151_scheda_siria:Layout 2
Transcript
151_scheda_siria:Layout 2
151_scheda_siria:Layout 2 30-03-2012 16:20 Pagina 151 Siria Guerra civile padre Basilios Nassar, sacerdote greco ortodosso del villaggio di Kafarbohom colpito il 25 gennaio mentre prestava soccorso a un ferito, gli omicidi a sangue freddo di altri cristiani legati alle forze di sicurezza, i sequestri di persona con richieste di riscatto da 20.000 a 40.000 dollari a testa. Mancano risposte politiche Si riscrive la presenza religiosa S chiacciati tra due fuochi. Vittime come tutti gli altri del fuoco dell’artiglieria di Bashar al Assad, nelle città controllate dall’opposizione. Ma anche pericolosamente nel mirino di quelle frange islamiste radicali che – giorno dopo giorno – sembrano contare sempre di più tra le file della «resistenza». A oltre un anno – ormai – dall’inizio della crisi siriana, con il suo carico di quasi 9.000 morti (cf. Regno-att. 6,2011,152; 12,2011,381; 16,2011,508), è sempre più alta la preoccupazione per la sorte dei cristiani locali, schiacciati in quello che è ormai un conflitto aperto tra i sunniti (sostenuti dall’Arabia Saudita e dalle emittenti del Golfo) e gli alawiti (fedeli al presidente Bashar al Assad e ai suoi alleati sciiti di Teheran). Le testimonianze più drammatiche giungono oggi da Homs, la città martire di questa guerra. Qui la Chiesa siro-ortodossa ha denunciato espressamente episodi di pulizia etnica ai danni dei cristiani, messi in atto dalle milizie sunnite della Brigata Faruq (vicine ad Al-Qaeda) proprio mentre era in corso l’offensiva dell’esercito di Assad. Il vicario apostolico di Aleppo, mons. Giuseppe Nazzaro, ha dichiarato all’agenzia Fides di non essere in grado di confermare (ma nemmeno di smentire) questa specifica notizia. Ma ha ugualmente spiegato che la situazione nella regione di Homs si è fatta ormai incandescente per i cristiani. Qui i cristiani non son più di casa Lo testimonia in maniera eloquente anche una lettera dei gesuiti che vivono nel quartiere di Bustan al-Diwan: è datata 15 marzo ed è stata diffusa una decina di giorni dopo in Francia dal quotidiano La Croix. Alla fine di febbraio quasi tutti i cristiani avevano già abbandonato le loro case per cercare rifugio sulle montagne circostanti. «Ma all’inizio del mese di marzo – spiegano i gesuiti – la situazione è perfino peggiorata, quando molti nostri concittadini sunniti hanno abbandonato i loro quartieri nella zona Sud e si sono diretti verso i “quartieri cristiani”. Essendo la maggior parte delle case vuote, i nuovi arrivati non hanno dovuto fare altro che entrare e insediarsi. Donne e bambini, giovani e vecchi, di tutte le classi sociali, sono arrivati sui camion che li scaricavano per andare a prenderne altri. Questo fatto – continua la testimonianza – ha portato alcuni cristiani a tornare, nonostante la situazione difficile e il pericolo reale; ma hanno trovato che la casa non era più loro o che i vicini erano cambiati. Una situazione umana disastrosa, che prefigura un cambiamento demografico nel nostro quartiere e un conflitto che fino ad ora ci era stato risparmiato». Se questa è la situazione a Homs, la paura dei cristiani ha un volto ormai ben preciso anche ad Aleppo, la grande comunità che con i suoi 300.000 fedeli di un mosaico di confessioni diverse è la terza città del Medio Oriente per numero di cristiani. Qui a materializzare gli incubi è stata l’autobomba che domenica 18 marzo ha sventrato il quartiere di Sulaimanya, facendo tre morti e una trentina di feriti. Un attentato che aveva sì per obiettivo una stazione delle forze di sicurezza, ma che è stato compiuto nel cuore di una zona cristiana di domenica mattina. L’esplosione ha devastato anche la chiesa francescana di San Bonaventura e il suo centro parrocchiale, fino a un quarto d’ora prima pieno di bambini. Lo stesso vescovo siro-ortodosso di Aleppo, mar Gregorios Yohanna Ibrahim, si trovava ad appena 100 metri dal luogo dell’attentato. «Ho pensato che la mia ora fosse arrivata – ha scritto in un’altra lettera, pubblicata dal sito web arabo cristiano www.abouna.org –. Noi non vogliamo ancora credere che l’obiettivo specifico delle violenze siano i cristiani, ma certo c’è qualcuno che sembra proprio voler fare di tutto per confermare quest’idea». Ancora più in là con gli accenti nelle sue denunce si spinge madre Agnès-Mariam de la Croix, igumena del monastero ecumenico di San Giacomo il Mutilato a Qâra. Sono sempre sue le parole più forti che arrivano dalla Siria sulle violenze subite dai cristiani: l’uccisione di Possono cambiare i toni, dunque, ma l’impressione che in Siria si stia ripetendo lo scenario iracheno accomuna tutti nelle comunità arabo-cristiane. «Dopo il cambiamento avvenuto in Egitto, la situazione in cui si trova la Siria indica in maniera inequivocabile come stia trasformandosi il panorama in Medio Oriente – ha scritto in un appello il Custode di Terra santa, p. Pierbattista Pizzaballa –. Fino a un anno fa sarebbe stato impensabile prevedere simili scenari di guerra civile». Anche il patriarca latino di Gerusalemme mons. Fouad Twal è più volte intervenuto in questi mesi, sottolineando in particolare il dramma dei rifugiati (secondo i dati della Caritas di Beirut sono già oltre 20.000 nel solo Libano). Al di là dell’aiuto umanitario, però, è sulle risposte politiche alla crisi che i cristiani vivono tutta la difficoltà di questo loro trovarsi tra due fuochi. In settembre fecero scalpore le dichiarazioni rilasciate in Francia dal patriarca maronita Bechara Raï che, in visita all’Eliseo, aveva parlato del rischio di una «deriva confessionale» sunnita in Siria. Ancora in questi giorni il patriarca melkita Gregorio III Laham a Damasco ha dichiarato che «la nuova Costituzione è un passo avanti», auspicando che i siriani possano «lavorare essi stessi per la democrazia, la libertà e la dignità dell’uomo, con la partecipazione di tutti i gruppi della società». Una posizione che sembra continuare a considerare Bashar al Assad un interlocutore plausibile in questa transizione. Da parte sua il nunzio apostolico mons. Mario Zenari ha accolto con favore la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU con un piano in sei punti per un cessate il fuoco e l’avvio di un dialogo politico. Ma è un percorso sulla cui efficacia in pochi oggi sono disposti a scommettere. Si capisce, allora, anche la presenza di voci come quella del gesuita Paolo Dall’Oglio, della comunità di Mar Musa, che auspica interventi più forti, anche da parte del Vaticano. Padre Dall’Oglio ha ad esempio sollecitato l’invio di una forza di interposizione non violenta, formata da 50.000 civili, come segno visibile di un’alternativa alla logica delle armi dilagante oggi nel paese. Un’idea forse utopistica, ma almeno chiara nel mostrare come solo gesti coraggiosi di rottura oggi possono fermare l’ulteriore acuirsi di una tragedia ampiamente annunciata. Giorgio Bernardelli IL REGNO - AT T UA L I T À 6/2012 151