanza alla
funzione di polo commerciale sulle rive del Po e, a partire dalla seconda metà del I secolo d.C., al santuario dedicato alle
divinità orientali di Iside e Serapide, motivo di ricchezza e di fama. Il suo porto sul fiume rappresentò un fattore
determinante anche per lo sviluppo dell'arte della lavorazione del bronzo, in quanto era per via fluviale che giungevano in
città ferro e rame estratti in Valle d'Aosta e venivano veicolati i manufatti destinati all'esportazione. L'abilità artistica di
artigiani di origine greco-orientale ha prodotto oggetti e decorazioni bronzei di notevole raffinatezza (statue, statuette, ex
voto, oggetti di culto, oggetti di uso comune, decorazioni architettoniche, placchette...), oggi conservati presso il Museo di
Antichità di Torino. Nel sito archeologico sono visibili l'area sacra con i due templi dedicati ad Iside e a Serapide, pozzi,
sale di riunione, abitazioni per i sacerdoti, altari, e parte degli isolati circostanti occupati da abitazioni e botteghe artigiane
affacciate sugli assi stradali. L'area a destra del Po all'altezza della confluenza della Dora Baltea era frequentata già in epoca
preromana, nell'età del ferro, sia come tratto dei percorsi secondari che dal Basso Monferrato conducevano verso la zona
pedemontana sia come luogo di fissa dimora in villaggi. Tra questi esisteva Bodincomagus, villaggio abitato dagli indigeni
liguri, presso il quale i romani si insediarono a partire dal II secolo a.C. e ricordato da Plinio il Vecchio come antico nome
di Industria. Bodincomagus significa "luogo di mercato sul Po", in
quanto deriva da bodinco, termine con cui i liguri chiamavano il Po,
e da magus, che significa mercato. In seguito alle campagne militari
condotte tra il 124 e il 123 a.C. dal console romano Marco Fulvio
Flacco contro le popolazioni liguri non ancora pacificate, venne
potenziata la rete stradale, furono fondate nuove colonie e
assegnati lotti di terreno ai nuovi abitanti. La nascita di Industria
si inserisce quindi nel lungo e lento processo di romanizzazione
che interessò la zona, già luogo di scambi commerciali e di contatti
culturali tra diverse etnie, celtica a nord del Po, ligure a sud.
L'impianto urbano, risalente all'età augustea così come
l'identificazione amministrativa, aveva forma quadrangolare con
un'estensione in senso nord-sud di circa 400 m e rispettava la pianta canonica delle colonie romane fondate ex novo, con
una maglia di strade ortogonali acciottolate che individuano isolati regolari di forma rettangolare. Dell'area urbana, seppure
in origine di dimensioni abbastanza ridotte, è oggi visibile circa un decimo di quella che si pensa essere stata l'estensione
totale. Del quartiere artigianale, che doveva trovarsi vicino al fiume per maggiore comodità nelle operazioni di scarico e
carico delle merci, sono stati trovati sporadici resti di fornaci e residui della lavorazione dei metalli, oggi non più visibili.
Nel I secolo a.C. la città potenzia il suo ruolo legato alla posizione geografica e diviene fiorente e famosa per il santuario
dedicato alle due divinità orientali. Caratterizzano il sito i resti dei templi dedicati a Iside e Serapide, il primo del I secolo
d.C., il secondo di età adrianea. La precoce diffusione del culto di Iside nella Cisalpina occidentale si deve alla presenza in
città di famiglie di mercanti italici, a contatto con il mondo ellenistico per ragioni commerciali e già devote al culto isiaco.
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La provenienza dal mondo greco-orientale della gran parte degli schiavi e dei liberti di proprietà di queste ricche famiglie
dà spiegazione anche della ricercatezza e dell'eleganza di molti dei reperti in bronzo ritrovati nel sito, risultato
dell'eccezionale abilità nell'arte della lavorazione del bronzo e della conoscenza dei modelli e dei cartoni più raffinati, tipiche
degli artisti orientali. La diffusione del cristianesimo e altri motivi che l'indagine archeologica non ha ancora del tutto
chiarito, in particolare a livello archeologico, portarono alla crisi del santuario e alla distruzione del tempio di Serapide nel
IV secolo, mentre alcuni isolati continuarono ad essere abitati fino al VI-VII secolo. Nel V secolo infatti attorno alla pieve
di S. Giovanni, costruita accanto al santuario romano e dipendente dalla diocesi di Vercelli, si stabilì una comunità cristiana
che contribuì alla decadenza delle attività commerciali legate al santuario pagano e accelerò il definitivo abbandono della
città. In età medioevale i longobardi sfruttarono le murature dei templi come pareti per sporadiche sepolture.
L'identificazione dei resti del sito con la città romana ricordata da Plinio il Vecchio risale al '700; gli scavi e le ricerche
proseguirono nell'800 e fino a metà '900. Solo più tardi nuovi studi sulla planimetria e sui reperti portarono
all'identificazione dell'area sacra, i cui edifici erano stati prima interpretati come luoghi pubblici.
Ecco che più in là al confine con il vercellese sorge Verrua Savoia, sperone
strategico a dominio della pianura che ci porta le sue prime notizie dall'anno 999, quando l'imperatore
Ottone III mediante un diploma confermò al Vescovo di Vercelli, Leone, vari beni territoriali, tra cui Verrua. Durante i
secoli successivi l'insediamento fortificato subì numerosi assedi, distruzioni (celebre quella del 1167 ad opera di Federico
Barbarossa) e ricostruzioni, in quanto era posto in un luogo di confine e quindi conteso tra il Vescovo di Vercelli, i Marchesi
del Monferrato, i Visconti di Milano, le famiglie nobiliari vercellesi degli Avogadro e dei Tizzoni ed i conti e poi duchi di
Savoia. Nel 1167 il Vescovo di Vercelli perse definitivamente il castello di Verrua, che passò nelle mani dei Marchesi del
Monferrato fino al 1248, quando i Conti di Savoia si impadronirono del castello, ma non in maniera definitiva. I Savoia
acquisirono stabilmente Verrua soltanto nel 1559, quando la fortezza si trovava ormai in pessimo stato di conservazione,
con ampie parti delle mura distrutte e senza le porte. la fortezza in quel periodo era composta da tre parti distinte: il castrum,
cioè la rocca vera e propria, posta in posizione più alta, in modo da dominare il territorio circostante, il castrum planum,
insediamento abitato, fortificato anch'esso, dove erano presenti la pieve ed il cimitero, ed il borgo, ai margini del castrum
planum, circondato da mura e da una serie di torri circolari. Si trattava però di un complesso scarsamente difendibile, in
relazione all'evoluzione delle tecniche di assedio e lontano dall'essere quella macchina da guerra che diventerà nel corso del
Seicento, tra le più importanti dello Stato, proprio perché posta al confine con il Marchesato del Monferrato ed in direzione
del Ducato di Milano. Nel 1625 il Duca di Feria, governatore di Milano, al comando di 25000 soldati spagnoli, tentò, dal 9
agosto al 17 novembre, di espugnare la fortezza, che era stata a torto
ritenuta un ostacolo facilmente superabile in poco tempo, proprio
perché disponeva di mura che non avrebbero potuto resistere a lungo
al fuoco dei cannoni. A causa di errori tattici, ma anche del terreno
accidentato, la cui conformazione non permetteva di effettuare un
assalto efficace a meno di gravi sacrifici umani, gli spagnoli dovettero
desistere dai loro propositi e furono successivamente allontanati dalle
truppe franco-piemontesi, comandate dal duca Carlo Emanuele I. Dal
1639 al 1642 il complesso fu coinvolto nelle lotte tutte interne al
Ducato di Savoia fra Madamisti e Principisti. Dapprima conquistato
dagli spagnoli, al comando del principe Tommaso di Savoia, che
cercarono di migliorarne le difese aggiungendo un bastione, fu
successivamente espugnato dall'esercito franco-piemontese nel 1642,
tornando nelle mani della reggente del Ducato di Savoia, Madama Reale Cristina di Francia. Nel 1656 vi fu un preciso
intento di ampliare la fortezza in modo da renderla capace di resistere agli assedi portati con armi da fuoco sempre più
evolute, per le quali le vecchie strutture erano diventate del
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tutto insufficienti. Il progetto, redatto da Carlo Morello, consisteva nell'ampliamento della fortificazione verso il borgo,
essendo questa la parte maggiormente esposta all'offensiva nemica. Nuovi e più importanti lavori furono realizzati dal figlio,
Michel Angelo Morello, come testimoniato da un disegno del 1670, dove sono visibili i nuovi bastioni edificati in fogge
moderne, la cui realizzazione comportò la demolizione del borgo, in quanto la sua permanenza sarebbe stata pericolosa in
caso di assedio. Nell'ottobre del 1704, durante la guerra di successione spagnola, iniziò l'ultimo assedio subito dalla fortezza
di Verrua, portato dalle truppe francesi comandate dal generale Vendôme e che costò la vita a circa 13.000 soldati. Questo
assedio durò fino al 9 aprile 1705, oltre ogni previsione degli assedianti, che immaginavano di conquistare la fortezza al
massimo prima dell'inverno. Le prime operazioni comportarono l'attacco alla collina di Carbignano, sulla quale era stato
realizzato un altro forte ed una serie di trincee, che caddero dopo circa un mese di combattimenti, permettendo così
procedere alla seconda fase e cioè all'assedio del più munito forte di Verrua, rimasto a questo punto senza le difese del forte
costruito sulla prospiciente collina di Carbignano. I combattimenti durarono ininterrottamente, nonostante la rigidità
dell'inverno, fino a quando i soldati rimasti nella fortezza dovettero arrendersi per mancanza di viveri e decisero di far
saltare le fortificazioni, ad eccezione della rocca, dove si ritirarono. L'eroica e sfortunata resistenza di Verruca (questo il
nome della località e della fortezza in epoca medievale e fino al Settecento), logorando le truppe francesi, permise al duca
Vittorio Amedeo II di riorganizzare le truppe piemontesi e di giungere, nel 1706, alla vittoria contro i francesi nella
memorabile battaglia di Torino, destinata a segnare le sorti della guerra e dell'Europa, insieme a quelle della dinastia dei
duchi di Savoia, i quali, proprio grazie a questa vittoria, non solo non persero il Piemonte, ma addirittura diventarono re,
avendo ottenuto in premio per la vittoria la corona reale di Sicilia prima e di Sardegna poi. E' proprio questa, la rocca,
l'unica porzione del complesso che ancor oggi possiamo vedere, assieme a qualche rudere dei bastioni più esterni e a qualche
tratto delle gallerie di mina e contromina che erano presenti nel sottosuolo. Nel 1726 furono avanzate delle ipotesi di
ricostruzione poiché fu richiesto all'ingegnere Ignazio Bertola un progetto che prevedeva la riedificazione quasi totale della
piazzaforte, probabilmente non attuato per la diminuita importanza strategica che Verrua aveva assunto nel Settecento, in
relazione alle nuove acquisizioni territoriali del Regno Sabaudo verso est (Novarese, Lomellina e Tortonese).
Nell'Ottocento il forte subì un radicale mutamento di destinazione, diventando una residenza nobiliare. Furono quindi
effettuati quei lavori richiesti dalle cambiate esigenze d'uso: si demolirono il ponte levatoio, spostando l'ingresso nella
posizione attuale, ed i fabbricati delle caserme, che occupavano i cortili, costruendo invece un piccolo edificio destinato a
casa del custode. Il Palazzo del Governatore diventò quindi l'abitazione del marchese e fu decorato all'interno con affreschi
e boiseries, mentre la collina divenne terreno agricolo, coltivato a vigna. La storia più recente è contrassegnata dall'abbandono
del complesso e dal suo progressivo deperimento. Nel 1955 i Marchesi d'Invrea vendettero l'edificio ad una ditta che
estraeva dalla collina materiale per produrre cemento. A causa degli scavi effettuati mediante esplosivo, nel 1957 una enorme
frana travolse un'abitazione sotto la collina, causando sette vittime e distruggendo persino parte del ponte sul Po. La frana
fece inoltre crollare una parte molto vasta del complesso della fortezza di Verrua, mentre altre parti, rese pericolanti dalla
frana, furono demolite. Tra queste fu demolita anche la chiesa di S. Giovanni Battista Martire, mentre il grande pozzo,
largo più di 3 metri e profondo quasi 100 metri, fu riempito con i detriti prodotti dalle demolizioni e dai crolli. Attualmente
ciò che rimane del grandioso complesso della fortezza di Verrua Savoia, che è proprietà privata, è stato concesso in
comodato d'uso al Comune di Verrua, che ne sta promovendo la conservazione e la fruizione.
Sulle ali della Cicogna scolliniamo sulle creste della vicina Collina per
incontrare il Comune di Piovà Massaia fa parte della ricchissima ossatura agricolo-naturalisticoculturale della Riserva di Biosfera UNESCO CollinaPo. Un filigranato sistema di beni agricoli, ambientali, architettonici,
turistici e culturali che include prodotti locali noti in tutto il mondo, come la Menta Peperita. In particolare la coltivazione
di questa pianta medicinale aromatica - introdotta in Italia dall’Inghilterra nel 1850- era facile ma richiedeva terreni fertili e
ricchi di materia organica, oltre ad un grande quantitativo di manodopera. Il lavoro veniva spesso delegato alle donne, che
la piantavano in primavera, sarchiandola sovente, al fine di levare le erbe infestanti e trattenere l’umidità del terreno. In
estate, quando fioriva, veniva raccolta in fascine e portata all’ingresso del paese. Qui sorgeva un grande alambicco, proprietà
della famiglia Robba e De Vecchi, attraverso il quale veniva distillata, per essere venduta al paese di Pancalieri. All’epoca
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per i produttori rappresentava un importante introito economico, dato che l’essenza poteva essere esportata per i suoi
numerosi utilizzi in confetteria, liquoreria, profumeria e anche in medicina. Un particolare curioso, citato da alcune donne
di Piovà, è che data la ricchezza del profumo, persino l’acqua di scarto della distillazione non veniva sprecata, ma riutilizzata
per il lavaggio dei pavimenti. L’alambicco invece era un’irresistibile attrazione per bambini e ragazzi, che si radunavano ad
osservare, incuriositi, la trasformazione delle piantine: gli stessi, ancora oggi, sebbene siano trascorsi tanti anni, ricordano
vividamente l’intenso profumo che ne fuoriusciva. Dal 2012 si è scelto di riscoprire e festeggiare questa antica tradizione,
favorendo nuovamente la coltivazione e l’utilizzo di questa preziosissima erba medicinale. È nata così "Profumata-menta",
una fiera unica nel suo genere che si svolge ogni anno la prima domenica di giugno e che è inserita nel circuito “Ritorno
alla Fiera".
NEL CHIERESE CON LO SGUARDO VERSO ASTI E IL
TANARO
Ed eccoci svalicate le Colline, in un altro Comune della Riserva di Biosfera
Mab UNESCO: questa volta siamo ad Aramengo con le sue eccellenze storiche e
contemporanee culturale: impossibile non citare il mondialmente rinomato Laboratorio di Restauro Nicola che dal 1967
ha sviluppato - grazie alla formazione professionale in situ - una rete locale di esperti restauratori. Opere d'arte, artisti e
beni culturali valorizzati dalla mano dell'uomo che saggiamente sa recuperare con ingegno e creatività. Oltre mezzo secolo
di attività nel restauro di dipinti antichi e moderni, su tela e
su tavola, di affreschi e di statue lignee e lapidee, ha
consentito alla passione e all’entusiasmo del compianto
Guido Nicola di far crescere, anno dopo anno, il suo
Laboratorio. Una visita spesso si lega ad una gita fuori porta
che consente di ammirare la bellezza delle dolci colline del
Monferrato, la degustazione di piatti tipici della zona e di
visitare i tesori dell’arte custoditi nei paesi limitrofi. Dentro
invece ci si trova di tutto, dai "papiers peints" cinesi
all'affresco secentesco, dalla tela del Settecento al sarcofago
egizio; e non mancano icone russe e quadri divisionisti,
statue lignee e mappamondi. A loro si devono i recuperi di
affreschi e sculture in tutto il Piemonte - da Crea a Vicoforte,
dal duomo di Asti al Sant'Andrea di Vercelli, dal San
Gaudenzio di Novara al San Francesco di Cuneo, da Torino (Monte dei Cappuccini, San Domenico, Duomo, ma anche il
Museo Egizio) alla Cattedrale di Sant'Orso di Aosta, ad Alessandria con il restauro del Cristo deposto per la chiesa di Santa
Maria di Castello - da molto tempo la fama di questi maestri ha varcato i confini nazionali e oggi i Nicola (una dinastia, non
a caso è questo il titolo del volume che l'editore Allemandi di Torino ha dedicato alla loro storia), operano un po' ovunque.
Inoltre Aramengo possiede impianti fotovoltaici perfettamente integrati nel territorio e ad oggi produce molta più energia
elettrica di quanta ne consuma. Ennesimo esempio di buone pratiche di biosfera Urban MAB.
Non distante vi è
Vezzolano su cui sorge la
famosa Abbazia. Benché la leggenda
faccia risalire a Carlo Magno la sua
fondazione, il primo documento in cui
è menzionata l’Ecclesia di Santa Maria
di Vezzolano risale al 1095: si tratta
dell’investitura di Teodulo ed Egidio ad officiales, con l’impegno di attenersi ad alcuni precetti condivisi e di vivere secondo
la regola canonica, probabilmente quella di sant’Agostino, attestata in seguito in Vezzolano da bolle papali del 1176 e del
1182. Posta tra le diocesi di Vercelli, Asti, Torino ed Ivrea, vicina ai potenti comuni di Asti e Chieri, la Canonica di
Vezzolano testimonia con le sue importanti opere d’arte medioevale un lungo periodo di splendore tra i secoli XII e XIII,
seguito da un lento declino, che può essere simbolicamente racchiuso in due date: il 1405, anno in cui la canonica fu
concessa in commenda ad abati residenti altrove, e il 1800, quando l’amministrazione napoleonica ne espropriò i beni,
trasformando la chiesa in cappella campestre della parrocchia di Albugnano e in granaio il chiostro affrescato.La chiesa
orientata, cioè con la parte absidale rivolta ad est, aveva in origine una pianta di tipo basilicale, ovvero a tre navate, che
venne modificata nel XIII secolo, quando la navatella destra fu trasformata nel lato nord del chiostro L’interno è in precoci
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forme gotiche: la navata centrale è suddivisa da un pontile (o jubè), rara struttura architettonica su colonnine, su cui si stende
un bassorilievo policromo a due registri sovrapposti raffigurante iPatriarchi e Storie della Vergine, riferibile alla terza decade
del Duecento pur se reca la data 1189 ; ai lati della finestra centrale dell’abside una scultura policroma di derivazione
antelamica ( fine XII secolo) rappresenta l’Annunciazione. Nel chiostro, uno dei meglio conservati del Piemonte, si trovano
capitelli scolpiti e un importante ciclo di affreschi trecentesco, con la notevole rappresentazione del Contrasto dei tre vivi e dei
tre morti.
Ed eccoci quindi ad Albugnano,
anch’esso Comune del Mab UNESCO CollinaPo che produce
un ottimo vino dal nome omonimo, è anche culla di tesori
naturalistici della flora. Non solo i ricchi boschi di Faggio fra
Chivasso e Casalborgone, nell’area del Bosc Grand e del Bosco
del Vaj, ma anche le Orchidee punteggiano con le loro corolle,
prodotto di raffinata evoluzione, i prati e i boschi dei dolci
rilievi a sud del Po. Dalle Orchis purpurea all’Ophrys dinarica,
decine di Orchidee popolano con la loro discreta ma
straordinaria presenza gli ambienti collinari, ricordandoci
l’importanza di una flora spontanea e delle tante ricchezze
botaniche presenti e che testimoniano anche fasi climatiche
secche e aride declassato come i Pini silvestri che oggi si
arrampicano a cercare il caldo del sole sulle creste collinari,
sempre meno affaticati dal cambiamento climatico che sta
tornando verso fasi molto calde, ma non per tendenze naturali ma per modificazioni indotte dalle attività umane troppo
impattanti. Non mancano Campanule rare, gli originali Ruscus aculeatus, i Pungitopo e migliaia di altre specie per una stima
che si aggira intorno alle 2000 entità biologiche.
Proseguendo si giunge all’area del Comune di Passerano Marmorito con il
suo delizioso paesaggio di Schierano, Primeglio e Marmorito presenta invece una rete di caratteristiche morfologiche,
naturalistiche, ambientali, storico-insediative e culturali peculiari e irripetibili che nel 2014 sono state riconosciute da
Regione Piemonte come Zona di notevole interesse pubblico a livello paesaggistico. Vige pertanto una regolamentazione
sulla tutela degli aspetti percettivi-visivi , negli interventi sul paesaggio rurale oltre che in quelli negli ambiti edificati ed
edificabili. Passerano Marmorito è collocato al confine tra la Collina di Torino e il Monferrato settentrionale,
geologicamente la Zona di Deformazione del Rio Freddo separa le Alpi e gli Appennini, storicamente il territorio appare
compreso e conteso tra i Savoia e i Marchesi del Monferrato, tra la giurisdizione degli imperatori e quella dei papi, a metà
strada tra Asti e Torino (29 km da Asti e 29 da Torino). Il suo nome, testimoniato fino dal 1001 come Passerianus, deriva
da una famiglia che compare nei diplomi imperiali nel 1164, epoca in cui Barbarossa assegnò i territori di Passerano,
Schierano e Primeglio al Marchesato del Monferrato. È dominato dal Castello, considerato uno dei più belli e significativi
dell'Astigiano, appartenente alla famiglia dei Conti Radicati di Marmorito e da loro tuttora abitato. In prossimità di esso
una cappella e un edificio denominato “la Zecca”, appartenuta ai Conti e dalla famiglia donata al Comune nel 1929, è oggi
sede della biblioteca comunale.
Di particolare interesse è la Torre medioevale, adattata all’inizio del ‘700 a campanile e che un tempo costituiva la porta di
accesso settentrionale all'antico ricetto del paese e al castello. Per quanto riguarda i sedimenti diatomitici del Miocene
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inferiore (Diatomiti di Marmorito) un sito particolarmente significativo è l’affioramento esposto lungo una strada poderale
che da Marmorito scende verso Cascina Fabiasco. Un affioramento unico in Piemonte sia per il considerevole spessore che
per la perfetta preservazione dei delicatissimi frustoli di diatomee. Tali frustoli sono estremamente fragili e posso subire
durante la diagenesi dei processi di trasformazione e ricristallizzazione che cancellano le microscopiche strutture organiche
originarie. A Marmorito, eccezionalmente, tali trasformazioni non sono avvenute e le delicatissime strutture organiche,
ancora perfettamente riconoscibili, hanno consentito l’identificazione di oltre 100 differenti specie e una precisa datazione
della successione con attribuzione all’intervallo cronologico Aquitaniano- Burdigaliano (risalenti a 20-15 Milioni circa). Altri
affioramenti di rilevante interesse scientifico sono quelli in cui sono esposti sedimenti marini pliocenici riccamente fossiliferi
(Sabbie di Asti) di età pliocenica. Questi sedimenti, largamente affioranti nel settore centrale e meridionale del territorio
comunale, sono caratterizzati da un grande abbondanza di resti fossili di molluschi (bivalvi, gasteropodi e scafopodi), coralli
e brachiopodi, testimonianza di ambienti sedimentari marini poco profondi che sono purtroppo sempre più spesso preda
dei raccoglitori di fossili amatoriali. I siti più indicati per la geoconservazione sono: Primeglio, Strada del Mulino, località
Sabecco e località I Valloni. Il sito del Galè e la compresenza di fonti salate, dolci e solforose parla della natura geologica
della zona. L’acqua attraversa i numerosi strati del sottosuolo, strati ricchi si cloruro di sodio, calcare e zolfo, formatisi nel
Messiniano, e ne esce ricca di quelle componenti. Potete immaginare quanto tutto questo sia importante per i temi di
Biosfera del MAB CollinaPo. Si legge infine, nella presentazione inviataci dall’amministrazione comunale di Passerano:
“Uno sviluppo sostenibile e lungimirante di questo territorio non può che passare attraverso l’attenta protezione,
conservazione, valorizzazione degli spazi naturali, dei luoghi della memoria, dei saperi tradizionali, del patrimonio culturale
e naturale. Anche se è difficilmente pensabile ricostruire la cultura contadina di un tempo, molto più probabile è poter
trarre insegnamenti dai saperi antichi per interfacciarli con realtà altre, ad esempio quelle di un turismo ‘lento’, rispettoso e
attento alla natura, alla cultura e alla storia. Fondamentalmente si tratta di creare una nuova empatia tra gli abitanti e il
luogo, tra i turisti e questo paesaggio e dare vita ad una organizzazione capace di tenere insieme il paesaggio naturale e il
paesaggio culturale. Il nodo è ritrovare il senso della comunità e dell’appartenenza. La sfida è contro la disaffezione, l’inerzia,
l‘indifferenza. Le potenzialità ambientali della zona sono individuate nei sistemi dell’assetto idrogeologico, storico culturale
e paesaggistico, naturale e agricolo forestale, sul fronte a) del paesaggio naturale: grazie a i geositi di Marmorito; il paesaggio
bioculturale; i pozzi, le sorgenti e il loro contesto naturale; le aree boscate autoctone, l’assetto oroidrografico e i profili
collinari (escludendo movimenti di terreno o sbancamenti che ne possono alterare la morfologia); b) del paesaggio culturale:
grazie alla presenza e insediamento di chiese, cappelle e i piloni votivi;i borghi di Schierano, Primeglio e Passerano; le
cascine, le case a loggiato di tutto il territorio di Passerano Marmorito e i simboli identitari delle comunità. A riguardo, si
segnala infine il grande il lavoro in corso svolto dall'Osservatorio del Paesaggio.
Poco più in là nella piana che anticipa le colline torinesi e del chierese ecco
Marentino e Arignano con una loro chicca paesaggistica: l’omonimo Lago. Un invaso artificiale, uno
dei pochi laghi della collina torinese, che oltre a rappresentare una originalità del territorio è anche un importante
habitat per l'avifauna e non solo. Al confine tra i comuni di Arignano e Marentino si trova infatti questo bacino artificiale
di alcune decine di ettari: rispetto ad altri laghi artificiali non è grande, ma si tratta comunque del maggiore specchio d'acqua
della collina Torinese. Il lago di Arignano fu realizzato negli anni Quaranta dell'Ottocento come bacino di raccolta di acque
destinate all'irrigazione delle campagne della zona. Promotore dell'iniziativa fu il conte Paolo Remigio Costa, che dovette
vincere le resistenze di alcuni proprietari agricoli, poco convinti dell'utilità dell'opera e preoccupati delle possibili
conseguenze negative sulla "salubrità dell'aria". Il 5 febbraio del 1839 il conte riuscì comunque ad ottenere da re Carlo
Alberto le Regie Patenti necessarie per la realizzazione dell'opera, ovvero lo sbarramento tramite una diga in terra di un
tratto della pianeggiante valletta collocata tra Arignano ad est, Marentino ad ovest e l'ex-comune di Avuglione a nord.
L'invaso è alimentato da alcuni piccoli rii che drenano la zona collinare circostante e, oltre che per fini irrigui, veniva un
tempo utilizzato anche per produrre ghiaccio durante la stagione invernale, come riserva di pesca e per fornire acqua a due
mulini posti a valle della diga. Non lontano dalla sponda occidentale i conti Costa avevano voluto la realizzazione di un
isolotto, dove oggi crescono alcuni alberi di grandi dimensioni, che diventava un suggestivo approdo per piccole
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imbarcazioni a remi. Con la decadenza della famiglia
Costa la proprietà del laghetto cambiò varie volte;
negli anni Trenta del Novecento fece parte dei
possessi dei conti Rossi di Montelera, i quali lo
utilizzarono come riserva di caccia e di pesca;
risalgono a questo periodo varie visite alla proprietà da
parte di membri di casa Savoia. Nel secondo
dopoguerra il lago cadde progressivamente in uno
stato di abbandono finché nel 1980 venne svuotato,
principalmente per motivi di sicurezza. Negli anni
precedenti allo svuotamento il lago e le sue sponde si
era progressivamente rinaturalizzati diventando una
importante area di rifugio per numerose specie che
altrove si stavano facendo più rare (Arignano era uno
dei pochi luoghi di nidificazione in Piemonte
dell'Airone rosso). Con la messa in sicurezza della
piccola diga l'invaso è stato ripristinato nel 2005 e si
sta rivelando una area umida di notevole importanza
per l'avifauna stanziale e migratrice. Oltre alle numerose specie di uccelli il lago e le sue sponde forniscono un habitat
importante anche a rettili, anfibi e agli insetti legati alle aree umide come le libellule. Le zone circostanti l'invaso sono inoltre
paesaggisticamente piuttosto integre, nel senso che l'attività delle varie aziende agricole presenti mantiene in buona salute
un agroecosistema dove a coltivazioni non intensive si alternano prati aperti e di boschi, questi ultimi più estesi sulle pendici
collinari con esposizione sfavorevole. Oggi il lago è inserito nel progetto regionale piemontese "Corona Verde", che ha
l'obiettivo di creare attorno alla conurbazione torinese un anello di ambienti naturalisticamente intatti ed intercomunicanti
tra loro. L'Associazione Pro Loco "Amici del Lago di Arignano" si occupa inoltre in modo attivo di scongiurare la minaccia
della urbanizzazione delle sponde o di una gestione non naturalisticamente rispettosa dell'ambiente circostante, provando
invece a dare spazio ad attività eco-compatibili come l'agricoltura e il turismo a basso impatto, il recupero delle tradizioni
locali e la fruizione rispettosa di questo bell'angolo della riserva della Biosfera Mab UNESCO COllinaPo.
Ed ecco Chieri, l’importante sito occupato dai romani dal II sec. a.C. e dove sorgevano preesistenti popolazioni
celto-liguri e che aveva il nome di CÀRREUM, di radici pre-romane e che lo stesso Plinio il Vecchio (che morì durante
l’eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. distrusse Pompei) citò Càrreum Potentia tra le città splendide della IX Regione. Il I
sec. d.C. fu un periodo di prosperità per Càrreum: lo testimoniano gli abbondanti ritrovamenti archeologici, segno di attività
commerciali con zone anche lontane dell’Impero e di qualificate produzioni artigianali locali. I Chieresi seppero poi
conquistarsi nella storia una solida autonomia, destreggiandosi, quasi sempre alleati ad Asti, tra il vescovo di Torino ed
Imperatore, tra i nobili Biandrate, vassalli del vescovo, e il Marchese del Monferrato. I mercanti chieresi, attivi al fianco
degli astigiani in tutte le fiere di Francia e delle Fiandre, assunsero con essi la specializzazione di “lombardi” e cioè di
commercianti-banchieri. Il periodo di massimo benessere del libero Comune corrispose con il XV sec. I Chieresi seppero
infatti mantenere un’autonomia pressoché assoluta, pur sottomettendosi al “protettorato” della Casa di Savoia, astro
nascente dello scenario politico piemontese. Lo sviluppo in città della tessitura ed in particolare della lavorazione del
fustagno, portò segnali di lenta ripresa economica. Tutta l’organizzazione sociale ebbe a ruotare attorno all'”Università del
Fustagno”. Una città anche segnata dalla devozione e da grandi opere di architettura. Una ad esempio: l'Oratorio di San
Filippo, un luogo sconosciuto ai più nella via più animata di Chieri. Venne edificato per il desiderio dei padri filippini che
abitavano nel convento per avere un luogo privato per raccogliersi in preghiera, separati dal resto dei fedeli. L'acquisizione
da parte del Comune, nel 1977, ha portato nel piccolo edificio alcune mostre, spettacoli e concerti. La Cappella fa parte di
un magnifico e più ampio complesso, l'ex seminario di San Filippo, attuale sede di una scuola paritaria, di alcune associazioni
e del Museo don Bosco. A Chieri Giovanni Bosco passò dieci anni della sua vita, cinque nel seminario e il bicentenario
della nascita di Don Bosco nel 2015 ha sancito la rinascita anche di questo spazio che ha visto il Padre dei salesiani
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soggiornarvi nella sua permanenza chierese. Dal punto di vista geologico la pianura attorno a Chieri è costituita da depositi
del Quaternario di origine continentale, depostial di sopra di sedimenti di origine marina facenti parti di un ciclo
sedimentario che dall’Eocene superiore (oltre30 milioni di anni fa) arriva sino al Pliocene superiore (circa 2,5 milioni anni
fa). I caratteri geologici e geomorfologici del territorio hanno consentito in passato e in alcuni casi consentono ancora oggi
di estrarre importanti materiali da costruzione; in particolare in alcune località dove affiorano specifici terreni della
successione sedimentaria. I materiali più importanti oltre alle argille per laterizi, sono i gessi provenienti dal Basso
Monferrato Astigiano: Moncucco Torinese e Castelnuovo Don Bosco e il calcareo “pietra” di Gassino cavata un tempo
nei dintorni delle frazioni di Bardassano e Bussolino Gesso (vedi altro focus sul Comune di Gassino). Nel Basso Monferrato
Astigiano è documentatala presenza di siti estrattivi sin dagli inizi del XIX secolo e in alcuni casi perfino del XVI secolo
come nel caso delle decorazioni esterne del castello di Passerano (Vedi altro Focus sul Comune di Passerano Marmorito).
Nei dintorni di Chieri la cava di gesso più importante è localizzata nel Comune di Moncucco Torinese, mentre risulta ormai
abbandonata quella di località Bardella a Castelnuovo Don Bosco. Tali cave oltre ad essere importanti risorse per l’economia
locale, rappresentano anche siti di elevatissima valenza scientifica come nel caso della cava di Moncucco in cui è
ottimamente esposta una successione sedimentaria riferibile al Messiniano intercalata tra depositi di mare profondo. Il
“Messiniano”, intervallo di tempo compreso tra 7,25 e 5,33 milioni di anni fa, è caratterizzato in tutta la regione
mediterranea da rocce che vengono comunemente definite con il termine di rocce evaporitiche, cioè formatesi per
precipitazione chimica a partire da soluzioni acquose contenenti alte concentrazioni di sali, le quali a loro volta sono il
risultato di intensi processi di evaporazione dell’acquamarina. Quindi oltre a rappresentare un’importante risorsa, queste
rocce sono anchE ottimi indicatori paleo-climatici e paleo-geografici in quanto stanno a testimoniare di ambienti e climi
passati che hanno segnato la storia evolutiva del nostro territorio. Si tratta di una roccia di tipo organogeno depositatasi a
partire da circa 37 milioni di anni fa durante l’Eocene Superiore. Essa è costituita dai resti di una miriade di organismi
appartenenti ai più svariati gruppi animali e vegetali; tra questi i importanti sono sicuramente i macroforaminiferi: organismi
marini unicellulari, e le alghe coralline; ma non mancano anche resti di vertebrati come ad esempio denti di pesce.
Infine a Moncucco Torinese
segnaliamo il
“WPA”, l’attesissimo appuntamento autunnale tra fotografia e
pittura naturalistica che comprende mostre, seminari e incontri a
ingresso libero e gratuito, dedicato agli appassionati di immagine e
illustrazione, ideato a curato dal fotografo esperto di Natura e
Wildlife Fabrizio Moglia, già fondatore di NatureColors
Association. Il WPA 2016 annovera, oltre al Parco del Po e Collina
To.se, partner di assoluto prestigio quali Canon, L’Bric Resort, Hill
& Valley Company, Parco Nazionale del Gran Paradiso, Parco
Nazionale dello Stelvio, Parco Nazionale d’Abruzzo, Parco
Nazionale del Vanoise, Parco del Monte Avic ed il Comune di
Moncucco Torinese.
L’ appuntamento si tiene a tappe di ben tre weekend dal 15 al 30
ottobre presso l’affascinante Castello di Moncucco, grandioso
edificio storico recintato da solide mura e troneggiato da due
imponenti torri. Dal castello si può ammirare il magnifico paesaggio
tra uomo e natura che, dalle colline del Monferrato, si estende alle
colline del Piemonte meridionale e a quelle torinesi, a Superga e
all'arco alpino. Questo sito storico-culturale che dal 2016 fa parte
della Riserva di Biosfera MAB UNESCO CollinaPo, ospita le
giornate di “Wildlife Photo Art”. Segnaliamo che durante gli
appuntamenti WPA 2016 sarà infatti possibile osservare lo
svolgimento del WPA, l’area di Moncucco e le colline del Monferrato
dall'alto grazie all’ELYTOUR e il suo elicottero; inoltre con il WPA
SHUTTLE Service sarà disponibile una Navetta gratuita dal Castello di Moncucco ai Parcheggi ed all'eliporto ogni 15
minuti e infine con il WPA Free PARKING Parcheggio gratuito con servizio navetta. Il Parco del Po e Collina To.se
partecipa all’importante iniziativa sia con un intervento in occasione dell’inaugurazione del WPA del 15 ottobre che con
l’esposizione stanziale, per tutto il periodo della manifestazione, di un Mab Identity Corner CollinaPo con banner illustrativi,
co- prodotti con l’Istituto SiTI, che raccontano il delicato processo la Nomina di Riserva di biosfera UNESCO con il
geomarchio territoriale “CollinaPo”.
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CONCLUSIONI La Riserva della Biosfera CollinaPo è il primo caso di riconoscimento di Urban
MAB in Italia. L’area geografica a forte presenza antropica ha una interessante biodiversità, ricca di acque, dove
il fiume Po con ben 120 km di tratto orografico è il principale serbatoio di biodiversità nell’area torinese, in parte
anche grazie alle numerose zone umide formatesi sul suo percorso. Le sue caratteristiche fisiche e geologiche
hanno portato alla formazione di numerosi lidi ghiaiosi, lanche (stagni formatisi sui bracci morti dei fiumi) e
boschi ripariali, che ospitano varie specie. A queste si uniscono colline
ricche di boschi, con crescente presenza di flora e fauna.
Il programma MAB "Man and Biosphere", attraverso il quale l'UNESCO
ha istituito ad oggi 671 Riserve della Biosfera nel mondo, e all’interno del cui
circuito è stato nominato dal 19 marzo 2016 (a Lima, Peru) anche il
comprensorio di CollinaPo sostiene la visione di un pianeta Terra dove gli esseri
umani hanno coscienza del loro avvenire comune e della loro interazione
con l’habitat e la biosfera, e agiscono in un modo collettivo e responsabile
per costruire delle società prospere in armonia con la biosfera.
Comuni coinvolti:
Rondissone, Cigliano, Crescentino, Mazzè,
Rondissone, Saluggia, Torrazza Piemonte, Verolengo, Villareggia,
Casalborgone, Berzano San Pietro, Casalborgone, Castagneto Po,
Chivasso, Cinzano, Lauriano, Monteu da Po, Rivalba, San Sebastiano da
Po, Tonengo, Brozolo, Brozolo, Brusasco, Cavagnolo, Morasengo,
Verrua Savoia, Settimo Torinese, Borgaro Torinese, Brandizzo, Caselle Torinese, Leinì, San Benigno Canavese,
Settimo Torinese, Venaria, Volpiano, San Mauro Torinese, Castiglione Torinese, Gassino Torinese, San Mauro
Torinese, San Raffaele Cimena, Torino,Pino Torinese, Andezeno, Arignano, Baldissero Torinese, Chieri,
Marentino, Montaldo Torinese, Pavarolo, Pino Torinese, Riva presso Chieri, Sciolze, Castelnuovo Don Bosco,
Albugnano, Buttigliera d'Asti, Capriglio, Castelnuovo Don Bosco, Mombello di Torino, Moncucco Torinese,
Moriondo Torinese, Aramengo, Aramengo, Cocconato, Passerano Marmorito, Pino d'Asti, Cerreto d'Asti, Piovà
Massaia, Orbassano, Beinasco, Bruino, Nichelino, Orbassano, Rivalta di Torino., Moncalieri, Cambiano,
Moncalieri, Pecetto Torinese, Santena, Trofarello, Carignano, Candiolo, Carignano, Castagnole Piemonte, La
Loggia, Lombriasco, None, Osasio, Piobesi Torinese, Vinovo, Virle Piemonte, Pralormo, Carmagnola,
Casalgrasso, Poirino, Pralormo, Villastellone.
E adesso che siamo Riserva della Biosfera “CollinaPo” nel programma MAB UNESCO, cosa succede?
Uno dei primi esempi immediati di ricaduta della nomina è che ci permette di premiare le candidature che i
Comuni coordinati hanno presentato sulla legge 4/2000 della Regione Piemonte per la valorizzazione del
Turismo, essendo previsto per le aree UNESCO un premio di punteggio nella graduatoria del Bando. Il
programma MAB offre infatti una piattaforma metodologica affinché i vari Soggetti coinvolti cooperino fra loro.
E’, in sintesi, una governance cultural-ambientale-economica che dà valore alle diverse anime del territorio in un
connubio di cooperazione – in chiave sostenibile - tra natura, agricoltura, impresa, paesaggio, ruralità, salute e
sport, arte, enogastronomia, beni culturali tangibili e intangibili. Tutto ciò pone le basi per migliorare la qualità
della vita, per avere una infrastruttura verde più capillare, una maggiore attrattività economica e buone pratiche
di sostenibilità in tutti in settori, a partire dall’ecoturismo. La nomina a Riserva è soprattutto una vetrina mondiale.
Non è una gara e non vi sono concorrenti nel circuito MAB UNESCO: ci si confronta con una rete di territori
di tutto il mondo nella quale vengono ammessi quelli che dimostrano la loro elevata integrazione fra qualità
ambientale ed attività umane.
Come istituzione regionale che ha ottenuto tale prestigiosa nomina relativa al territorio orientale della città
metropolitana torinese (85 Comuni) – per la quale è stato fondamentale il sostegno economico di Gruppo Iren,
il contributo di GTT e Smat e il tutoring alla realizzazione del dossier di candidatura a cura di Istituto SiTI - il
Parco regionale del Po e Collina Torinese ha scelto di sensibilizzare la cittadinanza del comprensorio della Riserva
CollinaPo al rispetto, tutela e sostenibilità durevole dell’ambiente sposando il pensiero contemporaneo sui
processi di educazione informale e di partecipazione attiva al Sito UNESCO stesso. Per avvicinare la gente a
considerare il paesaggio e la natura in cui viviamo come un valore prezioso e fondamentale per la qualità della
vita, il Parco utilizza anche i linguaggi della cultura, delle arti e della creatività, sostituendo il vecchio approccio
didascalico e dottrinale - che invece di avvicinare allontana - al fine di rendere l’ambiente e l’ecologia un valore
da condividere anziché una materia da imparare.
(CONTINUA)
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