Articolo Domus Aurea

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Articolo Domus Aurea
La Cambogia non è una meta “esotica”, non si trova nei depliant dei paradisi all inclusive proposti
dalle agenzie di viaggio, è un posto da qualche parte in Asia, vicino alla più nota Tailandia.
A volte è difficile far capire che non c'è la guerra, i selvaggi, che il cibo è commestibile, non ci sono
solo cavallette fritte e che il regalo più grande che questa terra ti fa è semplicemente un sorriso.
Altrettanto vero è che non c'è un solo dei miei viaggiatori che non si sia lasciato alle spalle i
pregiudizi e non sia stato toccato dentro dall'esperienza di questo viaggio.
La preparazione al viaggio inizia mesi prima della partenza, negli incontri impariamo ad essere
curiosi, interessati alla storia dell'antico impero Khmer. Ci lasciamo sconvolgere dalla storia del
sanguinario regime comunista degli anni '70 e ci sentiremo vicini ai parenti delle vittime quando ci
troveremo a Phnom Penh, la capitale, a camminare all'interno della prigione – luogo di tortura S21.
Alla partenza saremo già un gruppo unito, elettrizzati ma pronti al viaggio verso la Cambogia.
Le dieci ore di viaggio in aereo fino a Bangkok e le successive sei ore di autobus per correre
velocemente verso la frontiera non ci spaventano, scendiamo, salutiamo i primi compagni di
viaggio, ci carichiamo lo zaino sulle spalle e con passo deciso andiamo dritti verso la zona di
confine.
Loschi figuri ci scrutano, qualcuno si avvicina, si propone di portarci le valige o accompagnarci ad
un hotel.
La maggior parte è però intenta ad occuparsi dei propri traffici: chi contratta per bottiglie di
benzina a buon prezzo, chi carica sacchi di ogni manufatto sulla bici occupando lo stesso spazio di
un suv.
Superiamo il confine, timbriamo il passaporto e contrattiamo per il taxi.
Una guardia ci corre dietro con un fogliettino bianco: non abbiamo passato il controllo sanitario! 20
baht a testa e tutto si sistema...”guarda te questi come hanno trovato il modo di arrotondare lo
stipendio!”
Il primo incontro con la Cambogia è duro.
Qua – al confine - le persone sono venute per trovare un escamotage per vivere. Molto spesso
hanno viaggiato in lungo e in largo fuori dal loro villaggio di origine – a differenza della
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maggioranza dei Cambogiani – e pensano a come trarre il massimo vantaggio da ogni situazione,
anche con i turisti appena arrivati.
Appena finite le pratiche di ingresso nel paese, un capannello di taxisti irregolari si sbraccia per
convincerci ad accompagnarci in questo o quel resort esclusivo, con tanto di casinò, piscina,
palestra, massaggi. Niente, noi vogliamo andare nella pensione più economica della città, una
casetta tradizionale in legno, gestita da una giovanissima e numerosa famiglia Cambogiana.
Mentre un coro di “noo”,
“ohh”,
“ma è chiusa!” ed espressioni di disapprovazione si
moltiplicano, io ed un ragazzo sulla trentina ci guardiamo: ci siamo riconosciuti, probabilmente ci
siamo già incontrati su questa strada e ci salutiamo amichevolmente, mi avvicino e gli chiedo di
portarci in città.
Io penso : “Di lui mi potrò fidare” lui pensa : “Mi conosce, forse le ho già raccontato la mia
storia...sarà più generosa”... << sono 20 dollari, più il pedaggio sul ponte nuovo >> la mia faccia
cambia completamente di espressione...tu! Schifoso approfittatore!! E parte una folle contrattazione
sul prezzo del “passaggio” che si conclude con una stretta di mano e un respiro di sollievo da parte
dei viaggiatori che immediatamente scaricano dalle spalle gli zaini, li caricano nel bagagliaio e si
fiondano dentro la macchina.
Così, tre davanti e quattro nel sedile posteriore, partiamo alla volta della prima città cambogiana
del nostro viaggio. Aria condizionata a palla e love pop cambogiano a tutto volume inclusi.
Arriviamo alla nostra casetta di legno e veniamo accolti dal sorriso di una donna incinta di otto
mesi che ci accompagna nelle nostre stanze.
Alcuni sono entusiasti della sistemazione, altri scriveranno nel taccuino serale : “ questa notte mi
ha fatto ricordare quando nei militari ho dormito qualche giorno in cella sul tavolaccio”.
La giornata si conclude con un giro al mercato che ci travolge coi suoi odori e la confusione che
precede la chiusura delle 17.
Nessuno si cura di noi, tutti sono intenti ad impacchettare le stole di cotone a quadri, a legare le
galline invendute allo scooter che riporterà a casa l'intera famiglia, a pulire il bancone , a sistemare
tutto con calma, senza fretta ma con dedizione, con gesti ripetuti all'infinito ogni giorno, dal lunedì
alla domenica, come se le cose dovessero rimanere per sempre uguali, giorno per giorno, a se
stesse.
Finiamo la giornata su una terrazza ventilata a guardare il tramonto sul fiume, bevendo una birra
locale, “Angkor Beer”, in onore dei mitici templi ricordati in ogni dove (a partire dalla bandiera).
I primi pensieri fluiscono, i preconcetti che ci siamo costruiti negli incontri preparatori si fondono
con le immagini del viaggio lunghissimo che ci ha portati fino a Koh Kong.
Il caldo, il sudore e la leggera brezza che il buio ci porta, ci fanno affondare pienamente nel qui ed
ora. Casa sembra lontana, anche mentalmente, siamo su un'altra dimensione in questa realtà fatta
di terra rossa, capanne di legno su palafitte e case moderne in architettura stile neo thai-camboviet.
La mattina seguente ci si sveglia presto, ci si appropria subito dei tempi cambogiani per affrontare
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la prima settimana di viaggio, tutta incentrata sull'acqua, elemento di fondamentale ricchezza alla
base di questa civiltà: basti pensare che l'antico impero khmer era fondato su città con complessi
sistemi idrici artificiali (che garantiva acqua per la coltivazione ma che aveva anche la funzione di
protezione dall'esterno).
Così le giornate si susseguono fra le cascate, le isole, i percorsi fra le risaie e i primi incontri con gli
abitanti di queste terre.
La maggior parte sono spontanei: per strada, a Kep [Kep è una cittadina turistica sul mare a 173
km a sud ovest della capitale. E' un luogo tranquillo, tante sono le ville abbandonate dagli anni 60
in cui era il luogo di villeggiatura preferito dal re. E' famosa per il mercato dei granchi, prelibata
specialità cucinata nelle baracchine sulla riva del mare: la sera, mentre si mangia è possibile vedere
i pescatori al buio a pochi metri di distanza! La leggenda da cui nasce la zona di Kep, narra che un
giorno, il principe Sakor Reach che possedeva grandi poteri magici, usò questi poteri per
ipnotizzare un comandante di Angkor Thom prima di rubare il suo cavallo e scappare a sud ovest
del regno. Mentre Sakor Reach si stava riposando sulla spiaggia, le truppe del comandante lo
catturarono.
Il principe immediatamente saltò sulla schiena del cavallo del comandante. Il cavallo però
indietreggiò e cadde sul principe perdendo la sella. Il principe salì di nuovo sul cavallo e se ne
andò lasciando lì la sella. Da allora l'area fu chiamata Kep Seh.] ci si ferma tutti a guardare un
gruppo di scimmiette che prendono in mano e sbucciano accuratamente le banane che una
famiglia sta offrendo loro, accomodati su uno stuoino sul marciapiede che costeggia il mare.
Ci guardiamo e ci sorridiamo a vicenda.
Sono di Phnom Penh, sono vestiti di tutto punto, la mamma ha guanti lunghi e cappellino per
ripararsi dal sole e la figlia ha un paio di sandalini rosa coi brillantini.
Stanno facendo un pic nic al bordo della strada e fanno parte di quel piccolo numero di persone
che sta diventando la classe media cambogiana.
Parlano un po' di inglese e ci chiedono da dove veniamo “Italì Italì”, se è la prima volta che
veniamo in Cambogia e se abbiamo già assaggiato il pregiatissimo pepe di Kampot; vanto di
questa zona soprattutto nel passato, quando sulle tavole dei francesi non poteva mancare il pepe
proveniente da questa regione ed ancora prima, nel 13° secolo, ne descrive nei suoi scritti
l'esploratore cinese Tchéou Ta Kouan.
Ci consigliano una piantagione poco distante dove i proprietari sono sempre molto cordiali e
orgogliosi di mostrare i prodotti della loro terra.
La prima settimana si conclude con un viaggio in jeep attraverso le sterminate risaie della regione
di Takeo. Da lontano guardiamo le magre mucche al pascolo, sbirciamo all'interno del recinto delle
piccole case di legno carpendo attimi i vita quotidiana. Ci rendiamo conto di quanto ogni villaggio
sia un microcosmo all'interno del quale poche decine di persone vivono la loro intera vita.
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Faremo esperienza diretta di ciò nei successivi due giorni, presso il villaggio di Krang Tachian.
Il villaggio che ci ospita è molto particolare: al lato della strada, proprio di fianco alla casa dove
dormiremo, c'è un luogo appena riconosciuto dal tribunale istituito per i crimini dei Khmer Rossi
come luogo di detenzione e esecuzioni di massa.
Negli ultimi anni, gli abitanti del villaggio ed in particolare gli studenti, si sono occupati di
riportare alla luce quel luogo abbandonato dagli anni '70.
L'area è stata ripulita, i resti ritrovati delle vittime sono stati riposti nell'urna all'interno dello stupa
e sono state raccolte le testimonianze di coloro che sono sopravvissuti per cercare di ricostruire ciò
che è accaduto lì dentro.
Synan, il responsabile progetto dell'associazione YFP che ha guidato il villaggio in questo percorso,
ci mostra la mappa del luogo: ogni cosa era studiata e organizzata: la prigione, la stanza degli
interrogatori, il deposito del riso, la stalla per i maiali, ecc..
Noi seguiamo in religioso silenzio, ad occhi bassi, quando ci spostiamo da una parte all'altra,
“loro” si muovono quasi indifferenti, anche all'interno delle fosse comuni. Diverso è l'ingresso
nell'edificio che ricorda una pagoda, dove ci sediamo in cerchio coi ragazzi delle scuole a parlare:
qui ci si toglie le scarpe prima di entrare, si salutano i buddha riposti sulla destra e ci si siede nella
posizione del loto.
Pochi di loro trovano il coraggio di parlare in pubblico e spiegare il lavoro svolto, tante sono però
le nostre domande e piano piano anche qualche ragazza tira fuori la sua voce. La lingua di
comunicazione è l'inglese, spesso però Synan traduce ai ragazzi quello che noi diciamo in quanto il
nostro accento risulta molto strano per loro. In Cambogia però i ragazzi sono molto spronati
all'apprendimento dell'inglese, ci sono scuole private di lingua dovunque e l'idea comune è che per
trovare un lavoro sia necessario avere una conoscenza della lingua straniera.
La sera ci troviamo almeno in venti a mangiare sui tavoloni di legno posti sotto la nostra casetta.
La famiglia ci prepara riso in bianco, verdure di fiume, fagiolini, insalatina e strani mazzetti lilla.
Sono fiori! Ci dicono di mangiarli e noi li assaggiamo. Sono proprio strani! Ci chiediamo se si
stiano prendendo gioco di noi, dato che ci guardano ridendo. In realtà dopo poco ci avvicinano la
salsina nella quale dobbiamo intingerli.
Le relazioni con gli abitanti del villaggio sono timide ma spontanee, le nostre convenzioni sociali
con loro non valgono e viceversa, le loro non sono a noi comprensibili.
Così se all'inizio ci sentivamo dei pesci nell'acquario, osservati da mille occhi intorno a noi, piano
piano l'interazione è partita, da una risata per il modo buffo con cui addentavamo i fiori lilla ad un
gesto che indicava la salsina si è passati ad essere presi per mano, ad essere tastati, a cercare di
rispondere alle domande che venivano poste con quelle poche parole di khmer che abbiamo
imparato.
La verità è che quando c'è la voglia di approfondire la conoscenza, di capirsi e condividere
qualcosa, non è necessario parlare la stessa lingua, basta molto meno.
Basta l'anziana signora che prende per mano una viaggiatrice e la porta – con tutta la ciurma al
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seguito (noi, i bambini e tutti gli altri abitanti del villaggio presenti) – a visitare la sua casa di legno,
una delle poche case ancora in piedi costruita prima dell'arrivo dei khmer rossi. Impressionate è
pensare che sono passati meno di 40 anni, che non ci siano edifici a testimoniare una memoria
storica di questo villaggio: cosa che sarebbe impensabile in Italia, dove ogni singolo paese ha la sua
chiesa, la casa storica della famiglia dominante, vanto di una piccola storia locale.
Nel villaggio si può dire che la privacy non esiste: oltre a mangiare tutti insieme, si dorme anche
tutti insieme: la casetta è composta di un unico stanzone: la sera a terra vengono stesi gli stuoini e
appese 3 grandi zanzariere che occupano gran parte della stanza. Dentro ogni zanzariera ci si
possono sistemare 4 o 5 persone.
Anche il bagno, adiacente la casa, è singolare: un metro per due, l'acqua si va a prendere con alcuni
secchi di plastica bianca dalle otri di raccoglimento dell'acqua piovana e per farsi la doccia si
utilizza con contenitore di latta col manico.
Dopo due giorni di questa vita di campagna è il momento di salutare il villaggio e dirigerci verso
Phnom Penh, la capitale.
La sensazione è quella di aver già vissuto le emozioni di un intero viaggio, la certezza è che in
realtà le cose da scoprire sono ancora tante.
L'impatto con la città è forte: il caos, gli odori e la polvere rendono difficile girare a piedi la città.
La povertà, qui così più evidente rispetto che in campagna, ti si sbatte contro nei bambini che ti
attorniano chiedendoti “one dollar”, difficile non cedere, pensando che per noi un dollaro non fa la
differenza mentre per loro può significare avere assicurato un pasto per la giornata – oltre il 40%
della popolazione, in Cambogia, vive con meno di un dollaro al giorno, indice di povertà estrema –
non sappiamo che il nostro gesto condannerà questi bambini a chiedere per sempre l'elemosina
piuttosto che impegnarsi a trovare un lavoro più difficile e meno remunerativo.
L'elemosina toglie piano piano la dignità alle persone, questi stessi bambini, quando saranno
grandi, si renderanno storpi per continuare a fare la stessa pena che scaturiscono in noi oggi.
I contrasti in città sono continui: c'è la povertà estrema accanto alla nuova industrializzazione. La
zona del lungo fiume, la rive gauche del Tonle Sap, è un largo viale brulicante di persone. E' il
cuore della zona coloniale della città e ci sono diversi locali, hotel, ristoranti da un lato e la
passeggiata sull'altro: turisti, locali, ragazzi e adulti si mescolano. Anche la sera la temperatura non
accenna a scendere e si continua a sudare, signore coi loro contenitori termici arancioni offrono
acqua e bibite a 1000 riel per dissetarsi (25 centesimi di dollaro). Le famiglie si fermano sulla
banchina a sgranocchiare pannocchie tostate, i giovani cambogiani improvvisano con casse e stereo
spettacolini e corsi di ballo sul marciapiede. La strada è invasa di auto e motorini. Il lato degli
edifici coloniali è strapieno di turisti che passano da un locale all'altro e si accomodano sulle larghe
sedie di vimini o entrano all'interno di fumosi club. Davanti ai pochi negozi con le saracinesche
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abbassate, si accomodano famiglie di mendicanti che si apprestano a riposare.
(pensieri dei viaggiatori):
“Oggi la giornata di Phnom Penh, della vita per strada e dei suoi contrasti. Belli e terribili; forse
piu’ terribili che belli.
La magnificenza del Palazzo Reale, i suoi tesori; lo splendore dei buddha incastonati di diamanti e
delle piastre d’argento nella pagoda.
L’orrore del campo S-21, gli sguardi nelle foto dei prigionieri: paura, sgomento, sfida… l’orrore
della soppressione dell’essere umano.
La bellezza del girare per i boulevard, le luci, il monumento all’Indipendenza, la ricchezza della
zona delle ambasciate.
La poverta’ di una mamma che prepara la zanzariera per i propri figli su una panchina per la
strada; la poverta’ del white building; di chi dorme nel tuk tuk o nel suo riscio’.”
In città visitiamo il Palazzo Reale, un'area di 435 metri per 421 racchiusa da un lungo muro giallo
ocra bordato da un motivo a forma di sema (pietra sacra buddista). Tale zona fu costruita,
modificata e ampliata diverse volte fra il 1850 e il 1950 per andare incontro alle necessità del re e
delle persone che vivevano all'interno del palazzo. Nei giardini e nelle aree spoglie e curate che
incontriamo oggi, allora vi si trovavano le palafitte in legno delle persone adibite alla cura ed alla
guardia.
Sempre a piedi, attraversando vie secondarie della città, raggiungiamo il Wat Phnom, la collinetta
da cui prende il nome la città di Phnom Penh.
Si narra che nel 1375 una signora chiamata Daun Penh,una sera che aveva piovuto molto e il fiume
si era ingrossato, trovò davanti a casa un grande albero di koki trasportato dalla corrente.
Cercando di tirarlo su per utilizzare il legno, si accorse che all'interno vi erano quattro immagini in
bronzo del Buddha e una statua di Preah Noreay (il Vishnu portato dai flutti).
La donna prese l'evento come un segno degli dei di trasferirsi da Angkor a quell'area dove
confluiscono le quattro braccia del fiume che diventerà 500 anni dopo una fortunata zona di
scambi commerciali.
Così chiese aiuto ai suoi compaesani per l'ampliamento della piccola collina già esistente e la
costruzione di una pagoda nella quale mettere le effigi ritrovate. Tale collina è oggi un luogo di
culto ed un luogo di svago domenicale per moltissimi cambogiani che puliti, pettinati e ben vestiti
si recano a rendere omaggio ai buddha bruciando incensi.
Da qui, ci spostiamo in tuk tuk e raggiungiamo il memoriale di Tuol Sleng, la scuola trasformata in
luogo di tortura e detenzione durante il regime dei Khmer Rossi negli anni '70. I carcerieri di
questa prigione, guidati da Kaing Gueak Eav, detto “Duch”, catalogarono in maniera molto precisa
le foto di ogni detenuto, le sue dichiarazioni e confessioni, materiale che fu trovato quando la città
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venne liberata e che ora è stato utilizzato nel processo che ha condannato a 35 anni di reclusione il
responsabile della prigione. Ci chiediamo come abbiano potuto i cambogiani uccidersi fra loro, ora
che li vediamo così ospitali e sorridenti, non possiamo credere che possano essere stati così crudeli
fra di loro. La nostra mente va a tutti gli episodi di genocidio e di uccisioni di massa che purtroppo
costellano la storia mondiale e quasi con rabbia ci chiediamo “PERCHè?”.
Infine ci infiliamo nei coloratissimi mercati della città, centro della vita e dell'incontro fra le
persone.
Ci introduciamo all'interno del mercato russo fra le meravigliose stole in seta, ci troviamo in un
attimo fra i venditori di piatti, di souvenir in legno, di anticaglie e poi di nuovo fra scarpe, vestiti,
borse..
Nel cuore del mercato si trova la zona ristorazione: il luogo migliore in cui testare le specialità
cambogiane fritte, alla piastra o sulla brace.
Ci sediamo al tavolo della signora che prepara deliziosi centrifugati di frutta e verdura ed ognuno
di noi guardandosi attorno fra le varie banchette sceglie il proprio piatto. La cucina cambogiana
non è di certo ricca, ma gli accostamenti ed i sapori sono molto diversi da quelli che conosciamo
noi: viene usato tanto pepe, limone, salsa di soia, cocco e tante spezie triturate secondo misture
tradizionali che creano piacevoli accostamenti agrodolci.
Alla base di questa cucina c'è il riso a cui si aggiungono le verdure (pomodori, cipolle, carote,
peperoni e patate in primis) e pezzettini di carne o di pesce.
(pensieri dei viaggiatori):
“ci siamo tutti affezionati a Phnom Penh. Appena arrivati in questa città eravamo timorosi e
disorientati, ora che dobbiamo lasciarla ci dispiace. La gente del posto ci ha accolto con i loro
sorrisi. Non avrei mai pensato che un sorriso fosse un’arma così potente, qui tutti ti sorridono
incrociandoti per strada. Il sorriso non è negato a nessuno e nella sua semplicità permette di
superare qualsiasi barriera linguistica, etnica e culturale. Penso che quando tornerò in Italia
sorriderò di più anche io.”
L'indomani si parte molto presto per un lunghissimo viaggio di 6 ore (appena 4 anni fa ce ne
volevano almeno 8) che da Phnom Penh ci porterà a Siem Reap attraversando la regione di
Kompong Cham, e quella di Kompong Thom sulla Strada Nazionale numero 6, una sorta di
superstrada nella quale gli autobus e le macchine viaggiano a tutta velocità utilizzando il clacson
come segnale di sorpasso.
Sull'autobus ci troviamo stipati fra intere famiglie di Cambogiani: genitori, nonni, figli e zii che
viaggiano insieme e pazienti sopportano il lungo viaggio: difficilmente si sentiranno bambini
gridare o piangere..molto più spesso si noteranno i loro occhietti curiosi fare capolino per
guardarci più da vicino..!
Siem Reap è l'unica città realmente turistica della Cambogia: dal 2000 sono stati costruiti 10
alberghi extralusso all'anno e la città si è modellata di conseguenza riempiendosi sempre più di
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mercatini, centri massaggi, ristorantini tipici ed internazionali ed anche di pensioni a poco prezzo.
Noto con piacere l'abbondanza di ristorantini vegetariani: fino a qualche anno fa era difficile
mangiare realmente vegetariano: anzi, molto spesso venivano serviti piatti a cui semplicemente
erano stati tolti a mano i pezzettini di carne.
Soggiorniamo dal simpatico Mr Mao, il gestore della nostra pensione di fiducia: è una di quelle
persone che hanno capito che per fare affari coi turisti bisogna essere cordiali, cercare di rispondere
prontamente ad ogni esigenza e soprattutto è importante proteggerli da tutto il sistema di
fregature creatosi a Siem Reap negli ultimi anni. E' lui stesso a spiegarci che molte pensioni pagano
commissioni ai guidatori di tuk tuk perchè convincano i turisti ad andare lì piuttosto che in altri
luoghi, a pagare per tour organizzati grossolanamente e farciti di gite a centri commerciali che a
loro volta pagano la loro commissione. Questo sistema sta diventando una sorta di mafia nella
quale tutti credono di guadagnare ed invece rimangono intrappolati in un sistema di prestiti
(molto spesso i guidatori di tuk tuk hanno dovuto chiedere in prestito agli strozzini i soldi
necessari per comprare il proprio tuk tuk) che rendono aggressive queste persone che finiscono per
“assalire” i turisti appena escono dal proprio albergo.
Noi decidiamo di esplorare la vicina valle dei templi in mountain bike per evitare tutto questo ma
soprattutto per raggiungere coi nostri tempi e con un po' di fatica il complesso di edifici costruiti
dall'antico impero Khmer.
Angkor, la “capitale”, si sviluppa fra l'800 e il 1400 d.c., in un susseguirsi di re induisti e buddisti
che costruirono una miriade di templi in un'area che si estendeva, oltre che in Cambogia, anche nel
Vietnam, nel Laos e in parte della Tailandia. Nel periodo di massimo splendore, Angkor, si
estendeva in una superficie superiore ai tre mila chilometri quadrati e contava circa un milione di
abitanti.
Ad oggi rimangono in piedi circa 70 templi ed il complesso più grande si trova appunto poco
distante dalla cittadina di Siem Reap.
Si crede che la civiltà khmer antica fosse basata sull'acqua, un complesso sistema di irrigazione
rendeva molto fertile il terreno di tutto l'impero, rendendo possibili 2 o 3 raccolti di riso all'anno.
Ancora oggi sono visibili i due baray ai lati della città, cioè due bacini d'acqua artificiali che
contenevano fino a 80 milioni di metri cubi d'acqua l'uno.
Gli edifici avvolti nella foresta che piano piano scopriamo, sono tutti ad uso religioso: a quel tempo
le abitazioni, ma anche le residenze dei re, erano costruite in materiali deperibili come il legno che
non sono quindi più esistenti.
Ci fermiamo a Pre Rup, un tempio-montagna su tre livelli (rappresentazione del monte Meru)
costruito da re Rajendravarman II.
La pianta è quadrata e la struttura è costruita in mattoncini originariamente ricoperti di stucco
scolpiti con le divinità e le scene della mitologia induista.
Si pensa che questo fosse un tempio funerario dedicato alla cremazione, dato che Pre Rup significa
“capovolgere il corpo”.
Gli edifici che visitiamo successivamente, dal Ta Prohm (le cui rovine sono ancora oggi
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avviluppate dalle radici di piante di kapok, luogo scenografico che ne ha fatto il set prediletto per
un'avventura di Tomb Rider) alla città di Angkor Thom, riflettono un'architettura successiva, più
imponente, realizzata prevalentemente in pietra.
La maggior parte di questi edifici furono costruiti dal re Jayavarman VII in un periodo di forti
conflitti con i vicini guerrieri del regno del Siam, più per dimostrare ad un vicino pericoloso la
propria magnificenza che per devozione agli dei. I templi di questo complesso sono infatti
imponenti e singolari, ma certamente meno volti alla perfezione come invece si può vedere ad
Angkor Wat, probabilmente il più grande edificio religioso al mondo.
Raggiungiamo Angkor Wat poco prima del tramonto ed abbiamo giusto il tempo di arrivare alle
due biblioteche poste all'interno della prima cinta muraria per sederci ed ammirare lo spettacolo
all'interno di questo tempio della superficie di un chilometro quadrato costruito da re
Suryavarman II nel 1150 d.c.
L'ultima tappa del nostro viaggio si raggiunge con una traversata di otto ore del Lago Tonle Sap e
del fiume Sangker su una piccola imbarcazione fluviale che vale tutto il percorso fatto fino ad ora.
Si arriva la mattina presto al porto, si occupano i posti migliori sul tetto (il vizio dell'abbronzatura
ce l'hanno anche i viaggiatori responsabili!!).
Lo spettacolo di vita vissuta sulle sponde del fiume ci rapisce per la maggior parte del tempo.
Persone con la loro casa, il negozio di fiducia, la scuola e la pagoda tutto in un piccolo tratto.
Navigatori esperti, allevatori di piccoli pesci. Sembrano spensierati, eppure vivono in condizioni
non immaginabili per noi, soprattutto di scarsa igiene: nel fiume ci si fa il bagno, ci si lavano i
panni, si scaricano le acque reflue, ci si allevano i pesci, tutto in pochi metri, in una promisquità
raccapricciante.
All'autogrill..una capanna pericolante nella quale ci fermiamo, assaggiamo un piatto di riso con
alcuni pesci: tutto sa di fango e sabbia.
Attraversiamo la bellissima foresta di mangrovie, e successivamente troviamo nuovi agglomerati
di villaggi galleggianti abitati per lo più da esuli vietnamiti. In passato la stragrande maggioranza
delle persone in Cambogia viveva in questo modo, oggi chi è in grado di elevarsi e costruire anche
solo una piccola casetta in muratura guarda con sufficienza chi ancora è costretto a vivere
sull'acqua.
La maggior parte delle volte, purtroppo, si riesce a migliorare la propria situazione solo a discapito
degli altri e la cooperazione e l'aiuto fra le famiglie spesso sta venendo a meno.
A Battambang, la cittadina che raggiungiamo con la barca, ci concentriamo sull'aspetto spirituale
della Cambogia e ci avviciniamo a questo particolare tipo di Buddismo che si pratica qui, avvolto
di pratiche animiste e originarie delle influenze indù del passato.
Raggiungiamo il Wat Kandal, una delle 7 pagode presenti in questa cittadina e incontriamo Dara, il
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monaco che ha acconsentito ad incontrarci per raccontarci alcune cose sul buddismo in Cambogia.
All'interno del recinto della pagoda ci sono diversi monaci giovanissimi con la testa rasata, avvolti
da tuniche di tonalità aranciate e bordeaux.
La pagoda funziona come luogo di raccolta di coloro che non trovano spazio in famiglia (anziane
vedove, ragazzini disabili) e di coloro che pur non avendo le possibilità economiche vogliono
studiare. I monaci sono quindi ragazzini che vivono la loro adolescenza all'interno delle mura della
pagoda, rispettano le regole religiose e per la maggior parte della giornata studiano. Alcuni di loro
continueranno ad essere monaci anche dopo i 18 anni, andranno all'università o si sposteranno in
altre pagode. La maggior parte di loro invece si toglieranno le vesti e rientreranno nella società per
trovare un lavoro ed eventualmente farsi una famiglia. In un mondo in cui lo stato non si occupa
dei bisognosi, è la pagoda che si fa carico di essi (soprattutto nei villaggi e nei piccoli centri
urbani).
I Cambogiani sono molto grati ai monaci e per questo c'è grande rispetto nei confronti di tutto ciò
che ruota attorno alla pagoda: nessuno rifiuta un'offerta ai giovani monaci che la mattina passano
casa per casa, negozio per negozio, recitando le litanie ormai familiari alle nostre orecchie.
Durante il nostro incontro con Dara, si parla delle numerose feste religiose in Cambogia, in
particolare del “Pchum Ben”, cioè il giorno in cui i Cambogiani ricordano i propri morti. I monaci
cantano ininterrottamente tutto il giorno e tutta la notte la litania Pali, in preludio all'apertura dei
cancelli dell'inferno: un evento che si presume accada una volta all'anno, in sintonia con la
cosmologia del Re Yama, contenuto nel Tipitaka. I Cambogiani portano offerte in cibo, incensi e
fiori alla pagoda per omaggiare i propri antenati.
Ancora una volta, carichi di nuove scoperte e del calore di un nuovo incontro, ci carichiamo lo
zaino sulle spalle, consci che questa volta sarà l'ultima, prima di lasciarci alle spalle la Cambogia:
un paese pieno di contraddizioni certo, ma che lascia grande speranza nel cuore.
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