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RASSEGNA STAMPA
martedì 17 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore sociale del 16/11/15
Strage di Parigi, associazioni e ong invocano
il dialogo contro la barbarie
Solidarietà per gli attacchi terroristici e la richiesta di agire ricercando la
pace. Servizio civile internazionale: necessari progetti di volontariato e
cooperazione. Arci: promuovere inclusione. Acli: riaffermare la pace.
Tavolo della Pace: fermare impressionante escalation
ROMA – “La violenza ha fallito, se perpetuata peggiorerà ulteriormente una situazione già
tragica”. “Democrazia e libertà sono l’unico modo per spezzare il cerchio del terrore”. E
ancora: “al terrorismo, alla guerra e all'odio rispondiamo con più libertà, più uguaglianza,
più fraternità”. Dopo gli attententi a Parigi le associazioni e le ong di tutto il mondo
prendono la voce per chiedere che si fermino le violenze. Da Emergency al Centro Astalli,
tutti fanno appello alla Comunità internazionale perché assicuri maggiore libertà e
democrazia per evitare nuove stragi di civili. “Ancora una volta colpire la popolazione civile
è un gesto disumano e vigliacco. Vediamo accadere in Europa quello che da anni accade
in Afghanistan, in Iraq, in Siria: le nostre scelte di guerra ci stanno presentando il conto di
anni di violenza e di distruzione – sottolinea l’organizzazione guidata da Gino Strada -.
Diritti, democrazia e libertà sono l'unico modo di spezzare il cerchio della violenza e del
terrore. L’alternativa è la barbarie che abbiamo davanti e alla quale non possiamo
arrenderci.”
Anche il Cocis (Coordinamento delle organizzazioni non governative per la Cooperazione
internazionale allo sviluppo) condanna con forza i fatti di Parigi e chiede la pace come
unico obiettivo. “Gli attacchi suicidi di Beirut del 12 novembre, che hanno provocato più di
40 morti e oltre 200 feriti, e l’agghiacciante sequenza di assalti che sconvolge Parigi in
queste ore, lasciandosi dietro una scia di morti e feriti, sono stati rivendicati dalla stessa
matrice che da diverso tempo ha dichiarato guerra al rispetto dei diritti di tutti, alla pace,
alla pluralità di pensiero, a chiunque non ne sia affiliato, mussulmano, cristiano, ateo o a
qualunque altra religione o credo appartenga. Noi condanniamo con forza questa
escalation - afferma Giovanni Lattanzi Presidente del Cocis-“Siamo convinti che il ruolo
della comunità internazionale debba essere più centrale e incisivo e che l’Europa tutta
debba essere sempre più protagonista". Secondo il Cocis è il “momento di sentirci tutti, dal
nord al sud del Mondo, fratelli accomunati da una lotta per difendere i diritti al rispetto del
valore della vita, della dignità umana e alla pluralità di pensiero. Proprio nei momenti più
bui, l’umanità è capace degli slanci più nobili. #PorteOuverte è l’hashtag con il quale gli
abitanti di Parigi hanno offerto la loro ospitalità a chiunque fosse in fuga dalla follia
terrorista che si riversava per le strade della città. Questo – conclude Lattanzi - spirito
deve guidare anche l’accoglienza che mettiamo in pratica ogni giorno nei confronti delle
persone in fuga da quella stessa follia omicida, che distrugge le loro case, uccide i lorocari
e avvelena le loro vite”.
Un forte appello a cessare ogni guerra arriva anche dal Movimento Non violento: “ed
eccola qui, la guerra. E' arrivata anche alla porta accanto. Con il suo orrore, il terrore, il
sangue, i corpi morti. Quando la vedi con i tuoi occhi capisci davvero perché è “il più
grande crimine contro l'umanità”. Dobbiamo reagire. Non farci piegare dal dolore e dalla
paura. Non accettare lo stato delle cose. Reagire. Reagire per spezzare
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la spirale, ed aprire una strada nuova. La violenza ha fallito e se perpetuata peggiorerà
ulteriormente una situazione già tragica. L'alternativa oggi è secca: nonviolenza o
barbarie”.
“I fatti di Parigi hanno mostrato il volto orribile del terrorismo. Quello stesso terrorismo da
anni in paesi come la Nigeria, la Siria, il Mali e l’Afghanistan colpisce indiscriminatamente
civili inermi e mette in fuga ogni giorno migliaia di persone" – sottolinea padre Camillo
Ripamonti, presidente del Centro Astalli. "Oggi più di ieri - continua Ripamonti - vogliamo
ribadire il nostro impegno ad essere uomini e donne di dialogo, di pace. È nostra
responsabilità lavorare insieme per la costruzione di società in cui il rispetto dei diritti e
della dignità di ciascuno sia l’unica forma di contrasto ad abusi e violenze”. Papa
Francesco ha ricevuto in udienza 18 rifugiati del centro; il gruppo era composto da rifugiati
provenienti da Somalia, Egitto, Costa d’Avorio, Iran, Congo Kenia, Ucraina, Burkina Faso.
Ciascuno di loro ha avuto modo di salutare personalmente il Pontefice e rivolgergli
qualche parola. “Mai come in questo momento è importante continuare ad agire in nome
della solidarietà nei confronti degli oppressi e delle vittime di conflitti e di violenze",
conclude Ripamonti.
“Parigi come Beirut, Damasco, Kabul, Tripoli, Mogadiscio, Gaza, Gerusalemme.E’ la
guerra che, pezzo dopo pezzo, si estende travolgendo vite, città, frontiere, valori, diritti,
umanità” aggiunge Flavio Lotti, coordinatore del Tavolo della Pace:“è urgente trovare il
modo per fermare questa impressionante escalation, per rompere la spirale della guerra,
del terrorismo e dell’odio” . Il Tavolo della Pace esorta la comunità internazionale ad
ammettere la parzialità delle risposte che sono state date finora alle guerre, ai
cambiamenti climatici, alle migrazioni, al terrorismo e alla povertà, per ripartire da una
nuova politica di pace.
Anche il Servizio Civile Internazionale esprime vicinanza e solidarietà alle persone in
Francia, colpite il 13 novembre da un atto di immane violenza. "Esprimiamo anche
solidarietà alle persone vittime di violenza, sia essa fisica, culturale o economica in tutte le
parti del mondo, come ad esempio in Libano, Siria, Turchia, Palestina, Iraq, Libia e
Messico solo per citare le vicende degli ultimi giorni. - sottololine - A causa di queste
violenze, tante di queste persone sono poi costrette a ricercare altrove per sé, il nucleo
familiare e la propria comunità le condizioni per il soddisfacimento dei propri progetti di
vita: sono le persone che fuggono da queste violenze ad attraversare il Mediterraneo. A
tutte queste persone va la nostra vicinanza, e ribadiamo la necessità di progetti di
volontariato e cooperazione internazionale che siano lontani dal perseguimento di fini
economici ma rimettano al centro le persone, innescando dinamiche orizzontali, inclusive,
comunitarie. Per un orizzonte di pace non possiamo fare altro che trasformare in maniera
non-violenta i conflitti nei quali viviamo o che ci circondano".
“Ci stringiamo attorno a Parigi e alla Francia. Leviamo forte un grido di esecrazione per gli
attentati terroristici. La priorità assoluta è riaffermare la pace, sconfiggendo le forze che
stanno dietro ai criminali esecutori, il cui lucido disegno è portare il caos e la guerra in
Europa”. Questo il commento del presidente nazionale delle Acli Gianni Bottalico,
secondo cui “a Parigi è avvenuta una nuova battaglia di quella Terza Guerra Mondiale in
corso, che come ricorda Papa Francesco, viene combattuta a pezzi”. “Noi europei ci
accorgiamo solo adesso di questo attacco all'umanità, quando anche le nostre vite
cominciano ad essere considerate spendibili. – prosegue - Non solo spesso abbiamo
chiuso gli occhi, ma ci sono delle corresponsabilità di stati europei nella destabilizzazione
di vaste aree del Medio Oriente e della Libia, e ultimamente della Siria. Da questa
destabilizzazione ha tratto vantaggio e sostegno l'Isis per il suo repentino sviluppo”.
Anche il Tavolo Interreligioso di Roma si è detto vicino ai parigini. “Nel tragico presente
risultano inadeguate le parole, le autorevoli inevitabili dichiarazioni di sdegno, le grida di
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rifiuto alla barbarie. E’ fondamentale oggi riflettere e trovare nuove risposte a situazioni
drammatiche che sono entrate nelle case dell’Europa tutta, evitando nel contempo di
demonizzare e scaricare le responsabilità su fedi ed ideologie – sottolinea in una nota -. Il
Tavolo Interreligioso di Roma di fronte alla drammatica situazione francese e alla centralità
che anche il nostro paese, alla vigilia del Giubileo, si trova ad avere nell’emergenza
crescente, chiede a Franca Biondelli, sottosegretario di Stato al Ministero del lavoro e
delle politiche sociali con delega per il Dialogo Interreligioso, una convocazione
straordinaria del Tavolo nazionale per l’Integrazione, in cui confrontarsi ed elaborare
proposte per politiche e strategie che si concretizzino in progetti e interventi, condivisi su
scala locale e nazionale capaci di rispondere alle lacerazioni sociali, culturali e religiose
emergenti”.
“In queste ore piangiamo l'orrore di Parigi insieme al mondo intero. Hanno colpito lì dove
le persone stavano bene insieme. Dove c'era divertimento e spensieratezza. La musica, la
cultura, lo sport, la convivialità. Noi non vogliamo farci sconfiggere dalla paura nè dalla
follia del terrorismo”. E' il commento di Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci.
“Oggi, noi dell'Arci, ci stringiamo attorno ai parigini e a tutti i francesi. Saremo presenti in
tutti i presidi e le manifestazioni che in queste ore si stanno organizzando nelle varie città
d’Italia in solidarietà con il popolo francese. Convinti che dovremo continuare a diffondere
e difendere la cultura, la democrazia, la libertà, la laicità. Sappiamo che da oggi sarà
ancora più importante promuovere inclusione e che non dovremo cedere a chi approfitta
per alimentare odio e xenofobia”.
del 17/11/15, pag. 16 e dal manifesto.info
Associazioni e ong contro il terrorismo, il
razzismo e la guerra
Pace. Associazioni, sindacati, movimenti, ong hanno promosso per
martedì 17 novembre un’assemblea nazionale per discutere insieme
sulle modalità più efficaci per lanciare un percorso collettivo contro il
terrorismo, le guerre e il razzismo. Un piano d’azione dal basso, che
coinvolga scuole, circoli, luoghi di lavoro, parrocchie, centri di
aggregazione. Per la pace e l’umanità. L’assemblea si terrà alle 15,
presso il Centro congressi Frentani, in via dei Frentani 4 a Roma.
A pochi giorni dalla terribile strage di Parigi, associazioni, sindacati, movimenti, ong hanno
promosso per domani, martedì 17 novembre, un’assemblea nazionale per discutere
insieme sulle modalità più efficaci per lanciare un percorso collettivo contro il terrorismo, le
guerre e il razzismo. Un piano d’azione dal basso, che coinvolga scuole, circoli, luoghi di
lavoro, parrocchie, centri di aggregazione. Per la pace e l’umanità.
L’assemblea si terrà alle 15, presso il Centro congressi Frentani, in via dei Frentani 4 a
Roma.
Di seguito l’appello che convoca l’assemblea e un primo elenco delle organizzazioni che
l’hanno sottoscritto.
Appello per una mobilitazione nazionale ed un piano d’azione delle organizzazioni sociali
contro il terrorismo e la guerra, il razzismo e i predicatori d’odio. Per la pace e l’umanità
Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di
Parigi…, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come
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quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia
distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio
Oriente e l’Africa.
La guerra è dentro le nostre società… E’ dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra
società si arricchisce con la produzione di armi che servono per fare le guerre che poi
condanniamo… Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di
società…fondata sui valori che sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà,
uguaglianza, fratellanza.
Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari.
Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le
libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il
rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa
civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace.
Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici…
Basta produrre e vendere armi per fare le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla
guerra.
Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati…
Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un
ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero come nemico serve per
raccogliere consensi elettorali…
L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre società
muri invalicabili…
Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a
disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta
intero vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile…
Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di
confronto e di scambio culturale.
Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti
a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare.
Per questo invitiamo tutte le organizzazioni sociali a organizzare a partire da domani
iniziative, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi
sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso…un piano di azione nazionale contro il
terrorismo, le guerre e il razzismo.
ACLI, ANSPS, ANTIGONE, AOI, ARCHIVIO MEMORIE MIGRANTI, ARCI, ASGI,
ASSOCIAZIONE PER LA PACE, AUSER, CGIL, CENTRO ASTALLI, CILD, CINEVAN,
CIPSI, CNCA, COCIS, COMITATO NUOVI DESAPARECIDOS, FIOM CGIL, FORUM
TERZO SETTORE, HABEISHA, LASCIATECIENTRARE, LEGAMBIENTE, LIBERA, LINK,
LUNARIA, MOVIMENTO NONVIOLENTO, RETE DELLA CONOSCENZA, RETE DEGLI
STUDENTI, RETE G2 SECONDE GENERAZIONI, SEI/UGL, SOS RAZZISMO ITALIA,
UDS, UN PONTE PER, UDU
http://ilmanifesto.info/associazioni-e-ong-contro-il-terrorismo-il-razzismo-e-la-guerra/
Da Ansa del 16/11/15
Parigi: domani assemblea
associazioni,sindacati e ong a Roma
Appello a una mobilitazione. No a nuove avventure militari
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(ANSA) - ROMA, 16 NOV - Una mobilitazione nazionale e un piano d'azione delle
organizzazioni sociali "contro il terrorismo e la guerra, il razzismo e i predicatori d'odio": a
pochi giorni dalla strage di Parigi, associazioni, sindacati, movimenti e ong italiani
promuovono per domani un'assemblea nazionale per discutere "sulle modalità più efficaci
per lanciare un percorso collettivo contro il terrorismo, le guerre e il razzismo, un piano
d'azione dal basso che coinvolga scuole, circoli, luoghi di lavoro, parrocchie, centri di
aggregazione. Per la pace e l'umanità". L'assemblea si terrà alle 15, presso il Centro
congressi Frentani a Roma.
Le organizzazioni - tra le quali Acli, Arci, Asgi, Cgil, Centro Astalli, Cnca, Forum terzo
Settore, Libera, Legambiente, Rete studenti, Link, Rete G2 seconde generazioni,
Movimento nonviolento - lanciano un appello nel quale esprimono solidarietà alle vittime
dell'attacco terroristico nella capitale francese ma ricordano anche "l'angoscia in cui sono
quotidianamente immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano". "Proviamo
rabbia e delusione - si legge nell'appello
- per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali cui tutti noi abbiamo delegato la
sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto leva su diplomazia e
cooperazione per prevenire e gestire i conflitti. Non vogliamo nuove spedizioni ed
avventure militari. Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia
umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale,
il lavoro dignitoso, il rispetto dell'ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a
partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l'istituzione dei Corpi Civili Europei
di Pace".
I predicatori d'odio vanno fermati, dicono ancora, ma va anche contrastata "la deriva
politico-culturale che spinge l'Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e
indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato come nemico serve per raccogliere consensi
elettorali"." Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già
abbiamo a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l'Europa, il
pianeta intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a
partire dagli impegni che gli stati debbono assumere alla Cop21 che si terrà proprio a
Parigi, dal 30 novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario e
indispensabile". (ANSA).
Da Repubblica.it del 17/11/15 (Roma)
Roma, gli studenti in piazza, la questura vieta
il corteo: appuntamento a Piramide
Da San Vitale il 'no' alla manifestazione, dopo il rafforzamento delle
misure antiterrorismo. Alle 10.30 universitari e precari alla stazione
Trastevere per denunciare le "politiche insufficienti in materia di diritto
allo studio". Blitz nella notte al Miur: vogliamo tutto #pertutti
Roma, gli studenti in piazza, la questura vieta il corteo: appuntamento a Piramide
Gli studenti tornano in piazza e sfidano la questura che non ha autorizzato la nuova
manifestazione organizzata dalla Rete della Conoscenza (Unione degli studenti - Link
Coordinamento Universitario). Una mobilitazione internazionale studentesca promossa a
livello europeo dall'Obessu (Organising Bureau of European School Student Unions) e
dall'appello We are in credit dallo slogan "Vogliamo tutto #pertutti, privilegi per nessuno".
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Venerdì avevano organizzato un altro corteo per dire 'no alla buona scuola', la riforma del
governo Renzi. Poi dopo gli attentati terroristici è arrivato l'appello dalla questura di Roma
ad evitare manifestazioni in questi giorni di allerta.
L'appuntamento a Roma è alle 9.30 a Piramide per la manifestazione romana non
autorizzata organizzata dalla Rete della Conoscenza, in concomitanza con altre 50 piazze
in Italia. La destinazione dovrebbe essere il Miur, ma il percorso al momento resta ancora
un'incognita. La Questura di Roma, infatti, fanno gli studenti della rete della Conoscenza,
"dopo aver garantito per diversi giorni il regolare svolgimento del corteo, ha bruscamente
interrotto le trattative riguardanti la mobilitazione studentesca romana. La motivazione
addotta sarebbe quella del rafforzamento delle misure antiterrorismo: ancora una volta le
mobilitazioni sociali sono trattate come una questione di ordine pubblico, con
un'inaccettabile limitazione dei diritti costituzionali".
Mentre alle 10.30 universitari e precari danno vita a un flash mob alla stazione Trastevere
per denunciare le "politiche insufficienti e dannose in materia di diritto allo studio,
reclutamento e finanziamenti che spingono studenti e laureati alla fuga da questo Paese".
Nella notte gli studenti hanno fatto un blitz di fronte al ministero dell'Istruzione a Roma,
esponendo lo striscione con lo slogan nazionale e hanno appeso delle chiavi di cartone ai
busti del Pincio: le chiavi della cultura, del diritto allo studio, del reddito e dell'accoglienza,
possono aprire le porte ad una società libera da terrorismi, xenofobia e razzismo. Al Miur
le chiavi contenevano l'hashtag #porteaperte.
Dopo gli attacchi terroristici a Parigi, la giornata di oggi si carica, però, di nuovi significati.
Per questo gli studenti alle 15 partecipano all’assemblea contro il terrorismo, le guerre e il
razzismo organizzata al Centro congressi Frentani da varie sigle e associazioni, dall’Arci a
Libera alla Cgil, fino alla stessa Rete della Conoscenza.
Mentre in alcuni istituti romani sono già iniziate le occupazioni.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/11/17/news/la_mobilitazione_degli_studenti_romani
_tra_cortei_e_flash_mob-127523576/
Da Left.it del 16/11/15
Un appello contro il terrorismo, il razzismo e
la guerra
Pubblichiamo l’appello congiunto di:
ACLI, ANSPS, ANTIGONE, ARCI, ASSOCIAZIONE PER LA PACE, CGIL, CENTRO
ASTALLI, CILD, CNCA, FIOM CGIL, HABEISHA, LASCIATECIENTRARE,
LEGAMBIENTE, LIBERA, LINK, LUNARIA, MOVIMENTO NONVIOLENTO, RETE DELLA
CONOSCENZA, SEI/UGL, SOS RAZZISMO ITALIA, UDS, UN PONTE PER
Per una mobilitazione nazionale ed un piano d’azione delle organizzazioni sociali contro
il terrorismo e la guerra, il razzismo e i predicatori d’odio. Per la pace e l’umanità
Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di
Parigi. Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno
subito, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come
quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia
distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio
Oriente e l’Africa.
La guerra è dentro le nostre società. È dentro il nostro quotidiano. È dentro il nostro
modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono
per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove armi e
nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società e di
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convivenza universale, fondata sugli stessi valori che oggi sono stati brutalmente attaccati
in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza.
Proviamo rabbia e delusione per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali
cui tutti noi abbiamo delegato la sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto
leva su diplomazia e cooperazione per prevenire e gestire i conflitti .
Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari.
Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto,
le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il
rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa
civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace.
Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici, di deroghe ai principi
fondanti della nostra società, di premiare gli interessi propri sottomettendo gli interessi
universali, di giustificare le occupazioni, i regimi autoritari per non disturbare i mercati o il
prezzo del petrolio.
Basta produrre e vendere armi per fare le guerre. Basta dire che non esiste alternativa
alla guerra.
Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati per impedire che la paura e la violenza
dilaghino e che in nome della sicurezza siano demolite progressivamente le nostre libertà
e le conquiste democratiche.
Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un
ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come
nemico, serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai
problemi interni.
L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre
società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni. Spingendo una parte della
popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare identità e appartenenza
tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali concepite come
inconciliabili tra loro.
Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo
a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta
intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a partire dagli
impegni che gli stati debbono assumere alla COP21 che si terrà proprio a Parigi, dal 30
novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario ed indispensabile.
Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di
confronto e di scambio culturale.
Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri
affetti a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare.
Per questo invitiamo tutte le organizzazioni sociali a organizzare a partire da domani
iniziative, momenti di riflessione, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole,
nei circoli, nelle sedi sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso e a partire dai
territori un piano di azione nazionale contro il terrorismo, le guerre e il razzismo.
Invitiamo tutti a partecipare a un’assemblea nazionale, domani,
Martedì 17 novembre, alle ore 15:00 al Centro Congressi Frentani, Via di Porta
Tiburtina 42, Roma
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Da Rassegna.it del 16/11/15
Parigi
Un appello contro il terrorismo, il razzismo e
la guerra
Acli, Arci, Cgil, Legambiente, Libera e molti altri soggetti sociali avviano
un percorso di riflessione e azione comune dopo i terribili attentati in
Francia: "Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari.
Vogliamo costruire la pace"
"Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi.
Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno subito, ma
non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano,
iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della
violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa".
Inizia così l'appello contro il terrorismo, il razzismo e la guerra lanciato da un'ampia
aggregazione di soggetti sociali italiani: Acli, Ansps, Antigone, Arci, Associazione per la
Pace, Cgil, Centro Astalli, Cild, Cnca, Fiom Cgil, Habeisha, Lasciatecientrare,
Legambiente, Libera, Link, Lunaria, Movimento Nonviolento, Rete della Conoscenza,
Sei/Ugl, Sos Razzismo Italia, Uds, Un Ponte Per.
L'appello punta ad aprire un percorso collettivo di riflessione e iniziativa, la cui prima tappa
sarà l'assemblea nazionale convocata per martedì 17 novembre, alle ore 15.00 al Centro
Congressi Frentani, Via di Porta Tiburtina 42, Roma.
Ma ecco come prosegue l'appello.
"La guerra è dentro le nostre società. È dentro il nostro quotidiano. È dentro il nostro
modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono
per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove armi e
nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società e di
convivenza universale, fondata sugli stessi valori che oggi sono stati brutalmente attaccati
in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza".
"Proviamo rabbia e delusione per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali cui
tutti noi abbiamo delegato la sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto leva
su diplomazia e cooperazione per prevenire e gestire i conflitti. Non vogliamo nuove
spedizioni ed avventure militari".
"Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto,
le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il
rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa
civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace".
"Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici, di deroghe ai principi
fondanti della nostra società, di premiare gli interessi propri sottomettendo gli interessi
universali, di giustificare le occupazioni, i regimi autoritari per non disturbare i mercati o il
prezzo del petrolio.
Basta produrre e vendere armi per fare le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla
guerra".
"Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati per impedire che la paura e la violenza
dilaghino e che in nome della sicurezza siano demolite progressivamente le nostre libertà
e le conquiste democratiche".
"Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un
ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come
nemico, serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai
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problemi interni. L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro
le nostre società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni. Spingendo una
parte della popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare identità e
appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali concepite
come inconciliabili tra loro".
"Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a
disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta
intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a partire dagli
impegni che gli stati debbono assumere alla COP21 che si terrà proprio a Parigi, dal 30
novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario ed indispensabile".
"Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di
confronto e di scambio culturale.
Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti
a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare".
"Per questo invitiamo tutte le organizzazioni sociali a organizzare a partire da domani
iniziative, momenti di riflessione, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole,
nei circoli, nelle sedi sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso e a partire dai
territori un piano di azione nazionale contro il terrorismo, le guerre e il razzismo".
http://www.rassegna.it/articoli/un-appello-contro-il-terrorismo-il-razzismo-e-la-guerra
Da Huffington Post del 16/11/15
Alessandro Cobianchi
Coordinatore nazionale Carovana Antimafie
Il terrorismo si annida nelle periferie, dove la
povertà ti toglie il futuro
Nella stessa settimana del "venerdì nero" di Parigi eravamo in Francia con la carovana
antimafie, il cui tema dell'edizione 2015, giova ribadirlo ai fini di questo articolo, è "Le
periferie al centro". Eravamo per la chiusura della carovana francese nell'Atelier de Mars,
un piccolo teatro del Panier, il quartiere di Marsiglia, un tempo degradato, che oggi offre la
sua parziale rinascita alla presenza di tanti artisti e qualche Bobo. Alla fine della serata ci
siam ritrovati a intonare, tutti insieme,"Bella ciao", un canto di resistenza, d'unità, di vino
rosso e di abbracci. Poi al rientro, venerdì, una notte intera davanti alla Tv a guardare
l'orrore.
Maryse, Claude, Sylvie, David, Suzanne, Henry, Christian, Isabel e tutti gli altri della Ligue
de l'Enseignement, la grande associazione francese custode del principio fondante della
laicità, ciscrivonocosternati, "sono senza parole" e ci abbracciano perché "siamo della
stessa famiglia, l'Umanità".
I primi commenti sui social network e in televisione invece, sono stati, come accade in
questi frangenti, "continueremo la nostra vita come prima", "riprenderemo le nostre
abitudini". Ancora in Tv, Riccardo Pacifici, ex Rabbino capo di Roma, ci ricorda che
dovremo prendere esempio da Israele, vivere normalmente in mezzo alla paura. Non sono
d'accordo, anzi, credo proprio che sia ora di dire che la vita non può essere così, fare finta
che nulla accada dentro e fuori, abituarsi alla propria ed all'altrui paura, come fosse il
costo necessario per sopravvivere.
Ma la nostra indignazione non è più sufficiente a vincere questa barbarie. Riprendere la
vita normalmente, accendere monumenti e candele in segno di solidarietà, dichiarare che
siamo tutti "qualcosa" (Charlie, Paris, ecc.) non basta più. Siamo confusi ma dobbiamo
cercare di capire. Non voglio addentrarmi in questioni di politica estera, che non mi
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competono, solo occuparmi di un tema che riguarda ciascuno di noi perché la nostra
società vive su un piano talmente inclinato che dobbiamo sentire un moto di ribellione allo
status quo. Non possiamo però pensare che i "nostri" caduti siano più ingiusti di altri.
Penso alle esplosioni che dilaniano cittadini inermi nelle piazze o nei mercati in
Afghanistan o in Iraq, queste bombe non sono meno pesanti di quelle che esplodono nel
cuore dell'Europa, non ci sono giovani deputati alla morte solo per vocazione geografica.
Se allarghiamo il sentimento di orrore a tutti i giovani uccisi, che siano pacifisti turchi
durante una manifestazione o abitanti di un quartiere di Beirut, che siano Valeria, Jean o
Rachid, capiremo che non possiamo cedere alle facili soluzioni degli xenofobi, dei razzisti
o degli stupidi che invocano guerre di religione e chiusura delle frontiere. L'Europa non
deve alzare altri muri, semmai tentare di abbattere quelli esistenti.
Penso alle periferie, ai quartieri in cui sono stati arruolati tanti ragazzi, passati in breve
tempo da "delinquenti abituali" (come è stato definito uno degli attentatoridi Parigi) a
Jihadisti. In Francia, come in tanti altri paesi europei, appartenere a una periferia significa
essere davvero "altrove", destinato alla marginalità, alla rabbia, a entrare nel bubbone
pronto a esplodere, proprio come i kamikaze che ci terrorizzano tanto. La religione è
ovviamente uno strumento, una giustificazione, ma la questione è la giustizia sociale.
Un'amica mi segnala un articolo molto interessante, in cui Hafez, un rifugiato siriano
ribadisce ciò che sappiamo tutti: "chi nasce nelle periferie non è uguale agli altri". Perché,
se sei sempre umiliato, vilipeso, ritenuto inferiore, il rancore aumenta. Poi arriva chi ti offre
un futuro migliore, protezione, giustizia e qualcuno (ben 1600 nella sola Francia i Foreign
fighters) al degrado economico, culturale, civile, preferisce la "guerra santa". Marsiglia,
Parigi, Londra, Roma, Bruxelles, ammassano persone negli arrondissements lontani dal
centro o nelle borgate, facile appannaggio della criminalità organizzata, oppure pronte a
vendersi o donarsi, con i loro corpi e le loro vite.
Basta guardare negli occhi i disperati accampati alla stazione Tiburtina o quei quindicenni
senza futuro nelle banlieus, i ragazzini che vivono nei sotterranei di Bucarest, per capire
che se arriva l'imprenditore della rabbia, quella rabbia la può organizzare. Non si vuole
con ciò giustificare minimamente la violenza brutale ma impegnarsi a cercare soluzioni è
fondamentale. Quando lo Stato si dimentica dei suoi cittadini, si pensi allo squilibrio nel
rapporto pazienti-medici fra centro e periferie di Marsiglia, come riportato da "La
Provence" di qualche giorno fa o al fatto che un terzo dei marsigliesi vive sotto la soglia di
povertà e il 90% della "piccola delinquenza" d'oltralpe è costituito da figli di immigrati
maghrebini ma cittadini francesi,qualcuno arriva a credere che la giustizia sociale possa
essere costruita nel paradiso dei martiri. Non è un caso che una città come Nizza abbia il
record degli arruolati francesi nell'Isis e che sia stata, nel febbraio 2015, uno degli obiettivi
terroristici. Come scrive Hafez, "qualcuno ti convince che non c'è riscatto senza violenza"
perché la società "che si pensa giusta, ti ha abbandonato nelle periferie".
In Italia la rabbia non si è ancora sedimentata ma anche da noi è questione di tempo. A
Parigi la guerra a dei giovani inermi è stata scatenata da altri giovani. Alcuni di loro
destinati a non essere mai francesi, belgi, inglesi, nonostante il passaporto dica altro. E
forse, nemmeno islamici, almeno per come lo intendiamo noi, non per l'uso distorto che se
ne fa. Non sono europei, non sono realmente islamici.
Si potranno bombardare tutte le basi dell'Isis o invocare l'esercito nelle strade, come fece il
Sindaco di Nizza, ma senza soluzioni lungimiranti, dopo Al Qaeda abbiamo avuto l'Isis e
poi chissà altro. Non è l'unica opzione ovviamente ma sarebbe opportuno, iniziare a
restituire una prospettiva di futuro e una concreta possibilità di scelta a chi vive
emarginato. Forse la vera primavera araba potrebbe ripartire da qui.
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Da il FattoQuotidiano.it del 16/11/15
Attentati Parigi, Chaouki (Pd): “Musulmani
scendano in piazza, senza di loro esercito e
intelligence non bastano”
"I comunicati di condanna non sono abbastanza", dice il parlamentare
dem di origini marocchine, che chiede "una risposta culturale dal
basso". Che finora è arrivata in ordine sparso e con piccole
manifestazioni spontanee, da Pontedera a Ventimiglia. E con le prese di
posizione di alcune imam e associazioni
Le comunità musulmane devono “dare una risposta culturale dal basso”, e su questo “non
è stato fatto abbastanza finora”. E’ l’appello del deputato Pd Khalid Chaouki, di origine
marocchina, dopo gli attentati di Parigi rivendicati dall’Isis che hanno visto in veste di
carnefici, per quanto ricostruito al momento, quattro jihadisti nati in Francia e in Belgio. “I
comunicati stampa di condanna – chierisce il deputato – non sono più sufficienti: i
musulmani devono scendere in piazza e manifestare fianco a fianco con tutti gli altri
cittadini”.
Secondo Chouki, “le comunità musulmane devono prendere consapevolezza del loro ruolo
e della responsabilità che hanno e unirsi alla lotta al terrorismo. Senza il loro aiuto non
basterà né l’esercito né l’intelligence. Serve una risposta culturale dal basso e su questo
non è stato fatto abbastanza finora”.
Di prese di distanza dagli attentati da parte dei musulmani in Italia se ne sono registrate
diverse. I Giovani musulmani d’Italia, con sede a Milano, hanno espresso ieri in un
comunicato la “piena vicinanza e solidarietà al popolo francese” e la ferma condanna “per
gli attacchi derroristici dei nemici dell’Uomo”.
Parole simili sono arrivate dalla Comunità islamica di Bologna, che nel denunciare episodi
di insulti e minacce nei confronti “di ragazze velate” nel capoluogo emiliano, ricorda di aver
“condannato senza se e senza tutte le stragi e ora gli attacchi di Parigi e non vogliamo
cadere nel gioco dei terroristi che ci vogliono ‘nemici in casa'”, ha spiegato all’AdnKronos il
presidente Yassine Lafram. “E’ il momento di fare fronte comune di ricompattarci tutti e di
stare uniti contro l’ideologia del terrore”. Lafram rivendica che come Cib “ci siamo sempre
dissociati, siamo scesi in piazza, ma anche noi siamo stati molto danneggiati dalle accuse
islamofobiche rivolte ai musulmani dai giornali, nei talk show televisivi, come se fossimo
collusi con i fondamentalisti, come se approvassimo questi pazzoidi“.
E se a Milano uno dei leader religiosi islamici più in vista, Sergio Pallavicini, è salito
sull’altare della chiesa Mater Amabilis, punto di riferimento della comunità cattolica
francese, l’imam di Lecce Saifeddine Maaroufi, a capo di una comunità di 5mila
musulmani, lancia un appello: “E’ fondamentale smontare questa ideologia, rafforzando il
dialogo con i giovani, affrontando con loro questo punto per non lasciare spazio a chi
potrebbe avere in mente atti simili o semplicemente sostenerli, perché quello che sta
accadendo va contro l’Islam in primis e contro l’Umanità in generale”. L’imam ha anche
evidenziato “l’obbligo morale di denunciare” i frequentatori delle moschee portatori di idee
estremiste “che intendono passare alle vie di fatto”.
I musulmani d’Italia, insomma, reagiscono in ordine sparso, anche facedosi vedere alle
manifestazioni di solidarietà organizzate in tutta Italia. Non solo. Gli studenti musulmani
dell’Università della Calabria hanno promosso un corteo silenzioso per esprimere
solidarietà ai familiari delle vittime degli attentati di Parigi. “Vogliamo ricordare – ha detto
uno degli organizzatori, Ahmad – tutte le vittime del terrorismo, non solo i morti di Parigi.
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Abbiamo scelto il silenzio in rispetto dei morti, ma desideriamo gridare al mondo che noi
musulmani siamo i primi a condannare il terrorismo”.
Gli organizzatori hanno intenzione di replicare la manifestazione nei prossimi giorni nel
centro di Cosenza perché “vorremmo dare maggiore forza – ha detto ancora Ahmad – al
nostro messaggio di pace”.
Ieri a Pontedera (Pisa) c’è stata una piccola marcia della pace organizzata da Arci e
comunità marocchina della Valdera, alla quale hanno partecipato una quarantina di
nordafricani con cartelli “no al terrorismo”. L’iniziativa, ha spiegato uno dei promotori,
Fattah Lamnaouar “serve per dire che l’Islam non ha niente a che vedere con questi
terribili attentati terroristici e con i criminali dell’Isis“. E così hanno fatto, sempre ieri, i
musulmani di Ventimiglia, frontiera (calda dal punto di vista dell’emergenza profughi) con
la Francia. Presenti circa quattrocento persone, tra le quali ujna cinquantina di musulmani
– spesso famiglie con bambini – insieme all’agente consolare francese, Roger Brochiero,
al sindaco di Mentone Jean Claude Guibal.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/16/attentati-parigi-chaouki-pd-musulmani-scendanoin-piazza-senza-di-loro-esercito-e-intelligence-non-bastano/2224159/
Da QN – Il Giorno del 16/11/15
Como, la città ricorda le vittime di Parigi:
manifestazione in centro
Corteo in città per dire no al terrorismo. Intonata la Marsigliese
Raccoglimento in piazza San Fedele Raccoglimento in piazza San
Fedele
Como, 16 novembre 2015 - Manifestazione di solidarietà con le vittime dell'attentato di
Parigi, per dire no al terrorismo. Punto di ritrovo (in piazza Volta), è stato il simbolo della
pace realizzato con l’immagine della torre Eiffel stilizzata e condivisa da migliaia di
persone in questi giorni. Presenti il sindaco di Como Mario Lucini e il segretario provinciale
della Cgil Alessandro Tarpini.
Alla fine della manifestazione è stata intonata la Marsigliese. In prima fila tra i sostenitori
della manifestazione, compare il Comune di Como, assieme a rappresentanze dei
sindacati comaschi Cgil, Cisl, Uil, Arci, Acli. Si sono inoltre aggiunti fin da subito il
Coordinamento comasco per la Pace, Sel, Paco-SeI, Ife, i Giovani democratici Como,
SilpCgil, il Comitato Comasco in Difesa della Costituzione Como, il Comitato Como
Possibile Margherita Hack, Como Lavoro e Università, il Circolo Convalle Como del Partito
Democratico, la sezione Pd Como, Psi Como, Fgs Como, L’alternativa di Fino Mornasco
ed Emergency Como.
http://www.ilgiorno.it/como/parigi-manifestazione-solidarieta-1.1492336
Da il Tirreno del 16/11/15 (Cecina-Rosignano)
L’appello del presidente Arci Bvc
«Un duro attacco ai luoghi della ricreazione e della cultura – dice la presidente Arci Bvc
Claudia Franconi (nella foto) – dove le persone vivono la loro quotidianità, si incontrano e
condividono il piacere della reciproca compagnia. È stato attaccato questo valore mentre
si uccidevano tante
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persone. Onoriamo le vittime non solo con le lacrime ma rinnovando il nostro impegno per
la costruzione di una società migliore dove i valori della vita e della libertà siano la
religione di tutti e dove tutti possano esprimere la propria religione per dare un cuore
nuovo alla democrazia».
http://iltirreno.gelocal.it/cecina/cronaca/2015/11/16/news/l-appello-del-presidente-arci-bvc1.12457682
Da il Tirreno del 16/11/15 (Pontedera)
«Non siamo terroristi»
La comunità marocchina dà vita ad una marcia della pace al Botteghino
PONTEDERA. «Non siamo violenti, non siamo terroristi». Una quarantina di arabi,
residenti in Valdera, adulti e tanti bambini, hanno organizzato una manifestazione
estemporanea per chiedere la pace. Poco prima delle 11 di ieri si sono ritrovati insieme ad
alcuni rappresentanti dell’Arci. Slogan e cartelloni hanno accompagnato l’iniziativa, davanti
al circolo Il Botteghino a Pontedera, lungo la Tosco Romagnola. Una mini marcia
organizzata dall'Arci e dalla comunità marocchina della Valdera, compresa l’associazione
La Pace, a cui hanno partecipato le famiglie con bambini che seguono un corso di lingua
araba proprio a Pontedera.
«Vogliamo dire che l'Islam non ha niente a che vedere con questi atti di terrorismo e con i
criminali _ spiega Fattah Lamnaouar _ noi vogliamo la pace nel mondo e prendiamo le
distanze da chi ha compiuto gli attentati a Parigi e dai terroristi che non agiscono in nome
della religione musulmana ma per altri scopi».
La marcia è stata incoraggiata, come tiene a precisare Fedaoui Abdelilah,
dall’associazione sportiva La Pace che lui stesso ha fondato nel 2006 per dare un
riferimento ai connazionali marocchini della Valdera, una comunità molto numerosa come
in tutta la provincia.
«I nostri bambini studiano regolarmente in Italia, imparano anche la lingua araba. Siamo
completamente estranei ad atti di violenza. Così abbiamo sentito il bisogno, dopo i gravi
fatti accaduti a Parigi, si manifestare, organizzando una fiaccolata, per la pace. Per
ribadire che la religione
islamica non ha niente a che vedere con i terroristi». L’iniziativa di ieri è stata seguita da
alcuni cittadini della frazione che hanno visto arrivare il numeroso gruppo dei partecipanti
davanti al circolo e li hanno seguiti durante la manifestazione pacifica».
http://iltirreno.gelocal.it/pontedera/cronaca/2015/11/16/news/non-siamo-terroristi1.12457627
Da Left del 14/11/15, pag.
UN PIATTO DI LENTICCHIE
AL SAPORE DI LEGALITÀ
«È importante per noi perché è come se "animassero" il territorio, ma serve anche a loro
perché se ne ritornano a casa con un'altra idea della legalità anche rispetto alle proprie
realtà». Sono i 250 ragazzi dai 16 ai 25 anni che per alcuni giorni hanno lavorato e vissuto
in un luogo confiscato alla mafia in Sicilia. Una partecipazione che fa bene, sia ai diretti
protagonisti sia alla comunità che li ospita. Ne è convinto Calogero Parisi, il presidente
della Cooperativa "Lavoro e non solo" di Corleone (Palermo) che gestisce l'azienda
agricola sui beni confiscati alla mafia I’azienda si estende per duecento ettari che
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producono grano, legumi come ceci e lenticchie e naturalmente vino, con una nuova
produzione di uva da tavola. Qui ogni anno, dal 2004, si svolgono i campi della legalità
promossi dall'Arci. «Sono arrivati da tutta Italia, anche se circa la metà viene dalla
Toscana», racconta Parisi. Accanto ai giovani ci sono anche i pensionati della Spi Cgil che
gestiscono l'ospitalità. Ma quest'anno c'è stata una· novità. Accanto ai ragazzi dei campi,
anche 11 ragazzi richiedenti asilo provenienti dal progetto Sprar gestito dal circolo Arci I
Girasoli. I giovani rifugiati infatti per un anno e mezzo sono al centro del Progetto Drago,
finanziato dalla Fondazione con il Sud e che consiste nella formazione per un laboratorio
dei legumi. «Rimarranno qui fino alla prossima estate, poi sceglieranno se andarsene
dall'Italia o no. Comunque avranno una formazione specifica che gli potrà servire»,
conclude Parisi.
Da Cinecittà news del 16/11/15
‘L’Italia che non si vede’ arriva in 40 città
Ha preso il via, con la proiezione al ViaEmiliaDocFest di Napolislam, del regista Ernesto
Pagano, la 5a edizione de ‘L’Italia che non si vede’, rassegna itinerante del cinema del
reale. La rassegna è organizzata da Ucca (Unione dei circoli cinematografici Arci) in
collaborazione con Istituto Luce Cinecittà, Good Films, I Wonder Pictures, Lab 80.
Si compone di 10 film, equamente divisi tra documentari e opere di finzione, e toccherà
oltre 40 città italiane, privilegiando circoli culturali e sale polivalenti, con l’obiettivo di
raggiungere il pubblico "invisibile" della provincia, dei piccoli centri e delle periferie, dove le
sali tradizionali hanno chiuso o quelle residue proiettano solo mainstream.
Una selezione di alto profilo, che propone film invitati ai principali festival internazionali, da
Cannes a Venezia, dalla Berlinale al Sundance, e che tocca molti dei temi centrali della
temperie sociale e culturale di questi anni: l'integrazione possibile (Napolislam,
Gitanistan), l'inesausta discussione su unioni civili e matrimonio paritario (Lei disse sì),
l'incerta o denegata identità di genere (Vergine giurata, Arianna), il disagio dei rapporti
familiari disfunzionali (Memorie, Cloro), la dolorosa convivenza con la disabilità (Genitori),
la persistenza del classismo nella società italiana (La bella gente), le difficoltà del
passaggio all'età adulta (Short Skin).
Per la prima volta la rassegna ospiterà inoltre cortometraggi che sono il frutto delle attività
realizzate nel laboratorio FILMaP dell’Arci Movie di Ponticelli, a Napoli, e della Produzione
Cinemaniaci, storico circolo Ucca di Piacenza.
http://www.cinecitta.com/IT/it-it/news/45/8267/l-italia-che-non-si-vede-arriva-in-40citta.aspx
Da Radio articolo 1 del 17/11/15
ore 17:00
Ellecult
Professionisti della cultura, gli stati generali. Con D. Jalla, pres. Icom - L'Italia invisibile e il
cinema del reale. Interviene R. Roversi, presidente Ucca. A cura di A. Fama
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Da Redattore Sociale del 16/11/15
La povertà che diventa un crimine: è il nuovo
"disordine mondiale"
Rapporto per i diritti globali. Da un lato si posiziona l’invisibile euforia
della finanza, mentre dall’altro si stagliano le ben più tangibili
conseguenze dell’enorme depressione economica e sociale. Domani la
presentazione a Roma
ROMA - Nel nuovo disordine globale si afferma lo scontro tra paradigmi contrapposti e il
mondo - in preda a una crisi strutturale - appare ormai senza rifugi. Nel nuovo disordine
globale la povertà diventa un crimine, mentre la crisi si fa strumento di governo e
moltiplicatore dell’instabilità: da un lato si posiziona l’invisibile euforia della finanza, mentre
dall’altro si stagliano le ben più tangibili conseguenze dell’enorme depressione economica
e sociale.
Questi sono solo alcuni dei temi trattati nel Rapporto per i Diritti Globali (tredicesima
edizione), che verrà presentato domani a Roma, nella Sala Simone Weil della sede della
Cgil di Corso Italia, 25 alle ore 11.
Il rapporto, curato dall’Associazione Società Informazione Onlus e promosso da Cgil con
la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione
Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente dà conto dello stato
dei diritti e delle diseguaglianze del Pianeta. Al tempo della globalizzazione neoliberista, lo
scenario disegnato svela un’Europa che mostra tutta la fragilità delle proprie istituzioni.
Un’Europa che seleziona, specula e costruisce muri e barriere, mentre il peso dell’esodo
più consistente dalla Seconda Guerra Mondiale (che conta oltre 59 milioni di persone
costrette per ragioni politiche o economiche a lasciare il proprio paese), viene sostenuto
principalmente dai paesi cosiddetti in via di sviluppo, che accolgono l’86% dei 19 milioni e
mezzo di rifugiati nel mondo.
Come riferisce lo studio, per numerose aree geografiche il 2015 è stato l’anno di una vera
e propria “guerra contro i poveri” (e non alla povertà): l’anno in cui le politiche hanno
maggiormente premiato la grande finanza e gli stessi responsabili della crisi finanziaria.
Secondo le statistiche, nell’ultimo anno un europeo su quattro, infatti, sarebbe a rischio di
povertà ed esclusione sociale: 122,6 milioni dieci in più dall’inizio della crisi. Alcuni degli
Stati membri mostrano percentuali ancor più drammatiche: come la Bulgaria (48%), la
Romania (40,4%) e la Grecia (35,7%), l’Ungheria (33,5%), mentre l’Italia registra il 28,4%,
che corrispondono ad un totale di 17 milioni e 330mila persone sotto la soglia della
povertà; dato superiore alla media europea. A fronte di questo quadro, la risposta
dell’Europa tra il 2008 e il 2012 è stata quella di disivestire nel welfare, in nome di austerità
e fiscal compact, tagliando di circa 230 miliardi di euro sulla spesa sociale, e a questo si è
aggiunta la tendenza (che l’Europa sembra aver ricalcato dagli Usa) alla criminalizzazione
della povertà piuttosto che al suo sostegno.
Le Banche Centrali ( a partire dal 2007) hanno, infatti, accresciuto la quantità di moneta
emessa di 24 miliardi di Euro: rialzi che hanno provocato una grande euforia finanziaria a
cui sono corrisposti degli effetti devastanti per la società civile. Altro dato rilevante è il fatto
che nel 2015 il 50% della ricchezza mondiale si sia concentrato nelle mani di ottanta
persone. Ottanta “potenti” che detengono una quantità di ricchezza che corrisponde a
quella posseduta complessivamente da 3 miliardi e mezzo di persone: il 50% più povero
della popolazione mondiale.
Il rapporto dedica un’attenzione particolare poi al tema che ha maggiormente calcato le
scene del 2015: quello dell’alimentazione, mostrando come la “Grande Narrazione” che ha
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attraversato la vetrina di Expo 2015, abbia perso l’occasione di intavolare una seria
riflessione sull’attuale modello di produzione del cibo e suoi rischi futuri. Difatti, il
paradigma imposto dalle multinazionali e dall’agricoltura industriale sarebbe responsabile
del 75% dei danni biologici procurati del Pianeta, malgrado sia in grado di produrre
solamente il 30% del cibo consumato nel mondo. Nel rapporto viene indicato inoltre, come
logiche orientate unicamente al massimo profitto e alla speculazione finanziaria, che fanno
gli interessi delle grandi corporations e vengono ulteriormente sostenute dai trattati
commerciali in corso (primo tra tutti il Ttip, il Transatlantic Trade and Investment
Partnership, il trattato commerciale di libero scambio tra Usa ed Europa) stiano
producendo devastanti effetti sugli stessi paesi industrializzati.
Da Rassegna.it del 17/11/15
Cgil: oggi presentazione Rapporto sui diritti
globali
Oggi, martedì 17, alle ore 11, presso la Cgil nazionale, SalaSimone Weil, Corso d’Italia 25
– Roma, sarà presentato alla stampa “Il nuovo disordine mondiale - Rapporto sui diritti
globali 2015”. Il rapporto, realizzato dalla casa editrice Ediesse e giunto alla sua
tredicesima edizione, è a cura di Associazione Società Informazione Onlus, promosso da
Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione BassoSezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
Partecipano alla presentazione: Danilo Barbi, segretario nazionale Cgil; Paola Bevere,
presidente Antigone Lazio; Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci; Don Luigi
Ciotti, fondatore e presidente Gruppo Abele; Marco De Ponte, segretario generale
ActionAid Italia; Maurizio Gubbiotti, coordinatore nazionale Legambiente; Ciro Pesacane,
segretario nazionale Forum Ambientalista; Sergio Segio, curatore del Rapporto, direttore
di Associazione Società Informazione; Gianni Tognoni, Fondazione Basso – segretario
generale Tribunale permanente dei popoli; Don Armando Zappolini, presidente
Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza.
http://www.rassegna.it/articoli/cgil-oggi-presentazione-rapporto-sui-diritti-globali
Da Rassegna.it del 17/11/15
L'oscena piramide della diseguaglianza
Oggi a Roma la presentazione del rapporto sui diritti globali 2015 "Il nuovo disordine
mondiale". Ottanta super-ricchi possiedono la medesima quantità di ricchezza del 50 per
cento più povero della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone
Il nuovo disordine mondiale. Ha un titolo per certi aspetti profetico, essendo stato deciso –
con tutta evidenza – in largo anticipo rispetto alla strage di Parigi dello scorso venerdì, il
Rapporto sui diritti globali 2015. Giunto alla sua tredicesima edizione, lo studio – promosso
dalla Cgil, con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso,
Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente, e curato dall’Associazione società
informazione Onlus – sarà presentato oggi (17 novembre) a Roma, alle 11, nella sede
della Cgil nazionale, nell’ambito di una conferenza stampa a cui parteciperanno Danilo
Barbi, Paola Bevere, Francesca Chiavacci, Don Luigi Ciotti, Marco De Ponte, Maurizio
Gubbiotti, Ciro Pesacane, Sergio Segio, Gianni Tognoni, Don Armando Zappolini.
La struttura del rapporto è articolata, anche per l’attuale edizione, in capitoli tematici,
suddivisi in una panoramica generale e in focus di approfondimento su alcune delle
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problematiche più rilevanti dell’anno che si sta concludendo. L’analisi e la ricerca sono
corredate come sempre da cronologie dei fatti, dati statistici, riferimenti bibliografici e tratti
dal web.
Un mondo senza rifugi
Nel tempo della globalizzazione neoliberista e della crisi strutturale, osservano i curatori
dello studio, il mondo appare senza più rifugi: né dalle turbolenze dei mercati, come si
vede dalle difficoltà crescenti che colpiscono anche la Cina e i Brics; né dalla
destabilizzazione geopolitica, come dimostrano il proliferare dei conflitti territoriali e la
nuova guerra fredda che si intreccia agli scenari, vecchi e nuovi, propriamente bellici; né
dalla “obsolescenza programmata” dei sistemi di welfare, a partire dal modello sociale
europeo da tempo sotto attacco, e delle forme e strutture democratiche di governo; né,
infine, dagli effetti delle guerre e delle diseguaglianze, che nel 2015 si sono tradotti in un
vero e proprio esodo, di fronte al quale l’Europa e le sue istituzioni si sono mostrate in tutta
la loro fragilità, divisione, impotenza.
Un esodo che, a novembre 2015, ha già prodotto, nel solo Mediterraneo, oltre 3.400
vittime, tra le quali un numero crescente di bambini. Nel settembre scorso, l’immagine del
piccolo bimbo Alan Kurdi, in fuga con la sua famiglia dalla guerra in Siria, annegato e
riverso su una spiaggia turca, ha commosso il mondo solo per un breve istante. Tanti
come lui sono morti dopo e continuano a morire senza lasciare traccia, senza destare
scandalo e ripensamenti nelle politiche globali e nella chiusura delle frontiere.
Il numero delle persone sradicate – sfollati interni o rifugiati – è arrivato a 59 milioni e
mezzo di persone; un numero cresciuto, solo nel 2014, di oltre 8 milioni, la cifra più elevata
dalla Seconda guerra mondiale. La pressione migratoria che ha messo in questi mesi in
difficoltà l’Europa è, peraltro, solo una piccola parte di quella dolente massa umana,
giacché il peso principale viene sostenuto dai paesi cosiddetti in via di sviluppo, che
accolgono ben l’86% dei 19 milioni e mezzo di rifugiati. Eppure, il 2015 è stato l’anno dei
nuovi muri, delle barriere di filo spinato erette nel cuore del continente europeo, a tentare
di isolare il contagio dai dannati della terra, cui è dedicato uno dei focus del rapporto.
La guerra contro i poveri
La “lotta di classe dall’alto” nell’ultimo anno, in diverse aree geografiche, ha preso la forma
di una guerra contro i poveri e di un divorzio progressivo tra capitalismo globale e
democrazia. Secondo le statistiche europee, nell’Unione vi sono 122,6 milioni di persone a
rischio di povertà ed esclusione, vale a dire quasi un europeo su quattro; all’inizio della
crisi erano 116 milioni. Alcuni Stati membri hanno percentuali ancor più drammatiche,
come la Bulgaria (48%), la Romania (40,4%), la Grecia (35,7%), l’Ungheria (33,5%); a
fronte di percentuali tra il 15 e il 16% di Paesi come Svezia, Finlandia, Olanda e
Repubblica Ceca. L’Italia registra il 28,4%, dato superiore alla media europea, per un
totale di 17 milioni e 330 mila persone.
A fronte di questo drammatico ed eloquente quadro, nel quadriennio 2008-2012 –
complessivamente, sebbene in modo molto differenziato tra i diversi Stati membri –
l’Europa ha disinvestito nel welfare, in ossequio agli imperativi dell’austerità e del Fiscal
compact, con un taglio sulla spesa sociale per un ammontare totale di circa 230 miliardi di
euro. Disinvestire nel welfare ha anche favorito la tendenza a distribuire i rischi di
impoverimento in modo selettivo e diseguale, gravando soprattutto sui più deboli, e questo
è uno dei meccanismi che porta a condizioni di povertà stabili, prolungate e difficilmente
reversibili.
Anziché essere contrastata, insomma, la crescente povertà – che riguarda sempre più
anche chi possiede un lavoro e un reddito – viene perpetuata, diviene una condizione non
transitoria, una sorta di buco nero sociale dove le povertà diventano a bassissima
reversibilità, nel quale è sempre più facile scivolare e da cui è – e sarà – praticamente
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impossibile uscire. Sempre più la povertà, specie se estrema, nelle risposte istituzionali,
ma anche nel senso comune, è vista e trattata come crimine, anziché come situazione
necessitante sostegno. Un processo, presente da tempo negli Stati Uniti, che sta andando
avanti in modo deciso in tutta Europa, a livello legislativo, amministrativo, del governo
delle città, mediatico. Alla criminalizzazione della povertà è dedicato un altro dei focus del
rapporto 2015.
L’oscena piramide della diseguaglianza
Anche nell’ultimo anno, le politiche seguite non sono andate nel verso di sostenere le parti
sociali più deboli e il lavoro e nel ridurre le diseguaglianze, ma all’opposto hanno premiato
i responsabili della crisi stessa, vale a dire la grande finanza. Dal 2007 le banche centrali
di tutto il mondo hanno aumentato la quantità di moneta da 35 mila miliardi di dollari a 59
mila miliardi. Un mare di liquidità che ha inebriato i mercati finanziari, ma non è
“sgocciolato” a sostenere l’economia precaria delle famiglie e delle piccole imprese,
mentre è continuata la sciagurata politica dell’austerity, pur in presenza dei suoi effetti
devastanti e deprimenti.
Una politica che, nel corso del 2015, ha manifestato appieno la propria valenza simbolica,
disciplinante e intimidatoria nel caso della Grecia, il cui popolo e il cui legittimo governo
sono stati piegati da un pesante e stringente ricatto, come viene ampiamente analizzato
nel focus del primo capitolo del nuovo rapporto. Non solo. Un anno di rialzi in borsa e di
grande euforia finanziaria ha visto il contrappasso di un’altrettanto grande depressione
economica e sociale. La crisi è così diventata strumento di governo e moltiplicatrice
dell’instabilità. E di ingiustizia sociale. Come mostrano indiscutibilmente i numeri e gli studi
internazionali. La ricchezza delle 80 persone più facoltose al mondo è raddoppiata in
termini nominali tra il 2009 e il 2014, mentre la ricchezza del 50% più povero della
popolazione nel 2014 è inferiore a quella posseduta nel 2009.
E ancora: ottanta super-ricchi possiedono la medesima quantità di ricchezza del 50 per
cento più povero della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone. Nel 2010 le
80 persone più ricche al mondo godevano (è il caso di dirlo) di una ricchezza netta di
1.300 miliardi di dollari. Nel 2014 la loro ricchezza complessiva posseduta era salita a
1.900 miliardi: una crescita, dunque, di 600 miliardi di dollari, quasi il 50 per cento in più in
soli quattro anni.
Il cibo come palcoscenico oppure come diritto
Il titolo scelto per l’Expo 2015 ha posto il tema del cibo all’attenzione mondiale. Ma ha
sostanzialmente eluso la riflessione e l’analisi sul modello attuale della produzione e del
consumo alimentare e sui rischi futuri, accentuati dai trattati commerciali in corso, orientati
agli interessi delle grandi corporation e favoriti dal grande investimento che viene fatto per
promuovere il lobbismo, a tutto danno della correttezza e trasparenza delle decisioni
politiche e dei diritti di cittadini e consumatori. Basti dire che nel 2013, solo negli Usa, il
settore finanziario ha speso oltre 400 milioni di dollari per fare lobby, mentre nell’Unione
europea la cifra stimata è di 150 milioni di dollari.
Sulla questione alimentare si confrontano, anzi si scontrano, due paradigmi: l’agricoltura
delle multinazionali, che si appropriano di intere regioni mondiali e le avvelenano con uso
intensivo di pesticidi e fertilizzanti, cercando di imporre ovunque anche gli Organismi
geneticamente modificati, e quella dei piccoli contadini, che coltivano nel rispetto
dell’ecosistema e delle biodiversità. L’agricoltura industriale, pur producendo solo il 30%
del cibo consumato a livello mondiale, viceversa, è responsabile del 75% del danno
biologico a carico del pianeta, compresa l’emissione, attraverso l’impiego di combustibili
fossili, del 40 per cento dei gas serra, causa di quel riscaldamento climatico che sta
devastando e desertificando i territori e pregiudicando il futuro del pianeta e delle prossime
generazioni.
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Anche quella per il cibo, e per l’acqua, insomma, è diventata una forma di guerra contro
interi popoli, vittime di forme, vecchie e nuove, di colonialismo; come anche il cosiddetto
land grabbing, il crescente fenomeno di accaparramento delle terre. Popoli la cui qualità di
vita e la stessa sopravvivenza sono compromesse da logiche unicamente orientate al
massimo profitto e alla speculazione finanziaria. Logiche che, tuttavia, non riguardano più
solo i Sud del mondo, ma gli stessi paesi industrializzati e, in primis, l’Europa, al centro dei
grandi interessi soggiacenti al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), il
Trattato commerciale di libero scambio le cui trattative segrete sono in corso tra Usa e
Unione europea, cui è dedicato un altro dei focus del Rapporto sui diritti globali 2015.
http://www.rassegna.it/articoli/loscena-piramide-della-diseguaglianza
Da Radio articolo 1 del 17/11/15
ore 11:05 - Diretta.
Presentazione del Rapporto sui diritti globali
2015 - Il nuovo disordine mondiale.
Intervengono D. Barbi, segretario nazionale Cgil; P. Bevere, presidente Antigone Lazio; F.
Chiavacci, presidente nazionale Arci; Don L. Ciotti, fondatore e presidente Gruppo Abele;
M. De Ponte, segretario generale ActionAid Italia; M. Gubbiotti, coordinatore nazionale
Legambiente; C. Pesacane, segretario nazionale Forum Ambientalista; S. Segio, curatore
del Rapporto, direttore di Associazione Società Informazione; G. Tognoni, Fondazione
Basso – segretario generale Tribunale permanente dei popoli; Don A. Zappolini,
presidente Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza
Da il Friuli del 16/11/15
Pasolini e Zigaina: storia di un’affinità
intellettuale
Un cineforum e una mostra a Cervignano per analizzare l’amicizia e le
collaborazioni tra il poeta e l’artista
Con il cineforum dedicato a ‘Zigaina nel film di Pasolini’, prende avvio giovedì 19, al
Cinema Teatro ‘Pasolini’ di Cervignano, il progetto ‘Zigaina e Pasolini: in scena’, curato da
Francesca Agostinelli, sostenuto dalla Regione Fvg e il Comune di Cervignano del Friuli.
Il cineforum, organizzato dal Circolo Arci di Cervignano con l’associazione Teatro Pasolini
(per la sezione cinematografica l’Associazione Bonawentura), presenta i tre film
pasoliniani in cui collaborò, a diverso titolo, l’artista Giuseppe Zigaina: una collaborazione
oggi quasi dimenticata, che segnò una delle affinità intellettuali più interessanti del secolo
scorso.
Le proiezioni non procedono in senso cronologico: ad aprire il cineforum è infatti ‘Medea’,
film del 1969, cui seguirà il 'Decameron' (1972), mentre il terzo in ordine di proiezione sarà
'Teorema' (1968), la prima delle pellicole che videro la collaborazione del pittore
cervignanese.
Non poteva che essere così vista la particolarità della location gradese di Medea e il
coinvolgimento del territorio nella lavorazione delle parti girate in laguna in quell’estate del
1969.
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Il cineforum ricorderà gli elementi principali della collaborazione Pasolini-Zigaina,
ripercorrendo le vicende che caratterizzarono in modo differente, e talvolta divertente, la
storia di questo sodalizio.
In ‘Teorema’, Pasolini chiamò l’amico pittore come consulente per il colore e per le
tecniche pittoriche, e lo incaricò di eseguire tutti i grandi lavori che nel film appaiono come
opera del giovane Pietro.
In ‘Medea’, l’artista ebbe il ruolo di far scoprire a Pasolini, uomo di fiume, i silenzi della
laguna e di condurlo in un mattino settembrino in quegli orizzonti larghi da lui descritti
proprio nel racconto ‘Medea’. Furono questi a orientare le scelte dell’amico che, sempre
nel racconto di Zigaina, individuò il carattere sacrale e mitico del luogo, divenuto location
per diverse scene del film, con Zigaina che al timone della sua ‘Istambul’ portava ogni
giorno Maria Callas sul set.
Nel ‘Decameron’, infine, il pittore si trasformò in attore e nelle vesti del Frate Santo
confessò Ser Ciappelletto, interpretato dall’attore Franco Citti: sette minuti di recitazione
straordinaria.
La storia sarà raccontata anche attraverso una mostra di foto di scena e materiali tratti da
archivi privati, tra cui l’archivio Zigaina e l’archivio Aldo Venier che a febbraio coronerà
l’intero progetto.
http://www.ilfriuli.it/articolo/Spettacoli/Pasolini_e_Zigaina-points_storia_di_un%E2%80%99affinit%C3%A0_intellettuale/7/149088
Da Siracusa News del 16/11/15
Riparte a Siracusa la rassegna
cinematografica a tema Lgbt “Fuori menù”
“Come non detto” film commedia del regista Ivan Silvestrini, aprirà l’appuntamento
annuale con la rassegna cinematografica LGBT “Fuori Menù”, organizzata
dall’associazione Stonewall Siracusa. Giunta alla sua IV edizione, la rassegna sarà
caratterizzerà anche quest’anno da un ricco calendario di proiezioni, rivolte a tutti, che
affronteranno i molteplici aspetti della tematica LGBT.
Partendo dall’amore e la sessualità gay, lesbica, bisex e trans, il grande schermo ci
narrerà di diritti negati alle persone Glbt ma anche delle emozioni legate
all’omogenitorialità e purtroppo anche dei problemi ad essa connessi, tema tra i più
controversi attualmente nel nostro Paese. Da quest’anno i film selezionati verranno
suddivisi per “volumi”, ciascuno dei quali, composto da 3 pellicole scelte tra quelle più
belle ed “indimenticabili”. Le proiezioni, inizieranno alle 20 e si terranno come di consueto
presso la sala Arci di Piazza Santa Lucia.
La rassegna si snoderà fino ai primi mesi del 2016 con altri avvincenti titoli pronti a far
riflettere, fornendo a spettatrici e spettatori interessanti spunti di riflessione. “Il nostro sarà
come ogni anno un invito al confronto e al dibattito sui temi LGBT, commenta con
entusiasmo la presidente di Stonewall Tiziana Biondi. Lo rinnoviamo con grande piacere a
quanti e quante - conclude Biondi - vorranno trascorrere una bella serata dedicata al
cinema e alla cultura LGBT, lontani dal pregiudizio e dagli stereotipi che tanto male hanno
fatto e continuano a fare ancora oggi ai cittadini e alle cittadine gay, lesbiche, bisessuali e
trans di questo nostro Paese”.
http://www.siracusanews.it/node/66193
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Da GoNews del 16/11/15
L’Arci lancia ‘Migrazioni’. Campagna per
sensibilizzare al tema superando gli stereotipi
Empolese Valdelsa La presentazione all'Arci della campagna 'Migrazioni' La
presentazione all’Arci della campagna ‘Migrazioni’ La campagna ‘Migrazioni’ nasce
dall’esigenza di farci portatori di un percorso di sensibilizzazione verso i soci ARCI e il
resto della cittadinanza sul tema dell’immigrazione e informarli sui migranti presenti
nell’Empolese Valdelsa. La presentiamo in un momento in cui i media e alcuni partiti
politici ci propongono incessantemente immagini di esodi in cui si parla spesso di
‘emergenze’ e di ‘invasione’. Su questo crediamo che uno dei malintesi più gravi del
diffuso approccio al tema sia il fatto di parlare delle migrazioni solo in termini di
emergenza, come di fronte ad una catastrofe naturale. Perché migrare non è una
questione di sicurezza, non è una questione di emergenza, ma è una condizione che è
parte strutturale della società che rientra nel ventaglio delle scelte personali di ciascun
individuo. Esiste una popolazione di oltre 300.000 stranieri regolari che vive in Toscana,
che va integrata e stabilizzata. Ci sono circa 350 richiedenti asilo che, nel territorio
dell’empolese Valdelsa, sono stati inseriti nei percorsi di quella che chiamiamo
“accoglienza straordinaria”. Il compito della nostra associazione è dunque creare percorsi
reali e efficaci di accoglienza e integrazione: superare le paure e i preconcetti è il primo
passo per costruire l’accoglienza ed è per questo che vogliamo avviare questa campagna
come strumento per combattere ogni forma di razzismo e pregiudizio, strumento
attraverso il quale provare a conoscere le persone e capire le loro scelte. La nostra
associazione, sia a livello regionale che nei territori, è da sempre attiva nella lotta al
razzismo e nella sensibilizzazione verso il tema dell’accoglienza dei migranti. Noi, come
soggetti di partecipazione civile, abbiamo il dovere di cercare di governare con
responsabilità la tendenza. E i nostri circoli, in quanto luoghi di aggregazione e di incontro
in cui è possibile lo scambio e la conoscenza reciproca tra i nuovi arrivati e i soci delle
nostre frazioni, sono i luoghi privilegiati per farlo. L’integrazione avviene con semplici gesti
e nei circoli è possibile coinvolgere e informare i cittadini “L’immigrazione è infatti un
fenomeno che non nasce adesso e noi, più di chiunque altro popolo dovremmo saperlo
bene. Come sappiamo bene che manca una legge sul Diritto di Asilo. Crediamo, rispetto a
questo, che vada affermato il diritto a muoversi, a spostarsi, a migrare, anche se non si è
sotto minaccia diretta a causa di guerre o criminalità” – afferma la presidente dell’arci
Empolese Valdelsa Chiara Salvadori. La campagna dell’arci è infatti una campagna che
vuole arrivare ai cittadini del nostro territorio per combattere stereotipi ed accrescere
invece la conoscenza e l’informazione. Associare immigrati e terroristi, alla luce delle
stragi, e non stiamo parlando solo di quella di Parigi,ma anche di quella a Beirut, come
quella in Kenya, è una delle operazioni più bieche che fornisce false informazioni e crea
odio e pregiudizi. “E’ soprattutto una campagna culturale – precisa Chiara Salvadori – che
vuole provare a combattere stereotipi anche a partire dai vocaboli che si usano, verso i
migranti, termini che più che indicare la loro condizione, esprimono un giudizio di merito:
profugo, clandestino, ma anche l’aggettivo “disperato”: non dobbiamo dare nessun
giudizio, ma lavorare per costruire sui territorio percorsi reali di accoglienza”. Per questi
motivi la campagna si snoda in varie azioni: Innanzitutto si è pensato di realizzare una
campagna “grafica” che lanciasse un messaggio attraverso un’immagine forte con lo
slogan “Sogno un Futuro” lo slogan vuole identificare i migranti non come poveri disperati
ma come persone portatrici di sogni e speranze per il futuro. 1)Uno strumento ‘grafico’ ,
cioè il manifesto ‘Sogno un futuro’ che verrà affisso in tutti i circoli e che vi verrà
consegnato non appena disponibile insieme alle cartoline illustrate Alla stesura della parte
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grafica hanno partecipato i volontari del servizio civile nazionale per il progetto ‘Antenne in
Circolo’. 2) Il numero in uscita di Parole in Circolo sarà incentrato esclusivamente sul tema
dell’immigrazione. Infatti saranno presenti articoli specifici e interviste a migranti (italiani e
stranieri) del territorio. 3)Avvieremo il Laboratorio “Migrazioni” all’interno del progetto
“SocializzAzione”: insieme agli operatori del centro abbiamo pianificato un percorso che
parte dal tema del viaggio per arrivare a riflettere insieme sul perché le persone decidono
di emigrare. 4)Torneo di Calcio a 5 “Migrazioni in campo”: manifestazione di calcio a 5
sviluppata in collaborazione con la UISP. L’intenzione è quella di portare a giocare sia
cittadini italiani che stranieri, quindi con squadre anche miste, con particolare attenzione
verso i nuovi rifugiati ospitati nella nostra zona, offrendo loro uno spazio di socialità e
divertimento. Lo sport, quindi, come veicolo di integrazione attraverso cui creare dei
legami con i cittadini del nostro territorio. Il torneo si svolgerà a primavera 2016 e seguirà
quindi specifica e adeguata comunicazione e informazione riguardo alle modalità e
regolamento. 5)Mostra fotografica “EXODOS – EXODES” di Sebastiao Salgado La mostra
è composta da 10 pannelli fotografici in b/n già incorniciate + 3 pannelli illustrativi . La
mostra coinvolgerà in totale 9 circoli: -Monterappoli -Montagnana -Vitolini -Ponte a Elsa Associazione Agrado -Associazione Tetris -Il progresso Montelupo -Brusciana Associazione Ambarabà La mostra inizierà il proprio percorso da il Circolo arci di
Samminiatello, sede dell’associazione Tetris il giorno 1 dicembre fino al 9 dicembre La
mostra sarà itinerante e ogni volta che farà tappa in uno dei circoli aderenti informeremo la
cittadinanza sull’inaugurazione e l’iniziativa ad essa collegata. 6) Proiezione film che ha
come tema l’immigrazione: “Nuovomondo” di E. Crialese Associazione AMBARABA’
giovedì 10 dicembre, ore 21,00 circolo Arci Avis.
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2015/11/16/larci-lancia-migrazionicampagna-per-sensibilizzare-al-tema-superando-gli-stereotipi/
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ESTERI
del 17/11/15, pag. 1/2
Davanti ai due rami del Parlamento il presidente ha chiesto di “far
evolvere la Costituzione” per rafforzare le misure eccezionali dello stato
d’emergenza
“Siamo in guerra l’Europa aiuti la Francia” il
Patriot Act di Hollande per sfidare il Terrore
BERNARDO VALLI
PARIGI
È UN PATRIOT act alla francese. Meno costrittivo di quello adottato negli Stati Uniti dopo
l’11 settembre, ma nella sostanza abbastanza simile. Il socialista François Hollande
insegue in queste ore (quasi) le tracce del conservatore Bush jr. Il confronto col terrorismo
azzera le differenze. La strage parigina del 13 novembre ha condotto il presidente
francese a ricalcare metodi adottati dopo la tragedia newyorchese delle Torri gemelle.
Rivolgendosi al Congresso, dove si riuniscono per i grandi eventi, a Versailles, i due rami
del Parlamento, ha assunto toni da capo di guerra. È stato asciutto, concreto. Ha avanzato
la necessità di «far evolvere la Costituzione» della Quinta Repubblica. La situazione, a suo
avviso, esige che lo Stato di emergenza, già in vigore, sia integrato nell’articolo 36
riguardante lo stato d’assedio. Quest’ultima è una misura estrema che trasferisce il potere
all’autorità militare. Un aspetto al momento non d’attualità. Quella in corso non è infatti un
conflitto convenzionale, non è materia per Stati maggiori.
Coinvolge soprattutto l’intelligence e in generale la polizia e i magistrati. E tuttavia è
necessario uno strumento efficace per imporre, nel rispetto delle libertà repubblicane,
misure eccezionali, attraverso i prefetti e le autorità di polizia, senza passare
provvisoriamente attraverso le procedure giudiziarie troppo lente. Cosi le detenzioni
amministrative saranno più facili e veloci, quindi più efficaci. I poteri dei magistrati saranno
estesi nei casi di terrorismo. Le persone con la doppia nazionalità (come molti arabi)
implicate o gravemente sospette potranno essere private di quella francese. Le espulsioni
di cittadini stranieri indesiderabili saranno agevolate. Hollande ha chiesto al Parlamento di
approvare al più presto, domani, anche una legge che prolunghi di tre mesi lo stato
d’emergenza.
Il quale, benché ampliato con prerogative simili a quelle dello stato d’assedio, viene gestito
dal potere politico e dai servizi che da esso dipendono. I militari non saranno però lasciati
nelle caserme. Diecimila di loro saranno dispiegati nell’Ile de France con il compito di
proteggere i possibili obiettivi dei terroristi. Alle forze armate non saranno ridotti i
finanziamenti come previsto. E gli effettivi della polizia, della gendarmeria e della
magistratura saranno aumentati di ottomila cinquecento unità. Il patto di stabilità imposto
dall’Unione europea ne soffrirà. Ma la Francia ha bisogno di un patto di sicurezza. La
contabilità nazionale passa in secondo piano.
Hollande era teso, la faccia segnata dalla stanchezza, quando è arrivato davanti al
Parlamento riunito in seduta straordinaria. La prova che doveva affrontare era doppia. Da
un lato rassicurare il paese. dall’altro tentare di creare un’unione nazionale, vale a dire
prevenire, rendere vane le critiche dell’opposizione. Nei drammi il presidente più
impopolare della Quinta Repubblica assume una indubbia dignità. È veloce nelle decisioni.
È presente nei luoghi colpiti. Si rivolge costantemente al paese con toni calmi. Nelle
tragedie, come accadde in gennaio per Charlie Hebdo, cambia carattere. Di solito almeno
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in apparenza impacciato, acquista sicurezza. A Versailles ha esordito con un lapidario
«siamo in guerra» e ha proseguito annunciando iniziative, che hanno tolto l’iniziativa alla
destra, in particolare a quella estrema del Front National. Ha informato l’Assemblea di
avere chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza per decidere un’azione
internazionale contro Daesh. Che è «la più grande fabbrica di terroristi» ed è il nemico
contro il quale la Francia intensificherà le operazioni. Già la notte scorsa dodici caccia
bombardieri hanno colpito con venti missili il comando e i centri di addestramento di
Daesh in Siria, con l’aiuto degli Stati Uniti che hanno indicato gli obiettivi. Inoltre nelle
prossime ore la portaerei Charles de Gaulle salperà e una volta in Medio Oriente,
consentirà di triplicare le incursioni aeree francesi.Prima della fine di novembre incontrerà
Obama e Putin per cer- care di varare un’azione comune delle coalizioni che adesso
operano indipendenti una dall’altra, e spesso puntando su obiettivi diversi. Gli aerei russi
colpiscono di rado le basi di Daesh e si interessano agli altri gruppi ribelli, finora a quelli
aiutati dagli americani. Lui, Hollande, si prodigherà per favorire la già avviata intesa tra
Obama e Putin, dopo l’incontro al G20 in Turchia. In quanto all’Europa, chiede con
solennità che i membri dell’Unione si dimostrino solidali con la Francia, citando la clausola
42.7 del Trattato. Le sue parole sono risuonate a Versailles come un appello.
Le misure di sicurezza destinate a combattere il terrorismo e a rassicure il paese avevano
anche lo scopo di creare un’atmosfera favorevole a un’unione nazionale. Molti dei
provvedimenti annunciati potevano essere condivisi anche dalla destra e dall’estrema
destra. L’applauso intenso, prolungato di tutti i settori della platea versagliese (ad
eccezione di due esponenti del Fronte nazionale), era un’ovazione rituale ma sentita in un
momento difficile della nazione, in quel momento incarnata dal capo dello Stato. La
Marsigliese poi cantata da deputati e senatori ha aggiunto un tocco patriottico necessario.
Ma il consenso corale, anche se inevitabilmente passeggero, era dovuto anche alla
meticolosità con cui François Hollande ha saputo raccogliere e riassumere le istanze della
frastagliata società politica francese. Le critiche, a conclusione della seduta del Congresso
di Versailles, non sono mancate. Marion Le Pen, nipote di Marine, presidente del Front
National ha deplorato che Hollande non abbia condannato l’ideologia islamista dei
terroristi. Ma sul delicato, sensibile argomento della religione, il presidente aveva
abilmente sorvolato. Evitando soprattutto di soffermarsi sul problema dei migranti,
provenienti dalla Siria, e destinati a ingrossare la presenza musulmana in Europa.
Tra breve ci saranno in Francia le elezioni regionali, le ultime prima di quelle presidenziali
del 2017. Il trauma subito dal paese dovrebbe tradursi in un aumento dei voti islamofobi,
attribuiti al Front National, nei sondaggi già saliti al trenta per cento nei mesi successivi
all’assassinio dei giornalisti di Charlie Hebdo. L’ondata dei profughi e la simultanea strage
di venerdì tredici novembre, pur non essendoci alcun nesso tra i due avvenimenti,
possono contribuire a un’ulteriore crescita di quegli imbarazzanti voti virtuali destinati, non
è escluso, a diventare reali. A Versailles François Hollande doveva garantire la sicurezza
dei francesi e rassicurarli, e prevenire nei limiti della decenza, con un discorso civile e
decoroso, una frana politica.
del 17/11/15, pag. 3
Spiazzata dal governo Marine Le Pen attacca
gli «stranieri»
Francesco Ditaranto
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PARIGI
Non è chiaro se la destra parlamentare francese sia stata spiazzata dal discorso di
Hollande a Versailles (dove il parlamento si è riunito in seduta comune straordinaria ieri), o
se davvero sperasse che il presidente facesse valere l’articolo 16 della costituzione,
avocando a sé i poteri eccezionali, come la carta costituzionale francese prevede. Di fatto,
François Hollande ha recepito tutte, o quasi tutte, le indicazioni dell’ala destra del
Parlamento, tenendo saldo, però il principio dello stato di diritto. In virtù di questo e, preso
atto del fatto che la costituzione non preveda i mezzi ideali per affrontare la situazione, il
presidente socialista ha deciso di affidare al parlamento un progetto di modifica
costituzionale, in un senso più adatto all’attuale contesto. La svolta, dalle nuove possibili
alleanze in Siria ai provvedimenti sui francesi con doppia nazionalità sospettati di legami
con l’islamismo, c’è stata ed è andata esattamente nella direzione indicata dalla destra.
Proprio per questo risultano bizzarre le parole di Christian Jacob, presidente del gruppo de
I Repubblicani all’Assemblea Nazionale, che ha ripetuto, in larga parte, in forma di
richieste, quei provvedimenti che Hollande aveva già annunciato. Per Jacob, però, non è
necessario cambiare la costituzione. L’interrogativo, volendo interpretare questo proposito
dalla prospettiva politica che Jacob interpreta, è se il presidente avrebbe dovuto avvalersi
dell’articolo 16 sui poteri straordinari, o richiamarsi direttamente allo stato d’assedio
previsto dall’articolo 36.
Marine Le Pen ha apprezzato il cambio di linea di Hollande, denunciando, però, delle gravi
lacune nel discorso del presidente che, secondo la leader del partito d’estrema destra,
continua a non affrontare il problema del ritorno alle frontiere nazionali né quello della lotta
all’ideologia islamista.
Marion Marechal Le Pen, deputata del Fronte, è sulla stessa linea di sua zia. La nipote del
fondatore del partito deplora il fatto che nessuna proposta sia stata fatta per lottare contro
l’ideologia islamista. La giovane eletta del Fronte, in aperta polemica, non si è alzata alla
fine del discorso di Hollande, al contrario di tutti i parlamentari riuniti a Versailles.
Intanto si ha notizia di un tentativo d’omicidio di chiara matrice xenofoba. A Cambrai, nel
nord del paese, nella notte tra sabato e domenica, un uomo di origini turche, residente in
Francia, è stato colpito da alcuni colpi di arma da fuoco esplosi da una vettura, bardata
con una bandiera francese. L’uomo, colpito alla schiena, non sarebbe in pericolo di vita.
Secondo gli inquirenti, la vittima, individuata mentre si trovava nei pressi di un kebab,
sarebbe stata scelta esclusivamente per il colore della sua pelle. A confermare questa
ricostruzione sarebbero gli interrogatori di due dei tre occupanti dell’automobile dalla quale
i colpi sono stati esplosi. I due sarebbero giovanissimi. Il terzo passeggero, il presunto
autore materiale del ferimento, si sarebbe suicidato poco dopo l’azione. Difficile non
immaginare che il ferimento rientri in una logica di rappresaglia per gli attacchi di Parigi.
Sempre secondo gli inquirenti, i tre avrebbero potuto non accontentarsi del primo
ferimento e tentare di fare altre vittime.
Nelle ore che hanno preceduto il discorso al Parlamento di François Hollande, l’attenzione
dell’estrema destra si era rivolta contro i migranti. Il fatto che tra gli attentatori presunti di
Parigi ci sia un rifugiato, ha rapidamente attirato l’attenzione di Marine Le Pen e Nadine
Morano. La prima ha parlato di «almeno un migrante tra i terroristi» per ribadire la
necessità di bloccare immediatamente l’arrivo di rifugiati in territorio francese. La scelta del
termine «almeno» non lascia troppi dubbi sulla strumentalità dei propositi che lo seguono.
Dello stesso tenore le riflessioni, a mezzo facebook, di Nadine Morano, l’eurodeputata dei
Repubblicani, in cerca di nuova collocazione politico-ideologica dopo le dichiarazioni sulla
Francia come «paese di razza bianca». Per Morano, ormai scaricata da Sarkozy, la
presenza di un migrante tra gli attentatori deve essere oggetto di un chiarimento da parte
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della Commissione europea. La stessa si augura che i migranti siano accolti nei paesi
limitrofi, con i quali condividano cultura e lingua.
del 17/11/15, pag. 4
Obama: «Sono il volto del male»
Ma poi esclude l’invio di truppe
Il presidente Usa al G20 non cambia strategia: «Se ne avete una
migliore ditecelo»
DAL NOSTRO INVIATO
ANTALYA (Turchia) I massacri di Parigi imprimono una forte spinta ai tentativi americani e
russi di trovare un percorso politico comune per porre fine alla guerra civile siriana, ma
l’impatto emotivo di attentati così feroci provoca spinte e reazioni esasperate nell’opinione
pubblica, nei media e anche in alcune forze politiche che complicano la gestione di questo
delicatissimo processo. Se n’è reso conto ieri lo stesso Barack Obama che, poche ore
dopo aver sbloccato il rapporto con Mosca, raggiungendo un primo accordo sull’auspicata
transizione politica in Siria, alla conferenza stampa conclusiva del G20 è andato a sbattere
contro un muro compatto di domande della stampa, tutte costruite intorno al concetto:
«Perché non cambi strategia?».
Il presidente americano ha ribadito che «l’Isis non è uno stato ma un gruppo di killer», che
è «il volto del male e dobbiamo distruggerlo», in una lotta «non convenzionale», ma ha
anche risposto con molta determinazione, e visibilmente irritato, che non intende cambiare
rotta e che sarebbe un «errore» inviare quantità massicce di truppe in Siria, perché la
strategia militare, politica, economica e di «intelligence» che è stata adottata è la più
appropriata a giudizio degli analisti e dei militari che operano sul campo: «Chi ha piani
migliori di quelli dei nostri capi di Stato maggiore, chi ne sa più dei nostri servizi segreti, si
faccia avanti. Ma con proposte concrete. Non con idee balzane come quella di selezionare
i rifugiati accolti negli Stati Uniti in base alla loro religione», respingendo i musulmani, ha
detto Obama, cercando di spostare l’attenzione dei «media» sul pericoloso orientamento
che sta emergendo in campo repubblicano.
Mentre da Parigi Hollande promette di moltiplicare gli attacchi contro l’Isis e annuncia
nuovi vertici antiterrorismo con Obama e Putin e la mobilitazione del Consiglio di sicurezza
dell’Onu, il presidente americano usa toni meno bellicosi e sottolinea la necessità di
mantenere i nervi saldi puntando sulla soluzione politica.
Scottato dal cattivo esito dei precedenti tentativi di dialogo col Cremlino, Obama presenta
l’intesa sulla Siria, raggiunta sabato nel colloquio con Putin, come un «modesto
progresso». Ma è questo il principale risultato che la Casa Bianca e lo stesso presidente
russo portano via da un G20 che, nonostante il tentativo dei «grandi» del mondo di non
farsi imporre l’agenda da un pugno di terroristi, è stato stravolto dagli attentati di Parigi.
Nessuno si è soffermato sugli impegni presi dei Venti per il sostegno della crescita dopo
che gli Usa avevano avvertito: non basta la forza della nostra economia per garantire la
tenuta della ripresa. E anche di clima si parlerà ormai alla conferenza Onu che si riunirà
proprio a Parigi tra due settimane.
Novità soprattutto da alcuni incontri bilaterali di Putin con vari leader, da Renzi a Cameron.
E uno spiraglio per il cambio di regime a Damasco: il leader russo ha giudicato come
molto positivo l’incontro col presidente turco Erdogan avvenuto subito dopo che
quest’ultimo aveva escluso che per Assad ci possa ancora essere un ruolo nel futuro della
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Siria. Putin ha pure ripetuto di essere pronto a sostenere i gruppi ribelli che combattono
contro l’Isis, anche se ostili al dittatore di Damasco. Impegni che Mosca in passato ha
disatteso, continuando a bombardare solo i nemici di Assad. Da qui la prudenza di
Obama. Che, però, per la prima volta vede davvero la possibilità politica di costruire un
percorso comune col «nemico» Putin.
Massimo Gaggi
del 17/11/15, pag. 4
E ora chi paga le sanzioni?
Turchia. Al G20 tragedia in farsa, i principali sponsor dei jihadisti
(Arabia saudita tra questi) hanno chiesto di congelare gli asset
finanziari del terrore
Giuseppe Acconcia
Il G20 di Antalya è stata una farsa. Ma pensando agli attacchi di Parigi, si è passati alla
tragedia. La lotta al terrorismo ha tenuto banco. Il primo tra i provvedimenti del documento
in nove punti, annunciato in chiusura dei lavori, prevede il blocco degli «asset finanziari»
per i jihadisti.
Eppure dalla Turchia all’Arabia saudita fino alla Francia e agli Stati uniti, al summit in
Turchia si sono seduti allo stesso tavolo i leader dei paesi che negli ultimi anni più di ogni
altro hanno favorito l’ascesa dei gruppi jihadisti attraverso finanziamenti diretti e indiretti.
I provvedimenti contro lo Stato islamico (Is) prevedono poi il rafforzamento della sicurezza
aerea. Verranno incrementati i controlli di frontiera per contenere il numero crescente di
foreign fighters che si uniscono a Is, partendo dall’Europa. Non solo, è stata stabilita la
necessità di ulteriori controlli sulla propaganda jihadista via internet. Il Califfato ha fatto per
mesi ormai di Twitter e della diffusione di video di propaganda la sua base strategica di
campagna per il proselitismo nel mondo.
Durante il summit, il presidente Usa, Barack Obama, ha avuto un incontro bilaterale con il
presidente russo, Vladimir Putin, alla presenza dei rispettivi interpreti. Obama si è
espresso a favore di un allargamento della coalizione internazionale anti-Is in Siria ma si è
detto contrario all’invio di truppe di terra. Ai margini del vertice, il ministro degli Esteri turco,
Mevlut Cavusoglu, ha annunciato che Ankara sta lavorando ad uno scenario in cui alla fine
della fase di transizione in Siria, che dovrebbe durare per i prossimi sei mesi, il presidente
Bashar al-Assad non si ricandidi alle elezioni presidenziali.
Il presidente Recep Taiyyp Erodgan ha annunciato che le autorità turche starebbero per
inviare oltre 10 mila soldati nel Kurdistan siriano (Rojava). La missione dovrebbe partire a
metà dicembre per rafforzare le safe-zone turche in Rojava, create la scorsa estate. In
realtà la strategia di Ankara sta producendo solo prigioni a cielo aperto per i profughi in
fuga dal conflitto. Sembra che ancora una volta, Erdogan voglia far passare la lotta contro
i kurdi come lotta al terrorismo di Is. Il presidente turco è terrorizzato per l’avanzata in Siria
e Iraq delle forze kurde del Partito del lavoratori del Kurdistan (Pkk), del Partito
democratico unito (Pyd) e dei peshmerga iracheni.
La Turchia ha continuato domenica a bombardare decine di basi del Pkk nel Nord
dell’Iraq. La campagna contro il partito di Ocalan è stata avviata lo scorso luglio,
mascherata da lotta all’Is. Tutto questo verrebbe permesso dagli altri paesi della Nato in
nome del contenimento dei flussi di profughi che vorrebbero raggiungere l’Europa. A
questo proposito, il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha annunciato che il prossimo 4
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febbraio si terrà a Londra una conferenza internazionale sull’immigrazione, organizzata dal
premier inglese, David Cameron, con il capo del governo norvegese, Erna Solberg, e
l’emiro del Kuwait, Sabah al-Sabah. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk,
aveva denunciato quanto i raid russi in Siria stiano aumentando il numero dei profughi
kurdi e siriani. «L’unico effetto fin qui degli attacchi russi è l’aumento del numero di
rifugiati», ha detto. Anche ieri alle porte del G20, si sono svolte manifestazioni di
contestazione. Dieci persone erano state arrestate a ridosso della zona rossa nel quartiere
di Belek, sei di loro appartenevano al partito di sinistra Birlesik Devrimci Parti (Partito
rivoluzionario unito).
Domenica, un kamikaze si era fatto saltare in aria durante un raid della polizia a Gaziantep
nel Kurdistan turco, ferendo cinque agenti. La polizia è riuscita ad arrestare un altro
militante. Il blitz era scattato nell’ambito dell’indagine sugli attentati di Ankara del 10
ottobre scorso nel quale sono rimaste uccise 102 persone, rivendicato da Is.
A due passi dal G20, non si sono placate neppure le violenze, in particolare a Silvan e
Nusaybin (Kurdistan turco), dove da giorni vigono misure speciali, incluso il coprifuoco.
Otto sono i morti negli ultimi giorni a Silvan. L’ultimo civile colpito, Abdulkadir Yilmaz, è
morto senza ricevere cure perché gli ospedali erano chiusi e le ambulanze bloccate.
del 17/11/15, pag. 8
La verità scomoda di Putin
“All’Isis soldi da Paesi del G20”
Il leader russo mette in imbarazzo sauditi, Qatar, Emirati e Turchia
Finanziamenti “privati” e complicità nel traffico illegale di petrolio
Maurizio Molinari
«Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20»: Vladimir Putin
sceglie la chiusura del summit di Antalya per far sapere ai leader attorno al tavolo che la
forza dello Stato Islamico è anche in una zona grigia di complicità finanziarie che include
cittadini di molti Stati. Con un colpo di teatro, sono gli sherpa russi a consegnare alle altre
delegazioni i «dati a nostra disposizione sul finanziamento dei terroristi». Si tratta di
informazioni che il Dipartimento del Tesoro di Washington raccoglie dal 2013 ed hanno
portato, nella primavera 2014, a pubblicare un rapporto che chiama in causa «donazioni
private» da parte di cittadini del Qatar e dell’Arabia Saudita trasferite a Isis «attraverso il
sistema bancario del Kuwait».
Il rapporto
Un rapporto della «Brookings Institution» di Washington indica nei carenti controlli delle
istituzioni finanziarie del Kuwait il vulnus che consente a tali fondi «privati» di arrivare a
destinazione «nonostante i provvedimenti dei governi kuwaitiano, saudita e qatarino per
bloccarli». Fuad Hussein, capo di gabinetto di Massoud Barzani leader del Kurdistan
iracheno, ritiene che «molti Stati arabi del Golfo in passato hanno finanziato gruppi sunniti
in Siria ed Iraq che sono confluiti in Isis o in Al Nusra consentendogli di acquistare armi e
pagare stipendi». «Una delle ragioni per cui i Paesi del Golfo consentono tali donazioni
private - aggiunge Mahmud Othman, ex deputato curdo a Baghdad - è per tenere questi
terroristi lontani il più possibile da loro». David Phillips, ex alto funzionario del Dipartimento
di Stato Usa ora alla Columbia University di New York, assicura: «Sono molti i ricchi arabi
che giocano sporco, i loro governi affermano di combattere Isis mentre loro lo finanziano».
L’ammiraglio James Stavridis, ex comandante supremo della Nato, li chiama «angeli
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investitori» i cui fondi «sono semi da cui germogliano i gruppi jihadisti» ed arrivano da
«Arabia Saudita, Qatar ed Emirati».
Arabia saudita
L’Arabia Saudita appartiene al G20 ed è dunque probabile che la mossa di Putin abbia
voluto mettere in imbarazzo il re Salman protagonista di una dichiarazione pubblica dai
toni accesi contro i «terroristi diabolici da sconfiggere». Ma non è tutto perché fra i «singoli
finanziatori di Isis» nelle liste del Cremlino c’è anche un cospicuo numero di turchi: sono
nomi che in parte coincidono con quelli che le forze speciali Usa hanno trovato nella casabunker di Abu Sayyaf, il capo delle finanze di Isis ucciso in un raid avvenuto lo scorso
maggio. Abu Sayyaf gestiva la vendita illegale di greggio e gas estratti nei territori dello
Stato Islamico - con entrate stimate in 10 milioni al mese - e i trafficanti che la rendono
possibile operano quasi sempre dal lato turco del confine siriano.
La Turchia
Ankara assicura di aver rafforzato i controlli lungo la frontiera ma un alto ufficiale
d’intelligence occidentale spiega che «la Turchia del Sud resta la maggior fonte di
rifornimenti per Isis». «Ci sono oramai troppe persone coinvolte nel business nel sostegno
agli estremisti in Turchia - conclude Jonathan Shanzer, ex analista di anti-terrorismo del
Dipartimento del Tesoro Usa - e tornare completamente indietro è diventato assai difficile,
esporrebbe Ankara a gravi rischi interni». Lo sgambetto di Putin è stato dunque anche a
Recep Tayyp Erdogan, anfitrione del sum-mit.
Del 17/11/2015, pag. 6
L’Italia vende caccia al Kuwait
Da lì milioni di dollari al Califfo
Il Kuwait è l’epicentro del finanziamento dei gruppi terroristi in Siria», mentre il Qatar ne
costituisce il retroterra grazie a “un habitat permissivo che consente ai terroristi di
alimentarsi”. Lo sostiene David Cohen, sottosegretario americano per il terrorismo e
l’intelligence finanziaria, citando un rapporto del Dipartimento di Stato del 2013. Dai due
Paesi e dall’Arabia Saudita, per il Washington Institute for Near Policy,l’Isis ha ricevuto
oltre 40 milioni di dollari negli ultimi due anni. Al terrorismo islamista non mancano
benefattori nel Golfo.
E l’Italia che fa? Firma commesse, esporta armi, intasca petrodollari. Quando l’11
settembre Matteo Renzi ha siglato un memorandum d’intesa con il primo ministro
kuwaitiano, Finmeccanica ha registrato un +5,4% in Borsa. Spianava la strada all’acquisto
per 8 miliardi di euro di 28 caccia Eurofighter di un consorzio europeo in cui l’azienda
guidata da Mauro Moretti pesa quasi la metà. La firma definitiva è questione di settimane,
la Difesa ci lavora dal 2012 e la ministra Roberta Pinotti si è recata più di una volta in
Kuwait. Sarà la più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica. Il committente è il
governo del Paese che il il Dipartimento di Stato Usa indica come base dei “finanziamenti
a gruppi estremisti in Siria”.
Del resto, dal 2012 al 2014 il made in Italy ha esportato armi al Kuwait per 17 milioni di
euro. Al Qatar 146 milioni. Come prevede la legge, tutto approvato dal governo.
Proprio il Qatar è stato indicato come il principale finanziatore del Califfato da George
Smiley, nome di copertura di un trafficante d’armi italiano intervistato domenica da Report.
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Ha detto da Londra: “È stato armato in funzione anti Iran, ma poi ci è scappato di mano.
Nel nostro ambiente si sa perfettamente che l’Isis è una creatura dell’Occidente. Anche
l’Italia a sua insaputa ha armato l’Isis, armando la Siria di Assad e addestrando le sue
milizie che poi sono passate all’Isis”. Poi fa il nome di Omaar Jama, nipote dell’ex dittatore
del Puntland in Somalia, accusato di essere il tramite tra “insospettabili che vivono a
Roma” e i terroristi di Al Shabaab, affiliati ad Al Qaida in Africa.
Questo ex studente di Giurisprudenza a Firenze è indagato per reclutamento clandestino
di contractor e traffico d’armi dalla Dda di Napoli. Nel 2007, invece, ha lavorato come
consulente della Spm, riconducibile a Stefano Perotti, accusato di aver pagato benefit
all’ex top manager del Ministero delle Infrastrutture Ercole Incalza in cambio di appalti. È la
vicenda che ha portato alle dimissioni del ministro Maurizio Lupi.
Nella ricostruzione di Report spuntano un campo di addestramento nel Principato di
Seborga, paesino autoproclamatosi indipendente in provincia di Imperia, i palazzi di
Finmeccanica e Giorgio Carpi, indagato per traffico d’armi con i Casalesi e fondatore della
Legione Brenno, una struttura militare segreta nata nel 1993 per operare in Croazia.
È ben più che un’ipotesi che l’Isis sia stato armato e finanziato dalle monarchie del Golfo e
si sia rafforzato con la complicità della Turchia. “L’Unodc (l’agenzia Onu che si occupa di
criminalità e droga, ndr) – spiega Giorgio Beretta dell’Opal (Osservatorio permanente sulle
armi leggere) – stima che il 90% dei traffici illegali di armi proviene dal commercio legale.
Frutto della triangolazione o dell’aver armato gruppi che poi cambiano alleanze”. Dal 2005
al 2012 i vari governi italiani hanno confermato commesse per 375,5 milioni di euro in
Libia (ora a chi sono in mano?). In Arabia Saudita, dove Renzi è appena stato in visita,
esportiamo bombe che per le associazioni pacifiste vengono sganciate contro gli sciiti in
Yemen. L’ultimo carico è partito da Cagliari il 29 ottobre. Per l’autorevole Sipri (Stockholm
International Peace Research Institute), l’Italia è stata la principale esportatrice europea di
armi in Siria dell’ultimo decennio, 131 milioni di euro. Abbiamo rifornito sia Assad, sia
l’opposizione. Dal 2011 le consegne sono sospese, ma aumentano quelle verso i Paesi
confinanti. La Turchia per esempio: da meno di 30 milioni di euro nel 2009 aoltre 85 nel
2014. Difficile pensare che a Istanbul siano diventati tutti collezionisti di armi o che il tiro al
piattello sia diventato lo sport più diffuso.
del 17/11/15, pag. 4
Israele-Svezia, scontro sugli attentati di Parigi
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Il portavoce militare parla di un attacco ai soldati israeliani portato all’improvviso da una
decina di «miliziani palestinesi armati», di altri «attacchi con sassi, molotov e ordigni
esplosivi improvvisati» e di «una vera battaglia durata tre ore». Eppure al termine di
questo ampio attacco armato, che sarebbe avvenuto ieri mattina prima dell’alba nel campo
profughi di Qalandiya, i morti e i feriti sono stati solo palestinesi: Laith Manasra, 20 anni, e
Ahmad Abu al-Aish, 28. Un ragazzo 17enne Yusuf Abu Latifa, anch’egli coinvolto secondo
il portavoce militare negli scontri a fuoco, versa in condizioni disperate. Gli abitanti del
campo profughi hanno una versione dell’accaduto diversa. Non negano che i due uccisi
fossero armati ma, dicono, l’esercito israeliano ha schierato in anticipo numerosi cecchini
nella zona circostante a quella dove un bulldozer militare ha poi demolito la casa della
famiglia di Mohammed Abu Shahin, un palestinese accusato di aver ucciso a giugno un
israeliano. Quando i palestinesi, alcuni dei quali membri delle Brigate dei Martiri di al Aqsa,
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hanno provato ad intervenire, i tiratori scelti hanno colpito e ucciso subito due di loro.
Questo perchè, aggiungono ancora gli abitanti di Qalandiya, le Brigate dei Martiri di al
Aqsa – gruppo armato del movimento Fatah, riapparso con la nuova Intifada a inizio
ottobre – per due volte nei giorni scorsi avevano impedito la demolizione della casa di Abu
Shahin che i militari israeliani intendevano compiere ad ogni costo. Ieri migliaia di persone
hanno portato a braccia le salme, da Ramallah fino nel campo profughi dove sono
divampati nuovi scontri con i soldati in cui sono rimasti feriti altri otto palestinesi.
Israele nega con forza che queste uccisioni, che in alcuni periodi diventano quotidiane, le
demolizioni di case, la confisca di terre palestinesi, la colonizzazione e l’occupazione siano
un fattore di tensione, la ragione dell’Intifada di Gerusalemme. Per questo ieri il governo
Netanyahu ha attaccato, definendole «sconvolgenti per la loro sfrontatezza», le
dichiarazioni della ministra degli esteri svedese Margot Wallstrom secondo cui gli attentati
di Parigi vanno collegati all’insieme di frustrazioni maturate in Medio Oriente, «non ultime
quelle palestinesi». Per il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Wallstrom
«mostra vera ostilità nell’indicare l’esistenza di un legame qualsiasi fra gli attentati di
Parigi» e la questione israelo-palestinese. Wallstrom, che nei mesi scorsi non ha mancato
di rivolgere pesanti critiche anche ai sauditi, ha chiarito di non aver messo in relazione gli
attacchi dell’Isis in Francia con quanto accade nei Territori occupati ma di aver voluto
soltanto sottolineare i problemi enormi che affliggono la regione mediorientale , a
cominciare da quello palestinese. Al governo israeliano però non è bastato. Tra Tel Aviv e
Stoccolma i rapporti sono tesi da quando il governo svedese, primo e unico in Europa, ha
formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina.
Se per il governo israeliano è osceno creare un legame tra il terrorismo che ha colpito in
Francia e l’occupazione dei Territori palestinesi, invece è legittimo descrivere l’Intifada
come una espressione del jihadismo globale. Un’equazione fatta dallo stesso premier
Natanyahu e condannata ieri dalla signora Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo
dell’Olp. «Quelle parole pronunciate da Netanyahu – ha commentato Ashrawi – sono volte
a creare un clima per giustificare il terrorismo di stato che Israele pratica contro il popolo
palestinese. La realtà è che Israele è una potenza occupante e gli israeliani che si trovano
nei Territori occupati sono soldati o coloni che si insediano nella nostra terra…Netanyahu
sa bene che in nessun posto il popolo sotto occupazione è ritenuto responsabile per la
sicurezza degli occupanti». Del clima che si sta creando anche intorno ai palestinesi ne sa
qualcosa Sami Abu Ras, 20 anni, del campo profughi di Nuseirat (Gaza), che ieri ha
scoperto con sgomento che un giornale egiziano, Al Masry Al Youm, ha pubblicato il suo
nome e la sua foto indicandolo come uno dei terroristi che ha compiuto l’attacco a Parigi.
Abu Ras non ha neppure il passaporto palestinese e non è mai uscito dalla Striscia di
Gaza.
del 17/11/15, pag. 1/9
Siamo dentro la guerra
Dopo Parigi. Bisogna rimettere la pace, e non la vittoria, al centro della
nostra agenda politica
Etienne Balibar
Sì, siamo in guerra. O meglio, siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono.
Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, paghiamo il prezzo e portiamo il lutto.
Ogni persona morta, certo, è insostituibile. Ma di quale guerra si tratta?
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Non è semplice definirla, perché è fatta di diversi tipi, stratificatisi con il tempo e che
paiono ormai inestricabili. Guerre fra Stato e Stato (o meglio, pseudo-Stato, come
«Daesh»). Guerre civili nazionali e transnazionali.
Guerre fra «civiltà», o che comunque si ritengono tali. Guerre di interessi e di clientele
imperialiste. Guerre di religione e settarie, o giustificate come tali. È la grande stasis del
XXI secolo, che in futuro — ammesso che se ne esca vivi — sarà paragonata a modelli
antichi, la Guerra del Peloponneso, la Guerra dei Trent’anni, o più recenti: la «guerra civile
europea» fra il 1914 e il 1945.
Questa guerra, in parte provocata dagli interventi militari statunitensi in Medioriente, prima
e dopo l’11 settembre 2001, si è intensificata con gli interventi successivi, ai quali
partecipano ormai Russia e Francia, ciascun paese con i propri obiettivi. Ma le sue radici
affondano anche nella feroce rivalità fra Stati che aspirano tutti all’egemonia regionale:
Iran, Arabia saudita, Turchia, Egitto, e in un certo senso Israele — finora l’unica potenza
nucleare.
In una violenta reazione collettiva, la guerra precipita tutti i conti non saldati delle
colonizzazioni e degli imperi: minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitrariamente,
risorse minerarie espropriate, zone di influenza oggetto di disputa, giganteschi contratti di
fornitura di armamenti. La guerra cerca e trova all’occorrenza appoggi fra le popolazioni
avverse.
Il peggio, forse, è che essa riattiva «odi teologici» millenari: gli scismi dell’Islam, lo scontro
fra i monoteismi e i loro succedanei laici. Nessuna guerra di religione, diciamolo
chiaramente, ha le sue cause nella religione stessa: c’è sempre un «substrato» di
oppressioni, conflitti di potere, strategie economiche. E ricchezze troppo grandi, e troppo
grandi miserie. Ma quando il «codice» della religione (o della «controreligione») se ne
appropria, la crudeltà può eccedere ogni limite, perché il nemico diventa anatema. Sono
nati mostri di barbarie, che si rafforzano con la follia della loro stessa violenza – come
Daesh con le decapitazioni, gli stupri delle donne ridotte in schiavitù, le distruzioni di tesori
culturali dell’umanità.
Ma proliferano ugualmente altre barbarie, apparentemente più «razionali», come la
«guerra dei droni» del presidente Obama (premio Nobel per la pace) la quale, ormai è
assodato, uccide nove civili per ogni terrorista eliminato.
In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle «due
sponde» del Mediterraneo diventano ostaggi. Le vittime degli attentati di Parigi, dopo
Madrid, Londra, Mosca, Tunisi, Ankara ecc., con i loro vicini, sono ostaggi.
I rifugiati che cercano asilo o trovano la morte a migliaia a poca distanza dalle coste
dell’Europa sono ostaggi. I kurdi presi di mira dall’esercito turco sono ostaggi. Tutti i
cittadini dei paesi arabi sono ostaggi, nella tenaglia di ferro forgiata con questi elementi:
terrore di Stato, jihadismo fanatico, bombardamenti di potenze straniere.
Che fare, dunque? Prima di tutto, e assolutamente, riflettere, resistere alla paura, alle
generalizzazioni, alle pulsioni di vendetta. Naturalmente, prendere tutte le misure di
protezione civile e militare, di intelligence e di sicurezza, necessarie per prevenire le azioni
terroristiche o contrastarle, e se possibile anche giudicare e punire i loro autori e complici.
Ma, ciò facendo, esigere dagli Stati «democratici» la vigilanza massima contro gli atti di
odio nei confronti dei cittadini e dei residenti che, a causa della loro origine, religione o
anche abitudini di vita, sono indicati come il «nemico interno» dagli autoproclamatisi
patrioti. E poi: esigere dagli stessi Stati che, nel momento in cui rafforzano i propri
dispositivi di sicurezza, rispettino i diritti individuali e collettivi che fondano la loro
legittimità. Gli esempi del «Patriot Act» e di Guantanamo mostrano che non è scontato.
Ma soprattutto: rimettere la pace al centro dell’agenda, anche se raggiungerla sembra così
difficile. Dico la pace, non la «vittoria»: la pace duratura, giusta, fatta non di vigliaccheria e
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compromessi, o di controterrore, ma di coraggio e intransigenza. La pace per tutti coloro i
quali vi hanno interesse, sulle due sponde di questo mare comune che ha visto nascere la
nostra civiltà, ma anche i nostri conflitti nazionali, religiosi, coloniali, neocoloniali e
postcoloniali. Non mi faccio illusioni circa le probabilità di realizzazione di quest’obiettivo.
Ma non vedo in quale altro modo, al di là dello slancio morale che può ispirare, le iniziative
politiche di resistenza alla catastrofe possano precisarsi e articolarsi. Farò tre esempi.
Da una parte, il ripristino dell’effettività del diritto internazionale, e dunque dell’autorità
delle Nazioni unite, ridotte al nulla dalle pretese di sovranità unilaterale, dalla confusione
fra umanitario e securitario, dall’assoggettamento alla «governance» del capitalismo
globalizzato, dalla politica delle clientele che si è sostituita a quella dei blocchi. Occorre
dunque resuscitare le idee di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti, il che
presuppone una rifondazione dell’Organizzazione – certamente a partire dall’Assemblea
generale e dalle «coalizioni regionali» di Stati, invece della dittatura di alcune potenze che
si neutralizzano reciprocamente o si alleano solo per il peggio.
Dall’altra parte, l’iniziativa dei cittadini di attraversare le frontiere, superare le
contrapposizioni fra le fedi e quelle fra gli interessi delle comunità, il che presuppone in
primo luogo poterle esprimere pubblicamente. Niente deve essere tabù, niente deve
essere imposto come punto di vista unico, perché per definizione la verità non preesiste
all’argomentazione e al conflitto.
Occorre dunque che gli europei di cultura laica e cristiana sappiano quel che i musulmani
pensano circa l’uso della jihad per legittimare avventure totalitarie e azioni terroristiche, e
quali mezzi hanno per resistervi dall’interno. Allo stesso modo, i musulmani (e i non
musulmani) del Sud del Mediterraneo devono sapere a che punto sono le nazioni del
«Nord», un tempo dominanti, rispetto al razzismo, all’islamofobia, al neocolonialismo. E
soprattutto, occorre che gli «occidentali» e gli «orientali» costruiscano insieme il linguaggio
di un nuovo universalismo, assumendosi il rischio di parlare gli uni per gli altri. La chiusura
delle frontiere, la loro imposizione a scapito del multiculturalismo delle società di tutta la
regione, questa è già la guerra civile.
Ma in questa prospettiva, l’Europa ha virtualmente una funzione insostituibile, che deve
onorare malgrado tutti i sintomi della sua attuale decomposizione, o piuttosto per porvi
rimedio, nell’urgenza. Ogni paese ha la capacità di trascinare tutti gli altri nell’impasse, ma
tutti insieme i paesi potrebbero costruire vie d’uscita e costruire argini.
Dopo la «crisi finanziaria» e la «crisi dei rifugiati», la guerra potrebbe uccidere l’Europa, a
meno che l’Europa non dia segno di esistere, di fronte alla guerra.
E’ questo continente che può lavorare alla rifondazione del diritto internazionale, vegliare
affinché la sicurezza delle democrazie non sia pagata con la fine dello Stato di diritto, e
cercare nella diversità delle comunità presenti sul proprio territorio la materia per una
nuova forma di opinione pubblica.
Esigere dai cittadini, cioè tutti noi, di essere all’altezza dei loro compiti, è chiedere
l’impossibile? Forse; ma è anche affermare che abbiamo la responsabilità di far accadere
quel che è ancora possibile, o che può tornare a esserlo.
del 17/11/15, pag. 1/34
Scacco al terrore in quattro mosse
LUCIO CARACCIOLO
IN QUESTA battaglia la vittoria non dipende dai carnefici ma dalle vittime. I terroristi non
possono vincere. Non hanno i mezzi per sopraffarci, per governarci. La bandiera nera non
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sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino
dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla “guerra
santa”.
SE CI FAREMO ipnotizzare dal nemico non perderemo solo la guerra. Molto peggio:
perderemo noi stessi, ovvero quel che resta delle nostre libertà. Se invece sapremo
leggere la cifra di questa sfida e reggere nel tempo agli attacchi con cui i jihadisti
cercheranno di convertirci alla loro barbarie, finiremo per averne ragione.
Conviene perciò chiedersi chi siano e quali progetti abbiano i nostri nemici.
I jihadisti sono umani. Certo, usano tecniche disumane. Molti (non tutti) paiono ubriachi di
fanatismo. Ma non sono insensibili alla fama, al denaro e al potere. Si occupano anzi di
accumularne. In attesa di farsi trovare dalla parte giusta allo scoccare dell’Apocalisse.
L’ideologia da fine del mondo è un formidabile magnete, capace di attrarre non solo
islamisti radicali emarginati nelle nostre periferie estreme, ma anche figli della buona
borghesia europea in cerca di avventura. Persino atei, cristiani, ebrei. A ricordarci quanto
fragili e sempre revocabili siano le fondamenta della nostra civiltà.
Sarebbe ingenuo scambiare la propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi per strategia. Il
califfato universale è un riferimento metapolitico evocato a fini seduttivi da chi sa di non
poterlo avvicinare.
L’obiettivo dello Stato Islamico non è la conquista di Roma, di Parigi o di Washington. È
anzitutto di radicarsi nel territorio a cavallo dell’ormai inesistente frontiera fra due Stati
defunti — Siria ed Iraq — espellendone o liquidandone le minoranze refrattarie al proprio
dominio. A cominciare dagli arcinemici: i musulmani sciiti. Da questo Stato in fieri e grazie
al suo marchio vincente il “califfato” mira ad espandere la propria influenza nel mondo
sunnita.
Nel loro territorio i jihadisti di al-Baghdadi si dedicano a gestire traffici d’ogni genere —
dagli idrocarburi ai reperti archeologici, dalle armi alle droghe e agli esseri umani — i cui
mercati di sbocco sono tutti in Occidente. Quando ci interroghiamo sui loro finanziatori,
alla lunga lista di entità islamiste e petromonarchie sunnite dobbiamo aggiungere noi
stessi.
Di qui alcune conseguenze operative per evitare di suicidarci in questo scontro di lungo
periodo, che ci impone pazienza, freddezza, capacità di assorbire attacchi e provocazioni.
Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo
Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità. Ma non abbiamo
mezzi, uomini e volontà per ingaggiare una grande guerra “stivali per terra” nei deserti
mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di
sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per
generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio.
Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in
generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare. Il nemico del
nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco
e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno
alimentato i seguaci del “califfo”. Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi —
americani e britannici su tutti — hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e
finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano
contribuito a nutrire. Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai
sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In
questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga con
l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista. Infine, è ovvio che su questo scacchiere russi e
iraniani sono risorse, non avversari. Fare la guerra fredda a Putin e la guerra calda al
“califfo”, insieme trattando i persiani da appestati, è poco intelligente.
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Terzo. Serrare le file fra tutti gli alleati sul fronte dell’intelligence e delle polizie. Siamo
lontani da un’effettiva cooperazione. Un esempio per tutti. Il giorno prima della catena di
attentati a Parigi i carabinieri del Ros, insieme alle polizie britannica, norvegese,
finlandese, tedesca e svizzera, avevano messo le mani su una rete di sedici jihadisti curdi
e un kosovaro, dopo un’indagine di cinque anni condotta soprattutto sulla Rete
(“Operazione Jweb”). A coordinare i terroristi era il famigerato mullah Krekar. Non da
chissà quale anfratto mediorientale, ma dal suo carcere norvegese. Appartamento di tre
stanze e servizi, dal quale — grazie ai laschi standard norvegesi — era in costante
contatto in codice via Internet con i suoi diciassette apostoli, e chissà quanti altri. Finché i
partner europei e atlantici continueranno a muoversi ciascuno per suo conto e con i suoi
metodi, sarà arduo prevenire gli attacchi terroristici.
Quarto, ma non ultimo per rilievo. Resistere alle tentazioni razziste, rilanciate da media in
cerca di visibilità. Le equazioni arabo musulmano=terrorista e (peggio) rifugiato=jihadista
oltre che false sono pericolose. Manna per la propaganda “califfale”. E conferma che sul
decisivo fronte della comunicazione spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi.
del 17/11/15, pag. 1/16
La città. “Libri non bombe”, quel cartello che
ora illumina Parigi
Sul monumento della République c’è un foglio che sembra riassumere
quel che è successo e lo spirito della Francia Viaggio nel quartiere delle
librerie dove però non tutti la pensano proprio così
ADRIANO SOFRI
PARIGI
SUL MONUMENTO della République c’è un foglio su cui qualcuno ha scritto “BOOKS
NOT BOMBS”, “Libri non bombe”, e benché l’idea vada da sé, sono due giorni che ci
penso su. Penso a tre variazioni. 1: Libri non bombe. 2: Bombe non libri. 3: Libri e bombe
(o il suo risvolto, Né libri né bombe, che accantoniamo). E siccome sono a Parigi, e a
Parigi vale la pena anche solo per le sue librerie, vado dai librai.
Del resto, non avevo scelta: interpellare fabbricanti e commercianti di bombe è troppo
complicato. È il secondo di tre giorni di lutto, e molte librerie sono chiuse. A Rue de
l’Odéon “Le coupe papier” ha messo sulla sua vetrina antiquaria una pagina scritta a
mano, con una grafia ammirevole (traduzione mia): «La libreria resterà chiusa oggi.
Vogliate scusarmene, ci sono dei giorni così, e specialmente dei giorni dopo». Poco più
avanti è aperta “Amélie Sourget”, e la giovane signora cui chiedo che cosa pensi del motto
è gentilmente interdetta. Naturalmente, dice, io vivo di libri, e di bombe si muore. Esistono
anche libri cattivi? Certo. E bombe buone? Non so, forse necessarie. Spicca in vetrina una
prima versione (1791) di Thomas Paine,
Théorie et pratique des droits de l’homme.
Paine abitava di fronte, come ricorda la lapide che lo dichiara «inglese di nascita,
americano d’adozione, francese per decreto », e lo cita: «Quando le opinioni sono libere,
la forza della verità finisce sempre per prevalere». Là sotto c’è la libreria Guénégaud,
specializzata in caccia, manieri e castelli e storia locale, sono il primo del giorno e non
sono nemmeno un cliente. Il signore che mi riceve è decisamente all’altezza delle
tradizioni custodite dai suoi scaffali, e si sbriga: «Tanto i libri non li legge più nessuno,
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qualche vecchio come lei e me. E le bombe sono mera gesticolazione ». Se vendessi
bombe invece che libri, dice, gli affari andrebbero a gonfie vele. Certo che i libri possono
essere pericolosi, dice, e fa un elenco in cui il Mein Kampf è surclassato da Stalin e Mao e
Fidel. Direi che non diffidi delle bombe, quanto dei bersagli troppo lontani, dal momento
che «i terroristi sono francesi, li abbiamo in casa ». In altre librerie si diffida delle mie
domande, ciò che è comprensibile, e forse c’è una reticenza a esporsi. Sul magazzino
Gallimard sono appiccicate con lo scotch fotocopie di un brano “algerino” di Camus: «È
per questo avvenire ancora inimmaginabile, ma prossimo, che dobbiamo organizzarci e
sostenerci a vicenda. Assurdo e straziante nella tragedia che viviamo è che, per affrontare
un giorno le prospettive a misura del mondo intero oggi noi dobbiamo riunirci
poveramente, in pochi, per chiedere solo che sia risparmiato su un punto solitario del
globo un pugno di vittime innocenti. È il nostro compito, e per oscuro e ingrato che sia
dobbiamo affrontarlo con decisione, per meritare un giorno di vivere da uomini liberi, cioè
da uomini che rifiutano insieme di esercitare e di subire il terrore».
È chiusa la libreria scientifica che espone le opere di Muhammad Ibn Musa Al-Khwarizmi,
cui Oriana Fallaci riconobbe di aver dato il nome all’algoritmo, ma negò l’invenzione dello
zero… Al Luxembourg, il libraio di “Thierry Margo” pensa che i libri facciano del male
quando i loro autori sono malvagi. Dei bombardamenti su Raqqa non sa dire che efficacia
abbiano, ma sa che sganciare libri su una banda di invasati che ti assaltino non è una gran
risorsa: «Il libro può proteggerti solo quando abbia una rilegatura solida, e stia nella tasca
interna, proprio all’altezza del cuore». La conversazione più fervida ci aspetta
naturalmente dai bouquinistes del Lungosenna. Mi infilo in una discussione in corso fra
intenditori, si direbbe: citano il ponte d’atterraggio troppo corto della portaerei Mistral, i
favolosi contratti di vendita dei Rafale all’Egitto che non ha un soldo per pagarli... Loro
sono convinti che di libri e di bombe ci sia bisogno, e «peggio per i tempi in cui c’è sempre
più bisogno di bombe, come i nostri». La riprova?, dice un Guillaume. «Guarda come sono
crollati i prezzi dei libri, e come crescono i prezzi delle bombe». Manuel, cui i lunghi
pomeriggi di molto vento e pochi clienti hanno ispirato pensieri sistematici, trova che il
mondo è infeudato agli americani fin dal Giappone degli anni ’30, e che «la Francia è
sempre indietro di una guerra». Libri non bombe è un programma ideale, dice la signora di
un “Gibert Joseph”: c’è un’umanità che ama i libri, e una che si tramuta in bombe per farsi
esplodere e uccidere l’altra umanità. Ho l’impressione, dico, che le bombe cui il cartello
pensa siano quelle “occidentali”. Quelle di Raqqa di ieri. «Sì, credo di sì. Si fa fatica a
rassegnarsi all’uso delle armi, e i bombardamenti aerei sembrano la quintessenza della
violenza»». E le bombe che fermarono lo Stato Islamico che faceva strage di yazidi e
cristiani e arabi renitenti? Non ne so abbastanza, dice. Fa paura l’espressione “danni
collaterali”, ma i civili colpiti per errore (quando è un errore, e non un crimine, come per
l’ospedale di Kunduz) sono altra cosa dalla scelta dei terroristi: per loro i giovani del
Bataclan, le persone del Petit Cambodge, non sono vittime collaterali, sono il bersaglio
scelto e cercato. D’altra parte è persuasa che esistano i cattivi libri, e non solo i cattivi usi
dei libri. Il Mein Kampf che esce dal vincolo dei diritti è citato da tutti i miei interlocutori, e
del resto quei vincoli non gli hanno impedito di essere, insieme agli infami “Protocolli degli
Anziani di Sion”, uno dei rarissimi testi occidentali avidamente letti nei dispotismi islamici.
Vorrei chiederle altre cose, e magari parlarne con chi ha compilato quel foglio: “Books not
bombs”. Anche l’espressione “religioni del Libro” è largamente equivoca, non trova? E
andrebbe completata con quella “religione dei libri”, con la minuscola, non trova? Perché
non diventi superstizione di un libro solo, e lo legga senza immaginargli un contesto? Il
Corano tenuto alto mentre l’altra mano impugna il coltellaccio è più vicino a un libro o a
un’arma?
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La terza versione allora? “Libri e bombe?” Preferirei di no, li terrei separati: se non altro
per l’evocazione di quel losco precetto per l’italiano, cioè il fascista, perfetto, “Libro e
moschetto…”.
del 17/11/15, pag. 1/13
Tra i bimbi (sconvolti) di Parigi
di Gian Antonio Stella
Federico, 10 anni, «è rimasto fino alle 2 di notte a guardare i telegiornali. Mi ha detto:
“Mamma, ti prego, torniamo in Italia”». I maestri, che hanno ripreso le lezioni dopo il
weekend, raccontano di essersi trovati davanti bambini sconvolti.
Gabriele e i tre bambini che in un terrificante video dell’Isis sparano alla nuca a dei
prigionieri hanno una cosa in comune. L’età. Anzi, i tre piccoli addestrati a uccidere dai
macellai dello Stato Islamico hanno forse uno o due anni di meno. E così anche il
figlioletto di Khaled Sharrouf, il jihadista australiano che dopo aver trascinato tutta la sua
famiglia in Siria ha postato sul web la foto del bambino che, col berrettino da baseball, una
maglietta e un orologio di plastica al polso regge a due mani la testa di un uomo
decapitato.
Nulla dà l’idea dell’abisso tra i mondi lontanissimi di questi ragazzini quanto la reazione di
Gabriele e degli altri alunni delle elementari e delle medie della scuola «Leonardo da
Vinci» a Parigi alla mattanza di venerdì sera. «Per due giorni, dopo il massacro al
Bataclan e negli altri locali e localini presi d’assalto non c’è stato verso di portarlo fuori di
casa — racconta Stefania, la madre —. Sulle prime avevo pensato fosse meglio che non
vedesse, non sapesse. Poi ho capito. Era inutile. Sapeva già. Ne abbiamo parlato a lungo,
a casa. Se vuoi educarlo alla vita un figlio lo devi anche mettere davanti al tema della
morte. Dell’ingiustizia. Della violenza. Ma come lo spieghi, a un bambino, quello che è
successo? Domenica gli ho detto: “Ci facciamo un giro in bici?” Macché, neppure il giro in
bici».
Federico quella sera, a dieci anni, «è rimasto su fino alle due di notte a guardare i
telegiornali — racconta Laura —. Era choccato. La prima cosa che mi ha detto è stata:
“Mamma, torniamo in Italia. Ti prego, torniamo in Italia”. Domenica abbiamo fatto una
merenda con un po’ dei suoi amici. Abbiamo parlato e parlato. Cercando di far loro
riassorbire il colpo». «Sabato sera, con un gruppo di genitori, siamo usciti a prendere una
pizza. Proprio perché i bambini non elaborassero da soli tutte le notizie e le paure da cui
erano bombardati — spiega Elisabetta Zardini, che dell’Associazione Genitori è la
presidente —. Mio figlio Nicolò, a dieci anni, è molto “presente”. Ieri, dopo i
bombardamenti, voleva sapere: “Ma adesso vengono e ci bombardano loro?” Abbiamo
cercato di fare quello che potevamo: spiegare ai bambini che devono stare attenti a questo
e a quello. Ma senza far loro venire gli incubi notturni. Sarebbe peggio».
Per aiutare i padri e le madri in questi giorni complicatissimi, dove devono tenere insieme
l’obbligo di mettere i figli in allarme e insieme alleggerire le loro paure, l’Associazione ha
invitato tutti a procurarsi tre giornalini: Le petit quotidien per i piccoli, Mon quotidien per i
ragazzini e L’Actu (sta per «l’attualità») per gli adolescenti. Parlano della mattanza, ma
con le parole giuste. Maestri e maestre delle elementari della sede di Avenue de Villars,
tornati a scuola ieri, raccontano di essersi trovati davanti bambini smarriti. Alcuni sotto
choc. Altri quasi ignari di quanto era successo. «Qualche raro genitore ci aveva anzi
raccomandato di non affrontare il tema — spiega Giuseppe, uno degli ultimi maestri
maschi (ricordate lo straordinario maestro di Cuore o Giovanni Mosca che conquista la
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classe abbattendo con la fionda un moscone?) di un’antica e gloriosa specie —. Ma come
puoi isolare i bimbi in un mondo perfetto?».
Radunati in palestra, gli scolaretti del «Leonardo da Vinci» hanno parlato a lungo di quanto
era successo la sera di venerdì. «Certo, abbiamo cercato di usare il linguaggio giusto ma
era impossibile far finta di nulla — spiega Nicoletta —. Tanto più che una bambina che
abita vicino all’Opera, quella sera, era stata evacuata con tutta la famiglia. Insomma, una
cosa è vedere certe scene in televisione, un’altra viverle. E lei l’aveva vissuta
direttamente, la paura».
Certo è che nei temi in classe fatti ieri mattina su quella sera di spari e sirene e televisioni
accese sulle edizioni speciali dei telegiornali, ogni bambino ha elaborato la storia a modo
suo. «C’è chi è rimasto colpito soprattutto dalla donna aggrappata alla finestra al Bataclan,
chi è andato oltre le immagini tivù ricostruendo nella sua immaginazione anche cose mai
viste — spiega la maestra Maia —. Un bambino ha scritto di essersi impressionato
vedendo “tutti morti dentro al Bataclan”. Cosa impossibile perché quell’immagine non è
mai uscita».
Maestri e maestre spiegano di aver recuperato per i piccoli, ad esempio, alcune frasi di
Tiziano Terzani sul rischio in certi momenti di «risvegliare i nostri istinti più bassi» e di
«aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi e a provocare quella cecità delle
passioni che rende pensabile ogni misfatto». O una di Socrate tratta dai Dialoghi di
Platone: «Non bisogna restituire ingiustizia né bisogna far del male ad alcuno degli uomini
neppure se, per opera loro, si patisca qualsiasi cosa» .
A farla corta: guai allo spirito di vendetta? «Noi parliamo coi bambini e non possiamo che
spingerli, come maestri, a credere nella forza della parola — risponde Francesca —. Ma
direi le stesse cose anche a mio nipote, a un amico, a un estraneo che la pensa
diversamente». Reazione? «Sulle prime i bambini erano attentissimi. Poi hanno
cominciato a essere insofferenti. Volevano parlare d’altro, avevano bisogno di parlare
d’altro». Il minuto di silenzio, però, l’hanno vissuto con la consapevolezza solenne di un
adulto: «Erano molto colpiti dal fare parte di una cosa corale di tutti i francesi. L’attesa è
stata molto densa. Il nostro minuto di silenzio è stato lungo lungo».
Fabio ha dieci anni e la sera di sabato sua madre, Carola, ha deciso che la famiglia
doveva uscire con degli amici come preventivato proprio perché «era necessario tagliare
subito l’aria. Non possiamo vivere nel terrore. Dieci mesi fa eravamo andati insieme alla
manifestazione dopo Charlie Hebdo. Dopo quello che è successo mi ha chiesto: ma come,
mamma, ancora? Ancora?». Ieri, a scuola, ha fatto un disegno: un kalashnikov con una
croce sopra. Basta .
del 17/11/15, pag. 14
I bambini. A scuola con lo psicologo
“Maestra, i terroristi torneranno?”
Poliziotti fuori degli istituti per il ritorno a lezione dopo la strage. I
presidi che ripetono: “Libertà, uguaglianza e fraternità” E le domande
dei ragazzi: “Perché i jihadisti non amano il calcio e il rock?”
ANAIS GINORI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI.
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Nell’arco di un weekend è diventato quasi normale, non sembra più strano vedere dei
poliziotti fuori dalle scuole, eppure venerdì non c’erano, scoprire sul portone dell’istituto un
triangolo rosso, “alerte attentat”, rimosso a febbraio, chissà quando lo toglieranno di
nuovo, e poi trovarsi nel diario di classe un avviso. In caso di attacco terroristico, non
andate a cercare vostro figlio, aspettate istruzioni. Non telefonate, rischiate di intasare le
linee. Bisogna abituarsi in fretta, perché i bambini hanno paura se vedono che i grandi
sono spaventati.
E dunque lasciarli al mattino come se niente fosse, salire sul metrò per andare al lavoro,
fermarsi a prendere una birra in un café, prenotare un cinema, comprare un biglietto allo
stadio. E’ un dovere anche per loro, il piccolo esercito di dodici milioni di alunni che ieri
mattina è tornato in classe, i primi a dover imparare a convivere con la minaccia, figli degli
anni zero, una generazione nata tra le Torri Gemelle e gli attentati di Madrid o Londra, o
quelli un po’ più grandi, che hanno avuto il tempo di conoscere il mondo di prima e
potevano essere al Bataclan o al Petit Carillon quattro giorni fa. Il governo ha radunato gli
studenti della Sorbona dietro a François Hollande e Manuel Valls durante il minuto di
silenzio per il lutto nazionale.
Nello stesso momento, in una scuola elementare del Marais, a poche centinaia di metri da
dove sono avvenuti gli attacchi, il preside parla nella palestra a duecento alunni,
chiedendo ai bambini di ricordarsi il motto della République all’ingresso. «Dobbiamo
difendere la nostra libertà di ascoltare musica, di andare a vedere una partita,
passeggiare. Dobbiamo difendere l’eguaglianza tra tutti, quale che sia il colore della pelle
o la religione». Poi si sofferma sulla parola Fraternità. «Significa – dice il preside, Pascal
Duchenois – guardare gli altri come se fossero un fratello o una sorella». Si chiama anche
umanità. Il responsabile della scuola Neuve Saint-Pierre non ha dovuto cercare molto per
preparare il discorso, ha ripreso il testo che aveva già letto per gli attentati di gennaio a
sua volta ispirato dal 2012, quando ci fu l’attentato davanti alla scuola ebraica di Tolosa, il
battesimo di una nuova stagione di orrore.
La Francia cerca di adattarsi, deve farlo. Il terrorismo spiegato ai bambini è ormai
diventata una formazione obbligatoria per il corpo docente. Qualche ora dopo gli attacchi
di venerdì, molti insegnanti hanno messo su Twitter suggerimenti con l’hashtag
#educattentats. «L’importante è mettere parole su ogni paura» ha scritto una
professoressa. Il ministero dell’Istruzione ha chiuso i licei sabato ma ha pubblicato sul sito
indicazioni precise su come parlare ai ragazzi al ritorno in classe di lunedì. Il timore era
che si potessero ripetere gli incidenti di gennaio, quando pochi ragazzi non avevano
rispettato il minuto di silenzio con commenti polemici. «Occorre fare discorsi che
promuovono la convivenza e non spingono allo scontro fra comunità» ha spiegato il
ministero. E così i bambini partecipano a un dibattito preparatorio dell’omaggio alle vittime
insieme agli insegnanti, facendosi spiegare cosa sono i jihadisti, perché attaccano la
Francia. Alcuni bambini si concentrano sui dettagli. «Quanti sono i terroristi?» chiede
Chloé con insistenza. «Quanti? Sette, otto?». Célestin vuole sapere se «avevano il
bazooka». Sasha era allo stade de France ma «non ha sentito niente».
Nella scuola media Charlemagne, i ragazzi sono entrati a scuola un’ora dopo per
permettere ai professori di fare un riunione con gli psicologi. «Siamo in guerra?» domanda
un bambino di undici anni alla professoressa di Storia. «Così ha detto il Presidente
Hollande». Il preside ha definito i terroristi «barbari invidiosi delle nostre libertà» mentre la
responsabile educativa è stata meno retorica. «Non ci sono parole per commentare quello
che è successo». Non è facile raccogliere la complessità del mondo in frasi dirette,
comprensibili a tutti. «Cerchiamo di far esprimere i ragazzi, lasciando risposte aperte, in
modo che si facciano la loro opinione» racconta Anne Doustaly, professoressa di Storia al
liceo Charlemagne.
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Domani nelle scuole sarà distribuita un’edizione speciale del Petit Quotidien, il giornale dei
piccoli, fenomeno editoriale francese quasi unico per qualità editoriale e diffusione. La
redazione ha confezionato il numero insieme a tre bambini delle elementari su temi come:
«Perché i terroristi non amano il calcio e il rock?», «Erano amici di quelli che hanno ucciso
Charlie Hebdo?». Anche Libération ha fatto un’edizione dedicata ai bambini, Le Petit Libé,
insieme a una psichiatra dell’infanzia, riprendendo altri interrogativi sulle motivazioni dei
terroristi, su cosa cambierà nella vita di tutti i giorni.
Spesso i bambini ripetono commenti degli adulti. «Mia mamma – ha detto Roxane - mi ha
spiegato che prima l’-I-slam non era così, le donne non portavano il velo». Doryann
sostiene che i jihadisti hanno «vomito nel cervello». A scuola molto alunni sono arrivati
senza aver troppo discusso con i genitori che forse hanno tentato di proteggerli. «Ma non
vivono su Marte, è sempre meglio parlare e fare esprimere le paure» ripetono gli psicologi.
Essere sinceri per quanto possibile, anche quando bisogna rispondere a un retropensiero
scacciato dagli adulti e che i bambini esprimono con la forza della loro innocenza:
«Torneranno?».
del 17/11/15, pag. 11
La vita di strada, il carcere, l’islamizzazione Perché l’estremismo recluta
chi si sente escluso
Piccoli reati e sfide alla polizia così nasce
l’odio per lo Stato
RENZO GUOLO
TRA GLI UOMINI del commando di Parigi c’è anche Ismail Omar Mostefai, uno degli
attentatori suicidi del Bataclan. La sua biografia mostra una traiettoria simile a quella di
altri giovani che aderiscono allo jihadismo. Aveva precedenti penali per guida senza
patente, furti, violenze e oltraggio, per i quali era stato condannato. Un tratto, quello del
delinquente comune, già presente in Mohammed Merah, il killer di Tolosa, i fratelli Kouachi
e Amedy Coulibaly, autori della strage di Charlie Hebdo e del market kosher di Parigi. E
come in Mehdi Nemmouche il protagonista dell’attacco al Museo ebraico di Bruxelles.
Anche se questi “antesignani” di Mostefai avevano conosciuto anche il carcere per lunghi
periodi.
ll percorso dei giovani verso la radicalizzazione è, infatti, scandito anche da precise tappe
legate alla devianza: la piccola delinquenza, la trasformazione in “clienti fissi” della polizia;
la galera; la reislamizzazione, anche dietro le sbarre; talvolta il viaggio nei teatri della jihad.
Infine la scelta di imbracciare il kalashnikov o di farsi esplodere cercando nel “martirio” il
riscatto di vite disperate in nome di un ideale “superiore”.
Del resto, la vita di strada espone non solo al contatto quotidiano con la criminalità i traffici
illegali, dallo spaccio di stupefacenti alla ricettazione, dai furti alle aggressioni a scopo di
rapina; ma anche ai continui controlli di polizia, dei cui commissariati i giovani diventano
presto “clienti fissi”. Anche perché dopo la svolta nella politica criminale francese negli
anni Novanta, i ragazzi di banlieue sono tenuti sotto costante pressione dalla polizia. Non
è casuale che il reato spesso loro contestato sia quello di resistenza e oltraggio a pubblico
ufficiale. Un tipico “reato d’onore” prodotto delle tensioni di strada. Un meccanismo a
spirale che, da un lato, conduce a una fortissima conflittualità con la polizia, che a molti
banlieusards appare il solo volto dello Stato conosciuto nelle periferie; dall’altro, a
un’inflazione di procedimenti penali e amministrativi sia per oltraggio e resistenza, sia per
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violenza illegittima da parte degli agenti, accusati dai fermati di eccedere nell’uso della
forza. Le “infrazioni nei confronti dei depositari della forza pubblica” sono la forma della
quotidiana conflittualità della popolazione giovanile delle periferie nei confronti dello Stato.
La possibilità per i poliziotti vittime di offese verbali e fisiche da parte di fermati o arrestati
di costituirsi parte civile, introdotta per accrescere le garanzie giurisdizionali degli uomini in
divisa, ha accentuato la conflittualità tra giovani e agenti. La personalizzazione di una
relazione originariamente concepita tra individuo e Stato, esaspera la contrapposizione tra
banlieusards e polizia. Anche perché i giudici di sorveglianza impongono risarcimenti
ritenuti troppo onerosi, vissuti come forma di ingiustizia. Il loro ammontare li spinge a
procurarsi il denaro con ogni mezzo, anche mediante condotte illecite. Una spirale che fa
lievitare ulteriormente il tasso di devianza, già molto elevato.
I processi per oltraggio e resistenza, trasformano , in assenza di altre arene discorsive, le
aule di tribunale in surrogati di spazio pubblico. L’aumento di quei reati mostra come sulla
giustizia penale si scarichi, in una logica di supplenza istituzionale, la gestione della
conflittualità sociale tra popolazione giovanile delle periferie e lo Stato. Ma in questi
percorsi giudiziari, che si concludono, spesso, in maniera sfavorevole per loro, i giovani si
politicizzano. Davanti alla legge, la loro identità assume i tratti della vittima dell’ingiustizia.
Una vittimizzazione fondata sulla convinzione che l’essere “arabi” o “africani”, e comunque
musulmani, ne facciano cittadini con diritti affievoliti. Considerazione che inasprisce il loro
risentimento nei confronti della République.
E una volta che il risentimento diviene incontenibile, è facile che quei giovani si
radicalizzino e decidano di abbracciare un’ideologia che offre loro la possibilità di
rappresentarsi come implacabili “giustizieri” di un sistema che essi , anche dopo
quell’esperienza, giudicano “intimamente corrotto”.
del 17/11/15, pag. 3
Molenbeek, quartiere crocevia tra
integrazione e radicalizzazione
Bruxelles. Periferia poverissima a pochi minuti dal centro città
Gabriele Annichiarico
BRUXELLES
A soli 10 minuti a piedi dalla centralissima Grande Place, dove turisti di ogni nazionalità
passeggiano fra le boutique di cioccolato, le baraque à frite e le affollatissime birrerie, si
accede nelle vie del quartiere di Molenbeek. Una delle più povere fra le 19 comuni che
compongono la città di Bruxelles-Capitale, con una popolazione che sfiora i 100 mila
residenti, in gran parte di origine marocchina, con il reddito pro-capite fra i più bassi del
Belgio e con un tasso di disoccupazione giovanile fra i più alti d’Europa (intorno al 40%).
Un angolo di città poco frequentato dagli abitanti di Bruxelles, anche per la sua pessima
reputazione di quartiere «poco raccomandabile» e sede di ogni traffico illegale. Non ultimo
come luogo di reclutamento dei foreign fighters, come la stampa belga sembra confermare
in questi giorni.
<TB>Il canale fluviale della città, linea di demarcazione geografica e sociale della città,
traccia le due Bruxelles. A sud il centro turistico, il quartiere europeo e le ricche comuni
che lo circondano, piene di caffè, di ristoranti, di cinema e di teatri. A nord i quartieri più
poveri, a forte concentrazione d’immigrati, soprattutto di lingua araba, con i caffè di
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quartiere, spesso frequentati da soli uomini, le macellerie halal e lo spettro della
delinquenza, di cui naturalmente Molenbeek è tristemente capofila.
Un comune in cui l’attaccamento alla tradizione d’origine e il senso d’appartenenza in seno
alla realtà belga, fortemente multi-culturale, multi-linguistica e cosmopolita, convivono e si
sovrappongono. Una realtà sociale in cui radicalizzazione e integrazione hanno creato una
rete associativa solida e vivace, capace non solo di creare lavoro sui temi
dell’integrazione, ma anche di valorizzare quella mixité sociale che caratterizza un po’ tutto
il tessuto urbano e sociale della città di Bruxelles.
<TB>Non è forse un caso che la storia di Molenbeek sia stata caratterizzata da grandi
flussi migratori. Polo industriale a cavallo fra XIX e XX secolo, fra i più importanti della
capitale belga, e per questo luogo di incontro delle due comunità linguistiche nazionali,
quella franconfona e quella fiamminga. Luogo d’accoglienza di «agitatori politici» e di
anarchici (spagnoli, italiani e soprattutto francesi) in esilio dai paesi d’origine. Infine, sede
della massiccia migrazione di lavoratori e operai di origine nord africana, soprattutto
marocchina in seguito agli accordi del 1964 fra il governo del Marocco e quello del Belgio,
per favorire l’afflusso di lavoratori da impiegare nei settori meno specializzati.
È passato appena un anno dalle celebrazioni pubbliche dei 50 anni dell’immigrazione di
origine marocchina (1964–2014), che hanno dipinto Molenbeek come esempio di un
processo d’integrazione culturale di successo. I fatti recenti sembrano però aver ribaltato
la realtà. Le immagini che ci mostrano una Molenbeek blindata, invasa dalle forze
dell’ordine alla ricerca di presunte cellule terroristiche autrici degli attentati di questi giorni
a Parigi, mortificano la comunità araba, suo malgrado sotto gli occhi dei riflettori. Gli atti di
denuncia e di sgomento verso i recenti attacchi terroristici sono convinti e unanimi, ma
spesso confinati alla sfera privata e raramente a quella pubblica.
Un atteggiamento che rischia di essere frainteso come un implicito atto di favoreggiamento
anche solo morale, ma che in realtà nasconde spesso un senso del pudore, a volte forse
vera e propria vergogna, da parte di quelle comunità che hanno duramente lavorato per
conquistare diritti e benessere sociale.
<TB>Il legame con i tristi fatti di questi giorni e il territorio di Molenbeek sembrano mettere
in discussione il processo d’integrazione tout court.
Ad essere omessa è la realtà quotidiana di queste periferie sociali, piuttosto che
geografiche, costrette a fare i conti con la stigmatizzazione culturale, nonché con le
politiche di austerità che in Belgio iniziano lentamente a farsi sentire, soprattutto nelle
fasce più deboli della società. Le realtà come quella di Molenbeek sembrano soffrire
particolarmente questa condizione, fra nuove forme di povertà, tagli alla spesa pubblica ed
un processo di gentrification di grandi proporzioni che ne sta completamente
compromettendo il tessuto urbanistico e sociale. In questo panorama a soffrire
maggiormente sono proprio quelle giovani generazioni, facilmente affascinate dalla
retorica cosiddetta integralista.
Del 17/11/2015, pag. 5
Sei milioni di islamici che si sentono in
trappola
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Imbarazzo e rabbia per i fedeli della Capitale lontani dalla violenza di
Daesh
Il cielo di Parigi è tornato quello grigio, un po’ cupo, dei suoi autunni, quasi un segnale ai
suoi straziati abitanti, un invito cioè a ricominciare, poiché la vita continua, e non si deve
cedere al ricatto dei terroristi che vogliono annichilirci con la paura. Il traffico è di nuovo
esasperante, le vie brulicano di passanti, in place de la République prosegue il
commovente pellegrinaggio per ricordare le vittime della carneficina. All’angolo con il
bistrot La Taverne incrocio un magrebino, ha un fiore in mano, si dirige verso il centro
della piazza. Ma ho l’impressione che si senta a disagio. O forse è solo una mia
suggestione. Dettata dai ricordi. Dal confronto. Col dopo Charlie Hebdo, quando due
milioni di parigini invasero il centro della città e resero grandiosa la manifestazione di
quella luminosa domenica 11 gennaio, una mobilitazione straordinaria in difesa della
libertà di parola, che è poi la base e il fondamento dei diritti umani.
Ecco, quel pomeriggio vidi sfilare una significativa e orgogliosa presenza della comunità
musulmana francese, a condividere il messaggio di Je suis Charlie, a rivendicare il diritto
di avere opinioni e di poterle esprimere. I giovani spiegavano perché erano lì, in quanto
francesi di fede musulmana, uno di loro mi disse: “Non voglio che si faccia amalgama,
perché non c’è niente in comune tra i musulmani che praticano la religione in pace e i
terroristi che uccidono in nome di Allah”. Il ragazzo si chiamava Aly, studente liceale di
sedici anni, veniva da Neuilly, marciava assieme ai rappresentanti della comunità dell’Île
de France “per manifestare contro il terrorismo”. Quanti cartelli venivano issati sopra la
folla, “Islam=pace”, “siamo cittadini francesi”, “l’Islam è innocente, è religione di pace”, “no
all’islamofobia”. Oggi la solidarietà musulmana è espressa alla spicciolata, mentre a livello
ufficiale è densa di forti prese di posizione, in cui si tasta lo sforzo di voler rassicurare i
francesi, non solo denunciando “attacchi odiosi e abietti” (CFCM, Consiglio francese del
culto musulmano) ma rassicurandoli sui valori dell’Islam, agli antipodi di quelli predicati da
Daesh, lo Stato del Califfato. Traspare, comunque, grande imbarazzo e rabbia, oltre che
dolore, costernazione. Il timore più diffuso è la consapevolezza che le comunità
musulmane vengano “amalgamate” nel pensiero comune a quei demoni che hanno ucciso
in nome di un radicalismo religioso “ipocrita”. Ma anche consapevolezza, come spiega
Abdelali Mamoum, teologo ed imam di Seine-et-Marne, che in certi luoghi di culto si
accolgono gruppuscoli capaci di reclutare i giovani e di radicalizzarli. Un fenomeno che le
autorità governative hanno faticato a controllare e circoscrivere: dal 2012, 40 imam sono
stati espulsi per aver esternato incitamenti all’odio. Dall’inizio del 2015, dopo i fatti di
Charlie Hebdo, ci sono ulteriori 22 provvedimenti in corso d’istruzione.
Si sentono in trappola, i sei milioni di musulmani francesi. Tanto che Tareq Oubrou, rettore
della moschea di Bordeaux, ha appena lanciato un appello: “Le istituzioni musulmane
devono parlare, manifestarsi (…) non lasciare che quella gente confischi la religione”. Mi
dice un algerino che lavora al concierge di un albergo del quartiere Montmartre: “Ci si
sente addosso la diffidenza della gente. La tensione è molto alta, soprattutto nelle zone di
maggiore crisi economica”. Laddove si sono manifestate le “fratture francesi”, come
sostiene il geografo e sociologo Christophe Guilluy. Per capire quello che è successo,
uscendo dalla cronaca, bisogna analizzare alcune problematiche. La prima delle quali è il
fallimento del modello scolastico. Ogni anno 120mila giovani non concludono gli studi
superiori: sono soprattutto figli di ultima immigrazione. Le biografie dei terroristi francesi si
assomigliano in modo impressionante. Non hanno terminato gli studi. Sono rimasti
disoccupati. Hanno avuto a che fare con la legge: chi guidava senza patente, chi per
spaccio di droga. Hanno vissuto in case popolari delle cinture periferiche, o in paesini dove
la crisi morde. Il “filtro” che in passato aveva permesso l’integrazione degli immigrati coi
francesi è saltato.
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Ogni comunità vive ignorando le altre, o lottando con esse. Il percorso identitario dei
terroristi ha tappe simili: la moschea, o la prigione. Lì si sono fatti indottrinare. Lì gli hanno
detto che il loro ruolo era segnato dalla volontà di Allah, e che bisognava combattere i
miscredenti. Non avendo difese culturali e sociali – il terrorista Mehdi Nemouche
dell’attentato al museo ebraico di Bruxelles aveva comprato le Coran pour les nuls, ossia il
Corano per i negati – hanno scelto il loro destino. Poi sono partiti in Siria o in Iraq dove gli
hanno insegnato a come farsi esplodere.
del 17/11/15, pag. 9
Ventimila vittime fra i musulmani “Ci siamo
anche noi”
Gli islamisti fanno soprattutto strage nei loro Paesi E là i filo-occidentali
si sentono soli. Anche sul Web
Giordano Stabile
Hollande l’ha detto nel suo discorso di ieri. Non è uno scontro di civiltà. Perché
l’estremismo jihadista non ha niente di civile. I Paesi musulmani lo ripetono ogni volta. «Le
prime vittime del terrorismo islamista siamo noi». I numeri danno loro ragione. I morti
islamici per mano di islamisti, soltanto nel 2015, sono oltre ventitremila. I morti in Europa in
attacchi jihadisti sono 148 (Parigi, Copenaghen, Parigi). Più i 224 russi uccisi sul Sinai
nell’attentato al volo da Sharm el Sheikh a San Pietroburgo e i turisti occidentali al museo
del Bardo di Tunisi (21) e sulla spiaggia di Sousse (38). Centinaia di vittime innocenti che
ci stracciano il cuore. Ma dall’altra parte ce ne sono decine di migliaia (24.517 nel 2014 nei
Paesi a maggioranza islamica, secondo il Gtd) che passano e scompaiono rapidamente
nel flusso di notizie sui media occidentali.
Beirut come Parigi
I cittadini dei Paesi islamici, quelli più colti, che parlano lingue europee e ci seguono, si
sentono feriti. I social media hanno accentuato questo senso di differenza di trattamento.
Da venerdì, su Twitter, il dibattito fra analisti e blogger del mondo musulmano gira attorno
a questo. Da Beirut la reporter televisiva Jenan Moussa ha cominciato a postare le foto
delle vittime, 44, degli attacchi kamikaze condotti dall’Isis il giorno prima di Parigi, con gli
stessi gilet imbottiti di esplosivo e bulloni di Parigi. Studentesse, bambini, padri di famiglia.
E si chiedeva perché non avessero lo stesso impatto di quelle che arrivavano dalla
Francia.
Certo. Quando il nemico ti colpisce in casa è diverso. Libano, Siria, Iraq, Afghanistan,
Pakistan sono percepiti in Europa come lontani e in guerra permanente. Ed è vero che il
grande conflitto civile fra sciiti e sunniti, paragonato alla Guerra dei Trent’anni europea fra
cattolici e protestanti, sta massacrando il Medio Oriente dal 1980 senza interruzioni. Ma è
anche vero che il mondo della globalizzazione è piccolo. Il conflitto non è più in un mondo
lontano. Se la Siria va in pezzi milioni di profughi arrivano sulle nostre coste. E gli altri
effetti collaterali li abbiamo appena sperimentati.
I ragazzi di Peshawar
Il blogger pachistano Raza Ahmad Rumi, ancora su Twitter, chiedeva di non dimenticare
gli studenti massacrati dai taleban a Peshawar (dicembre 2014, 145 morti). Uguali ai
ragazzi del Bataclan. Ha suscitato un dibattito furioso. «Perché gli europei sono così uniti
fra loro quando un Paese viene colpito e noi musulmani siamo così divisi?» si chiedevano
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i pachistani. L’Europa, vista da uno degli epicentri della guerra civile islamica, sembra un
blocco di granito. Mentre l’Isis continua ad alimenta il conflitto sunniti-sciiti.
Fra i sette Hazara (sciiti) decapitati dall’Isis in Afghanistan, lo scorso 30 settembre, c’era
una bambina di nove anni. La sua immagine sul Web ha acceso l’indignazione, la protesta
che ha quasi preso d’assalto il palazzo presidenziale di Kabul. Ma era soltanto nel campo
degli sciiti. Sul Web «fan boys» dello Stato islamico si scontrano con sostenitori delle
milizie sciite, o dei curdi (sunniti), a colpi di «cane», «ratto», «maiale» e disinformazione.
La guerra civile va avanti. E coinvolge anche noi.
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INTERNI
del 17/11/15, pag. 7
«Bombardare non è tabu».
L’unità che vuole il governo
Camera. Fuori dall’aula i ministri cantano la Marsigliese. Dentro la
sinistra attacca: anche durante il G20 qualcuno bombarda le file curde
in lotta contro Daesh. Renzi dalla Turchia: «Serve una risposta
equilibrata» Gentiloni: a fianco dei fratelli francesi
Andrea Fabozzi
ROMA
La ministra della Difesa spiega che la partecipazione dell’Italia ai bombardamenti contro il
Daesh «non è un tabu», il presidente del Consiglio invita ad evitare reazioni istintive,
preferisce «una risposta strategica, saggia, equilibrata». Forza Italia chiama a una nuova
battaglia di Lepanto, un fronte cristiano contro il mondo islamico da stringere stavolta con
la Russia, mezzo millennio dopo. E tutti invocano l’unità nazionale di maggioranza e
opposizione di fronte al terrorismo.
Di fronte al terrorismo la politica italiana non esce dalla trappola della campagna elettorale
continua. Il ministro dell’Interno che non vuole cadere nella trappola del Califfo, precipita in
quella del segretario della Lega nord e gli scappa di accusarlo di tifare per gli attentatori.
Poi davanti al parlamento fa i conti di poliziotti, carabinieri, finanzieri e militari delle forze
armate che sono o stanno per arrivare a Roma, e raggiunge quota 30mila. Che significa
otto divise per chilometro quadrato nell’intero territorio cittadino, per tre turni 24 ore su 24.
Ma il Movimento 5 stelle esige nuove assunzioni per le forze dell’ordine “sotto organico”,
vuole che vengano richiamati i militari dall’Afghanistan per schierarli «a difesa del nostro
territorio» e suggerisce la creazione di «corpi d’élite nei servizi segreti». Qualcosa,
adesso, sarà aggiunto nella legge di stabilità.
Davanti all’ingresso della camera dei deputati, parlamentari di maggioranza e opposizione,
ministre e ministri, si fermano in silenzio in piedi ad ascoltare la Marsigliese, Fratelli d’Italia
e l’Inno alla gioia. Poi, nell’aula di Montecitorio, c’è un ultimo minuto di silenzio prima delle
comunicazioni del governo.
Sostiene il ministro degli esteri Gentiloni che l’Italia risponderà agli attacchi di Parigi
«insieme ai fratelli francesi». Che per il momento sono insieme a turchi, australiani e
americani e in Siria bombardando. Dice Gentiloni che «la forza del terrorismo sta anche
negli errori che ha fatto l’occidente nel passato», che in Siria «serve una transizione
politica per allontanare il dittatore Assad senza creare un vuoto che sarebbe riempito da
Daesh». E i russi «possono essere fondamentali». Dice Renzi dal G20 di Antalya, in
Turchia, che «il terrorismo non è un problema che si risolve con uno schiocco delle dita. Il
principio italiano, riportiamo la Russia al tavolo della discussione, sta finalmente portando
risultati». Dice il capogruppo dei deputati di Forza Italia Brunetta, dall’aula della camera,
che non basta, «l’Italia deve promuovere la rinuncia unilaterale dell’Unione europea alle
sanzioni contro la Federazione russa». C’è una polemica anche nel lutto: «Oltre alla
Marsigliese, io ho cantato in cuor mio l’inno russo in ricordo delle vittime dell’aereo
abbattuto sul Sinai, anche quello dai terroristi dell’Isis».
Mentre il suo ministro dell’Interno si accapiglia con Salvini, tra radio televisioni e hashtag,
Renzi aggiunge che «dire che in Italia stanno arrivando troppi immigrati è una
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banalizzazione. Qualcuno sta facendo l’equazione facile rifugiati uguale terroristi, ma il
punto è che la quasi totalità dei rifugiati sta scappando dagli stessi terroristi in azione nelle
nostre città». Poi, lui che guida un governo di già larghe intese, ripete il suo invito all’unità
nazionale: «Rinnovo l’appello alle forze politiche perché su questo tema non ci siano
divisioni e litigi». Forza Italia risponde con le sue condizioni per «una nuova Lepanto» e
con un’altra formula politica: «Unità critica nella verità». In concreto il governo preferisce
non chiedere nessun voto al termine delle comunicazioni, nessuna mozione nell’aula della
camera. Niente conta, niente divisione. Al capogruppo del Pd Rosato sfugge un
ragionamento complicato — il successo dell’Expo avrebbe dimostrato la capacità italiana
di proteggersi dai terroristi — e una polemica a cui proprio non può rinunciare con i 5
Stelle che (la famosa uscita di Di Battista) sembrarono giustificare i terroristi.
Grillini e opposizione di sinistra non pensano neanche per un attimo che l’invito all’unità
possa riguardi. Però rinunciano anche loro a presentare mozioni che si sarebbero dovute
votare. Il capogruppo della nuova Sinistra italiana Scotto fa notare che proprio in Turchia
«mentre oggi si firmavano carte importantissime al G20, qualcuno bombardava le file
curde in prima linea nella lotta al Daesh». Il 5 Stelle Sorial aggiunge che l’Italia dovrebbe
«interrompere ogni rapporto con le monarchie del Golfo che finanziano l’Isis. Mentre Renzi
è andato a Riad solo qualche giorno fa».
del 17/11/15, pag. 11
Più controlli in carcere e celle aperte agli
imam contro la radicalizzazione
L’obiettivo è evitare l’arruolamento tra i detenuti
Francesco Grignetti
Contro il terrorismo islamista c’è un «fronte delle carceri» da tenere sotto controllo. I
fondamentalisti, infatti, fanno spesso proseliti nelle celle, più che nelle moschee o sul web.
In Spagna è accaduto che sia stata sgominata una cellula islamista che progettava
attentati e che era nata dietro le sbarre.
Interpreti arabi
Immediatamente dopo gli attentati, anche in Francia è cresciuto il livello di controllo sulle
carceri. E ne hanno parlato ieri al ministero della Giustizia, presente il ministro Andrea
Orlando. La conclusione è che se serviranno più soldi per investigatori, tecnologie, e
interpreti dall’arabo, i soldi arriveranno.
Il direttore dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, dopo gli attentati di Parigi ha
già innalzato il livello di allerta nelle nostre carceri. Quello che accade tra i detenuti, specie
quelli di religione islamica, ovviamente viene controllato da tempo.
Una nuova circolare, però, tre giorni fa è stata diramata a tutti i penitenziari: si chiede ai
direttori, agli educatori e agli agenti della polizia penitenziaria la massima attenzione ai
fenomeni di radicalizzazione tra i musulmani, specie quelli più sradicati dal tessuto
d’origine e dalla famiglia.
I soggetti più fragili, quelli più sensibili all’indottrinamento dei fondamentalisti. Secondo la
circolare vanno scrutati i comportamenti di ogni detenuto islamico - ce ne sono in carcere
circa 8 mila - per verificare che non chiuda i rapporti con gli altri detenuti, con le famiglie,
con gli imam autorizzati e con il resto del mondo, in un percorso di progressivo isolamento
ed autoesaltazione.
Preghiere in cella
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Al contempo, proprio per evitare che la religione possa diventare uno schermo dietro cui si
nascondono discorsi di propaganda per la Guerra Santa, e un argomento di
vittimizzazione, nelle carceri italiane inizieranno ad entrare gli imam dell’Ucoii (Unione
delle comunità islamiche in Italia). È fondamentale - annota Consolo - che la preghiera sia
guidata da un vero imam e non da un detenuto qualsiasi. Attualmente sarebbero 52 le
moschee di fortuna ospitate dalle carceri, dove in assenza di un vero imam si aprono
pericolosi spazi di autogestione della preghiera.
Il tema è molto studiato a livello europeo. Giusto un mese fa a Bruxelles si è tenuto un
vertice al massimo livello tra criminologi, ministri della Giustizia, magistrati e direttori di
penitenziari sui modi di prevenire la radicalizzazione dei detenuti. In Italia, per esempio, si
fa in modo che nessuno dei circa 100 condannati per terrorismo internazionale entri in
contatto con i detenuti comuni.
Criminali comuni
«È documentata, però - racconta Donate Capece, direttore del sindacato autonomo Sappe
- la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, che
pure non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento
dell’entrata in carcere. Si sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di
altri detenuti già radicalizzati». Per impedire questi processi, il Dap chiede alla polizia
penitenziaria di vigilare. Secondo il Sappe, invece, sarebbe necessario «sospendere il
sistema della “vigilanza dinamica” che consente ai detenuti di stare molte ore al giorno
fuori dalle celle, mischiati tra loro, senza fare nulla e con controlli sporadici ed
occasionali».
del 17/11/15, pag. 6
L’ipotesi di schedare i passeggeri Una banca
dati per chi torna dai Paesi al di fuori di
Schengen
ROMA Un piano di emergenza in quattro punti per fronteggiare la minaccia dei terroristi.
Interventi mirati per l’identificazione e il controllo di chi entra in Europa, anche se si tratta
di un cittadino di uno Stato dell’Unione. Con una novità che potrebbe rivoluzionare il
sistema finora in vigore: saranno schedati tutti coloro che sono andati in un Paese extra
Schengen e poi sono tornati nel proprio Paese. In vista del vertice di urgenza dei ministri
dell’Interno fissato per venerdì mattina a Bruxelles la Commissione guidata da Jean
Claude Juncker mette a punto un provvedimento che possa essere operativo prima
possibile. E lo fa per rispondere alla richiesta presentata dalla Francia che sollecita
«misure urgenti», soprattutto ne chiede l’immediata entrata in vigore. E si concentra in
modo particolare sulla «blindatura» delle frontiere per filtrare gli ingressi e cercare di
impedire ai fondamentalisti di entrare. Anche tenendo conto dell’ultima stima della
Commissione Ue che parla di «circa 5.000 comunitari residenti che hanno viaggiato per
unirsi a gruppi terroristici come Daesh». Sono i foreign fighters, i tanto temuti combattenti
di ritorno che rappresentano una delle minacce più concrete per l’Occidente.
Il codice Pnr per i voli
È uno dei punti più controversi, in discussione da mesi e sul quale gli Stati membri si sono
già divisi dopo gli attentati di Parigi del gennaio scorso contro la sede della rivista satirica
Charlie Hebdo e il supermercato Kosher. Una misura che la stessa Commissione definisce
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però di «cruciale importanza» perché consente non solo di aver in tempo reale i dati
personali di chi prenota o acquista un biglietto aereo, ma fornisce pure informazioni
preziose nell’attività di prevenzione contro i terroristi. Attraverso la «scheda» immessa nel
sistema comune sarà infatti possibile conoscere le abitudini del passeggero (comprese
quelle riguardanti la religione lo stato di salute), sapere con chi è stato effettuato il viaggio,
le persone contattate prima di intraprenderlo. Ed è proprio questo ad avere alimentato le
perplessità di numerosi parlamentari creando uno schieramento contrario trasversale che
si è appellato a motivi di privacy per rinviare sino ad ora l’approvazione della direttiva. Un
atteggiamento che potrebbe modificarsi di fronte al massacro di venerdì scorso.
La «schedatura» ai varchi
Nella bozza in preparazione si parla di «norme più robuste per mantenere un controllo più
stretto su chi entra nell’Unione europea e per prevenire ulteriori accessi non autorizzati,
nonché impedire alle persone di entrare al di fuori dei normali valichi di frontiera» oltre
all’introduzione «di un sistema di ingresso/uscita molto più efficace che consentirà il
tracciamento dei movimenti dei cittadini di paesi terzi attraverso la frontiera esterna
dell’Unione Europea». In realtà la richiesta francese prevede che questo «tracciamento»
riguardi anche i cittadini Ue proprio per evitare il rientro di chi potrebbe essere andato a
combattere, ma più semplicemente anche di coloro che potrebbero essere andati a
incontrare personaggi «sospetti» per pianificare attentati .
Lo scambio dei dati
Di fronte al moltiplicarsi di segnalazioni trasmesse dagli apparati di intelligence di mezzo
mondo è necessario un confronto reale tra servizi segreti, ma anche con le forze di polizia
in modo da evitare che un «sospetto» possa sfuggire ai controlli perché i dati che lo
riguardano non sono stati trasmessi in maniera corretta o comunque condivisi tra le varie
strutture. Per questo si è deciso di creare un sistema interconnesso e accessibile a 007 e
investigatori che abbia «indicatori di rischio comuni», soprattutto che consenta la verifica
delle notizie con una collaborazione effettiva alla quale dovranno dare il proprio assenso i
governi che poi avranno l’onere di garantire il rispetto dell’accordo. Una circolazione delle
informazioni sta già avvenendo, necessario — secondo la Commissione — è farla
diventare capillare.
Il rapporto con le comunità
Per evitare il radicalismo si ritiene fondamentale intensificare il legame con le comunità
islamiche e isolare i fondamentalisti. Un’attività «essenziale della strategia antiterrorismo
che conta su Awareness una «rete di reti», che riunisce gli operatori per discutere le
tendenze emergenti e scambiare e sviluppare le migliori pratiche». Per sostenere questo
lavoro l’Ue ha già impegnato «25 milioni di euro per i prossimi 5 anni» e ora potrebbe
stanziare ulteriori risorse. Del resto, come spiega Gianni Pittella, capogruppo dei socialisti
al Parlamento europeo impegnato nei negoziati di queste ore, «lo sgomento deve far
posto alla politica e l’incontro già fissato con Juncker e Schulz servirà proprio per
accelerare il rafforzamento del controllo alle frontiere esterne e il meccanismo automatico
di cooperazione a livello di intelligence . Serve una strategia di lungo periodo messa a
punto da una larga coalizione internazionale capace di indicare una chiara visione sul day
after».
Fiorenza Sarzanini
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Del 17/11/2015, pag. 6
Guerra, non basta una camera
Dopo Parigi il Comitato referendario per il No solleva il tema dell’art. 78
della Costituzione
Pubblichiamo l’appello del Comitato per il No al referendum costituzionale sulla riforma
Renzi-Boschi.
In un tornante della storia, quale si va profilando in conseguenza della mattanza occorsa il
13 novembre a Parigi per opera di seguaci del Daesh, il Comitato per il No al referendum
costituzionale sulla riforma Renzi-Boschi, chiede al Presidente della Camera dei deputati e
ai Presidenti dei gruppi parlamentari di rinviare a data da destinarsi la discussione, già
fissata per il prossimo 20 novembre, davanti alla Camera dei deputati, per l’approvazione,
in prima deliberazione, del ddl cost. n. 2613-B.
Il Comitato ritiene infatti inopportuno che in un momento così grave che richiede l’unità di
tutte le forze politiche e sociali – come ai tempi del terrorismo, se non peggio –, le Camere
possano procedere tranquillamente nel loro lavoro di revisione della gran parte degli
articoli della Costituzione come se nulla fosse accaduto. Mentre è proprio nei momenti di
crisi, che la Costituzione, nei suoi principi e valori, dovrebbe costituire il simbolo, per
eccellenza, dell’unità del popolo italiano.
Né si obietti che, con la progettata modifica della Camera e del Senato, lo Stato italiano
acquisirebbe maggior forza per contrapporsi al terrorismo jihadista. Proprio l’esperienza
degli anni di piombo ha infatti insegnato che le battaglie contro l’eversione non si
combattono limitando i poteri del Parlamento, che erano gli stessi di quelli tuttora previsti
dalla Costituzione del 1947, e che potrebbero semmai essere rimodulati agevolmente con
appropriate modifiche regolamentari.
La gravità dell’attuale situazione che potrebbe addirittura sfociare, come da più parti si
sostiene, in uno stato di guerra o in una situazione analoga, induce il Comitato per il No a
sottolineare che se la riforma Renzi-Boschi venisse approvata nel testo di cui al ddl cost.
n. 2613-B, non sarebbero più le Camere a deliberare lo stato di guerra, come previsto dal
vigente articolo 78 della Costituzione, ma la sola Camera dei deputati. E ciò, come se il
Senato, ancorché rappresentativo delle autonomie locali, quale previsto dalla riforma
Renzi-Boschi, non fosse anch’esso un organo dello Stato-comunità e quindi della
Repubblica italiana.
Consiglio direttivo: Gustavo Zagrebelsky (Presidente onorario), Alessandro Pace
(Presidente), Pietro Adami, Alberto Asor Rosa, Gaetano Azzariti, Francesco Baicchi,
Vittorio Bardi, Mauro Beschi, Felice Besostri, Francesco Bilancia, Sandra Bonsanti,
Lorenza Carlassare, Sergio Caserta, Claudio De Fiores, Riccardo De Vito, Carlo Di Marco,
Giulio Ercolessi, Anna Falcone, Antonello Falomi, Gianni Ferrara, Tommaso Fulfaro,
Domenico Gallo, Alfonso Gianni, Alfiero Grandi, Raniero La Valle, Paolo Maddalena,
Giovanni Palombarini, Vincenzo Palumbo, Francesco Pardi, Livio Pepino, Antonio Pileggi,
Marta Pirozzi, Ugo Giuseppe Rescigno, Stefano Rodotà, Franco Russo, Giovanni Russo
Spena, Cesare Salvi, Mauro Sentimenti, Enrico Solito, Armando Spataro, Massimo
Villone, Vincenzo Vita, Mauro Volpi.
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del 17/11/15, pag. 24
Ricorsi anti-Italicum il primo verdetto arriverà
il 2 febbraio
Consulta, oggi il voto ma si rischia un’altra fumata nera Renzi vede i
capigruppo Pd. Besostri: pronto a ritirarmi
LIANA MILELLA
ROMA.
L’Italicun “corre” verso la Consulta, ma il Parlamento non “corre” affatto per garantire il
plenum del giudice delle leggi. Tra i dati possibili basta citarne uno: da 507 giorni manca il
primo dei tre giudici da sostituire. Domani, nella nuova votazione dalle 13 in poi, si rischia
un’altra fumata nera. Sarebbe la 27esima. Ma la Corte resta la grande protagonista della
vita politica. Basta citare le decisioni sul Porcellum, sulla legge Severino, sulla
fecondazione, sulle pensioni. Come annuncia l’avvocato Felice Besostri, che ha scatenato
la nuova “guerra” a colpi di ricorsi contro l’Italicum dopo aver vinto quella contro il
Porcellum, «un tribunale civile, quello di Potenza, ha già fissato la data in cui sarà
discusso il nostro ricorso. Sarà il 2 febbraio quando l’avvocato Felice Belisario, già
capogruppo dell’Idv in Senato, presenterà i nostri 13 punti di incostituzionalità ». Già quel
giorno, se il tribunale di Potenza dovesse riconoscere la fondatezza dei ricorsi, si potrebbe
aprire la via per mandare l’Italicum alla Consulta.
Ma qualora non fosse Potenza a decidere potrebbe toccare a un’altra delle città in cui
fioccano ricorsi e atti di citazione. Già una dozzina quelli depositati, che Besostri elenca:
Milano, Torino, Trieste, Venezia, Bologna, Messina, Bari, Catanzaro, Potenza, mentre
Roma è ormai prossima. «Una legge che continua ad avere delle lacune», come dice il
guru di M5S Gianroberto Casaleggio. Ma che, se si andasse al ballottaggio, secondo il
sondaggista Nando Pagnoncelli, farebbe vincere M5S rispetto al Pd. Chiosa Casaleggio:
«Sulla legge non cambieremo idea perché vinciamo ».
Fatto sta che, proprio il ruolo che la Corte avrà sul futuro dell’Italicum e probabilmente
anche della riforma costituzionale, complica di molto la scelta dei tre giudici che mancano
all’appello. Il primo, in quota Forza Italia, dal 28 giugno 2014; il secondo dal 31 gennaio
2015, quando Mattarella ha lasciato la Corte per il Colle; il terzo dal 10 luglio. A Berlusconi
sarebbero dovuti andare due giudici, ma l’attuale peso del partito ha spinto Renzi a darne
uno a M5S che a ottobre 2014 aveva già votato la Pd Silvana Sciarra. Ma siamo
lontanissimi da un’intesa. Lo confermava ieri il deputato grillino Danilo Toninelli che per
M5S segue la questione. Oggi lo scriverà anche in un post sul blog di Grillo. «Noi votiamo i
nostri tre candidati, Besostri, Modugno, Nicolai, indicati dalla rete. Non ci sono stati
ufficialmente sottoposti altri nomi, sui quali avremmo comunque bisogno di 48 ore di
tempo per sottoporli al giudizio della rete». Per M5S invotabile il nome più accreditato per
Forza Italia, quello del deputato ed avvocato Francesco Paolo Sisto. «Tra i nostri criteri c’è
quello che alla Corte non debba andare un politico». Quindi Sisto non avrà il 130 voti di
M5S, molto preziosi ovviamente.
Il Pd non ha ufficializzato il suo nome. Corre quello del costituzionalista Augusto Barbera,
ma oggi i capigruppo Luigi Zanda ed Ettore Rosato ne parleranno con Renzi. Un incontro
decisivo per le sorti della Corte.
Per la quale, in quota M5S, corre anche Besostri. Da cui però arriva una protesta: «Si fa
sempre più insistente la voce che la mia precedente attività contro il Porcellum e quella
attuale contro l’-I-talicum siano di ostacolo alla mia elezione a giudice della Corte».
Inevitabile chiedergli se gli «ostacoli » arrivano dal Pd: «Non credo, perché la difesa della
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Costituzione e una legge importante per il governo devono stare su due piani distinti. Però,
siccome ritengo che la ricostituzione del plenum della Consulta sia assolutamente urgente
perché c’è il rischio di non poter raggiungere il numero legale di 11 componenti per via di
un’indisposizione, se qualcuno dovesse dirlo chiaramente, non ci penserei un minuto di
più a ritirare la mia candidatura». Poi una battuta a buon intenditor: «Si ricordino i
parlamentari che il Bundesrat tedesco ha impiegato di recente 34 secondi per eleggere un
giudice...».
del 17/11/15, pag. 22
“De Luca via”. Il M5S scatena il caos
Campania, nell’aula del Consiglio assedio al governatore indagato.
Microfono e fogli strappati, la presidente dell’assemblea colta da
malore. Il Pd da Roma impone una svolta: esecutivo da rafforzare,
urgente un rimpasto
OTTAVIO LUCARELLI
CONCHITA SANNINO
NAPOLI.
Banchi della giunta occupati, insulti, urla e microfoni strappati. Così, nell’aula del Consiglio
regionale della Campania, i Cinque stelle impediscono all’assemblea di commemorare le
vittime di Parigi, ma consentono un insperato gol alla legislatura di De Luca: passa, pure
nel caos, la legge sull’acqua pubblica avversata dal sindaco de Magistris.
«Il comportamento dei grillini è un oltraggio alla democrazia» denuncia il presidente
Rosetta D’Amelio del Pd, prima di essere aggredita dagli stessi 5 Stelle in aula e
ricoverata. «Una vergogna » commenta il generale dell’Esercito Carmine De Pascale della
lista “De Luca presidente”, a cui era stato affidato l’intervento di commemorazione. «Siete
peggio dell’Isis» aggiunge il verde Francesco Borrelli.
Ma nel giorno della baraonda, scatta la strategia imposta dal diktat renziano. Si corre ai
ripari , dopo lo scandalo politico-giudiziario che investe il governatore Vincenzo De Luca e
il suo ex braccio destro Nello Mastursi, indagati con il giudice del Tribunale civile Anna
Scognamiglio e suo marito Guglielmo Manna. Una strategia su due livelli, quella del
Nazareno: entro domani nasce una nuova segreteria, «con iniezioni di qualità e
robustezza», sottolineano fonti romane. Subito dopo, si dovrà «incidere» sull’azione e la
giunta di De Luca. «Dev’essere chiara una cosa: il partito in Campania non è la
propaggine di Palazzo Santa Lucia».
Intanto, dopo l’azzeramento deciso dal segretario campano Assunta Tartaglione,
dall’organismo regionale escono 30 membri. E arriva un vero e proprio direttorio. Eccoli:
sarebbero i parlamentari Gennaro Migliore, Vincenzo Cuomo, Valeria Valente, Leonardo
Impegno, gli eurodeputati Pina Picierno e Massimo Paolucci, i consiglieri regionali Mario
Casillo, Gianluca Daniele e Raffaele Topo, il commissario Pd di Ercolano, Teresa Armato.
Ultime manovre mentre cala la sera su un consiglio regionale stremato dagli scontri. Per
cinque ore è andata in scena una gazzarra: in cui i Cinque stelle invocano con urla e
striscioni le dimissioni del presidente De Luca che resta, però, ai piani alti del Palazzo. I
grillini chiedono che torni a casa per il coinvolgimento nell’inchiesta della Procura di Roma.
Attaccano senza sosta, ma dimenticano nel cassetto 309 emendamenti e così passa in
appena venti minuti, con il centrodestra fuori dall’aula, la legge De Luca sul riordino del
ciclo delle acque. Una normativa su cui già promette battaglia il sindaco di Napoli, Luigi de
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Magistris. «Quella legge è un obbrobrio politico. Un fatto molto grave: si vuole sovvertire la
volontà popolare e calpestare l’autonomia dei Comuni». Ma De Luca guarda avanti e
ribatte: «Abbiamo assistito a una sceneggiata dei Cinque stelle, ma sono qui per cambiare
tutto in Campania. E quando scoviamo un nido di vipere, ce le scatenano contro».
del 17/11/15, pag. 14
Lombardia, il M5S si prende
il Comune sciolto per mafia
Stefano Rizzato
A fine giornata, dopo aver ringraziato tutti, Angelo Cipriani lo ammette: «Speriamo di
essere da traino per gli altri Comuni lombardi». E chissà se in mente ne ha uno in
particolare, grande e con il Duomo al centro. Intanto, ieri, il Movimento 5 Stelle ha
conquistato il suo primo municipio lombardo. Non uno qualunque: quel Sedriano che nel
2013 fu il primo Comune lombardo sciolto per mafia. E che ora ospita il primo sindaco
«grillino» della regione. Romano di nascita, 45enne, maresciallo della Guardia di Finanza.
A Cipriani sono bastati 39 voti di vantaggio sul candidato del Pd, Giuseppe Franco Pisano,
battuto 1.592 a 1.553. Nel paese - circa 11 mila abitanti - ha votato il 59,5 per cento degli
aventi diritto.
«Punteremo su legalità e trasparenza», ha detto il neosindaco nel suo insediamento. Non
potrebbe essere altrimenti, dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose e il lungo
commissariamento. Era l’ottobre 2013 quando l’allora sindaco Alfredo Celeste - del Pdl finì travolto dall’inchiesta su corruzione e ’ndrangheta. Il film è quello che vede come
protagonista l’ex assessore regionale Domenico Zambetti, accusato di voto di scambio
con le cosche. Per lui i magistrati hanno appena chiesto una condanna a dieci anni,
mentre tre e mezzo potrebbero toccare a Celeste.
«Abbiamo vinto proponendo una novità concreta e credibile - spiega Cipriani - e con un
programma che non è il solito, scritto in 15 giorni. La base sono le linee guida del
Movimento 5 Stelle, adattate a una realtà che conosciamo bene. Da anni il futuro
vicesindaco Davide Rossi ed io frequentiamo e viviamo il territorio ogni giorno, non solo
con le elezioni in vista. Abbiamo lavorato duro per 42 mesi e abbiamo ottenuto un risultato
importante».
Insieme, Cipriani e Rossi fondarono nel 2012 la cellula grillina di Sedriano. Da qui Milano
dista meno di 10 chilometri. Intanto il neosindaco pensa già a fare il suo, con una lista di
priorità tutta concretezza. «La prima cosa - spiega - sarà verificare cosa sia stato fatto in
questi anni. Poi penseremo ad abbattere le barriere architettoniche, metteremo a norma
l’illuminazione pubblica, realizzeremo gli orti urbani che i nostri pensionati aspettano da
trent’anni. Ma ci sono anche tante iniziative a costo zero: dal bilancio partecipato al
question time per la giunta, fino al baratto amministrativo e alla navetta gratuita per
l’ospedale, tre volte a settimana».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 17/11/15, pag. 29
Don Raffaele.
L’ex capo della Nuova camorra organizzata, 13 ergastoli, da 23 anni in
regime di 41 bis, ha iniziato a parlare da due mesi. E le sue rivelazioni si
annunciano esplosive
La verità di Cutolo “Pronto a collaborare vi
svelerò i segreti del sequestro Moro”
PAOLO BERIZZI
DAL NOSTRO INVIATO
PARMA.
Nessun pentimento («solo davanti a Dio» ). Nemmeno una dissociazione. Ma, per la prima
volta dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre — 34 anni in isolamento, 23 in regime di 41
bis — , Raffaele Cutolo ha deciso di collaborare con lo Stato. Una scelta clamorosa che
Repubblica è in grado di rivelare e di ricostruire. Una scelta maturata recentemente, in
gran segreto, nel carcere di Parma, dove l’ex capo della Nuova camorra organizzata ha
appena compiuto 74 anni. Qui, due mesi fa, Cutolo ha chiesto — a sorpresa — di essere
interrogato sul rapimento e la morte di Aldo Moro. E ha parlato. Le sue rivelazioni — il
verbale è stato secretato — le hanno raccolte in cella un luogotenente dei carabinieri e un
magistrato. Collaborano entrambi con la Commissione parlamentare di inchiesta che
indaga sulla complessa, e ancora oscura vicenda, dello statista democristiano rapito e
ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Ma vediamo, con ordine, quello
che è successo nel carcere di Parma. Siamo all’inizio di settembre: l’Italia e l’Europa sono
alle prese con il caos migranti. Cutolo, come da routine, incontra la moglie Immacolata
Iacone nell’unico colloquio mensile previsto per i detenuti sottoposti al regime del carcere
duro (41bis). Piccolo ma non irrilevante passo indietro: sei mesi prima. È il 2 marzo. L’ex
boss della camorra si sfoga in un colloquio riportato sulle colonne di questo giornale: «Mi
hanno sepolto vivo in cella, se parlo crolla lo Stato», dichiara Cutolo. A stretto giro arriva la
replica del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. «Cutolo dica quello che sa e
sarà valutato, siamo pronti a indagare», lo incalza il 10 marzo. Un invito, più che
eloquente, rivolto a “don Raffaele” affinché potesse prendere in considerazione l’idea —
sempre parole di Roberti — di fare «seguire alle dichiarazioni contro lo Stato anche delle
dichiarazioni concrete». Perché, è il ragionamento, «la possibilità di uscire dalla
condizione del 41bis dipende soltanto da lui...». Lui, Cutolo. Torniamo dunque a
settembre. Non si sa se e quanto le parole di Roberti abbiano instillato nel vecchio padrino
della camorra lo spunto per una riflessione (a parte una breve parentesi nel ’94 — morta
sul nascere — l’ex boss di Ottaviano è sempre stato un muro di silenzio). Ma adesso
Raffaele Cutolo vuole parlare. Di Moro, sicuramente. Forse anche di altro. Chiede di
essere ascoltato da chi sulla morte del politico Dc sta cercando di fare chiarezza. In questi
casi la prassi prevede due possibilità: o il detenuto scrive — di persona o attraverso il
proprio legale — al magistrato (o ai magistrati) che indagano. O affida la sua richiesta al
direttore del carcere. Sta di fatto che la seconda metà di settembre, Giuseppe Boschieri,
luogotenente dei carabinieri, consulente della Commissione Moro, contatta uno dei legali
di Cutolo, l’avellinese Gaetano Aufiero. Il carabiniere chiede se all’interrogatorio richiesto
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dal detenuto eccellente volesse prendere parte anche il suo difensore. Ma non trattandosi
di un interrogatorio di garanzia, il legale ritiene superflua la propria presenza. Lunedì 14
settembre 2015. Nel carcere di via Burla — dove sono reclusi tra gli altri anche i super
boss Totò Riina e Leoluca Bagarella (quest’ultimo appena trasferito in Sardegna), il “Nero”
Massimo Carminati e Marcello Dell’Utri — Cutolo parla. Dichiarazioni spontanee. Che
finiscono in un verbale. È uno dei 41 documenti raccolti dalla Commissione Moro e
annunciati all’ufficio di presidenza. Si legge nell’elenco: “Verbale di riversamento di files
audio su supporto informatico relativi all’escussione del detenuto Cutolo Raffaele,
avvenuta il 14 settembre 2015”. Mittente del documento 316/1, protocollo 1027, data 2109-2015, è il luogotenente Boschieri. Leggendo le carte che mettono in ordine i documenti
c’è un particolare che balza all’occhio: il verbale relativo all’interrogatorio di Cutolo è
segreto. Di più. dei 41 documenti raccolti da parlamentari, magistrati, poliziotti, carabinieri
che collaborano con la commissione, il 316/1 è l’unico secretato. Gli altri sono tutti liberi o,
al massimo, riservati. Perché? Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l’ex capo della Nco?
Ha riferito circostanze e particolari che non devono o non possono essere resi pubblici? E,
soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di tolale isolamento,
Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è
sentito «usato e abbandonato»? Il riferimento è al suo coinvolgimento nella vicenda dell’ex
assessore regionale Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br a Torre del Greco nel 1981 e poi
liberato — secondo una sentenza passata in giudicato — «alla fine di una lunga e serrata
trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo, a cui si è chiesto di intervenire
presso le Br per ottenere la liberazione di Cirillo». Tredici ergastoli, record italiano di
lungodegenza carceraria, sposato con Immacolata Iacone da cui ha avuto (inseminazione
artificiale) la figlia Denise di 7 anni. Disse Cutolo in un’intervista a Repubblica nel 2006:
«Mi sono pentito davanti a Dio, non davanti agli uomini. È immorale fare arrestare persone
innocenti per avere soldi e protezione dallo Stato. Riabilitarsi significa pagare gli errori con
dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio... ».
Del 17/11/2015, pag. 15
Di Matteo: “Uno 007 nei nostri uffici e non
capivo perché”
Il pm depone sulla sua prima indagine su via D’Amelio Napolitano invitato a
testimoniare il 14 dicembre (ma in Senato)
di Sandra Rizza
Dovrà spiegare la sua “collaborazione istituzionale e personale’’ con il predecessore Oscar
Luigi Scalfaro; dovrà raccontare la sua verità sull’avvicendamento al Viminale tra Scotti e
Mancino nel giugno del ’92; e soprattutto dovrà riferire ancora una volta se e cosa ha
saputo, nella sua qualità di presidente della Camera, del famigerato dialogo tra boss e
istituzioni. L’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano tornerà sul banco dei testimoni e lo
farà negli uffici del Senato il prossimo 14 dicembre. La decisione è stata ufficializzata dalla
Corte d’Assise di Caltanissetta nell’ambito del processo Borsellino quater, dove la
testimonianza del presidente emerito è stata chiesta dall’avvocato Fabio Repici, parte
civile per Salvatore Borsellino.
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Si tornerà a parlare, dunque, del patto Stato-mafia nell’aula bunker nissena dove ieri il pm
di Palermo Nino Di Matteo, titolare dell’indagine sulla Trattativa, è comparso come teste
per ricostruire il suo ruolo nella prima inchiesta su via D’Amelio, quella incentrata sul falso
pentito Enzo Scarantino. “Questa è l’occasione istituzionale che aspettavo – ha esordito Di
Matteo – per riferire tutto ciò che è utile”. E così il magistrato ha parlato per cinque ore,
elencando i suoi dubbi sulle “anomalie” della strage del 19 luglio ’92: a partire dalle
reticenze del pentito Totò Cancemi (“Non voleva parlare di Borsellino”) fino alla “parziale
coincidenza delle dichiarazioni di Scarantino con quelle di Gaspare Spatuzza”, il
collaboratore che nel 2008 sbugiardò il teste fasullo.
Una sola volta Di Matteo si è fermato, per chiedere un bicchiere d’acqua, poi ha
proseguito con le sue perplessità sul ruolo dei servizi (“Non capivo la presenza abituale
nei nostri uffici dello 007 del Sisde Rosario Piraino), ma anche sulle inerzie della procura
nissena (le dichiarazioni del capitano dei carabinieri Umberto Sinico, al quale “un amico
misterioso” aveva parlato di Bruno Contrada in via D’Amelio, rimasero ferme per tre anni:
un ritardo che il pm ha definito “inspiegabile”). Quindi l’analisi dei rapporti con il
procuratore Giovanni Tinebra, che prese le distanze dall’inchiesta su Berlusconi e
Dell’Utri, indagati e poi prosciolti come mandanti delle stragi. “Cancemi aveva parlato delle
‘persone importanti’ – ha detto il magistrato – ci riunimmo per iscrivere Berlusconi e
Dell’Utri. Tinebra portò una copia del Giornale con un titolone su Cancemi ‘pentito a rate’.
E disse: iscriveteli, ma io non ci credo”.
Ma quello che Di Matteo teneva a precisare è il suo ruolo nella procura che cascò in pieno
nel depistaggio di via D’Amelio. “Voglio rispondere alle strumentalizzazioni – ha spiegato –
Si è scritto che i tre processi Borsellino non hanno portato a nulla: io dico che sfociarono in
26 condanne definitive”. E all’avvocato Pino Scozzola che gli chiedeva perché, dopo i
confronti negativi con i pentiti Di Matteo, La Barbera e Cancemi, non avesse messo in
discussione Scarantino, il pm ha replicato: “Venne fatta una valutazione di frazionabilità
sulle dichiarazioni: si decise di usare solo i primi tre interrogatori, che apparivano genuini e
riscontrati”.
Poi, alla domanda se fosse venuto a conoscenza delle riserve del pm Ilda Boccassini
sull’attendibilità del falso pentito, Di Matteo ha risposto: “Ero così giovane che Arnaldo La
Barbera nemmeno mi salutava. Con la Boccassini non ho mai parlato di Scarantino.
All’epoca quei due non sapevano neppure chi fossi”.
Dulcis in fundo, il racconto inedito del primo incontro con Vito Galatolo, il pentito che ha
raccontato il progetto di attentato nei suoi confronti. “Galatolo fissava la foto di Falcone e
Borsellino – ha detto il pm – e indicando Borsellino, mi disse: ‘Lo vede? Lì è successa la
stessa cosa che sta accadendo con lei. Ce l’hanno chiesto’”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 17/11/2015, pag. 7
Isis e migranti, effetti collaterali del cinismo
dell’Occidente
L’intreccio. Il tentativo di esportare la democrazia ha spinto Usa e Ue a
sostenere regimi vicini ai terroristi. E costretto masse di persone alla
fuga
di Barbara Spinelli
Gli attentati del 13 novembre a Parigi sono stati perpetrati da assassini che hanno storie e
provenienze diverse, e sono tuttavia legati da esperienze comuni di foreign fighters, attratti
dalla propaganda e dalle guerre dell’Isis. Molti di essi, intervistati, dicono di appartenere
alla “generazione della guerra al terrorismo”: guerra scatenata da noi, cui gli affiliati
dell’Isis comincerebbero a rispondere spargendo sangue fin dentro l’Europa. Sempre dal
loro punto di vista, a una guerra che ha ucciso migliaia di civili non si può che rispondere
con una guerra contro i civili europei.
L’Europa reagisce: “Siamo in guerra”. Un annuncio ovvio, la guerra è in corso da 14 anni.
Quel che conta è capire come mai quest’ultima ha fallito e come combattere l’Isis.
L’Europa reagisce anche con più controlli alle frontiere, e pure questo sarebbe ovvio se
non tendesse a mescolare rifugiati, richiedenti asilo e aspiranti kamikaze, politica della
migrazione e strategia antiterrorista.
L’unica guerra è contro i migranti
Alcuni sostengono che fin dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 siamo alle
prese, non solo in Europa, con una “guerra ai migranti”. Ma le fughe di massa e le migliaia
di morti in mare e su terra sono il danno collaterale di una serie di guerre che l’Occidente
ha scatenato per ragioni geopolitiche in Afghanistan, Iraq, Libia, e prima ancora in ex
Jugoslavia: regioni dove ha provocato, e presentato come soluzione, non la pacificazione
che pretendeva ma il tracollo delle strutture statali e la loro settarizzazione, etnica o
religiosa. L’Occidente ha acuito i conflitti appoggiando l’Arabia Saudita: è il caso dello
Yemen. In altri casi i profughi sono vittime di dittature che l’Unione favorisce. La dittatura
dell’Eritrea viene addirittura finanziata dall’Unione (e così per i paesi del “processo di
Khartoum” di cui si è parlato al vertice europeo di La Valletta) nella speranza che il
despota Afewerki trattenga i propri fuggitivi, in galera o nei campi.
È qui che il discorso geostrategico e la semantica dei rifugiati si congiungono. Il nome più
corretto da dare a chi approda in Europa non dovrebbe più essere quello di migranti, o
ancor meno migranti illegali, ma di rifugiati: la percentuale dei cittadini aventi diritto a
protezione, sugli arrivi illegali via mare in Europa, è stata quest’anno del 75 per cento,
secondo l’Economist, soprattutto dalla Siria e altri Paesi in guerra o sotto dittatura. Ma
dovremmo chiamarli col nome che ha dato loro James A. Paul, ex direttore esecutivo del
Global Policy Forum a New York. I siriani, gli iracheni, i libici, gli afghani, sono regime
change refugees, rifugiati nati dalla cosiddetta esportazione della democrazia che ha
caratterizzato il disordine unipolare a guida Usa nel dopo-guerra fredda. È un’espressione
che i governi occidentali non useranno mai perché – spiega James Paul– “l’aggressiva
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bestia nazionalista dell’establishment dei Paesi ricchi non è disposta a imparare la lezione,
e a prevedere la vampa di ritorno scatenata da futuri interventi militari”.
La strategia militare del regime change in Afghanistan, Iraq, Libia, ha prodotto caos e Stati
falliti, finendo col dar vita e forza all’Isis. Ma l’esperimento è ricominciato tale e quale con
la grande illusione delle primavere arabe, illusione che a partire dal 2011 ha ingenerato la
campagna per abbattere in Siria Bashar al Assad, mentre l’Isis e le forze siriane di al
Qaeda hanno anzi ricevuto finanziamenti Usa. La campagna in Afghanistan è stata
condotta con l’aiuto del Pakistan, quella in Siria con l’aiuto dell’Arabia Saudita e Qatar:
sono gli Stati principali da cui provengono – fin dall’11 settembre 2001– i dirigenti sia di al
Qaeda, sia dell’Isis. Anche nello Yemen, la preoccupazione statunitense è stata di
spalleggiare l’Arabia Saudita, in funzione anti-iraniana. Il 28 settembre, due giorni prima di
intervenire militarmente in Siria, Vladimir Putin ha detto all’assemblea dell’Onu: “Chiedo a
tutti coloro che hanno creato questa situazione: vi rendete almeno conto ora di cosa avete
fatto? Temo che la domanda non riceverà risposta, perché i responsabili non hanno mai
abbandonato la loro politica, basata sull’arroganza, l’eccezionalismo e l’impunità”. È
difficile dargli torto. Ancora non sappiamo l’esito della sua campagna in Siria. Ma
l’egemonia Usa e il suo disordine unipolare sono falliti, lasciando in eredità caos e
disperate fughe di popoli.
La nuova Europa è peggio della vecchia
Al “grande gioco” che ha la Siria come epicentro andrebbero aggiunte le questioni
geopolitiche interne all’Unione. Fin dalla guerra di Bush jr in Iraq, nel 2003, l’Unione è
divisa in due: una vecchia e una nuova Europa. La seconda vede se stessa come vittima
della storia ed è priva di complessi su guerra, pace e autoritarismo. Non che la prima sia
aperta ai rifugiati. Ma c’è un vasto arco, a Est, che sembra ignaro della Carta Europea dei
diritti o delle Convenzioni Onu sui rifugiati, e che con la massima impudenza costruisce
muri e impedisce ogni passo avanti sulla questione. Nelle sue chiusure, l’Est dell’Unione si
sente più che mai rafforzato, in questi giorni, dagli eventi parigini. Parlo della Polonia in
prima linea – visto il peso politico che ha nell’Unione – e della Repubblica Ceca, della
Slovacchia, dell’Ungheria, dei Baltici. Aver allargato l’Unione a questi paesi, senza porre
condizioni stringenti e ridiscutere i rapporti dell’Europa con la Nato, si sta rivelando una
sciagura. La loro opposizione è netta a condividere le responsabilità nella sistemazione
dei richiedenti asilo, ad accettare i piani di ricollocazione, a evitare la confusione tra
rifugiati e terroristi dell’Isis. Il governo slovacco accetta un siriani, ma a condizione che
siano cristiani. Affermazioni simili sono venute dal governo polacco precedente la vittoria
di Jarosław Kaczynski. L’Ungheria costruisce muri e agita lo spauracchio di una società
multietnica. Nei paesi baltici è del tutto assente una cultura di pluralismo etnico: in Lettonia
la minoranza russa è ufficialmente apolide, privata di diritti civili fondamentali.
Ma il peggio ce lo ha riservato Donald Tusk, già premier polacco, oggi presidente del
Consiglio europeo, che ha pronunciato frasi indegne della carica che ricopre. Il 13 ottobre,
in una lettera ai colleghi del Consiglio europeo, ha scritto: “La facilità eccezionale con cui
si entra in Europa costituisce uno dei principali pull factor” per migranti e profughi. Lo
stesso argomento fu usato per l’operazione Mare Nostrum: salvava troppe persone e fu
affossata per esser sostituita da Frontex, che non fa più proattivamente Search and
Rescue. Nella stessa lettera, Tusk ha auspicato un accordo con la Turchia sui rimpatri. È
la parola d’ordine del momento (“la Turchia ci salverà, diventerà il nostro partner
privilegiato”): questo proprio nel momento il cui Erdogan sta stabilendo un regime
liberticida, colpendo i curdi in Siria e Iraq con la scusa di combattere l’Isis in nome della
Nato. Tusk fa capire che bisognerebbe dare qualcosa a Erdogan: “La Turchia ci sta
chiedendo di sostenere la formazione di una safe zone nel Nord della Siria, opzione che
Mosca rifiuta”. Dovrebbe rifiutarla anche l’Unione, ma i suoi dirigenti non si pronunciano. In
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realtà, la safe zone serve solo a controllare e intrappolare i curdi in Siria. Il 22 ottobre, al
Congresso del Partito popolare europeo di Madrid, il Presidente del Consiglio Ue ha
rincarato la dose: “Dobbiamo smettere di far finta che il grande flusso di migranti sia
qualcosa che noi vogliamo, e che stiamo conducendo una politica intelligente di frontiere
aperte. La verità è diversa: abbiamo perso l’abilità di proteggere le nostre frontiere, la
nostra apertura non è una scelta cosciente ma è la prova della nostra debolezza”.
Così procede l’Europa – fingendo di non capire cosa siano la forza e la debolezza,
distorcendo parole e cifre, seguendo il fallimento della politica statunitense come un
cagnolino addomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, verso
nuove guerre e nuovi esodi di popoli.
del 17/11/15, pag. X (Roma)
Piccolo commercio la città che riparte spinta
dagli stranieri
Boom degli esercizi gestiti da immigrati Alimentari e soprattutto empori
casalinghi
DANIELE AUTIERI
Piccoli negozi, imprese individuali, esercizi gestiti da stranieri: il commercio romano riparte
da qui e registra una nuova vitalità dopo anni di stagnazione e di chiusure continue. Gli
ultimi dati, riferiti al primo semestre del 2015, sono stati elaborati dalla Camera di
Commercio di Roma e rivelano i motori reali che stanno spingendo la ripartenza del
commercio. Non più la grande distribuzione, ma realtà più piccole, quindi botteghe,
alimentari, negozi di abbigliamento. I primi sei mesi dell’anno in corso si sono chiusi infatti
in “attivo”: il saldo tra iscrizioni e cessazioni di aziende è stato positivo di 324 unità, e
questo grazie soprattutto al boom delle imprese individuali. Tra gennaio e giugno del 2015
sono state 1.081 le imprese individuali nate a Roma e provincia. È tra l’altro la conferma di
un trend ormai consolidato che va avanti da qualche anno e che ha portato questa forma
giuridica a rappresentare la maggioranza (51,3%) delle attività commerciali presenti nel
settore alimentare (4.193 sul totale di 7.317 esercizi).
Tra un anno e l’altro, la vitalità imprenditoriale è crescita in modo sostenuto e questo
proprio grazie ai piccoli negozi guidati da imprese individuali. Giovanna Marchese
Bellaroto, presidente di Cna Commercio per Roma, commenta: «Dietro la vivacità nel
settore del commercio ci sono sia nuovi imprenditori che hanno perso il lavoro sia stranieri.
Purtroppo dal punto di vista della qualità dell’offerta merceologica, notiamo che in alcuni
casi i nuovi subentri non vanno a migliorare quanto si è già perso. C’è un grosso aumento
di alimentari di vicinato che sono in verità dei piccoli drugstore dove si può comprare un
po’ di tutto, dalle arance alle bevande ai superalcolici. Purtroppo per via della difficoltà di
calmierare gli affitti stanno diminuendo le attività a conduzione familiare. Dal momento che
Roma è una citta votata al turismo è importante non abbassare la guardia sul
miglioramento della qualità commerciale. Ad esempio favorendo anche nel commercio di
vicinato canali di vendita innovativi».
La Cna conferma il fenomeno fotografato dalle statistiche della Camera di Commercio: «Il
rilancio del commercio parte dall’impresa individuale, guidata in molti casi, da titolari
stranieri». E infatti il primo semestre di quest’anno è stato segnato dall’aumento di titolari
di imprese individuali di nazionalità non italiana. Da gennaio a giugno, rispetto al totale
delle unipersonali attive nel commercio, la quota di quelle gestite da stranieri è passata dal
60
22,9 al 23,4%, confermando che quasi una piccola bottega su quattro è gestita da uno
straniero. Rispetto al totale degli imprenditori non italiani, la maggioranza proviene
dall’Asia e il 24,1% dall’Africa, in particolare da Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto. Il
47,3% del totale è impegnato proprio nel commercio al dettaglio, nell’ambito del quale una
quota consistente è detenuta dal commercio ambulante.
Analizzando i dati assoluti, al giugno del 2015 il numero di imprese individuali nel
commercio è pari a 184.440 unità. Di queste, 139.600 sono gestite da italiani e 43.235 da
stranieri. Tra gli stranieri, 10.429 sono africani, mentre i restanti 32.806 vengono da altri
Paesi. Le piccole botteghe, esplose negli ultimi mesi tra le vie della Capitale,
rappresentano infatti un cambiamento nelle abitudini commerciali dei romani.
Anche se ancora incidono in modo limitato sul business totale del commercio, dove la
grande distribuzione mantiene le quote maggiori, di sicuro queste nuove attività
aggiungono vitalità al settore e anche all’economia romana.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 17/11/15, pag. 6
Metal detector nelle arene del rock
Post Bataclan. Dopo la strage parigina le scelte difficili e le prese di
posizione dei musicisti. Prince e Foo Fighters annullano i tour,
Madonna va avanti
Luca Pakarov
Uno dei simboli per eccellenza dell’Occidente, il rock, ha pagato con il sangue, in una sola
sera, tutto quanto ha rappresentato nei cinquant’anni della sua storia. Ma questa è retorica
che, sedimentato il panico, deve lasciare spazio ad argomentazioni che vanno ben più in
là delle abitudini di una civiltà. Purtroppo tutti ci siamo trovati nel marasma, ed è ovvio che
qualcuno abbia perso la testa, come l’editorialista Giorgio Dell’Arti della Gazzetta dello
Sport, che ha scritto che i componenti della band degli Eagles of Death Metal: «se la sono
date a gambe levate al primo scoppio e ne sono usciti illesi». A parte il farli passare
inutilmente da vigliacchi, nemmeno c’è stata voglia d’informarsi sulla morte del
responsabile del merchandising del gruppo, Nick Alexander. Si scrive veloce, si ragiona
poco e cresce la confusione.
Dopo la strage al Bataclan anche i musicisti e le band, oltre a condannare l’accaduto, si
sono trovati di fronte a scelte difficili, in brevissimo tempo. Reazioni diverse ma in ogni
caso condivisibili: chi ha interrotto il tour, come i Foo Fighters di Dave Grohl, il quale aveva
collaborato con gli Eagles of Death Metal ed ha scritto: «Non c’è altro modo per dirlo. Tutto
ciò è pazzesco e fa schifo». O Prince i cui concerti europei sono stati sospesi.
Comprensibile, prima di tutto perché il disordine di questi giorni non garantisce l’umana
leggerezza che si vorrebbe mentre si assiste a un concerto. E poi per la sicurezza, con i
fan e i collaboratori sempre in pericolo. Allo stesso modo si sono mossi i Coldplay e gli U2,
fra i primi ad omaggiare le vittime al Bataclan. Silenzio per riflettere, a costo di fermare le
poderose macchine dello show. Ma interrompere la macchina significa anche piegarsi alla
paura e non alimentare quell’economia su cui tanti, dagli attrezzisti ai fonici ai locali,
contano per vivere. Madonna ci sarà quindi per i tre concerti che la vedranno, da venerdì,
a Torino. L’altro ieri ha ringraziato il pubblico di Stoccolma per l’amore con il quale è
riuscito a trasformare le tenebre in luce. Raddoppiate a Torino le misure di sicurezza e
l’uso di cani antiesplosivo, anche allo stadio in vista del match Juventus — Milan di
sabato.
Il lutto è stato condiviso anche dagli artisti italiani. In un lungo post su Facebook, Jovanotti
ha scritto: «Oggi il dolore e lo sgomento, domani l’impossibilità di dimenticare e tutte le
misure necessarie da adottare e i sistemi da rafforzare, ma già da subito rimettersi in
cammino verso la prossima partita di calcio, la prossima passeggiata, il prossimo concerto
da andare a sentire». Tiziano Ferro, questa sera al Mediolanum Forum: «La musica mi ha
sempre aiutato nei momenti peggiori ed è per questo che la musica non si deve fermare.
Per riflettere, per stare insieme e andare avanti, senza timore». Sullo stesso tono anche
Gianna Nannini, Marracash (con un laconico: «Da domani sarà tutto peggio») e molti altri.
Il problema resta la sicurezza, ma fino a un certo punto. È chiaro che siamo di fronte a
circostanze incontrollabili, al limite della ragione umana. La musica probabilmente è solo
un pretesto, emblematico certamente, ma che ha come denominatore comune
l’assembramento di gente, come in ogni qualsiasi festa. Intanto i promoter, fra i quali Live
Nation e AEG Live, stanno discutendo su come aumentare i protocolli di sicurezza del
pubblico. Sembrava assurdo vedere scuole con il metal detector o poco plausibile la
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tessera del tifoso. A breve, quando compreremo il biglietto di un concerto, è presumibile
che dovremo presentare il certificato penale. Nemmeno Ray Bradbury avrebbe
immaginato tanto.
Da il Sole 2 4ore del 17/11/15, pag. 16
Audiovisivo. La proposta degli esercenti
«Con 50 milioni di euro via l’Imu dai cinema »
«Aboliamo l’Imu su cinema e teatri. Adesso. Eliminiamo una patrimoniale sulla cultura e
sul nostro futuro che non ha ragione di esistere». Luigi Cuciniello, presidente Anec
(Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici) e vicepresidente Agis (Associazione
Generale Italiana Spettacolo) è convinto che questa può essere la volta buona. «È una
misura che abbiamo quantificato in 50 milioni di euro. Onestamente è uno sforzo che
andrebbe fatto per sostenere attività senza le quali i centri cittadini rischiamo di spopolarsi
e depauperarsi».
L’occasione buona per il presidente Anec e vicepresidente Agic potrebbe presentarsi con
la legge di stabilità. Certo, in questo momento l’assalto alla diligenza è uno sport fin troppo
praticato. Ma a Cuciniello il momento appare propizio. «È doveroso riconoscere – dice –
che, dopo anni in cui si diffondeva a macchia d’olio il verbo secondo il quale “con la cultura
non si mangia”, questo nuovo corso politico abbia invertito la rotta ed ha cominciato a
investire su attività e industrie culturali».
In realtà qua e là qualche comune ha fatto qualcosa in termini di agevolazioni. Ma per il
presidente degli esercenti cinematografici è ora di fare qualcosa a livello di sistema. «È
tempo di dare un segnale chiaro anche agli operatori e agli imprenditori che gestiscono
cinema e teatri. Coloro che soffrono più di ogni altro della tassazione locale, il cui
incremento del 300% sta colpendo al cuore la redditività di queste imprese che “muoiono”,
chiudono, depauperando così un capitale culturale e sociale di inestimabile valore».
Insomma, l’esigenza è quella di tutelare le monosale cittadine che nel corso degli anni
sono andate inesorabilmente verso la chiusura (si parla di oltre 700 sale chiuse in più di 10
anni, sostituite comunque in gran parte dalle multisala). «Siamo convinti - conferma
Cuciniello – che non si debba sprecare questa occasione della manovra economica per
eliminare l’Imu sui cinema e i teatri. Per tutti e per sempre. Sono la nostra casa. La “casa
culturale”, a funzione pubblica e sociale, degli italiani. E queste strutture sono i presidi
unici e permanenti del nostro sistema culturale, ne costituiscono il sistema connettivo,
sono centri di aggregazione sociale ramificati sul territorio e attivi per 365 giorni l’anno».
A. Bio.
del 17/11/15, pag. 36
Libri in prestito o in regalo, spettacoli teatrali nel salotto di casa e studi
di scultori e pittori aperti ai visitatori mentre l’artista lavora. E ancora,
visite turistiche organizzate da chi ha semplicemente voglia di
raccontare la propria città: così lo sarin della cultura sta vivendo una
stagione d’oro
Lo scambio delle idee
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RAFFAELLA DE SANTIS
ALESSANDRO LONGO
CI siamo ormai abituati ad ascoltare musica su Spotify, a cercare case su Airbnb, ad
affittare auto su Car2Go ma ora la nuova tendenza è condividere libri, film, spettacoli
teatrali. Insomma, anche la cultura entra a far parte della sharing economy. Tanto che il
rapporto Share Italy 2015 registra una novità: su 118 piattaforme di sharing censite sul
territorio nazionale, dieci riguardano il settore della cultura. Settore che nell’anno passato
era completamente assente. Che cosa è successo? «La caratteristica di questi siti è che
non solo facilitano l’accesso a contenuti culturali, ma anche la relazione tra persone che
condividono la stessa passione », spiega Marta Mainieri, creatrice del progetto
Collaboriamo. org, che ha mappato la sharing economy italiana. Segno dunque che la
generazione dei millennials, i nativi digitali nutriti dai social network e cresciuti ai tempi di
Wikipedia, non si accontenta di quanto ha già tra le mani ma rilancia.
Se un tempo un vecchio libro, uscito dai cataloghi, si poteva trovare solo in biblioteca, o
tuttalpiù in un mercatino dell’usato, ora sono stati creati siti e app in cui si possono cercare
anche i titoli meno usuali. Si chiamano comprovendolibri. it o greenbooksclub. com e sono
network usati da lettori comuni e anche dalle scuole. Per fare un esempio: online al
momento si può acquistare “La preda e altri racconti”, libro per amanti della cultura indiana
di Mehasweta Devi, o un bestseller come “Il gabbiano Jonathan Livingstone” di Richard
Bach. Su Boosha ci sono sia libri da scambiare che da comprare. A fine mese verrà
lanciata una versione 2.0 dell’app che regalerà uno sconto per acquisti nelle librerie
universitarie. Boosha è la versione tecnologica dei vecchi salotti letterari. Funziona così:
chi si iscrive entra in contatto con altri utenti della community (tra loro si chiamano
booshers) e attraverso una chat può proporre libri o chiederne. Il fondatore Mario Di
Girolamo dice: «Lo spirito è facilitare la vita degli studenti con scambi a costo zero ».
Molti progetti nascono sul territorio, pensati per facilitare la vita di quartiere. A Milano, nella
zona Rogoredo Santa Giulia, è stata creata Biblioshare, una biblioteca virtuale che
permette di scambiarsi i libri con i vicini di casa. Paolo Pisani, che ne è l’ideatore, sogna in
grande: «Contiamo di espandere il nostro servizio in tutta Italia. Dove non c’è una
biblioteca, ci siamo noi: in strada o in locali affiliati con Biblioshare. Leggendo sono nate
conoscenze e nuove amicizie». Sono dunque gli scambi umani a guadagnarci, più che i
nostri risparmi. Derrick de Kerckhove ne è convinto: «Internet è un sistema limbico, è
come l’area del nostro cervello che veicola le emozioni. L’uomo occidentale è egotistico,
chiuso in sé, lo sharing ricrea legami».
«Non dobbiamo sottovalutare la globalizzazione della cultura data dalla Rete», dice
Maurizio Ferraris. «Il web la rende più rapida, più accessibile. E un mondo più
cosmopolitico è un mondo in cui gli sguardi sono più aperti, in cui si allargano gli orizzonti
mentali ». A volte i progetti nascono come risposta a un momento di crisi. La cultura della
condivisione è anche figlia delle attuali difficoltà economiche. Due anni fa un piccolo
gruppo di lettori e scrittori, tra cui Michela Murgia, ha creato in Sardegna Liberos, una
piattaforma peer- to- peer per amanti della lettura che nel giro di poco tempo ha raccolto
più di ottomila appassionati. Tutto è iniziato nel tentativo di salvare una libreria storica di
Cagliari che rischiava di chiudere. In quell’occasione arrivarono in pochi e occuparono il
locale iniziando ad organizzarci eventi per farlo sopravvivere. Da lì ne è nato un progetto,
con reading di scrittori nei paesini dell’entroterra sardo e molto altro.
Non solo libri, lo sharing riguarda ormai ogni forma d’arte, dal teatro alla pittura, dal
cinema al design. «È il nostro modo di ripensare il mercato tradizionale e di ricreare un
welfare culturale in via di estinzione», dice Bertram Niessen, direttore scientifico del
progetto Che Fare che finanzia nuove forme di produzione culturale. Sono nuovi modelli di
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produzione, che escono dai luoghi tradizionali per venirci incontro. Teatroxcasa, ad
esempio, porta materialmente gli spettacoli dentro i nostri tinelli, nei nostri giardini e
perfino nelle nostre cantine (sarebbe piaciuto al genio polacco di Kantor, che per i suoi
spettacoli amava scantinati e luoghi atipici). Sul sito si legge: “Il teatro si può fare ovunque.
Non ha bisogno di grandi spazi. Una stanza di 25-30 metri quadrati, anche se arredata, è
sufficiente”. Ognuno potrà crearsi una stagione teatrale su misura.
Gli artisti invece ora si divertono a mettere a disposizione del pubblico i loro laboratori.
MyHomeGallery organizza soggiorni nelle loro case, aprendo le porte a visitatori, curatori
e collezionisti. Si può semplicemente vedere come l’artista lavora o anche prenotare un
workshop per imparare a dipingere o creare una scultura o un’installazione. Ci sono anche
piattaforme per facilitare l’incontro tra turisti e gli abitanti dei luoghi che vengono visitati, tra
cui Curioseety, GoCambio, Tourango, Native Cicerone, che permette a chi vuole di
trasformarsi in una guida turistica nei luoghi più amati della propria città.
Anche il cinema può diventare sharing: MovieDay permette ad ognuno di scegliere il film
che vuole vedere e poi organizza la proiezione nelle sale che aderiscono all’iniziativa, dal
piccolo cinema di Afragola (Napoli), a quello di Bolzano, dove ieri è stato proiettato The
Rocky Horror Picture Show, pellicola del 1975 diretta da Jim Sharman, che è diventata un
cult per gli amanti del genere. Al Plinius di Milano, sarà la volta invece di Eva Braun di
Simone Scafidi, non meno trasgressivo: il tema sono gli scandali sessuali dei politici
italiani. Unica condizione per organizzare il cineclub: che aderiscano un certo numero di
partecipanti. E per orientarsi tra eventi, musei e librerie sul territorio nazionale è stato
creato Openculture Atlas, sito legata al portale Tropico del Libro.
Da un po’ di tempo anche gli aspiranti scrittori hanno scoperto i nuovi strumenti. Si
esercitano su piattaforme come Intertwine in cui si va per scrivere storie a più mani o per
condividere la propria o su Twletteratura, esperimento nato su Twitter per rileggere
collettivamente i grandi classici. Senza timori referenziali, può trattarsi de “I promessi
sposi” o de “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino. Sotto il grande ombrello della
sharing economy c’è di tutto, basta saper cercare.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 17/11/15, pag. 26
Dalle lavagne interattive multimediali alle aule «intelligenti»: come
funziona lo studio hi-tech e la frontiera della banda ultra-larga In Italia ci
sono 9 computer ogni cento allievi (la media europea è 24)
Classi 2.0, Lim, lezioni capovolte
Alla ricerca dei «prof connessi»
Per la tecnologia a scuola adesso c’è un piano. Sta in un documento corposo, 140 pagine,
scritto con la stessa grafica della Buona Scuola, approvata a luglio con il voto di fiducia, e
con il medesimo stile «narrativo». Si parla di fibra e banda ultra-larga per ogni istituto, di
laboratori, competenze digitali degli studenti, di animatori digitali. Ma anche di robotica ed
elettronica educativa, serious play e story telling. Il tutto riassunto in trentacinque «azioni»,
che hanno ricevuto in dote un miliardo di euro (derivanti dalla Legge 107 di riforma della
scuola e dai fondi strutturali europei del Pon Istruzione 2014/2020). Destinati a formare,
accompagnare, monitorare quello che è un progetto «rivoluzionario», come ha detto il
ministro, Stefania Giannini. E qualcosa di nuovo c’è davvero, perché al di là della spinta
tecnologica, il Piano nazionale scuola digitale contiene finalmente indicazioni sui «nuovi
curricoli scolastici» cui la legge 107 faceva solo cenno e affronta il tema della formazione
obbligatoria dei docenti.
Lo Stato ha investito molto poco in innovazione, negli ultimi anni. La tecnologia è la
Cenerentola delle scuole italiane. Non perché assente, ma maltrattata e mal gestita. La
Corte dei conti ha appena bocciato il piano avviato nel 2012 dal Miur — il ministero
dell’Istruzione Università e Ricerca — per la dematerializzazione delle procedure
amministrative. Bene solo le iscrizioni online, dicono i giudici contabili; «così così» il
registro elettronico; male altre voci come il fascicolo elettronico degli alunni (un contenitore
di documenti e materiale prodotto dagli studenti), o la scrivania virtuale. Malissimo
l’archivio virtuale, che dovrebbe consentire la conservazione di tutti i documenti in formato
elettronico. Non solo non si potrà rivedere a distanza di anni un tema o un compito del
liceo, ma le scuole si ritrovano ancora con quantità impressionanti di carta da gestire:
qualcosa come 85 quintali a istituto.
Se i computer non bastano
Ogni cento studenti in Italia ci sono 9 computer (24 la media europea), sottolinea l’Ocse
che, pure, ha messo in guardia dall’investire solo in dotazioni tecnologiche: non è così che
si ottengono performance migliori in lettura, matematica e scienze; o nell’inclusione e nel
recupero degli studenti più poveri e disagiati. «Per quello — dice un maestro esperto,
Franco Lorenzoni — servono insegnanti davvero preparati a entrare in contatto con i
ragazzi». Ragazzi che, per la prima volta nella storia, ne sanno più dei loro prof. «Il terreno
delle tecnologie potrebbe essere fondamentale per sperimentare uno scambio
generazionale, costruire un dialogo, coinvolgere ed entusiasmare studenti che magari a
scuola ci vanno anche, ma con la testa non sono lì», dice.
E invece: docenti italiani in grado di insegnare con le tecnologie? Venti su cento (32% il
dato nel Vecchio Continente). Anche perché sono solo 22 scuole (contro 44) su cento a
offrire corsi ad hoc.
Ma è sull’accesso alla rete che siamo davvero indietro: solo Romania e Turchia ci stanno
alle spalle. L’Ocse due anni fa raccomandava all’Italia di accelerare, quantificando il gap
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digitale del sistema formativo italiano in 15 anni rispetto al Regno Unito. Senza banda
larga e attrezzature adatte — scriveva l’organizzazione — tale gap non potrà essere
colmato. Mentre la scuola dovrebbe essere il principale attore per innalzare il livello di
competenza dell’intera popolazione attraverso un «contagio» digitale nelle famiglie.
La priorità digitale
Insomma, servono investimenti importanti. E il ministro Giannini ha messo sul piatto la
promessa di un cambiamento. Il Piano nazionale scuola digitale (Pnsd) stanzia 600 milioni
in cinque anni sulle infrastrutture e 400 milioni per il resto. Per la formazione degli
insegnanti ci sono 140 milioni. Duemila prof diventeranno responsabili digitali in ogni
istituto. Per loro si pensa anche a una formazione internazionale. Ancora numeri: 225
milioni di euro finanzieranno i laboratori digitali e altri 200 i «luoghi di innovazione» dove
fare robotica, coding, stampa 3D; 48 il registro elettronico, che entro l’anno verrà introdotto
in 141 mila aule delle primarie; 140 milioni serviranno a «rivoluzionare gli ambienti di
apprendimento»: spazi alternativi, laboratori mobili a disposizione di tutta la scuola.
Tecnologie leggere, addirittura portate dagli studenti.
L’accesso a Internet super veloce è stato garantito dal sottosegretario al ministero dello
Sviluppo economico, Antonello Giacomelli: le scuole avranno la priorità rispetto agli altri
interventi del Piano nazionale banda ultra-larga «e saranno tutte collegate con la fibra ad
almeno 100 mbps entro il 2020», ha detto firmando un protocollo d’Intesa con il Miur.
Sarà compito del ministero dell’Istruzione, invece, quello di dotare di cablaggio Lan o
wireless aule, corridoi, spazi comuni: ogni scuola potrà contare su un budget compreso tra
7.500 e 18.500 euro, con un’integrazione di 1.200 euro a istituto per pagare la bolletta
della connettività.
Un cambio di passo. «Con la vecchia impostazione (partita nel 2008 e focalizzata
sull’acquisto di Lim, le lavagne interattive multimediali, su investimenti in tecnologia
pesante per poche scuole, le Classi 2.0 o Scuole, 2.0 a più alta vocazione tecnologica), ci
sarebbero voluti 50 anni per raggiungere tutte le 350 mila classi italiane. Con attrezzature
che nel frattempo diventano obsolete», spiega Donatella Solda, della segreteria tecnica
del ministero, che ha partecipato alla stesura del Piano. Quindi non si punta più a un
dispiegamento di tecnologia, ma «a costruire una visione dell’educazione nell’era digitale»,
ha assicurato il ministro. Passare dalla trasmissione delle conoscenze alla condivisione e
alla formazione di competenze.
Cattedre e formazione
Le competenze, appunto: il perno sono quelle definite «chiave», in sede europea, che il
sistema di istruzione di ciascun Paese Ue deve trasferire agli studenti per formarli come
cittadini globali. Alcune chiare, come la comprensione di un testo complesso e il
ragionamento matematico. Altre inedite e ancora da definire: l’autoimprenditorialità, o la
capacità di imparare a imparare.
Di competenze «si parla molto a scuola — dice Lorenzoni —, peccato che non si sappia
né come insegnarle né come misurarle. E senza una formazione specifica non si fa molta
strada».
«Il nuovo Piano costituisce un passo avanti considerevole», è il commento di Marco Gui,
ricercatore dell’università Bicocca di Milano che ha appena firmato una ricerca
commissionata dalla presidenza del Consiglio in cui conclude che gli investimenti in
tecnologia non hanno finora prodotto benefici sul rendimento. «La questione digitale —
sostiene — diventa finalmente anche un problema organizzativo, di formazione, di
ridiscussione degli obiettivi di apprendimento». Il dubbio che resta, però, è «un problema
comune a tutte le politiche di introduzione delle ICT di questi anni: si finanziano aule e
scuole “aumentate”, ma cosa si debba fare esattamente in questi nuovi ambienti non è
chiaro, dato che la ricerca brancola ancora nel buio per quanto riguarda l’efficacia della
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didattica digitale». «Quello che sappiamo, è che è urgente fornire agli studenti
competenze di uso consapevole di Internet, anche per l’utilizzo extrascolastico».
È il lato software, insomma, il capitale umano, l’anello debole della macchina da guerra
che ci vorrebbe sul piedistallo, in una sorta di «via italiana all’approccio digitale».
Le «flipped classroom»
Il Piano parla però diffusamente anche di buone pratiche da imitare, di idee da mettere in
rete, di premi per prof innovatori e banche di esperienze a cui attingere. È così nelle 104
scuole dove le lezioni sono «rovesciate»: le flipped classroom, con docenti che assegnano
un compito, gli studenti a casa lavorano con video e risorse di e-learning; e il giorno dopo
ne discutono in classe. È anche nata un’associazione, Flipnet, per la diffusione
dell’insegnamento «a testa in giù», in cui il docente da attore protagonista diventa un
regista dell’azione pedagogica. Ma è solo uno degli aspetti più appariscenti di un fermento
che anima la scuola: l’importante non è più cosa si insegna, ma come. Ecco allora che gli
studenti vanno in cattedra. O le scuole in rete. Si pratica lo «spaced learning»,
l’apprendimento intervallato (ogni dieci minuti di lezione i ragazzi fanno una pausa). O ci si
sposta all’interno della scuola, da una classe all’altra, per seguire le lezioni, come al
Labriola di Ostia. Dove un preside illuminato e appassionato ha inventato il «Dada», la
didattica per ambienti di apprendimento. Migliorano logistica e costi per la scuola, aumenta
la capacità di concentrazione degli studenti e la motivazione dei docenti.
Esperienze nate per intuito o buona volontà. Alcune unite in «movimenti», come quello
delle Avanguardie educative, nato nel novembre 2014 con 22 scuole apripista e arrivato a
spegnere la prima candelina con 263 aderenti, che hanno il compito di istruire a loro volta
altre scuole su come plasmare l’insegnamento sulle nuove esigenze degli studenti e della
società. «È in corso un lavoro di mappatura», spiega Solda. Obiettivo: raggiungere tutti. E
imparare da chi è più avanti.
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ECONOMIA E LAVORO
del 17/11/15, pag. 7
“Unions! Sabato Fiom in piazza”
Fiom. Non solo contratto e legge di stabilità. Dopo i fatti di Parigi i
metalmeccanici Cgil allargano il significato della manifestazione del 21
An. Sci.
La Fiom ha confermato la propria manifestazione per il contratto il prossimo sabato, ma
visti i fatti tragici avvenuti in Francia ha allargato il tema alla lotta contro il terrorismo. Lo ha
spiegato ieri il segretario generale dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini, davanti a
una assemblea di delegati riunita a Milano: «Condanniamo in modo totale quello che è
avvenuto a Parigi», ha detto. «Lo dobbiamo fare con tutti — aggiunge Landini -, compresi i
musulmani, per affermare che bisogna mettere in campo una mobilitazione generale per la
lotta contro il terrorismo, contro la guerra e per la pace».
La manifestazione di sabato Unions! Per giuste cause, indetta dall’assemblea nazionale
dei metalmeccanici Fiom, fin dalla sua proclamazione ha indicato un percorso più vasto
rispetto a quello strettamente sindacale: insieme alle tute blu sfilerà infatti la Coalizione
sociale, con studenti, lavoratori autonomi, associazioni, per dire no alla Legge di stabilità
targata Renzi e chiedere equità fiscale, un abbassamento dell’età di pensione,
investimenti pubblici a sostegno della crescita.
La piazza sarà ancora più folta, e ricca, c’è da scommetterci, perché è la prima occasione
offerta agli italiani (se si eccettuano le manifestazioni immediatamente successive agli
attentati di Parigi) per offrire solidarietà ai nostri cugini d’Oltralpe e chiedere con forza un
impegno per politiche di pace.
Parlando ai suoi, dal palco dell’assemblea di Milano, Landini è tornato a criticare il
governo: «Sta cancellando leggi senza discutere con nessuno e senza avere il consenso
dei cittadini — ha detto — Dobbiamo porci il problema di cancellare le leggi sbagliate e al
contrario del governo, mettere i cittadini nella condizioni di potersi esprimere e
partecipare».
Chiaro il riferimento al referendum che la Cgil intende richiedere per abrogare le parti
peggiori del Jobs Act, proposta che verrà sottoposta al voto dei lavoratori tra gennaio e
febbraio prossimo, dopo che in dicembre verrà presentato il nuovo Statuto dei lavoratori:
«Non è mai successo nella storia del Paese che un sindacato valutasse la possibilità di
essere promotore di un referendum abrogativo — ha notato Landini — Deve diventare una
battaglia non solo del sindacato, ma di tutti, in modo che ci sia uno statuto per tutte le
forme di lavoro, quello dipendente, quello subalterno e quello autonomo».
Quanto al contratto, il segretario Fiom ha spiegato che «il tavolo unitario» che si aprirà il
prossimo 4 dicembre con le imprese «è una novità», anche se «le prime dichiarazioni di
Federmeccanica non rendono facile» questa soluzione. «C’è la volontà di cercare un
accordo», ma «la situazione è molto difficile», ha aggiunto. «Abbiamo alle spalle un
accordo separato e non c’è un accordo interconfederale di riferimento».
Tra le richieste della Fiom «il diritto alla formazione, la riforma dell’inquadramento,
l’applicazione dell’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio». Su quest’ultimo punto,
Landini spiega che «applicarlo significa impedire accordi separati». «Sia il contratto
nazionale sia la contrattazione aziendale devono vivere e non possono essere uno
sostitutivo dell’altra».
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Un’ultima battuta Landini la fa sul papa: «Certo che gli darei la tessera Fiom — ha detto —
ma lui non l’accetterebbe. A ragione, perché è il papa di tutti». E se Bergoglio non si
iscrive ai metalmeccanici, Landini prenderà la tessera di Sinistra italiana: «Il sindacato è
indipendente e autonomo, non ha forze politiche di riferimento. Abbiamo le nostre
proposte e ci interessa discuterle con tutti».
del 17/11/15, pag. 30
Via al salva-Regioni Tasi esente per i figli
Sud, caccia ai fondi
Si preparano le prime modifiche alla legge di stabilità Ue, giudizio
rinviato, rischio di non rispetto delle regole
ROBERTO PETRINI
ROMA.
Maratona nella notte per trovare i fondi per il Sud: sul tavolo il rafforzamento o
l’allungamento della decontribuzione, gli sgravi per gli investimenti e il cumulo con il
superammortamento. La riunione di Palazzo Chigi, con i rappresentati dell’Economia, è
finalizzata alla ricerca delle coperture: si va dall’ipotesi di un mix delle tre misure ad un
rafforzamento di uno solo degli strumenti.
Intanto il Salva-Regioni atterra sulla legge di Stabilità sotto forma di emendamento del
governo. Mentre viene finanziata la spesa per i farmaci innovativi (compresi quelli per
l’epatite C) - oggetto delle richieste delle Regioni - che resteranno a carico del Servizio
sanitario nazionale. Si attende una soluzione per i rincari Tasi in vista del saldo del 16
dicembre con il rischio di una mini-Tasi a gennaio. Tornano all’ordine del giorno anche le
esenzioni Tasi-Imu per le abitazioni in comodato ai figli, a patto che l’immobile si trovi nella
stessa città, e per i separati. Sconti anche per gli affitti a canone concordato, come ha
ricordato ieri il sottosegretario all’Economia Baretta.
Sulla situazione economica si è espresso ieri il presidente della Repubblica, Mattarella
sottolineando che al Sud il livello di disoccupazione è «insostenibile » e che in Italia i
segnali di ripresa devono essere un «incoraggiamento ». Il premier Renziha osservato che
«in diaci mesi daremo il colpo di reni definitivo per la crescita».
Al centro della giornata di ieri la sanità. La spesa per i farmaci innovativi (compreso quello
contro l’epatite C) rimarrà nel 2015 e 2016 a carico del Sistema sanitario nazionale e non
concorrerà al raggiungimento del tetto di spesa per la farmaceutica. Così le risorse ad hoc
di 500 milioni introdotte con la legge di Stabilità dello scorso anno potranno essere spese
al di fuori del tetto dell’11,35 per cento del fondo sanitario nazionale e dunque senza rischi
di sfondamento. L’emendamento è stato proposto dai senatori Pd della commissione
Sanità, compresa la presidente Grazia De Biasi, e riformulato dalle relatrici Zanoni (Pd) e
Chiavaroli (Ap).
Il governo scioglie anche il nodo del cosiddetto Salva-Regioni il cui ritardo aveva portato
alle dimissioni di Chiamparino dalla guida della Conferenza delle Regioni. Le misure
contenute nell’emendamento - che ricalca il testo del decreto approvato dal consiglio dei
ministri lo scorso 6 novembre su sollecitazione delle regioni - aiuterà i bilanci delle regioni
a schivare il rischio default. Il provvedimento riscrive le norme sulla contabilizzazione delle
risorse ricevute negli anni scorsi dal governo per pagare i debiti con i fornitori che stavano
emergendo nei bilanci delle Regioni come un vero e proprio buco valutato in 20 miliardi
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per l’intero sistema. In particolare, il problema resosi acuto dopo la sentenza della
Consulta e la certificazione da parte della Corte di Conti, rischiava di far emergere un
deficit di 6 miliardi nel solo Piemonte..
Si continua lavorare sulla Tasi- Imu seconda casa per chi assegna l’abitazione in
comodato ai figli e per le abitazioni lasciate da chi si separa all’ex coniuge, a patto che si
sia proprietari di un solo immobile nella stessa città. Il tema sul tappeto è quello di
intervenire in favore di chi dà una abitazione in comodato d’uso ai parenti in linea diretta,
tipicamente i genitori con i figli, ma anche per venire incontro a chi si separa e lasciando il
tetto coniugale si ritrova anche a pagare le tasse sul mattone come se si avesse una
«seconda casa » (quindi Imu e Tasi).
Potrebbe slittare, infine, il giudizio di Bruxelles sull’Italia. Il documento indicherebbe rischi
per il nostro paese di non rispettare le regole del patto di stabilità e dunque tutto sarebbe
rinviato in primavera.
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