Alcune riflessioni sulle rappresentazioni dell`infanzia e dei bambini

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Alcune riflessioni sulle rappresentazioni dell`infanzia e dei bambini
Alcune riflessioni sulle rappresentazioni dell’infanzia
e dei bambini nella Grecia antica
di Gabriella Seveso
Abstract
Il contributo riflette sulle rappresentazioni, stereotipi, e modelli relativi all’infanzia nella Grecia
antica. Il testo presenta un’analisi dettagliata di fonti letterarie (epica, storiografia, composizioni
teatrali, testi filosofici del periodo arcaico e classico) e di alcune fonti artistiche (in particolare, la
ceramografia arcaica e classica e le stele funerarie) Ne emerge un quadro complesso riguardo ai
sentimenti, alle relazioni fra adulti e bambini, agli ideali formativi.
Parole chiave:
Storia dell’Infanzia, Relazioni Adulti/Bambini,
Rappresentazioni dell’Infanzia.
This paper reflects on representations, stereotypes and models relating to childhood in Ancient
Greece. The text presents a detailed analysis of the literary sources (epic poetry, historiography,
drama and philosophy from the Archaic and Classical periods) as well as selected artistic documents (specifically, Archaic and Classical ceramography and tombstones). A complex picture
emerges about feelings, relationships between adults and children, ideals and educational objectives.
Key words:
History of Childhood, Relationship Adults/Children,
Childhood’s Representations
© Pensa MultiMedia Editore srl
ISSN 1722-8395 (in press) / ISSN 2035-844X (on line)
Studium Educationis • anno XIII - n. 3 - ottobre 2012
Introduzione
La più recente ricerca storico-educativa ha, negli ultimi decenni, rivisto alcune
interpretazioni e alcune conclusioni relative alle rappresentazioni dell’infanzia,
sottolineando come si tratti di un fenomeno molto più complesso e frammentario di quanto a prima vista appaia e di come sia stato finora valutato.
Tali recenti evoluzioni, oltre che sollecitate da numerose riflessioni e stimoli
della storiografia pedagogica, si sono avvalse anche della feconda collaborazione con altri ambiti disciplinari, in particolare con le ricerche nell’ambito
dell’archeologia e della storia dell’arte: sono, infatti, ormai numerose le opere
sia in Italia sia soprattutto all’estero, che hanno cercato di ricostruire le rappresentazioni dell’infanzia a partire da quanto emerge dalle fonti artistiche e
archeologiche. In questo ambito, pur considerando di basilare importanza le
ricerche dello storico Philippe Ariès, gli studi più recenti sottolineano l’importanza delle indicazioni metodologiche proposte dallo storico francese, ma
tendono a integrare le conclusioni da lui esposte, con riflessioni che mettono
in rilievo la complessità della ricostruzione relativa alle rappresentazioni dell’infanzia, anche per quanto riguarda l’età antica.
Data la vastità dell’argomento e l’ampiezza della vivace letteratura sull’argomento, in questo contributo tenteremo di proporre solo alcune parziali riflessioni relative al mondo greco, e in particolare all’età arcaica e all’età classica,
analizzando alcune testimonianze artistiche ed archeologiche ed alcune testimonianze letterarie.
Innanzitutto, vorremmo sottolineare come la rappresentazione dell’infanzia
è anche e soprattutto nella cultura greca, molto complessa e contraddittoria,
poiché rimanda a molteplici aspetti e dimensioni: richiama, infatti, l’eventuale
percezione dell’infanzia come età separata dall’età adulta; l’eventuale percezione o meno di bisogni specifici; i sentimenti manifestati nei confronti dell’infanzia, che non sono riconducibili ad un’unica tipologia. Proponiamo,
pertanto, alcune considerazioni su questi diversi aspetti, a partire prima dai
documenti archeologici e figurativi, poi dai documenti letterari.
1. Testimonianze archeologiche e artistiche
Per quanto riguarda le conclusioni a cui ci spingono i ritrovamenti archeologici, alcune pratiche sembrano comprovare la percezione, seppure grossolana
e poco coerente, di una frattura che divide l’età infantile da quella adulta:
Pierre Vidal Naquet, ad esempio, ha messo in luce come le pratiche relative
all’inumazione documentino una differenziazione non solo fra i due generi,
ma anche relativa all’età. La scoperta di una necropoli circostante una tomba
regale a Eretria, in Eubea, infatti, ha portato alla luce resti umani che testimoniano due differenti forme di sepoltura, contemporanee: alcune tombe contengono, infatti, resti umani cremati, altre inumati. Gli archeologi hanno
rilevato come la differenza di sepoltura è connessa non al sesso e all’appartenenza sociale, ma all’età: i corpi degli adulti sono stati cremati, quelli dei ragazzi
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inumati, con uno spartiacque che si colloca circa intorno al sedicesimo anno
di età. Pierre Vidal Naquet parla, a questo proposito, dei sedici anni come età
di passaggio dalla natura alla cultura, dall’infanzia all’adultità, dal crudo al cotto
(Vidal Naquet, 2006); questa età coincide, fra l’altro, in alcune città, con quella
dei riti di ingresso nello spazio pubblico, nella società, in epoche successive1.
Risulta evidente che questa percezione dell’infanzia come età separata da
quella adulta, così come emerge dalle testimonianze archeologiche, è assai
lontana da quella che potremmo avere attualmente, ma si tratta comunque di
una testimonianza interessante.
Oltre alle sepolture, un’altra tipologia di fonti archeologiche è costituita
da tutti quegli oggetti di uso quotidiano, per la cura dei bambini e delle bambine e dai numerosi giocattoli, in particolare rudimentali yo-yo, cerchi, altalene, palle, trottole, bambole destinate ai giochi dei più piccoli. Si tratta di
fonti ormai molto ricche e variegate, sebbene in certi casi estremamente corrose, che documentano certamente le pratiche educative rivolte ai bambini,
ma possono essere lette anche, per alcuni aspetti, come documento delle rappresentazioni e delle percezioni dell’infanzia (Eugene, 1990).
Per quanto concerne, ad esempio, gli oggetti per la cura dei neonati e dei
più piccoli, alcuni di questi ultimi rivelano una certa attenzione alla specificità
dell’infanzia, attenzione che si manifesta sia nell’aspetto estetico dell’oggetto
sia nella sua struttura. Prendendo in considerazione, ad esempio, i poppatoi, è
stato rilevato come la loro costruzione mostri la sensibilità nei confronti delle
esigenze non solo alimentari dei piccoli fruitori. Scrive, a questo proposito
Stefano De’ Siena (2009, p. 44):
Quello che in realtà è uno strumento funzionale come il poppatoio,
assume nella pratica quotidiana le sembianze di un vero e proprio giocattolo. Per la sua fabbricazione si investe tempo, energia e creatività
in progettazione, tecnologia e apparati estetici, con l’intimo obiettivo
di assegnargli un significato semantico preciso, che evidentemente va
ben oltre la possibilità di apprezzamento del lattante. […] Molto presto,
dopo la nascita, il poppatoio univa la funzionalità degli scopi alimentari
alla capacità, grazie al suo aspetto attraente, di calamitare l’attenzione
del lattante e stimolare la sua curiosità e i suoi sensi divenendo man
mano il primo vero attrezzo ludico.
L’autore rimarca come molti poppatoi fossero modificati in modo da contenere palline o sonagli che li trasformassero in giocattoli gradevoli per i piccoli e con l’intento di sviluppare i loro sensi. Questa notevole attenzione nella
progettazione e realizzazione dei giocattoli emergerebbe, per quanto riguarda
l’antichità greca, anche in oggetti destinati ai bambini e alle bambine più
grandi2: a partire da una certa età, compare anche una distinzione fra giocattoli
1
2
Ad Atene, per esempio, in età classica, è l’età di presentazione dei ragazzi alla fratria durante
il terzo giorno della festa delle Apaturie, che prevedeva la cerimonia della rasatura dei capelli.
Sul tema del gioco nel mondo antico si veda: Fitta (1997).
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rivolti ai bambini e giocattoli per le bambine, che svolgevano una notevole
funzione di acculturazione rispetto ai ruoli di genere, come sottolinea Jaime
Marie Layne (2011). A proposito di giochi e giocattoli, Jean-Pierre Néraudau
(1992, p. 47) propone, quindi, alcune interessanti conclusioni relative al mondo
greco:
sembra che i Greci abbiano più sentito, e soprattutto riconosciuto, la
specificità del mondo dei bambini, mentre i Romani sono stati più
sensibili all’aspetto sociologico del gioco. Del resto, il sentimento dell’infanzia apparve presso questi ultimi più tardi che presso i Greci e
senza dubbio sotto la loro influenza (trad. nostra).
Per quanto riguarda, invece, le testimonianze figurative, vi sono in particolare due tipologie di opere d’arte che sono risultate interessanti ai fini della ricostruzione delle rappresentazioni relative all’infanzia: le stele funerarie, da una
parte, la ceramografia dall’altra. Le stele funerarie propongono in alcuni casi la
raffigurazione di scene di vita quotidiana, con gesti e atteggiamenti a volte in
parte stilizzati, in altri casi, riproducono modelli ideali, che fungono da ammonimento e da modalità di celebrazione nei confronti del defunto. È certamente molto difficile ricostruire, a partire da tali fonti, quale fosse la percezione
dei bisogni dei bambini e quali fossero i sentimenti provati nei confronti dei
bambini, poiché le opere d’arte risultano estremamente polisemantiche e si
presentano, a chi le interroga attualmente, cariche di significati ambigui e insondabili. Nonostante ciò, alcuni recenti studi hanno sottolineato come, in alcune stele sia presente una stilizzazione molto marcata, con raffigurazioni
stereotipate e quindi anche opache da interpretare, in altre stele, invece, emerga
un’iconografia molto vivace, realistica, caratterizzata da gesti e atteggiamenti
che lasciano trasparire tracce interessanti riguardo alla rappresentazione dell’infanzia.
Prendendo in considerazione il periodo classico, ad esempio, alcune stele
funerarie di bambine e/o ragazzine mostrano la defunta in pose poco realistiche e poco espressive, immortalando forse un’immagine ideale e paradigmatica: si veda, per esempio, la stele di bambina con colombe, risalente al
450-440 a. C., ora presso il Metropolitan Museum of Arts di New York, che
presenta una bambina molto composta, ritratta mentre bacia una colomba e
ne stringe un’altra; o ancora, si può osservare il gruppo familiare risalente al
360 a. C., ora presso il Metropolitan Museum of Arts di New York, che propone, fra le altre, la figura di una bambina, tenuta per mano dalla madre, rappresentata come una donna in miniatura, in posa molto statica, frontale, priva
di espressione realistica anche nel volto severo. Questa tipo di iconografia è
certamente avara di informazioni relativamente ai sentimenti provati nei confronti dell’infanzia o alla percezione di una eventuale specificità, anche se può
essere interessante, invece, nel mostrare i modelli ideali di bambina (Seveso,
2010; Dodd, Faraone, 2003). Le stesse considerazioni possono essere proposte
anche qualora si prendano in esame altri esempi di arte figurativa, appartenenti
allo stesso periodo e catalogabili come sculture dedicatorie e religiose: si vedano le statue e le stele di bambine provenienti dal santuario di Brauron, ora
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per lo più presso l’Archaeological Museum di Vavrona (Faraone, 2003), o ancora la figura di bambina raffigurata sul celebre fregio orientale del Partenone,
ora conservata presso il British Museum di Londra. Anche altre testimonianze
sembrano dimostrare, da un lato, una certa stereotipia nella rappresentazione
dell’infanzia, dall’altro, una mancata percezione della sua specificità: si veda, a
questo proposito, ad esempio, la stele appartenente alla tomba dell’Ilisso, risalente al 340 a.C. circa, rinvenuta nei pressi di Atene o ora conservata presso il
Museo Archeologico Nazionale di Atene, stele che ritrae anche la figura di
un bambino schiavo, in posizione schiacciata, quasi coperta dal giovane defunto, collocata all’altezza del cagnolino.
I più recenti studi relativi alle opere artistiche sottolineano, però, come,
accanto a esempi come quelli succitati, ne sussistano altri che mostrano una
rappresentazione dell’infanzia attenta alle caratteristiche di questa particolare
età e connessa con sentimenti anche di profondo affetto. Un esempio ormai
più volte citato è quello della stele di marmo chiamata di “Melisto”, risalente
al 340 a.C. circa, ora presso l’Harvard University Art Museum di Cambridge:
essa ritrae una bambina che tiene in mano una bambola e si rivolge sorridente
con un giocattolo al cagnolino che giocosamente le salta addosso. A proposito
di questa vivace opera, John H. Oakley (2004, p. 57) scrive:
Questa toccante immagine di una bambina sorridente dimostra come
i genitori affezionati volevano ricordarla e questo è un documento
dell’arte greca che non lascia dubbi nella mia mente e dimostra che i
Greci amavano e provavano sentimenti di affetto nei confronti dei loro
bambini, come avviene oggi, quando essi muoiono in tenera età (trad.
nostra)3.
A conclusioni simili sembra portare anche una stele di donna, cosiddetta
di Ampharete, proveniente dall’Attica e ora presso l’Archaeological Museum
of Kerameikos, risalente al 430-420 a. C. circa, che ritrae sorprendentemente
una nonna che gioca amorevolmente con il nipotino e mostra il bambino,
seppure in fasce e in tenerissima età, già caratterizzato da una mimica facciale
specifica: in questo caso, è possibile osservare un’attenzione alla gestualità infantile e la manifestazione di affetto nei confronti del bambino stesso. Anche
in alcuni casi di altre stele funebri di madri, è rinvenibile un’attenzione nei
confronti dell’infanzia e una rappresentazione molto vivace. Un esempio può
essere costituito dalla stele funeraria proveniente dal Dypilon e risalente al
450 a.C. circa, ora presso l’Archaeological Museum of Kerameikos, che ritrae
una madre seduta e probabilmente un’ancella che le porge il bambino: quest’ultimo si protende verso la mamma con gesto molto realistico, lasciando
3
L’articolo sintetizza alcune conclusioni presenti nell’interessante catalogo a cura di Jennifer
Neils e John O. Oakley (2004), pubblicato in collaborazione con K. W. Hart With e coi
contributi di L. A. Beaumont, H. Foley, M. Golden, J. Korbin, J. Rutter, e H. A. Shapiro:
esso si riferisce alla mostra che tra il 2003 e il 2004 ha toccato Hannover, New York, Cincinnati e Los Angeles.
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trasparire il sentimento di afflizione per la prematura separazione della mamma
dal suo piccolo. Si tratta chiaramente di testimonianze la cui iconografia risente di una molteplicità di sollecitazioni e rivela una pluralità di significati,
come sottolinea Maria Luisa Catoni in un suo recente saggio4, ma può documentare una percezione e una rappresentazione dell’infanzia e, in particolare,
dei sentimenti nei confronti dei bambini, molto interessante e vivace.
Del resto, anche le testimonianze ricavate dalla ceramografia spingono a
conclusioni molto articolate e per nulla univoche. A questo proposito, il già
citato John H. Oakley propone una parziale revisione dei celebri studi di Philippe Ariès: lo studioso statunitense, infatti, analizzando sia la ceramografia arcaica e classica, sia le testimonianze archeologiche e scultoree, giunge a
sottolineare quanto fosse significativa la percezione e quanto fosse complessa
la rappresentazione dell’infanzia.
Alcune scene realistiche di bambini che giocano, a scuola o a casa, contraddicono le tesi dello storico francese Ph. Ariès, che nel suo libro
Centuries of Childhood afferma che non esisteva il concetto di infanzia
nell’Europa premoderna. Ciò che abbiamo scoperto cambia questa nozione aprendo le porte a nuove piste di ricerca. Le arti mostrano come
i Greci erano la prima cultura che ha rappresentato i bambini e le loro
arti naturali (Oakley, 2004, p. 56) (trad. nostra).
L’autore porta ad esempio la scena di vita scolastica raffigurata su una kylix
attica a figure rosse, attribuita al pittore Douris, risalente al 480-490 a. C., ora
presso l’Antikensammlung di Berlino: essa ritrae in maniera molto realistica
momenti di vita quotidiana a scuola quali la lezione di musica, il momento
dell’insegnamento della lettura, dipingendo i protagonisti con molta attenzione ai gesti, ai particolari degli oggetti, alla mimica.
Testimonianze interessanti da questo punto di vista sono costituite dalle
altre raffigurazioni presenti sui vasi, che ritraggono scene di vita quotidiana e
che quindi obbediscono a regole compositive e rispondono ad esigenze e finalità molto differenti rispetto alle stele funerarie5: si tratta di immagini che
forse si sottraggono alla finalità di proporre un modello ideale e paradigmatico
e puntano, invece, a illustrare momenti più realistici e/o particolari episodi.
Un’opera molto stimolante è costituita dalla coppa attica risalente al 470/460
a. C. ora conservata presso il Musées Royaux d’Art et d’Histoire di Bruxelles:
essa ritrae una giovane madre che si rivolge al proprio bimbo seduto in un
seggiolone, illustrando un’atmosfera familiare molto intima e una relazione
espressa da una gestualità molto simile a quella attuale. Un’attenzione parti4
5
In particolare, la studiosa sottolinea come i monumenti funebri femminili abbiano subito
un sorprendente mutamento nel IV secolo, mutamento che ha fatto emergere una certa
libertà espressiva: si veda Catoni, 2005.
A quest’ ultimo proposito, è utile sottolineare come i vasi fossero in primo luogo oggetti
di uso quotidiano e i significati che essi veicolano non possono essere considerati al di
fuori dal loro supporto, così come è necessario ricordare come essi fossero influenzati dalla
grande pittura, murale, su cavalletto, su tavole di legno.
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colare ai dettagli della gestualità infantile è presente curiosamente anche in
una raffigurazione di argomento mitologico che ricorda per certi aspetti la
coppa precedentemente citata: un vaso a figure rosse risalente al 420/410 a.
C., ora presso il Museo del Louvre di Parigi, mostra Afrodite intenta a far giocare il piccolo Eros tenendolo in braccio, dipingendo un significativo gioco
di sguardi e di gesti fra dea e piccolo.
Molto interessanti, inoltre, tutti qui vasi realizzati e utilizzati per le Anthesterie: all’interno di queste feste, durante la seconda giornata, avveniva una
gara di libagioni, alla quale erano ammessi anche i bambini, al di sopra dei tre
anni, che avevano il permesso di assaggiare una piccola quantità di vino e
molti vasi raffiguravano proprio bambini intenti nelle loro attività di gioco. Si
tratta, quindi, di testimonianze che si legano a una particolare situazione, che
costituisce comunque un’implicita modalità di sancire l’ingresso in una nuova
fase della vita (i tre anni) e che mostrano i bambini in atteggiamenti quotidiani. Una coppa a figure rosse, ad esempio, risalente all’inizio del IV secolo
a. C., ora conservata presso il Museo Civico Archeologico di Bologna, ritrae
su un lato un bambino che trascina una piccola carriola, sull’altro lato una
bambina che porge un vassoio di cibo a un bimbo con la lira in mano; un’altra
coppa a figure rosse, della medesima tipologia, risalente al 425 a. C., ora presso
il Museo del Louvre di Parigi, raffigura un bambino che corre trascinando
un carretto; un’altra ancora, sempre a figure rosse, ora conservata presso il Museo del Louvre, mostra un bambino che corre e cerca di giocare con un uccellino. Tutte queste testimonianze descrivono i bambini con attenzione alla
gestualità, alla mimica, agli atteggiamenti, all’interno di scene di quotidianità
molto realistica e vivace.
Queste caratteristiche emergono nella rappresentazione dei bambini anche
in alcune opere che ritraggono scene mitologiche o scene tratte da opere epiche, liriche o drammaturgiche celebri6. Citiamo solo alcuni esempi, come il
noto cratere attico a figure rosse, ora presso Museo Archeologico Nazionale
di Palazzo Jatta a Ruvo di Puglia, risalente al IV secolo a. C., che ritrae Andromaca seduta, che tiene in braccio il piccolo Astianatte mentre saluta il padre
Ettore prima della battaglia: la scena, che riproduce un notissimo episodio
dell’Iliade, propone un’immagine di bambino molto curata nei dettagli e molto
realistica e mostra allo sguardo di chi osserva un momento di intimità e di
evidente affetto. Un altro esempio è costituito da un cratere attico a figure
rosse, risalente al 460-450 a.c., ora presso il Museo di Siracusa, che ritrae Danae
e il piccolo Perseo mentre vengono rinchiusi in una cassa per essere gettati in
mare, scambiandosi un gioco molto vivace e commovente di gesti e di sguardi.
Fra le opere che riproducono celebri tragedie o drammi, è possibile ricordare,
come esempi, il cratere apulo a figure rosse, ora presso l’Antikenmuseum di
Basel, attribuito al pittore di Laodamia, risalente al 340 a.C., che ritrae Alcesti
morente mentre saluta i figli (i due bambini sono ritratti con notevole ten-
6
Per un’attenta disamina sulle relazioni complesse fra rappresentazioni teatrali e rappresentazioni figurative si veda il prezioso saggio di Taplin, 2007.
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sione, i gesti e gli sguardi sono molto espressivi); o ancora, la pelike lucana, ora
presso il Museo Nazionale della Siritide, a Policoro, risalente al 400 a.C., che
riproduce il racconto della tragedia euripidea Eraclidi, mostrando il vecchio
Iolao circondato dai ragazzini figli di Eracle, ritratti con pose e gestualità molto
variegate; infine, i numerosi vasi che ritraggono le gesta dell’eroe Eracle coinvolto in situazioni in cui compaiono bambini (l’uccisione dei figli a causa
della follia; il ritrovamento del piccolo Telefo) che sono sovente raffigurati in
pose molto realistiche7.
Vorremmo concludere questa sintetica panoramica relativa alla ceramografia ricordando come le molteplici raffigurazioni di bambini ritratti in scene
di guerra costituiscano forse una tipologia iconografica a sé stante proprio per
la profonda ambiguità che ne attraversa i significati: da un lato, infatti, esse
mostrano l’infanzia come vittima di crudeltà e di violenza, e quindi una sostanziale indifferenza nei confronti di essa e la totale mancanza del concetto
di tutela, dall’altro lato, palesano però i sentimenti di profondo affetto e quindi
di disperazione nei confronti delle sorti dei bambini stessi. Citiamo, fra le altre,
due opere celebri per la carica espressiva che le caratterizza, seppure risalenti
ad epoche diverse. L’anfora a rilievo di Mykonos, risalente al 650 a.C., ora
presso l’Archaelogical Museum of Mykonos: in questo caso, la decorazione è
molto insistente nel mostrare le atrocità compiute dai guerrieri greci nei confronti dei bambini troiani; più volte, infatti, lo scultore riempie i campi mostrando un guerriero che si accanisce contro le figure di bambini inermi, esili
e spaventati, accanto alle madri che tentano inutilmente di salvarli dalla violenza e che sono prese dalla disperazione e dall’orrore. A sua volta, la decorazione del cratere attico a figure rosse risalente al 470-460 a.C., ora presso il
Museum of Fine Arts di Boston, ritrae il vecchio Priamo che tenta di intervenire per salvare il piccolo Astianatte, mentre Neottolemo si appresta a lanciarlo dalle mura della città: la raffigurazione è molto espressiva, e mostra la
figura del bambino molto piccola, quasi aerea, già disarticolata, contrapposta
alla forza e alla brutalità del condottiero greco.
2. Testimonianze letterarie
Per quanto riguarda le fonti letterarie, esse possono a prima vista apparire testimonianze meno ambigue rispetto a quelle figurative, proprio per la loro
natura meno polisemica, ma è necessario comunque prestare notevole attenzione nel desumere informazioni da queste: Mark Golden (1990, pp. XVXVII) ricorda, a questo proposito, le possibili distorsioni cui possono essere
7
Si vedano, ad esempio, il cratere attico ora presso l’Antikensammlung di Berlino, risalente
al 400-375 a.C., il cratere lucano attribuito a Policoro, ora presso il Cleveland Museum of
Art, risalente al 400aC, il cratere paestano ora presso il San Antonio Museum of Art, risalente al 340 a.C. o il cratere paestano ora presso il Museo Arcqueològico Nacional di Madrid, risalente al 400 a. C.
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sottoposte tali fonti (drammatiche, liriche, forensi, in particolare) a causa della
funzione stessa che esse hanno svolto nel contesto della città antica.
È quindi indispensabile, anche per questi documenti, porre notevoli cautele nell’interpretazione e non dimenticare il contesto all’interno del quale
esse sono state composte e rese pubbliche. Ciò nonostante, molte fonti letterarie possono essere utili per ricostruire le rappresentazioni dell’infanzia,
per quanto riguarda diversi aspetti: la percezione o meno della specificità di
questa età e l’eventuale percezione dei bisogni infantili; i sentimenti nei confronti dei bambini.
Senza dubbio alcuni documenti mostrano una mancata percezione della
specificità dell’infanzia, come appare, ad esempio, negli Erga di Esiodo, che ci
restituisce l’immagine di un bambino impiegato dall’adulto per i lavori dei
campi:
… non appena incominci la semina ... Dietro un piccolo schiavo, tenendo la zappa, procuri pena agli uccelli occultando il seme. (Esiodo,
1998, vv. 468; 469-470).
In questo caso, il bambino è uno schiavo destinato semplicemente ad essere
utilizzato per le esigenze agricole, senza alcun cenno ai suoi bisogni: la testimonianza induce certamente a porre numerose cautele considerando che evidentemente la categoria di “infanzia” sussume una molteplicità di
rappresentazioni (il bambino schiavo, quello libero e così via) differenti fra
loro. Una fonte appartenente anch’essa al periodo arcaico – i poemi omerici
– ci restituisce invece, in alcuni passi, descrizioni che sembrano considerare
l’infanzia nelle sue caratteristiche: si veda il passo in cui Andromaca cerca di
dissuadere Ettore dal cimentarsi in battaglia ricordandogli la sorte di orfano
che il loro figlioletto dovrà subire:
Il giorno che lo fa orfano, priva il bambino di amici:
davanti a tutti abbassa la testa, sono lacrimose le guance;
nel suo bisogno il fanciullo cerca gli amici del padre,
tira uno per il mantello, per la tunica un altro:
fra quanti provan pietà, qualcuno gli offre un istante
la tazza, e gli bagna le labbra, non gli bagna il palato.
Ma chi ha padre e madre lo caccia dal banchetto,
picchiandolo con le mani, con ingiurie insultandolo.
“Via di qua, non banchetta il tuo padre con noi!”;
torna in pianto il bambino alla vedova madre,
Astianatte, che prima sulle ginocchia del babbo
midollo solo mangiava e molto grasso di becco:
e quando prendeva sonno e smetteva i suoi giochi,
dormiva nel letto, cullato dalla nutrice,
in una morbida cuna, col cuore pieno di gioia:
e ora soffrirà. E quanto! Perduto il padre caro …
(Omero 1963, XXII, vv. 482-505).
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La descrizione lascia trasparire l’attenzione verso i bisogni, la percezione
chiara della necessità di cura e di affetto, come pure, al contrario, il fatto che
tali bisogni e tale necessità possono venire trascurati dal mondo adulto.
Altre testimonianze, più articolate e più numerose, sono rinvenibili in fonti
letterarie appartenenti al periodo classico. È interessante, ad esempio, a questo
proposito, l’opera platonica Liside, unica opera all’interno della quale Socrate
si trova impegnato nella conversazione con un ragazzino (secondo le ricostruzioni di circa dodici anni). Il vivace scambio di battute fra il filosofo e il
giovanissimo interlocutore, oggetto di svariate interpretazioni e di non pochi
interrogativi, mostra alcuni passi interessanti, in particolare quando il piccolo
protagonista si lamenta della mancata possibilità di disporre del proprio tempo
e della costrizione ad obbedire ai genitori:
Socrate: ma per qual motivo così stranamente ti impediscono di essere
felice e di fare ciò che vuoi, e per tutto il giorno ti allevano sempre
come schiavo di qualcuno e, in una parola, senza che tu faccia quasi
nulla di ciò che desideri? Cosicché, a quanto pare, non ti sono di utilità
né le ricchezze, benché siano tante, perché tutti ne dispongono più di
te, e neppure il corpo, che pure è così nobile, perché anche questo un
altro lo guida e lo cura; e tu non hai potere su nulla, Liside, e non fai
nulla di ciò che desideri.
Liside: Non ho ancor l’età, Socrate.
Socrate: Non è questo, o figlio di Democrate, che ti è di impedimento,
perché almeno c’è un’altra cosa, come penso, che sia tuo padre sia tua
madre ti affidano a non aspettano che abbia l’età. Infatti quando vogliono che qualcuno legga o scriva per loro, sei tu, come credo, per
primo fra tutti quelli che sono nella casa, che incaricano di questo
compito: non è così?
Liside: Certamente.
Socrate: Forse allora in questo caso ti è permesso di scegliere fra le lettere quella che vuoi scrivere per prima e quale che vuoi per seconda?
E altrettanto ti è permesso quando leggi. E, come penso, quando prendi
la lira, non ti impediscono né tuo padre né tua madre di tendere o allentare le corde che vuoi, e di pizzicarle e colpirle col plettro. O te lo
impediscono? (Platone, 2005, 208e-209c).
Ne emerge un ritratto di bambino che presenta un proprio modo di vedere la realtà, propri bisogni, proprie caratteristiche e specificità. Si tratta certamente di un ritratto che si riferisce a un bambino di ceto sociale elevato,
cresciuto all’interno della città, ma mostra comunque l’infanzia come età con
sentimenti, desideri, percezioni proprie. Anche in altre opere platoniche, del
resto, è possibile rinvenire ritratti di bambini colti nella loro specificità. Nel
Protagora sembra comparire un’interessante narrazione delle preoccupazioni
dei genitori nei confronti dei propri figli:
… cominciando dalla più tenera infanzia dei figli e per tutta la vita, i
genitori ammaestrano i ragazzi e li ammoniscono. E non appena uno
comincia a capire, subito la nutrice, il pedagogo, lo stesso padre fanno
Gabriella Seveso
a gara perché divenga quanto più possibile migliore, e ad ogni sua
azione o parola gli insegnano che questo è bello, quello brutto, questo
è santo, quello è empio, questo da fare e quello da non fare, e se volentieri ubbidisce, bene; altrimenti, così come si fa con un legno contorto e ricurvo, lo raddrizzano con minacce e con percosse. Poi,
quando lo mandano a scuola dai maestri, raccomandano al maestro di
curare molto di più la buona condotta dei ragazzi che non l’insegnamento delle lettere o della cetra ... (Platone, 2003, 325c-d)
Se invece consideriamo le teorie che nelle opere filosofiche compaiono
in relazione alla categoria di infanzia, possiamo vedere come esse rivelino sovente una percezione e una rappresentazione dell’infanzia come età selvaggia,
inquietante dell’essere umano: in questo caso, sembra esserci la percezione di
una specificità, ma quest’ultima è definita in negativo, così come il percorso
educativo sembra definito non come supporto allo sviluppo del bambino, ma
come necessità di governare le caratteristiche dell’età stessa. É possibile rinvenire ciò in forma estremamente esplicita, ad esempio, nel Timeo platonico,
che descrive i primi anni di vita dell’anima come età insensata e addirittura
come malattia:
A causa di tutte queste impressioni esterne, l’anima, adesso come in
principio, non appena si lega al corpo immortale, diventa insensata.
Quando però il flusso di ciò che serve a far crescere e nutrire giunge
con minore intensità e i circoli dell’anima, ripresa la calma, vanno di
nuovo per la loro strada, e si rinsaldano con il passare del tempo, allora
le orbite di ciascun circolo, procedendo ormai secondo il loro corso
naturale e correggendosi, chiamano in maniera corretta l’altro e il medesimo, e rendono assennato chi le possiede. Se inoltre interviene una
retta educazione e istruzione, l’individuo liberato dalla più grande malattia, diventa intergo e perfettamente sano (Platone 2003, 44 a-b).
Questa rappresentazione dell’infanzia, come età che possiede caratteristiche
specifiche, ma che si definisce a partire dallo scarto rispetto all’età adulta, si
rileva anche in numerosi passi della Repubblica, in particolare nel secondo libro,
quando l’autore intende disegnare il percorso educativo nella città ideale. Dapprima, infatti, indica l’infanzia come età “plasmabile”, esplicitando una delle
metafore divenute in seguito più citate e più comuni:
a quell’età che la persona si lascia plasmare e contrassegnare secondo
l’impronta che si desidera (Platone 1994, 377b).
Immediatamente dopo, il filosofo riprende questa stessa metafora sottolineando come l’animo infantile sia privo di ragione e quindi necessiti di attenzioni:
dobbiamo sorvegliare gli inventori di favole, accettando dalle loro invenzioni ciò che è buono e respingendo ciò che è cattivo. Convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini solo quello che è
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approvato da noi e a plasmare con le favole gli animi infantili molto
più di quanto essi modellino i corpi con le mani […] non credo si dovrebbe narrare con tanta leggerezza ai bambini, che sono esseri ancora
privi della ragione (Platone 1994, 377c; 378 a).
Questa rappresentazione è del resto congruente con l’immagine della principale occupazione infantile, ovvero del gioco: le teorie riguardo a quest’ultimo sono estremamente interessanti in età antica; ci limitiamo, per brevità, a
ricordare quella, articolata e non priva di consenso in età successive, che si rileva nella Repubblica platonica. Come ribadisce Jean-Pierre Néraudau (1992,
p. 47), educatori e filosofi
vedendo che i bambini erano interamente assorbiti nelle attività di
gioco e che dunque esso ricopriva un’importanza primordiale nella
loro formazione, cercavano di utilizzarlo a fini educativi, augurio devoto che si scontrava contro la tenerezza dei genitori. Il gioco, liberamente consentito a tutti i bambini nel contesto familiare, era a volte
distolto dalla sua spontanea gratuità all’interno di un progetto di formazione (trad. nostra).
Proprio per questo, nel testo platonico, troviamo, da un lato, il riconoscimento di questa specifica caratteristica e di questo bisogno dei bambini, ma,
dall’altro lato, anche il proposito di piegarlo e di utilizzarlo ai fini del progetto
educativo adulto, dapprima servendosene per individuare le attitudini dei
bambini, in vista del loro futuro inserimento nella società:
non educare a forza i fanciulli negli studi, ma educali attraverso il gioco:
così saprai discernere ancora meglio le inclinazioni di ognuno (Platone
1994, 537a).
In seguito, il filosofo esplicita in maniera più netta la necessità di governare
questa attività infantile, quindi pur riconoscendo i bisogni dell’infanzia, invita
difatti a non rispettarne la spontaneità, ma ad intervenire direzionandoli:
dunque, come abbiamo detto all’inizio, dobbiamo sottoporre subito i
nostri figli a passatempi più disciplinati, perché se essi e i loro giochi
diverranno disordinati, è impossibile che diventino adulti disciplinati
e seri (Platone 1994, 424e).
Tale rappresentazione dell’infanzia e del gioco subisce un’ulteriore esplicitazione che la conferma nelle Leggi, quando l’ospite ateniese Clinia illustra
ai suoi interlocutori la natura dell’educazione ed espone un’articolata e compatta teoria del gioco:
dico che chiunque si prefigge di eccellere in qualche attività deve esercitarsi in questo fin dall’infanzia applicandosi a ogni aspetto che ha relazione con essa sia quando gioca sia quando svolge attività
impegnative. Ad esempio, quanti intendono diventare bravi agricoltori
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o architetti devono giocare gli uni a edificare quegli edifici che amano
costruire i ragazzi, gli altri a coltivare la terra, e i loro educatori devono
predisporre per gli uni e per gli altri attrezzi in scala ridotta a imitazione
di quelli veri, e inoltre bisogna che imparino in anticipo tutte le nozioni necessarie per apprendere il mestiere, ad esempio per il carpentiere servirsi del metro e del regolo, per il militare montare a cavallo
per gioco, e così via per le altre professioni, e attraverso i vari tipi di
gioco si dovrà mirare a indirizzare gli impulsi e le inclinazioni dei ragazzi verso quegli obiettivi il cui raggiungimento segnerà la conclusione del loro itinerario formativo. Noi diciamo che il nocciolo
dell’educazione consiste in una corretta formazione che, tramite il
gioco, sappia condurre quanto più è possibile l’anima del giovane alla
passione per ciò in cui, diventato adulto, dovrà mostrarsi perfettamente
competente (Platone, 2005a, 643b e sgg.).
La costante associazione fra immagine della spontaneità infantile nel gioco
e necessità di regolamentare tale attività, al fine di evitare che essa corrompa
gli animi dei più piccoli, animi che devono essere forgiati in vista di un ideale
di temperanza e di saggezza, torna anche quando il filosofo accenna nuovamente all’inizio del percorso educativo che deve coinvolgere i bambini e le
bambine in tenera età:
Ci sarebbe bisogno di giochi per il carattere dell’anima di bambini di
tre, quattro, cinque e sei anni, ma già allora si devono distogliere dalla
mollezza, punendoli, non in modo disonorevole (Platone, 2005a, 793a).
L’immagine di infanzia come scarto rispetto alle caratteristiche dell’età
adulta resta, del resto, presente anche nella trattazione di Aristotele, che attenua
solo in parte la concezione platonica: lo stagirita, infatti, colloca il bambino
come contrapposto all’essere umano “perfetto” (maschio, libero, adulto), paragonandolo, nell’Etica Nicomachea (VI, 1144b 8), esplicitamente all’animale,
che è privo di capacità razionale e di capacità di scelta (III, 1111 a), e descrivendo la specificità dell’infanzia come imperfezione:
Identica è la causa per cui nemmeno un fanciullo è propriamente felice, infatti non è capace di compiere belle azioni per la sua età; quei
fanciulli che vengono detti beati, in realtà lo sono per la speranza che
possano diventarlo: come già detto, ci vuole una virtù completa e una
vita completa (Aristotele, 1999, I, 10, 1100a ).
Anche in altre opere il bambino, pur essendo oggetto di studi e di attenzioni, resta una sorta di continuum che connette animale e uomo, come viene
esplicitato nelle Ricerche sugli animali:
Ciò risulta chiarissimo dall’osservazione dell’età infantile. Nei bambini
infatti è dato scorgere delle tracce e dei germi di quelli che diventeranno in futuro i tratti del loro carattere, benché la loro anima in questo
periodo si può dire non differisca affatto da quella delle bestie: dunque
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non vi è nulla di assurdo se i caratteri psichici degli animali sono ora
identici ora prossimi ora analoghi a quelli dell’uomo (Aristotele, 2001a,
VIII, 1, 588a).8
Rispetto alle teorie platoniche, certamente in Aristotele emerge una maggiore attenzione alla specificità dell’età infantile, quando nella Politica (VII, 17,
1336b, 1), dopo aver sottolineato la necessità di educare i bambini e le bambine
in casa fino ai sette anni, l’autore descrive il gioco dei più piccoli come esigenza specifica e sembra salvaguardarne la spontaneità:
bisogna che i fanciulli abbiano una qualche occupazione e si deve pensare che serve a meraviglia allo scopo il sonaglio di Archita, che si dà
ai bambini affinché, occupati con esso, non rompano niente delle cose
di casa: i piccoli non riescono a stare fermi. Il sonaglio di Archita si
adatta dunque ai bimbi più piccoli mentre l’educazione è un sonaglio
per i giovani più grandi (Aristotele, 2004,VIII, 6, 1340b, 23-31.).
Secondo alcuni autori, questa descrizione prelude alle rappresentazioni
dell’infanzia presenti nella letteratura di età ellenistica, rappresentazioni che
mostrerebbero una sorta di preoccupazione per il bambino e di maggiore attenzione alle sue esigenze, preoccupazione che si affianca all’affermarsi, in ambito medico, di una pediatria che si svilupperà nel mondo greco e nel mondo
romano (Becchi, 1996, p. 14).
La rappresentazione dell’infanzia intesa, quindi, come percezione di un’età
a se stante contrassegnata da caratteristiche specifiche e specifici bisogni, appare, nei testi letterari, molto contraddittoria e molto ricca di sfumature.
Ambiguità, contrasti e molteplici venature compaiono anche qualora si
consideri la percezione e la rappresentazione dei sentimenti nei confronti dei
bambini. É ormai da tempo superata la tesi che vedeva l’età antica come caratterizzata esclusivamente da indifferenza nei confronti dei più piccoli: molte
testimonianze letterarie, infatti, restituiscono sentimenti complessi e di varia
coloritura, anche se si tratta ancora una volta di fonti la cui interpretazione
richiede cautela (Pizzolato, 1996).
Per quanto riguarda le opere teatrali, uno dei più celebri e lirici passi che
documentano affetto e dedizione nei confronti dei più piccoli è costituito dal
lamento pronunciato dalla nutrice Cilissa, all’interno delle Coefore di Eschilo,
nel momento in cui apprende la notizia (che poi si rivelerà falsa) della morte
prematura del giovane Oreste:
Tutto il resto, ogni sciagura, l’ho subita, pazientemente; ma il mio Oreste, l’assillo del mio cuore! Io l’ho nutrito, l’ho preso appena uscito dal
8
In questo caso, “la superiorità dell’animale umano non è messa in discussione, ma essa consiste nell’occupare lo scalino più alto di una scala continua che consente – grazie alla mediazione dell’immagine di bambino – di effettuare una comparazione della psicologia
animale entro un ambito di valori relativamente omogenei” (Vegetti, 1996, p. 188).
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grembo di sua madre. E poi su e giù nella notte per i suoi strilli. […]
e tutte quelle mie fatiche ora sono vane! Quando il piccolo non capisce
come un cucciolo bisogna nutrirlo – non è vero? – e rivolgergli ogni
cura e attenzione. Non sa parlare il bambino, quando è ancora in fasce,
non sa dire se ha fame, se ha sete, se deve fare la pipì: il pancino dei
piccoli ha le sue leggi. E io dovevo indovinare, ma tante volte mi sbagliavo e allora dovevo lavargli le fasce. Ero insieme la sua nutrice e la
sua lavandaia. Con queste due mansioni ho preso Oreste da suo padre
per allevarlo. Ora è morto: questo, infelice, ora so! (Eschilo, 2007, vv.
748-763).
La rappresentazione di sentimenti molto simili emerge in un’opera teatrale
di tutt’altra coloritura, ovvero ne Le Nuvole di Aristofane. All’inizio dell’opera,
il protagonista Strepsiade, tormentato dai debiti causati dalle intemperanze del
figlio Fidippide, ricorda i momenti della nascita e dei primi mesi di vita del
bambino, descrivendo un quadro di vita familiare molto quotidiano e facendo
emergere le aspettative, le attenzioni e i sogni dei genitori nei confronti del
piccolo:
Quando poi nacque il bambino, ci fu un po’ di maretta fra me e la mia
signora, per via del nome. Lei ci voleva infilare un ippo a tutti i costi,
Santippo, Carippo o Callipide, io invece volevo un nome al risparmio,
Fidonide come mio padre. Abbiamo discusso un po’ poi ci siamo messi
d’accordo e l’abbiamo chiamato Fidippide. Lei lo prendeva in braccio
e lo coccolava: “Quando sarai grande guiderai un carro su alla rocca,
come lo zio Megacle, e avrai addosso un abito sfarzoso”. E io: “Allora
porterai capre via dalla pietraia, come papà, vestito di pelli conciate”.
Ma di dar retta ai miei discorsi non ne voleva sapere; anzi pure alla
roba mia ha attaccato la sua febbre da cavalli. (Aristofane, 2001b, vv.
61-74)
L’opera rivela, come sovente accade nella produzione di questo commediografo, una concezione dei figli come notevole peso economico e come
elemento di fatica della vita genitoriale, ma al tempo stesso, restituisce alcune
descrizioni della vita infantile dalle quali sembra trasparire l’affetto e la sollecitudine del padre:
Strepsiade: “Su, su andiamo: sbagli pure, ma almeno darai retta al padre.
Anch’io l’ho fatto, me ne rendo conto: ti davo retta quando avevi sei
anni e balbettavi ancora. Con la prima paga, alle Diasie, ti comprai un
carrettino.”
[…]
(rivolto poi a Socrate): “Non ti preoccupare, tu pensa a dargli lezioni: per
la cultura è portato di carattere. Pensa che quando era un bimbetto
alto così costruiva casette, intagliava navi, costruiva carrettini di cuoio,
e con le bucce della melagrane ci faceva certi ranocchi!” (Aristofane,
2001b, vv. 860-864; 877-881)
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Certamente, dai numerosi battibecchi fra padre e figlio emerge anche la
consuetudine di picchiare il bambino (Fidippide: “… per cominciare, ti farò
una domanda: quand’ero bambino, mi picchiavi?” vv. 1409-1410), ma la commedia resta comunque una testimonianza complessa dei sentimenti nei confronti dell’infanzia.
A questi documenti possono essere affiancati alcuni episodi o alcune considerazioni presenti nelle opere degli storici: all’interno dell’opera erodotea,
possiamo certamente rinvenire passi che rivelano sentimenti di indifferenza o
– peggio – di vera e propria crudeltà nei confronti dei bambini,9 ma anche
considerazioni diverse. Citiamo, ad esempio, le riflessioni dello storico quando
si sofferma a illustrare usi e costumi dei Persiani, lasciando trasparire l’importanza dei sentimenti di attaccamento dei padri nei confronti dei figli:
Ai loro figli, a cominciare dai cinque anni fino ai venti, insegnano tre
cose solamente: montare a cavallo, tirar d’arco, e dire la verità. Prima
che abbia cinque anni, il bambino non è ammesso alla presenza del padre, ma vive costantemente presso le donne. E questo affinché non abbia a procurare alcun dolore al padre, nel caso venga a morte durante
il periodo di allevamento. È questa un’usanza che approvo (Erodoto,
1956, I, 136-137).
Infine, anche nelle fonti letterarie, come in quelle artistiche, una particolare
riflessione meritano quelle testimonianze che si occupano della sorte dei bambini vittime della violenza della guerra: fra queste, citiamo forse la più celebre
e la più toccante, quella contenuta nelle Troiane di Euripide. L’opera è stata
composta dal drammaturgo proprio a seguito dei fatti efferati commessi dagli
Ateniesi nei confronti della popolazione dei Meli e intende dare voce a coloro
che, pur innocenti, maggiormente patiscono le violenze e le sofferenze delle
guerre: l’autore si sofferma sulla sorte del piccolo Astianatte, destinato ad essere
gettato dalla rocca, secondo la decisione dei comandanti greci. Le parole di
Andromaca, che ha appreso la notizia e che impotente è costretta a lasciare il
figlioletto nelle mani degli uccisori suonano come commovente testimonianza
dei sentimenti di attaccamento e di sollecitudine nei confronti del bambino:
Figlio, tu piangi: capisci i tuoi guai? Perché mi tieni stretta con le mani
e alle mie vesti ti avvinghi, e sotto le mie ali cerchi riparo come un
uccellino? […] Fresco abbraccio carissimo alla mamma, alito dolce
delle carni! Invano, dunque, quando eri in fasce ti nutrì questo mio
petto, a vuoto mi travagliai, struggendomi di pene. Ecco, è l’ultima
volta, abbraccia stretto tua madre, stringi chi ti generò, gira le braccia
attorno alle mie spalle e dammi un bacio (Euripide, 2007, vv. 749-751;
756-764).
9
Si veda, come esempio, l’episodio dei figli delle donne ateniesi e dei Pelasgi in Storie, VI,
138 (Erodoto, 1956).
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Celebre, infine, è la scena in cui Ecuba ricompone disperata il cadavere
del nipotino, ormai smembrato, e condanna sarcasticamente le violenze inutili
e ingiustificate, degne solo di popoli incolti, perpetrate nei confronti dei bambini: “Questo bambino l’hanno ucciso un giorno i Greci per la paura – epigrafe che svergogna la Grecia” (Euripide, 2007, vv. 1190-1191).
Questa testimonianza, come quelle artistiche relative alle sorti dei bambini
in guerra, induce riflessioni contraddittorie, poiché denuncia una rappresentazione dell’infanzia come età da tutelare, ma anche come età comunque vittima di violenze e di abusi, quindi oggetto di indifferenza.
Nota Bibliografica
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