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RASSEGNA STAMPA martedì 17 novembre 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE CULTURA E SPETTACOLO SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Redattore sociale del 16/11/15 Strage di Parigi, associazioni e ong invocano il dialogo contro la barbarie Solidarietà per gli attacchi terroristici e la richiesta di agire ricercando la pace. Servizio civile internazionale: necessari progetti di volontariato e cooperazione. Arci: promuovere inclusione. Acli: riaffermare la pace. Tavolo della Pace: fermare impressionante escalation ROMA – “La violenza ha fallito, se perpetuata peggiorerà ulteriormente una situazione già tragica”. “Democrazia e libertà sono l’unico modo per spezzare il cerchio del terrore”. E ancora: “al terrorismo, alla guerra e all'odio rispondiamo con più libertà, più uguaglianza, più fraternità”. Dopo gli attententi a Parigi le associazioni e le ong di tutto il mondo prendono la voce per chiedere che si fermino le violenze. Da Emergency al Centro Astalli, tutti fanno appello alla Comunità internazionale perché assicuri maggiore libertà e democrazia per evitare nuove stragi di civili. “Ancora una volta colpire la popolazione civile è un gesto disumano e vigliacco. Vediamo accadere in Europa quello che da anni accade in Afghanistan, in Iraq, in Siria: le nostre scelte di guerra ci stanno presentando il conto di anni di violenza e di distruzione – sottolinea l’organizzazione guidata da Gino Strada -. Diritti, democrazia e libertà sono l'unico modo di spezzare il cerchio della violenza e del terrore. L’alternativa è la barbarie che abbiamo davanti e alla quale non possiamo arrenderci.” Anche il Cocis (Coordinamento delle organizzazioni non governative per la Cooperazione internazionale allo sviluppo) condanna con forza i fatti di Parigi e chiede la pace come unico obiettivo. “Gli attacchi suicidi di Beirut del 12 novembre, che hanno provocato più di 40 morti e oltre 200 feriti, e l’agghiacciante sequenza di assalti che sconvolge Parigi in queste ore, lasciandosi dietro una scia di morti e feriti, sono stati rivendicati dalla stessa matrice che da diverso tempo ha dichiarato guerra al rispetto dei diritti di tutti, alla pace, alla pluralità di pensiero, a chiunque non ne sia affiliato, mussulmano, cristiano, ateo o a qualunque altra religione o credo appartenga. Noi condanniamo con forza questa escalation - afferma Giovanni Lattanzi Presidente del Cocis-“Siamo convinti che il ruolo della comunità internazionale debba essere più centrale e incisivo e che l’Europa tutta debba essere sempre più protagonista". Secondo il Cocis è il “momento di sentirci tutti, dal nord al sud del Mondo, fratelli accomunati da una lotta per difendere i diritti al rispetto del valore della vita, della dignità umana e alla pluralità di pensiero. Proprio nei momenti più bui, l’umanità è capace degli slanci più nobili. #PorteOuverte è l’hashtag con il quale gli abitanti di Parigi hanno offerto la loro ospitalità a chiunque fosse in fuga dalla follia terrorista che si riversava per le strade della città. Questo – conclude Lattanzi - spirito deve guidare anche l’accoglienza che mettiamo in pratica ogni giorno nei confronti delle persone in fuga da quella stessa follia omicida, che distrugge le loro case, uccide i lorocari e avvelena le loro vite”. Un forte appello a cessare ogni guerra arriva anche dal Movimento Non violento: “ed eccola qui, la guerra. E' arrivata anche alla porta accanto. Con il suo orrore, il terrore, il sangue, i corpi morti. Quando la vedi con i tuoi occhi capisci davvero perché è “il più grande crimine contro l'umanità”. Dobbiamo reagire. Non farci piegare dal dolore e dalla paura. Non accettare lo stato delle cose. Reagire. Reagire per spezzare 2 la spirale, ed aprire una strada nuova. La violenza ha fallito e se perpetuata peggiorerà ulteriormente una situazione già tragica. L'alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie”. “I fatti di Parigi hanno mostrato il volto orribile del terrorismo. Quello stesso terrorismo da anni in paesi come la Nigeria, la Siria, il Mali e l’Afghanistan colpisce indiscriminatamente civili inermi e mette in fuga ogni giorno migliaia di persone" – sottolinea padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. "Oggi più di ieri - continua Ripamonti - vogliamo ribadire il nostro impegno ad essere uomini e donne di dialogo, di pace. È nostra responsabilità lavorare insieme per la costruzione di società in cui il rispetto dei diritti e della dignità di ciascuno sia l’unica forma di contrasto ad abusi e violenze”. Papa Francesco ha ricevuto in udienza 18 rifugiati del centro; il gruppo era composto da rifugiati provenienti da Somalia, Egitto, Costa d’Avorio, Iran, Congo Kenia, Ucraina, Burkina Faso. Ciascuno di loro ha avuto modo di salutare personalmente il Pontefice e rivolgergli qualche parola. “Mai come in questo momento è importante continuare ad agire in nome della solidarietà nei confronti degli oppressi e delle vittime di conflitti e di violenze", conclude Ripamonti. “Parigi come Beirut, Damasco, Kabul, Tripoli, Mogadiscio, Gaza, Gerusalemme.E’ la guerra che, pezzo dopo pezzo, si estende travolgendo vite, città, frontiere, valori, diritti, umanità” aggiunge Flavio Lotti, coordinatore del Tavolo della Pace:“è urgente trovare il modo per fermare questa impressionante escalation, per rompere la spirale della guerra, del terrorismo e dell’odio” . Il Tavolo della Pace esorta la comunità internazionale ad ammettere la parzialità delle risposte che sono state date finora alle guerre, ai cambiamenti climatici, alle migrazioni, al terrorismo e alla povertà, per ripartire da una nuova politica di pace. Anche il Servizio Civile Internazionale esprime vicinanza e solidarietà alle persone in Francia, colpite il 13 novembre da un atto di immane violenza. "Esprimiamo anche solidarietà alle persone vittime di violenza, sia essa fisica, culturale o economica in tutte le parti del mondo, come ad esempio in Libano, Siria, Turchia, Palestina, Iraq, Libia e Messico solo per citare le vicende degli ultimi giorni. - sottololine - A causa di queste violenze, tante di queste persone sono poi costrette a ricercare altrove per sé, il nucleo familiare e la propria comunità le condizioni per il soddisfacimento dei propri progetti di vita: sono le persone che fuggono da queste violenze ad attraversare il Mediterraneo. A tutte queste persone va la nostra vicinanza, e ribadiamo la necessità di progetti di volontariato e cooperazione internazionale che siano lontani dal perseguimento di fini economici ma rimettano al centro le persone, innescando dinamiche orizzontali, inclusive, comunitarie. Per un orizzonte di pace non possiamo fare altro che trasformare in maniera non-violenta i conflitti nei quali viviamo o che ci circondano". “Ci stringiamo attorno a Parigi e alla Francia. Leviamo forte un grido di esecrazione per gli attentati terroristici. La priorità assoluta è riaffermare la pace, sconfiggendo le forze che stanno dietro ai criminali esecutori, il cui lucido disegno è portare il caos e la guerra in Europa”. Questo il commento del presidente nazionale delle Acli Gianni Bottalico, secondo cui “a Parigi è avvenuta una nuova battaglia di quella Terza Guerra Mondiale in corso, che come ricorda Papa Francesco, viene combattuta a pezzi”. “Noi europei ci accorgiamo solo adesso di questo attacco all'umanità, quando anche le nostre vite cominciano ad essere considerate spendibili. – prosegue - Non solo spesso abbiamo chiuso gli occhi, ma ci sono delle corresponsabilità di stati europei nella destabilizzazione di vaste aree del Medio Oriente e della Libia, e ultimamente della Siria. Da questa destabilizzazione ha tratto vantaggio e sostegno l'Isis per il suo repentino sviluppo”. Anche il Tavolo Interreligioso di Roma si è detto vicino ai parigini. “Nel tragico presente risultano inadeguate le parole, le autorevoli inevitabili dichiarazioni di sdegno, le grida di 3 rifiuto alla barbarie. E’ fondamentale oggi riflettere e trovare nuove risposte a situazioni drammatiche che sono entrate nelle case dell’Europa tutta, evitando nel contempo di demonizzare e scaricare le responsabilità su fedi ed ideologie – sottolinea in una nota -. Il Tavolo Interreligioso di Roma di fronte alla drammatica situazione francese e alla centralità che anche il nostro paese, alla vigilia del Giubileo, si trova ad avere nell’emergenza crescente, chiede a Franca Biondelli, sottosegretario di Stato al Ministero del lavoro e delle politiche sociali con delega per il Dialogo Interreligioso, una convocazione straordinaria del Tavolo nazionale per l’Integrazione, in cui confrontarsi ed elaborare proposte per politiche e strategie che si concretizzino in progetti e interventi, condivisi su scala locale e nazionale capaci di rispondere alle lacerazioni sociali, culturali e religiose emergenti”. “In queste ore piangiamo l'orrore di Parigi insieme al mondo intero. Hanno colpito lì dove le persone stavano bene insieme. Dove c'era divertimento e spensieratezza. La musica, la cultura, lo sport, la convivialità. Noi non vogliamo farci sconfiggere dalla paura nè dalla follia del terrorismo”. E' il commento di Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci. “Oggi, noi dell'Arci, ci stringiamo attorno ai parigini e a tutti i francesi. Saremo presenti in tutti i presidi e le manifestazioni che in queste ore si stanno organizzando nelle varie città d’Italia in solidarietà con il popolo francese. Convinti che dovremo continuare a diffondere e difendere la cultura, la democrazia, la libertà, la laicità. Sappiamo che da oggi sarà ancora più importante promuovere inclusione e che non dovremo cedere a chi approfitta per alimentare odio e xenofobia”. del 17/11/15, pag. 16 e dal manifesto.info Associazioni e ong contro il terrorismo, il razzismo e la guerra Pace. Associazioni, sindacati, movimenti, ong hanno promosso per martedì 17 novembre un’assemblea nazionale per discutere insieme sulle modalità più efficaci per lanciare un percorso collettivo contro il terrorismo, le guerre e il razzismo. Un piano d’azione dal basso, che coinvolga scuole, circoli, luoghi di lavoro, parrocchie, centri di aggregazione. Per la pace e l’umanità. L’assemblea si terrà alle 15, presso il Centro congressi Frentani, in via dei Frentani 4 a Roma. A pochi giorni dalla terribile strage di Parigi, associazioni, sindacati, movimenti, ong hanno promosso per domani, martedì 17 novembre, un’assemblea nazionale per discutere insieme sulle modalità più efficaci per lanciare un percorso collettivo contro il terrorismo, le guerre e il razzismo. Un piano d’azione dal basso, che coinvolga scuole, circoli, luoghi di lavoro, parrocchie, centri di aggregazione. Per la pace e l’umanità. L’assemblea si terrà alle 15, presso il Centro congressi Frentani, in via dei Frentani 4 a Roma. Di seguito l’appello che convoca l’assemblea e un primo elenco delle organizzazioni che l’hanno sottoscritto. Appello per una mobilitazione nazionale ed un piano d’azione delle organizzazioni sociali contro il terrorismo e la guerra, il razzismo e i predicatori d’odio. Per la pace e l’umanità Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi…, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come 4 quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. La guerra è dentro le nostre società… E’ dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono per fare le guerre che poi condanniamo… Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società…fondata sui valori che sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza. Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari. Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace. Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici… Basta produrre e vendere armi per fare le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla guerra. Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati… Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero come nemico serve per raccogliere consensi elettorali… L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre società muri invalicabili… Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta intero vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile… Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di confronto e di scambio culturale. Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare. Per questo invitiamo tutte le organizzazioni sociali a organizzare a partire da domani iniziative, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso…un piano di azione nazionale contro il terrorismo, le guerre e il razzismo. ACLI, ANSPS, ANTIGONE, AOI, ARCHIVIO MEMORIE MIGRANTI, ARCI, ASGI, ASSOCIAZIONE PER LA PACE, AUSER, CGIL, CENTRO ASTALLI, CILD, CINEVAN, CIPSI, CNCA, COCIS, COMITATO NUOVI DESAPARECIDOS, FIOM CGIL, FORUM TERZO SETTORE, HABEISHA, LASCIATECIENTRARE, LEGAMBIENTE, LIBERA, LINK, LUNARIA, MOVIMENTO NONVIOLENTO, RETE DELLA CONOSCENZA, RETE DEGLI STUDENTI, RETE G2 SECONDE GENERAZIONI, SEI/UGL, SOS RAZZISMO ITALIA, UDS, UN PONTE PER, UDU http://ilmanifesto.info/associazioni-e-ong-contro-il-terrorismo-il-razzismo-e-la-guerra/ Da Ansa del 16/11/15 Parigi: domani assemblea associazioni,sindacati e ong a Roma Appello a una mobilitazione. No a nuove avventure militari 5 (ANSA) - ROMA, 16 NOV - Una mobilitazione nazionale e un piano d'azione delle organizzazioni sociali "contro il terrorismo e la guerra, il razzismo e i predicatori d'odio": a pochi giorni dalla strage di Parigi, associazioni, sindacati, movimenti e ong italiani promuovono per domani un'assemblea nazionale per discutere "sulle modalità più efficaci per lanciare un percorso collettivo contro il terrorismo, le guerre e il razzismo, un piano d'azione dal basso che coinvolga scuole, circoli, luoghi di lavoro, parrocchie, centri di aggregazione. Per la pace e l'umanità". L'assemblea si terrà alle 15, presso il Centro congressi Frentani a Roma. Le organizzazioni - tra le quali Acli, Arci, Asgi, Cgil, Centro Astalli, Cnca, Forum terzo Settore, Libera, Legambiente, Rete studenti, Link, Rete G2 seconde generazioni, Movimento nonviolento - lanciano un appello nel quale esprimono solidarietà alle vittime dell'attacco terroristico nella capitale francese ma ricordano anche "l'angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano". "Proviamo rabbia e delusione - si legge nell'appello - per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali cui tutti noi abbiamo delegato la sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto leva su diplomazia e cooperazione per prevenire e gestire i conflitti. Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari. Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell'ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l'istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace". I predicatori d'odio vanno fermati, dicono ancora, ma va anche contrastata "la deriva politico-culturale che spinge l'Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato come nemico serve per raccogliere consensi elettorali"." Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l'Europa, il pianeta intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a partire dagli impegni che gli stati debbono assumere alla Cop21 che si terrà proprio a Parigi, dal 30 novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario e indispensabile". (ANSA). Da Repubblica.it del 17/11/15 (Roma) Roma, gli studenti in piazza, la questura vieta il corteo: appuntamento a Piramide Da San Vitale il 'no' alla manifestazione, dopo il rafforzamento delle misure antiterrorismo. Alle 10.30 universitari e precari alla stazione Trastevere per denunciare le "politiche insufficienti in materia di diritto allo studio". Blitz nella notte al Miur: vogliamo tutto #pertutti Roma, gli studenti in piazza, la questura vieta il corteo: appuntamento a Piramide Gli studenti tornano in piazza e sfidano la questura che non ha autorizzato la nuova manifestazione organizzata dalla Rete della Conoscenza (Unione degli studenti - Link Coordinamento Universitario). Una mobilitazione internazionale studentesca promossa a livello europeo dall'Obessu (Organising Bureau of European School Student Unions) e dall'appello We are in credit dallo slogan "Vogliamo tutto #pertutti, privilegi per nessuno". 6 Venerdì avevano organizzato un altro corteo per dire 'no alla buona scuola', la riforma del governo Renzi. Poi dopo gli attentati terroristici è arrivato l'appello dalla questura di Roma ad evitare manifestazioni in questi giorni di allerta. L'appuntamento a Roma è alle 9.30 a Piramide per la manifestazione romana non autorizzata organizzata dalla Rete della Conoscenza, in concomitanza con altre 50 piazze in Italia. La destinazione dovrebbe essere il Miur, ma il percorso al momento resta ancora un'incognita. La Questura di Roma, infatti, fanno gli studenti della rete della Conoscenza, "dopo aver garantito per diversi giorni il regolare svolgimento del corteo, ha bruscamente interrotto le trattative riguardanti la mobilitazione studentesca romana. La motivazione addotta sarebbe quella del rafforzamento delle misure antiterrorismo: ancora una volta le mobilitazioni sociali sono trattate come una questione di ordine pubblico, con un'inaccettabile limitazione dei diritti costituzionali". Mentre alle 10.30 universitari e precari danno vita a un flash mob alla stazione Trastevere per denunciare le "politiche insufficienti e dannose in materia di diritto allo studio, reclutamento e finanziamenti che spingono studenti e laureati alla fuga da questo Paese". Nella notte gli studenti hanno fatto un blitz di fronte al ministero dell'Istruzione a Roma, esponendo lo striscione con lo slogan nazionale e hanno appeso delle chiavi di cartone ai busti del Pincio: le chiavi della cultura, del diritto allo studio, del reddito e dell'accoglienza, possono aprire le porte ad una società libera da terrorismi, xenofobia e razzismo. Al Miur le chiavi contenevano l'hashtag #porteaperte. Dopo gli attacchi terroristici a Parigi, la giornata di oggi si carica, però, di nuovi significati. Per questo gli studenti alle 15 partecipano all’assemblea contro il terrorismo, le guerre e il razzismo organizzata al Centro congressi Frentani da varie sigle e associazioni, dall’Arci a Libera alla Cgil, fino alla stessa Rete della Conoscenza. Mentre in alcuni istituti romani sono già iniziate le occupazioni. http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/11/17/news/la_mobilitazione_degli_studenti_romani _tra_cortei_e_flash_mob-127523576/ Da Left.it del 16/11/15 Un appello contro il terrorismo, il razzismo e la guerra Pubblichiamo l’appello congiunto di: ACLI, ANSPS, ANTIGONE, ARCI, ASSOCIAZIONE PER LA PACE, CGIL, CENTRO ASTALLI, CILD, CNCA, FIOM CGIL, HABEISHA, LASCIATECIENTRARE, LEGAMBIENTE, LIBERA, LINK, LUNARIA, MOVIMENTO NONVIOLENTO, RETE DELLA CONOSCENZA, SEI/UGL, SOS RAZZISMO ITALIA, UDS, UN PONTE PER Per una mobilitazione nazionale ed un piano d’azione delle organizzazioni sociali contro il terrorismo e la guerra, il razzismo e i predicatori d’odio. Per la pace e l’umanità Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi. Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno subito, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. La guerra è dentro le nostre società. È dentro il nostro quotidiano. È dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove armi e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società e di 7 convivenza universale, fondata sugli stessi valori che oggi sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza. Proviamo rabbia e delusione per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali cui tutti noi abbiamo delegato la sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto leva su diplomazia e cooperazione per prevenire e gestire i conflitti . Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari. Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace. Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici, di deroghe ai principi fondanti della nostra società, di premiare gli interessi propri sottomettendo gli interessi universali, di giustificare le occupazioni, i regimi autoritari per non disturbare i mercati o il prezzo del petrolio. Basta produrre e vendere armi per fare le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla guerra. Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati per impedire che la paura e la violenza dilaghino e che in nome della sicurezza siano demolite progressivamente le nostre libertà e le conquiste democratiche. Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come nemico, serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni. L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni. Spingendo una parte della popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare identità e appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali concepite come inconciliabili tra loro. Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a partire dagli impegni che gli stati debbono assumere alla COP21 che si terrà proprio a Parigi, dal 30 novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario ed indispensabile. Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di confronto e di scambio culturale. Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare. Per questo invitiamo tutte le organizzazioni sociali a organizzare a partire da domani iniziative, momenti di riflessione, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso e a partire dai territori un piano di azione nazionale contro il terrorismo, le guerre e il razzismo. Invitiamo tutti a partecipare a un’assemblea nazionale, domani, Martedì 17 novembre, alle ore 15:00 al Centro Congressi Frentani, Via di Porta Tiburtina 42, Roma 8 Da Rassegna.it del 16/11/15 Parigi Un appello contro il terrorismo, il razzismo e la guerra Acli, Arci, Cgil, Legambiente, Libera e molti altri soggetti sociali avviano un percorso di riflessione e azione comune dopo i terribili attentati in Francia: "Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari. Vogliamo costruire la pace" "Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi. Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno subito, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa". Inizia così l'appello contro il terrorismo, il razzismo e la guerra lanciato da un'ampia aggregazione di soggetti sociali italiani: Acli, Ansps, Antigone, Arci, Associazione per la Pace, Cgil, Centro Astalli, Cild, Cnca, Fiom Cgil, Habeisha, Lasciatecientrare, Legambiente, Libera, Link, Lunaria, Movimento Nonviolento, Rete della Conoscenza, Sei/Ugl, Sos Razzismo Italia, Uds, Un Ponte Per. L'appello punta ad aprire un percorso collettivo di riflessione e iniziativa, la cui prima tappa sarà l'assemblea nazionale convocata per martedì 17 novembre, alle ore 15.00 al Centro Congressi Frentani, Via di Porta Tiburtina 42, Roma. Ma ecco come prosegue l'appello. "La guerra è dentro le nostre società. È dentro il nostro quotidiano. È dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove armi e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società e di convivenza universale, fondata sugli stessi valori che oggi sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza". "Proviamo rabbia e delusione per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali cui tutti noi abbiamo delegato la sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto leva su diplomazia e cooperazione per prevenire e gestire i conflitti. Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari". "Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace". "Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici, di deroghe ai principi fondanti della nostra società, di premiare gli interessi propri sottomettendo gli interessi universali, di giustificare le occupazioni, i regimi autoritari per non disturbare i mercati o il prezzo del petrolio. Basta produrre e vendere armi per fare le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla guerra". "Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati per impedire che la paura e la violenza dilaghino e che in nome della sicurezza siano demolite progressivamente le nostre libertà e le conquiste democratiche". "Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come nemico, serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai 9 problemi interni. L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni. Spingendo una parte della popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare identità e appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali concepite come inconciliabili tra loro". "Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a partire dagli impegni che gli stati debbono assumere alla COP21 che si terrà proprio a Parigi, dal 30 novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario ed indispensabile". "Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di confronto e di scambio culturale. Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare". "Per questo invitiamo tutte le organizzazioni sociali a organizzare a partire da domani iniziative, momenti di riflessione, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso e a partire dai territori un piano di azione nazionale contro il terrorismo, le guerre e il razzismo". http://www.rassegna.it/articoli/un-appello-contro-il-terrorismo-il-razzismo-e-la-guerra Da Huffington Post del 16/11/15 Alessandro Cobianchi Coordinatore nazionale Carovana Antimafie Il terrorismo si annida nelle periferie, dove la povertà ti toglie il futuro Nella stessa settimana del "venerdì nero" di Parigi eravamo in Francia con la carovana antimafie, il cui tema dell'edizione 2015, giova ribadirlo ai fini di questo articolo, è "Le periferie al centro". Eravamo per la chiusura della carovana francese nell'Atelier de Mars, un piccolo teatro del Panier, il quartiere di Marsiglia, un tempo degradato, che oggi offre la sua parziale rinascita alla presenza di tanti artisti e qualche Bobo. Alla fine della serata ci siam ritrovati a intonare, tutti insieme,"Bella ciao", un canto di resistenza, d'unità, di vino rosso e di abbracci. Poi al rientro, venerdì, una notte intera davanti alla Tv a guardare l'orrore. Maryse, Claude, Sylvie, David, Suzanne, Henry, Christian, Isabel e tutti gli altri della Ligue de l'Enseignement, la grande associazione francese custode del principio fondante della laicità, ciscrivonocosternati, "sono senza parole" e ci abbracciano perché "siamo della stessa famiglia, l'Umanità". I primi commenti sui social network e in televisione invece, sono stati, come accade in questi frangenti, "continueremo la nostra vita come prima", "riprenderemo le nostre abitudini". Ancora in Tv, Riccardo Pacifici, ex Rabbino capo di Roma, ci ricorda che dovremo prendere esempio da Israele, vivere normalmente in mezzo alla paura. Non sono d'accordo, anzi, credo proprio che sia ora di dire che la vita non può essere così, fare finta che nulla accada dentro e fuori, abituarsi alla propria ed all'altrui paura, come fosse il costo necessario per sopravvivere. Ma la nostra indignazione non è più sufficiente a vincere questa barbarie. Riprendere la vita normalmente, accendere monumenti e candele in segno di solidarietà, dichiarare che siamo tutti "qualcosa" (Charlie, Paris, ecc.) non basta più. Siamo confusi ma dobbiamo cercare di capire. Non voglio addentrarmi in questioni di politica estera, che non mi 10 competono, solo occuparmi di un tema che riguarda ciascuno di noi perché la nostra società vive su un piano talmente inclinato che dobbiamo sentire un moto di ribellione allo status quo. Non possiamo però pensare che i "nostri" caduti siano più ingiusti di altri. Penso alle esplosioni che dilaniano cittadini inermi nelle piazze o nei mercati in Afghanistan o in Iraq, queste bombe non sono meno pesanti di quelle che esplodono nel cuore dell'Europa, non ci sono giovani deputati alla morte solo per vocazione geografica. Se allarghiamo il sentimento di orrore a tutti i giovani uccisi, che siano pacifisti turchi durante una manifestazione o abitanti di un quartiere di Beirut, che siano Valeria, Jean o Rachid, capiremo che non possiamo cedere alle facili soluzioni degli xenofobi, dei razzisti o degli stupidi che invocano guerre di religione e chiusura delle frontiere. L'Europa non deve alzare altri muri, semmai tentare di abbattere quelli esistenti. Penso alle periferie, ai quartieri in cui sono stati arruolati tanti ragazzi, passati in breve tempo da "delinquenti abituali" (come è stato definito uno degli attentatoridi Parigi) a Jihadisti. In Francia, come in tanti altri paesi europei, appartenere a una periferia significa essere davvero "altrove", destinato alla marginalità, alla rabbia, a entrare nel bubbone pronto a esplodere, proprio come i kamikaze che ci terrorizzano tanto. La religione è ovviamente uno strumento, una giustificazione, ma la questione è la giustizia sociale. Un'amica mi segnala un articolo molto interessante, in cui Hafez, un rifugiato siriano ribadisce ciò che sappiamo tutti: "chi nasce nelle periferie non è uguale agli altri". Perché, se sei sempre umiliato, vilipeso, ritenuto inferiore, il rancore aumenta. Poi arriva chi ti offre un futuro migliore, protezione, giustizia e qualcuno (ben 1600 nella sola Francia i Foreign fighters) al degrado economico, culturale, civile, preferisce la "guerra santa". Marsiglia, Parigi, Londra, Roma, Bruxelles, ammassano persone negli arrondissements lontani dal centro o nelle borgate, facile appannaggio della criminalità organizzata, oppure pronte a vendersi o donarsi, con i loro corpi e le loro vite. Basta guardare negli occhi i disperati accampati alla stazione Tiburtina o quei quindicenni senza futuro nelle banlieus, i ragazzini che vivono nei sotterranei di Bucarest, per capire che se arriva l'imprenditore della rabbia, quella rabbia la può organizzare. Non si vuole con ciò giustificare minimamente la violenza brutale ma impegnarsi a cercare soluzioni è fondamentale. Quando lo Stato si dimentica dei suoi cittadini, si pensi allo squilibrio nel rapporto pazienti-medici fra centro e periferie di Marsiglia, come riportato da "La Provence" di qualche giorno fa o al fatto che un terzo dei marsigliesi vive sotto la soglia di povertà e il 90% della "piccola delinquenza" d'oltralpe è costituito da figli di immigrati maghrebini ma cittadini francesi,qualcuno arriva a credere che la giustizia sociale possa essere costruita nel paradiso dei martiri. Non è un caso che una città come Nizza abbia il record degli arruolati francesi nell'Isis e che sia stata, nel febbraio 2015, uno degli obiettivi terroristici. Come scrive Hafez, "qualcuno ti convince che non c'è riscatto senza violenza" perché la società "che si pensa giusta, ti ha abbandonato nelle periferie". In Italia la rabbia non si è ancora sedimentata ma anche da noi è questione di tempo. A Parigi la guerra a dei giovani inermi è stata scatenata da altri giovani. Alcuni di loro destinati a non essere mai francesi, belgi, inglesi, nonostante il passaporto dica altro. E forse, nemmeno islamici, almeno per come lo intendiamo noi, non per l'uso distorto che se ne fa. Non sono europei, non sono realmente islamici. Si potranno bombardare tutte le basi dell'Isis o invocare l'esercito nelle strade, come fece il Sindaco di Nizza, ma senza soluzioni lungimiranti, dopo Al Qaeda abbiamo avuto l'Isis e poi chissà altro. Non è l'unica opzione ovviamente ma sarebbe opportuno, iniziare a restituire una prospettiva di futuro e una concreta possibilità di scelta a chi vive emarginato. Forse la vera primavera araba potrebbe ripartire da qui. 11 Da il FattoQuotidiano.it del 16/11/15 Attentati Parigi, Chaouki (Pd): “Musulmani scendano in piazza, senza di loro esercito e intelligence non bastano” "I comunicati di condanna non sono abbastanza", dice il parlamentare dem di origini marocchine, che chiede "una risposta culturale dal basso". Che finora è arrivata in ordine sparso e con piccole manifestazioni spontanee, da Pontedera a Ventimiglia. E con le prese di posizione di alcune imam e associazioni Le comunità musulmane devono “dare una risposta culturale dal basso”, e su questo “non è stato fatto abbastanza finora”. E’ l’appello del deputato Pd Khalid Chaouki, di origine marocchina, dopo gli attentati di Parigi rivendicati dall’Isis che hanno visto in veste di carnefici, per quanto ricostruito al momento, quattro jihadisti nati in Francia e in Belgio. “I comunicati stampa di condanna – chierisce il deputato – non sono più sufficienti: i musulmani devono scendere in piazza e manifestare fianco a fianco con tutti gli altri cittadini”. Secondo Chouki, “le comunità musulmane devono prendere consapevolezza del loro ruolo e della responsabilità che hanno e unirsi alla lotta al terrorismo. Senza il loro aiuto non basterà né l’esercito né l’intelligence. Serve una risposta culturale dal basso e su questo non è stato fatto abbastanza finora”. Di prese di distanza dagli attentati da parte dei musulmani in Italia se ne sono registrate diverse. I Giovani musulmani d’Italia, con sede a Milano, hanno espresso ieri in un comunicato la “piena vicinanza e solidarietà al popolo francese” e la ferma condanna “per gli attacchi derroristici dei nemici dell’Uomo”. Parole simili sono arrivate dalla Comunità islamica di Bologna, che nel denunciare episodi di insulti e minacce nei confronti “di ragazze velate” nel capoluogo emiliano, ricorda di aver “condannato senza se e senza tutte le stragi e ora gli attacchi di Parigi e non vogliamo cadere nel gioco dei terroristi che ci vogliono ‘nemici in casa'”, ha spiegato all’AdnKronos il presidente Yassine Lafram. “E’ il momento di fare fronte comune di ricompattarci tutti e di stare uniti contro l’ideologia del terrore”. Lafram rivendica che come Cib “ci siamo sempre dissociati, siamo scesi in piazza, ma anche noi siamo stati molto danneggiati dalle accuse islamofobiche rivolte ai musulmani dai giornali, nei talk show televisivi, come se fossimo collusi con i fondamentalisti, come se approvassimo questi pazzoidi“. E se a Milano uno dei leader religiosi islamici più in vista, Sergio Pallavicini, è salito sull’altare della chiesa Mater Amabilis, punto di riferimento della comunità cattolica francese, l’imam di Lecce Saifeddine Maaroufi, a capo di una comunità di 5mila musulmani, lancia un appello: “E’ fondamentale smontare questa ideologia, rafforzando il dialogo con i giovani, affrontando con loro questo punto per non lasciare spazio a chi potrebbe avere in mente atti simili o semplicemente sostenerli, perché quello che sta accadendo va contro l’Islam in primis e contro l’Umanità in generale”. L’imam ha anche evidenziato “l’obbligo morale di denunciare” i frequentatori delle moschee portatori di idee estremiste “che intendono passare alle vie di fatto”. I musulmani d’Italia, insomma, reagiscono in ordine sparso, anche facedosi vedere alle manifestazioni di solidarietà organizzate in tutta Italia. Non solo. Gli studenti musulmani dell’Università della Calabria hanno promosso un corteo silenzioso per esprimere solidarietà ai familiari delle vittime degli attentati di Parigi. “Vogliamo ricordare – ha detto uno degli organizzatori, Ahmad – tutte le vittime del terrorismo, non solo i morti di Parigi. 12 Abbiamo scelto il silenzio in rispetto dei morti, ma desideriamo gridare al mondo che noi musulmani siamo i primi a condannare il terrorismo”. Gli organizzatori hanno intenzione di replicare la manifestazione nei prossimi giorni nel centro di Cosenza perché “vorremmo dare maggiore forza – ha detto ancora Ahmad – al nostro messaggio di pace”. Ieri a Pontedera (Pisa) c’è stata una piccola marcia della pace organizzata da Arci e comunità marocchina della Valdera, alla quale hanno partecipato una quarantina di nordafricani con cartelli “no al terrorismo”. L’iniziativa, ha spiegato uno dei promotori, Fattah Lamnaouar “serve per dire che l’Islam non ha niente a che vedere con questi terribili attentati terroristici e con i criminali dell’Isis“. E così hanno fatto, sempre ieri, i musulmani di Ventimiglia, frontiera (calda dal punto di vista dell’emergenza profughi) con la Francia. Presenti circa quattrocento persone, tra le quali ujna cinquantina di musulmani – spesso famiglie con bambini – insieme all’agente consolare francese, Roger Brochiero, al sindaco di Mentone Jean Claude Guibal. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/16/attentati-parigi-chaouki-pd-musulmani-scendanoin-piazza-senza-di-loro-esercito-e-intelligence-non-bastano/2224159/ Da QN – Il Giorno del 16/11/15 Como, la città ricorda le vittime di Parigi: manifestazione in centro Corteo in città per dire no al terrorismo. Intonata la Marsigliese Raccoglimento in piazza San Fedele Raccoglimento in piazza San Fedele Como, 16 novembre 2015 - Manifestazione di solidarietà con le vittime dell'attentato di Parigi, per dire no al terrorismo. Punto di ritrovo (in piazza Volta), è stato il simbolo della pace realizzato con l’immagine della torre Eiffel stilizzata e condivisa da migliaia di persone in questi giorni. Presenti il sindaco di Como Mario Lucini e il segretario provinciale della Cgil Alessandro Tarpini. Alla fine della manifestazione è stata intonata la Marsigliese. In prima fila tra i sostenitori della manifestazione, compare il Comune di Como, assieme a rappresentanze dei sindacati comaschi Cgil, Cisl, Uil, Arci, Acli. Si sono inoltre aggiunti fin da subito il Coordinamento comasco per la Pace, Sel, Paco-SeI, Ife, i Giovani democratici Como, SilpCgil, il Comitato Comasco in Difesa della Costituzione Como, il Comitato Como Possibile Margherita Hack, Como Lavoro e Università, il Circolo Convalle Como del Partito Democratico, la sezione Pd Como, Psi Como, Fgs Como, L’alternativa di Fino Mornasco ed Emergency Como. http://www.ilgiorno.it/como/parigi-manifestazione-solidarieta-1.1492336 Da il Tirreno del 16/11/15 (Cecina-Rosignano) L’appello del presidente Arci Bvc «Un duro attacco ai luoghi della ricreazione e della cultura – dice la presidente Arci Bvc Claudia Franconi (nella foto) – dove le persone vivono la loro quotidianità, si incontrano e condividono il piacere della reciproca compagnia. È stato attaccato questo valore mentre si uccidevano tante 13 persone. Onoriamo le vittime non solo con le lacrime ma rinnovando il nostro impegno per la costruzione di una società migliore dove i valori della vita e della libertà siano la religione di tutti e dove tutti possano esprimere la propria religione per dare un cuore nuovo alla democrazia». http://iltirreno.gelocal.it/cecina/cronaca/2015/11/16/news/l-appello-del-presidente-arci-bvc1.12457682 Da il Tirreno del 16/11/15 (Pontedera) «Non siamo terroristi» La comunità marocchina dà vita ad una marcia della pace al Botteghino PONTEDERA. «Non siamo violenti, non siamo terroristi». Una quarantina di arabi, residenti in Valdera, adulti e tanti bambini, hanno organizzato una manifestazione estemporanea per chiedere la pace. Poco prima delle 11 di ieri si sono ritrovati insieme ad alcuni rappresentanti dell’Arci. Slogan e cartelloni hanno accompagnato l’iniziativa, davanti al circolo Il Botteghino a Pontedera, lungo la Tosco Romagnola. Una mini marcia organizzata dall'Arci e dalla comunità marocchina della Valdera, compresa l’associazione La Pace, a cui hanno partecipato le famiglie con bambini che seguono un corso di lingua araba proprio a Pontedera. «Vogliamo dire che l'Islam non ha niente a che vedere con questi atti di terrorismo e con i criminali _ spiega Fattah Lamnaouar _ noi vogliamo la pace nel mondo e prendiamo le distanze da chi ha compiuto gli attentati a Parigi e dai terroristi che non agiscono in nome della religione musulmana ma per altri scopi». La marcia è stata incoraggiata, come tiene a precisare Fedaoui Abdelilah, dall’associazione sportiva La Pace che lui stesso ha fondato nel 2006 per dare un riferimento ai connazionali marocchini della Valdera, una comunità molto numerosa come in tutta la provincia. «I nostri bambini studiano regolarmente in Italia, imparano anche la lingua araba. Siamo completamente estranei ad atti di violenza. Così abbiamo sentito il bisogno, dopo i gravi fatti accaduti a Parigi, si manifestare, organizzando una fiaccolata, per la pace. Per ribadire che la religione islamica non ha niente a che vedere con i terroristi». L’iniziativa di ieri è stata seguita da alcuni cittadini della frazione che hanno visto arrivare il numeroso gruppo dei partecipanti davanti al circolo e li hanno seguiti durante la manifestazione pacifica». http://iltirreno.gelocal.it/pontedera/cronaca/2015/11/16/news/non-siamo-terroristi1.12457627 Da Left del 14/11/15, pag. UN PIATTO DI LENTICCHIE AL SAPORE DI LEGALITÀ «È importante per noi perché è come se "animassero" il territorio, ma serve anche a loro perché se ne ritornano a casa con un'altra idea della legalità anche rispetto alle proprie realtà». Sono i 250 ragazzi dai 16 ai 25 anni che per alcuni giorni hanno lavorato e vissuto in un luogo confiscato alla mafia in Sicilia. Una partecipazione che fa bene, sia ai diretti protagonisti sia alla comunità che li ospita. Ne è convinto Calogero Parisi, il presidente della Cooperativa "Lavoro e non solo" di Corleone (Palermo) che gestisce l'azienda agricola sui beni confiscati alla mafia I’azienda si estende per duecento ettari che 14 producono grano, legumi come ceci e lenticchie e naturalmente vino, con una nuova produzione di uva da tavola. Qui ogni anno, dal 2004, si svolgono i campi della legalità promossi dall'Arci. «Sono arrivati da tutta Italia, anche se circa la metà viene dalla Toscana», racconta Parisi. Accanto ai giovani ci sono anche i pensionati della Spi Cgil che gestiscono l'ospitalità. Ma quest'anno c'è stata una· novità. Accanto ai ragazzi dei campi, anche 11 ragazzi richiedenti asilo provenienti dal progetto Sprar gestito dal circolo Arci I Girasoli. I giovani rifugiati infatti per un anno e mezzo sono al centro del Progetto Drago, finanziato dalla Fondazione con il Sud e che consiste nella formazione per un laboratorio dei legumi. «Rimarranno qui fino alla prossima estate, poi sceglieranno se andarsene dall'Italia o no. Comunque avranno una formazione specifica che gli potrà servire», conclude Parisi. Da Cinecittà news del 16/11/15 ‘L’Italia che non si vede’ arriva in 40 città Ha preso il via, con la proiezione al ViaEmiliaDocFest di Napolislam, del regista Ernesto Pagano, la 5a edizione de ‘L’Italia che non si vede’, rassegna itinerante del cinema del reale. La rassegna è organizzata da Ucca (Unione dei circoli cinematografici Arci) in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà, Good Films, I Wonder Pictures, Lab 80. Si compone di 10 film, equamente divisi tra documentari e opere di finzione, e toccherà oltre 40 città italiane, privilegiando circoli culturali e sale polivalenti, con l’obiettivo di raggiungere il pubblico "invisibile" della provincia, dei piccoli centri e delle periferie, dove le sali tradizionali hanno chiuso o quelle residue proiettano solo mainstream. Una selezione di alto profilo, che propone film invitati ai principali festival internazionali, da Cannes a Venezia, dalla Berlinale al Sundance, e che tocca molti dei temi centrali della temperie sociale e culturale di questi anni: l'integrazione possibile (Napolislam, Gitanistan), l'inesausta discussione su unioni civili e matrimonio paritario (Lei disse sì), l'incerta o denegata identità di genere (Vergine giurata, Arianna), il disagio dei rapporti familiari disfunzionali (Memorie, Cloro), la dolorosa convivenza con la disabilità (Genitori), la persistenza del classismo nella società italiana (La bella gente), le difficoltà del passaggio all'età adulta (Short Skin). Per la prima volta la rassegna ospiterà inoltre cortometraggi che sono il frutto delle attività realizzate nel laboratorio FILMaP dell’Arci Movie di Ponticelli, a Napoli, e della Produzione Cinemaniaci, storico circolo Ucca di Piacenza. http://www.cinecitta.com/IT/it-it/news/45/8267/l-italia-che-non-si-vede-arriva-in-40citta.aspx Da Radio articolo 1 del 17/11/15 ore 17:00 Ellecult Professionisti della cultura, gli stati generali. Con D. Jalla, pres. Icom - L'Italia invisibile e il cinema del reale. Interviene R. Roversi, presidente Ucca. A cura di A. Fama 15 Da Redattore Sociale del 16/11/15 La povertà che diventa un crimine: è il nuovo "disordine mondiale" Rapporto per i diritti globali. Da un lato si posiziona l’invisibile euforia della finanza, mentre dall’altro si stagliano le ben più tangibili conseguenze dell’enorme depressione economica e sociale. Domani la presentazione a Roma ROMA - Nel nuovo disordine globale si afferma lo scontro tra paradigmi contrapposti e il mondo - in preda a una crisi strutturale - appare ormai senza rifugi. Nel nuovo disordine globale la povertà diventa un crimine, mentre la crisi si fa strumento di governo e moltiplicatore dell’instabilità: da un lato si posiziona l’invisibile euforia della finanza, mentre dall’altro si stagliano le ben più tangibili conseguenze dell’enorme depressione economica e sociale. Questi sono solo alcuni dei temi trattati nel Rapporto per i Diritti Globali (tredicesima edizione), che verrà presentato domani a Roma, nella Sala Simone Weil della sede della Cgil di Corso Italia, 25 alle ore 11. Il rapporto, curato dall’Associazione Società Informazione Onlus e promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente dà conto dello stato dei diritti e delle diseguaglianze del Pianeta. Al tempo della globalizzazione neoliberista, lo scenario disegnato svela un’Europa che mostra tutta la fragilità delle proprie istituzioni. Un’Europa che seleziona, specula e costruisce muri e barriere, mentre il peso dell’esodo più consistente dalla Seconda Guerra Mondiale (che conta oltre 59 milioni di persone costrette per ragioni politiche o economiche a lasciare il proprio paese), viene sostenuto principalmente dai paesi cosiddetti in via di sviluppo, che accolgono l’86% dei 19 milioni e mezzo di rifugiati nel mondo. Come riferisce lo studio, per numerose aree geografiche il 2015 è stato l’anno di una vera e propria “guerra contro i poveri” (e non alla povertà): l’anno in cui le politiche hanno maggiormente premiato la grande finanza e gli stessi responsabili della crisi finanziaria. Secondo le statistiche, nell’ultimo anno un europeo su quattro, infatti, sarebbe a rischio di povertà ed esclusione sociale: 122,6 milioni dieci in più dall’inizio della crisi. Alcuni degli Stati membri mostrano percentuali ancor più drammatiche: come la Bulgaria (48%), la Romania (40,4%) e la Grecia (35,7%), l’Ungheria (33,5%), mentre l’Italia registra il 28,4%, che corrispondono ad un totale di 17 milioni e 330mila persone sotto la soglia della povertà; dato superiore alla media europea. A fronte di questo quadro, la risposta dell’Europa tra il 2008 e il 2012 è stata quella di disivestire nel welfare, in nome di austerità e fiscal compact, tagliando di circa 230 miliardi di euro sulla spesa sociale, e a questo si è aggiunta la tendenza (che l’Europa sembra aver ricalcato dagli Usa) alla criminalizzazione della povertà piuttosto che al suo sostegno. Le Banche Centrali ( a partire dal 2007) hanno, infatti, accresciuto la quantità di moneta emessa di 24 miliardi di Euro: rialzi che hanno provocato una grande euforia finanziaria a cui sono corrisposti degli effetti devastanti per la società civile. Altro dato rilevante è il fatto che nel 2015 il 50% della ricchezza mondiale si sia concentrato nelle mani di ottanta persone. Ottanta “potenti” che detengono una quantità di ricchezza che corrisponde a quella posseduta complessivamente da 3 miliardi e mezzo di persone: il 50% più povero della popolazione mondiale. Il rapporto dedica un’attenzione particolare poi al tema che ha maggiormente calcato le scene del 2015: quello dell’alimentazione, mostrando come la “Grande Narrazione” che ha 16 attraversato la vetrina di Expo 2015, abbia perso l’occasione di intavolare una seria riflessione sull’attuale modello di produzione del cibo e suoi rischi futuri. Difatti, il paradigma imposto dalle multinazionali e dall’agricoltura industriale sarebbe responsabile del 75% dei danni biologici procurati del Pianeta, malgrado sia in grado di produrre solamente il 30% del cibo consumato nel mondo. Nel rapporto viene indicato inoltre, come logiche orientate unicamente al massimo profitto e alla speculazione finanziaria, che fanno gli interessi delle grandi corporations e vengono ulteriormente sostenute dai trattati commerciali in corso (primo tra tutti il Ttip, il Transatlantic Trade and Investment Partnership, il trattato commerciale di libero scambio tra Usa ed Europa) stiano producendo devastanti effetti sugli stessi paesi industrializzati. Da Rassegna.it del 17/11/15 Cgil: oggi presentazione Rapporto sui diritti globali Oggi, martedì 17, alle ore 11, presso la Cgil nazionale, SalaSimone Weil, Corso d’Italia 25 – Roma, sarà presentato alla stampa “Il nuovo disordine mondiale - Rapporto sui diritti globali 2015”. Il rapporto, realizzato dalla casa editrice Ediesse e giunto alla sua tredicesima edizione, è a cura di Associazione Società Informazione Onlus, promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione BassoSezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente. Partecipano alla presentazione: Danilo Barbi, segretario nazionale Cgil; Paola Bevere, presidente Antigone Lazio; Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci; Don Luigi Ciotti, fondatore e presidente Gruppo Abele; Marco De Ponte, segretario generale ActionAid Italia; Maurizio Gubbiotti, coordinatore nazionale Legambiente; Ciro Pesacane, segretario nazionale Forum Ambientalista; Sergio Segio, curatore del Rapporto, direttore di Associazione Società Informazione; Gianni Tognoni, Fondazione Basso – segretario generale Tribunale permanente dei popoli; Don Armando Zappolini, presidente Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza. http://www.rassegna.it/articoli/cgil-oggi-presentazione-rapporto-sui-diritti-globali Da Rassegna.it del 17/11/15 L'oscena piramide della diseguaglianza Oggi a Roma la presentazione del rapporto sui diritti globali 2015 "Il nuovo disordine mondiale". Ottanta super-ricchi possiedono la medesima quantità di ricchezza del 50 per cento più povero della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone Il nuovo disordine mondiale. Ha un titolo per certi aspetti profetico, essendo stato deciso – con tutta evidenza – in largo anticipo rispetto alla strage di Parigi dello scorso venerdì, il Rapporto sui diritti globali 2015. Giunto alla sua tredicesima edizione, lo studio – promosso dalla Cgil, con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente, e curato dall’Associazione società informazione Onlus – sarà presentato oggi (17 novembre) a Roma, alle 11, nella sede della Cgil nazionale, nell’ambito di una conferenza stampa a cui parteciperanno Danilo Barbi, Paola Bevere, Francesca Chiavacci, Don Luigi Ciotti, Marco De Ponte, Maurizio Gubbiotti, Ciro Pesacane, Sergio Segio, Gianni Tognoni, Don Armando Zappolini. La struttura del rapporto è articolata, anche per l’attuale edizione, in capitoli tematici, suddivisi in una panoramica generale e in focus di approfondimento su alcune delle 17 problematiche più rilevanti dell’anno che si sta concludendo. L’analisi e la ricerca sono corredate come sempre da cronologie dei fatti, dati statistici, riferimenti bibliografici e tratti dal web. Un mondo senza rifugi Nel tempo della globalizzazione neoliberista e della crisi strutturale, osservano i curatori dello studio, il mondo appare senza più rifugi: né dalle turbolenze dei mercati, come si vede dalle difficoltà crescenti che colpiscono anche la Cina e i Brics; né dalla destabilizzazione geopolitica, come dimostrano il proliferare dei conflitti territoriali e la nuova guerra fredda che si intreccia agli scenari, vecchi e nuovi, propriamente bellici; né dalla “obsolescenza programmata” dei sistemi di welfare, a partire dal modello sociale europeo da tempo sotto attacco, e delle forme e strutture democratiche di governo; né, infine, dagli effetti delle guerre e delle diseguaglianze, che nel 2015 si sono tradotti in un vero e proprio esodo, di fronte al quale l’Europa e le sue istituzioni si sono mostrate in tutta la loro fragilità, divisione, impotenza. Un esodo che, a novembre 2015, ha già prodotto, nel solo Mediterraneo, oltre 3.400 vittime, tra le quali un numero crescente di bambini. Nel settembre scorso, l’immagine del piccolo bimbo Alan Kurdi, in fuga con la sua famiglia dalla guerra in Siria, annegato e riverso su una spiaggia turca, ha commosso il mondo solo per un breve istante. Tanti come lui sono morti dopo e continuano a morire senza lasciare traccia, senza destare scandalo e ripensamenti nelle politiche globali e nella chiusura delle frontiere. Il numero delle persone sradicate – sfollati interni o rifugiati – è arrivato a 59 milioni e mezzo di persone; un numero cresciuto, solo nel 2014, di oltre 8 milioni, la cifra più elevata dalla Seconda guerra mondiale. La pressione migratoria che ha messo in questi mesi in difficoltà l’Europa è, peraltro, solo una piccola parte di quella dolente massa umana, giacché il peso principale viene sostenuto dai paesi cosiddetti in via di sviluppo, che accolgono ben l’86% dei 19 milioni e mezzo di rifugiati. Eppure, il 2015 è stato l’anno dei nuovi muri, delle barriere di filo spinato erette nel cuore del continente europeo, a tentare di isolare il contagio dai dannati della terra, cui è dedicato uno dei focus del rapporto. La guerra contro i poveri La “lotta di classe dall’alto” nell’ultimo anno, in diverse aree geografiche, ha preso la forma di una guerra contro i poveri e di un divorzio progressivo tra capitalismo globale e democrazia. Secondo le statistiche europee, nell’Unione vi sono 122,6 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione, vale a dire quasi un europeo su quattro; all’inizio della crisi erano 116 milioni. Alcuni Stati membri hanno percentuali ancor più drammatiche, come la Bulgaria (48%), la Romania (40,4%), la Grecia (35,7%), l’Ungheria (33,5%); a fronte di percentuali tra il 15 e il 16% di Paesi come Svezia, Finlandia, Olanda e Repubblica Ceca. L’Italia registra il 28,4%, dato superiore alla media europea, per un totale di 17 milioni e 330 mila persone. A fronte di questo drammatico ed eloquente quadro, nel quadriennio 2008-2012 – complessivamente, sebbene in modo molto differenziato tra i diversi Stati membri – l’Europa ha disinvestito nel welfare, in ossequio agli imperativi dell’austerità e del Fiscal compact, con un taglio sulla spesa sociale per un ammontare totale di circa 230 miliardi di euro. Disinvestire nel welfare ha anche favorito la tendenza a distribuire i rischi di impoverimento in modo selettivo e diseguale, gravando soprattutto sui più deboli, e questo è uno dei meccanismi che porta a condizioni di povertà stabili, prolungate e difficilmente reversibili. Anziché essere contrastata, insomma, la crescente povertà – che riguarda sempre più anche chi possiede un lavoro e un reddito – viene perpetuata, diviene una condizione non transitoria, una sorta di buco nero sociale dove le povertà diventano a bassissima reversibilità, nel quale è sempre più facile scivolare e da cui è – e sarà – praticamente 18 impossibile uscire. Sempre più la povertà, specie se estrema, nelle risposte istituzionali, ma anche nel senso comune, è vista e trattata come crimine, anziché come situazione necessitante sostegno. Un processo, presente da tempo negli Stati Uniti, che sta andando avanti in modo deciso in tutta Europa, a livello legislativo, amministrativo, del governo delle città, mediatico. Alla criminalizzazione della povertà è dedicato un altro dei focus del rapporto 2015. L’oscena piramide della diseguaglianza Anche nell’ultimo anno, le politiche seguite non sono andate nel verso di sostenere le parti sociali più deboli e il lavoro e nel ridurre le diseguaglianze, ma all’opposto hanno premiato i responsabili della crisi stessa, vale a dire la grande finanza. Dal 2007 le banche centrali di tutto il mondo hanno aumentato la quantità di moneta da 35 mila miliardi di dollari a 59 mila miliardi. Un mare di liquidità che ha inebriato i mercati finanziari, ma non è “sgocciolato” a sostenere l’economia precaria delle famiglie e delle piccole imprese, mentre è continuata la sciagurata politica dell’austerity, pur in presenza dei suoi effetti devastanti e deprimenti. Una politica che, nel corso del 2015, ha manifestato appieno la propria valenza simbolica, disciplinante e intimidatoria nel caso della Grecia, il cui popolo e il cui legittimo governo sono stati piegati da un pesante e stringente ricatto, come viene ampiamente analizzato nel focus del primo capitolo del nuovo rapporto. Non solo. Un anno di rialzi in borsa e di grande euforia finanziaria ha visto il contrappasso di un’altrettanto grande depressione economica e sociale. La crisi è così diventata strumento di governo e moltiplicatrice dell’instabilità. E di ingiustizia sociale. Come mostrano indiscutibilmente i numeri e gli studi internazionali. La ricchezza delle 80 persone più facoltose al mondo è raddoppiata in termini nominali tra il 2009 e il 2014, mentre la ricchezza del 50% più povero della popolazione nel 2014 è inferiore a quella posseduta nel 2009. E ancora: ottanta super-ricchi possiedono la medesima quantità di ricchezza del 50 per cento più povero della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone. Nel 2010 le 80 persone più ricche al mondo godevano (è il caso di dirlo) di una ricchezza netta di 1.300 miliardi di dollari. Nel 2014 la loro ricchezza complessiva posseduta era salita a 1.900 miliardi: una crescita, dunque, di 600 miliardi di dollari, quasi il 50 per cento in più in soli quattro anni. Il cibo come palcoscenico oppure come diritto Il titolo scelto per l’Expo 2015 ha posto il tema del cibo all’attenzione mondiale. Ma ha sostanzialmente eluso la riflessione e l’analisi sul modello attuale della produzione e del consumo alimentare e sui rischi futuri, accentuati dai trattati commerciali in corso, orientati agli interessi delle grandi corporation e favoriti dal grande investimento che viene fatto per promuovere il lobbismo, a tutto danno della correttezza e trasparenza delle decisioni politiche e dei diritti di cittadini e consumatori. Basti dire che nel 2013, solo negli Usa, il settore finanziario ha speso oltre 400 milioni di dollari per fare lobby, mentre nell’Unione europea la cifra stimata è di 150 milioni di dollari. Sulla questione alimentare si confrontano, anzi si scontrano, due paradigmi: l’agricoltura delle multinazionali, che si appropriano di intere regioni mondiali e le avvelenano con uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti, cercando di imporre ovunque anche gli Organismi geneticamente modificati, e quella dei piccoli contadini, che coltivano nel rispetto dell’ecosistema e delle biodiversità. L’agricoltura industriale, pur producendo solo il 30% del cibo consumato a livello mondiale, viceversa, è responsabile del 75% del danno biologico a carico del pianeta, compresa l’emissione, attraverso l’impiego di combustibili fossili, del 40 per cento dei gas serra, causa di quel riscaldamento climatico che sta devastando e desertificando i territori e pregiudicando il futuro del pianeta e delle prossime generazioni. 19 Anche quella per il cibo, e per l’acqua, insomma, è diventata una forma di guerra contro interi popoli, vittime di forme, vecchie e nuove, di colonialismo; come anche il cosiddetto land grabbing, il crescente fenomeno di accaparramento delle terre. Popoli la cui qualità di vita e la stessa sopravvivenza sono compromesse da logiche unicamente orientate al massimo profitto e alla speculazione finanziaria. Logiche che, tuttavia, non riguardano più solo i Sud del mondo, ma gli stessi paesi industrializzati e, in primis, l’Europa, al centro dei grandi interessi soggiacenti al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), il Trattato commerciale di libero scambio le cui trattative segrete sono in corso tra Usa e Unione europea, cui è dedicato un altro dei focus del Rapporto sui diritti globali 2015. http://www.rassegna.it/articoli/loscena-piramide-della-diseguaglianza Da Radio articolo 1 del 17/11/15 ore 11:05 - Diretta. Presentazione del Rapporto sui diritti globali 2015 - Il nuovo disordine mondiale. Intervengono D. Barbi, segretario nazionale Cgil; P. Bevere, presidente Antigone Lazio; F. Chiavacci, presidente nazionale Arci; Don L. Ciotti, fondatore e presidente Gruppo Abele; M. De Ponte, segretario generale ActionAid Italia; M. Gubbiotti, coordinatore nazionale Legambiente; C. Pesacane, segretario nazionale Forum Ambientalista; S. Segio, curatore del Rapporto, direttore di Associazione Società Informazione; G. Tognoni, Fondazione Basso – segretario generale Tribunale permanente dei popoli; Don A. Zappolini, presidente Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza Da il Friuli del 16/11/15 Pasolini e Zigaina: storia di un’affinità intellettuale Un cineforum e una mostra a Cervignano per analizzare l’amicizia e le collaborazioni tra il poeta e l’artista Con il cineforum dedicato a ‘Zigaina nel film di Pasolini’, prende avvio giovedì 19, al Cinema Teatro ‘Pasolini’ di Cervignano, il progetto ‘Zigaina e Pasolini: in scena’, curato da Francesca Agostinelli, sostenuto dalla Regione Fvg e il Comune di Cervignano del Friuli. Il cineforum, organizzato dal Circolo Arci di Cervignano con l’associazione Teatro Pasolini (per la sezione cinematografica l’Associazione Bonawentura), presenta i tre film pasoliniani in cui collaborò, a diverso titolo, l’artista Giuseppe Zigaina: una collaborazione oggi quasi dimenticata, che segnò una delle affinità intellettuali più interessanti del secolo scorso. Le proiezioni non procedono in senso cronologico: ad aprire il cineforum è infatti ‘Medea’, film del 1969, cui seguirà il 'Decameron' (1972), mentre il terzo in ordine di proiezione sarà 'Teorema' (1968), la prima delle pellicole che videro la collaborazione del pittore cervignanese. Non poteva che essere così vista la particolarità della location gradese di Medea e il coinvolgimento del territorio nella lavorazione delle parti girate in laguna in quell’estate del 1969. 20 Il cineforum ricorderà gli elementi principali della collaborazione Pasolini-Zigaina, ripercorrendo le vicende che caratterizzarono in modo differente, e talvolta divertente, la storia di questo sodalizio. In ‘Teorema’, Pasolini chiamò l’amico pittore come consulente per il colore e per le tecniche pittoriche, e lo incaricò di eseguire tutti i grandi lavori che nel film appaiono come opera del giovane Pietro. In ‘Medea’, l’artista ebbe il ruolo di far scoprire a Pasolini, uomo di fiume, i silenzi della laguna e di condurlo in un mattino settembrino in quegli orizzonti larghi da lui descritti proprio nel racconto ‘Medea’. Furono questi a orientare le scelte dell’amico che, sempre nel racconto di Zigaina, individuò il carattere sacrale e mitico del luogo, divenuto location per diverse scene del film, con Zigaina che al timone della sua ‘Istambul’ portava ogni giorno Maria Callas sul set. Nel ‘Decameron’, infine, il pittore si trasformò in attore e nelle vesti del Frate Santo confessò Ser Ciappelletto, interpretato dall’attore Franco Citti: sette minuti di recitazione straordinaria. La storia sarà raccontata anche attraverso una mostra di foto di scena e materiali tratti da archivi privati, tra cui l’archivio Zigaina e l’archivio Aldo Venier che a febbraio coronerà l’intero progetto. http://www.ilfriuli.it/articolo/Spettacoli/Pasolini_e_Zigaina-points_storia_di_un%E2%80%99affinit%C3%A0_intellettuale/7/149088 Da Siracusa News del 16/11/15 Riparte a Siracusa la rassegna cinematografica a tema Lgbt “Fuori menù” “Come non detto” film commedia del regista Ivan Silvestrini, aprirà l’appuntamento annuale con la rassegna cinematografica LGBT “Fuori Menù”, organizzata dall’associazione Stonewall Siracusa. Giunta alla sua IV edizione, la rassegna sarà caratterizzerà anche quest’anno da un ricco calendario di proiezioni, rivolte a tutti, che affronteranno i molteplici aspetti della tematica LGBT. Partendo dall’amore e la sessualità gay, lesbica, bisex e trans, il grande schermo ci narrerà di diritti negati alle persone Glbt ma anche delle emozioni legate all’omogenitorialità e purtroppo anche dei problemi ad essa connessi, tema tra i più controversi attualmente nel nostro Paese. Da quest’anno i film selezionati verranno suddivisi per “volumi”, ciascuno dei quali, composto da 3 pellicole scelte tra quelle più belle ed “indimenticabili”. Le proiezioni, inizieranno alle 20 e si terranno come di consueto presso la sala Arci di Piazza Santa Lucia. La rassegna si snoderà fino ai primi mesi del 2016 con altri avvincenti titoli pronti a far riflettere, fornendo a spettatrici e spettatori interessanti spunti di riflessione. “Il nostro sarà come ogni anno un invito al confronto e al dibattito sui temi LGBT, commenta con entusiasmo la presidente di Stonewall Tiziana Biondi. Lo rinnoviamo con grande piacere a quanti e quante - conclude Biondi - vorranno trascorrere una bella serata dedicata al cinema e alla cultura LGBT, lontani dal pregiudizio e dagli stereotipi che tanto male hanno fatto e continuano a fare ancora oggi ai cittadini e alle cittadine gay, lesbiche, bisessuali e trans di questo nostro Paese”. http://www.siracusanews.it/node/66193 21 Da GoNews del 16/11/15 L’Arci lancia ‘Migrazioni’. Campagna per sensibilizzare al tema superando gli stereotipi Empolese Valdelsa La presentazione all'Arci della campagna 'Migrazioni' La presentazione all’Arci della campagna ‘Migrazioni’ La campagna ‘Migrazioni’ nasce dall’esigenza di farci portatori di un percorso di sensibilizzazione verso i soci ARCI e il resto della cittadinanza sul tema dell’immigrazione e informarli sui migranti presenti nell’Empolese Valdelsa. La presentiamo in un momento in cui i media e alcuni partiti politici ci propongono incessantemente immagini di esodi in cui si parla spesso di ‘emergenze’ e di ‘invasione’. Su questo crediamo che uno dei malintesi più gravi del diffuso approccio al tema sia il fatto di parlare delle migrazioni solo in termini di emergenza, come di fronte ad una catastrofe naturale. Perché migrare non è una questione di sicurezza, non è una questione di emergenza, ma è una condizione che è parte strutturale della società che rientra nel ventaglio delle scelte personali di ciascun individuo. Esiste una popolazione di oltre 300.000 stranieri regolari che vive in Toscana, che va integrata e stabilizzata. Ci sono circa 350 richiedenti asilo che, nel territorio dell’empolese Valdelsa, sono stati inseriti nei percorsi di quella che chiamiamo “accoglienza straordinaria”. Il compito della nostra associazione è dunque creare percorsi reali e efficaci di accoglienza e integrazione: superare le paure e i preconcetti è il primo passo per costruire l’accoglienza ed è per questo che vogliamo avviare questa campagna come strumento per combattere ogni forma di razzismo e pregiudizio, strumento attraverso il quale provare a conoscere le persone e capire le loro scelte. La nostra associazione, sia a livello regionale che nei territori, è da sempre attiva nella lotta al razzismo e nella sensibilizzazione verso il tema dell’accoglienza dei migranti. Noi, come soggetti di partecipazione civile, abbiamo il dovere di cercare di governare con responsabilità la tendenza. E i nostri circoli, in quanto luoghi di aggregazione e di incontro in cui è possibile lo scambio e la conoscenza reciproca tra i nuovi arrivati e i soci delle nostre frazioni, sono i luoghi privilegiati per farlo. L’integrazione avviene con semplici gesti e nei circoli è possibile coinvolgere e informare i cittadini “L’immigrazione è infatti un fenomeno che non nasce adesso e noi, più di chiunque altro popolo dovremmo saperlo bene. Come sappiamo bene che manca una legge sul Diritto di Asilo. Crediamo, rispetto a questo, che vada affermato il diritto a muoversi, a spostarsi, a migrare, anche se non si è sotto minaccia diretta a causa di guerre o criminalità” – afferma la presidente dell’arci Empolese Valdelsa Chiara Salvadori. La campagna dell’arci è infatti una campagna che vuole arrivare ai cittadini del nostro territorio per combattere stereotipi ed accrescere invece la conoscenza e l’informazione. Associare immigrati e terroristi, alla luce delle stragi, e non stiamo parlando solo di quella di Parigi,ma anche di quella a Beirut, come quella in Kenya, è una delle operazioni più bieche che fornisce false informazioni e crea odio e pregiudizi. “E’ soprattutto una campagna culturale – precisa Chiara Salvadori – che vuole provare a combattere stereotipi anche a partire dai vocaboli che si usano, verso i migranti, termini che più che indicare la loro condizione, esprimono un giudizio di merito: profugo, clandestino, ma anche l’aggettivo “disperato”: non dobbiamo dare nessun giudizio, ma lavorare per costruire sui territorio percorsi reali di accoglienza”. Per questi motivi la campagna si snoda in varie azioni: Innanzitutto si è pensato di realizzare una campagna “grafica” che lanciasse un messaggio attraverso un’immagine forte con lo slogan “Sogno un Futuro” lo slogan vuole identificare i migranti non come poveri disperati ma come persone portatrici di sogni e speranze per il futuro. 1)Uno strumento ‘grafico’ , cioè il manifesto ‘Sogno un futuro’ che verrà affisso in tutti i circoli e che vi verrà consegnato non appena disponibile insieme alle cartoline illustrate Alla stesura della parte 22 grafica hanno partecipato i volontari del servizio civile nazionale per il progetto ‘Antenne in Circolo’. 2) Il numero in uscita di Parole in Circolo sarà incentrato esclusivamente sul tema dell’immigrazione. Infatti saranno presenti articoli specifici e interviste a migranti (italiani e stranieri) del territorio. 3)Avvieremo il Laboratorio “Migrazioni” all’interno del progetto “SocializzAzione”: insieme agli operatori del centro abbiamo pianificato un percorso che parte dal tema del viaggio per arrivare a riflettere insieme sul perché le persone decidono di emigrare. 4)Torneo di Calcio a 5 “Migrazioni in campo”: manifestazione di calcio a 5 sviluppata in collaborazione con la UISP. L’intenzione è quella di portare a giocare sia cittadini italiani che stranieri, quindi con squadre anche miste, con particolare attenzione verso i nuovi rifugiati ospitati nella nostra zona, offrendo loro uno spazio di socialità e divertimento. Lo sport, quindi, come veicolo di integrazione attraverso cui creare dei legami con i cittadini del nostro territorio. Il torneo si svolgerà a primavera 2016 e seguirà quindi specifica e adeguata comunicazione e informazione riguardo alle modalità e regolamento. 5)Mostra fotografica “EXODOS – EXODES” di Sebastiao Salgado La mostra è composta da 10 pannelli fotografici in b/n già incorniciate + 3 pannelli illustrativi . La mostra coinvolgerà in totale 9 circoli: -Monterappoli -Montagnana -Vitolini -Ponte a Elsa Associazione Agrado -Associazione Tetris -Il progresso Montelupo -Brusciana Associazione Ambarabà La mostra inizierà il proprio percorso da il Circolo arci di Samminiatello, sede dell’associazione Tetris il giorno 1 dicembre fino al 9 dicembre La mostra sarà itinerante e ogni volta che farà tappa in uno dei circoli aderenti informeremo la cittadinanza sull’inaugurazione e l’iniziativa ad essa collegata. 6) Proiezione film che ha come tema l’immigrazione: “Nuovomondo” di E. Crialese Associazione AMBARABA’ giovedì 10 dicembre, ore 21,00 circolo Arci Avis. Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2015/11/16/larci-lancia-migrazionicampagna-per-sensibilizzare-al-tema-superando-gli-stereotipi/ 23 ESTERI del 17/11/15, pag. 1/2 Davanti ai due rami del Parlamento il presidente ha chiesto di “far evolvere la Costituzione” per rafforzare le misure eccezionali dello stato d’emergenza “Siamo in guerra l’Europa aiuti la Francia” il Patriot Act di Hollande per sfidare il Terrore BERNARDO VALLI PARIGI È UN PATRIOT act alla francese. Meno costrittivo di quello adottato negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ma nella sostanza abbastanza simile. Il socialista François Hollande insegue in queste ore (quasi) le tracce del conservatore Bush jr. Il confronto col terrorismo azzera le differenze. La strage parigina del 13 novembre ha condotto il presidente francese a ricalcare metodi adottati dopo la tragedia newyorchese delle Torri gemelle. Rivolgendosi al Congresso, dove si riuniscono per i grandi eventi, a Versailles, i due rami del Parlamento, ha assunto toni da capo di guerra. È stato asciutto, concreto. Ha avanzato la necessità di «far evolvere la Costituzione» della Quinta Repubblica. La situazione, a suo avviso, esige che lo Stato di emergenza, già in vigore, sia integrato nell’articolo 36 riguardante lo stato d’assedio. Quest’ultima è una misura estrema che trasferisce il potere all’autorità militare. Un aspetto al momento non d’attualità. Quella in corso non è infatti un conflitto convenzionale, non è materia per Stati maggiori. Coinvolge soprattutto l’intelligence e in generale la polizia e i magistrati. E tuttavia è necessario uno strumento efficace per imporre, nel rispetto delle libertà repubblicane, misure eccezionali, attraverso i prefetti e le autorità di polizia, senza passare provvisoriamente attraverso le procedure giudiziarie troppo lente. Cosi le detenzioni amministrative saranno più facili e veloci, quindi più efficaci. I poteri dei magistrati saranno estesi nei casi di terrorismo. Le persone con la doppia nazionalità (come molti arabi) implicate o gravemente sospette potranno essere private di quella francese. Le espulsioni di cittadini stranieri indesiderabili saranno agevolate. Hollande ha chiesto al Parlamento di approvare al più presto, domani, anche una legge che prolunghi di tre mesi lo stato d’emergenza. Il quale, benché ampliato con prerogative simili a quelle dello stato d’assedio, viene gestito dal potere politico e dai servizi che da esso dipendono. I militari non saranno però lasciati nelle caserme. Diecimila di loro saranno dispiegati nell’Ile de France con il compito di proteggere i possibili obiettivi dei terroristi. Alle forze armate non saranno ridotti i finanziamenti come previsto. E gli effettivi della polizia, della gendarmeria e della magistratura saranno aumentati di ottomila cinquecento unità. Il patto di stabilità imposto dall’Unione europea ne soffrirà. Ma la Francia ha bisogno di un patto di sicurezza. La contabilità nazionale passa in secondo piano. Hollande era teso, la faccia segnata dalla stanchezza, quando è arrivato davanti al Parlamento riunito in seduta straordinaria. La prova che doveva affrontare era doppia. Da un lato rassicurare il paese. dall’altro tentare di creare un’unione nazionale, vale a dire prevenire, rendere vane le critiche dell’opposizione. Nei drammi il presidente più impopolare della Quinta Repubblica assume una indubbia dignità. È veloce nelle decisioni. È presente nei luoghi colpiti. Si rivolge costantemente al paese con toni calmi. Nelle tragedie, come accadde in gennaio per Charlie Hebdo, cambia carattere. Di solito almeno 24 in apparenza impacciato, acquista sicurezza. A Versailles ha esordito con un lapidario «siamo in guerra» e ha proseguito annunciando iniziative, che hanno tolto l’iniziativa alla destra, in particolare a quella estrema del Front National. Ha informato l’Assemblea di avere chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza per decidere un’azione internazionale contro Daesh. Che è «la più grande fabbrica di terroristi» ed è il nemico contro il quale la Francia intensificherà le operazioni. Già la notte scorsa dodici caccia bombardieri hanno colpito con venti missili il comando e i centri di addestramento di Daesh in Siria, con l’aiuto degli Stati Uniti che hanno indicato gli obiettivi. Inoltre nelle prossime ore la portaerei Charles de Gaulle salperà e una volta in Medio Oriente, consentirà di triplicare le incursioni aeree francesi.Prima della fine di novembre incontrerà Obama e Putin per cer- care di varare un’azione comune delle coalizioni che adesso operano indipendenti una dall’altra, e spesso puntando su obiettivi diversi. Gli aerei russi colpiscono di rado le basi di Daesh e si interessano agli altri gruppi ribelli, finora a quelli aiutati dagli americani. Lui, Hollande, si prodigherà per favorire la già avviata intesa tra Obama e Putin, dopo l’incontro al G20 in Turchia. In quanto all’Europa, chiede con solennità che i membri dell’Unione si dimostrino solidali con la Francia, citando la clausola 42.7 del Trattato. Le sue parole sono risuonate a Versailles come un appello. Le misure di sicurezza destinate a combattere il terrorismo e a rassicure il paese avevano anche lo scopo di creare un’atmosfera favorevole a un’unione nazionale. Molti dei provvedimenti annunciati potevano essere condivisi anche dalla destra e dall’estrema destra. L’applauso intenso, prolungato di tutti i settori della platea versagliese (ad eccezione di due esponenti del Fronte nazionale), era un’ovazione rituale ma sentita in un momento difficile della nazione, in quel momento incarnata dal capo dello Stato. La Marsigliese poi cantata da deputati e senatori ha aggiunto un tocco patriottico necessario. Ma il consenso corale, anche se inevitabilmente passeggero, era dovuto anche alla meticolosità con cui François Hollande ha saputo raccogliere e riassumere le istanze della frastagliata società politica francese. Le critiche, a conclusione della seduta del Congresso di Versailles, non sono mancate. Marion Le Pen, nipote di Marine, presidente del Front National ha deplorato che Hollande non abbia condannato l’ideologia islamista dei terroristi. Ma sul delicato, sensibile argomento della religione, il presidente aveva abilmente sorvolato. Evitando soprattutto di soffermarsi sul problema dei migranti, provenienti dalla Siria, e destinati a ingrossare la presenza musulmana in Europa. Tra breve ci saranno in Francia le elezioni regionali, le ultime prima di quelle presidenziali del 2017. Il trauma subito dal paese dovrebbe tradursi in un aumento dei voti islamofobi, attribuiti al Front National, nei sondaggi già saliti al trenta per cento nei mesi successivi all’assassinio dei giornalisti di Charlie Hebdo. L’ondata dei profughi e la simultanea strage di venerdì tredici novembre, pur non essendoci alcun nesso tra i due avvenimenti, possono contribuire a un’ulteriore crescita di quegli imbarazzanti voti virtuali destinati, non è escluso, a diventare reali. A Versailles François Hollande doveva garantire la sicurezza dei francesi e rassicurarli, e prevenire nei limiti della decenza, con un discorso civile e decoroso, una frana politica. del 17/11/15, pag. 3 Spiazzata dal governo Marine Le Pen attacca gli «stranieri» Francesco Ditaranto 25 PARIGI Non è chiaro se la destra parlamentare francese sia stata spiazzata dal discorso di Hollande a Versailles (dove il parlamento si è riunito in seduta comune straordinaria ieri), o se davvero sperasse che il presidente facesse valere l’articolo 16 della costituzione, avocando a sé i poteri eccezionali, come la carta costituzionale francese prevede. Di fatto, François Hollande ha recepito tutte, o quasi tutte, le indicazioni dell’ala destra del Parlamento, tenendo saldo, però il principio dello stato di diritto. In virtù di questo e, preso atto del fatto che la costituzione non preveda i mezzi ideali per affrontare la situazione, il presidente socialista ha deciso di affidare al parlamento un progetto di modifica costituzionale, in un senso più adatto all’attuale contesto. La svolta, dalle nuove possibili alleanze in Siria ai provvedimenti sui francesi con doppia nazionalità sospettati di legami con l’islamismo, c’è stata ed è andata esattamente nella direzione indicata dalla destra. Proprio per questo risultano bizzarre le parole di Christian Jacob, presidente del gruppo de I Repubblicani all’Assemblea Nazionale, che ha ripetuto, in larga parte, in forma di richieste, quei provvedimenti che Hollande aveva già annunciato. Per Jacob, però, non è necessario cambiare la costituzione. L’interrogativo, volendo interpretare questo proposito dalla prospettiva politica che Jacob interpreta, è se il presidente avrebbe dovuto avvalersi dell’articolo 16 sui poteri straordinari, o richiamarsi direttamente allo stato d’assedio previsto dall’articolo 36. Marine Le Pen ha apprezzato il cambio di linea di Hollande, denunciando, però, delle gravi lacune nel discorso del presidente che, secondo la leader del partito d’estrema destra, continua a non affrontare il problema del ritorno alle frontiere nazionali né quello della lotta all’ideologia islamista. Marion Marechal Le Pen, deputata del Fronte, è sulla stessa linea di sua zia. La nipote del fondatore del partito deplora il fatto che nessuna proposta sia stata fatta per lottare contro l’ideologia islamista. La giovane eletta del Fronte, in aperta polemica, non si è alzata alla fine del discorso di Hollande, al contrario di tutti i parlamentari riuniti a Versailles. Intanto si ha notizia di un tentativo d’omicidio di chiara matrice xenofoba. A Cambrai, nel nord del paese, nella notte tra sabato e domenica, un uomo di origini turche, residente in Francia, è stato colpito da alcuni colpi di arma da fuoco esplosi da una vettura, bardata con una bandiera francese. L’uomo, colpito alla schiena, non sarebbe in pericolo di vita. Secondo gli inquirenti, la vittima, individuata mentre si trovava nei pressi di un kebab, sarebbe stata scelta esclusivamente per il colore della sua pelle. A confermare questa ricostruzione sarebbero gli interrogatori di due dei tre occupanti dell’automobile dalla quale i colpi sono stati esplosi. I due sarebbero giovanissimi. Il terzo passeggero, il presunto autore materiale del ferimento, si sarebbe suicidato poco dopo l’azione. Difficile non immaginare che il ferimento rientri in una logica di rappresaglia per gli attacchi di Parigi. Sempre secondo gli inquirenti, i tre avrebbero potuto non accontentarsi del primo ferimento e tentare di fare altre vittime. Nelle ore che hanno preceduto il discorso al Parlamento di François Hollande, l’attenzione dell’estrema destra si era rivolta contro i migranti. Il fatto che tra gli attentatori presunti di Parigi ci sia un rifugiato, ha rapidamente attirato l’attenzione di Marine Le Pen e Nadine Morano. La prima ha parlato di «almeno un migrante tra i terroristi» per ribadire la necessità di bloccare immediatamente l’arrivo di rifugiati in territorio francese. La scelta del termine «almeno» non lascia troppi dubbi sulla strumentalità dei propositi che lo seguono. Dello stesso tenore le riflessioni, a mezzo facebook, di Nadine Morano, l’eurodeputata dei Repubblicani, in cerca di nuova collocazione politico-ideologica dopo le dichiarazioni sulla Francia come «paese di razza bianca». Per Morano, ormai scaricata da Sarkozy, la presenza di un migrante tra gli attentatori deve essere oggetto di un chiarimento da parte 26 della Commissione europea. La stessa si augura che i migranti siano accolti nei paesi limitrofi, con i quali condividano cultura e lingua. del 17/11/15, pag. 4 Obama: «Sono il volto del male» Ma poi esclude l’invio di truppe Il presidente Usa al G20 non cambia strategia: «Se ne avete una migliore ditecelo» DAL NOSTRO INVIATO ANTALYA (Turchia) I massacri di Parigi imprimono una forte spinta ai tentativi americani e russi di trovare un percorso politico comune per porre fine alla guerra civile siriana, ma l’impatto emotivo di attentati così feroci provoca spinte e reazioni esasperate nell’opinione pubblica, nei media e anche in alcune forze politiche che complicano la gestione di questo delicatissimo processo. Se n’è reso conto ieri lo stesso Barack Obama che, poche ore dopo aver sbloccato il rapporto con Mosca, raggiungendo un primo accordo sull’auspicata transizione politica in Siria, alla conferenza stampa conclusiva del G20 è andato a sbattere contro un muro compatto di domande della stampa, tutte costruite intorno al concetto: «Perché non cambi strategia?». Il presidente americano ha ribadito che «l’Isis non è uno stato ma un gruppo di killer», che è «il volto del male e dobbiamo distruggerlo», in una lotta «non convenzionale», ma ha anche risposto con molta determinazione, e visibilmente irritato, che non intende cambiare rotta e che sarebbe un «errore» inviare quantità massicce di truppe in Siria, perché la strategia militare, politica, economica e di «intelligence» che è stata adottata è la più appropriata a giudizio degli analisti e dei militari che operano sul campo: «Chi ha piani migliori di quelli dei nostri capi di Stato maggiore, chi ne sa più dei nostri servizi segreti, si faccia avanti. Ma con proposte concrete. Non con idee balzane come quella di selezionare i rifugiati accolti negli Stati Uniti in base alla loro religione», respingendo i musulmani, ha detto Obama, cercando di spostare l’attenzione dei «media» sul pericoloso orientamento che sta emergendo in campo repubblicano. Mentre da Parigi Hollande promette di moltiplicare gli attacchi contro l’Isis e annuncia nuovi vertici antiterrorismo con Obama e Putin e la mobilitazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il presidente americano usa toni meno bellicosi e sottolinea la necessità di mantenere i nervi saldi puntando sulla soluzione politica. Scottato dal cattivo esito dei precedenti tentativi di dialogo col Cremlino, Obama presenta l’intesa sulla Siria, raggiunta sabato nel colloquio con Putin, come un «modesto progresso». Ma è questo il principale risultato che la Casa Bianca e lo stesso presidente russo portano via da un G20 che, nonostante il tentativo dei «grandi» del mondo di non farsi imporre l’agenda da un pugno di terroristi, è stato stravolto dagli attentati di Parigi. Nessuno si è soffermato sugli impegni presi dei Venti per il sostegno della crescita dopo che gli Usa avevano avvertito: non basta la forza della nostra economia per garantire la tenuta della ripresa. E anche di clima si parlerà ormai alla conferenza Onu che si riunirà proprio a Parigi tra due settimane. Novità soprattutto da alcuni incontri bilaterali di Putin con vari leader, da Renzi a Cameron. E uno spiraglio per il cambio di regime a Damasco: il leader russo ha giudicato come molto positivo l’incontro col presidente turco Erdogan avvenuto subito dopo che quest’ultimo aveva escluso che per Assad ci possa ancora essere un ruolo nel futuro della 27 Siria. Putin ha pure ripetuto di essere pronto a sostenere i gruppi ribelli che combattono contro l’Isis, anche se ostili al dittatore di Damasco. Impegni che Mosca in passato ha disatteso, continuando a bombardare solo i nemici di Assad. Da qui la prudenza di Obama. Che, però, per la prima volta vede davvero la possibilità politica di costruire un percorso comune col «nemico» Putin. Massimo Gaggi del 17/11/15, pag. 4 E ora chi paga le sanzioni? Turchia. Al G20 tragedia in farsa, i principali sponsor dei jihadisti (Arabia saudita tra questi) hanno chiesto di congelare gli asset finanziari del terrore Giuseppe Acconcia Il G20 di Antalya è stata una farsa. Ma pensando agli attacchi di Parigi, si è passati alla tragedia. La lotta al terrorismo ha tenuto banco. Il primo tra i provvedimenti del documento in nove punti, annunciato in chiusura dei lavori, prevede il blocco degli «asset finanziari» per i jihadisti. Eppure dalla Turchia all’Arabia saudita fino alla Francia e agli Stati uniti, al summit in Turchia si sono seduti allo stesso tavolo i leader dei paesi che negli ultimi anni più di ogni altro hanno favorito l’ascesa dei gruppi jihadisti attraverso finanziamenti diretti e indiretti. I provvedimenti contro lo Stato islamico (Is) prevedono poi il rafforzamento della sicurezza aerea. Verranno incrementati i controlli di frontiera per contenere il numero crescente di foreign fighters che si uniscono a Is, partendo dall’Europa. Non solo, è stata stabilita la necessità di ulteriori controlli sulla propaganda jihadista via internet. Il Califfato ha fatto per mesi ormai di Twitter e della diffusione di video di propaganda la sua base strategica di campagna per il proselitismo nel mondo. Durante il summit, il presidente Usa, Barack Obama, ha avuto un incontro bilaterale con il presidente russo, Vladimir Putin, alla presenza dei rispettivi interpreti. Obama si è espresso a favore di un allargamento della coalizione internazionale anti-Is in Siria ma si è detto contrario all’invio di truppe di terra. Ai margini del vertice, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha annunciato che Ankara sta lavorando ad uno scenario in cui alla fine della fase di transizione in Siria, che dovrebbe durare per i prossimi sei mesi, il presidente Bashar al-Assad non si ricandidi alle elezioni presidenziali. Il presidente Recep Taiyyp Erodgan ha annunciato che le autorità turche starebbero per inviare oltre 10 mila soldati nel Kurdistan siriano (Rojava). La missione dovrebbe partire a metà dicembre per rafforzare le safe-zone turche in Rojava, create la scorsa estate. In realtà la strategia di Ankara sta producendo solo prigioni a cielo aperto per i profughi in fuga dal conflitto. Sembra che ancora una volta, Erdogan voglia far passare la lotta contro i kurdi come lotta al terrorismo di Is. Il presidente turco è terrorizzato per l’avanzata in Siria e Iraq delle forze kurde del Partito del lavoratori del Kurdistan (Pkk), del Partito democratico unito (Pyd) e dei peshmerga iracheni. La Turchia ha continuato domenica a bombardare decine di basi del Pkk nel Nord dell’Iraq. La campagna contro il partito di Ocalan è stata avviata lo scorso luglio, mascherata da lotta all’Is. Tutto questo verrebbe permesso dagli altri paesi della Nato in nome del contenimento dei flussi di profughi che vorrebbero raggiungere l’Europa. A questo proposito, il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha annunciato che il prossimo 4 28 febbraio si terrà a Londra una conferenza internazionale sull’immigrazione, organizzata dal premier inglese, David Cameron, con il capo del governo norvegese, Erna Solberg, e l’emiro del Kuwait, Sabah al-Sabah. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, aveva denunciato quanto i raid russi in Siria stiano aumentando il numero dei profughi kurdi e siriani. «L’unico effetto fin qui degli attacchi russi è l’aumento del numero di rifugiati», ha detto. Anche ieri alle porte del G20, si sono svolte manifestazioni di contestazione. Dieci persone erano state arrestate a ridosso della zona rossa nel quartiere di Belek, sei di loro appartenevano al partito di sinistra Birlesik Devrimci Parti (Partito rivoluzionario unito). Domenica, un kamikaze si era fatto saltare in aria durante un raid della polizia a Gaziantep nel Kurdistan turco, ferendo cinque agenti. La polizia è riuscita ad arrestare un altro militante. Il blitz era scattato nell’ambito dell’indagine sugli attentati di Ankara del 10 ottobre scorso nel quale sono rimaste uccise 102 persone, rivendicato da Is. A due passi dal G20, non si sono placate neppure le violenze, in particolare a Silvan e Nusaybin (Kurdistan turco), dove da giorni vigono misure speciali, incluso il coprifuoco. Otto sono i morti negli ultimi giorni a Silvan. L’ultimo civile colpito, Abdulkadir Yilmaz, è morto senza ricevere cure perché gli ospedali erano chiusi e le ambulanze bloccate. del 17/11/15, pag. 8 La verità scomoda di Putin “All’Isis soldi da Paesi del G20” Il leader russo mette in imbarazzo sauditi, Qatar, Emirati e Turchia Finanziamenti “privati” e complicità nel traffico illegale di petrolio Maurizio Molinari «Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20»: Vladimir Putin sceglie la chiusura del summit di Antalya per far sapere ai leader attorno al tavolo che la forza dello Stato Islamico è anche in una zona grigia di complicità finanziarie che include cittadini di molti Stati. Con un colpo di teatro, sono gli sherpa russi a consegnare alle altre delegazioni i «dati a nostra disposizione sul finanziamento dei terroristi». Si tratta di informazioni che il Dipartimento del Tesoro di Washington raccoglie dal 2013 ed hanno portato, nella primavera 2014, a pubblicare un rapporto che chiama in causa «donazioni private» da parte di cittadini del Qatar e dell’Arabia Saudita trasferite a Isis «attraverso il sistema bancario del Kuwait». Il rapporto Un rapporto della «Brookings Institution» di Washington indica nei carenti controlli delle istituzioni finanziarie del Kuwait il vulnus che consente a tali fondi «privati» di arrivare a destinazione «nonostante i provvedimenti dei governi kuwaitiano, saudita e qatarino per bloccarli». Fuad Hussein, capo di gabinetto di Massoud Barzani leader del Kurdistan iracheno, ritiene che «molti Stati arabi del Golfo in passato hanno finanziato gruppi sunniti in Siria ed Iraq che sono confluiti in Isis o in Al Nusra consentendogli di acquistare armi e pagare stipendi». «Una delle ragioni per cui i Paesi del Golfo consentono tali donazioni private - aggiunge Mahmud Othman, ex deputato curdo a Baghdad - è per tenere questi terroristi lontani il più possibile da loro». David Phillips, ex alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa ora alla Columbia University di New York, assicura: «Sono molti i ricchi arabi che giocano sporco, i loro governi affermano di combattere Isis mentre loro lo finanziano». L’ammiraglio James Stavridis, ex comandante supremo della Nato, li chiama «angeli 29 investitori» i cui fondi «sono semi da cui germogliano i gruppi jihadisti» ed arrivano da «Arabia Saudita, Qatar ed Emirati». Arabia saudita L’Arabia Saudita appartiene al G20 ed è dunque probabile che la mossa di Putin abbia voluto mettere in imbarazzo il re Salman protagonista di una dichiarazione pubblica dai toni accesi contro i «terroristi diabolici da sconfiggere». Ma non è tutto perché fra i «singoli finanziatori di Isis» nelle liste del Cremlino c’è anche un cospicuo numero di turchi: sono nomi che in parte coincidono con quelli che le forze speciali Usa hanno trovato nella casabunker di Abu Sayyaf, il capo delle finanze di Isis ucciso in un raid avvenuto lo scorso maggio. Abu Sayyaf gestiva la vendita illegale di greggio e gas estratti nei territori dello Stato Islamico - con entrate stimate in 10 milioni al mese - e i trafficanti che la rendono possibile operano quasi sempre dal lato turco del confine siriano. La Turchia Ankara assicura di aver rafforzato i controlli lungo la frontiera ma un alto ufficiale d’intelligence occidentale spiega che «la Turchia del Sud resta la maggior fonte di rifornimenti per Isis». «Ci sono oramai troppe persone coinvolte nel business nel sostegno agli estremisti in Turchia - conclude Jonathan Shanzer, ex analista di anti-terrorismo del Dipartimento del Tesoro Usa - e tornare completamente indietro è diventato assai difficile, esporrebbe Ankara a gravi rischi interni». Lo sgambetto di Putin è stato dunque anche a Recep Tayyp Erdogan, anfitrione del sum-mit. Del 17/11/2015, pag. 6 L’Italia vende caccia al Kuwait Da lì milioni di dollari al Califfo Il Kuwait è l’epicentro del finanziamento dei gruppi terroristi in Siria», mentre il Qatar ne costituisce il retroterra grazie a “un habitat permissivo che consente ai terroristi di alimentarsi”. Lo sostiene David Cohen, sottosegretario americano per il terrorismo e l’intelligence finanziaria, citando un rapporto del Dipartimento di Stato del 2013. Dai due Paesi e dall’Arabia Saudita, per il Washington Institute for Near Policy,l’Isis ha ricevuto oltre 40 milioni di dollari negli ultimi due anni. Al terrorismo islamista non mancano benefattori nel Golfo. E l’Italia che fa? Firma commesse, esporta armi, intasca petrodollari. Quando l’11 settembre Matteo Renzi ha siglato un memorandum d’intesa con il primo ministro kuwaitiano, Finmeccanica ha registrato un +5,4% in Borsa. Spianava la strada all’acquisto per 8 miliardi di euro di 28 caccia Eurofighter di un consorzio europeo in cui l’azienda guidata da Mauro Moretti pesa quasi la metà. La firma definitiva è questione di settimane, la Difesa ci lavora dal 2012 e la ministra Roberta Pinotti si è recata più di una volta in Kuwait. Sarà la più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica. Il committente è il governo del Paese che il il Dipartimento di Stato Usa indica come base dei “finanziamenti a gruppi estremisti in Siria”. Del resto, dal 2012 al 2014 il made in Italy ha esportato armi al Kuwait per 17 milioni di euro. Al Qatar 146 milioni. Come prevede la legge, tutto approvato dal governo. Proprio il Qatar è stato indicato come il principale finanziatore del Califfato da George Smiley, nome di copertura di un trafficante d’armi italiano intervistato domenica da Report. 30 Ha detto da Londra: “È stato armato in funzione anti Iran, ma poi ci è scappato di mano. Nel nostro ambiente si sa perfettamente che l’Isis è una creatura dell’Occidente. Anche l’Italia a sua insaputa ha armato l’Isis, armando la Siria di Assad e addestrando le sue milizie che poi sono passate all’Isis”. Poi fa il nome di Omaar Jama, nipote dell’ex dittatore del Puntland in Somalia, accusato di essere il tramite tra “insospettabili che vivono a Roma” e i terroristi di Al Shabaab, affiliati ad Al Qaida in Africa. Questo ex studente di Giurisprudenza a Firenze è indagato per reclutamento clandestino di contractor e traffico d’armi dalla Dda di Napoli. Nel 2007, invece, ha lavorato come consulente della Spm, riconducibile a Stefano Perotti, accusato di aver pagato benefit all’ex top manager del Ministero delle Infrastrutture Ercole Incalza in cambio di appalti. È la vicenda che ha portato alle dimissioni del ministro Maurizio Lupi. Nella ricostruzione di Report spuntano un campo di addestramento nel Principato di Seborga, paesino autoproclamatosi indipendente in provincia di Imperia, i palazzi di Finmeccanica e Giorgio Carpi, indagato per traffico d’armi con i Casalesi e fondatore della Legione Brenno, una struttura militare segreta nata nel 1993 per operare in Croazia. È ben più che un’ipotesi che l’Isis sia stato armato e finanziato dalle monarchie del Golfo e si sia rafforzato con la complicità della Turchia. “L’Unodc (l’agenzia Onu che si occupa di criminalità e droga, ndr) – spiega Giorgio Beretta dell’Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere) – stima che il 90% dei traffici illegali di armi proviene dal commercio legale. Frutto della triangolazione o dell’aver armato gruppi che poi cambiano alleanze”. Dal 2005 al 2012 i vari governi italiani hanno confermato commesse per 375,5 milioni di euro in Libia (ora a chi sono in mano?). In Arabia Saudita, dove Renzi è appena stato in visita, esportiamo bombe che per le associazioni pacifiste vengono sganciate contro gli sciiti in Yemen. L’ultimo carico è partito da Cagliari il 29 ottobre. Per l’autorevole Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), l’Italia è stata la principale esportatrice europea di armi in Siria dell’ultimo decennio, 131 milioni di euro. Abbiamo rifornito sia Assad, sia l’opposizione. Dal 2011 le consegne sono sospese, ma aumentano quelle verso i Paesi confinanti. La Turchia per esempio: da meno di 30 milioni di euro nel 2009 aoltre 85 nel 2014. Difficile pensare che a Istanbul siano diventati tutti collezionisti di armi o che il tiro al piattello sia diventato lo sport più diffuso. del 17/11/15, pag. 4 Israele-Svezia, scontro sugli attentati di Parigi Michele Giorgio GERUSALEMME Il portavoce militare parla di un attacco ai soldati israeliani portato all’improvviso da una decina di «miliziani palestinesi armati», di altri «attacchi con sassi, molotov e ordigni esplosivi improvvisati» e di «una vera battaglia durata tre ore». Eppure al termine di questo ampio attacco armato, che sarebbe avvenuto ieri mattina prima dell’alba nel campo profughi di Qalandiya, i morti e i feriti sono stati solo palestinesi: Laith Manasra, 20 anni, e Ahmad Abu al-Aish, 28. Un ragazzo 17enne Yusuf Abu Latifa, anch’egli coinvolto secondo il portavoce militare negli scontri a fuoco, versa in condizioni disperate. Gli abitanti del campo profughi hanno una versione dell’accaduto diversa. Non negano che i due uccisi fossero armati ma, dicono, l’esercito israeliano ha schierato in anticipo numerosi cecchini nella zona circostante a quella dove un bulldozer militare ha poi demolito la casa della famiglia di Mohammed Abu Shahin, un palestinese accusato di aver ucciso a giugno un israeliano. Quando i palestinesi, alcuni dei quali membri delle Brigate dei Martiri di al Aqsa, 31 hanno provato ad intervenire, i tiratori scelti hanno colpito e ucciso subito due di loro. Questo perchè, aggiungono ancora gli abitanti di Qalandiya, le Brigate dei Martiri di al Aqsa – gruppo armato del movimento Fatah, riapparso con la nuova Intifada a inizio ottobre – per due volte nei giorni scorsi avevano impedito la demolizione della casa di Abu Shahin che i militari israeliani intendevano compiere ad ogni costo. Ieri migliaia di persone hanno portato a braccia le salme, da Ramallah fino nel campo profughi dove sono divampati nuovi scontri con i soldati in cui sono rimasti feriti altri otto palestinesi. Israele nega con forza che queste uccisioni, che in alcuni periodi diventano quotidiane, le demolizioni di case, la confisca di terre palestinesi, la colonizzazione e l’occupazione siano un fattore di tensione, la ragione dell’Intifada di Gerusalemme. Per questo ieri il governo Netanyahu ha attaccato, definendole «sconvolgenti per la loro sfrontatezza», le dichiarazioni della ministra degli esteri svedese Margot Wallstrom secondo cui gli attentati di Parigi vanno collegati all’insieme di frustrazioni maturate in Medio Oriente, «non ultime quelle palestinesi». Per il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Wallstrom «mostra vera ostilità nell’indicare l’esistenza di un legame qualsiasi fra gli attentati di Parigi» e la questione israelo-palestinese. Wallstrom, che nei mesi scorsi non ha mancato di rivolgere pesanti critiche anche ai sauditi, ha chiarito di non aver messo in relazione gli attacchi dell’Isis in Francia con quanto accade nei Territori occupati ma di aver voluto soltanto sottolineare i problemi enormi che affliggono la regione mediorientale , a cominciare da quello palestinese. Al governo israeliano però non è bastato. Tra Tel Aviv e Stoccolma i rapporti sono tesi da quando il governo svedese, primo e unico in Europa, ha formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina. Se per il governo israeliano è osceno creare un legame tra il terrorismo che ha colpito in Francia e l’occupazione dei Territori palestinesi, invece è legittimo descrivere l’Intifada come una espressione del jihadismo globale. Un’equazione fatta dallo stesso premier Natanyahu e condannata ieri dalla signora Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo dell’Olp. «Quelle parole pronunciate da Netanyahu – ha commentato Ashrawi – sono volte a creare un clima per giustificare il terrorismo di stato che Israele pratica contro il popolo palestinese. La realtà è che Israele è una potenza occupante e gli israeliani che si trovano nei Territori occupati sono soldati o coloni che si insediano nella nostra terra…Netanyahu sa bene che in nessun posto il popolo sotto occupazione è ritenuto responsabile per la sicurezza degli occupanti». Del clima che si sta creando anche intorno ai palestinesi ne sa qualcosa Sami Abu Ras, 20 anni, del campo profughi di Nuseirat (Gaza), che ieri ha scoperto con sgomento che un giornale egiziano, Al Masry Al Youm, ha pubblicato il suo nome e la sua foto indicandolo come uno dei terroristi che ha compiuto l’attacco a Parigi. Abu Ras non ha neppure il passaporto palestinese e non è mai uscito dalla Striscia di Gaza. del 17/11/15, pag. 1/9 Siamo dentro la guerra Dopo Parigi. Bisogna rimettere la pace, e non la vittoria, al centro della nostra agenda politica Etienne Balibar Sì, siamo in guerra. O meglio, siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, paghiamo il prezzo e portiamo il lutto. Ogni persona morta, certo, è insostituibile. Ma di quale guerra si tratta? 32 Non è semplice definirla, perché è fatta di diversi tipi, stratificatisi con il tempo e che paiono ormai inestricabili. Guerre fra Stato e Stato (o meglio, pseudo-Stato, come «Daesh»). Guerre civili nazionali e transnazionali. Guerre fra «civiltà», o che comunque si ritengono tali. Guerre di interessi e di clientele imperialiste. Guerre di religione e settarie, o giustificate come tali. È la grande stasis del XXI secolo, che in futuro — ammesso che se ne esca vivi — sarà paragonata a modelli antichi, la Guerra del Peloponneso, la Guerra dei Trent’anni, o più recenti: la «guerra civile europea» fra il 1914 e il 1945. Questa guerra, in parte provocata dagli interventi militari statunitensi in Medioriente, prima e dopo l’11 settembre 2001, si è intensificata con gli interventi successivi, ai quali partecipano ormai Russia e Francia, ciascun paese con i propri obiettivi. Ma le sue radici affondano anche nella feroce rivalità fra Stati che aspirano tutti all’egemonia regionale: Iran, Arabia saudita, Turchia, Egitto, e in un certo senso Israele — finora l’unica potenza nucleare. In una violenta reazione collettiva, la guerra precipita tutti i conti non saldati delle colonizzazioni e degli imperi: minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitrariamente, risorse minerarie espropriate, zone di influenza oggetto di disputa, giganteschi contratti di fornitura di armamenti. La guerra cerca e trova all’occorrenza appoggi fra le popolazioni avverse. Il peggio, forse, è che essa riattiva «odi teologici» millenari: gli scismi dell’Islam, lo scontro fra i monoteismi e i loro succedanei laici. Nessuna guerra di religione, diciamolo chiaramente, ha le sue cause nella religione stessa: c’è sempre un «substrato» di oppressioni, conflitti di potere, strategie economiche. E ricchezze troppo grandi, e troppo grandi miserie. Ma quando il «codice» della religione (o della «controreligione») se ne appropria, la crudeltà può eccedere ogni limite, perché il nemico diventa anatema. Sono nati mostri di barbarie, che si rafforzano con la follia della loro stessa violenza – come Daesh con le decapitazioni, gli stupri delle donne ridotte in schiavitù, le distruzioni di tesori culturali dell’umanità. Ma proliferano ugualmente altre barbarie, apparentemente più «razionali», come la «guerra dei droni» del presidente Obama (premio Nobel per la pace) la quale, ormai è assodato, uccide nove civili per ogni terrorista eliminato. In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle «due sponde» del Mediterraneo diventano ostaggi. Le vittime degli attentati di Parigi, dopo Madrid, Londra, Mosca, Tunisi, Ankara ecc., con i loro vicini, sono ostaggi. I rifugiati che cercano asilo o trovano la morte a migliaia a poca distanza dalle coste dell’Europa sono ostaggi. I kurdi presi di mira dall’esercito turco sono ostaggi. Tutti i cittadini dei paesi arabi sono ostaggi, nella tenaglia di ferro forgiata con questi elementi: terrore di Stato, jihadismo fanatico, bombardamenti di potenze straniere. Che fare, dunque? Prima di tutto, e assolutamente, riflettere, resistere alla paura, alle generalizzazioni, alle pulsioni di vendetta. Naturalmente, prendere tutte le misure di protezione civile e militare, di intelligence e di sicurezza, necessarie per prevenire le azioni terroristiche o contrastarle, e se possibile anche giudicare e punire i loro autori e complici. Ma, ciò facendo, esigere dagli Stati «democratici» la vigilanza massima contro gli atti di odio nei confronti dei cittadini e dei residenti che, a causa della loro origine, religione o anche abitudini di vita, sono indicati come il «nemico interno» dagli autoproclamatisi patrioti. E poi: esigere dagli stessi Stati che, nel momento in cui rafforzano i propri dispositivi di sicurezza, rispettino i diritti individuali e collettivi che fondano la loro legittimità. Gli esempi del «Patriot Act» e di Guantanamo mostrano che non è scontato. Ma soprattutto: rimettere la pace al centro dell’agenda, anche se raggiungerla sembra così difficile. Dico la pace, non la «vittoria»: la pace duratura, giusta, fatta non di vigliaccheria e 33 compromessi, o di controterrore, ma di coraggio e intransigenza. La pace per tutti coloro i quali vi hanno interesse, sulle due sponde di questo mare comune che ha visto nascere la nostra civiltà, ma anche i nostri conflitti nazionali, religiosi, coloniali, neocoloniali e postcoloniali. Non mi faccio illusioni circa le probabilità di realizzazione di quest’obiettivo. Ma non vedo in quale altro modo, al di là dello slancio morale che può ispirare, le iniziative politiche di resistenza alla catastrofe possano precisarsi e articolarsi. Farò tre esempi. Da una parte, il ripristino dell’effettività del diritto internazionale, e dunque dell’autorità delle Nazioni unite, ridotte al nulla dalle pretese di sovranità unilaterale, dalla confusione fra umanitario e securitario, dall’assoggettamento alla «governance» del capitalismo globalizzato, dalla politica delle clientele che si è sostituita a quella dei blocchi. Occorre dunque resuscitare le idee di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti, il che presuppone una rifondazione dell’Organizzazione – certamente a partire dall’Assemblea generale e dalle «coalizioni regionali» di Stati, invece della dittatura di alcune potenze che si neutralizzano reciprocamente o si alleano solo per il peggio. Dall’altra parte, l’iniziativa dei cittadini di attraversare le frontiere, superare le contrapposizioni fra le fedi e quelle fra gli interessi delle comunità, il che presuppone in primo luogo poterle esprimere pubblicamente. Niente deve essere tabù, niente deve essere imposto come punto di vista unico, perché per definizione la verità non preesiste all’argomentazione e al conflitto. Occorre dunque che gli europei di cultura laica e cristiana sappiano quel che i musulmani pensano circa l’uso della jihad per legittimare avventure totalitarie e azioni terroristiche, e quali mezzi hanno per resistervi dall’interno. Allo stesso modo, i musulmani (e i non musulmani) del Sud del Mediterraneo devono sapere a che punto sono le nazioni del «Nord», un tempo dominanti, rispetto al razzismo, all’islamofobia, al neocolonialismo. E soprattutto, occorre che gli «occidentali» e gli «orientali» costruiscano insieme il linguaggio di un nuovo universalismo, assumendosi il rischio di parlare gli uni per gli altri. La chiusura delle frontiere, la loro imposizione a scapito del multiculturalismo delle società di tutta la regione, questa è già la guerra civile. Ma in questa prospettiva, l’Europa ha virtualmente una funzione insostituibile, che deve onorare malgrado tutti i sintomi della sua attuale decomposizione, o piuttosto per porvi rimedio, nell’urgenza. Ogni paese ha la capacità di trascinare tutti gli altri nell’impasse, ma tutti insieme i paesi potrebbero costruire vie d’uscita e costruire argini. Dopo la «crisi finanziaria» e la «crisi dei rifugiati», la guerra potrebbe uccidere l’Europa, a meno che l’Europa non dia segno di esistere, di fronte alla guerra. E’ questo continente che può lavorare alla rifondazione del diritto internazionale, vegliare affinché la sicurezza delle democrazie non sia pagata con la fine dello Stato di diritto, e cercare nella diversità delle comunità presenti sul proprio territorio la materia per una nuova forma di opinione pubblica. Esigere dai cittadini, cioè tutti noi, di essere all’altezza dei loro compiti, è chiedere l’impossibile? Forse; ma è anche affermare che abbiamo la responsabilità di far accadere quel che è ancora possibile, o che può tornare a esserlo. del 17/11/15, pag. 1/34 Scacco al terrore in quattro mosse LUCIO CARACCIOLO IN QUESTA battaglia la vittoria non dipende dai carnefici ma dalle vittime. I terroristi non possono vincere. Non hanno i mezzi per sopraffarci, per governarci. La bandiera nera non 34 sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla “guerra santa”. SE CI FAREMO ipnotizzare dal nemico non perderemo solo la guerra. Molto peggio: perderemo noi stessi, ovvero quel che resta delle nostre libertà. Se invece sapremo leggere la cifra di questa sfida e reggere nel tempo agli attacchi con cui i jihadisti cercheranno di convertirci alla loro barbarie, finiremo per averne ragione. Conviene perciò chiedersi chi siano e quali progetti abbiano i nostri nemici. I jihadisti sono umani. Certo, usano tecniche disumane. Molti (non tutti) paiono ubriachi di fanatismo. Ma non sono insensibili alla fama, al denaro e al potere. Si occupano anzi di accumularne. In attesa di farsi trovare dalla parte giusta allo scoccare dell’Apocalisse. L’ideologia da fine del mondo è un formidabile magnete, capace di attrarre non solo islamisti radicali emarginati nelle nostre periferie estreme, ma anche figli della buona borghesia europea in cerca di avventura. Persino atei, cristiani, ebrei. A ricordarci quanto fragili e sempre revocabili siano le fondamenta della nostra civiltà. Sarebbe ingenuo scambiare la propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi per strategia. Il califfato universale è un riferimento metapolitico evocato a fini seduttivi da chi sa di non poterlo avvicinare. L’obiettivo dello Stato Islamico non è la conquista di Roma, di Parigi o di Washington. È anzitutto di radicarsi nel territorio a cavallo dell’ormai inesistente frontiera fra due Stati defunti — Siria ed Iraq — espellendone o liquidandone le minoranze refrattarie al proprio dominio. A cominciare dagli arcinemici: i musulmani sciiti. Da questo Stato in fieri e grazie al suo marchio vincente il “califfato” mira ad espandere la propria influenza nel mondo sunnita. Nel loro territorio i jihadisti di al-Baghdadi si dedicano a gestire traffici d’ogni genere — dagli idrocarburi ai reperti archeologici, dalle armi alle droghe e agli esseri umani — i cui mercati di sbocco sono tutti in Occidente. Quando ci interroghiamo sui loro finanziatori, alla lunga lista di entità islamiste e petromonarchie sunnite dobbiamo aggiungere noi stessi. Di qui alcune conseguenze operative per evitare di suicidarci in questo scontro di lungo periodo, che ci impone pazienza, freddezza, capacità di assorbire attacchi e provocazioni. Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità. Ma non abbiamo mezzi, uomini e volontà per ingaggiare una grande guerra “stivali per terra” nei deserti mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio. Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare. Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno alimentato i seguaci del “califfo”. Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi — americani e britannici su tutti — hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano contribuito a nutrire. Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga con l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista. Infine, è ovvio che su questo scacchiere russi e iraniani sono risorse, non avversari. Fare la guerra fredda a Putin e la guerra calda al “califfo”, insieme trattando i persiani da appestati, è poco intelligente. 35 Terzo. Serrare le file fra tutti gli alleati sul fronte dell’intelligence e delle polizie. Siamo lontani da un’effettiva cooperazione. Un esempio per tutti. Il giorno prima della catena di attentati a Parigi i carabinieri del Ros, insieme alle polizie britannica, norvegese, finlandese, tedesca e svizzera, avevano messo le mani su una rete di sedici jihadisti curdi e un kosovaro, dopo un’indagine di cinque anni condotta soprattutto sulla Rete (“Operazione Jweb”). A coordinare i terroristi era il famigerato mullah Krekar. Non da chissà quale anfratto mediorientale, ma dal suo carcere norvegese. Appartamento di tre stanze e servizi, dal quale — grazie ai laschi standard norvegesi — era in costante contatto in codice via Internet con i suoi diciassette apostoli, e chissà quanti altri. Finché i partner europei e atlantici continueranno a muoversi ciascuno per suo conto e con i suoi metodi, sarà arduo prevenire gli attacchi terroristici. Quarto, ma non ultimo per rilievo. Resistere alle tentazioni razziste, rilanciate da media in cerca di visibilità. Le equazioni arabo musulmano=terrorista e (peggio) rifugiato=jihadista oltre che false sono pericolose. Manna per la propaganda “califfale”. E conferma che sul decisivo fronte della comunicazione spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi. del 17/11/15, pag. 1/16 La città. “Libri non bombe”, quel cartello che ora illumina Parigi Sul monumento della République c’è un foglio che sembra riassumere quel che è successo e lo spirito della Francia Viaggio nel quartiere delle librerie dove però non tutti la pensano proprio così ADRIANO SOFRI PARIGI SUL MONUMENTO della République c’è un foglio su cui qualcuno ha scritto “BOOKS NOT BOMBS”, “Libri non bombe”, e benché l’idea vada da sé, sono due giorni che ci penso su. Penso a tre variazioni. 1: Libri non bombe. 2: Bombe non libri. 3: Libri e bombe (o il suo risvolto, Né libri né bombe, che accantoniamo). E siccome sono a Parigi, e a Parigi vale la pena anche solo per le sue librerie, vado dai librai. Del resto, non avevo scelta: interpellare fabbricanti e commercianti di bombe è troppo complicato. È il secondo di tre giorni di lutto, e molte librerie sono chiuse. A Rue de l’Odéon “Le coupe papier” ha messo sulla sua vetrina antiquaria una pagina scritta a mano, con una grafia ammirevole (traduzione mia): «La libreria resterà chiusa oggi. Vogliate scusarmene, ci sono dei giorni così, e specialmente dei giorni dopo». Poco più avanti è aperta “Amélie Sourget”, e la giovane signora cui chiedo che cosa pensi del motto è gentilmente interdetta. Naturalmente, dice, io vivo di libri, e di bombe si muore. Esistono anche libri cattivi? Certo. E bombe buone? Non so, forse necessarie. Spicca in vetrina una prima versione (1791) di Thomas Paine, Théorie et pratique des droits de l’homme. Paine abitava di fronte, come ricorda la lapide che lo dichiara «inglese di nascita, americano d’adozione, francese per decreto », e lo cita: «Quando le opinioni sono libere, la forza della verità finisce sempre per prevalere». Là sotto c’è la libreria Guénégaud, specializzata in caccia, manieri e castelli e storia locale, sono il primo del giorno e non sono nemmeno un cliente. Il signore che mi riceve è decisamente all’altezza delle tradizioni custodite dai suoi scaffali, e si sbriga: «Tanto i libri non li legge più nessuno, 36 qualche vecchio come lei e me. E le bombe sono mera gesticolazione ». Se vendessi bombe invece che libri, dice, gli affari andrebbero a gonfie vele. Certo che i libri possono essere pericolosi, dice, e fa un elenco in cui il Mein Kampf è surclassato da Stalin e Mao e Fidel. Direi che non diffidi delle bombe, quanto dei bersagli troppo lontani, dal momento che «i terroristi sono francesi, li abbiamo in casa ». In altre librerie si diffida delle mie domande, ciò che è comprensibile, e forse c’è una reticenza a esporsi. Sul magazzino Gallimard sono appiccicate con lo scotch fotocopie di un brano “algerino” di Camus: «È per questo avvenire ancora inimmaginabile, ma prossimo, che dobbiamo organizzarci e sostenerci a vicenda. Assurdo e straziante nella tragedia che viviamo è che, per affrontare un giorno le prospettive a misura del mondo intero oggi noi dobbiamo riunirci poveramente, in pochi, per chiedere solo che sia risparmiato su un punto solitario del globo un pugno di vittime innocenti. È il nostro compito, e per oscuro e ingrato che sia dobbiamo affrontarlo con decisione, per meritare un giorno di vivere da uomini liberi, cioè da uomini che rifiutano insieme di esercitare e di subire il terrore». È chiusa la libreria scientifica che espone le opere di Muhammad Ibn Musa Al-Khwarizmi, cui Oriana Fallaci riconobbe di aver dato il nome all’algoritmo, ma negò l’invenzione dello zero… Al Luxembourg, il libraio di “Thierry Margo” pensa che i libri facciano del male quando i loro autori sono malvagi. Dei bombardamenti su Raqqa non sa dire che efficacia abbiano, ma sa che sganciare libri su una banda di invasati che ti assaltino non è una gran risorsa: «Il libro può proteggerti solo quando abbia una rilegatura solida, e stia nella tasca interna, proprio all’altezza del cuore». La conversazione più fervida ci aspetta naturalmente dai bouquinistes del Lungosenna. Mi infilo in una discussione in corso fra intenditori, si direbbe: citano il ponte d’atterraggio troppo corto della portaerei Mistral, i favolosi contratti di vendita dei Rafale all’Egitto che non ha un soldo per pagarli... Loro sono convinti che di libri e di bombe ci sia bisogno, e «peggio per i tempi in cui c’è sempre più bisogno di bombe, come i nostri». La riprova?, dice un Guillaume. «Guarda come sono crollati i prezzi dei libri, e come crescono i prezzi delle bombe». Manuel, cui i lunghi pomeriggi di molto vento e pochi clienti hanno ispirato pensieri sistematici, trova che il mondo è infeudato agli americani fin dal Giappone degli anni ’30, e che «la Francia è sempre indietro di una guerra». Libri non bombe è un programma ideale, dice la signora di un “Gibert Joseph”: c’è un’umanità che ama i libri, e una che si tramuta in bombe per farsi esplodere e uccidere l’altra umanità. Ho l’impressione, dico, che le bombe cui il cartello pensa siano quelle “occidentali”. Quelle di Raqqa di ieri. «Sì, credo di sì. Si fa fatica a rassegnarsi all’uso delle armi, e i bombardamenti aerei sembrano la quintessenza della violenza»». E le bombe che fermarono lo Stato Islamico che faceva strage di yazidi e cristiani e arabi renitenti? Non ne so abbastanza, dice. Fa paura l’espressione “danni collaterali”, ma i civili colpiti per errore (quando è un errore, e non un crimine, come per l’ospedale di Kunduz) sono altra cosa dalla scelta dei terroristi: per loro i giovani del Bataclan, le persone del Petit Cambodge, non sono vittime collaterali, sono il bersaglio scelto e cercato. D’altra parte è persuasa che esistano i cattivi libri, e non solo i cattivi usi dei libri. Il Mein Kampf che esce dal vincolo dei diritti è citato da tutti i miei interlocutori, e del resto quei vincoli non gli hanno impedito di essere, insieme agli infami “Protocolli degli Anziani di Sion”, uno dei rarissimi testi occidentali avidamente letti nei dispotismi islamici. Vorrei chiederle altre cose, e magari parlarne con chi ha compilato quel foglio: “Books not bombs”. Anche l’espressione “religioni del Libro” è largamente equivoca, non trova? E andrebbe completata con quella “religione dei libri”, con la minuscola, non trova? Perché non diventi superstizione di un libro solo, e lo legga senza immaginargli un contesto? Il Corano tenuto alto mentre l’altra mano impugna il coltellaccio è più vicino a un libro o a un’arma? 37 La terza versione allora? “Libri e bombe?” Preferirei di no, li terrei separati: se non altro per l’evocazione di quel losco precetto per l’italiano, cioè il fascista, perfetto, “Libro e moschetto…”. del 17/11/15, pag. 1/13 Tra i bimbi (sconvolti) di Parigi di Gian Antonio Stella Federico, 10 anni, «è rimasto fino alle 2 di notte a guardare i telegiornali. Mi ha detto: “Mamma, ti prego, torniamo in Italia”». I maestri, che hanno ripreso le lezioni dopo il weekend, raccontano di essersi trovati davanti bambini sconvolti. Gabriele e i tre bambini che in un terrificante video dell’Isis sparano alla nuca a dei prigionieri hanno una cosa in comune. L’età. Anzi, i tre piccoli addestrati a uccidere dai macellai dello Stato Islamico hanno forse uno o due anni di meno. E così anche il figlioletto di Khaled Sharrouf, il jihadista australiano che dopo aver trascinato tutta la sua famiglia in Siria ha postato sul web la foto del bambino che, col berrettino da baseball, una maglietta e un orologio di plastica al polso regge a due mani la testa di un uomo decapitato. Nulla dà l’idea dell’abisso tra i mondi lontanissimi di questi ragazzini quanto la reazione di Gabriele e degli altri alunni delle elementari e delle medie della scuola «Leonardo da Vinci» a Parigi alla mattanza di venerdì sera. «Per due giorni, dopo il massacro al Bataclan e negli altri locali e localini presi d’assalto non c’è stato verso di portarlo fuori di casa — racconta Stefania, la madre —. Sulle prime avevo pensato fosse meglio che non vedesse, non sapesse. Poi ho capito. Era inutile. Sapeva già. Ne abbiamo parlato a lungo, a casa. Se vuoi educarlo alla vita un figlio lo devi anche mettere davanti al tema della morte. Dell’ingiustizia. Della violenza. Ma come lo spieghi, a un bambino, quello che è successo? Domenica gli ho detto: “Ci facciamo un giro in bici?” Macché, neppure il giro in bici». Federico quella sera, a dieci anni, «è rimasto su fino alle due di notte a guardare i telegiornali — racconta Laura —. Era choccato. La prima cosa che mi ha detto è stata: “Mamma, torniamo in Italia. Ti prego, torniamo in Italia”. Domenica abbiamo fatto una merenda con un po’ dei suoi amici. Abbiamo parlato e parlato. Cercando di far loro riassorbire il colpo». «Sabato sera, con un gruppo di genitori, siamo usciti a prendere una pizza. Proprio perché i bambini non elaborassero da soli tutte le notizie e le paure da cui erano bombardati — spiega Elisabetta Zardini, che dell’Associazione Genitori è la presidente —. Mio figlio Nicolò, a dieci anni, è molto “presente”. Ieri, dopo i bombardamenti, voleva sapere: “Ma adesso vengono e ci bombardano loro?” Abbiamo cercato di fare quello che potevamo: spiegare ai bambini che devono stare attenti a questo e a quello. Ma senza far loro venire gli incubi notturni. Sarebbe peggio». Per aiutare i padri e le madri in questi giorni complicatissimi, dove devono tenere insieme l’obbligo di mettere i figli in allarme e insieme alleggerire le loro paure, l’Associazione ha invitato tutti a procurarsi tre giornalini: Le petit quotidien per i piccoli, Mon quotidien per i ragazzini e L’Actu (sta per «l’attualità») per gli adolescenti. Parlano della mattanza, ma con le parole giuste. Maestri e maestre delle elementari della sede di Avenue de Villars, tornati a scuola ieri, raccontano di essersi trovati davanti bambini smarriti. Alcuni sotto choc. Altri quasi ignari di quanto era successo. «Qualche raro genitore ci aveva anzi raccomandato di non affrontare il tema — spiega Giuseppe, uno degli ultimi maestri maschi (ricordate lo straordinario maestro di Cuore o Giovanni Mosca che conquista la 38 classe abbattendo con la fionda un moscone?) di un’antica e gloriosa specie —. Ma come puoi isolare i bimbi in un mondo perfetto?». Radunati in palestra, gli scolaretti del «Leonardo da Vinci» hanno parlato a lungo di quanto era successo la sera di venerdì. «Certo, abbiamo cercato di usare il linguaggio giusto ma era impossibile far finta di nulla — spiega Nicoletta —. Tanto più che una bambina che abita vicino all’Opera, quella sera, era stata evacuata con tutta la famiglia. Insomma, una cosa è vedere certe scene in televisione, un’altra viverle. E lei l’aveva vissuta direttamente, la paura». Certo è che nei temi in classe fatti ieri mattina su quella sera di spari e sirene e televisioni accese sulle edizioni speciali dei telegiornali, ogni bambino ha elaborato la storia a modo suo. «C’è chi è rimasto colpito soprattutto dalla donna aggrappata alla finestra al Bataclan, chi è andato oltre le immagini tivù ricostruendo nella sua immaginazione anche cose mai viste — spiega la maestra Maia —. Un bambino ha scritto di essersi impressionato vedendo “tutti morti dentro al Bataclan”. Cosa impossibile perché quell’immagine non è mai uscita». Maestri e maestre spiegano di aver recuperato per i piccoli, ad esempio, alcune frasi di Tiziano Terzani sul rischio in certi momenti di «risvegliare i nostri istinti più bassi» e di «aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi e a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto». O una di Socrate tratta dai Dialoghi di Platone: «Non bisogna restituire ingiustizia né bisogna far del male ad alcuno degli uomini neppure se, per opera loro, si patisca qualsiasi cosa» . A farla corta: guai allo spirito di vendetta? «Noi parliamo coi bambini e non possiamo che spingerli, come maestri, a credere nella forza della parola — risponde Francesca —. Ma direi le stesse cose anche a mio nipote, a un amico, a un estraneo che la pensa diversamente». Reazione? «Sulle prime i bambini erano attentissimi. Poi hanno cominciato a essere insofferenti. Volevano parlare d’altro, avevano bisogno di parlare d’altro». Il minuto di silenzio, però, l’hanno vissuto con la consapevolezza solenne di un adulto: «Erano molto colpiti dal fare parte di una cosa corale di tutti i francesi. L’attesa è stata molto densa. Il nostro minuto di silenzio è stato lungo lungo». Fabio ha dieci anni e la sera di sabato sua madre, Carola, ha deciso che la famiglia doveva uscire con degli amici come preventivato proprio perché «era necessario tagliare subito l’aria. Non possiamo vivere nel terrore. Dieci mesi fa eravamo andati insieme alla manifestazione dopo Charlie Hebdo. Dopo quello che è successo mi ha chiesto: ma come, mamma, ancora? Ancora?». Ieri, a scuola, ha fatto un disegno: un kalashnikov con una croce sopra. Basta . del 17/11/15, pag. 14 I bambini. A scuola con lo psicologo “Maestra, i terroristi torneranno?” Poliziotti fuori degli istituti per il ritorno a lezione dopo la strage. I presidi che ripetono: “Libertà, uguaglianza e fraternità” E le domande dei ragazzi: “Perché i jihadisti non amano il calcio e il rock?” ANAIS GINORI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI. 39 Nell’arco di un weekend è diventato quasi normale, non sembra più strano vedere dei poliziotti fuori dalle scuole, eppure venerdì non c’erano, scoprire sul portone dell’istituto un triangolo rosso, “alerte attentat”, rimosso a febbraio, chissà quando lo toglieranno di nuovo, e poi trovarsi nel diario di classe un avviso. In caso di attacco terroristico, non andate a cercare vostro figlio, aspettate istruzioni. Non telefonate, rischiate di intasare le linee. Bisogna abituarsi in fretta, perché i bambini hanno paura se vedono che i grandi sono spaventati. E dunque lasciarli al mattino come se niente fosse, salire sul metrò per andare al lavoro, fermarsi a prendere una birra in un café, prenotare un cinema, comprare un biglietto allo stadio. E’ un dovere anche per loro, il piccolo esercito di dodici milioni di alunni che ieri mattina è tornato in classe, i primi a dover imparare a convivere con la minaccia, figli degli anni zero, una generazione nata tra le Torri Gemelle e gli attentati di Madrid o Londra, o quelli un po’ più grandi, che hanno avuto il tempo di conoscere il mondo di prima e potevano essere al Bataclan o al Petit Carillon quattro giorni fa. Il governo ha radunato gli studenti della Sorbona dietro a François Hollande e Manuel Valls durante il minuto di silenzio per il lutto nazionale. Nello stesso momento, in una scuola elementare del Marais, a poche centinaia di metri da dove sono avvenuti gli attacchi, il preside parla nella palestra a duecento alunni, chiedendo ai bambini di ricordarsi il motto della République all’ingresso. «Dobbiamo difendere la nostra libertà di ascoltare musica, di andare a vedere una partita, passeggiare. Dobbiamo difendere l’eguaglianza tra tutti, quale che sia il colore della pelle o la religione». Poi si sofferma sulla parola Fraternità. «Significa – dice il preside, Pascal Duchenois – guardare gli altri come se fossero un fratello o una sorella». Si chiama anche umanità. Il responsabile della scuola Neuve Saint-Pierre non ha dovuto cercare molto per preparare il discorso, ha ripreso il testo che aveva già letto per gli attentati di gennaio a sua volta ispirato dal 2012, quando ci fu l’attentato davanti alla scuola ebraica di Tolosa, il battesimo di una nuova stagione di orrore. La Francia cerca di adattarsi, deve farlo. Il terrorismo spiegato ai bambini è ormai diventata una formazione obbligatoria per il corpo docente. Qualche ora dopo gli attacchi di venerdì, molti insegnanti hanno messo su Twitter suggerimenti con l’hashtag #educattentats. «L’importante è mettere parole su ogni paura» ha scritto una professoressa. Il ministero dell’Istruzione ha chiuso i licei sabato ma ha pubblicato sul sito indicazioni precise su come parlare ai ragazzi al ritorno in classe di lunedì. Il timore era che si potessero ripetere gli incidenti di gennaio, quando pochi ragazzi non avevano rispettato il minuto di silenzio con commenti polemici. «Occorre fare discorsi che promuovono la convivenza e non spingono allo scontro fra comunità» ha spiegato il ministero. E così i bambini partecipano a un dibattito preparatorio dell’omaggio alle vittime insieme agli insegnanti, facendosi spiegare cosa sono i jihadisti, perché attaccano la Francia. Alcuni bambini si concentrano sui dettagli. «Quanti sono i terroristi?» chiede Chloé con insistenza. «Quanti? Sette, otto?». Célestin vuole sapere se «avevano il bazooka». Sasha era allo stade de France ma «non ha sentito niente». Nella scuola media Charlemagne, i ragazzi sono entrati a scuola un’ora dopo per permettere ai professori di fare un riunione con gli psicologi. «Siamo in guerra?» domanda un bambino di undici anni alla professoressa di Storia. «Così ha detto il Presidente Hollande». Il preside ha definito i terroristi «barbari invidiosi delle nostre libertà» mentre la responsabile educativa è stata meno retorica. «Non ci sono parole per commentare quello che è successo». Non è facile raccogliere la complessità del mondo in frasi dirette, comprensibili a tutti. «Cerchiamo di far esprimere i ragazzi, lasciando risposte aperte, in modo che si facciano la loro opinione» racconta Anne Doustaly, professoressa di Storia al liceo Charlemagne. 40 Domani nelle scuole sarà distribuita un’edizione speciale del Petit Quotidien, il giornale dei piccoli, fenomeno editoriale francese quasi unico per qualità editoriale e diffusione. La redazione ha confezionato il numero insieme a tre bambini delle elementari su temi come: «Perché i terroristi non amano il calcio e il rock?», «Erano amici di quelli che hanno ucciso Charlie Hebdo?». Anche Libération ha fatto un’edizione dedicata ai bambini, Le Petit Libé, insieme a una psichiatra dell’infanzia, riprendendo altri interrogativi sulle motivazioni dei terroristi, su cosa cambierà nella vita di tutti i giorni. Spesso i bambini ripetono commenti degli adulti. «Mia mamma – ha detto Roxane - mi ha spiegato che prima l’-I-slam non era così, le donne non portavano il velo». Doryann sostiene che i jihadisti hanno «vomito nel cervello». A scuola molto alunni sono arrivati senza aver troppo discusso con i genitori che forse hanno tentato di proteggerli. «Ma non vivono su Marte, è sempre meglio parlare e fare esprimere le paure» ripetono gli psicologi. Essere sinceri per quanto possibile, anche quando bisogna rispondere a un retropensiero scacciato dagli adulti e che i bambini esprimono con la forza della loro innocenza: «Torneranno?». del 17/11/15, pag. 11 La vita di strada, il carcere, l’islamizzazione Perché l’estremismo recluta chi si sente escluso Piccoli reati e sfide alla polizia così nasce l’odio per lo Stato RENZO GUOLO TRA GLI UOMINI del commando di Parigi c’è anche Ismail Omar Mostefai, uno degli attentatori suicidi del Bataclan. La sua biografia mostra una traiettoria simile a quella di altri giovani che aderiscono allo jihadismo. Aveva precedenti penali per guida senza patente, furti, violenze e oltraggio, per i quali era stato condannato. Un tratto, quello del delinquente comune, già presente in Mohammed Merah, il killer di Tolosa, i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, autori della strage di Charlie Hebdo e del market kosher di Parigi. E come in Mehdi Nemmouche il protagonista dell’attacco al Museo ebraico di Bruxelles. Anche se questi “antesignani” di Mostefai avevano conosciuto anche il carcere per lunghi periodi. ll percorso dei giovani verso la radicalizzazione è, infatti, scandito anche da precise tappe legate alla devianza: la piccola delinquenza, la trasformazione in “clienti fissi” della polizia; la galera; la reislamizzazione, anche dietro le sbarre; talvolta il viaggio nei teatri della jihad. Infine la scelta di imbracciare il kalashnikov o di farsi esplodere cercando nel “martirio” il riscatto di vite disperate in nome di un ideale “superiore”. Del resto, la vita di strada espone non solo al contatto quotidiano con la criminalità i traffici illegali, dallo spaccio di stupefacenti alla ricettazione, dai furti alle aggressioni a scopo di rapina; ma anche ai continui controlli di polizia, dei cui commissariati i giovani diventano presto “clienti fissi”. Anche perché dopo la svolta nella politica criminale francese negli anni Novanta, i ragazzi di banlieue sono tenuti sotto costante pressione dalla polizia. Non è casuale che il reato spesso loro contestato sia quello di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Un tipico “reato d’onore” prodotto delle tensioni di strada. Un meccanismo a spirale che, da un lato, conduce a una fortissima conflittualità con la polizia, che a molti banlieusards appare il solo volto dello Stato conosciuto nelle periferie; dall’altro, a un’inflazione di procedimenti penali e amministrativi sia per oltraggio e resistenza, sia per 41 violenza illegittima da parte degli agenti, accusati dai fermati di eccedere nell’uso della forza. Le “infrazioni nei confronti dei depositari della forza pubblica” sono la forma della quotidiana conflittualità della popolazione giovanile delle periferie nei confronti dello Stato. La possibilità per i poliziotti vittime di offese verbali e fisiche da parte di fermati o arrestati di costituirsi parte civile, introdotta per accrescere le garanzie giurisdizionali degli uomini in divisa, ha accentuato la conflittualità tra giovani e agenti. La personalizzazione di una relazione originariamente concepita tra individuo e Stato, esaspera la contrapposizione tra banlieusards e polizia. Anche perché i giudici di sorveglianza impongono risarcimenti ritenuti troppo onerosi, vissuti come forma di ingiustizia. Il loro ammontare li spinge a procurarsi il denaro con ogni mezzo, anche mediante condotte illecite. Una spirale che fa lievitare ulteriormente il tasso di devianza, già molto elevato. I processi per oltraggio e resistenza, trasformano , in assenza di altre arene discorsive, le aule di tribunale in surrogati di spazio pubblico. L’aumento di quei reati mostra come sulla giustizia penale si scarichi, in una logica di supplenza istituzionale, la gestione della conflittualità sociale tra popolazione giovanile delle periferie e lo Stato. Ma in questi percorsi giudiziari, che si concludono, spesso, in maniera sfavorevole per loro, i giovani si politicizzano. Davanti alla legge, la loro identità assume i tratti della vittima dell’ingiustizia. Una vittimizzazione fondata sulla convinzione che l’essere “arabi” o “africani”, e comunque musulmani, ne facciano cittadini con diritti affievoliti. Considerazione che inasprisce il loro risentimento nei confronti della République. E una volta che il risentimento diviene incontenibile, è facile che quei giovani si radicalizzino e decidano di abbracciare un’ideologia che offre loro la possibilità di rappresentarsi come implacabili “giustizieri” di un sistema che essi , anche dopo quell’esperienza, giudicano “intimamente corrotto”. del 17/11/15, pag. 3 Molenbeek, quartiere crocevia tra integrazione e radicalizzazione Bruxelles. Periferia poverissima a pochi minuti dal centro città Gabriele Annichiarico BRUXELLES A soli 10 minuti a piedi dalla centralissima Grande Place, dove turisti di ogni nazionalità passeggiano fra le boutique di cioccolato, le baraque à frite e le affollatissime birrerie, si accede nelle vie del quartiere di Molenbeek. Una delle più povere fra le 19 comuni che compongono la città di Bruxelles-Capitale, con una popolazione che sfiora i 100 mila residenti, in gran parte di origine marocchina, con il reddito pro-capite fra i più bassi del Belgio e con un tasso di disoccupazione giovanile fra i più alti d’Europa (intorno al 40%). Un angolo di città poco frequentato dagli abitanti di Bruxelles, anche per la sua pessima reputazione di quartiere «poco raccomandabile» e sede di ogni traffico illegale. Non ultimo come luogo di reclutamento dei foreign fighters, come la stampa belga sembra confermare in questi giorni. <TB>Il canale fluviale della città, linea di demarcazione geografica e sociale della città, traccia le due Bruxelles. A sud il centro turistico, il quartiere europeo e le ricche comuni che lo circondano, piene di caffè, di ristoranti, di cinema e di teatri. A nord i quartieri più poveri, a forte concentrazione d’immigrati, soprattutto di lingua araba, con i caffè di 42 quartiere, spesso frequentati da soli uomini, le macellerie halal e lo spettro della delinquenza, di cui naturalmente Molenbeek è tristemente capofila. Un comune in cui l’attaccamento alla tradizione d’origine e il senso d’appartenenza in seno alla realtà belga, fortemente multi-culturale, multi-linguistica e cosmopolita, convivono e si sovrappongono. Una realtà sociale in cui radicalizzazione e integrazione hanno creato una rete associativa solida e vivace, capace non solo di creare lavoro sui temi dell’integrazione, ma anche di valorizzare quella mixité sociale che caratterizza un po’ tutto il tessuto urbano e sociale della città di Bruxelles. <TB>Non è forse un caso che la storia di Molenbeek sia stata caratterizzata da grandi flussi migratori. Polo industriale a cavallo fra XIX e XX secolo, fra i più importanti della capitale belga, e per questo luogo di incontro delle due comunità linguistiche nazionali, quella franconfona e quella fiamminga. Luogo d’accoglienza di «agitatori politici» e di anarchici (spagnoli, italiani e soprattutto francesi) in esilio dai paesi d’origine. Infine, sede della massiccia migrazione di lavoratori e operai di origine nord africana, soprattutto marocchina in seguito agli accordi del 1964 fra il governo del Marocco e quello del Belgio, per favorire l’afflusso di lavoratori da impiegare nei settori meno specializzati. È passato appena un anno dalle celebrazioni pubbliche dei 50 anni dell’immigrazione di origine marocchina (1964–2014), che hanno dipinto Molenbeek come esempio di un processo d’integrazione culturale di successo. I fatti recenti sembrano però aver ribaltato la realtà. Le immagini che ci mostrano una Molenbeek blindata, invasa dalle forze dell’ordine alla ricerca di presunte cellule terroristiche autrici degli attentati di questi giorni a Parigi, mortificano la comunità araba, suo malgrado sotto gli occhi dei riflettori. Gli atti di denuncia e di sgomento verso i recenti attacchi terroristici sono convinti e unanimi, ma spesso confinati alla sfera privata e raramente a quella pubblica. Un atteggiamento che rischia di essere frainteso come un implicito atto di favoreggiamento anche solo morale, ma che in realtà nasconde spesso un senso del pudore, a volte forse vera e propria vergogna, da parte di quelle comunità che hanno duramente lavorato per conquistare diritti e benessere sociale. <TB>Il legame con i tristi fatti di questi giorni e il territorio di Molenbeek sembrano mettere in discussione il processo d’integrazione tout court. Ad essere omessa è la realtà quotidiana di queste periferie sociali, piuttosto che geografiche, costrette a fare i conti con la stigmatizzazione culturale, nonché con le politiche di austerità che in Belgio iniziano lentamente a farsi sentire, soprattutto nelle fasce più deboli della società. Le realtà come quella di Molenbeek sembrano soffrire particolarmente questa condizione, fra nuove forme di povertà, tagli alla spesa pubblica ed un processo di gentrification di grandi proporzioni che ne sta completamente compromettendo il tessuto urbanistico e sociale. In questo panorama a soffrire maggiormente sono proprio quelle giovani generazioni, facilmente affascinate dalla retorica cosiddetta integralista. Del 17/11/2015, pag. 5 Sei milioni di islamici che si sentono in trappola 43 Imbarazzo e rabbia per i fedeli della Capitale lontani dalla violenza di Daesh Il cielo di Parigi è tornato quello grigio, un po’ cupo, dei suoi autunni, quasi un segnale ai suoi straziati abitanti, un invito cioè a ricominciare, poiché la vita continua, e non si deve cedere al ricatto dei terroristi che vogliono annichilirci con la paura. Il traffico è di nuovo esasperante, le vie brulicano di passanti, in place de la République prosegue il commovente pellegrinaggio per ricordare le vittime della carneficina. All’angolo con il bistrot La Taverne incrocio un magrebino, ha un fiore in mano, si dirige verso il centro della piazza. Ma ho l’impressione che si senta a disagio. O forse è solo una mia suggestione. Dettata dai ricordi. Dal confronto. Col dopo Charlie Hebdo, quando due milioni di parigini invasero il centro della città e resero grandiosa la manifestazione di quella luminosa domenica 11 gennaio, una mobilitazione straordinaria in difesa della libertà di parola, che è poi la base e il fondamento dei diritti umani. Ecco, quel pomeriggio vidi sfilare una significativa e orgogliosa presenza della comunità musulmana francese, a condividere il messaggio di Je suis Charlie, a rivendicare il diritto di avere opinioni e di poterle esprimere. I giovani spiegavano perché erano lì, in quanto francesi di fede musulmana, uno di loro mi disse: “Non voglio che si faccia amalgama, perché non c’è niente in comune tra i musulmani che praticano la religione in pace e i terroristi che uccidono in nome di Allah”. Il ragazzo si chiamava Aly, studente liceale di sedici anni, veniva da Neuilly, marciava assieme ai rappresentanti della comunità dell’Île de France “per manifestare contro il terrorismo”. Quanti cartelli venivano issati sopra la folla, “Islam=pace”, “siamo cittadini francesi”, “l’Islam è innocente, è religione di pace”, “no all’islamofobia”. Oggi la solidarietà musulmana è espressa alla spicciolata, mentre a livello ufficiale è densa di forti prese di posizione, in cui si tasta lo sforzo di voler rassicurare i francesi, non solo denunciando “attacchi odiosi e abietti” (CFCM, Consiglio francese del culto musulmano) ma rassicurandoli sui valori dell’Islam, agli antipodi di quelli predicati da Daesh, lo Stato del Califfato. Traspare, comunque, grande imbarazzo e rabbia, oltre che dolore, costernazione. Il timore più diffuso è la consapevolezza che le comunità musulmane vengano “amalgamate” nel pensiero comune a quei demoni che hanno ucciso in nome di un radicalismo religioso “ipocrita”. Ma anche consapevolezza, come spiega Abdelali Mamoum, teologo ed imam di Seine-et-Marne, che in certi luoghi di culto si accolgono gruppuscoli capaci di reclutare i giovani e di radicalizzarli. Un fenomeno che le autorità governative hanno faticato a controllare e circoscrivere: dal 2012, 40 imam sono stati espulsi per aver esternato incitamenti all’odio. Dall’inizio del 2015, dopo i fatti di Charlie Hebdo, ci sono ulteriori 22 provvedimenti in corso d’istruzione. Si sentono in trappola, i sei milioni di musulmani francesi. Tanto che Tareq Oubrou, rettore della moschea di Bordeaux, ha appena lanciato un appello: “Le istituzioni musulmane devono parlare, manifestarsi (…) non lasciare che quella gente confischi la religione”. Mi dice un algerino che lavora al concierge di un albergo del quartiere Montmartre: “Ci si sente addosso la diffidenza della gente. La tensione è molto alta, soprattutto nelle zone di maggiore crisi economica”. Laddove si sono manifestate le “fratture francesi”, come sostiene il geografo e sociologo Christophe Guilluy. Per capire quello che è successo, uscendo dalla cronaca, bisogna analizzare alcune problematiche. La prima delle quali è il fallimento del modello scolastico. Ogni anno 120mila giovani non concludono gli studi superiori: sono soprattutto figli di ultima immigrazione. Le biografie dei terroristi francesi si assomigliano in modo impressionante. Non hanno terminato gli studi. Sono rimasti disoccupati. Hanno avuto a che fare con la legge: chi guidava senza patente, chi per spaccio di droga. Hanno vissuto in case popolari delle cinture periferiche, o in paesini dove la crisi morde. Il “filtro” che in passato aveva permesso l’integrazione degli immigrati coi francesi è saltato. 44 Ogni comunità vive ignorando le altre, o lottando con esse. Il percorso identitario dei terroristi ha tappe simili: la moschea, o la prigione. Lì si sono fatti indottrinare. Lì gli hanno detto che il loro ruolo era segnato dalla volontà di Allah, e che bisognava combattere i miscredenti. Non avendo difese culturali e sociali – il terrorista Mehdi Nemouche dell’attentato al museo ebraico di Bruxelles aveva comprato le Coran pour les nuls, ossia il Corano per i negati – hanno scelto il loro destino. Poi sono partiti in Siria o in Iraq dove gli hanno insegnato a come farsi esplodere. del 17/11/15, pag. 9 Ventimila vittime fra i musulmani “Ci siamo anche noi” Gli islamisti fanno soprattutto strage nei loro Paesi E là i filo-occidentali si sentono soli. Anche sul Web Giordano Stabile Hollande l’ha detto nel suo discorso di ieri. Non è uno scontro di civiltà. Perché l’estremismo jihadista non ha niente di civile. I Paesi musulmani lo ripetono ogni volta. «Le prime vittime del terrorismo islamista siamo noi». I numeri danno loro ragione. I morti islamici per mano di islamisti, soltanto nel 2015, sono oltre ventitremila. I morti in Europa in attacchi jihadisti sono 148 (Parigi, Copenaghen, Parigi). Più i 224 russi uccisi sul Sinai nell’attentato al volo da Sharm el Sheikh a San Pietroburgo e i turisti occidentali al museo del Bardo di Tunisi (21) e sulla spiaggia di Sousse (38). Centinaia di vittime innocenti che ci stracciano il cuore. Ma dall’altra parte ce ne sono decine di migliaia (24.517 nel 2014 nei Paesi a maggioranza islamica, secondo il Gtd) che passano e scompaiono rapidamente nel flusso di notizie sui media occidentali. Beirut come Parigi I cittadini dei Paesi islamici, quelli più colti, che parlano lingue europee e ci seguono, si sentono feriti. I social media hanno accentuato questo senso di differenza di trattamento. Da venerdì, su Twitter, il dibattito fra analisti e blogger del mondo musulmano gira attorno a questo. Da Beirut la reporter televisiva Jenan Moussa ha cominciato a postare le foto delle vittime, 44, degli attacchi kamikaze condotti dall’Isis il giorno prima di Parigi, con gli stessi gilet imbottiti di esplosivo e bulloni di Parigi. Studentesse, bambini, padri di famiglia. E si chiedeva perché non avessero lo stesso impatto di quelle che arrivavano dalla Francia. Certo. Quando il nemico ti colpisce in casa è diverso. Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan sono percepiti in Europa come lontani e in guerra permanente. Ed è vero che il grande conflitto civile fra sciiti e sunniti, paragonato alla Guerra dei Trent’anni europea fra cattolici e protestanti, sta massacrando il Medio Oriente dal 1980 senza interruzioni. Ma è anche vero che il mondo della globalizzazione è piccolo. Il conflitto non è più in un mondo lontano. Se la Siria va in pezzi milioni di profughi arrivano sulle nostre coste. E gli altri effetti collaterali li abbiamo appena sperimentati. I ragazzi di Peshawar Il blogger pachistano Raza Ahmad Rumi, ancora su Twitter, chiedeva di non dimenticare gli studenti massacrati dai taleban a Peshawar (dicembre 2014, 145 morti). Uguali ai ragazzi del Bataclan. Ha suscitato un dibattito furioso. «Perché gli europei sono così uniti fra loro quando un Paese viene colpito e noi musulmani siamo così divisi?» si chiedevano 45 i pachistani. L’Europa, vista da uno degli epicentri della guerra civile islamica, sembra un blocco di granito. Mentre l’Isis continua ad alimenta il conflitto sunniti-sciiti. Fra i sette Hazara (sciiti) decapitati dall’Isis in Afghanistan, lo scorso 30 settembre, c’era una bambina di nove anni. La sua immagine sul Web ha acceso l’indignazione, la protesta che ha quasi preso d’assalto il palazzo presidenziale di Kabul. Ma era soltanto nel campo degli sciiti. Sul Web «fan boys» dello Stato islamico si scontrano con sostenitori delle milizie sciite, o dei curdi (sunniti), a colpi di «cane», «ratto», «maiale» e disinformazione. La guerra civile va avanti. E coinvolge anche noi. 46 INTERNI del 17/11/15, pag. 7 «Bombardare non è tabu». L’unità che vuole il governo Camera. Fuori dall’aula i ministri cantano la Marsigliese. Dentro la sinistra attacca: anche durante il G20 qualcuno bombarda le file curde in lotta contro Daesh. Renzi dalla Turchia: «Serve una risposta equilibrata» Gentiloni: a fianco dei fratelli francesi Andrea Fabozzi ROMA La ministra della Difesa spiega che la partecipazione dell’Italia ai bombardamenti contro il Daesh «non è un tabu», il presidente del Consiglio invita ad evitare reazioni istintive, preferisce «una risposta strategica, saggia, equilibrata». Forza Italia chiama a una nuova battaglia di Lepanto, un fronte cristiano contro il mondo islamico da stringere stavolta con la Russia, mezzo millennio dopo. E tutti invocano l’unità nazionale di maggioranza e opposizione di fronte al terrorismo. Di fronte al terrorismo la politica italiana non esce dalla trappola della campagna elettorale continua. Il ministro dell’Interno che non vuole cadere nella trappola del Califfo, precipita in quella del segretario della Lega nord e gli scappa di accusarlo di tifare per gli attentatori. Poi davanti al parlamento fa i conti di poliziotti, carabinieri, finanzieri e militari delle forze armate che sono o stanno per arrivare a Roma, e raggiunge quota 30mila. Che significa otto divise per chilometro quadrato nell’intero territorio cittadino, per tre turni 24 ore su 24. Ma il Movimento 5 stelle esige nuove assunzioni per le forze dell’ordine “sotto organico”, vuole che vengano richiamati i militari dall’Afghanistan per schierarli «a difesa del nostro territorio» e suggerisce la creazione di «corpi d’élite nei servizi segreti». Qualcosa, adesso, sarà aggiunto nella legge di stabilità. Davanti all’ingresso della camera dei deputati, parlamentari di maggioranza e opposizione, ministre e ministri, si fermano in silenzio in piedi ad ascoltare la Marsigliese, Fratelli d’Italia e l’Inno alla gioia. Poi, nell’aula di Montecitorio, c’è un ultimo minuto di silenzio prima delle comunicazioni del governo. Sostiene il ministro degli esteri Gentiloni che l’Italia risponderà agli attacchi di Parigi «insieme ai fratelli francesi». Che per il momento sono insieme a turchi, australiani e americani e in Siria bombardando. Dice Gentiloni che «la forza del terrorismo sta anche negli errori che ha fatto l’occidente nel passato», che in Siria «serve una transizione politica per allontanare il dittatore Assad senza creare un vuoto che sarebbe riempito da Daesh». E i russi «possono essere fondamentali». Dice Renzi dal G20 di Antalya, in Turchia, che «il terrorismo non è un problema che si risolve con uno schiocco delle dita. Il principio italiano, riportiamo la Russia al tavolo della discussione, sta finalmente portando risultati». Dice il capogruppo dei deputati di Forza Italia Brunetta, dall’aula della camera, che non basta, «l’Italia deve promuovere la rinuncia unilaterale dell’Unione europea alle sanzioni contro la Federazione russa». C’è una polemica anche nel lutto: «Oltre alla Marsigliese, io ho cantato in cuor mio l’inno russo in ricordo delle vittime dell’aereo abbattuto sul Sinai, anche quello dai terroristi dell’Isis». Mentre il suo ministro dell’Interno si accapiglia con Salvini, tra radio televisioni e hashtag, Renzi aggiunge che «dire che in Italia stanno arrivando troppi immigrati è una 47 banalizzazione. Qualcuno sta facendo l’equazione facile rifugiati uguale terroristi, ma il punto è che la quasi totalità dei rifugiati sta scappando dagli stessi terroristi in azione nelle nostre città». Poi, lui che guida un governo di già larghe intese, ripete il suo invito all’unità nazionale: «Rinnovo l’appello alle forze politiche perché su questo tema non ci siano divisioni e litigi». Forza Italia risponde con le sue condizioni per «una nuova Lepanto» e con un’altra formula politica: «Unità critica nella verità». In concreto il governo preferisce non chiedere nessun voto al termine delle comunicazioni, nessuna mozione nell’aula della camera. Niente conta, niente divisione. Al capogruppo del Pd Rosato sfugge un ragionamento complicato — il successo dell’Expo avrebbe dimostrato la capacità italiana di proteggersi dai terroristi — e una polemica a cui proprio non può rinunciare con i 5 Stelle che (la famosa uscita di Di Battista) sembrarono giustificare i terroristi. Grillini e opposizione di sinistra non pensano neanche per un attimo che l’invito all’unità possa riguardi. Però rinunciano anche loro a presentare mozioni che si sarebbero dovute votare. Il capogruppo della nuova Sinistra italiana Scotto fa notare che proprio in Turchia «mentre oggi si firmavano carte importantissime al G20, qualcuno bombardava le file curde in prima linea nella lotta al Daesh». Il 5 Stelle Sorial aggiunge che l’Italia dovrebbe «interrompere ogni rapporto con le monarchie del Golfo che finanziano l’Isis. Mentre Renzi è andato a Riad solo qualche giorno fa». del 17/11/15, pag. 11 Più controlli in carcere e celle aperte agli imam contro la radicalizzazione L’obiettivo è evitare l’arruolamento tra i detenuti Francesco Grignetti Contro il terrorismo islamista c’è un «fronte delle carceri» da tenere sotto controllo. I fondamentalisti, infatti, fanno spesso proseliti nelle celle, più che nelle moschee o sul web. In Spagna è accaduto che sia stata sgominata una cellula islamista che progettava attentati e che era nata dietro le sbarre. Interpreti arabi Immediatamente dopo gli attentati, anche in Francia è cresciuto il livello di controllo sulle carceri. E ne hanno parlato ieri al ministero della Giustizia, presente il ministro Andrea Orlando. La conclusione è che se serviranno più soldi per investigatori, tecnologie, e interpreti dall’arabo, i soldi arriveranno. Il direttore dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, dopo gli attentati di Parigi ha già innalzato il livello di allerta nelle nostre carceri. Quello che accade tra i detenuti, specie quelli di religione islamica, ovviamente viene controllato da tempo. Una nuova circolare, però, tre giorni fa è stata diramata a tutti i penitenziari: si chiede ai direttori, agli educatori e agli agenti della polizia penitenziaria la massima attenzione ai fenomeni di radicalizzazione tra i musulmani, specie quelli più sradicati dal tessuto d’origine e dalla famiglia. I soggetti più fragili, quelli più sensibili all’indottrinamento dei fondamentalisti. Secondo la circolare vanno scrutati i comportamenti di ogni detenuto islamico - ce ne sono in carcere circa 8 mila - per verificare che non chiuda i rapporti con gli altri detenuti, con le famiglie, con gli imam autorizzati e con il resto del mondo, in un percorso di progressivo isolamento ed autoesaltazione. Preghiere in cella 48 Al contempo, proprio per evitare che la religione possa diventare uno schermo dietro cui si nascondono discorsi di propaganda per la Guerra Santa, e un argomento di vittimizzazione, nelle carceri italiane inizieranno ad entrare gli imam dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia). È fondamentale - annota Consolo - che la preghiera sia guidata da un vero imam e non da un detenuto qualsiasi. Attualmente sarebbero 52 le moschee di fortuna ospitate dalle carceri, dove in assenza di un vero imam si aprono pericolosi spazi di autogestione della preghiera. Il tema è molto studiato a livello europeo. Giusto un mese fa a Bruxelles si è tenuto un vertice al massimo livello tra criminologi, ministri della Giustizia, magistrati e direttori di penitenziari sui modi di prevenire la radicalizzazione dei detenuti. In Italia, per esempio, si fa in modo che nessuno dei circa 100 condannati per terrorismo internazionale entri in contatto con i detenuti comuni. Criminali comuni «È documentata, però - racconta Donate Capece, direttore del sindacato autonomo Sappe - la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, che pure non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere. Si sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati». Per impedire questi processi, il Dap chiede alla polizia penitenziaria di vigilare. Secondo il Sappe, invece, sarebbe necessario «sospendere il sistema della “vigilanza dinamica” che consente ai detenuti di stare molte ore al giorno fuori dalle celle, mischiati tra loro, senza fare nulla e con controlli sporadici ed occasionali». del 17/11/15, pag. 6 L’ipotesi di schedare i passeggeri Una banca dati per chi torna dai Paesi al di fuori di Schengen ROMA Un piano di emergenza in quattro punti per fronteggiare la minaccia dei terroristi. Interventi mirati per l’identificazione e il controllo di chi entra in Europa, anche se si tratta di un cittadino di uno Stato dell’Unione. Con una novità che potrebbe rivoluzionare il sistema finora in vigore: saranno schedati tutti coloro che sono andati in un Paese extra Schengen e poi sono tornati nel proprio Paese. In vista del vertice di urgenza dei ministri dell’Interno fissato per venerdì mattina a Bruxelles la Commissione guidata da Jean Claude Juncker mette a punto un provvedimento che possa essere operativo prima possibile. E lo fa per rispondere alla richiesta presentata dalla Francia che sollecita «misure urgenti», soprattutto ne chiede l’immediata entrata in vigore. E si concentra in modo particolare sulla «blindatura» delle frontiere per filtrare gli ingressi e cercare di impedire ai fondamentalisti di entrare. Anche tenendo conto dell’ultima stima della Commissione Ue che parla di «circa 5.000 comunitari residenti che hanno viaggiato per unirsi a gruppi terroristici come Daesh». Sono i foreign fighters, i tanto temuti combattenti di ritorno che rappresentano una delle minacce più concrete per l’Occidente. Il codice Pnr per i voli È uno dei punti più controversi, in discussione da mesi e sul quale gli Stati membri si sono già divisi dopo gli attentati di Parigi del gennaio scorso contro la sede della rivista satirica Charlie Hebdo e il supermercato Kosher. Una misura che la stessa Commissione definisce 49 però di «cruciale importanza» perché consente non solo di aver in tempo reale i dati personali di chi prenota o acquista un biglietto aereo, ma fornisce pure informazioni preziose nell’attività di prevenzione contro i terroristi. Attraverso la «scheda» immessa nel sistema comune sarà infatti possibile conoscere le abitudini del passeggero (comprese quelle riguardanti la religione lo stato di salute), sapere con chi è stato effettuato il viaggio, le persone contattate prima di intraprenderlo. Ed è proprio questo ad avere alimentato le perplessità di numerosi parlamentari creando uno schieramento contrario trasversale che si è appellato a motivi di privacy per rinviare sino ad ora l’approvazione della direttiva. Un atteggiamento che potrebbe modificarsi di fronte al massacro di venerdì scorso. La «schedatura» ai varchi Nella bozza in preparazione si parla di «norme più robuste per mantenere un controllo più stretto su chi entra nell’Unione europea e per prevenire ulteriori accessi non autorizzati, nonché impedire alle persone di entrare al di fuori dei normali valichi di frontiera» oltre all’introduzione «di un sistema di ingresso/uscita molto più efficace che consentirà il tracciamento dei movimenti dei cittadini di paesi terzi attraverso la frontiera esterna dell’Unione Europea». In realtà la richiesta francese prevede che questo «tracciamento» riguardi anche i cittadini Ue proprio per evitare il rientro di chi potrebbe essere andato a combattere, ma più semplicemente anche di coloro che potrebbero essere andati a incontrare personaggi «sospetti» per pianificare attentati . Lo scambio dei dati Di fronte al moltiplicarsi di segnalazioni trasmesse dagli apparati di intelligence di mezzo mondo è necessario un confronto reale tra servizi segreti, ma anche con le forze di polizia in modo da evitare che un «sospetto» possa sfuggire ai controlli perché i dati che lo riguardano non sono stati trasmessi in maniera corretta o comunque condivisi tra le varie strutture. Per questo si è deciso di creare un sistema interconnesso e accessibile a 007 e investigatori che abbia «indicatori di rischio comuni», soprattutto che consenta la verifica delle notizie con una collaborazione effettiva alla quale dovranno dare il proprio assenso i governi che poi avranno l’onere di garantire il rispetto dell’accordo. Una circolazione delle informazioni sta già avvenendo, necessario — secondo la Commissione — è farla diventare capillare. Il rapporto con le comunità Per evitare il radicalismo si ritiene fondamentale intensificare il legame con le comunità islamiche e isolare i fondamentalisti. Un’attività «essenziale della strategia antiterrorismo che conta su Awareness una «rete di reti», che riunisce gli operatori per discutere le tendenze emergenti e scambiare e sviluppare le migliori pratiche». Per sostenere questo lavoro l’Ue ha già impegnato «25 milioni di euro per i prossimi 5 anni» e ora potrebbe stanziare ulteriori risorse. Del resto, come spiega Gianni Pittella, capogruppo dei socialisti al Parlamento europeo impegnato nei negoziati di queste ore, «lo sgomento deve far posto alla politica e l’incontro già fissato con Juncker e Schulz servirà proprio per accelerare il rafforzamento del controllo alle frontiere esterne e il meccanismo automatico di cooperazione a livello di intelligence . Serve una strategia di lungo periodo messa a punto da una larga coalizione internazionale capace di indicare una chiara visione sul day after». Fiorenza Sarzanini 50 Del 17/11/2015, pag. 6 Guerra, non basta una camera Dopo Parigi il Comitato referendario per il No solleva il tema dell’art. 78 della Costituzione Pubblichiamo l’appello del Comitato per il No al referendum costituzionale sulla riforma Renzi-Boschi. In un tornante della storia, quale si va profilando in conseguenza della mattanza occorsa il 13 novembre a Parigi per opera di seguaci del Daesh, il Comitato per il No al referendum costituzionale sulla riforma Renzi-Boschi, chiede al Presidente della Camera dei deputati e ai Presidenti dei gruppi parlamentari di rinviare a data da destinarsi la discussione, già fissata per il prossimo 20 novembre, davanti alla Camera dei deputati, per l’approvazione, in prima deliberazione, del ddl cost. n. 2613-B. Il Comitato ritiene infatti inopportuno che in un momento così grave che richiede l’unità di tutte le forze politiche e sociali – come ai tempi del terrorismo, se non peggio –, le Camere possano procedere tranquillamente nel loro lavoro di revisione della gran parte degli articoli della Costituzione come se nulla fosse accaduto. Mentre è proprio nei momenti di crisi, che la Costituzione, nei suoi principi e valori, dovrebbe costituire il simbolo, per eccellenza, dell’unità del popolo italiano. Né si obietti che, con la progettata modifica della Camera e del Senato, lo Stato italiano acquisirebbe maggior forza per contrapporsi al terrorismo jihadista. Proprio l’esperienza degli anni di piombo ha infatti insegnato che le battaglie contro l’eversione non si combattono limitando i poteri del Parlamento, che erano gli stessi di quelli tuttora previsti dalla Costituzione del 1947, e che potrebbero semmai essere rimodulati agevolmente con appropriate modifiche regolamentari. La gravità dell’attuale situazione che potrebbe addirittura sfociare, come da più parti si sostiene, in uno stato di guerra o in una situazione analoga, induce il Comitato per il No a sottolineare che se la riforma Renzi-Boschi venisse approvata nel testo di cui al ddl cost. n. 2613-B, non sarebbero più le Camere a deliberare lo stato di guerra, come previsto dal vigente articolo 78 della Costituzione, ma la sola Camera dei deputati. E ciò, come se il Senato, ancorché rappresentativo delle autonomie locali, quale previsto dalla riforma Renzi-Boschi, non fosse anch’esso un organo dello Stato-comunità e quindi della Repubblica italiana. Consiglio direttivo: Gustavo Zagrebelsky (Presidente onorario), Alessandro Pace (Presidente), Pietro Adami, Alberto Asor Rosa, Gaetano Azzariti, Francesco Baicchi, Vittorio Bardi, Mauro Beschi, Felice Besostri, Francesco Bilancia, Sandra Bonsanti, Lorenza Carlassare, Sergio Caserta, Claudio De Fiores, Riccardo De Vito, Carlo Di Marco, Giulio Ercolessi, Anna Falcone, Antonello Falomi, Gianni Ferrara, Tommaso Fulfaro, Domenico Gallo, Alfonso Gianni, Alfiero Grandi, Raniero La Valle, Paolo Maddalena, Giovanni Palombarini, Vincenzo Palumbo, Francesco Pardi, Livio Pepino, Antonio Pileggi, Marta Pirozzi, Ugo Giuseppe Rescigno, Stefano Rodotà, Franco Russo, Giovanni Russo Spena, Cesare Salvi, Mauro Sentimenti, Enrico Solito, Armando Spataro, Massimo Villone, Vincenzo Vita, Mauro Volpi. 51 del 17/11/15, pag. 24 Ricorsi anti-Italicum il primo verdetto arriverà il 2 febbraio Consulta, oggi il voto ma si rischia un’altra fumata nera Renzi vede i capigruppo Pd. Besostri: pronto a ritirarmi LIANA MILELLA ROMA. L’Italicun “corre” verso la Consulta, ma il Parlamento non “corre” affatto per garantire il plenum del giudice delle leggi. Tra i dati possibili basta citarne uno: da 507 giorni manca il primo dei tre giudici da sostituire. Domani, nella nuova votazione dalle 13 in poi, si rischia un’altra fumata nera. Sarebbe la 27esima. Ma la Corte resta la grande protagonista della vita politica. Basta citare le decisioni sul Porcellum, sulla legge Severino, sulla fecondazione, sulle pensioni. Come annuncia l’avvocato Felice Besostri, che ha scatenato la nuova “guerra” a colpi di ricorsi contro l’Italicum dopo aver vinto quella contro il Porcellum, «un tribunale civile, quello di Potenza, ha già fissato la data in cui sarà discusso il nostro ricorso. Sarà il 2 febbraio quando l’avvocato Felice Belisario, già capogruppo dell’Idv in Senato, presenterà i nostri 13 punti di incostituzionalità ». Già quel giorno, se il tribunale di Potenza dovesse riconoscere la fondatezza dei ricorsi, si potrebbe aprire la via per mandare l’Italicum alla Consulta. Ma qualora non fosse Potenza a decidere potrebbe toccare a un’altra delle città in cui fioccano ricorsi e atti di citazione. Già una dozzina quelli depositati, che Besostri elenca: Milano, Torino, Trieste, Venezia, Bologna, Messina, Bari, Catanzaro, Potenza, mentre Roma è ormai prossima. «Una legge che continua ad avere delle lacune», come dice il guru di M5S Gianroberto Casaleggio. Ma che, se si andasse al ballottaggio, secondo il sondaggista Nando Pagnoncelli, farebbe vincere M5S rispetto al Pd. Chiosa Casaleggio: «Sulla legge non cambieremo idea perché vinciamo ». Fatto sta che, proprio il ruolo che la Corte avrà sul futuro dell’Italicum e probabilmente anche della riforma costituzionale, complica di molto la scelta dei tre giudici che mancano all’appello. Il primo, in quota Forza Italia, dal 28 giugno 2014; il secondo dal 31 gennaio 2015, quando Mattarella ha lasciato la Corte per il Colle; il terzo dal 10 luglio. A Berlusconi sarebbero dovuti andare due giudici, ma l’attuale peso del partito ha spinto Renzi a darne uno a M5S che a ottobre 2014 aveva già votato la Pd Silvana Sciarra. Ma siamo lontanissimi da un’intesa. Lo confermava ieri il deputato grillino Danilo Toninelli che per M5S segue la questione. Oggi lo scriverà anche in un post sul blog di Grillo. «Noi votiamo i nostri tre candidati, Besostri, Modugno, Nicolai, indicati dalla rete. Non ci sono stati ufficialmente sottoposti altri nomi, sui quali avremmo comunque bisogno di 48 ore di tempo per sottoporli al giudizio della rete». Per M5S invotabile il nome più accreditato per Forza Italia, quello del deputato ed avvocato Francesco Paolo Sisto. «Tra i nostri criteri c’è quello che alla Corte non debba andare un politico». Quindi Sisto non avrà il 130 voti di M5S, molto preziosi ovviamente. Il Pd non ha ufficializzato il suo nome. Corre quello del costituzionalista Augusto Barbera, ma oggi i capigruppo Luigi Zanda ed Ettore Rosato ne parleranno con Renzi. Un incontro decisivo per le sorti della Corte. Per la quale, in quota M5S, corre anche Besostri. Da cui però arriva una protesta: «Si fa sempre più insistente la voce che la mia precedente attività contro il Porcellum e quella attuale contro l’-I-talicum siano di ostacolo alla mia elezione a giudice della Corte». Inevitabile chiedergli se gli «ostacoli » arrivano dal Pd: «Non credo, perché la difesa della 52 Costituzione e una legge importante per il governo devono stare su due piani distinti. Però, siccome ritengo che la ricostituzione del plenum della Consulta sia assolutamente urgente perché c’è il rischio di non poter raggiungere il numero legale di 11 componenti per via di un’indisposizione, se qualcuno dovesse dirlo chiaramente, non ci penserei un minuto di più a ritirare la mia candidatura». Poi una battuta a buon intenditor: «Si ricordino i parlamentari che il Bundesrat tedesco ha impiegato di recente 34 secondi per eleggere un giudice...». del 17/11/15, pag. 22 “De Luca via”. Il M5S scatena il caos Campania, nell’aula del Consiglio assedio al governatore indagato. Microfono e fogli strappati, la presidente dell’assemblea colta da malore. Il Pd da Roma impone una svolta: esecutivo da rafforzare, urgente un rimpasto OTTAVIO LUCARELLI CONCHITA SANNINO NAPOLI. Banchi della giunta occupati, insulti, urla e microfoni strappati. Così, nell’aula del Consiglio regionale della Campania, i Cinque stelle impediscono all’assemblea di commemorare le vittime di Parigi, ma consentono un insperato gol alla legislatura di De Luca: passa, pure nel caos, la legge sull’acqua pubblica avversata dal sindaco de Magistris. «Il comportamento dei grillini è un oltraggio alla democrazia» denuncia il presidente Rosetta D’Amelio del Pd, prima di essere aggredita dagli stessi 5 Stelle in aula e ricoverata. «Una vergogna » commenta il generale dell’Esercito Carmine De Pascale della lista “De Luca presidente”, a cui era stato affidato l’intervento di commemorazione. «Siete peggio dell’Isis» aggiunge il verde Francesco Borrelli. Ma nel giorno della baraonda, scatta la strategia imposta dal diktat renziano. Si corre ai ripari , dopo lo scandalo politico-giudiziario che investe il governatore Vincenzo De Luca e il suo ex braccio destro Nello Mastursi, indagati con il giudice del Tribunale civile Anna Scognamiglio e suo marito Guglielmo Manna. Una strategia su due livelli, quella del Nazareno: entro domani nasce una nuova segreteria, «con iniezioni di qualità e robustezza», sottolineano fonti romane. Subito dopo, si dovrà «incidere» sull’azione e la giunta di De Luca. «Dev’essere chiara una cosa: il partito in Campania non è la propaggine di Palazzo Santa Lucia». Intanto, dopo l’azzeramento deciso dal segretario campano Assunta Tartaglione, dall’organismo regionale escono 30 membri. E arriva un vero e proprio direttorio. Eccoli: sarebbero i parlamentari Gennaro Migliore, Vincenzo Cuomo, Valeria Valente, Leonardo Impegno, gli eurodeputati Pina Picierno e Massimo Paolucci, i consiglieri regionali Mario Casillo, Gianluca Daniele e Raffaele Topo, il commissario Pd di Ercolano, Teresa Armato. Ultime manovre mentre cala la sera su un consiglio regionale stremato dagli scontri. Per cinque ore è andata in scena una gazzarra: in cui i Cinque stelle invocano con urla e striscioni le dimissioni del presidente De Luca che resta, però, ai piani alti del Palazzo. I grillini chiedono che torni a casa per il coinvolgimento nell’inchiesta della Procura di Roma. Attaccano senza sosta, ma dimenticano nel cassetto 309 emendamenti e così passa in appena venti minuti, con il centrodestra fuori dall’aula, la legge De Luca sul riordino del ciclo delle acque. Una normativa su cui già promette battaglia il sindaco di Napoli, Luigi de 53 Magistris. «Quella legge è un obbrobrio politico. Un fatto molto grave: si vuole sovvertire la volontà popolare e calpestare l’autonomia dei Comuni». Ma De Luca guarda avanti e ribatte: «Abbiamo assistito a una sceneggiata dei Cinque stelle, ma sono qui per cambiare tutto in Campania. E quando scoviamo un nido di vipere, ce le scatenano contro». del 17/11/15, pag. 14 Lombardia, il M5S si prende il Comune sciolto per mafia Stefano Rizzato A fine giornata, dopo aver ringraziato tutti, Angelo Cipriani lo ammette: «Speriamo di essere da traino per gli altri Comuni lombardi». E chissà se in mente ne ha uno in particolare, grande e con il Duomo al centro. Intanto, ieri, il Movimento 5 Stelle ha conquistato il suo primo municipio lombardo. Non uno qualunque: quel Sedriano che nel 2013 fu il primo Comune lombardo sciolto per mafia. E che ora ospita il primo sindaco «grillino» della regione. Romano di nascita, 45enne, maresciallo della Guardia di Finanza. A Cipriani sono bastati 39 voti di vantaggio sul candidato del Pd, Giuseppe Franco Pisano, battuto 1.592 a 1.553. Nel paese - circa 11 mila abitanti - ha votato il 59,5 per cento degli aventi diritto. «Punteremo su legalità e trasparenza», ha detto il neosindaco nel suo insediamento. Non potrebbe essere altrimenti, dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose e il lungo commissariamento. Era l’ottobre 2013 quando l’allora sindaco Alfredo Celeste - del Pdl finì travolto dall’inchiesta su corruzione e ’ndrangheta. Il film è quello che vede come protagonista l’ex assessore regionale Domenico Zambetti, accusato di voto di scambio con le cosche. Per lui i magistrati hanno appena chiesto una condanna a dieci anni, mentre tre e mezzo potrebbero toccare a Celeste. «Abbiamo vinto proponendo una novità concreta e credibile - spiega Cipriani - e con un programma che non è il solito, scritto in 15 giorni. La base sono le linee guida del Movimento 5 Stelle, adattate a una realtà che conosciamo bene. Da anni il futuro vicesindaco Davide Rossi ed io frequentiamo e viviamo il territorio ogni giorno, non solo con le elezioni in vista. Abbiamo lavorato duro per 42 mesi e abbiamo ottenuto un risultato importante». Insieme, Cipriani e Rossi fondarono nel 2012 la cellula grillina di Sedriano. Da qui Milano dista meno di 10 chilometri. Intanto il neosindaco pensa già a fare il suo, con una lista di priorità tutta concretezza. «La prima cosa - spiega - sarà verificare cosa sia stato fatto in questi anni. Poi penseremo ad abbattere le barriere architettoniche, metteremo a norma l’illuminazione pubblica, realizzeremo gli orti urbani che i nostri pensionati aspettano da trent’anni. Ma ci sono anche tante iniziative a costo zero: dal bilancio partecipato al question time per la giunta, fino al baratto amministrativo e alla navetta gratuita per l’ospedale, tre volte a settimana». 54 LEGALITA’DEMOCRATICA del 17/11/15, pag. 29 Don Raffaele. L’ex capo della Nuova camorra organizzata, 13 ergastoli, da 23 anni in regime di 41 bis, ha iniziato a parlare da due mesi. E le sue rivelazioni si annunciano esplosive La verità di Cutolo “Pronto a collaborare vi svelerò i segreti del sequestro Moro” PAOLO BERIZZI DAL NOSTRO INVIATO PARMA. Nessun pentimento («solo davanti a Dio» ). Nemmeno una dissociazione. Ma, per la prima volta dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre — 34 anni in isolamento, 23 in regime di 41 bis — , Raffaele Cutolo ha deciso di collaborare con lo Stato. Una scelta clamorosa che Repubblica è in grado di rivelare e di ricostruire. Una scelta maturata recentemente, in gran segreto, nel carcere di Parma, dove l’ex capo della Nuova camorra organizzata ha appena compiuto 74 anni. Qui, due mesi fa, Cutolo ha chiesto — a sorpresa — di essere interrogato sul rapimento e la morte di Aldo Moro. E ha parlato. Le sue rivelazioni — il verbale è stato secretato — le hanno raccolte in cella un luogotenente dei carabinieri e un magistrato. Collaborano entrambi con la Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla complessa, e ancora oscura vicenda, dello statista democristiano rapito e ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Ma vediamo, con ordine, quello che è successo nel carcere di Parma. Siamo all’inizio di settembre: l’Italia e l’Europa sono alle prese con il caos migranti. Cutolo, come da routine, incontra la moglie Immacolata Iacone nell’unico colloquio mensile previsto per i detenuti sottoposti al regime del carcere duro (41bis). Piccolo ma non irrilevante passo indietro: sei mesi prima. È il 2 marzo. L’ex boss della camorra si sfoga in un colloquio riportato sulle colonne di questo giornale: «Mi hanno sepolto vivo in cella, se parlo crolla lo Stato», dichiara Cutolo. A stretto giro arriva la replica del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. «Cutolo dica quello che sa e sarà valutato, siamo pronti a indagare», lo incalza il 10 marzo. Un invito, più che eloquente, rivolto a “don Raffaele” affinché potesse prendere in considerazione l’idea — sempre parole di Roberti — di fare «seguire alle dichiarazioni contro lo Stato anche delle dichiarazioni concrete». Perché, è il ragionamento, «la possibilità di uscire dalla condizione del 41bis dipende soltanto da lui...». Lui, Cutolo. Torniamo dunque a settembre. Non si sa se e quanto le parole di Roberti abbiano instillato nel vecchio padrino della camorra lo spunto per una riflessione (a parte una breve parentesi nel ’94 — morta sul nascere — l’ex boss di Ottaviano è sempre stato un muro di silenzio). Ma adesso Raffaele Cutolo vuole parlare. Di Moro, sicuramente. Forse anche di altro. Chiede di essere ascoltato da chi sulla morte del politico Dc sta cercando di fare chiarezza. In questi casi la prassi prevede due possibilità: o il detenuto scrive — di persona o attraverso il proprio legale — al magistrato (o ai magistrati) che indagano. O affida la sua richiesta al direttore del carcere. Sta di fatto che la seconda metà di settembre, Giuseppe Boschieri, luogotenente dei carabinieri, consulente della Commissione Moro, contatta uno dei legali di Cutolo, l’avellinese Gaetano Aufiero. Il carabiniere chiede se all’interrogatorio richiesto 55 dal detenuto eccellente volesse prendere parte anche il suo difensore. Ma non trattandosi di un interrogatorio di garanzia, il legale ritiene superflua la propria presenza. Lunedì 14 settembre 2015. Nel carcere di via Burla — dove sono reclusi tra gli altri anche i super boss Totò Riina e Leoluca Bagarella (quest’ultimo appena trasferito in Sardegna), il “Nero” Massimo Carminati e Marcello Dell’Utri — Cutolo parla. Dichiarazioni spontanee. Che finiscono in un verbale. È uno dei 41 documenti raccolti dalla Commissione Moro e annunciati all’ufficio di presidenza. Si legge nell’elenco: “Verbale di riversamento di files audio su supporto informatico relativi all’escussione del detenuto Cutolo Raffaele, avvenuta il 14 settembre 2015”. Mittente del documento 316/1, protocollo 1027, data 2109-2015, è il luogotenente Boschieri. Leggendo le carte che mettono in ordine i documenti c’è un particolare che balza all’occhio: il verbale relativo all’interrogatorio di Cutolo è segreto. Di più. dei 41 documenti raccolti da parlamentari, magistrati, poliziotti, carabinieri che collaborano con la commissione, il 316/1 è l’unico secretato. Gli altri sono tutti liberi o, al massimo, riservati. Perché? Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l’ex capo della Nco? Ha riferito circostanze e particolari che non devono o non possono essere resi pubblici? E, soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di tolale isolamento, Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è sentito «usato e abbandonato»? Il riferimento è al suo coinvolgimento nella vicenda dell’ex assessore regionale Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br a Torre del Greco nel 1981 e poi liberato — secondo una sentenza passata in giudicato — «alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo, a cui si è chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione di Cirillo». Tredici ergastoli, record italiano di lungodegenza carceraria, sposato con Immacolata Iacone da cui ha avuto (inseminazione artificiale) la figlia Denise di 7 anni. Disse Cutolo in un’intervista a Repubblica nel 2006: «Mi sono pentito davanti a Dio, non davanti agli uomini. È immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dallo Stato. Riabilitarsi significa pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio... ». Del 17/11/2015, pag. 15 Di Matteo: “Uno 007 nei nostri uffici e non capivo perché” Il pm depone sulla sua prima indagine su via D’Amelio Napolitano invitato a testimoniare il 14 dicembre (ma in Senato) di Sandra Rizza Dovrà spiegare la sua “collaborazione istituzionale e personale’’ con il predecessore Oscar Luigi Scalfaro; dovrà raccontare la sua verità sull’avvicendamento al Viminale tra Scotti e Mancino nel giugno del ’92; e soprattutto dovrà riferire ancora una volta se e cosa ha saputo, nella sua qualità di presidente della Camera, del famigerato dialogo tra boss e istituzioni. L’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano tornerà sul banco dei testimoni e lo farà negli uffici del Senato il prossimo 14 dicembre. La decisione è stata ufficializzata dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nell’ambito del processo Borsellino quater, dove la testimonianza del presidente emerito è stata chiesta dall’avvocato Fabio Repici, parte civile per Salvatore Borsellino. 56 Si tornerà a parlare, dunque, del patto Stato-mafia nell’aula bunker nissena dove ieri il pm di Palermo Nino Di Matteo, titolare dell’indagine sulla Trattativa, è comparso come teste per ricostruire il suo ruolo nella prima inchiesta su via D’Amelio, quella incentrata sul falso pentito Enzo Scarantino. “Questa è l’occasione istituzionale che aspettavo – ha esordito Di Matteo – per riferire tutto ciò che è utile”. E così il magistrato ha parlato per cinque ore, elencando i suoi dubbi sulle “anomalie” della strage del 19 luglio ’92: a partire dalle reticenze del pentito Totò Cancemi (“Non voleva parlare di Borsellino”) fino alla “parziale coincidenza delle dichiarazioni di Scarantino con quelle di Gaspare Spatuzza”, il collaboratore che nel 2008 sbugiardò il teste fasullo. Una sola volta Di Matteo si è fermato, per chiedere un bicchiere d’acqua, poi ha proseguito con le sue perplessità sul ruolo dei servizi (“Non capivo la presenza abituale nei nostri uffici dello 007 del Sisde Rosario Piraino), ma anche sulle inerzie della procura nissena (le dichiarazioni del capitano dei carabinieri Umberto Sinico, al quale “un amico misterioso” aveva parlato di Bruno Contrada in via D’Amelio, rimasero ferme per tre anni: un ritardo che il pm ha definito “inspiegabile”). Quindi l’analisi dei rapporti con il procuratore Giovanni Tinebra, che prese le distanze dall’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri, indagati e poi prosciolti come mandanti delle stragi. “Cancemi aveva parlato delle ‘persone importanti’ – ha detto il magistrato – ci riunimmo per iscrivere Berlusconi e Dell’Utri. Tinebra portò una copia del Giornale con un titolone su Cancemi ‘pentito a rate’. E disse: iscriveteli, ma io non ci credo”. Ma quello che Di Matteo teneva a precisare è il suo ruolo nella procura che cascò in pieno nel depistaggio di via D’Amelio. “Voglio rispondere alle strumentalizzazioni – ha spiegato – Si è scritto che i tre processi Borsellino non hanno portato a nulla: io dico che sfociarono in 26 condanne definitive”. E all’avvocato Pino Scozzola che gli chiedeva perché, dopo i confronti negativi con i pentiti Di Matteo, La Barbera e Cancemi, non avesse messo in discussione Scarantino, il pm ha replicato: “Venne fatta una valutazione di frazionabilità sulle dichiarazioni: si decise di usare solo i primi tre interrogatori, che apparivano genuini e riscontrati”. Poi, alla domanda se fosse venuto a conoscenza delle riserve del pm Ilda Boccassini sull’attendibilità del falso pentito, Di Matteo ha risposto: “Ero così giovane che Arnaldo La Barbera nemmeno mi salutava. Con la Boccassini non ho mai parlato di Scarantino. All’epoca quei due non sapevano neppure chi fossi”. Dulcis in fundo, il racconto inedito del primo incontro con Vito Galatolo, il pentito che ha raccontato il progetto di attentato nei suoi confronti. “Galatolo fissava la foto di Falcone e Borsellino – ha detto il pm – e indicando Borsellino, mi disse: ‘Lo vede? Lì è successa la stessa cosa che sta accadendo con lei. Ce l’hanno chiesto’”. 57 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 17/11/2015, pag. 7 Isis e migranti, effetti collaterali del cinismo dell’Occidente L’intreccio. Il tentativo di esportare la democrazia ha spinto Usa e Ue a sostenere regimi vicini ai terroristi. E costretto masse di persone alla fuga di Barbara Spinelli Gli attentati del 13 novembre a Parigi sono stati perpetrati da assassini che hanno storie e provenienze diverse, e sono tuttavia legati da esperienze comuni di foreign fighters, attratti dalla propaganda e dalle guerre dell’Isis. Molti di essi, intervistati, dicono di appartenere alla “generazione della guerra al terrorismo”: guerra scatenata da noi, cui gli affiliati dell’Isis comincerebbero a rispondere spargendo sangue fin dentro l’Europa. Sempre dal loro punto di vista, a una guerra che ha ucciso migliaia di civili non si può che rispondere con una guerra contro i civili europei. L’Europa reagisce: “Siamo in guerra”. Un annuncio ovvio, la guerra è in corso da 14 anni. Quel che conta è capire come mai quest’ultima ha fallito e come combattere l’Isis. L’Europa reagisce anche con più controlli alle frontiere, e pure questo sarebbe ovvio se non tendesse a mescolare rifugiati, richiedenti asilo e aspiranti kamikaze, politica della migrazione e strategia antiterrorista. L’unica guerra è contro i migranti Alcuni sostengono che fin dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 siamo alle prese, non solo in Europa, con una “guerra ai migranti”. Ma le fughe di massa e le migliaia di morti in mare e su terra sono il danno collaterale di una serie di guerre che l’Occidente ha scatenato per ragioni geopolitiche in Afghanistan, Iraq, Libia, e prima ancora in ex Jugoslavia: regioni dove ha provocato, e presentato come soluzione, non la pacificazione che pretendeva ma il tracollo delle strutture statali e la loro settarizzazione, etnica o religiosa. L’Occidente ha acuito i conflitti appoggiando l’Arabia Saudita: è il caso dello Yemen. In altri casi i profughi sono vittime di dittature che l’Unione favorisce. La dittatura dell’Eritrea viene addirittura finanziata dall’Unione (e così per i paesi del “processo di Khartoum” di cui si è parlato al vertice europeo di La Valletta) nella speranza che il despota Afewerki trattenga i propri fuggitivi, in galera o nei campi. È qui che il discorso geostrategico e la semantica dei rifugiati si congiungono. Il nome più corretto da dare a chi approda in Europa non dovrebbe più essere quello di migranti, o ancor meno migranti illegali, ma di rifugiati: la percentuale dei cittadini aventi diritto a protezione, sugli arrivi illegali via mare in Europa, è stata quest’anno del 75 per cento, secondo l’Economist, soprattutto dalla Siria e altri Paesi in guerra o sotto dittatura. Ma dovremmo chiamarli col nome che ha dato loro James A. Paul, ex direttore esecutivo del Global Policy Forum a New York. I siriani, gli iracheni, i libici, gli afghani, sono regime change refugees, rifugiati nati dalla cosiddetta esportazione della democrazia che ha caratterizzato il disordine unipolare a guida Usa nel dopo-guerra fredda. È un’espressione che i governi occidentali non useranno mai perché – spiega James Paul– “l’aggressiva 58 bestia nazionalista dell’establishment dei Paesi ricchi non è disposta a imparare la lezione, e a prevedere la vampa di ritorno scatenata da futuri interventi militari”. La strategia militare del regime change in Afghanistan, Iraq, Libia, ha prodotto caos e Stati falliti, finendo col dar vita e forza all’Isis. Ma l’esperimento è ricominciato tale e quale con la grande illusione delle primavere arabe, illusione che a partire dal 2011 ha ingenerato la campagna per abbattere in Siria Bashar al Assad, mentre l’Isis e le forze siriane di al Qaeda hanno anzi ricevuto finanziamenti Usa. La campagna in Afghanistan è stata condotta con l’aiuto del Pakistan, quella in Siria con l’aiuto dell’Arabia Saudita e Qatar: sono gli Stati principali da cui provengono – fin dall’11 settembre 2001– i dirigenti sia di al Qaeda, sia dell’Isis. Anche nello Yemen, la preoccupazione statunitense è stata di spalleggiare l’Arabia Saudita, in funzione anti-iraniana. Il 28 settembre, due giorni prima di intervenire militarmente in Siria, Vladimir Putin ha detto all’assemblea dell’Onu: “Chiedo a tutti coloro che hanno creato questa situazione: vi rendete almeno conto ora di cosa avete fatto? Temo che la domanda non riceverà risposta, perché i responsabili non hanno mai abbandonato la loro politica, basata sull’arroganza, l’eccezionalismo e l’impunità”. È difficile dargli torto. Ancora non sappiamo l’esito della sua campagna in Siria. Ma l’egemonia Usa e il suo disordine unipolare sono falliti, lasciando in eredità caos e disperate fughe di popoli. La nuova Europa è peggio della vecchia Al “grande gioco” che ha la Siria come epicentro andrebbero aggiunte le questioni geopolitiche interne all’Unione. Fin dalla guerra di Bush jr in Iraq, nel 2003, l’Unione è divisa in due: una vecchia e una nuova Europa. La seconda vede se stessa come vittima della storia ed è priva di complessi su guerra, pace e autoritarismo. Non che la prima sia aperta ai rifugiati. Ma c’è un vasto arco, a Est, che sembra ignaro della Carta Europea dei diritti o delle Convenzioni Onu sui rifugiati, e che con la massima impudenza costruisce muri e impedisce ogni passo avanti sulla questione. Nelle sue chiusure, l’Est dell’Unione si sente più che mai rafforzato, in questi giorni, dagli eventi parigini. Parlo della Polonia in prima linea – visto il peso politico che ha nell’Unione – e della Repubblica Ceca, della Slovacchia, dell’Ungheria, dei Baltici. Aver allargato l’Unione a questi paesi, senza porre condizioni stringenti e ridiscutere i rapporti dell’Europa con la Nato, si sta rivelando una sciagura. La loro opposizione è netta a condividere le responsabilità nella sistemazione dei richiedenti asilo, ad accettare i piani di ricollocazione, a evitare la confusione tra rifugiati e terroristi dell’Isis. Il governo slovacco accetta un siriani, ma a condizione che siano cristiani. Affermazioni simili sono venute dal governo polacco precedente la vittoria di Jarosław Kaczynski. L’Ungheria costruisce muri e agita lo spauracchio di una società multietnica. Nei paesi baltici è del tutto assente una cultura di pluralismo etnico: in Lettonia la minoranza russa è ufficialmente apolide, privata di diritti civili fondamentali. Ma il peggio ce lo ha riservato Donald Tusk, già premier polacco, oggi presidente del Consiglio europeo, che ha pronunciato frasi indegne della carica che ricopre. Il 13 ottobre, in una lettera ai colleghi del Consiglio europeo, ha scritto: “La facilità eccezionale con cui si entra in Europa costituisce uno dei principali pull factor” per migranti e profughi. Lo stesso argomento fu usato per l’operazione Mare Nostrum: salvava troppe persone e fu affossata per esser sostituita da Frontex, che non fa più proattivamente Search and Rescue. Nella stessa lettera, Tusk ha auspicato un accordo con la Turchia sui rimpatri. È la parola d’ordine del momento (“la Turchia ci salverà, diventerà il nostro partner privilegiato”): questo proprio nel momento il cui Erdogan sta stabilendo un regime liberticida, colpendo i curdi in Siria e Iraq con la scusa di combattere l’Isis in nome della Nato. Tusk fa capire che bisognerebbe dare qualcosa a Erdogan: “La Turchia ci sta chiedendo di sostenere la formazione di una safe zone nel Nord della Siria, opzione che Mosca rifiuta”. Dovrebbe rifiutarla anche l’Unione, ma i suoi dirigenti non si pronunciano. In 59 realtà, la safe zone serve solo a controllare e intrappolare i curdi in Siria. Il 22 ottobre, al Congresso del Partito popolare europeo di Madrid, il Presidente del Consiglio Ue ha rincarato la dose: “Dobbiamo smettere di far finta che il grande flusso di migranti sia qualcosa che noi vogliamo, e che stiamo conducendo una politica intelligente di frontiere aperte. La verità è diversa: abbiamo perso l’abilità di proteggere le nostre frontiere, la nostra apertura non è una scelta cosciente ma è la prova della nostra debolezza”. Così procede l’Europa – fingendo di non capire cosa siano la forza e la debolezza, distorcendo parole e cifre, seguendo il fallimento della politica statunitense come un cagnolino addomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, verso nuove guerre e nuovi esodi di popoli. del 17/11/15, pag. X (Roma) Piccolo commercio la città che riparte spinta dagli stranieri Boom degli esercizi gestiti da immigrati Alimentari e soprattutto empori casalinghi DANIELE AUTIERI Piccoli negozi, imprese individuali, esercizi gestiti da stranieri: il commercio romano riparte da qui e registra una nuova vitalità dopo anni di stagnazione e di chiusure continue. Gli ultimi dati, riferiti al primo semestre del 2015, sono stati elaborati dalla Camera di Commercio di Roma e rivelano i motori reali che stanno spingendo la ripartenza del commercio. Non più la grande distribuzione, ma realtà più piccole, quindi botteghe, alimentari, negozi di abbigliamento. I primi sei mesi dell’anno in corso si sono chiusi infatti in “attivo”: il saldo tra iscrizioni e cessazioni di aziende è stato positivo di 324 unità, e questo grazie soprattutto al boom delle imprese individuali. Tra gennaio e giugno del 2015 sono state 1.081 le imprese individuali nate a Roma e provincia. È tra l’altro la conferma di un trend ormai consolidato che va avanti da qualche anno e che ha portato questa forma giuridica a rappresentare la maggioranza (51,3%) delle attività commerciali presenti nel settore alimentare (4.193 sul totale di 7.317 esercizi). Tra un anno e l’altro, la vitalità imprenditoriale è crescita in modo sostenuto e questo proprio grazie ai piccoli negozi guidati da imprese individuali. Giovanna Marchese Bellaroto, presidente di Cna Commercio per Roma, commenta: «Dietro la vivacità nel settore del commercio ci sono sia nuovi imprenditori che hanno perso il lavoro sia stranieri. Purtroppo dal punto di vista della qualità dell’offerta merceologica, notiamo che in alcuni casi i nuovi subentri non vanno a migliorare quanto si è già perso. C’è un grosso aumento di alimentari di vicinato che sono in verità dei piccoli drugstore dove si può comprare un po’ di tutto, dalle arance alle bevande ai superalcolici. Purtroppo per via della difficoltà di calmierare gli affitti stanno diminuendo le attività a conduzione familiare. Dal momento che Roma è una citta votata al turismo è importante non abbassare la guardia sul miglioramento della qualità commerciale. Ad esempio favorendo anche nel commercio di vicinato canali di vendita innovativi». La Cna conferma il fenomeno fotografato dalle statistiche della Camera di Commercio: «Il rilancio del commercio parte dall’impresa individuale, guidata in molti casi, da titolari stranieri». E infatti il primo semestre di quest’anno è stato segnato dall’aumento di titolari di imprese individuali di nazionalità non italiana. Da gennaio a giugno, rispetto al totale delle unipersonali attive nel commercio, la quota di quelle gestite da stranieri è passata dal 60 22,9 al 23,4%, confermando che quasi una piccola bottega su quattro è gestita da uno straniero. Rispetto al totale degli imprenditori non italiani, la maggioranza proviene dall’Asia e il 24,1% dall’Africa, in particolare da Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto. Il 47,3% del totale è impegnato proprio nel commercio al dettaglio, nell’ambito del quale una quota consistente è detenuta dal commercio ambulante. Analizzando i dati assoluti, al giugno del 2015 il numero di imprese individuali nel commercio è pari a 184.440 unità. Di queste, 139.600 sono gestite da italiani e 43.235 da stranieri. Tra gli stranieri, 10.429 sono africani, mentre i restanti 32.806 vengono da altri Paesi. Le piccole botteghe, esplose negli ultimi mesi tra le vie della Capitale, rappresentano infatti un cambiamento nelle abitudini commerciali dei romani. Anche se ancora incidono in modo limitato sul business totale del commercio, dove la grande distribuzione mantiene le quote maggiori, di sicuro queste nuove attività aggiungono vitalità al settore e anche all’economia romana. 61 CULTURA E SPETTACOLO del 17/11/15, pag. 6 Metal detector nelle arene del rock Post Bataclan. Dopo la strage parigina le scelte difficili e le prese di posizione dei musicisti. Prince e Foo Fighters annullano i tour, Madonna va avanti Luca Pakarov Uno dei simboli per eccellenza dell’Occidente, il rock, ha pagato con il sangue, in una sola sera, tutto quanto ha rappresentato nei cinquant’anni della sua storia. Ma questa è retorica che, sedimentato il panico, deve lasciare spazio ad argomentazioni che vanno ben più in là delle abitudini di una civiltà. Purtroppo tutti ci siamo trovati nel marasma, ed è ovvio che qualcuno abbia perso la testa, come l’editorialista Giorgio Dell’Arti della Gazzetta dello Sport, che ha scritto che i componenti della band degli Eagles of Death Metal: «se la sono date a gambe levate al primo scoppio e ne sono usciti illesi». A parte il farli passare inutilmente da vigliacchi, nemmeno c’è stata voglia d’informarsi sulla morte del responsabile del merchandising del gruppo, Nick Alexander. Si scrive veloce, si ragiona poco e cresce la confusione. Dopo la strage al Bataclan anche i musicisti e le band, oltre a condannare l’accaduto, si sono trovati di fronte a scelte difficili, in brevissimo tempo. Reazioni diverse ma in ogni caso condivisibili: chi ha interrotto il tour, come i Foo Fighters di Dave Grohl, il quale aveva collaborato con gli Eagles of Death Metal ed ha scritto: «Non c’è altro modo per dirlo. Tutto ciò è pazzesco e fa schifo». O Prince i cui concerti europei sono stati sospesi. Comprensibile, prima di tutto perché il disordine di questi giorni non garantisce l’umana leggerezza che si vorrebbe mentre si assiste a un concerto. E poi per la sicurezza, con i fan e i collaboratori sempre in pericolo. Allo stesso modo si sono mossi i Coldplay e gli U2, fra i primi ad omaggiare le vittime al Bataclan. Silenzio per riflettere, a costo di fermare le poderose macchine dello show. Ma interrompere la macchina significa anche piegarsi alla paura e non alimentare quell’economia su cui tanti, dagli attrezzisti ai fonici ai locali, contano per vivere. Madonna ci sarà quindi per i tre concerti che la vedranno, da venerdì, a Torino. L’altro ieri ha ringraziato il pubblico di Stoccolma per l’amore con il quale è riuscito a trasformare le tenebre in luce. Raddoppiate a Torino le misure di sicurezza e l’uso di cani antiesplosivo, anche allo stadio in vista del match Juventus — Milan di sabato. Il lutto è stato condiviso anche dagli artisti italiani. In un lungo post su Facebook, Jovanotti ha scritto: «Oggi il dolore e lo sgomento, domani l’impossibilità di dimenticare e tutte le misure necessarie da adottare e i sistemi da rafforzare, ma già da subito rimettersi in cammino verso la prossima partita di calcio, la prossima passeggiata, il prossimo concerto da andare a sentire». Tiziano Ferro, questa sera al Mediolanum Forum: «La musica mi ha sempre aiutato nei momenti peggiori ed è per questo che la musica non si deve fermare. Per riflettere, per stare insieme e andare avanti, senza timore». Sullo stesso tono anche Gianna Nannini, Marracash (con un laconico: «Da domani sarà tutto peggio») e molti altri. Il problema resta la sicurezza, ma fino a un certo punto. È chiaro che siamo di fronte a circostanze incontrollabili, al limite della ragione umana. La musica probabilmente è solo un pretesto, emblematico certamente, ma che ha come denominatore comune l’assembramento di gente, come in ogni qualsiasi festa. Intanto i promoter, fra i quali Live Nation e AEG Live, stanno discutendo su come aumentare i protocolli di sicurezza del pubblico. Sembrava assurdo vedere scuole con il metal detector o poco plausibile la 62 tessera del tifoso. A breve, quando compreremo il biglietto di un concerto, è presumibile che dovremo presentare il certificato penale. Nemmeno Ray Bradbury avrebbe immaginato tanto. Da il Sole 2 4ore del 17/11/15, pag. 16 Audiovisivo. La proposta degli esercenti «Con 50 milioni di euro via l’Imu dai cinema » «Aboliamo l’Imu su cinema e teatri. Adesso. Eliminiamo una patrimoniale sulla cultura e sul nostro futuro che non ha ragione di esistere». Luigi Cuciniello, presidente Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici) e vicepresidente Agis (Associazione Generale Italiana Spettacolo) è convinto che questa può essere la volta buona. «È una misura che abbiamo quantificato in 50 milioni di euro. Onestamente è uno sforzo che andrebbe fatto per sostenere attività senza le quali i centri cittadini rischiamo di spopolarsi e depauperarsi». L’occasione buona per il presidente Anec e vicepresidente Agic potrebbe presentarsi con la legge di stabilità. Certo, in questo momento l’assalto alla diligenza è uno sport fin troppo praticato. Ma a Cuciniello il momento appare propizio. «È doveroso riconoscere – dice – che, dopo anni in cui si diffondeva a macchia d’olio il verbo secondo il quale “con la cultura non si mangia”, questo nuovo corso politico abbia invertito la rotta ed ha cominciato a investire su attività e industrie culturali». In realtà qua e là qualche comune ha fatto qualcosa in termini di agevolazioni. Ma per il presidente degli esercenti cinematografici è ora di fare qualcosa a livello di sistema. «È tempo di dare un segnale chiaro anche agli operatori e agli imprenditori che gestiscono cinema e teatri. Coloro che soffrono più di ogni altro della tassazione locale, il cui incremento del 300% sta colpendo al cuore la redditività di queste imprese che “muoiono”, chiudono, depauperando così un capitale culturale e sociale di inestimabile valore». Insomma, l’esigenza è quella di tutelare le monosale cittadine che nel corso degli anni sono andate inesorabilmente verso la chiusura (si parla di oltre 700 sale chiuse in più di 10 anni, sostituite comunque in gran parte dalle multisala). «Siamo convinti - conferma Cuciniello – che non si debba sprecare questa occasione della manovra economica per eliminare l’Imu sui cinema e i teatri. Per tutti e per sempre. Sono la nostra casa. La “casa culturale”, a funzione pubblica e sociale, degli italiani. E queste strutture sono i presidi unici e permanenti del nostro sistema culturale, ne costituiscono il sistema connettivo, sono centri di aggregazione sociale ramificati sul territorio e attivi per 365 giorni l’anno». A. Bio. del 17/11/15, pag. 36 Libri in prestito o in regalo, spettacoli teatrali nel salotto di casa e studi di scultori e pittori aperti ai visitatori mentre l’artista lavora. E ancora, visite turistiche organizzate da chi ha semplicemente voglia di raccontare la propria città: così lo sarin della cultura sta vivendo una stagione d’oro Lo scambio delle idee 63 RAFFAELLA DE SANTIS ALESSANDRO LONGO CI siamo ormai abituati ad ascoltare musica su Spotify, a cercare case su Airbnb, ad affittare auto su Car2Go ma ora la nuova tendenza è condividere libri, film, spettacoli teatrali. Insomma, anche la cultura entra a far parte della sharing economy. Tanto che il rapporto Share Italy 2015 registra una novità: su 118 piattaforme di sharing censite sul territorio nazionale, dieci riguardano il settore della cultura. Settore che nell’anno passato era completamente assente. Che cosa è successo? «La caratteristica di questi siti è che non solo facilitano l’accesso a contenuti culturali, ma anche la relazione tra persone che condividono la stessa passione », spiega Marta Mainieri, creatrice del progetto Collaboriamo. org, che ha mappato la sharing economy italiana. Segno dunque che la generazione dei millennials, i nativi digitali nutriti dai social network e cresciuti ai tempi di Wikipedia, non si accontenta di quanto ha già tra le mani ma rilancia. Se un tempo un vecchio libro, uscito dai cataloghi, si poteva trovare solo in biblioteca, o tuttalpiù in un mercatino dell’usato, ora sono stati creati siti e app in cui si possono cercare anche i titoli meno usuali. Si chiamano comprovendolibri. it o greenbooksclub. com e sono network usati da lettori comuni e anche dalle scuole. Per fare un esempio: online al momento si può acquistare “La preda e altri racconti”, libro per amanti della cultura indiana di Mehasweta Devi, o un bestseller come “Il gabbiano Jonathan Livingstone” di Richard Bach. Su Boosha ci sono sia libri da scambiare che da comprare. A fine mese verrà lanciata una versione 2.0 dell’app che regalerà uno sconto per acquisti nelle librerie universitarie. Boosha è la versione tecnologica dei vecchi salotti letterari. Funziona così: chi si iscrive entra in contatto con altri utenti della community (tra loro si chiamano booshers) e attraverso una chat può proporre libri o chiederne. Il fondatore Mario Di Girolamo dice: «Lo spirito è facilitare la vita degli studenti con scambi a costo zero ». Molti progetti nascono sul territorio, pensati per facilitare la vita di quartiere. A Milano, nella zona Rogoredo Santa Giulia, è stata creata Biblioshare, una biblioteca virtuale che permette di scambiarsi i libri con i vicini di casa. Paolo Pisani, che ne è l’ideatore, sogna in grande: «Contiamo di espandere il nostro servizio in tutta Italia. Dove non c’è una biblioteca, ci siamo noi: in strada o in locali affiliati con Biblioshare. Leggendo sono nate conoscenze e nuove amicizie». Sono dunque gli scambi umani a guadagnarci, più che i nostri risparmi. Derrick de Kerckhove ne è convinto: «Internet è un sistema limbico, è come l’area del nostro cervello che veicola le emozioni. L’uomo occidentale è egotistico, chiuso in sé, lo sharing ricrea legami». «Non dobbiamo sottovalutare la globalizzazione della cultura data dalla Rete», dice Maurizio Ferraris. «Il web la rende più rapida, più accessibile. E un mondo più cosmopolitico è un mondo in cui gli sguardi sono più aperti, in cui si allargano gli orizzonti mentali ». A volte i progetti nascono come risposta a un momento di crisi. La cultura della condivisione è anche figlia delle attuali difficoltà economiche. Due anni fa un piccolo gruppo di lettori e scrittori, tra cui Michela Murgia, ha creato in Sardegna Liberos, una piattaforma peer- to- peer per amanti della lettura che nel giro di poco tempo ha raccolto più di ottomila appassionati. Tutto è iniziato nel tentativo di salvare una libreria storica di Cagliari che rischiava di chiudere. In quell’occasione arrivarono in pochi e occuparono il locale iniziando ad organizzarci eventi per farlo sopravvivere. Da lì ne è nato un progetto, con reading di scrittori nei paesini dell’entroterra sardo e molto altro. Non solo libri, lo sharing riguarda ormai ogni forma d’arte, dal teatro alla pittura, dal cinema al design. «È il nostro modo di ripensare il mercato tradizionale e di ricreare un welfare culturale in via di estinzione», dice Bertram Niessen, direttore scientifico del progetto Che Fare che finanzia nuove forme di produzione culturale. Sono nuovi modelli di 64 produzione, che escono dai luoghi tradizionali per venirci incontro. Teatroxcasa, ad esempio, porta materialmente gli spettacoli dentro i nostri tinelli, nei nostri giardini e perfino nelle nostre cantine (sarebbe piaciuto al genio polacco di Kantor, che per i suoi spettacoli amava scantinati e luoghi atipici). Sul sito si legge: “Il teatro si può fare ovunque. Non ha bisogno di grandi spazi. Una stanza di 25-30 metri quadrati, anche se arredata, è sufficiente”. Ognuno potrà crearsi una stagione teatrale su misura. Gli artisti invece ora si divertono a mettere a disposizione del pubblico i loro laboratori. MyHomeGallery organizza soggiorni nelle loro case, aprendo le porte a visitatori, curatori e collezionisti. Si può semplicemente vedere come l’artista lavora o anche prenotare un workshop per imparare a dipingere o creare una scultura o un’installazione. Ci sono anche piattaforme per facilitare l’incontro tra turisti e gli abitanti dei luoghi che vengono visitati, tra cui Curioseety, GoCambio, Tourango, Native Cicerone, che permette a chi vuole di trasformarsi in una guida turistica nei luoghi più amati della propria città. Anche il cinema può diventare sharing: MovieDay permette ad ognuno di scegliere il film che vuole vedere e poi organizza la proiezione nelle sale che aderiscono all’iniziativa, dal piccolo cinema di Afragola (Napoli), a quello di Bolzano, dove ieri è stato proiettato The Rocky Horror Picture Show, pellicola del 1975 diretta da Jim Sharman, che è diventata un cult per gli amanti del genere. Al Plinius di Milano, sarà la volta invece di Eva Braun di Simone Scafidi, non meno trasgressivo: il tema sono gli scandali sessuali dei politici italiani. Unica condizione per organizzare il cineclub: che aderiscano un certo numero di partecipanti. E per orientarsi tra eventi, musei e librerie sul territorio nazionale è stato creato Openculture Atlas, sito legata al portale Tropico del Libro. Da un po’ di tempo anche gli aspiranti scrittori hanno scoperto i nuovi strumenti. Si esercitano su piattaforme come Intertwine in cui si va per scrivere storie a più mani o per condividere la propria o su Twletteratura, esperimento nato su Twitter per rileggere collettivamente i grandi classici. Senza timori referenziali, può trattarsi de “I promessi sposi” o de “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino. Sotto il grande ombrello della sharing economy c’è di tutto, basta saper cercare. 65 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 17/11/15, pag. 26 Dalle lavagne interattive multimediali alle aule «intelligenti»: come funziona lo studio hi-tech e la frontiera della banda ultra-larga In Italia ci sono 9 computer ogni cento allievi (la media europea è 24) Classi 2.0, Lim, lezioni capovolte Alla ricerca dei «prof connessi» Per la tecnologia a scuola adesso c’è un piano. Sta in un documento corposo, 140 pagine, scritto con la stessa grafica della Buona Scuola, approvata a luglio con il voto di fiducia, e con il medesimo stile «narrativo». Si parla di fibra e banda ultra-larga per ogni istituto, di laboratori, competenze digitali degli studenti, di animatori digitali. Ma anche di robotica ed elettronica educativa, serious play e story telling. Il tutto riassunto in trentacinque «azioni», che hanno ricevuto in dote un miliardo di euro (derivanti dalla Legge 107 di riforma della scuola e dai fondi strutturali europei del Pon Istruzione 2014/2020). Destinati a formare, accompagnare, monitorare quello che è un progetto «rivoluzionario», come ha detto il ministro, Stefania Giannini. E qualcosa di nuovo c’è davvero, perché al di là della spinta tecnologica, il Piano nazionale scuola digitale contiene finalmente indicazioni sui «nuovi curricoli scolastici» cui la legge 107 faceva solo cenno e affronta il tema della formazione obbligatoria dei docenti. Lo Stato ha investito molto poco in innovazione, negli ultimi anni. La tecnologia è la Cenerentola delle scuole italiane. Non perché assente, ma maltrattata e mal gestita. La Corte dei conti ha appena bocciato il piano avviato nel 2012 dal Miur — il ministero dell’Istruzione Università e Ricerca — per la dematerializzazione delle procedure amministrative. Bene solo le iscrizioni online, dicono i giudici contabili; «così così» il registro elettronico; male altre voci come il fascicolo elettronico degli alunni (un contenitore di documenti e materiale prodotto dagli studenti), o la scrivania virtuale. Malissimo l’archivio virtuale, che dovrebbe consentire la conservazione di tutti i documenti in formato elettronico. Non solo non si potrà rivedere a distanza di anni un tema o un compito del liceo, ma le scuole si ritrovano ancora con quantità impressionanti di carta da gestire: qualcosa come 85 quintali a istituto. Se i computer non bastano Ogni cento studenti in Italia ci sono 9 computer (24 la media europea), sottolinea l’Ocse che, pure, ha messo in guardia dall’investire solo in dotazioni tecnologiche: non è così che si ottengono performance migliori in lettura, matematica e scienze; o nell’inclusione e nel recupero degli studenti più poveri e disagiati. «Per quello — dice un maestro esperto, Franco Lorenzoni — servono insegnanti davvero preparati a entrare in contatto con i ragazzi». Ragazzi che, per la prima volta nella storia, ne sanno più dei loro prof. «Il terreno delle tecnologie potrebbe essere fondamentale per sperimentare uno scambio generazionale, costruire un dialogo, coinvolgere ed entusiasmare studenti che magari a scuola ci vanno anche, ma con la testa non sono lì», dice. E invece: docenti italiani in grado di insegnare con le tecnologie? Venti su cento (32% il dato nel Vecchio Continente). Anche perché sono solo 22 scuole (contro 44) su cento a offrire corsi ad hoc. Ma è sull’accesso alla rete che siamo davvero indietro: solo Romania e Turchia ci stanno alle spalle. L’Ocse due anni fa raccomandava all’Italia di accelerare, quantificando il gap 66 digitale del sistema formativo italiano in 15 anni rispetto al Regno Unito. Senza banda larga e attrezzature adatte — scriveva l’organizzazione — tale gap non potrà essere colmato. Mentre la scuola dovrebbe essere il principale attore per innalzare il livello di competenza dell’intera popolazione attraverso un «contagio» digitale nelle famiglie. La priorità digitale Insomma, servono investimenti importanti. E il ministro Giannini ha messo sul piatto la promessa di un cambiamento. Il Piano nazionale scuola digitale (Pnsd) stanzia 600 milioni in cinque anni sulle infrastrutture e 400 milioni per il resto. Per la formazione degli insegnanti ci sono 140 milioni. Duemila prof diventeranno responsabili digitali in ogni istituto. Per loro si pensa anche a una formazione internazionale. Ancora numeri: 225 milioni di euro finanzieranno i laboratori digitali e altri 200 i «luoghi di innovazione» dove fare robotica, coding, stampa 3D; 48 il registro elettronico, che entro l’anno verrà introdotto in 141 mila aule delle primarie; 140 milioni serviranno a «rivoluzionare gli ambienti di apprendimento»: spazi alternativi, laboratori mobili a disposizione di tutta la scuola. Tecnologie leggere, addirittura portate dagli studenti. L’accesso a Internet super veloce è stato garantito dal sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico, Antonello Giacomelli: le scuole avranno la priorità rispetto agli altri interventi del Piano nazionale banda ultra-larga «e saranno tutte collegate con la fibra ad almeno 100 mbps entro il 2020», ha detto firmando un protocollo d’Intesa con il Miur. Sarà compito del ministero dell’Istruzione, invece, quello di dotare di cablaggio Lan o wireless aule, corridoi, spazi comuni: ogni scuola potrà contare su un budget compreso tra 7.500 e 18.500 euro, con un’integrazione di 1.200 euro a istituto per pagare la bolletta della connettività. Un cambio di passo. «Con la vecchia impostazione (partita nel 2008 e focalizzata sull’acquisto di Lim, le lavagne interattive multimediali, su investimenti in tecnologia pesante per poche scuole, le Classi 2.0 o Scuole, 2.0 a più alta vocazione tecnologica), ci sarebbero voluti 50 anni per raggiungere tutte le 350 mila classi italiane. Con attrezzature che nel frattempo diventano obsolete», spiega Donatella Solda, della segreteria tecnica del ministero, che ha partecipato alla stesura del Piano. Quindi non si punta più a un dispiegamento di tecnologia, ma «a costruire una visione dell’educazione nell’era digitale», ha assicurato il ministro. Passare dalla trasmissione delle conoscenze alla condivisione e alla formazione di competenze. Cattedre e formazione Le competenze, appunto: il perno sono quelle definite «chiave», in sede europea, che il sistema di istruzione di ciascun Paese Ue deve trasferire agli studenti per formarli come cittadini globali. Alcune chiare, come la comprensione di un testo complesso e il ragionamento matematico. Altre inedite e ancora da definire: l’autoimprenditorialità, o la capacità di imparare a imparare. Di competenze «si parla molto a scuola — dice Lorenzoni —, peccato che non si sappia né come insegnarle né come misurarle. E senza una formazione specifica non si fa molta strada». «Il nuovo Piano costituisce un passo avanti considerevole», è il commento di Marco Gui, ricercatore dell’università Bicocca di Milano che ha appena firmato una ricerca commissionata dalla presidenza del Consiglio in cui conclude che gli investimenti in tecnologia non hanno finora prodotto benefici sul rendimento. «La questione digitale — sostiene — diventa finalmente anche un problema organizzativo, di formazione, di ridiscussione degli obiettivi di apprendimento». Il dubbio che resta, però, è «un problema comune a tutte le politiche di introduzione delle ICT di questi anni: si finanziano aule e scuole “aumentate”, ma cosa si debba fare esattamente in questi nuovi ambienti non è chiaro, dato che la ricerca brancola ancora nel buio per quanto riguarda l’efficacia della 67 didattica digitale». «Quello che sappiamo, è che è urgente fornire agli studenti competenze di uso consapevole di Internet, anche per l’utilizzo extrascolastico». È il lato software, insomma, il capitale umano, l’anello debole della macchina da guerra che ci vorrebbe sul piedistallo, in una sorta di «via italiana all’approccio digitale». Le «flipped classroom» Il Piano parla però diffusamente anche di buone pratiche da imitare, di idee da mettere in rete, di premi per prof innovatori e banche di esperienze a cui attingere. È così nelle 104 scuole dove le lezioni sono «rovesciate»: le flipped classroom, con docenti che assegnano un compito, gli studenti a casa lavorano con video e risorse di e-learning; e il giorno dopo ne discutono in classe. È anche nata un’associazione, Flipnet, per la diffusione dell’insegnamento «a testa in giù», in cui il docente da attore protagonista diventa un regista dell’azione pedagogica. Ma è solo uno degli aspetti più appariscenti di un fermento che anima la scuola: l’importante non è più cosa si insegna, ma come. Ecco allora che gli studenti vanno in cattedra. O le scuole in rete. Si pratica lo «spaced learning», l’apprendimento intervallato (ogni dieci minuti di lezione i ragazzi fanno una pausa). O ci si sposta all’interno della scuola, da una classe all’altra, per seguire le lezioni, come al Labriola di Ostia. Dove un preside illuminato e appassionato ha inventato il «Dada», la didattica per ambienti di apprendimento. Migliorano logistica e costi per la scuola, aumenta la capacità di concentrazione degli studenti e la motivazione dei docenti. Esperienze nate per intuito o buona volontà. Alcune unite in «movimenti», come quello delle Avanguardie educative, nato nel novembre 2014 con 22 scuole apripista e arrivato a spegnere la prima candelina con 263 aderenti, che hanno il compito di istruire a loro volta altre scuole su come plasmare l’insegnamento sulle nuove esigenze degli studenti e della società. «È in corso un lavoro di mappatura», spiega Solda. Obiettivo: raggiungere tutti. E imparare da chi è più avanti. 68 ECONOMIA E LAVORO del 17/11/15, pag. 7 “Unions! Sabato Fiom in piazza” Fiom. Non solo contratto e legge di stabilità. Dopo i fatti di Parigi i metalmeccanici Cgil allargano il significato della manifestazione del 21 An. Sci. La Fiom ha confermato la propria manifestazione per il contratto il prossimo sabato, ma visti i fatti tragici avvenuti in Francia ha allargato il tema alla lotta contro il terrorismo. Lo ha spiegato ieri il segretario generale dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini, davanti a una assemblea di delegati riunita a Milano: «Condanniamo in modo totale quello che è avvenuto a Parigi», ha detto. «Lo dobbiamo fare con tutti — aggiunge Landini -, compresi i musulmani, per affermare che bisogna mettere in campo una mobilitazione generale per la lotta contro il terrorismo, contro la guerra e per la pace». La manifestazione di sabato Unions! Per giuste cause, indetta dall’assemblea nazionale dei metalmeccanici Fiom, fin dalla sua proclamazione ha indicato un percorso più vasto rispetto a quello strettamente sindacale: insieme alle tute blu sfilerà infatti la Coalizione sociale, con studenti, lavoratori autonomi, associazioni, per dire no alla Legge di stabilità targata Renzi e chiedere equità fiscale, un abbassamento dell’età di pensione, investimenti pubblici a sostegno della crescita. La piazza sarà ancora più folta, e ricca, c’è da scommetterci, perché è la prima occasione offerta agli italiani (se si eccettuano le manifestazioni immediatamente successive agli attentati di Parigi) per offrire solidarietà ai nostri cugini d’Oltralpe e chiedere con forza un impegno per politiche di pace. Parlando ai suoi, dal palco dell’assemblea di Milano, Landini è tornato a criticare il governo: «Sta cancellando leggi senza discutere con nessuno e senza avere il consenso dei cittadini — ha detto — Dobbiamo porci il problema di cancellare le leggi sbagliate e al contrario del governo, mettere i cittadini nella condizioni di potersi esprimere e partecipare». Chiaro il riferimento al referendum che la Cgil intende richiedere per abrogare le parti peggiori del Jobs Act, proposta che verrà sottoposta al voto dei lavoratori tra gennaio e febbraio prossimo, dopo che in dicembre verrà presentato il nuovo Statuto dei lavoratori: «Non è mai successo nella storia del Paese che un sindacato valutasse la possibilità di essere promotore di un referendum abrogativo — ha notato Landini — Deve diventare una battaglia non solo del sindacato, ma di tutti, in modo che ci sia uno statuto per tutte le forme di lavoro, quello dipendente, quello subalterno e quello autonomo». Quanto al contratto, il segretario Fiom ha spiegato che «il tavolo unitario» che si aprirà il prossimo 4 dicembre con le imprese «è una novità», anche se «le prime dichiarazioni di Federmeccanica non rendono facile» questa soluzione. «C’è la volontà di cercare un accordo», ma «la situazione è molto difficile», ha aggiunto. «Abbiamo alle spalle un accordo separato e non c’è un accordo interconfederale di riferimento». Tra le richieste della Fiom «il diritto alla formazione, la riforma dell’inquadramento, l’applicazione dell’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio». Su quest’ultimo punto, Landini spiega che «applicarlo significa impedire accordi separati». «Sia il contratto nazionale sia la contrattazione aziendale devono vivere e non possono essere uno sostitutivo dell’altra». 69 Un’ultima battuta Landini la fa sul papa: «Certo che gli darei la tessera Fiom — ha detto — ma lui non l’accetterebbe. A ragione, perché è il papa di tutti». E se Bergoglio non si iscrive ai metalmeccanici, Landini prenderà la tessera di Sinistra italiana: «Il sindacato è indipendente e autonomo, non ha forze politiche di riferimento. Abbiamo le nostre proposte e ci interessa discuterle con tutti». del 17/11/15, pag. 30 Via al salva-Regioni Tasi esente per i figli Sud, caccia ai fondi Si preparano le prime modifiche alla legge di stabilità Ue, giudizio rinviato, rischio di non rispetto delle regole ROBERTO PETRINI ROMA. Maratona nella notte per trovare i fondi per il Sud: sul tavolo il rafforzamento o l’allungamento della decontribuzione, gli sgravi per gli investimenti e il cumulo con il superammortamento. La riunione di Palazzo Chigi, con i rappresentati dell’Economia, è finalizzata alla ricerca delle coperture: si va dall’ipotesi di un mix delle tre misure ad un rafforzamento di uno solo degli strumenti. Intanto il Salva-Regioni atterra sulla legge di Stabilità sotto forma di emendamento del governo. Mentre viene finanziata la spesa per i farmaci innovativi (compresi quelli per l’epatite C) - oggetto delle richieste delle Regioni - che resteranno a carico del Servizio sanitario nazionale. Si attende una soluzione per i rincari Tasi in vista del saldo del 16 dicembre con il rischio di una mini-Tasi a gennaio. Tornano all’ordine del giorno anche le esenzioni Tasi-Imu per le abitazioni in comodato ai figli, a patto che l’immobile si trovi nella stessa città, e per i separati. Sconti anche per gli affitti a canone concordato, come ha ricordato ieri il sottosegretario all’Economia Baretta. Sulla situazione economica si è espresso ieri il presidente della Repubblica, Mattarella sottolineando che al Sud il livello di disoccupazione è «insostenibile » e che in Italia i segnali di ripresa devono essere un «incoraggiamento ». Il premier Renziha osservato che «in diaci mesi daremo il colpo di reni definitivo per la crescita». Al centro della giornata di ieri la sanità. La spesa per i farmaci innovativi (compreso quello contro l’epatite C) rimarrà nel 2015 e 2016 a carico del Sistema sanitario nazionale e non concorrerà al raggiungimento del tetto di spesa per la farmaceutica. Così le risorse ad hoc di 500 milioni introdotte con la legge di Stabilità dello scorso anno potranno essere spese al di fuori del tetto dell’11,35 per cento del fondo sanitario nazionale e dunque senza rischi di sfondamento. L’emendamento è stato proposto dai senatori Pd della commissione Sanità, compresa la presidente Grazia De Biasi, e riformulato dalle relatrici Zanoni (Pd) e Chiavaroli (Ap). Il governo scioglie anche il nodo del cosiddetto Salva-Regioni il cui ritardo aveva portato alle dimissioni di Chiamparino dalla guida della Conferenza delle Regioni. Le misure contenute nell’emendamento - che ricalca il testo del decreto approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 6 novembre su sollecitazione delle regioni - aiuterà i bilanci delle regioni a schivare il rischio default. Il provvedimento riscrive le norme sulla contabilizzazione delle risorse ricevute negli anni scorsi dal governo per pagare i debiti con i fornitori che stavano emergendo nei bilanci delle Regioni come un vero e proprio buco valutato in 20 miliardi 70 per l’intero sistema. In particolare, il problema resosi acuto dopo la sentenza della Consulta e la certificazione da parte della Corte di Conti, rischiava di far emergere un deficit di 6 miliardi nel solo Piemonte.. Si continua lavorare sulla Tasi- Imu seconda casa per chi assegna l’abitazione in comodato ai figli e per le abitazioni lasciate da chi si separa all’ex coniuge, a patto che si sia proprietari di un solo immobile nella stessa città. Il tema sul tappeto è quello di intervenire in favore di chi dà una abitazione in comodato d’uso ai parenti in linea diretta, tipicamente i genitori con i figli, ma anche per venire incontro a chi si separa e lasciando il tetto coniugale si ritrova anche a pagare le tasse sul mattone come se si avesse una «seconda casa » (quindi Imu e Tasi). Potrebbe slittare, infine, il giudizio di Bruxelles sull’Italia. Il documento indicherebbe rischi per il nostro paese di non rispettare le regole del patto di stabilità e dunque tutto sarebbe rinviato in primavera. 71