I nuovi modi di apprendere e le loro promesse

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I nuovi modi di apprendere e le loro promesse
I nuovi modi di apprendere
e le loro promesse
Marco Rossi Doria
Articolo per Formazione e Ambiente
I nuovi modi di apprendere e le loro promesse
di
Marco Rossi-Doria
Solo una parte dell’apprendimento avviene a scuola. E’ stato sempre così. E va aggiunto – per noi
che ci occupiamo delle relazioni tra la formazione umana e l’ambiente – che, nel tempo, si sono anche
perduti alcuni decisivi apprendimenti. I quali da un lato afferivano più direttamente alla relazione tra uomo e
natura e, dall’altro, erano appresi non in un luogo separato ma entro le comunità di appartenenza. Le quali ne
riconoscevano l’avvenuta acquisizione in modo pubblico e simbolicamente connotato. Questo è accaduto –
generazione dopo generazione – nelle società umane, da quelle dette primitive fino a metà del secolo scorso.
E fino a qualche decennio fa tale apprendimento ha affiancato quello che avveniva a scuola. Le pagine nelle
quali i ragazzi di Barbiana mostrano il loro sapere sulla terra, sulle coltivazioni, sul bosco e sugli uccelli sono
gli ultimi echi di questo “mondo dell’apprendere” che era largo. E che poteva riverberarsi in una scuola ben
fatta, consolidarsi in sapere scientifico, scrittura, calcolo e rappresentazione. Senza svilire quel piano primo
dell’imparare. Era un apprendere nel quale – per ogni adulto che guardava crescere i ragazzi, genitore o
insegnante che fosse – la scuola era una parte, con suoi canoni distinti, che affiancavano e assumevano in
una possibile forma l’insieme più esteso degli apprendimenti. Quel rapporto tra scuola, vita, adulti e ragazzi
sta nell’intreccio delle storie di Tom Sawyer e Huckulberry Finn - nei romanzi di Mark Twain. Che mostrano
questo doppio mondo, che ha avuto un conflitto interno forte, poiché la scuola in parte tradiva la vita e, al
contempo, ne prometteva una nuova. Questo doppio imparare ha abitato l’apprendimento di ciascuno, a
lungo.
L’urbanizzazione non ha smentito completamente questa scena. Piuttosto la ha trasferita e
modificata. E anche nelle città vi erano costanti attività di strada, dove i ragazzi erano in giro ad imparare, in
vera autonomia, a fare cose e a misurarsi con socialità e conflitto, libertà e responsabilità, fuori dalla scuola.
Certo, c’era la durezza del lavoro infantile, come nelle pagine di Dickens. Ma v’era, insieme, anche altro. Le
pagine di Molnar sui ragazzi della Via Pal ci raccontano di esplorazioni, costruzioni, cacce, aquiloni,
combattimenti. Vi è stato, dunque, un mondo di avvenimenti complessi, carichi di saperi e competenze –
come si direbbe oggi – che venivano svolti altrove dalla scuola. In modo per lo più auto-organizzato. E dove
era, perciò, possibile provare e provarsi. Molti di questi apprendimenti hanno sempre anche comportato la
verifica “naturale” della competenza. “Sono bravo a…” Questo riconoscimento è avvenuto, per decenni,
senza o fuori la scuola; ma poi anche a fianco ad essa. Il mondo adulto era parte di tale riconoscimento,
grazie ai riti di passaggio, comunitari. Che solo da qualche secolo da espliciti e codificati si sono fatti
impliciti. Comunque, il mondo adulto sapeva dire ai ragazzi: “Ora tu sai riconoscere piante, sai coltivare,
sai cucire, cucinare, hai imparato a cacciare, a pescare, a costruire ripari, a manutenere, a curarti dei tuoi
pari più piccoli, a usare il corpo secondo differenti esigenze comuni oltre che individuali, a adattare e
trasformare ecc.” E gli adulti - una volta riconosciuto ciascun sapere e apprendimento - delegavano compiti,
funzioni, responsabilità diretta. Parimenti avevano luogo una serie complessa di prove sociali: riti, gestione
di situazioni secondo costumi e usi, utilizzo di linguaggi specifici, liturgie. Si imparava attraverso un lungo
noviziato, in modo situato, che prevedeva prove e esiti misurati. Nei quali erano incarnati un apprendistato
cognitivo e un percorso emotivo, che davano senso a gesti, parole, produzioni, contesti e momenti.
Ancora oggi la maggioranza dei bambini e ragazzi del pianeta conoscono queste cose nella loro
esperienza di apprendimento.
Nei nostri luoghi – che sono una minoranza del mondo – la scuola, nel corso dell’ultimo mezzo
secolo in modo impressionante, ha progressivamente imposto il monopolio dei codici e dei metodi di
apprendimento. Questo ha relegato in spazi secondi e terzi il corpo, l’autonoma organizzazione, il rischio di
fare, disfare, scegliere, provare conseguenze dei gesti, assumere presto compiti, eseguire opere ecc.
Oggi, lontano dalla natura e dalla socialità di strada, sta avvenendo qualcosa che disegna un nuovo
larghissimo apprendistato cognitivo che occupa una scena immensa, davvero globale. Che propone
apprendimento per lo più fuori dalla scuola. E che proietta anche tutte le discipline del sapere che erano
prima disponibili entro il tempo-spazio difeso dal setting scolastico su un piano di libero accesso, in mille
forme e in ogni luogo. Con la possibilità di essere rapidamente manipolate, variate, confuse, confrontate,
espanse. Lo stesso funzionamento del cervello umano viene chiamato in causa: organizzazione della
memoria, presenza simultanea di molti codici e dispositivi che stimolano i diversi sensi insieme,
compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, tra
rapidità e pazienza, ecc.
Di fronte a questo scenario, soprattutto nelle scuole superiori, l’idea di scuola fondata sul prevalere
del metodo trasmissivo regge ancor meno che in passato. E il tema centrale dell’apprendimento umano passa
dai modi della trasmissione del sapere in un tempo-luogo dati all’intreccio complesso tra nuovi media e
salvaguardia del rigore del metodo, tra sapere di base e graduale acquisizione delle procedure di ricerca, tra
sviluppo del protagonismo personale e rischio di subalternità ai gadgets. L’intero dibattito delle neuroscienze
sul come si apprende, il rapporto tra teoria e operatività, tra modelli e laboratorio, tra apprendimento
individuale e co-costruzione di competenze insieme agli altri, tra conoscenze fondative delle discipline e
conoscenze atte a guardare ai grandi problemi del mondo entro campi di sapere pluri-disciplinari, complessi,
con ampie zone di cerniera tra saperi, tra certezze da conquistare e dubbi indispensabili per farlo: è tutto
questo che viene oggi spostato in uno spazio x, che si trova in bilico perenne tra scuola e fuori.
Insomma c’è un altro modo di apprendere che ha invaso il campo. E con il quale gli insegnanti si
misurano già da tempo. E’ dagli anni settanta che la scuola fa i conti con quanto si andava configurando e
imponendo “oltre il libro e la lavagna”. E, a ben guardare, è stata la tv che, per prima, ci ha introdotti
all’insegnamento della “fruizione critica” dei media, a leggere i molti livelli dei messaggi e poi a produrre
immagini in proprio, misurandoci con i nessi tra uso dei mezzi, creatività, contenuti costruttori di effettivo
sapere. La tv ci ha costretti alla giornaliera fatica di contrastarne i crescenti guasti antropologici in termini di
contenuti e modelli di relazione ma anche a modificare molte forme di insegnamento.
Negli ultimi anni, con una progressione davvero geometrica, la rete ha spinto ogni pretesa di
insegnamento verso la scoperta dell’ineluttabile convivenza e commistione tra mezzi vecchi e nuovi.
Abbiamo ovunque già fatto prova e riprova del fatto che si può ricostituire uno “spazio salvo” per i buoni
rituali e per la sacralità dei codici e dei mezzi tradizionali, purché li si intrecci con i nuovi. Leggere i giornali
e i libri per produrre altri giornali o libri. O radio. O tv. Imparare a recitare bene poesie e opere di teatro per
renderle poi spettacolo riproducibile, musicarle, stravolgerle. Creare opere multimediali in proprio
affrontando le sfide del testo, delle immagini, della musica, del montaggio, del ritmo. E del costante remake.
Mettere in rete in forme altre la fatica rigorosa e creativa di scritture ben curate e di produzioni artistiche,
esperienze scientifiche, manifatture che contengono tecnologie. E, in tutto questo, provarsi con un pubblico
che non conosce confini.
Quel che nella storia fino a metà del secolo scorso era l’apprendere fuori dalla scuola non intaccava
la scuola, che era sempre lì, con i propri codici salvaguardati saldamente nelle mani dei docenti, detentori di
sapere e saper trasmettere che non poteva avvenire altrove o altrimenti. Docenti che, inoltre, erano adulti sì,
ma erano stati ragazzi e conoscevano anche i codici altri, quelli del mondo fuori dalla scuola, perché erano
cresciuti con e in essi.
Oggi la condizione della docenza – dell’adulto che favorisce apprendimento in chi è più giovane - sta
facendo i conti con una rivoluzione nell’idea stessa di trasmettere conoscenze e riconoscere competenze. E’
una condizione che non ha alcuna salvaguardia automatica di ruolo, nessun riparo sicuro, nessun potere
inattaccabile. La realtà di come si impara oggi, infatti, vola e volerà sempre più ben oltre le pareti della
scuola. Annulla il tempo diviso tra “a scuola e a casa o altrove”. Smentisce finalmente ogni idea lineare di
apprendimento.
E’ una cosa enorme. E noi ci sentiamo spaesati. In modo radicale. Tanto che ci viene alla mente il
come poteva sentirsi il vecchio sumero che cantava il sapere rimandandolo a memoria quando vedeva
scrivere parole su tavolette di argilla. O che viene di pensare alla lettera settima di Platone lì dove di fronte ai
rischi della scrittura invoca il sapere orale.
Sì, dobbiamo finalmente ammettere che siamo in una crisi potente – crisi nel senso proprio, di
passaggio decisivo – ogni volta che vediamo i nostri figli o alunni che stanno facendo i compiti di
matematica mentre parlano al cellulare con un auricolare, ascoltando musica con l’altro, mentre inviano sms
a ripetizione, guardano con la coda dell’occhio un canale tv magari in un’altra lingua, con il computer che è
luogo di chat, ma al contempo di ricerca di formule matematiche atte a risolvere i quesiti del compito.
E ancora troppo poco ci domandiamo: cos’altro, intanto, stanno imparando? Poi, però,
comprendiamo mano mano che i nostri ragazzi - pur fragili su molti piani - sono immersi in processi di
apprendimento ricchi, che procedono per salti, approssimazioni, consolidamenti, ritorni. Non è come
abbiamo imparato noi. E, tuttavia, registriamo che c’è un forte bisogno di strumenti selettivi, interpretativi e
regolativi che solo noi possiamo indicare e far valere, ma a condizione di stare a contatto col modo con cui i
ragazzi stanno imparando. Così, alle molte nostre resistenze si vanno affiancando le disponibilità a provare
forme nuove del nostro mestiere. Da trasmettitori di saperi ci stiamo facendo metodologi della loro
selezione. Da detentori di un corpus di nozioni stabilite e rigidamente divise in discipline stiamo
trasformandoci in esploratori e co-produttori di ricerca, sorveglianti di procedure, esperti dei rapporti mutanti
tra forme e contenuti, tra acquisizioni e comunicazioni, tra aree diverse di sapere che hanno rimandi e campi
comuni. Per farlo scopriamo che stiamo agendo in almeno tre direzioni tra loro complementari. Prima:
ricostruire in altro modo i riferimenti fondativi delle discipline e far riscoprire i “classici” in ogni area di
conoscenza. E anche i mezzi classici: il buon libro, il vocabolario, gli appunti, l’atlante, il calibro, la china,
l’acquarello. Seconda: condividere una navigazione curiosa attraverso le scritture on line, i giochi di ruolo, i
programmi di simulazione, scovando il sapere economico, geografico, storico, giuridico, scientifico e i
passaggi logici che contengono o esplorare insieme gli immensi giacimenti informatici di letteratura
mondiale o matematica, scienze, arte, musica. Terza: produrre opere in ogni campo, promuovere prove
d’opera, creare produzioni e scambi globali.
E’ tutto questo che sta accadendo. Ed è così che siamo costretti ad imparare a spezzare il nesso
rigido e il controllo deterministico tra l’informazione erogata (la lezione) e l’informazione richiesta (il test,
l’interrogazione) e a fare ingresso nei campi proficui delle procedure di ricerca: l’elaborazione di progetti e
produzioni, la decodificazione e l’interpretazione, l’analisi e l’attribuzione di significati, l’espressione di
giudizi personali entro procedure sorvegliate e legittime, la validazione di ipotesi e percorsi. E’ un universo,
che ha bisogno urgente di una nuova scuola. Una scuola che non ha nulla a che vedere con la pochezza delle
sedicenti riforme di governo ma neanche con i modelli rigidi di lezione e classe verso i quali resiste troppa
affezione politica, sindacale, culturale. E’ tempo di ri-inventare apprendimento, di smontare e rimontare
daccapo l’organizzazione dell’apprendere, rendendola un immenso cantiere fluido, arioso, inedito, basato su
libertà e diretta responsabilità dei gruppi docenti in azione insieme ai ragazzi. Entro un vagabondaggio
cognitivo ed emotivo, reale e virtuale, tra dentro e fuori, tra esplorare e sistemare. Che è l’unico spazio che
può ridare autorevolezza all’adulto, riconsegnare una funzione di guida, riproporre restituzione codificata,
passaggio di consegne. E, in questo, vi è certamente uno spazio decisivo - che va trovato e ritrovato - per lo
stare insieme, in comunità e per il riscoprire la natura e i nostri nuovi legami con il pianeta, fondati sulla sua
salvaguardia, come condizione per vivere e per apprendere e conoscere. E’ un universo di promessa, che può
riscattare in forma nuova e inedita anche i riti e le esperienze dell’apprendere antico.