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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO DI DIRITTO PRIVATO E DEL LAVORO ITALIANO E COMPARATO CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO AGRARIO ALIMENTARE E AMBIENTALE NAZIONALE E COMUNITARIO CICLO XXIV LA GARANZIA DI SICUREZZA E QUALITÀ DEI PRODOTTI AGRO-ALIMENTARI BIOLOGICI: I SEGNI DISTINTIVI DELL’UNIONE EUROPEA E I LOGHI NAZIONALI TUTOR Chiar.mo Prof. Ferdinando Albisinni COORDINATORE Chiar.mo Prof. Francesco Adornato ANNO 2011 DOTTORANDA Dott.ssa Sabrina Giuca Alla mia famiglia INDICE INTRODUZIONE……………………...……………............... pag. 1 CAPITOLO I PRODOTTI BIOLOGICI E PRODUZIONE AGRO-ALIMENTARE VENDIBILE: LE REGOLE PER I REQUISITI DI SICUREZZA E QUALITÀ 1. Dalla percezione alla concezione della qualità nella politica comunitaria………………………………………….............. pag. 6 2. Il riconoscimento comunitario del metodo di produzione biologico e la tutela dei termini ad esso riferiti: un lungo percorso…....…… pag. 18 3. L’approccio comunitario alle problematiche della sicurezza alimentare e l’attuale sistema di regole multilivello per l’operatore del settore agroalimentare nazionale..……………………………………….. pag. 34 4. I pre-requisiti degli alimenti e i requisiti di qualità: alla ricerca di definizioni giuridiche…………………………………...……. pag. 49 5. I requisiti di sicurezza e qualità dei prodotti biologici: gli OGM e la questione della coesistenza …………………....................….. pag. 57 6. Requisiti di qualità e prodotti biologici: dal Libro verde della Commissione Europea al «pacchetto qualità»......................... pag. 76 I CAPITOLO II LA GARANZIA DEI REQUISITI DI SICUREZZA E QUALITÀ DEI PRODOTTI AGRO-ALIMENTARI BIOLOGICI: I SEGNI DISTINTIVI DELL’UNIONE EUROPEA 1. L’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti biologici: la comunicazione delle informazioni e la tutela consumatori………………………………………………… pag. del 91 1.1.L’etichetta quale strumento della sicurezza degli alimenti e mezzo di comunicazione della qualità dei prodotti biologici................ pag. 103 2. Il logo di produzione biologica dell’Unione Europea (c.d. «Eurofoglia»): garanzia di origine, natura e qualità degli alimenti biologici?................................................................................ pag. 116 3. Il controllo e la certificazione dei prodotti biologici.............. pag. 129 CAPITOLO III LA GARANZIA DEI REQUISITI DI SICUREZZA E QUALITÀ DEI PRODOTTI AGRO-ALIMENTARI BIOLOGICI: I LOGHI NAZIONALI 1. Sull’ammissibilità dell’utilizzo di loghi nazionali nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti biologici. Le iniziative realizzate ante reg. (CE) n. 834/07 dai Paesi UE: i marchi collettivi geografici pubblici.................................................................................. pag. 142 1.1. Il marchio francese «AB»..................................................... pag. 161 1.2. Il marchio danese «Ø-mærket» (c.d. marchio rosso)........... pag. 167 1.3. (segue): il marchio danese per i cibi biologici delle cucine commerciali «Økologiske spisemærke»……………......…. pag. 175 1.4. Il marchio austriaco «AMA-Biozeichen»............................. pag. 177 II 1.5. Il marchio finlandese «Luomu» (c.d. marchio del sole)....... pag. 185 1.6. Il marchio ceco «BIO-Produkt ekologického zemědělství» (c.d. biozebra)…………………………………………………... pag. 193 1.7. Il marchio tedesco «Bio-Siegel»………............................... pag. 201 1.8. I marchi delle «Comunidades autónomas» spagnole (c.d. marchi regionali)……………...…………………….…………….. pag. 207 2. Il caso italiano…………………………………………….... pag. 219 2.1. La il contesto normativo………………………………………………….. pag. 234 2.2. Lo creazione studio di di un fattibilità marchio per italiano: l’introduzione di nazionale………………………………………………....... un logo pag. 249 2.3. (segue): l’individuazione degli elementi distintivi del logo nazionale e alcune riflessioni sulla sua funzione…………..................... pag. 258 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE…………………….... pag. 264 ALLEGATO - L’eurofoglia e i loghi nazionali...……….…. pag. 281 BIBLIOGRAFIA…………………..……………................... pag. 292 ***** III INTRODUZIONE I moderni processi di produzione, sempre più uniformi e standardizzati, e il conseguente passaggio da modelli artigianali e locali a modelli industriali e delocalizzati, oggettivamente inconciliabili con le esigenze di specificità, anche territoriale, delle imprese agricole primarie, hanno generato un progressivo aumento delle distanze - geografiche e culturali - tra consumatori e produttori, facendo perdere i riferimenti fiduciari e inducendo, a fronte della maggiore disponibilità di alimenti (food security), un aumento della sensibilità in termini di sicurezza (food safety). Sensibilità, peraltro, acuita dagli scandali alimentari e dalle emergenze sanitarie che si sono succedute a cavallo tra vecchio e nuovo millennio e che hanno generato accordi internazionali sulla disciplina dei prodotti agricoli e agro-alimentari e un’ampia attività legislativa dell’Unione Europea, finalizzata a migliorare soprattutto gli standard sanitari e igienici nell’intera catena alimentare dai «campi alla tavola» («from farm to fork»). Gli stessi termini «sicurezza» e «qualità» hanno subìto nel tempo mutamenti e adeguamenti che riflettono l’evoluzione dei rapporti tra individui e tra Stati e la complessità tecnologica e organizzativa di cui sono portatori, con nuove pratiche di produzione, manipolazione e distribuzione degli alimenti. Ne consegue che ad una chiara definizione dei pre-requisiti di qualità dei prodotti alimentari - ovvero dei requisiti di natura igienico-sanitaria, definiti e disciplinati dal reg. (CE) n. 178/02 sulla General Food Law e dalle norme successive, e dei requisiti identitari del prodotto, disciplinati da norme merceologiche e mercantili (caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e organolettiche) - non corrisponde una definizione giuridica della qualità. Il concetto di qualità in campo alimentare, infatti, sposa criteri strettamente soggettivi che non consentono di trovare una definizione univoca e universalmente accettabile. Questo perché la qualità tende a soddisfare bisogni 1 edonistici, per loro natura plurali, negoziabili, distinti e aggiuntivi rispetto alla sicurezza igienica che per sua natura è, invece, uniforme e non negoziabile1. Negli anni della «globalizzazione», intesa come mescolanza e arricchimento di culture, tanto il rischio alimentare quanto le tendenze e le sensibilità diffuse verso tematiche strettamente connesse al cibo e alla sua preparazione - dall’inquinamento dell’eco-sistema alla perdita della biodiversità, dalle condizioni di allevamento degli animali alla manipolazione genetica - hanno modificato il rapporto che le persone hanno con l’alimentazione e a contare non sono più le dinamiche incrementali dettate dalla logica del «di più è sempre meglio» ma le dinamiche espressione di nicchie altamente motivate dove la sicurezza e la genuinità diventano obiettivi essenziali2. Ne è la conferma la forte crescita della conduzione in regime biologico3 e l’interesse mostrato da produttori e consumatori negli ultimi anni, nonostante la recessione, verso questo tipo di alimenti, un interesse che trova differenti motivazioni di carattere salutistico, economico, ambientale ed etico. Questo vuol dire che nella comunicazione commerciale i segni distintivi dei prodotti agro-alimentari biologici sono in grado di comunicare un significato, di trasmettere un contenuto, ovvero di raccogliere e trasferire informazioni legate alle regole che ne disciplinano l’uso, a fronte della distorsione percettiva che spesso si verifica tra ciò che il segno esprime e ciò che esso trasferisce ai consumatori. Tra l’altro, come è noto, per questi prodotti è il genus merceologico piuttosto che la marca commerciale ad assumere rilevanza agli occhi dei consumatori, i quali ritengono che tali prodotti offrano maggiori garanzie di sicurezza e qualità e per questo sono disposti a pagare di più4. Da queste osservazioni è nato lo spunto per approfondire, in questo lavoro, l’effettivo ruolo dei segni distintivi dei prodotti agro-alimentari biologici 1 AIDA, Il Libro verde della Commissione Europea sulla qualità dei prodotti agricoli, Il documento dell’AIDA, in Rivista di diritto alimentare, 2009, III, 1, p. 7. 2 CENSIS e COLDIRETTI, Primo Rapporto sulle abitudini alimentari degli italiani, Sintesi dei principali risultati, Roma, 2010, p. 26. 3 Gli ettari coltivati a biologico nel 2010 in Europa sono 9,7 milioni, pari al 2% della superficie agricola utilizzata (SAU) (dati Research Institute of Organic Agriculture - FiBL, www.fibl.org) e 1,1 milioni in Italia, pari al 9% della SAU (dati Sistema Informativo Nazionale sull’Agricoltura Biologica - SINAB, www.sinab.it). 4 ZANOLI e NASPETTI, Consumer motivations in the purchase of organic food. A means-end approach, in British Food Journal, 2002, 104 (8), p. 643 e ss. 2 dell’Unione Europea - i termini, l’etichetta, il logo UE - nel garantire la sicurezza e la qualità di tali prodotti nel mercato. Il mercato dei prodotti agro-alimentari biologici è uno spazio economico e giuridico di regole - ampiamente trattate nel primo capitolo - in cui la domanda dei consumatori, in termini di miglioramento della sicurezza e qualità degli alimenti derivanti da processi produttivi a limitato o nullo utilizzo di input chimici, incontra l’offerta dei produttori interessati a poter conciliare il rispetto dell’ambiente con l’aumento del proprio reddito per effetto di un prezzo tale da compensare i maggiori costi di produzione e le eventuali riduzioni delle rese produttive. La rilevanza di queste opportunità è testimoniata dalla politica comunitaria che ha inserito l’agricoltura biologica tra gli interventi per lo sviluppo rurale e tra le misure per il sostegno all’introduzione di attività di diversificazione economica delle aziende agricole, dopo averne riconosciuto il metodo di produzione con il reg. (CEE) n. 2092/91. Il regolamento, che si riallaccia ai principi etico-ideologici - salute, ecologia, equità e cura dell’ambiente - dichiarati dall’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements), l’organizzazione fondata nel 1972 che oggi riunisce i movimenti di operatori del biologico di tutto il mondo, ha fornito una definizione univoca e regole chiare per regolamentare il settore dopo una lunga gestazione, dovuta alle difficoltà di dettare regole comuni in un settore sviluppatosi in modo eterogeneo in diversi contesti nazionali e spesso governato in forma autonoma sulla base di regole a carattere sostanzialmente privato, elaborate da associazioni di produttori. Risale, infatti, alla fine degli anni ’70 l’introduzione di disciplinari di produzione, di standard formulati legalmente e di controlli in modo tale da fornire ai consumatori un’effettiva garanzia sulle modalità di produzione di un tipo di agricoltura che, più con connotati filosofici e ideali che come tecnica agronomica a sé stante, si è snodata lungo un percorso che dai primi del Novecento ha toccato correnti di pensiero diverse ma basate sul legame tra agricoltura e natura. La crescita delle dimensioni e della specializzazione delle aziende in tutta Europa ha portato a una realtà diversificata e all’ingresso nel comparto dei grandi attori dell’agro-alimentare: da queste rapide trasformazioni è maturato il 3 nuovo reg. (CE) n. 834/2007 che si inserisce nel quadro più ampio ed evoluto del diritto alimentare ed estende la disciplina - seppur rinviando a norme successive - a produzioni non considerate dalla precedente normativa, come i prodotti dell’acquacoltura e della vitivinicoltura, i lieviti e le alghe marine. La legislazione relativa alla produzione biologica - che assicura il non uso di sostanze chimiche di sintesi né di organismi geneticamente modificati (OGM) e prodotti derivati o ottenuti da OGM (mangimi o medicinali), né di radiazioni ionizzanti nella concimazione della terra, nella coltivazione dei vegetali, nelle pratiche zootecniche e di acquacoltura e nella elaborazione e trasformazione dei prodotti agricoli - è diretta a garantire la qualità del prodotto biologico, in quanto, oltre agli obblighi di comportamento, impone determinati contenuti contrattuali al produttore agricolo, che consistono in un obbligo positivo di informazione e accertamento delle caratteristiche del prodotto oggetto del contratto di fornitura. Ne consegue, come analizzato nel secondo capitolo, che le informazioni che obbligatoriamente devono comparire in etichetta (ingredienti e relative quantità, modalità di conservazione, ecc.) nel rispetto della legislazione alimentare, si configurano quali indici di sicurezza e salubrità dell’alimento mentre i segni distintivi della “biologicità” rimandano alle caratteristiche qualitative intrinseche relative al metodo biologico determinate dalla legge, ovvero dal reg. (CE) n. 834/07. L’etichettatura soddisfa le esigenze implicite del consumatore in ordine alla sicurezza e qualità dell’alimento, non potendosi trascurare, al pari di tutti i prodotti destinati al consumo umano, i possibili effetti derivanti da contaminazioni ambientali, mentre gli altri segni e menzioni che possono essere indicate facoltativamente dall’operatore - marchi, immagini, informazioni e/o certificazioni relative a particolari modi di produzione oltre quello biologico - hanno invece il compito di evidenziare le caratteristiche che soddisfano le esigenze esplicite del consumatore. In più il legislatore comunitario, ai fini di un’adeguata e consapevole scelta da parte del consumatore che - come tutti i consumatori di alimenti - ha bisogno di sicurezza sulla sanità dei prodotti ma, soprattutto, ha bisogno di essere informato e rassicurato sull’effettiva rispondenza del prodotto alle “promesse” 4 che il biologico esprime, ha realizzato uno strumento giuridico: il segno di produzione biologico, ovvero il termine «biologico» e il logo di produzione (c.d. «Eurofoglia») da apporre obbligatoriamente sulle confezioni degli alimenti preconfezionati contenenti almeno il 95% di ingredienti biologici, unitamente all’indicazione del luogo in cui sono state coltivate le materie prime agricole di cui il prodotto è composto. Tale segno, quale mezzo di comunicazione nel mercato e di informazione tra soggetti, svolge la funzione di garanzia istituzionale tramite il funzionamento di un adeguato sistema di controllo e di certificazione, da parte di organismi terzi e indipendenti, che coinvolge non solo il prodotto finito ma la stessa fabbricazione del prodotto. Una possibilità esplicitata per la prima volta nella regolamentazione dell’etichettatura dei prodotti biologici è l’utilizzo, accanto al logo UE obbligatorio, di loghi nazionali e privati, ovvero di segni distintivi di marchi collettivi pubblici e privati. Tale possibilità ha offerto spunti di riflessione, nel terzo capitolo, sulla natura giuridica dei loghi nazionali (parti integranti di marchi collettivi pubblici) e sulla loro coerenza alle disposizioni comunitarie in materia di marchi collettivi geografici (art. 15.2, direttiva 2008/95/CE); tali marchi, a differenza dei loghi DOP/IGP, non devono legare le caratteristiche qualitative del prodotto alla provenienza geografica nazionale/regionale dei prodotti che se fregiano e non devono in alcun modo favorire le rispettive produzioni degli Stati membri nel rispetto del principio comunitario della tutela della concorrenza e della libera circolazione di beni e servizi. Al riguardo, è stata svolta un’analisi comparata dei marchi collettivi geografici pubblici per i prodotti biologici realizzati in Francia, Danimarca, Austria, Finlandia, Repubblica Ceca, Germania e Spagna ante reg. (CE) n. 834/07, mentre nel caso italiano, dove l’introduzione di un logo nazionale per i prodotti biologici è stata oggetto di uno studio di fattibilità, sono stati messi in luce i possibili vantaggi e svantaggi legati alla veste giuridica che questo può assumere con riferimento al quadro normativo comunitario e nazionale. Considerazioni più puntuali sulla garanzia di sicurezza e qualità dei segni distintivi dell’Unione Europea e sulle implicazioni di carattere operativo dei loghi nazionali sono svolte nelle conclusioni del lavoro. 5 Capitolo I PRODOTTI BIOLOGICI E PRODUZIONE AGRO-ALIMENTARE VENDIBILE: LE REGOLE PER I REQUISITI DI SICUREZZA E QUALITÀ SOMMARIO: 1. Dalla percezione alla concezione della qualità nella politica comunitaria. - 2. Il riconoscimento comunitario del metodo di produzione biologico e la tutela dei termini ad esso riferiti: un lungo percorso. - 3. L’approccio comunitario alle problematiche della sicurezza alimentare e l’attuale sistema di regole multilivello per l’operatore del settore agro-alimentare nazionale. - 4. I pre-requisiti degli alimenti e i requisiti di qualità: alla ricerca di definizioni giuridiche. - 5. I requisiti di sicurezza e qualità dei prodotti biologici: gli OGM e la questione della coesistenza. - 6. Requisiti di qualità e prodotti biologici: dal Libro verde della Commissione Europea al «pacchetto qualità». 1. Dalla percezione alla concezione della qualità nella politica comunitaria Per molto tempo, l’ignoranza delle sostanze che in via naturale erano presenti nei singoli cibi e la loro circolazione in un ristretto ambito territoriale entro cui erano limitati eventuali incidenti alimentari (cibi guasti, parassiti, avvelenamenti, ecc.), hanno segnato lo scarso interesse del legislatore pubblico nei confronti della produzione e diffusione degli alimenti5. L’assenza di mezzi tecnici idonei ad evitare la putrefazione di carni fresche e pesce è stata in parte compensata da metodi di conservazione, sempre più affinati, legati alla salatura, essiccazione e utilizzo di spezie. Così che il 5 COSTATO, Una ricognizione sui principi fondanti del diritto alimentare, in Economia e diritto agroalimentare, 2005, 2, pp. 11-12. 6 tramandarsi di generazione in generazione di ricette tradizionali sia per la produzione di alimenti anche a lunga conservazione, come formaggi e salumi, sia per la preparazione di piatti culinari locali hanno dettato, agli inizi dell’era moderna, le regole “qualitative” del mangiar bene e, dunque, dei cibi. Poi l’innovazione tecnologica, soprattutto a partire dal XIX secolo con la conservazione dei cibi in scatola ad opera del pasticcere francese Appert, ha contribuito a determinare una diversa relazione con il cibo riguardo alla quantità dell’approvvigionamento e agli aspetti qualitativi della manipolazione, conservazione e logistica dei cibi6. Le trasformazioni socio-demografiche connesse allo sviluppo economico del Novecento in Europa - esodo rurale, inurbamento, diffusione dell’occupazione femminile, pendolarismo, ecc. -, l’aumento del reddito delle famiglie, la crescita e la differenziazione della domanda, le nuove e diverse abitudini alimentari hanno stimolato, da un lato, profonde innovazioni di prodotto e di processo e, dall’altro, una significativa trasformazione dell’organizzazione produttiva, passata da modelli artigianali e locali a modelli industriali e delocalizzati7. Seguendo le generali logiche del mercato dei consumi, infatti, i cibi hanno iniziato ad essere consumati lontano dal loro luogo di produzione, con la diffusione, in anni sempre più recenti, di tecniche di preparazione, trasformazione e confezionamento che hanno conferito ai cibi pregi più o meno misurabili. Intanto, ciascun Stato aveva fissato, nella propria legislazione, le modalità di produzione e le componenti dei prodotti trasformati (c.d. «leggi ricetta»)8. Alla fine degli anni ’70, la liberalizzazione degli scambi nel mercato comune, alla quale si è giunti, a garanzia della libera circolazione delle merci9 6 ALBISINNI, Diritto alimentare tra innovazione, regolazione e mercato, in Rivista di diritto alimentare, fasc. 4, 2005, p. 566. 7 BELLIGGIANO, Percezione della sicurezza alimentare e nuovi modelli di organizzazione della produzione, in Rivista di diritto alimentare, 2009, III, 4, p. 43. Sull’argomento: BELLETTI e MARESCOTTI, Le nuove tendenze nei consumi alimentari, in BEGALLI e BERNI, a cura di, I prodotti agroalimentari di qualità: organizzazione del sistema delle imprese, Atti del XXXII convegno di studi SIDEA, Bologna, 1995, pp. 133-152. 8 COSTATO, I problemi giuridici della sicurezza alimentare, in Economia e diritto agroalimentare, 2007, n. 1, p. 124. 9 Sull’argomento: SGARBANTI, La libera circolazione dei prodotti agroalimentari, in COSTATO, diretto da, Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, Padova, 2003, par. 75, p. 716. 7 sancita dall’art. 9 del Trattato di Roma del 1957 (successivamente art. 23 TCE e attualmente art. 28 TFUE)10, con la progressiva eliminazione delle barriere doganali (art. 12 Trattato CEE)11 e di tutte le misure di effetto equivalente (art. 30 Trattato CEE)12 e con la progressiva costruzione dell’Organizzazione comune di mercato (OCM), prevista all’art. 40 del Trattato CEE13, ha portato necessariamente la Comunità Europea ad adottare delle regole tecniche 14 che fossero valide in tutti gli Stati membri, aventi per fine: «la disciplina delle modalità di produzione, installazione, manutenzione, erogazione di un bene o di un servizio, ovvero - con riguardo al settore alimentare - la disciplina delle modalità di produzione e commercializzazione degli alimenti»15. 10 Il Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, firmato a Roma il 25 marzo 1957 (Trattato CEE), è stato modificato e ampliato con nuovi articoli contrassegnati da numeri affiancati da lettere, introdotti con l’Atto unico europeo del 1986, entrato in vigore il 1° luglio 1987, e dal Trattato sull’Unione Europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Nel corso del processo di integrazione europea e a seguito delle numerose modifiche precedentemente apportate, il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1° maggio 1999, ha portato ad una nuova numerazione degli articoli del Trattato CEE, divenuto Trattato della Comunità Europea (TCE). Il TCE - integrato da nuove modifiche apportate dal Trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001 ed entrato in vigore il 1º febbraio 2003 - è stato da ultimo modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 2 ottobre del 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ed ha preso il nome di «Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea» (TFUE); «ai cambiamenti terminologici e comunicativi si sono accompagnate novità di rilievo sul piano istituzionale e disciplinare» (ALBISINNI, Istituzioni e regole dell’agricoltura dopo il Trattato di Lisbona, in Rivista di diritto agrario, 2010, fasc. 2, p. 206). Le disposizioni sulla libera circolazione delle merci sono rimaste immutate, ma è cambiata la corrispondente numerazione (gli ex articoli da 28 a 30 TCE sono ora gli articoli da 34 a 36 TFUE). 11 Art. 30 TFUE (ex art. 25 TCE). 12 Art. 34 TFUE (ex art. 28 TCE). 13 Art. 40 TFUE (ex art. 34 TCE). Le OCM, ovvero l’insieme di norme adottate da organismi comunitari o nazionali che disciplinano i mercati dei prodotti agricoli in vista del raggiungimento degli obiettivi della Politica Agricola Comune (PAC), tutelavano i redditi agricoli ed assicuravano l’autoapprovvigionamento della Comunità attraverso protezioni di livelli minimi di prezzo, «cui si aggiunse successivamente […] una serie di interventi limitativi della produzione, incentrati, per altro, sul disincentivo economico». Il mercato, pertanto, «risultava liberalizzato all’interno di una forbice costituita, da un lato, dai prezzi minimi garantiti variamente e, dall’altro, dalla convenienza, alla crescita anomala del prezzo della derrata, di importare prodotti extracomunitari» (COSTATO, Dall’impresa agricola alla protezione dei consumatori, in Nuovo diritto agrario, 2003, p. 2, www.nuovodirittoagrario.it.). 14 Le «regole tecniche» (che sono obbligatorie, a differenza delle «norme tecniche» adottate dagli enti privati di normalizzazione, che sono volontarie - cfr. infra nota 31), definite dalla direttiva 98/34/CE che ha sostituito la direttiva 83/189/CEE, «possono concernere requisiti tecnici, qualitativi e quantitativi - come la composizione, il peso, il volume, la forma, le dimensioni, l’imballaggio, la confezione -, i segni distintivi dei prodotti e le modalità della loro indicazione - come le denominazioni, i marchi, le etichette - e i requisiti concernenti i processi e i metodi di lavorazione - come le stesse caratteristiche costruttive e funzionali» (GERMANÒ, Il mercato alimentare e la sicurezza dei prodotti, in Rivista di diritto agrario, 2008, I, fasc. 1, p. 115). 15 Ibidem. 8 Inizialmente, l’intervento pubblico sul mercato attraverso le OCM, aveva portato la Comunità Europea a fissare alcune caratteristiche dei prodotti ammissibili all’intervento stesso creando, anche se in misura limitata, le prime regole dei cereali (relative all’umidità, al peso specifico, alle impurità, ecc.) e le misure di alcuni ortofrutticoli, a tutela dei consumatori e per evitare l’immissione sul mercato di prodotti scadenti rispetto a quelli di eccellenza. La definizione di requisiti minimi di qualità «mercantile», comuni a tutti gli alimenti (prodotti agricoli e prodotti trasformati)16 degli Stati membri circolanti sul mercato, è poi avvenuta non senza difficoltà, per almeno tre ordini di motivi: l’eterogeneità delle legislazioni nazionali (caratterizzate, appunto, dalle «leggi ricetta»); l’esistenza di norme tecniche (volontarie) che regolavano i rapporti contrattuali tra committenti e fornitori e tra produttori e clienti (standard di produzione, di confezionamento e di etichettatura), ma soprattutto - il diverso modo di concepire la qualità dei prodotti alimentari (oggi si usa l’espressione «prodotti agro-alimentari»17) a livello nazionale. Oggi come ieri, nei Paesi nordici e anglosassoni la qualità dei prodotti agroalimentari è un aspetto strettamente connesso alla sicurezza igienico-sanitaria del prodotto ed alla conformità a determinati standard produttivi; nei Paesi mediterranei, invece, la qualità dei cibi si identifica nel legame con il territorio, con la tradizionalità del processo produttivo, con il talento dell’uomo, per cui 16 Attualmente, «la “parte” agricola della filiera agroalimentare si caratterizza sempre di più per un legame di subordinazione economico-giuridica e non più solo per un legame teleologico rispetto alla controparte rappresentata dalle imprese alimentari. Il “prodotto agricolo” è divenuto “alimento”, in quanto in via contrattuale si è avuta la conformazione dell’attività agricola ai parametri fissati dalle imprese industriali con cui viene assicurata preventivamente la rispondenza dei prodotti agricoli alle caratteristiche tecniche degli alimenti richieste dalle imprese acquirenti» (GERMANÒ, Il mercato alimentare e la sicurezza dei prodotti, op. cit., 2008, p. 112). Sull’argomento, ancora: GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, Torino, 2006, e JANNARELLI, Il diritto dell’agricoltura nell’era della globalizzazione, Bari, 2003, ivi ultimo capitolo intitolato: «Dal prodotto agricolo all’alimento: la globalizzazione del sistema agroalimentare ed il diritto agrario». 17 ALBISINNI, Socrate, le scarpe e i prodotti agro-alimentari, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell’ambiente, 2008, 11, p. 667: «Il termine “agro” nell’espressione composta “prodotti agro-alimentari” sottolinea il rilievo assegnato [oggi] alla fase della produzione primaria nell’ambito della complessiva disciplina degli alimenti. […] Nel corso dell’ultimo decennio a partire da alcune ben note crisi della sicurezza alimentare […] la legislazione alimentare europea [ha ampliato] il proprio oggetto sino a investire, in modo sempre più penetrante e pervasivo, la fase primaria della produzione di alimenti, segnando una netta distinzione rispetto ad un precedente modello disciplinare che a lungo aveva distinto fra fase agricola di produzione delle materie prime e fase alimentare di trasformazione, esonerando la prima dall’applicazione delle regole della seconda». 9 alle regole sulla soglia sanitaria di entrata sul mercato si aggiunge una regolamentazione per la coltivazione, i volumi, le zone di produzione, le condizioni di fabbricazione e presentazione dei prodotti18. Se i prodotti assoggettati alla legislazione agraria comunitaria erano (e sono) elencati nell’allegato I al Trattato 19, «che apparve subito di natura “mista” poiché dettato da ragioni economiche e non dottrinali»20, restava il problema dei prodotti trasformati (compresi nell’allegato I o esclusi) in relazione alla loro circolazione nella Comunità. Infatti, l’esistenza delle diverse «leggi ricetta» per cui, ad esempio, in Italia la pasta doveva essere fatta solo con il grano duro o in Germania la birra doveva contenere esclusivamente luppolo e orzo fermentato, impediva le importazioni di prodotti con denominazioni merceologiche uguali ma con composizioni diverse. In Italia, pertanto, non si poteva importare un prodotto denominato «pasta» se fatto con grano tenero21 mentre in Germania non si poteva importare un prodotto denominato «birra» se contenente additivi. A risolvere il problema ha provveduto non tanto la Commissione Europea, che aveva comunque adottato la direttiva 70/50/CEE22, quanto la Corte di 18 Sull’argomento: LORVELLEC, L’applicazione del diritto della concorrenza al settore agricolo. Aspetti di diritto francese e comunitario, in Rivista di diritto agrario, 1995, I, p. 287; Id., Ecrits de droit rural et agroalimentaire, Paris, 2002, p. 257. 19 Allegato I al TFUE, ex allegato II al TCE (già allegato I al Trattato CEE). 20 COSTATO, La sicurezza degli alimenti nella prospettiva del diritto agroalimentare, relazione presentata al Convegno di inaugurazione dell’Osservatorio sulle regole dell’agricoltura e dell’alimentazione per la tutela dell’identità e della sicurezza, Pisa, 22-23 gennaio 2010, pp. 1-10. L’allegato I comprendeva (e comprende oggi) prodotti agricoli in senso stretto (ortaggi, grano, mais, carne bovina e suina, ecc.), prodotti trasformati «agricoli» (formaggi, olio d’oliva, vino, ecc.) e beni ottenuti solo e sempre con attività trasformatrici tipiche del settore secondario (farine di cereali, margarina, zucchero). Inoltre in esso erano (e sono oggi) inclusi canapa e lino, nonché pesci, crostacei e molluschi. 21 La legge 4 luglio 1967, n. 580 (disciplina per la lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari), che imponeva l’uso esclusivo di grano duro per la produzione e la vendita in Italia, è stata modificata dal D.P.R. 9 febbraio 2001, n. 187 (regolamento per la revisione della normativa sulla produzione e commercializzazione di sfarinati e paste alimentari) che all’art. 6, comma 8, dispone: «la pasta prodotta in altri Paesi in tutto o in parte con sfarinati di grano tenero e posta in vendita in Italia deve riportare in etichetta una delle seguenti denominazioni di vendita a) pasta di farina di grano tenero, se ottenuta totalmente da sfarinati di grano tenero; b) pasta di semola di grano duro e di farina di grano tenero, se ottenuta dalla miscelazione dei due prodotti con prevalenza della semola; c) pasta di farina di grano tenero e di semola di grano duro, se ottenuta dalla miscelazione di due prodotti con prevalenza della farina di grano tenero». 22 Direttiva 70/50/CEE della Commissione, del 22 dicembre 1969, «che trova la sua fonte normativa nel disposto dell’articolo 33 paragrafo 7, del Trattato [CEE], relativa alla 10 giustizia che, prima con la sentenza Dassonville ha individuato le misure ad effetto equivalente alle restrizioni quantitative con una formula piuttosto ampia23, poi con la sentenza Cassis de Dijon24 ha adottato il principio giurisprudenziale del mutuo riconoscimento. Tale principio, maturato dalla Corte proprio in seguito alla difficoltà di pervenire all’armonizzazione delle diverse legislazioni degli Stati membri in materia (art. 100 Trattato CEE)25, ha fatto sì che le differenti discipline nazionali relative ai processi di produzione degli alimenti siano oggi considerate equivalenti e possano coesistere nello spazio comune europeo. In sostanza, «ogni Stato membro riconosce le denominazioni merceologiche legali degli altri Stati membri, indipendentemente dal grado degli standard qualitativi dei prodotti con quel nome commercializzati, […] tuttavia è riconosciuto allo Stato importatore il potere di imporre che il prodotto importato abbia una denominazione merceologica diversa da quella con cui esso è legittimamente commercializzato nel Paese produttore, allorquando la sua composizione si allontani talmente da quella delle merci generalmente conosciute nella Comunità con tale denominazione, da non poter essere considerato appartenente alla stessa categoria»26. D’altro canto, il soppressione delle misure d’effetto equivalente a restrizioni quantitative non contemplate da altre disposizioni prese in virtú del Trattato CEE», GUCE L 013 del 19.01.1970. 23 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 11 luglio 1974, causa C8/74, Benoit et Gustave Dassonville, in Raccolta della giurisprudenza, 1974, p. 837, che chiamava in causa dei commercianti in Belgio che, dopo aver regolarmente acquistato una partita di scotch whisky in libera pratica in Francia, l’hanno importata in Belgio senza essere in possesso del certificato d’origine, da rilasciarsi dalla dogana britannica, richiesto dalla legislazione belga. «Ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura d’effetto equivalente a una restrizione quantitativa» (massima). 24 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 20 febbraio 1979, causa C120/78, Rewe-Zentral AG contro Bundesmonopolverwaltung fuer Branntwein, in Raccolta della giurisprudenza, 1979, p. 649. La sentenza chiamava in causa un liquore francese a base di frutta a 15-20 gradi prodotto a Digione il quale non poteva essere qualificato come liquore in Germania perché al di sotto dei 25 gradi previsti per i liquori dalla legge tedesca. «La nozione di misura d’effetto equivalente a restrizioni quantitative all’importazione, di cui all’art 30 del Trattato CEE, va intesa nel senso che ricade del pari nel divieto contemplato da detta disposizione la fissazione di una gradazione minima per le bevande alcoliche, fissazione contenuta nella legislazione di uno Stato membro, qualora si tratti dell’importazione di bevande alcoliche legalmente prodotte e messe in commercio in un altro Stato membro» (Dispositivo). La sentenza è stata oggetto di molteplici commenti ed è segnalata con risalto in tutti i manuali di diritto comunitario. 25 Art. 115 TFUE (ex art. 94 TCE). 26 GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., 2006, pp. 280-281. Cfr. anche nota 280. 11 principio del mutuo riconoscimento non può essere invocato per sottrarsi alle regole dello Stato di produzione al fine di applicare quelle dello Stato di destinazione27. Il principio del mutuo riconoscimento ha trovato riscontro in molte e successive sentenze, così che la «globalizzazione regionale» nei commerci comunitari deriva dalla giurisprudenza della Corte di giustizia più che dalla legislazione delle istituzioni comunitarie28. Alla difficoltà di creare principi e regole comuni per definire e assicurare in modo univoco la qualità dei prodotti agro-alimentari all’interno del mercato comunitario, contribuiva (contribuisce) la possibilità, da parte degli Stati membri, di proporre impedimenti all’entrata delle merci nel proprio territorio e alla loro commercializzazione qualora ciò potesse (possa) provocare pericolo alla salute di persone, piante e animali (art. 36 Trattato CEE)29. Tenuto conto che la produzione degli alimenti era diventata di tipo industriale e necessitava dell’aggiunta di sostanze di vario tipo per la loro conservazione e presentazione, ciò poteva tradursi in un ostacolo all’effettiva circolazione degli alimenti da Paese a Paese: occorrevano, pertanto, regole tecniche che stabilissero il contenuto massimo ammissibile, nei cibi, di additivi, edulcoranti, dolcificanti, solventi, ecc. 27 COSTATO, L’evoluzione della politica alimentare della Comunità Europea a fronte dell’involuzione della PAC, in Rivista di diritto agrario, 2005, I, fasc. 4, p. 789. Nel caso della pasta (cfr. infra nota 21), i produttori italiani non possono produrre pasta con semola di grano tenero per l’esportazione se non sulla base di una espressa autorizzazione statale. In tal senso dispone l’art 12 relativo alle disposizioni transitorie e finali del D.P.R. 9 febbraio 2001, n. 187: «È consentita la produzione di sfarinati e paste alimentari aventi requisiti diversi da quelli prescritti dalle norme del presente regolamento […] quando è diretta alla successiva spedizione verso altri Paesi […] a condizione che non siano nocivi alla salute umana ed il produttore, di volta in volta, invii preventivamente, a mezzo raccomandata fornita di ricevuta di ritorno indirizzata al Ministero delle politiche agricole e forestali, una comunicazione scritta nella quale siano indicate le merci ed il quantitativo da produrre, i requisiti di difformità dalle norme del presente regolamento, la quantità, il tipo e le caratteristiche delle materie prime e delle sostanze che si intendono utilizzare, la data di inizio della lavorazione e la durata della medesima, nonché il Paese di destinazione finale». 28 COSTATO, I problemi giuridici della sicurezza alimentare, cit., 2007, n. 1, p. 125. 29 Art. 36 TFUE (ex art. 30 TCE). « L’eccezione sanitaria e fitosanitaria […] poteva in molti casi prevalere sul “mutuo riconoscimento” (vuoi in relazione alla salute dell’uomo che di quella di animali e piante) anche se la sua invocazione ha sempre trovato, comunque, ostacolo nella posizione della Corte che chiede, per la sua ammissibilità, che essa sia supportata, per alimenti prodotti legittimamente in uno Stato membro, da pareri conformi di organizzazioni mondiali quali la FAO [Food and Agricolture Organization of the United Nations] o [l’OMS/WHO, World Health Organization]» (COSTATO, Dall’impresa agricola alla protezione dei consumatori, cit., 2003, p. 2). 12 Tutto ciò ha portato ad un nuovo approccio della politica di armonizzazione della Comunità Europea che prende corpo con la risoluzione 85/C136/01 del 7 maggio 198530. Da un lato, la Comunità ha adottato il principio del mutuo riconoscimento anche per le norme tecniche volontarie alle quali ricorrono gli operatori per regolare i reciproci rapporti economici e fornire a clienti e consumatori specifiche garanzie sui prodotti e sui processi di produzione (certificazione secondo le norme UNI EN ISO31). Dall’altro, la Comunità Europea ha armonizzato progressivamente, mediante regole tecniche cogenti sia orizzontali, quindi di carattere generale, sia verticali, ovvero riferite ad un singolo comparto, i requisiti essenziali che i prodotti agro-alimentari devono soddisfare per poter essere immessi sul mercato. Tali requisiti, definiti mediante direttive32, sono regole minime di produzione e norme di commercializzazione33 che, negli anni ’80 e ’90, si 30 La risoluzione del Consiglio relativa ad una nuova strategia in materia di armonizzazione tecnica e normalizzazione ha istituito una nuova tecnica regolamentare («nuovo approccio», poi diventato «approccio globale» e più di recente «nuovo quadro legislativo») che ha fissato i seguenti principi: «1) l’armonizzazione legislativa si limita ai requisiti essenziali che i prodotti immessi nel mercato nella Comunità devono rispettare per poter circolare liberamente al suo interno; 2) le specifiche tecniche dei prodotti che rispondono ai requisiti essenziali fissati nelle direttive vengono definite in “norme armonizzate”; 3) l’applicazione delle norme armonizzate è volontaria e il fabbricante può sempre applicare altre soluzioni per soddisfare i requisiti previsti; 4) i prodotti fabbricati nel rispetto delle norme armonizzate sono ritenuti conformi ai corrispondenti requisiti essenziali» (UNI, Normazione tecnica e legislazione: un rapporto vincente, 2010, p. 7, documento consultabile sul sito dell’Ente Nazionale Italiano di Unificazione, www.uni.com). 31 La certificazione accreditata da parte terza e indipendente è il mezzo con cui un’azienda, che vi aderisce volontariamente, può dimostrare agli steakeholder economici e sociali la conformità del suo sistema di gestione e dei suoi prodotti/servizi ai requisiti della norma tecnica - definiti, controllabili e misurabili - per cui ha ottenuto la certificazione, internazionalmente riconosciuta, emessa dall’organizzazione internazionale ISO (International Organization for Standardization), adottata dal CEN (Comitato Europeo di Normazione) e conseguentemente adottata a livello nazionale dall’UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione) (Ibidem). Sul punto cfr. SALMONI, Le norme tecniche, Milano, 2001. 32 Si tratta, tra le altre, della direttiva 88/388/CEE del 22 giugno 1988, in GUCE L 184 del 1988, e successive modificazioni e delle direttive 89/107/CEE, 94/34/CE, 94/35/CE, 94/36/CE, 95/2/CE e 95/131/CE, in GUCE, rispettivamente, L 40 del 1989, 237 del 1994, 61 e 178 del 1995, approvate nell’ambito delle misure intese al ravvicinamento delle normative degli Stati membri in funzione del mercato comune. 33 Le direttive europee «nuovo approccio» definiscono i requisiti essenziali dei prodotti relativamente alla sicurezza e salute dei cittadini e alla protezione dell’ambiente; i produttori possono liberamente scegliere come rispettare tali requisiti, ma se utilizzano le norme tecniche europee armonizzate (elaborate dal CEN su richiesta della Commissione Europea e citate in appositi elenchi nella Gazzetta Ufficiale UE) che ne precisino le caratteristiche prestazionali e i metodi di prova, i prodotti beneficiano automaticamente della presunzione di conformità e possono liberamente circolare nel mercato europeo con il marchio CE. L’adozione delle norme 13 possono ricondurre alle seguenti cinque tematiche fondamentali, il cui criterio ispiratore è quello di garantire ai consumatori europei la stessa fiducia nei prodotti e nei servizi che circolano liberamente all’interno della Comunità Europea: 1) sicurezza (food safety)34 e protezione della salute pubblica (moralità e ordine pubblico, tutela della salute e della proprietà industriale, indicazioni nutrizionali, tossicità, additivi, responsabilità per danno da prodotto difettoso, sistemi di autocontrollo per la sicurezza e l’igiene degli alimenti); 2) correttezza delle operazioni tra operatori economici (lealtà degli scambi commerciali); 3) difesa dell’ambiente in relazione ai processi produttivi (confezionamento, imballaggi, stoccaggio, residui della lavorazione, rifiuti); 4) correttezza (etichettatura, e diciture, trasparenza pezzatura delle del informazioni prodotto, ai consumatori confezione, marchio, pubblicità); 5) sistema dei controlli pubblici, anche attraverso l’utilizzo di strutture private. Con questa serie di direttive poteva considerarsi garantita, in sede comunitaria, la libera circolazione degli alimenti, il cui processo era iniziato con la progressiva costruzione dell’OCM - e con le definizioni di prodotto agricolo contenute nei differenti settori dell’OCM35 - e proseguito con la giurisprudenza della Corte di giustizia che, con la Cassis de Dijon ha garantito, come detto, il riconoscimento dei prodotti e, dunque, dei cibi. In un’ottica produttivistica che, proprio in quegli anni, si è spostata da punto di incontro tra domanda e offerta a un orientamento al mercato e a una tecniche europee armonizzate come norme tecniche nazionali è obbligatoria, così come il conseguente ritiro di eventuali norme locali in conflitto (UNI, op. cit., 2010, pp. 7-8). 34 L’ambiguità della parola italiana «sicurezza» si scioglie nella lingua inglese: la sicurezza delle disponibilità alimentari per un adeguato livello di produzione è definita food security, mentre la sicurezza di una vita sana garantita da cibi sicuri è definita food safety. A questo secondo termine fa riferimento il presente lavoro. 35 In ambito comunitario sono state istituite diverse organizzazioni comuni che disciplinano altrettanti prodotti agricoli. Sull’argomento, in particolare: COSTATO, diretto da, Trattato breve di diritto agrario, cit., 2003, ivi AA.VV., cap. V, Il mercato dei prodotti agricoli. Il reg (CE) n. 1234/2007 recante organizzazione comune dei mercati agricoli e disposizioni specifiche per taluni prodotti agricoli (regolamento OCM unica) ha incorporato le ventuno precedenti OCM (GUCE L 299 del 16.11.2007). 14 segmentazione dello stesso, per raggiungere fasce di consumatori e target specifici, le istituzioni europee sono state indotte a ritenere che la competizione nel settore alimentare globale dovesse giocarsi sul prezzo, sulla standardizzazione, sui grandi numeri, sulla massa critica. In realtà, con l’evolversi dei rapporti economici e con il passaggio da una produzione di massa a una produzione differenziata, limitata e flessibile alle esigenze dei consumatori, criteri di qualità hanno preso il posto dei criteri di quantità e di prezzo nelle strategie di competizione e di mercato 36. La percezione della qualità in agricoltura ha iniziato a farsi strada nella Politica Agricola Comune (PAC), quale elemento di differenziazione, riconoscendo agli agricoltori quei compiti da sempre svolti ma fino ad allora offuscati da un modello strettamente produttivistico. Infatti, «l’obiettivo sociale al quale il mondo agricolo è chiamato a rispondere è quello di garantire la qualità del nostro cibo, un cibo nutriente, saporito e sano, preservando la qualità dei suoli, la qualità dell’acqua, la sopravvivenza di specie animali e vegetali selvatiche in pericolo di estinzione, la bellezza dei nostri paesaggi»37. Nell’ottica di adeguarsi all’evoluzione dei mercati, alle esigenze dei consumatori - attratti da produzioni differenziate a forte valenza ambientale e salutistica - e alle innovazioni tecnologiche, la PAC è stata investita, a partire dai primi anni ’90, da un importante processo di riforma, orientandosi verso gli obiettivi di tutela ambientale e di miglioramento del livello qualitativo dei prodotti agro-alimentari. In primo luogo, incoraggiando l’uso di pratiche agricole ecocompatibili e incentivando, in un contesto di eccedenze produttive e di relativi problemi economici e finanziari, la riconversione di aziende e terreni all’agricoltura biologica, mediante premi alla superficie nell’ambito delle misure di accompagnamento alla PAC [reg. (CEE) n. 2078/92]. In secondo luogo, promuovendo lo sviluppo rurale e favorendo il riorientamento della produzione verso le zone vocate. In terzo luogo - e successivamente proponendo agli Stati membri il cofinanziamento per iniziative, a loro scelta, a 36 WILKINSON, Dalla dittatura dell’offerta alla democrazia della domanda? Alimenti transgenici, alimenti biologici e dinamiche della domanda nell’agroalimentare, in La questione agraria, 2001, n. 1, p. 47. 37 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Libro verde sul futuro del mondo rurale, Bruxelles, COM (1988) 501 def., pp. 3-4. 15 sostegno degli agricoltori, tra cui quelle relative al miglioramento della qualità dei prodotti e della preparazione tecnica degli operatori del settore38. Negli anni ’90 si è sviluppata l’attenzione del legislatore comunitario nei confronti dei processi produttivi di determinate tipologie di prodotti agricoli o agro-alimentari. La Comunità Europea ha riconosciuto, infatti, il pregio delle produzioni tipiche, legate al territorio di origine e/o alle metodiche tradizionali di produzione, attraverso la disciplina delle DOP, IGP, STG39 e dei vini di origine e qualità specifica40, nonché la specificità del processo di produzione e 38 COSTATO, L’evoluzione della politica alimentare, cit., 2005, p. 780. Regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92, abrogati e sostituiti, rispettivamente, dai regolamenti (CE) n. 510/06 e n. 509/06. Ai sensi del reg. (CE) n. 510/06, un prodotto agricolo o alimentare originario di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un Paese può ottenere: a) la DOP («Denominazione di origine protetta») quando «le caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata»; b) la IGP («Indicazione geografica protetta») quando «una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuiti all’origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengono nell’area geografica determinata». Ai sensi del reg. (CE) n. 509/06 un prodotto agricolo o alimentare tradizionale può ottenere la STG («Specialità tradizionale garantita») - AS («Attestazione di specificità») nel precedente reg. (CEE) n. 2082/92 - quando la composizione tradizionale del prodotto o il metodo di produzione tradizionale sono consolidati nel tempo (almeno 25 anni) e la cui specificità è «l’elemento o l’insieme di elementi che distinguono nettamente un prodotto agricolo o alimentare da altri prodotti o alimenti analoghi appartenenti alla stessa categoria». Sull’argomento, in particolare: ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, in COSTATO, diretto da, Trattato breve di diritto agrario, cit., 2003, p. 730. 40 In realtà già con il reg. (CEE) n. 24/62 la Commissione Europea ha gettato le basi per una politica dei vini europei di qualità che si volevano associati all’origine geografica e per i quali, per l’esigenza di contemperare la tradizione latina con quella tedesca, fu coniato il termine di «vini di qualità prodotti in regioni determinate» (V.Q.P.R.D); la strutturazione completa dell’OCM vino arriverà poi con il reg. (CE) n. 816/70 (POMARICI e SARDONE, L’OCM vino, la difficile transizione verso una strategia di comparto, Roma, 2009, p. 2). Alla fine degli anni Ottanta, dopo diverse modifiche, i V.Q.P.R.D, sono stati codificati dalle disposizioni contenute nel reg. (CEE) n. 823/87; in essi ricadono, in Italia, i vini DOC e DOCG per effetto del successivo reg. (CE) n. 1493/99 relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo [che ha abrogato il reg. (CEE) n. 823/87] e del reg. (CE) n. 1622/2000, che ha fornito un quadro normativo generale entro il quale si collocano le varie leggi nazionali in materia vitivinicola. Con la riforma del settore vitivinicolo [reg. (CE) n. 479/08 e reg. (CE) n. 491/09] le formule consolidate V.Q.P.R.D e IGT vengono abbandonate in quanto i vini DOC, DOCG e IGT sono transitati nel nuovo registro UE delle DOP e IGP [reg. (CE) n. 607/09 e successive modifiche e integrazioni] con il conseguente passaggio dai controlli svolti da consorzi di tutela alle verifiche effettuate da organismi terzi di certificazione. Anche in Italia la normativa di settore ha origine negli anni Sessanta, mentre la disciplina nazionale sulla tutela delle denominazioni di origine dei vini risale alla legge 164/92 (abrogata e sostituita dal d. lgs. 8 aprile 2010, n. 61) che, nel rispetto di specifici disciplinari di produzione approvati con decreto ministeriale, prevedeva: la DOCG («Denominazione di Origine Controllata e Garantita») per i vini di particolare pregio qualitativo, di notorietà nazionale e internazionale prodotti in aree di limitate dimensioni (pochi Comuni); la DOC («Denominazione di Origine Controllata») per i vini prodotti in zone delimitate (piccole e medie dimensioni) di cui portano il loro nome geografico; la IGT («Indicazione Geografica Tipica») per i vini le cui zone di 39 16 trasformazione con l’utilizzo del c.d. metodo biologico, di cui si dirà nel prossimo paragrafo; negli anni ’90 è maturato, anche, un nuovo approccio comunitario alle problematiche della sicurezza alimentare che sarà descritto nel paragrafo 3. Quest’attenzione, che ha trovato riconoscimento in «Agenda 2000» e attuazione nei regolamenti dei fondi strutturali e dello sviluppo rurale41, è frutto delle dinamiche importanti che hanno investito l’agricoltura nel suo complesso nell’ultimo trentennio del secolo scorso, con il passaggio da una politica di produzione sono generalmente ampie, accompagnata da menzioni (vitigno, tipologia enologica, ecc.). Sull’argomento, in particolare: ALBISINNI, La OCM vino: denominazioni di origine, etichettatura e tracciabilità nel nuovo disegno disciplinare europeo, in Agriregionieuropa, 2008, 12, pp. 16-19. In Italia, il 75% della produzione dei vini a denominazione DOC e DOCG è certificata da «Valoritalia», l’ente di «Federdoc» e «CSQA», accreditato in base alle norme tecniche internazionali (cfr. nota 350), mentre circa il 25% della produzione è certificato dalle Camere di Commercio che sono prive di tale accreditamento ma sono autorizzate dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (cfr. la sezione Qualità e sicurezza, Vini DOP e IGP, in www.politicheagricole.it); vige, inoltre, un sistema transitorio di controllo della produzione dei vini a indicazione geografica protetta, inizialmente affidato, per la sola campagna vitivinicola 2009/2010 (d.m. 31 luglio 2009), all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) e successivamente a questi affidato anche per le campagne vitivinicole 2010/2011 (d.m. 30 luglio 2010) e 2011/2012 (d.m. 11 luglio 2011). 41 «Agenda 2000» è il documento con cui la Commissione Europea ha analizzato le sfide che attendevano l’Unione Europea alle soglie del XXI secolo. Si legge nell’introduzione «La prima parte si occupa dello sviluppo delle politiche comunitarie. Sulla base del nuovo trattato di Amsterdam, le politiche interne dovrebbero attuare le condizioni della crescita sostenibile e dell’occupazione, fare della conoscenza una priorità, modernizzare i sistemi di occupazione e migliorare le condizioni di vita e di lavoro. Nuove riforme delle politiche strutturali e della Politica agricola comune (PAC) approfondiranno le misure adottate a favore della coesione economica e sociale, dell’agricoltura e dello sviluppo rurale, preparando l’Unione all’ampliamento. Questa prima parte esaminerà infine gli strumenti per arrivare a una maggiore unità e una maggiore efficacia delle relazioni esterne dell’Unione. La seconda parte affronta la sfida dell’ampliamento. Essa trae le principali conclusioni e raccomandazioni dai singoli pareri sui paesi candidati ed espone il punto di vista della Commissione per quanto riguarda l’avvio del processo di adesione e il consolidamento della strategia di preadesione. Il volume II della presente comunicazione contiene una analisi dell’impatto dell’ampliamento sulle politiche dell’Unione nonché una presentazione approfondita della strategia potenziata di preadesione. La terza parte presenta il nuovo quadro finanziario per il periodo 2000-2006 […] e affronta il problema del futuro sistema di finanziamento» [COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Agenda 2000. Per un’Unione più forte e più ampia, Bruxelles, COM (97), 2000, p. 7]. Con Agenda 2000, pertanto, sono stati fissati nuovi obiettivi della PAC, volti alla realizzazione di un nuovo modello agricolo entro il quale coniugare i requisiti di competitività, redditività, qualità, sicurezza alimentare, sviluppo integrato, eco-compatibilità e tutela del territorio nelle aree rurali. In seguito, le misure per la ristrutturazione agricola, per lo sviluppo territoriale/locale e per l’integrazione ambientale sono state riunite in un unico regolamento sullo sviluppo rurale [reg. (CE) n. 1257/99] e, di fatto, la politica di sviluppo rurale viene designata come il secondo pilastro della PAC, affiancandola alla riforma in atto della politica di mercato (primo pilastro) (notizie dal sito: http://ec.europa.eu/agriculture/index_it.htm). 17 sostegno dei prezzi ad una politica orientata dei redditi, in un mercato meno protetto nel quadro degli accordi internazionali sul commercio42. Tutto ciò si è coniugato all’interesse per uno sviluppo economico sostenibile e alla necessità di una maggiore integrazione tra politiche produttive e di tutela ambientale. Le riforme messe in atto dall’UE, infatti, impongono agli Stati membri di adottare opportune misure di protezione ambientale per tutti i tipi di agricoltura. Gli agricoltori, pertanto, devono rispettare una serie di regole di base in materia ambientale senza ricevere alcuna compensazione finanziaria, con l’applicazione del principio «chi inquina paga», come si dirà nei prossimi paragrafi; tuttavia, nell’ambito dei programmi di sviluppo rurale le misure agro-ambientali adottate offrono premi agli agricoltori che sottoscrivono impegni ambientali che vanno al di là delle buone pratiche agricole e, in particolare, agli agricoltori che producono secondo il metodo biologico, perchè si riconosce che questo particolare sistema di produzione ha effetti positivi sull’ambiente. 2. Il riconoscimento comunitario del metodo di produzione biologico e la tutela dei termini ad esso riferiti: un lungo percorso Il riconoscimento comunitario del metodo di produzione biologico è avvenuto con il regolamento (CEE) n. 2092/91 del Consiglio del 24 giugno 1991, ma non esiste una data certa alla quale ricondurre la nascita di questo tipo di agricoltura che, più con connotati filosofici e ideali che come tecnica agronomica a sé stante, si snoda, in realtà, in un lungo percorso che attraversa ben due secoli di storia. All’inizio del Novecento la diversa impostazione e gestione dell’azienda agraria, conseguenza della meccanizzazione, dell’utilizzo di sementi selezionate e dell’uso di concimi chimici, fa emergere alcuni problemi. In particolare, l’impossibilità per l’agricoltore di riutilizzare le proprie sementi, l’aumento delle malattie del bestiame, la sterilità degli animali, la maggiore 42 Cfr. infra paragrafo 3. 18 suscettibilità delle piante a diverse malattie43. A partire dagli anni ’20 si sviluppano alcune teorie che tentano di dare risposte alternative all’orientamento verso l’industrializzazione dell’agricoltura e che, attraverso gli anni, porteranno all’attuale concezione dell’agricoltura biologica. Si tratta, in particolare, del risultato di una serie di riflessioni che discendono da tre principali correnti di pensiero: - l’agricoltura biodinamica, comparsa in Germania nel 1924 su ispirazione dell’austriaco Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, la scienza spirituale che, attraverso forme artistiche e culturali, reagisce al materialismo e allo sviluppo scientifico44; - l’agricoltura basata su metodi organici (organic farming), nata in Inghilterra dalle tesi sviluppate da Sir Albert Howard nel suo «testamento 43 Con la diffusione dei mezzi meccanici e dei mezzi a vapore e, con lo sviluppo industriale, dei primi trattori a motore, si realizza un cambiamento epocale del modo di fare agricoltura e di migliorare la produttività della terra; tale cambiamento trova la sua massima espressione nella seconda metà del XIX secolo, quando si diffondono nuovi strumenti aratori e migliori sistemi di semina ma fanno anche la loro comparsa i concimi minerali e i fertilizzanti azotati messi a punto da Justus Von Liebig [GIUCA, Cultivar e razze autoctone delle aree rurali: tradizione e innovazione nella conservazione e nell’uso, in GIARÈ, a cura di, Mondi agricoli e rurali. Proposte di riflessione sui cambiamenti sociali e culturali, Roma, 2009, p. 146 e ss., ivi ampia bibliografia]. 44 La parola antroposofia deriva dalle radici greche ànthropos (uomo) e sophìa (conoscenza) (STEINER, The Anthroposophic Movement, lecture 2, Dornach June 11, 1923, p. 33). Rudolf Steiner (1861-1925) mutuò questo concetto in un percorso spirituale e filosofico che si snoda dalla filosofia alla pedagogia, dalla medicina all’arte e i cui sostenitori orientarono in più direzioni: arte drammatica, pittura, scultura, architettura e agricoltura. In particolare, a caratterizzare l’agricoltura biodinamica basata su questi concetti è la convinzione che le colture siano influenzate dalle forze materiali e spirituali presenti nel cosmo; l’azienda agricola deve avere completa autonomia, grazie al sistema policoltura-allevamento che la rende un «organismo vivente autosufficiente», mentre sono rigorosamente vietate le pratiche colturali che impiegano sussidi chimici, a cominciare dai concimi minerali solubili. Nel 1924 lo stesso Steiner tenne in Germania orientale un corso sull’agricoltura in otto conferenze, nel quale parlò dei metodi pratici più indicati per il trattamento del letame, del terricciato, dei preparati biodinamici per concimi, delle piante e delle loro avversità, dell’animale e della sua fisiologia e patologia, delle relazioni olistiche tra terra e cosmo, dell’organizzazione sociale ed economica dell’agricoltura. Le conferenze di Steiner, alle quali si rimanda per approfondimenti, sono contenute in STEINER, Agriculture - a Course in eight lectures given at Koberwitz, Silesia in 1924, English translation 1958, London, 1974, trad. it, Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura, Milano, 1979. Per il successivo approfondimento scientifico e applicativo dell’agricoltura biodinamica, sviluppata dai seguaci di Steiner, in particolare da Ehrenfried Pfeiffer (1899-1961), si veda: PFEIFFER, Soil Fertility, renewal & preservation: bio-dynmic farming and gardening, East Grinstead, 1947, riedito 1988. Attualmente, la Libera Università della Scienza dello Spirito del Goetheanum a Dornach, in Svizzera, rappresenta la principale istituzione dedita sia alla ricerca fondamentale antroposofica sia all’elaborazione di nuovi concetti in diversi ambiti pratici che hanno dato impulso agli istituti di formazione nell’ambito delle diverse specializzazioni antroposofiche e ad associazioni di pubblica utilità in numerosi Paesi su scala mondiale. 19 agricolo» del 1940, sulla base degli studi sul compostaggio condotte in India nell’arco di diversi anni45; - l’agricoltura organica biologica, sviluppata in Svizzera negli anni quaranta dal politico Hans Müller e dal medico batteriologo ed esperto del suolo Hans Peter Rusch46, diffusasi in tutti i Paesi di lingua tedesca. Questi metodi ecologici, seppure con sfumature diverse, si basano sul legame tra agricoltura e natura e sul rispetto degli equilibri naturali e si dissociano, pertanto, da un’agricoltura volta a massimizzare le rese attraverso l’impiego di prodotti di sintesi. A poco a poco, queste forme di coltivazione agricola naturalistica, associate a stili di vita alternativi, cominciano a conquistare i consumatori dell’Europa settentrionale. Inizialmente, alla vendita diretta in azienda si affiancano negozi specializzati in prodotti naturali47 dove è 45 L’idea centrale del testamento di Sir Howard (1873-1947), poi ripresa negli Stati Uniti da Jerome Irving Rodale (1898-1971) e applicata, in particolare, nell’orticoltura, è garantire l’equilibrio biologico e la fertilità del terreno con l’apporto di materie organiche soggette a compostaggio, ovvero a decomposizione biochimica dei rifiuti da usare come fertilizzante che consente, tra l’altro, di accrescere la resistenza delle piante ai parassiti e alle malattie. (MILENKOVICH, Origine e sviluppo dell’agricoltura ecologica in Europa, Milano, 1990, p. 45). Il testamento agricolo di Sir Howard, al quale si rimanda per approfondimenti, è contenuto in HOWARD, An Agricultura1 Testament, 1943, trad. it. I Diritti della Terra - Alle radici dell’agricoltura naturale, Cuneo, 2005. 46 Müller (1891-1988) diede impulso a un movimento con scopi sociali, politici ed economici che predicava l’autosufficienza dei contadini e la riduzione della distanza tra le fasi della produzione e del consumo. Müller, aiutato dalla dott.sa Marie Müller, sua moglie, e basandosi sulle ricerche del tedesco Rusch (1906-1977), si distaccò dal tradizionale metodo economico e, quindi, dalla continua riduzione dei costi di produzione, per promuovere la conservazione della vita del suolo e la produzione di alimenti qualitativamente pregiati. I tre definirono il metodo produttivo organico-biologico, basato sulla massimizzazione dell’utilizzo di risorse rinnovabili al fine di garantire la sicurezza alimentare (food security). Esso si caratterizza per l’importanza attribuita all’humus del terreno, per il ricorso al compostaggio di superficie e per la riduzione al minimo della lavorazione del terreno in modo da non alterarne la microflora; l’autonomia dell’azienda non è considerata essenziale ed è consentito l’approvvigionamento dall’esterno di fertilizzanti, purché organici (LO STERZO, Agricoltura biodinamica e agricoltura biologica, 2011, paper in www.losterzo.it). 47 I primi esercizi di vendita di prodotti commerciali salutistici ottenuti con tecniche pulite risalgono addirittura al XIX secolo. Infatti, il primo reformhäus (negozio specializzato in prodotti naturali) fu aperto a Berlino nel 1887 con il nome «Centrale della salute»; nel 1925 furono censiti in Germania quasi 200 negozi di questo tipo mentre nel 1927 fu fondata la «Neuform», ditta specializzata in alimenti naturali e nello stesso anno iniziò la commercializzazione dei prodotti biodinamici con il marchio «Demeter» dell’omonima associazione che sotto il regime nazista subì l’oscuramento (il marchio è stato poi registrato, dopo gli eventi bellici, all’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale-OMPI di Ginevra nel 1954). In Francia il primo negozio di alimentazione naturale aprì a Parigi nel 1931, grazie all’iniziativa di Raoul Lemaire, mentre nel 1946 iniziò a operare la catena di negozi «La vie claire» specializzata in prodotti salutistici. Nello stesso anno Hans Müller aprì una propria attività commerciale in Svizzera, mentre nel 1952 nacque in Belgio l’azienda specializzata «Lima» (DEL FABRO, Biologico cos’è, Verona, 2000, pp. 14-15). 20 possibile trovare prodotti da agricoltura biologica, ottenuti mantenendo e gestendo in modo corretto la fertilità del terreno in modo da diminuire tutte le pratiche e gli input esterni. In Inghilterra, la biologa Eve Balfour fonda, nel 1944, la «Soil Association» per promuovere l’agricoltura biologica, assegnando la massima importanza, in agricoltura, alle tecniche di compostaggio e di sovescio48, mentre a Milano nasce, nel 1947, la sezione italiana dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica. Negli anni successivi al conflitto mondiale, mentre sul piano della ricerca si diffondono l’impostazione «fisiologica» dell’italiano Alfonso Draghetti49 e il metodo dei francesi Raoul Lemaire e Jean Boucher per la coltivazione dei cereali50, la necessità di aumentare costantemente la produzione agricola in Europa e soddisfare le prime necessità immediate limita notevolmente la diffusione del metodo biologico. Ciò nonostante in alcuni Paesi le dinamiche economiche e sociali spingono la coltivazione e il consumo dei prodotti definiti, di volta in volta, da agricoltura organica, ecologica, naturale, biodinamica, biologica. All’inizio degli anni ’60, nascono, soprattutto nel Nord Europa, fondazioni e associazioni che raggruppano produttori, consumatori e altri soggetti interessati alle problematiche ecologiche e a una vita più strettamente legata alla natura e vengono definiti i primi standard di produzione. Tuttavia, nonostante l’entusiasmo iniziale verso questi prodotti, la loro diffusione 48 Lady Balfour (1898-1990) affiancò gli insegnamenti e le idee di Sir Howard, contribuendo a diffondere la disciplina dell’agricoltura organica. Per approfondimenti: BALFOUR, The living soil, London, 1943; BALFOUR e MILTON, The Living Soil and the Haughley Experiment, New York, 1975. 49 Draghetti (1888-1960), partendo dalla necessità di ridefinire il compito delle scienze agrarie e dell’agronomo, sostenne l’agricoltura biologica perché capace di operare nel mantenimento della fertilità del terreno e perché attenta all’utilizzo dei mezzi di produzione e definì l’azienda biologica quella che «cessa di essere un meccanismo trasformatore di materie prime, con basso rendimento in prodotti mercantili, per assumere l’organizzazione perfetta di una vera entità simbiotica e vitale» (DRAGHETTI, Principi di fisiologia dell’azienda agraria, Bologna, 1948, riedizione 1991, p. 3). 50 Lemaire (1884-1972), docente di genetica, studiò l’applicazione della concimazione del magnesio al frumento, collaborando con Boucher (1915-2009), ingegnere orticolo studioso dell’humus. Nel 1959 i due ricercatori identificarono un’alga oceanica (Lithotamnium calcareum) quale potenziale fertilizzante da utilizzare in alternativa ai concimi chimici e ai pesticidi, elaborando nel 1963 una serie di principi generali per un metodo di agricoltura biologica che utilizza concimi organici compostati (LO STERZO, op. cit., 2011). 21 risulterà, per molto tempo ancora, strettamente legata agli ideali filosofici dei pochi, seppur crescenti, estimatori. Infatti, è solo negli anni ’70 che i prodotti da agricoltura biologica cominciano a diffondersi in tutta Europa mentre esperienze significative si realizzano negli Stati Uniti con il movimento legato al nome di Jerome Irving Rodale, la cui rivista «Open Gardening» ha una tiratura di oltre 750.000 copie51. Fanno eco, a livello internazionale, non solo il vasto dibattito maturato dalla denuncia, ampiamente documentata, degli effetti sulla natura dell’uso indiscriminato del «diclorodifeniltricloroetano» (DDT) e degli altri fitofarmaci chimici da parte della biologa americana Rachel Carson52, ma le profonde trasformazioni sociali in atto. Si tratta di un’epoca segnata, prima, dai movimenti di protesta e dalle contestazioni giovanili, culminati nel 1968, poi dalla crescente sensibilità ai temi ecologici e dalla proliferazione di modi di vita “alternativi” - pacifisti, ecologisti, naturalisti - sullo sfondo della crisi petrolifera del 1973 e delle importanti vicissitudini politiche ed economiche. In quegli anni i prodotti alimentari biologici, rispondenti a disciplinari di produzione di storiche associazioni di settore, con standard formulati legalmente e controlli di qualità a garanzia delle modalità di produzione, riescono a trasmettere ai consumatori un’immagine di forte valenza salutistica e ambientale e gli acquirenti più sensibili a queste tematiche cominciano a rappresentare la forza trainante del loro sviluppo, mostrandosi disposti a pagare prezzi di mercato più alti rispetto a quelli dei prodotti ottenuti con l’agricoltura convenzionale53. In Italia, a far da pioniere è l’«Associazione Suolo e Salute» fondata nel 1969, di cui l’ispiratore principale è il professore Francesco Garofalo che ha 51 DEL FABRO, op. cit., 2000, p. 12. Il DDT è stato vietato negli USA a partire dal 1972 mentre in Italia dal 1978. Lo studio della Carson (1907-1964), ritenuto il manifesto del movimento ambientalista, è pubblicato in CARSON, Silent spring, USA, 1962, trad. it., Primavera silenziosa, Milano, 1999. 53 GIUCA, La commercializzazione di prodotti biologici, in SANTUCCI e ABITABILE, a cura di, Efficienza economica dell’agricoltura biologica - Analisi in campo e di mercato, Perugia, 2009, p. 129. Sul tema, in particolare: SCHMID et al., Agricoltura biologica, Bologna, 2001. 52 22 sviluppato il metodo «organico-minerale», dal quale l’agricoltura biologica trae in quegli anni le basi tecnico-scientifiche54. Un ulteriore passo in avanti nel processo di sviluppo del metodo biologico è la nascita, nel 1972, dell’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements) in Francia, che riunisce oggi 750 movimenti di operatori del biologico di tutti e cinque i continenti, per un totale di 116 nazioni, con sede centrale in Germania e numerose sedi dislocate. L’IFOAM ha proposto una definizione condivisa dell’agricoltura biologica che comprende: «tutti i sistemi agricoli che promuovono la produzione di alimenti e fibre in modo sano socialmente, economicamente e dal punto di vista ambientale. Questi sistemi hanno come base della capacità produttiva la fertilità intrinseca del suolo e, nel rispetto della natura delle piante, degli animali e del paesaggio, ottimizzano tutti questi fattori interdipendenti. L’agricoltura biologica riduce drasticamente l’impiego di input esterni attraverso l’esclusione di fertilizzanti, pesticidi e medicinali chimici di sintesi. Al contrario, utilizza la forza delle leggi naturali per aumentare le rese e la resistenza alle malattie»55. Da questa definizione sono derivate tutte le definizioni successive, soprattutto le indicazioni in base a cui sono state elaborate le normative dei principali Stati, comprese le norme dell’Unione Europea (UE) e le norme nazionali italiane. L’IFOAM, infatti, ha elaborato, nel 1982, un proprio codice contenente gli «Standard di agricoltura biologica per i commerci internazionali e nazionali», sottoposto a revisione biennale in seguito ai suggerimenti delle singole organizzazioni aderenti che ha costituito la base, più o meno esplicita, delle varie iniziative legislative in materia. I principi cardine dell’IFOAM - principio della salute, principio dell’ecologia, principio dell’equità, principio della precauzione56 - se, da un 54 Garofalo, docente di fitoiatria dell’Università di Torino, prende spunto sia da alcune pratiche proposte da Draghetti, proponendo come concimazione la sostanza organica integrata con concimi minerali durante la maturazione del compost, sia dal metodo Lemaire-Boucher, utilizzando il Litothamnium come integratore. Se ne trova notizia in L’Informatore Agrario n. 29, 1969, come si legge nei cenni storici sulle pagine del sito: www.suoloesalute.it. 55 IFOAM, Definition of organic agricolture, brochure, 2011, in www.ifoam.org. 56 I principi cardine formulati negli anni Settanta sono stati leggermente rivisti nella loro formulazione e approvati dall’Assemblea Generale IFOAM in Adelaide nel settembre 2005. Secondo questi principi, l’agricoltura biologica deve: 1) sostenere e migliorare la salute del suolo, delle piante, degli animali, degli uomini e del pianeta come uno e indivisibile (principio 23 lato, rappresentano il riferimento comune per i diversi movimenti di agricoltura biologica ripresi nei disciplinari introdotti dalla federazione, a partire dal 1982, dall’altro «definiscono una base etico-ideologica sulla quale costruire le posizioni, i programmi e gli standard da diffondere fra gli agricoltori»57. I principi etico-ideologici dichiarati dall’IFOAM, che si rifanno, pertanto, al modo in cui gli esseri umani interagiscono con l’ambiente circostante, si relazionano tra loro e lasciano il pianeta per le generazioni future, si contrappongono alla «rivoluzione verde» degli anni Sessanta che nei Paesi industrializzati ha portato gli investimenti nella ricerca agricola direttamente sui campi degli agricoltori per la massima resa produttiva. L’accanimento agricolo si è tradotto, come già accennato, nei sistemi agronomici e zootecnici intensivi, con impiego massiccio di chimica, pesticidi e fertilizzanti, varietà limitate di cultivar e razze ad alto rendimento in grado di fornire prodotti uniformi, inevitabile sfruttamento dei suoli, forte inquinamento di terreni, acqua e aria58. I crescenti danni ambientali e una diversa consapevolezza su come e cosa mangiare, spingono verso l’agricoltura biologica, dove il ricorso alla chimica è ridotto e maggiormente controllato59. della salute); 2) basarsi sui sistemi ecologici e sui cicli di vita e cercare di sostenerli (principio di ecologia); 3) basarsi su relazioni che garantiscano rispetto per l’ambiente come bene comune e per le opportunità di vita delle persone (principio di equità); 4) essere gestita con cura, assumendo le proprie responsabilità di fronte all’ambiente e alla salute e al benessere delle persone coinvolte nella filiera, così come delle generazioni presenti e di quelle future (principio di precauzione) (cfr. IFOAM, Principes of Organic Agricolture, brochure, 2005, in www.ifoam.org). 57 PANCINO, Un’analisi territoriale dell’impatto dell’agricoltura biologica, Tesi di dottorato, Università della Tuscia, 2005, pp. 14-18. L’IFOAM produce gli IFOAM Basic Standards (IBS), che forniscono un quadro di riferimento per gli enti di certificazione e per le organizzazioni produttrici di standard che tengono conto delle condizioni locali e sociali dei Paesi in cui sono creati, e gli IFOAM Accreditation Criteria (IAC), che stabiliscono i requisiti degli enti di certificazione per le aziende biologiche, basati sulle norme ISO (cfr. supra nota 31), che sviluppano particolari condizioni per la certificazione biologica di processi e prodotti (informazioni contenute nel sito: www.ifoam.org). 58 GIUCA, Cultivar e razze autoctone, cit., 2009, p. 147. 59 Nello stesso periodo maturano, con ben altra concezione, la teoria dell’agricoltura naturale di Masanubu Fukuoka (1913-2008), fitopatologo giapponese, e la permacoltura dell’agronomo Bill Mollison e del naturalista Dave Holmgreen, i ricercatori australiani che da questi traggono ispirazione, orientati a recuperare l’armonia naturale e l’equilibrio degli ambienti coltivati senza alcun intervento esterno dell’uomo che non sia la raccolta dei prodotti stessi. Sull’argomento: MILENKOVIC, op. cit., 1990. Per approfondimenti: FUKUOKA, trad. it. La rivoluzione del filo di paglia. Un’introduzione all'agricoltura naturale, Firenze, 1981, riedito 2010; Id., trad. it. La fattoria biologica, Roma, 1985, riedito 2001. 24 Allo stesso tempo, l’evoluzione delle strategie aziendali in una dimensione orientata al cliente, si traduce in una maggiore sensibilità del management verso la percezione della qualità da parte del consumatore, sensibilità che diventa sempre più importante in un contesto di marketing che si rinnova60. In tale contesto, pertanto, diventa fondamentale la determinazione dei bisogni e dei desideri del mercato, nonché il loro soddisfacimento, in modo più efficace ed efficiente dei concorrenti, per raggiungere (e consolidare) i propri obiettivi61. Nasce, così, un mercato del biologico e si sviluppano i sistemi di controllo e di certificazione. Tra gli anni ’80 e ’90, soprattutto in Italia, i consumatori non sono più classificabili in target definiti, poiché i loro comportamenti presentano aspetti contraddittori che oscillano dall’attenzione alla salute (pasti tradizionali, dieta mediterranea) alla gratificazione del palato (pasti frammentati, snacks, surgelati, semipronti)62. Il mercato si presenta frammentato in tante nicchie, in base alle tendenze dei consumatori che sono diventati più esigenti, informati e poliorientati e guardano alla sostanza del prodotto a discapito dell’immagine63. In questo contesto, le strategie di comunicazione commerciale che si basano sulla sostenibilità, sul valore ambientale della merce («green marketing», secondo l’espressione usata dagli anglossassoni) e sulla valenza salutistica del prodotto alimentare (cura e prevenzione del corpo) fanno leva sulle scelte di acquisto dei consumatori verso i prodotti biologici, che incarnano questi valori64. Nel 1992, l’Unione Europea - che ha modificato con l’Atto unico europeo del 1986 il suo Trattato istitutivo inserendo formalmente l’ambiente tra le 60 Si arriva, così, al marketing contemporaneo, socialmente responsabile, in cui l’impresa è orientata agli stakeholder, intesi come qualunque altro soggetto in relazione con essa, dai clienti/consumatori ai fornitori, dagli azionisti all’intera comunità (KOTLER e KELLER, Marketing management, New Jersey, 2006, trad. it. a cura di SCOTT, Milano, 2007, p. 32). 61 ANTONELLI, a cura di, Marketing agroalimentare. Specificità e temi di analisi, Milano, 2004, p. 200. 62 ZANCANI, Consumatore a più dimensioni, in Mondo Economico, 26 giugno 1993, pp. 4849. Per il profilo dei consumatori negli anni ’80 e ’90 si rimanda a FABRIS, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Milano, 2003. 63 CALVI, Introduzione in Indagine Eurisko. Rapporto distribuzione moderna, Milano, 1994, pp. 4-5. 64 GIUCA, I prodotti biologici e integrati, in INEA, Le misure agroambientali in Italia. Analisi e valutazione del Reg. (CEE) 2078/92 nel quadriennio 1994-97, Roma, 1999, p. 119. 25 competenze comunitarie - con il Trattato di Maastricht individua la promozione di una crescita sostenibile e rispettosa dell’ambiente quale finalità prioritaria per l’UE, riconoscendo la necessità di una maggiore integrazione tra politiche produttive e di tutela. Specificatamente, l’obiettivo dell’integrazione delle tematiche ambientali - clima e atmosfera; natura e biodiversità; qualità dell’ambiente e qualità della vita negli ambienti urbani; uso sostenibile delle risorse naturali e gestione dei rifiuti - si delinea con sempre maggiore efficacia nei vari programmi comunitari di azione per l’ambiente e per lo sviluppo sostenibile65, concretizzandosi di volta in volta all’interno dei principali 65 «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni»; questa prima definizione di sviluppo sostenibile risale al 1987 ed è contenuta al punto 5 nel «Rapporto Brundtland», dal nome della norvegese Gro Harlem Brundtland, primo ministro e presidente della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo (UNITED NATIONS, Report of the World Commision on Environment and Development: Our Common Future, doc. N.U. A742/427, 1987). Nel 1992, durante la United Nations Conference on Environment and Development (UNCED) tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno, sono stati approvati diversi impegni multilaterali: «Agenda XXI per uno sviluppo sostenibile urbano»; la «Dichiarazione sui principi concernenti le foreste»; il potenziamento del GEF (Global Environment Facility), fondo gestito dalla Banca Mondiale e istituito nel 1990 per il supporto finanziario ai programmi e progetti in materia ambientale; la «Convenzione sulla biodiversità»; la «Convenzione sui cambiamenti climatici» che ha portato alla sottoscrizione del «Protocollo di Kyoto» per la riduzione delle emissioni di gas serra. Seguendo gli orientamenti della Conferenza di Rio de Janeiro («Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo») e le modifiche introdotte al Trattato della Comunità Europea dal Trattato di Maastricht nonchè, tenuto conto che il successivo Trattato di Amsterdam esige che tutte le politiche e i programmi siano concepiti e realizzati coerentemente con i principi dello sviluppo sostenibile, la Commissione ha adottato la Comunicazione del 15 maggio 2001, Sviluppo sostenibile in Europa per un mondo migliore: strategie dell’Unione europea in favore di uno sviluppo sostenibile, COM (2001) 264, le cui linee principali sono state riprese nelle conclusioni del Consiglio europeo di Göteborg del 15-16 giugno 2001 (SN 200//1/01 REV 1). Dopo la Comunicazione della Commissione del 13 dicembre 2005, Sul riesame della strategia per lo sviluppo sostenibile Una piattaforma per l’azione, COM (2005) 658, la strategia per lo sviluppo sostenibile è stata rielaborata nel 2006 con le Conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo del 15-16 giugno 2006 (doc 10117/06), a cui hanno fatto seguito la Comunicazione della Commissione del 24 luglio 2009, Integrare lo sviluppo sostenibile nelle politiche dell’UE: riesame 2009 della strategia dell’Unione europea per lo sviluppo sostenibile, COM (2009) 400 def., e la Comunicazione della Commissione del 19 gennaio 2010, Soluzioni per una visione e un obiettivo dell’UE in materia di biodiversità dopo il 2010, COM (2010) 4 def. Dopo la decima conferenza delle Parti (CoP10) della «Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica» dell’ottobre 2010 (cfr. nota 177), la UE ha elaborato, il 3 maggio 2011, la nuova strategia sulla biodiversità basata su sei obiettivi: natura, ecosistemi, agricoltura e foreste, pesca, specie alloctone invasive, azione globale [COMMISSIONE EUROPEA, La nostra assicurazione sulla vita, il nostro capitale naturale: strategia dell'UE sulla biodiversità fino al 2020, Bruxelles, COM (2011) 244 def.] Per tutte le fonti sopra citate cfr. http://ec.europa.eu/environment/nature/biodiversity/policy. L’obiettivo comunitario della sostenibilità, nel cui ambito la crescita economica, la coesione sociale e la tutela dell’ambiente procedono di pari passo rafforzandosi a vicenda, richiede un approccio allo stesso tempo globale e locale delle politiche. La strategia sullo sviluppo sostenibile converge, infatti, con la strategia di Lisbona sulla crescita e l’occupazione [Ivi cfr. Conclusioni della Presidenza del 26 strumenti nazionali politico-programmatici, ai fini di un’organica pianificazione territoriale e di una governance per lo sviluppo sostenibile. Sempre negli anni ’90, nell’ambito della riforma della PAC, come accennato nel paragrafo precedente, la Comunità Europea aveva previsto un regime specifico di aiuti [reg. (CEE) n. 2078/92] finalizzato a promuovere, tra l’altro, forme estensive per le produzioni vegetali e l’allevamento bovino e ovino e forme di conduzione dei terreni agricoli «compatibili con la tutela e con il miglioramento dell’ambiente, dello spazio naturale, del paesaggio, delle risorse naturali, del suolo, nonché della diversità genetica», inclusa l’agricoltura biologica. In tale periodo, infatti, era maturata la decisione dell’UE di “istituzionalizzare” il metodo di produzione biologico dei prodotti agricoli, la loro etichettatura e il loro controllo con l’emanazione del reg. (CEE) n. 2092/91, sulla spinta della crescente domanda, da parte dei consumatori, di prodotti agricoli e di derrate alimentari ottenuti con il metodo biologico, a fronte della quale già da qualche anno alcuni Stati membri e, in Italia, alcune Regioni (nonostante fossero stati presentati progetti di legge nazionali) avevano introdotto «disposizioni volte a regolamentare e controllare il fenomeno»66 ma anche interventi di sostegno alla produzione67. Consiglio Europeo del 23 e 24 marzo 2000; Comunicazione della Commissione del 2 febbraio 2005, Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione - Il rilancio della strategia di Lisbona, COM (2005) 24 definitivo; da ultimo: COMMISSIONE EUROPEA, Europa 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, COM (2010) 2020 definitivo]. Inoltre, a partire dagli anni Settanta, la Comunità Europea ha adottato sei programmi consecutivi pluriennali di azione in materia ambientale; per l’ultimo cfr. Comunicazione della Commissione del 24 gennaio 2001, Sesto programma di azione per l’ambiente della Comunità Europea, Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta, COM (2001) 31 def., in http://europa.eu/legislation_summaries/index_it.htm. 66 Le norme nazionali dettavano regole in ordine alla possibilità di immettere sul mercato prodotti agricoli recanti indicazioni sulla loro produzione con metodo biologico piuttosto che individuare tecniche e metodiche colturali, invece riportate nei codici di comportamento e disciplinari elaborati dalle associazioni di produttori (SGARBANTI, Il metodo di produzione biologico, in COSTATO, diretto da, Trattato breve di diritto agrario, cit., 2003, pp. 720-721). Sul punto, anche: CRISTIANI, Agricoltura biologica tra economia e diritto, in Rivista di diritto agrario, 1990, pp. 314-316. 67 Nel 1987 la Danimarca, poi nel 1989 la Germania, primo Paese in ambito UE, hanno introdotto il sostegno finanziario all’agricoltore durante il periodo di conversione al metodo biologico, oltre a sostenere con denaro pubblico lo sviluppo di servizi di informazione, assistenza e marketing. Prima del 1993 anche Francia e Lussemburgo hanno introdotto schemi di aiuti per la conversione al biologico e altre forme di sostegno finanziario su base regionale e nazionale, mentre Austria, Svezia e Finlandia, prima del loro ingresso nell’UE nel 1995, hanno introdotto programmi di sostegno alla conversione al biologico; il programma finlandese 27 Il regolamento deriva, perciò, da anni di «faticosa gestazione» dovuta proprio alla «intrinseca difficoltà di dettare regole comuni in un settore che aveva avuto uno sviluppo tutt’altro che omogeneo e lineare nei diversi contesti nazionali e che, per lo più, si governava in forma autonoma sulla base di regole a carattere sostanzialmente privato elaborate da associazioni di produttori»68. Per questi motivi il suo campo di applicazione è rimasto limitato ai soli prodotti vegetali e a quelli trasformati composti da uno o più ingredienti di origine vegetale, fino all’emanazione del regolamento (CE) n. 1804/99 che ha introdotto le disposizioni per le produzioni animali69. Il reg. (CEE) n. 2092/91, che si riallaccia ai principi etico-ideologici dichiarati dall’IFOAM, risulta permeato da molti principi fondanti dell’agricoltura ecologica, primo fra tutti l’idea che l’azienda agraria biologica è un’unità chiusa, con scarsi o nulli apporti dall’esterno, basata su un’armoniosa coesistenza di vegetali e animali70. I prodotti vegetali e animali ottenuti con il metodo biologico si avvalgono di un sistema che utilizza l’ambiente stesso per combattere i parassiti e le malattie degli animali e delle piante, contribuendo alla sostenibilità dell’eco-sistema. A tale scopo si ricorre alla rotazione delle colture per un uso efficiente del suolo, si utilizzano risorse del luogo come il letame per il compost, si impiegano piante e animali includeva il sostegno per un servizio di assistenza nazionale per i produttori biologici così come quello svedese, il quale, tra l’altro, era l’unico, tra quelli europei, a prevedere un sostegno anche nella fase post-conversione (PADEL et al., Influence of policy support on the diffusion o fan innovation?, in Sociologia Ruralis, 1999, 41, 1, pp. 40-61). Cfr. i paragrafi dedicati a questi paesi nel capitolo III. 68 CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, diretto da, Trattato di diritto agrario, vol. III, Il diritto agroalimentare, Torino, 2011, p. 83. Un’analisi dei documenti e dei provvedimenti legislativi dell’allora Comunità Economica Europea, precedenti all’emanazione del reg. (CEE) n. 2092/91, è descritta dall’A. in Id., Agricoltura biologica tra economia e diritto, cit., 1990, pp. 319 e ss. 69 «L’art. 1, n. 2, impegnava la Commissione a presentare, anteriormente al 1° luglio 1992, una proposta riguardante i principi e le misure specifiche di controllo applicabili alla produzione biologica degli animali, dei prodotti animai non trasformati e dei prodotti destinati all’alimentazione umana contenenti ingredienti di origine animale. Il 15 giugno del 1992 veniva invece approvato il reg. (CEE) n. 1535/92 che, in attesa che venisse adottata una normativa comunitaria specifica, rinviava alle eventuali norme nazionali in materia di zootecnia biologica o, in mancanza, alle pratiche riconosciute a livello internazionale» (CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2011, p. 83). Sul punto: CRISTIANI, Il regolamento sulla zootecnia biologica, in Rivista di diritto agrario, 2000, pp. 487-494. 70 Sull’argomento: CAPORALI, Agricoltura e Salute: la sfida dell’agricoltura biologica, Cento, Ferrara, 2003; FRANCO, Etica ambientale e mercato dei prodotti biologici, in La questione agraria, 2004, 3, pp. 83-112. 28 resistenti alle malattie, si utilizzano pratiche di allevamento diverse in base alle specie di bestiame, si limita l’uso di pesticidi e fertilizzanti sintetici, di antibiotici, additivi e coadiuvanti e si vieta l’uso di organismi geneticamente modificati (OGM)71. L’intervento di armonizzazione del legislatore comunitario è legittimato anche da esigenze di tipo economico; si legge, infatti, nei considerando del regolamento che «questo fenomeno sta creando un nuovo mercato per i prodotti agricoli», che «questi prodotti sono venduti sul mercato ad un prezzo più elevato, mentre il metodo di produzione richiede un impiego meno intensivo della terra», e che «tale metodo di produzione può quindi svolgere una funzione nel quadro del riorientamento della politica agricola comune per quanto attiene alla realizzazione di un migliore equilibrio tra l’offerta e la domanda di prodotti agricoli, la tutela dell’ambiente e la conservazione dello spazio rurale». Pertanto, con il regolamento (CEE) n. 2092/91 la UE ha fornito una definizione univoca e regole chiare per regolamentare il settore, assicurando ai consumatori la trasparenza a tutti i livelli della produzione e della preparazione e garantendo, ai produttori, condizioni di concorrenza leale. Il regolamento fissa le norme di produzione, i tempi di conversione, i prodotti ammessi, i criteri d’uso, le specifiche per l’etichettatura, le regole per l’importazione da 71 Un organismo geneticamente modificato è «un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico [DNA] è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale» (art. 2, direttiva 2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati che abroga la direttiva 90/220/CEE). Questa definizione di OGM, tuttavia, è oggi oggetto di ripensamento sia con riferimento a nuove tecnologie (epigenetica, mutagenesi, cisgenetica, rapid Trait Development System) che non rientrano nella nozione individuata dalla normativa, sia con riferimento a tecniche di ricombinazione genetica fra specie molto vicine tra loro (SIRSI, Le regole per gli OGM nello spazio globale: un’agenda per i governatori del futuro, in Rivista di diritto agrario, 2010, fasc. 3, pp. 469-470). Sul tema degli OGM esiste una vasta letteratura che tra luci e ombre, tra sostenitori e detrattori, ha accompagnato sia l’entusiasmo iniziale verso l’innovazione transgenica in agricoltura, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, sia il graduale ridimensionamento delle speranze alimentate dagli OGM, negli anni successivi. Riguardo a questo “percorso storico” si veda, in particolare: FANFANI et. al., Le biotecnologie nell’agroalimentare: un impatto limitato, in La questione agraria, 1992, 48, pp. 119-133; AMADEI, L’innovazione transgenica in agricoltura: vantaggi economici, in Rivista di diritto agrario, 1998, pp. 357-368. 29 Paesi terzi, oltre a definire un sistema di registrazione aziendale documentato, uno di controllo ufficiale di parte terza e un sistema di vigilanza72. Il regolamento, dunque, offre agli agricoltori la possibilità di produrre secondo il metodo biologico nel rispetto degli standard previsti dalla normativa, senza per questo dover far parte di associazioni private di produttori biologici. I termini riferiti al metodo di produzione biologico - indicati in ogni lingua della Comunità («biologico» in italiano) all’art. 2 del reg. (CEE) n. 2092/91 - o i corrispondenti termini derivati (come «bio» e «eco») sono tutelati e riservati nell’etichettatura, nella pubblicità o nei documenti commerciali, al prodotto, ai suoi ingredienti o alle materie prime per mangimi ottenuti conformemente alle norme di produzione di cui all’art. 6 del regolamento stesso. La menzione riservata al processo adottato73, che con l’emanazione del reg. (CE) n. 1804/99 riguarda anche le produzioni animali, consente ai produttori di potenziare il loro approccio al mercato. Allo stesso tempo, i nuovi indirizzi comunitari sull’agricoltura biologica e, come accennato nel paragrafo precedente, la forte incentivazione nell’ambito delle misure agroambientali di accompagnamento alla PAC, poi riproposte nei Programmi sullo sviluppo rurale (PSR), si sono tradotti in programmi di sostegno definiti a livello regionale e, dal 2000, in misure specifiche nei PSR74. Negli anni ’90, dunque, l’offerta di prodotti biologici cresce rapidamente in tutta Europa; i Paesi tradizionalmente esportatori (Italia, Francia, Spagna, Portogallo) promuovono il mercato interno e sviluppano la domanda locale75. In Italia, in particolare, la maggiore attenzione dei consumatori per la qualità ambientale e le prime importanti campagne istituzionali a sostegno delle 72 SGARBANTI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2003, pp. 720-730, ove l’A affronta, in particolare, la disciplina introdotta dal reg. (CEE) n. 2092/91 e l’adeguamento dell’ordinamento italiano. 73 Per la denominazione di vendita e i termini attualmente ammesi per i prodotti biologici si rimanda al capitolo II, paragrafo 1.2. 74 ADORNATO et al., Le misure agroambientali, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, cit., 2011, vol. I, pp. 567-596. 75 IAMB e ISMEA, Il biologico nel bacino del Mediterraneo - Politiche, normative e mercati per un’agricoltura di qualità, Roma, 2008, p. 76. 30 certificazioni di qualità fanno leva sulla domanda76, mentre gli incentivi alla produzione, ma anche fattori non economici, come la riduzione dei rischi di esposizione dell’operatore e dell’ambiente a prodotti tossici, fanno leva sull’offerta. Cresce, inoltre, l’interesse delle aziende per la certificazione dei prodotti e dei processi produttivi, unitamente all’adozione di politiche di marchio che rendano facilmente riconoscibili tali prodotti, a fronte della confusione generata dalla presenza di più marchi di prodotti alimentari biologici e da agricoltura integrata che coesistono anche con prodotti a marchio di fantasia («genuini», «della tradizione», «della nonna», «come una volta»), che poco hanno a che fare con le produzioni ecocompatibili77. Proprio sul fronte della commercializzazione, nel 1999 la Commissione del Codex Alimentarius78 redige le linee guida internazionalmente riconosciute per la trasformazione, etichettatura e commercializzazione degli alimenti biologici; infatti, dopo l’introduzione del regolamento comunitario e, in parallelo, dell’approvazione negli Stati Uniti dell’Organic Foods Production Act del 1990, non solo molti Paesi europei ma anche alcuni Paesi dell’America latina e dell’Asia, tra cui il Giappone, emanano una legislazione nazionale per l’agricoltura biologica e ampliano il mercato a livello mondiale. Ciò porterà l’India, nel 2001, a emanare una propria normativa sulla produzione biologica, seguita dalla Cina, nel 2005, e dal Canada, nel 2006. 76 SANTUCCI, a cura di, Le filiere dell’agricoltura biologica in Italia, Quaderni dell’Istituto di Economia e Politica Agraria, Perugia, 1997, p. 177. 77 GIUCA, La commercializzazione di prodotti biologici, cit, 2009, p 131. Sull’argomento, in particolare: ZANOLI, Impatto economico, ambientale e sociale dell’agricoltura biologica: problemi teorici e metodologici, in Rivista di politica agraria, 2000, XVIII, 6, pp. 91-114. 78 La Commissione per il Codex Alimentarius, al quale ha aderito la Commissione Europea con la decisione del Consiglio del 17 novembre 2003 (COSTATO, Codex alimentarius e competenze congiunte, in Rivista di diritto alimentare, 2011, 1, p. 1), è un organismo intergovernativo creato nel 1963 da FAO e WHO al fine di dare attuazione al Joint Food Standard Programme, con lo scopo di proteggere la salute dei consumatori e assicurare giuste pratiche commerciali. Esso è organizzato come un sistema di regolazione pubblico-privato che prevede la partecipazione, nella procedura di decisione, di governi nazionali, rappresentanti dei vari comparti industriali, organizzazioni non governative, organismi scientifici indipendenti e organizzazioni internazionali (FRANCARIO, Il diritto alimentare, in Rivista di diritto agrario, I, fasc. 4, 2007, p. 505). Il Codex Alimentarius è il risultato del lavoro della Commissione: una raccolta di norme alimentari, linee guida, codici di condotta e altre raccomandazioni internazionalmente adottati (JOINT FAO/WHO, Procedural manual, Food Standards Programme, Codex Alimentarius Commission, twentieth edition, Rome, 2011). 31 Il Codex, pertanto, fornisce nel 1999 una definizione a livello internazionale dell’agricoltura biologica, ovvero; «un sistema olistico di gestione della produzione che stimola a migliorare l’integrità degli agro-sistemi come la biodiversità, i cicli biologici e l’attività biologica del terreno. Enfatizza l’applicazione di pratiche gestionali rispetto all’impiego di materie prime esterne, tenendo in considerazione che le condizioni locali richiedono sistemi adatti. Ciò si raggiunge utilizzando - ove possibile - metodi agronomici, biologici e meccanici anziché sostanze sintetiche per soddisfare una funzione specifica nell’ambito del sistema»79. Nel nuovo millennio, che si caratterizza per l’ampia attività legislativa dell’Unione Europea80 per migliorare gli standard sanitari e igienici nell’intera catena alimentare e ripristinare, dopo varie emergenze sanitarie, la fiducia dei consumatori, la produzione agro-alimentare è sempre più chiamata a rispondere in termini di tipicità, trasparenza e rintracciabilità (riferita al percorso di alimenti e loro ingredienti dalla produzione al consumo), e le scelte dei consumatori più consapevoli sono sempre più orientate verso le caratteristiche di qualità dei prodotti, non solo in termini di sicurezza alimentare (caratteristiche igieniche e sanitarie), ma anche riguardo alla sostenibilità ecologica in termini di uso prevalente di risorse locali e rinnovabili, mantenimento della fertilità del suolo, utilizzo di prodotti e procedimenti naturali, alto livello di diversità biologica, rispetto per le condizioni di vita degli animali allevati. Anche gli aspetti etici e sociali assumono importanza e spingono in tutta Europa non solo il cosiddetto «commercio equo e solidale» (certificazione Fairtrade81) - trainato dalla consapevolezza, tra i consumatori, 79 CODEX ALIMENTARIUS COMMISSION, Guidelines for the production, processing, labelling and marketing of organically produced foods, GL 32-1999. Le linee guida, aggiornate nel 2001 con l’aggiunta di alcune sezioni sugli allevamenti e produzioni zootecniche e apistiche (GL 32-1999, Rev. 1-2001), sono state revisionate nel corso degli anni per adeguarle all’evoluzione della normativa. Da ultimo, nel maggio 2011, durante la riunione congiunta FAO-OMS sull’etichettatura dei generi alimentari, la Commissione per il Codex Alimentarius ha proposto l’inserimento degli animali e delle alghe provenienti dall’acquacoltura biologica. 80 Cfr. infra paragrafo 3. 81 La certificazione garantisce il rispetto degli standard sociali internazionali stabiliti da Fairtrade Labelling Organizations (FLO) tra cui prezzi minimi garantiti, contratti di acquisto duraturi, rispetto dei lavoratori, un margine sociale da destinare a progetti che beneficiano tutta la comunità, utilizzo di metodi agricoli di lotta integrata (CAPOCCHI, Il valore etico del consumo, in BRIAMONTE e GIUCA, a cura di, Comportamenti e consumi socialmente 32 che l’acquisto di questi prodotti possa avere un diretto impatto sulle condizioni di povertà nei Paesi del terzo mondo82 - ma anche il comparto agro-alimentare biologico, che abbraccia uno spettro di valori più ampio, compresa la nuova frontiera degli impatti sul cambiamento climatico in termini di riduzione di gas serra sia dal lato delle metodiche di produzione sia dal lato delle modalità con cui questi prodotti vengono distribuiti e commercializzati (food miles 83). Si avrà modo di approfondire, nei prossimi paragrafi, come la crescita delle dimensioni e della specializzazione delle aziende, in Europa84, abbia portato a una realtà più diversificata e all’ingresso nel comparto dei grandi attori dell’agro-alimentare: da queste rapide trasformazioni maturerà il bisogno di un dibattito sui valori e sui principi fondanti dell’agricoltura biologica, così come un’esigenza diffusa di rivedere il vecchio reg. (CEE) n. 2092/91, oggetto di numerosi emendamenti, giungendo, così, all’approvazione del nuovo reg. (CE) n. 834/2007, entrato in vigore il 1° gennaio 2009, che (rinviando a norme successive) estende la disciplina a produzioni non considerate dalla precedente normativa, come i prodotti dell’acquacoltura e della vitivinicoltura, i lieviti e le alghe marine. Il regolamento, inserendosi nel quadro più ampio ed evoluto del diritto alimentare, di cui si dirà nei prossimi paragrafi, racchiude nel 1° considerando una nuova e moderna concezione della produzione biologica85, definita come responsabili nel sistema agroalimentare, Roma, 2010, p. 67). Sull’argomento: STRAMBI, Il commercio equo e solidale e l’etichettatura sociale tra soft law e forme di autodisciplina, in Rivista di diritto agrario, 2010, fasc. 3, p. 399-409. 82 Il punto è approfondito da FRANCO, Etica ambientale, cit., 2004, pp. 83-112. 83 Con l’espressione «food miles» o km 0, pur intendendo letteralmente i chilometri percorsi da un alimento dal luogo nel quale avviene la sua fase produttiva a quello in cui è consumato, si mira ad esprimere l’entità dell’impatto ambientale del trasporto del cibo che arriva sulla nostra tavola (FRANCO, Agricoltura biologica e “food miles”: la crisi di un matrimonio di interesse, in Agriregionieuropa, 2007, 10, p. 46). 84 Nel 2009, l’UE, con oltre 8,3 milioni di ettari, si è collocata al secondo posto a livello mondiale per superficie biologica, dopo l’Oceania (12,3 milioni di ettari) e prima del Sud America, con 8,6 milioni di ettari (WILLER e KILCHER, The World of Organic Agriculture Statistics and Emerging Trends 2011, Bonn and Frick, 2011, pp. 28-30). 85 Al fine di individuare e approfondire il tema dei principi e dei valori che dovevano informare e ispirare le nuove regole della produzione biologica, l’UE ha finanziato un progetto di ricerca (PADEL et al., Balancing and integrating basic values in the development of organic regulations and standards: proposal for a procedure using case studies of conflicting areas. Final project report EEC 2092/91 revision, Project number SSPE-CT-2004-502397, 2007), mentre l’IFOAM ha accompagnato costantemente il processo di revisione del vecchio regolamento, pubblicando, nelle diverse fasi del percorso, documenti e newletters di commento 33 «un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e una produzione confacente alle preferenze di taluni consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali. Il metodo di produzione biologico esplica pertanto una duplice funzione sociale, provvedendo da un lato a un mercato specifico che risponde alla domanda di prodotti biologici dei consumatori e, dall’altro, fornendo beni pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale»86. 3. L’approccio comunitario alla sicurezza alimentare e il sistema di regole multilivello per l’operatore del settore agro-alimentare nazionale Dalla progressiva applicazione del principio della libera circolazione delle merci nella Comunità Europea che impone, come detto, di non ostacolare i commerci tra Stati membri se non in presenza di giustificati motivi indicati all’art. 36 Trattato CEE87, è derivata una prima, fondamentale, innovazione della legislazione nazionale in materia di produzione e commercio di alimenti. (IFOAM, Revisione del regolamento 2092/91 sul biologico, EU Regional Group, Newsletter, 13, ed. supplementare, 2006). 86 CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2011, p. 87. Pertanto, il metodo di produzione biologico, secondo le nuove norme, che confermano il divieto di utilizzo di OGM e di prodotti derivati da OGM e il divieto di trattamenti ionizzanti su alimenti, mangimi e materie prime utilizzate per la loro preparazione, «richiede una rigorosa limitazione nell’uso dei fattori di produzione ottenuti da sintesi chimica, l’impiego delle risorse non rinnovabili deve essere ridotto al minimo, mentre i rifiuti e sottoprodotti, sia vegetali che animali, debbono essere riciclati. Per le produzioni zootecniche si deve aver cura di selezionare razze e varietà adatte alle condizioni locali, che possano manifestare una capacità di resistenza alle malattie, ricorrendo a pratiche zootecniche che, includendo l’accesso a spazi all’aria aperta ed un regolare esercizio fisico, rafforzino il sistema immunitario, stimolando le difese naturali, [con il] divieto assoluto relativo alla produzione animale senza terra e alle produzioni idroponiche. Nei processi di trasformazione, sia degli alimenti che dei mangimi, debbono essere limitati l’uso di additivi, micronutrienti e ausiliari di fabbricazione» (Ibidem). 87 Art. 36 TFUE (ex art. 30 TCE). Pertanto, i divieti e le restrizioni ai commerci degli alimenti tra Stati membri possono avvenire solo in presenza di giustificati motivi, oggi riconducibili alla pericolosità dei cibi (dovuta, ad esempio, a cariche microbiche, avvelenamento, contaminazione), alle esigenze di tutela della proprietà industriale (marchi, denominazioni di origine) e al dover assicurare la protezione del consumatore (corretta informazione) (PISANELLO, a cura di, Guida alla legislazione alimentare. Aspetti teorici e pratici per il controllo ufficiale e l’impresa alimentare, Roma, 2010, p. 22). 34 Questa, un tempo incentrava nelle «leggi ricetta» e in alcuni articoli del Codice penale nei quali venivano sanzionate le vendite dei prodotti avariati, gli atti fraudolenti, la frode in commercio, ecc. (dunque interventi tardivi rispetto al verificarsi di un evento dannoso), sottostava negli anni ’80 alla necessità, a livello comunitario, di prevenire e progressivamente organizzare un sistema normativo che vincolasse i produttori di cibi a rispettare molte regole per evitare interventi quando l’evento dannoso si fosse già verificato e, oltretutto, in più luoghi diversi88. Il moltiplicarsi degli interventi normativi comunitari adottati a “protezione” del mutuo riconoscimento e nei confronti degli ostacoli opponibili ex art. 36 ha prodotto «un effetto, che potrebbe qualificarsi inverso, sullo stesso Trattato: esso spinse, cioè, i negoziatori che dovevano proporre modifiche al Trattato di Roma a introdurre in esso il riconoscimento del “diritto alla salute” (art. 129 Trattato CEE, modificato nei contenuti) 89 e della “tutela del consumatore” (art. 129A Trattato CEE, introdotto dall’Atto unico europeo del 1987)90, insomma a codificare diritti che si andavano già assicurando attraverso norme secondarie fondate sulla sostanziale esigenza di garantire la circolazione dei prodotti alimentari»91. 88 COSTATO, I problemi giuridici della sicurezza alimentare, cit., 2007, p. 125. In realtà è dall’allegato I del Trattato CE che trae origine la mercantilizzazione dell’agricoltura e un primo abbozzo della legislazione alimentare «agraria» in Italia, anche se lo spostamento dell’interesse legislativo dal momento produttivo a quello della vendita era già presente nella vecchia versione dell’art. 2135 c.c.. Con l’OCM comunitaria, cha ha garantito per lungo tempo prezzi stabili e crescenti ai prodotti agricoli, l’interesse per il mercato si è realizzato in concreto per la prima volta anche in Italia, spingendo il legislatore delegato nazionale a modificare profondamente l’art. 2135 c.c. (d. lgs. 18 maggio 2001, n. 228) per aprire ancor di più al mercato, anche dei servizi, l’imprenditore agricolo. Così come l’inclusione nell’allegato I di pesci, molluschi e crostacei ha prodotto non solo l’inclusione dell’itticoltura in generale tra le attività agricole a livello nazionale, ma anche la creazione dell’imprenditore pescatore (d. lgs. 18 maggio 2001, n. 226). Le modifiche introdotte dal Trattato di funzionamento dell’Unione Europea hanno ormai assimilato la procedura agricola a quella legislativa ordinaria fondata sulla codecisione per cui il Parlamento Europeo e il Consiglio deliberano lo stesso testo giuridico, previa consultazione del Comitato economico e sociale europeo; il legislatore comunitario sta procedendo sempre più verso l’assimilazione della regolamentazione dell’attività degli agricoltori a quella dei “normali” imprenditori (COSTATO, La sicurezza degli alimenti, cit., 2010, p. 2 e ss.). Sull’argomento: GOLDONI, L’art. 2135 del codice civile, in COSTATO, a cura di, Trattato breve di diritto agrario, 2003, cit., p.159; IDAIC, I tre “decreti di orientamento” della pesca e acquacoltura, forestale e agricolo, in AA.VV., Le nuove leggi civile commentate, Padova, 2001, pp. 668-880. 89 Art. 168 TFUE (ex art. 152 TCE). 90 Art. 169 TFUE (ex art. 153 TCE). 91 COSTATO, Dall’impresa agricola alla protezione dei consumatori, cit., 2003. 35 Negli anni Novanta, dunque, a seguito dell’Atto unico europeo del 1986 che ha modificato il Trattato istitutivo CEE, si delineano i tre pilastri della nuova politica di realizzazione del mercato interno92: l’armonizzazione dei settori economici di rilievo riguardanti la salute, la sicurezza e l’ambiente; l’accettazione, in ogni Stato membro, dei prodotti fabbricati legalmente nel resto della Comunità; il controllo delle regolamentazioni nazionali basato sulla prevenzione secondo la clausola dello stand-still93. Alla realizzazione del mercato unico, tuttavia, si andava sovrapponendo progressivamente il fenomeno della «globalizzazione dei mercati» che prende le mosse dal Trattato di Marrakech sulla World Trade Organization (WTO) del 14 aprile 1994, all’interno del quale si trovano accordi che incidono sulla disciplina dei prodotti agricoli e agro-alimentari, come l’accordo agricolo, l’accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS), l’accordo sugli ostacoli tecnici agli scambi (TBT) e l’accordo sulla tutela dei diritti di proprietà intellettuale (TRIP’s)94. In particolare, secondo l’accordo SPS uno Stato membro della WTO che intendesse rifiutare l’accesso di un prodotto di un altro Stato membro nel suo territorio ha l’onere della prova che dimostri la nocività del bene in questione. L’art. 5, infatti, ammette solo una temporanea sospensione delle importazioni nel caso in cui lo Stato importatore abbia sospetti concernenti la salubrità dei prodotti; ma poi alla sospensione deve far seguito in tempi rapidi il 92 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Relazione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale, funzionamento della direttiva 98/34/CE negli anni 1995-1998, Bruxelles, COM (2000) 429. Sull’argomento: GERMANÒ, Il commercio internazionale dei prodotti alimentari tra regole tecniche, norme giuridiche e Stati sovrani: il caso dei prodotti biologici, in Rivista di diritto agrario, 2005, I, fasc.2, pp. 276-278. 93 La clausola dello stand-still consiste nel divieto ai Paesi membri di emanare regole tecniche nei settori oggetto di studio da parte della Commissione e nell’obbligo di comunicare preventivamente alla Commissione i progetti di regole tecniche cogenti, come nel caso delle norme sulla produzione e sull’eventuale etichettatura degli alimenti, capaci di impedire la libera circolazione delle merci. La direttiva 98/34/CE impone un periodo di attesa (stand-still) di 6/12 mesi dalla notifica, pena l’inopponibilità ai terzi della regola tecnica nazionale. Si veda ALBISINNI, L’origine dei prodotti alimentari, in GERMANÒ e ROCK BASILE, Il diritto alimentare tra comunicazione e sicurezza dei prodotti, Torino, 2005, p. 79. 94 Sull’argomento: JANNARELLI, Il diritto dell’agricoltura nell’era della globalizzazione, cit., 2003; BORGHI, L’agricoltura nel trattato di Marrakech. Prodotti agricoli e alimentari nel diritto del commercio internazionale, Milano, 2004 e Id., Le regole del mercato internazionale, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, cit., 2011, vol. III, pp. 657-696; GERMANÒ e ROOK BASILE, Il diritto dei mercati dei prodotti agricoli nell’ordinamento internazionale, Torino, 2010. 36 raggiungimento o meno delle certezza scientifica della loro pericolosità. In tal senso, le misure sanitarie e fitosanitarie sono prevalentemente finalizzate a controllare il grado in cui specifiche norme sulla sicurezza alimentare interferiscono con il libero scambio e agiscono, pertanto, come barriere non tariffarie95. Pertanto, ormai crollate le frontiere statali che un tempo precludevano il libero ingresso delle merci, «si alzano le barriere tecnicoscientifiche che, sole, possono giustificare preclusioni in tempi di mercato mondiale»96. Per molto tempo, in assenza di una normativa organica di settore in ordine alla sicurezza alimentare, «la proiezione dell’attività produttiva agricola verso il rispetto di norme igienico-sanitarie è stata indirizzata dall’industria privata (controparte economica dei produttori agricoli), attraverso regole di condotta, codici di comportamento, tecnologie e strumentazioni aggiornate, soprattutto nell’ambito dei rapporti di integrazione verticale e secondo modelli contrattuali non concordati ma unilateralmente predisposti»97. Tutto ciò in un sistema agroalimentare «squilibrato economicamente, a vantaggio delle industrie e della grande distribuzione [organizzata (GDO)]»98, la quale ha imposto ai fornitori propri sistemi di certificazione e di conformità dei prodotti agli standard di igiene e sanità e ponendosi quale garante, per i consumatori, non solo delle private labels e dei generics99 ma di tutti i prodotti in assortimento. Questa prospettiva è destinata a ribaltarsi a inizio millennio, attraverso l’ampia attività legislativa che l’Unione Europea mette in atto, come accennato, con lo scopo di 95 HOOKER, Food Safety Regulation and Trade in Food Products, in Food Policy, 1999, 24, pp. 653-668. 96 FRANCARIO, Il diritto alimentare, cit, 2007, p. 521. 97 PAOLONI, Sicurezza alimentare e modelli organizzativi dell’impresa agricola nello scenario della globalizzazione, in Economia e diritto agroalimentare, 2007, 2, pp. 62-63. 98 JANNARELLI, Sicurezza alimentare e disciplina dell’attività agricola, in GOLDONI e SIRSI, a cura di, Regole dell’agricoltura, regole del cibo, produzione agricola, sicurezza alimentare e tutela del consumatore, Atti del convegno, Pisa, 2005, p. 59. 99 La private label (marca commerciale) si caratterizza per l’indicazione del nome del distributore che si sostituisce alla denominazione dell’azienda produttrice, l’attuazione della relativa promozione e un prezzo leggermente più contenuto della marca industriale. La private label può essere la marca di insegna (es. «Conad») o una marca premium/prodotto di qualità o di filiera certificata da terzi (es. «Percorso Qualità Conad»). Il generic è una marca generica primo prezzo commercializzata dalla GDO con un nome di fantasia diverso da quello dell’insegna e si caratterizza per una qualità ed un prezzo inferiori rispetto ai prodotti di marca industriale e a quelli della propria private label. In tal senso SIANO, La gestione delle imprese commerciali, in PETIX, a cura di, Complementi al corso di tecnica industriale e commerciale, Roma, 1992, pp. 703-704. 37 migliorare gli standard sanitari e igienici nell’intera catena alimentare e ripristinare la fiducia dei consumatori dopo vari scandali alimentari (adulterazione, sofisticazione e forme di contaminazione alimentare) ed emergenze sanitarie come la BSE100 e l’influenza aviaria. Ormai, il costante aumento della produzione agricola e delle pratiche industriali di trasformazione si è tradotto nell’utilizzo di fertilizzanti, antiparassitari, anticrittogamici, diserbanti, nonché in manipolazioni chimicoindustriali (additivi, conservanti, coloranti, aromi artificiali), biochimiche (ormoni, antibiotici, farmaci) e biotecnologiche. A questo, poi, va ad aggiungersi l’acceso dibattito sugli OGM, alimentato dalle moratorie adottate negli anni ’90 da diversi Stati membri, ovvero se il loro utilizzo a scopo alimentare, in assenza di prove certe, possa rivelarsi dannoso per la salute delle persone e degli animali o addirittura diventare tale nel tempo101. 100 Sull’onda della Bovine Spongiform Encephalopathy (BSE), il 1° gennaio 2002 è entrato in vigore in tutti gli Stati membri il sistema obbligatorio di etichettatura delle carni bovine e dei prodotti a base di carni bovine - freschi, congelati e refrigerati - introdotto dal reg. (CE) n. 1760/2000. La normativa garantisce la rintracciabilità dell’animale, ovvero l’origine e la provenienza, attraverso un codice identificativo e consente di ricostruire il percorso degli animali dall’azienda di nascita fino ai prodotti venduti al dettaglio. L’emergenza BSE ha messo in evidenza l’importanza del controllo della filiera agro-alimentare ed ha aperto un ampio dibattito sulla rintracciabilità che gradualmente si è esteso dalla zootecnia anche alle catene produttive vegetali (ALBISINNI, Dalla legislazione alimentare al diritto alimentare europeo, relazione presentata al seminario AIDA, La disciplina dei prodotti alimentari, Roma, 12 ottobre 2010). 101 Sul tema si rimanda ad un approfondimento nel paragrafo 5 di questo capitolo. Qui preme evidenziare che la Commissione Europea, in un recente rapporto che raccoglie 50 progetti sostenuti e co-finanziati dall’Unione Europea, sostiene che dieci anni di studi non avrebbero fatto emergere rischi per la salute e l’ambiente riguardo agli OGM mentre rimarca che i benefici in campo agricolo riguardano la possibilità delle colture GM di risolvere i problemi di fame e malnutrizione che affliggono i Paesi più poveri, di aumentare le rese e la resistenza agli attacchi dei parassiti, nonché di adattarsi meglio agli effetti determinati dal cambiamento climatico [EUROPEAN COMMISSION, A decade of EU-funded GMO research (2001-2010), Brussels, 2010]. Alle conclusioni della ricerca scientifica si contrappongono non solo organizzazioni agricole e ambientaliste e movimenti di cittadini comunitari (come il milione di firmatari dell’appello di «Greenpeace» e «Avaaz» che chiedono la moratoria su tutte le autorizzazioni riguardanti i semi brevettati) ma diversi Stati membri che ritengono inapplicabile qualsiasi coesistenza con gli OGM e si oppongono alla loro coltivazione. In contrasto con la cosiddetta good science, spesso legata all’industria biotech e compromessa dalla presenza di conflitti di interesse, è la ricerca scientifica indipendente che ha evidenziato i rischi per la salute e l’ambiente in alcuni studi in materia di OGM. Nell’ultimo sondaggio «Eurobarometro», promosso dalla Direzione generale per la ricerca della Commissione Europea per analizzare le variazioni della percezione pubblica delle biotecnologie e delle scienze della vita dal 2005 al 2010, è emerso che il 46% dei cittadini intervistati è bene informato sull’argomento e il 61% è contrario agli OGM (nel 2005 era il 57%). Tra le motivazioni scelte dal campione compaiono soprattutto la “non naturalità” degli OGM (70%) e la non sicurezza per la salute (59%), mentre meno di un terzo degli intervistati pensa che questi 38 Tutto ciò ha incrementato l’incertezza e i rischi per la salute dell’uomo e per l’ambiente, oltre ad aver generato un inquinamento progressivo dell’ecosistema, anche per la cattiva gestione degli scarti e dei reflui di lavorazione o per la ricaduta dei contaminanti dopo le emissioni in aria102. La crescente delocalizzazione produttiva veicolata dalla Grande Distribuzione transnazionale, inoltre, fa percorrere agli alimenti migliaia di chilometri prima di arrivare ai consumatori o, paradossalmente, li fa ritornare addirittura nel luogo in cui sono state prodotte le materie prime, con consumo di energia e inquinamento ambientale, oltre a sottoporli a manipolazioni per evitare il loro naturale deterioramento103. La distanza tra produzione e consumo, l’estensione della catena distributiva, i tempi di assunzione o smaltimento dei cibi e gli spazi di lavorazione, confezionamento, movimentazione e conservazione dei prodotti alimentari pongono delicate questioni di rischio per la salute umana104. La produzione agricola e alimentare comunitaria, lo si ribadisce, è sempre più chiamata a rispondere in termini di salubrità, trasparenza e rintracciabilità. Nel 2000, con il Libro bianco sulla sicurezza alimentare105, la Commissione Europea ha avanzato proposte di riforma in campo alimentare, sollevando prodotti siano un bene per l’economia e il 58% degli intervistati ritiene che gli OGM siano rischiosi anche per le generazioni future. I cittadini del Regno Unito sono risultati i più favorevoli ai cibi GM, mentre quelli francesi e greci i più contrari (EUROPEAN COMMISSION, Europeans and Biotechnology in 2010. Winds of change?, Brussels). 102 In particolare, sull’effetto dell’emissione nell’atmosfera di metano, proveniente da zootecnia e risicoltura, e di ossido d’azoto, collegato a fertilizzazioni e deiezioni zootecniche, cfr. PETTENELLA et al., Il settore primario e la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, in Politica agricola internazionale, 2006, 5 (3) pp. 27-48. 103 Sull’argomento: FRANCI, Filiera corta e gruppi di acquisto, relazione presentata al Convegno Gli scenari futuri per i piccoli produttori agricoli dell’Europa a 27; esperienze e valutazioni a confronto, Roma, 12-14 febbraio 2007. 104 FRANCARIO, op. cit., 2007, pp. 512-513. 105 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Libro bianco sulla sicurezza alimentare, Bruxelles, COM (1999) 719 def. Il Libro bianco è un documento pubblicato dalla Commissione Europea che contiene proposte di azione comunitaria in un settore specifico. Il Libro bianco talvolta fa seguito ad un Libro verde, un documento di riflessione su un tema specifico che la Commissione pubblica allo scopo di acquisire pareri e sollecitare una consultazione pubblica e un dibattito tra gli interessati (organizzazioni professionali agricole e industriali, associazioni di consumatori, istituti giuridici ed economici, singoli cittadini), primo passo degli sviluppi legislativi successivi in materia (http://europa.eu/index_it.htm). Nel 1997, infatti, la Commissione ha presentato il Libro verde sui «Principi generali della legislazione in materia alimentare nell’Unione Europea», Bruxelles, COM (1997) 176 def. «La situazione era, dunque, matura per arrivare ad un salto di qualità nella produzione legislativa comunitaria in materia [di sicurezza alimentare], e per passare dall’agroalimentare più compiutamente 39 l’esigenza di istituire un organismo indipendente che fornisse garanzie sulla non nocività degli alimenti immessi in commercio e informasse i consumatori sulla gestione sanitaria del rischio. Due anni dopo, il regolamento (CE) n. 178/2002 ha istituito l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA)106 e riscritto i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare e le procedure nel campo della sicurezza alimentare, secondo un approccio globale, integrato e scientifico dell’intera catena alimentare «dai campi alla tavola» (from farm to fork). Si tratta di un insieme di misure e strumenti nuovi articolati in più livelli e in cui l’EFSA svolge un ruolo fondamentale quale consulente qualificato di regolazione giuridica - che ruota intorno ad una serie di concetti-chiave volti a «garantire un livello elevato di tutela della salute umana e degli interessi dei consumatori in relazione agli alimenti (art. 1)»: il controllo di filiera; l’analisi del rischio quale fondamento essenziale della politica per la sicurezza alimentare107; la responsabilità di tutti gli operatori del settore; la rintracciabilità dei percorsi degli alimenti, dei mangimi e dei loro ingredienti108; il diritto dei consumatori a un’informazione chiara e precisa. Il all’alimentare» (COSTATO, La politica agricola comune nel settore dell’alimentazione, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., 2011, vol. III, p. 17). Sul punto ivi Id., Principi e requisiti generali della legislazione alimentare, pp. 19-51. 106 L’EFSA, le cui funzioni sono definite all’art. 22 del reg. (CE) n. 178/02, esprime pareri scientifici in materia di sicurezza di alimenti e mangimi, benessere e salute degli animali, nutrizione, protezione e salute delle piante; valuta e comunica i rischi per la salute; gestisce i sistemi di allarme rapido; realizza reti con le Agenzie alimentari degli Stati UE; promuove consultazioni pubbliche (cfr. www.efsa.europa.eu). Sull’argomento: LUBRANO, L’attività dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, in Rivista di diritto agrario, 2003, fasc. 3, p. 346 e ss.; VITI, L’Autorità Europea per la sicurezza alimentare e l’analisi del rischio, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., 2011, vol. III, pp. 641-656. 107 L’analisi del rischio - definito all’art. 3 del reg. (CE) n. 178/02 come «funzione della probabilità e della gravità di un effetto nocivo per la salute conseguente alla presenza di un pericolo», comprende tre fasi di grande rilevanza dettagliate all’art. 6 dello stesso regolamento: 1) la valutazione del rischio, basata sullo studio delle analisi informative e sui rapporti scientifici; 2) la gestione del rischio, intesa come direzione e controllo per gestire operativamente una situazione di crisi; 3) la comunicazione del rischio, che comprende la gestione delle procedure informative e di intervento dirette alle pubbliche amministrazioni e ai consumatori nei casi di crisi. Sull’argomento: GERMANÒ, Il sistema della sicurezza alimentare, cit., 2006; GERMANÒ e ROOK BASILE, Manuale di diritto agrario comunitario, Torino, 2010. 108 La rintracciabilità di filiera, obbligatoria per tutti i prodotti, è la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza «destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime» attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione [art. 18, reg. (CE) n. 178/2002]. A tale scopo, «tutti gli operatori della catena alimentare hanno l’obbligo di identificare i fornitori e i clienti diretti dei loro prodotti e tale prescrizione è conditio sine qua non affinché si stabilisca un collegamento ascendente “fornitore-prodotto” 40 reg. (CE) n. 178/92 (General Food Law) opera sia sul piano delle fonti per la tutela del consumatore, la libera circolazione del mercato e la libera concorrenza, sia sul piano delle istituzioni, a livello nazionale e a livello europeo, con l’istituzione, come detto, dell’EFSA (art. 22) nonchè del sistema di allarme rapido (art. 50)109 e l’adozione di misure urgenti per gestire le situazioni di emergenza e di crisi alimentari (artt. 53-57). Contestualmente, l’UE ha emanato regolamentazioni severe in materia di etichettatura dei prodotti alimentari, armonizzando le norme nazionali110 e (quali prodotti sono forniti da quali fornitori), per consentire il controllo dei fornitori e delle sostanze “in ingresso” e un collegamento discendente “consumatore-prodotto” (quali prodotti sono forniti a quali consumatori), in previsione di idonee procedure per il ritiro dal mercato di alimenti e mangimi a rischio» (GIUCA, Sicurezza alimentare, in INEA-Agrisole, La qualità e la sicurezza alimentare, Milano, 2010, p. 40). A differenza dell’etichettatura dei prodotti, la rintracciabilità che discende dagli obblighi comunitari non è uno strumento “pensato per i consumatori” ma è uno strumento giuridico di controllo unitario dei fornitori e dei clienti lungo la filiera attraverso una specifica procedura documentale anche se, naturalmente, la rintracciabilità è finalizzata a soddisfare i requisiti legali, commerciali (di mercato) e di informazione dei consumatori per garantire un livello elevato di sicurezza in termini di igiene e sanità. In tal senso ALBISINNI, Dalla legislazione alimentare al diritto alimentare europeo, cit., 2010. Riguardo alle etichette di prodotti agricoli che possono consenire la lettura della rintracciabilità (carni bovine, pesci, molluschi e crostacei, uova, miscugli di frutta, ortaggi o funghi e OGM), cfr. COSTATO, La rintracciabilità degli alimenti, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., 2011, vol. III, pp. 540-543. Il reg. di esecuzione (UE) n. 931/2011, in vigore dal 1° luglio 2012, ha introdotto prescrizioni ulteriori - nella documentazione di base per gli operatori del settore alimentare - sulla rintracciabilità degli alimenti di origine animale ad esclusione dei prodotti composti, ovvero di quelli che contengono anche materie prime vegetali. 109 Il Rapid Alert System for Food and Feed (RASFF), operativo dal 2002 tra UE-27, Commissione Europea, EFSA e i Paesi dell’area economica europea (Norvegia, Liechtenstein e Islanda - per i quali sussiste, a seguito dell’accordo con la Comunità Europea del 1° gennaio 1994, la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali e i quali hanno applicato legislazioni in materia allineate a quella comunitaria), si attiva, attraverso i dati scambiati, «con rapidità d’intervento e coordinamento delle attività del controllo ufficiale quando alimenti o mangimi prodotti nell’UE o importati da Pesi terzi rischiano di non essere sicuri per la salute umana o animale a causa della manipolazione o della lavorazione impropria o in essi vengono identificate sostanze proibite o sostanze che eccedono i limiti stabiliti dalle disposizioni vigenti. Gli Stati membri, attraverso i punti di contatto che li rappresentano, comunicano al sistema ogni misura che è stata adottata per limitare il rischio per il consumatore, dal ritiro al richiamo del prodotto, e ogni altra informazione che richieda un’azione rapida di intervento, sia su base volontaria che obbligatoria, a seguito di controllo sul mercato o al confine» (GIUCA, Sicurezza alimentare, cit., 2010, p. 42). Le comunicazioni avvengono attraverso una notifica originale (notifica di allarme, notifica di informazione, notifica di respingimento alla frontiera) o un notifica di follow-up contenente informazioni supplementari rispetto a una notifica originale [reg. (UE) n. 16/2011]. L’attività di sorveglianza viene resa pubblica attraverso il sito della RASSF (http://ec.europa.eu/rasff) e la pubblicazione di report periodici anche per il tramite della autorità nazionali. Sull’argomento: PETRELLI, Il sistema di allarme rapido per gli alimenti e i mangimi, in Rivista di diritto alimentare, 2010, 4, pp. 14-26. 110 Da ultimo, reg. (UE) n. 1169/2011 del 25 ottobre 2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori che sarà applicativo nei prossimi anni e abrogherà, tra l’altro, la direttiva 2000/13/CE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati 41 dettando criteri specifici e settoriali. Nel 2006, inoltre, è entrato in vigore un insieme di norme innovative e significative sulla salubrità di alimenti e mangimi e sui loro controlli (c.d. «pacchetto igiene») 111 per effetto del quale il corpo delle regole contenute nella direttiva 93/43/CE [abrogata e sostituita dal reg. (CE) n. 852/2004], relativa all’applicazione delle norme di igiene secondo il sistema dell’analisi, del controllo e della valutazione dei rischi (HACCP)112, si è esteso alla produzione e alla distribuzione di tutti i prodotti alimentari, coinvolgendo il settore primario e la produzione di mangimi. Tale ampliamento del sistema di «autocontrollo» che coinvolge, quindi, le singole fasi della preparazione, trasformazione, lavorazione, condizionamento, deposito, trasporto, distribuzione, manipolazione, vendita o fornitura di alimenti, ha contribuito ad integrare il complesso delle norme finalizzate alla tutela preventiva, alla salvaguardia del consumatore finale e all’immissione sul mercato di alimenti sicuri, ovvero di alimenti conformi a norme comunitarie sulla sicurezza alimentare [art. 14.7, reg. (CE) n. 178/2002]113. Ciononostante tali prodotti «possono essere oggetto di ritiro dal mercato o di altri provvedimenti restrittivi quando vi siano motivi di sospettare che, nonostante detta conformità, l’alimento è a rischio», cioè è dannoso per la salute, ovvero è inadatto al consumo umano (art. 14.2); ne consegue che «la sicurezza di cui al membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità (cfr. note 221, 243 e 266). Sul tema dell’etichettatura cfr. tra i lavori più recenti: GERMANÒ, Sull’etichetta degli alimenti, in Rivista di diritto agrario, 2010, fasc. 1, pp. 6499; SAIJA e TOMMASINI, La disciplina giuridica dell’etichettatura degli alimenti, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., vol. III, pp. 493-532. 111 Si tratta delle norme sull’igiene dei prodotti alimentari, dei prodotti alimentari di origine animale e dei mangimi [regolamenti (CE) n. 852/04, n. 853/04; direttiva 2004/41/CE], del sistema dei controlli ufficiali di alimenti e mangimi [reg. (CE) n. 882/04] e dei controlli sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano [reg. (CE) n. 854/04]. Sul punto: LOSAVIO, Le regole comunitarie e nazionali relative all’igiene dei prodotti, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit.,vol. III, 2011, pp. 183-208. 112 L’HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) ha avuto origine negli USA, nel 1971, per identificare i possibili rischi del processo produttivo, individuarne i punti critici e prevedere per ognuno di essi modalità di controllo tali da prevenirli. Nel 1980 questo metodo ha ottenuto il riconoscimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e nel 1993 la FAO ha pubblicato le linee guida per la sua applicazione nell’ambito dei documenti del Codex Alimentarius (cfr. supra nota 78). Sull’argomento, in particolare: COSTATO, BORGHI, RIZZOLI, Compendio di diritto alimentare, Padova, 2011, pp. 391-403. 113 «Proprio perché gli alimenti e mangimi dannosi o inadatti al consumo umano sono extra commercium, le res che costituiscono l’oggetto del reg. (CE) n. 178/2002 non sono semplicemente beni ma sono beni sicuri» (GERMANÒ, Il sistema della sicurezza alimentare, in Rivista di Diritto Agrario, 2006, I, fasc. 1 , 2006, p. 62). 42 par. 7 è, dunque, solo presunta e tale presunzione può essere vinta senza che occorrano prove definitive, bastando motivi di sospetto per legittimare interventi dell’autorità»114. Il «principio di precauzione» [art. 7, reg. (CE) n. 178/2002]115 - nato, tra l’altro, all’interno del diritto ambientale116 - rappresenta 114 COSTATO, I problemi giuridici della sicurezza alimentare, cit., 2007, n. 1, p. 128. GRADONI, Commento all’art. 7, in IDAIC, a cura di, La sicurezza alimentare nell’Unione Europea, Commentario al reg. (CE) n. 178/02, in AA.VV., Le nuove leggi civili commentate, Padova, 2003, p. 204 e ss. Per un approfondimento, in particolare: GERMANÒ, Corso di diritto agroalimentare, Torino, cap. III, 2007; COSTATO, BORGHI, RIZZOLI, cit, 2011, pp. 132-136. 116 Le radici etiche del significato comune di precauzione affondano nella phronesis aristotelica (nel senso di «saggezza» quale principale forma di razionalità pratica) e nella virtù cristiana della prudenza, andando a intersecare l’etica della responsabilità affrontata in epoca più recente dai più grandi pensatori tedeschi, da Immanuel Kant (1724-1804) a Max Weber (1864-1920) (Sull’argomento: STANZIONE, Principio di precauzione e diritto alla salute. Profili di diritto comparato, in Comparazione e diritto civile, rivista on-line, 2010; RIMEDIO, La responsabilità come fondamento della bioetica, in Persona e danno, rivista on-line, 2006). A partire dagli anni Sessanta del ventesimo secolo, la precauzione «di fronte alla intervenuta consapevolezza della fallibilità della scienza, assume un’accezione del tutto nuova, che è accolta nel diritto, dando vita a un intenso dibattito giuridico»; pensatori come Van Rensselaer Potter (1911-2001), negli USA, e Hans Jonas (1903-1993), in Germania, elaborano un’accezione diversa di responsabilità «intesa non in termini giuridici bensì in termini morali, implicante l’impegno ad evitare sia il danno attuale a un bene, sia un danno che potrebbe prodursi a lungo termine, suscettibile di influenzare la vita delle generazioni future e nei casi estremi la stessa sopravvivenza della specie umana» (STANZIONE, op. cit., 2010, p. 1). Il principio di precauzione è positivizzato per la prima volta in Germania, agli inizi degli anni Settanta, a fronte dell’esigenza di una tutela rafforzata dell’ambiente dai pericoli conseguenti al progresso scientifico-tecnologico; il «Vorsorgeprinzip», pertanto, trova spazio in testi di legge, in materia di gestione delle acque o di utilizzazione di sostanze chimiche (Per un’ampia trattazione dell’origine del principio di precauzione: MANSERVINI, Il rischio ambientale e il principio di precauzione, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., vol. II, 2011, pp. 619-634). Allo stesso tempo, dopo un primo riferimento al principio di precauzione - sotto forma di raccomandazione generale - nella Dichiarazione finale della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente di Stoccolma del 1972, a partire dagli anni Ottanta «la precauzione assurge a strumento giuridico privilegiato nelle convenzioni di diritto internazionale in materia di ambiente» (STANZIONE, op. cit., 2010, pp. 2-3). Il principio di precauzione è definitivamente acquisito in campo internazionale e proclamato come principio n. 15 nella Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo, approvata a conclusione della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992: «Al fine di tutelare l’ambiente, gli Stati adotteranno ampiamente un approccio cautelativo in conformità alle proprie capacità. Qualora sussistano minacce di danni gravi o irreversibili, la mancanza di una completa certezza scientifica non potrà essere addotta come motivo per rimandare iniziative costose in grado di prevenire il degrado ambientale» (UNITED NATIONS, Rio declaration on environment and development, Report of the United Nations conference on environment and development, distr. general, A/CONF.151/26 vol. I, 1992). Subito dopo, in virtù dell’art. 130 R del Trattato di Maastricht (art. 174 del Trattato CE poi divenuto art. 191 TFUE), la precauzione è elevata a principio giuridico cardine della politica comunitaria in materia di ambiente, accanto al principio di azione preventiva, a quello di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente e al principio «chi inquina paga». Tuttavia, una definizione chiara e univoca del principio di precauzione sembra porsi come «una vera sfida teorica a ogni tentativo di classificazione», probabile conseguenza della pluralità e della disomogeneità delle sue fonti di rango internazionale, comunitario e interno (DE SADELEER, Le statut juridique du principe de précaution en droit communautaire: du slogan à la règle, in Cahiers de droit européen, 2001, vol. XXXV, p. 94). La sola “definizione” del principio di precauzione rinvenibile nelle fonti del diritto comunitario 115 43 «la scelta europea di far valere il primato della tutela della salute rispetto a quello della libera circolazione delle merci»117 e risponde, pertanto, all’esigenza di fronteggiare il rischio da prodotto non sicuro per assicurare ai consumatori degli Stati membri «un livello elevato di tutela della salute»118. Esso va letto congiuntamente all’art. 5 dell’accordo SPS sulle misure sanitarie e fitosanitarie in ambito WTO (allegato al Trattato di Marrakech) 119 che ammette - come detto - solo una temporanea sospensione delle importazioni fino all’eventuale prova scientifica della pericolosità; per i prodotti importati di origine extra-comunitaria «il principio di prudenza e responsabilità insito nel criterio precauzionale proprio della Comunità Europea sembra dover cedere di fronte al principio della evidenza scientifica cui si ispirerebbe l’Accordo SPS»120. In ogni caso, «la regola della precauzione, se accerta una ragionevole rischiosità del bene, implica, in un certo senso, una difettosità (anticipata ma giuridicamente rilevante) del prodotto» e «ai fini della prevenzione del danno, è quella enunciata all’art. 7 del reg. (CE) n. 178/02 (GRADONI, op. cit., 2003), in quanto la Commissione Europea, pur attribuendogli un campo di applicazione molto vasto e precisandone portata e destinatari, non ne fornisce una definizione [COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Comunicazione sul principio di precauzione, Bruxelles, COM (2000) 1]. Sull’argomento: SCOPPOLA et al., Le politiche per la salubrità degli alimenti nell’Unione Europea: il Libro Bianco e la Comunicazione sul principio di precauzione, in La questione agraria, 2001, n. 1, p. 91-117. 117 FRANCARIO, op. cit., 2007, pp. 524-525. La libera circolazione delle merci è comunque considerata di fondamentale importanza per l’integrazione europea e resta uno dei fattori essenziali di crescita nell’Unione Europea (COMMISSIONE EUROPEA, Libera circolazione delle merci, Guida all’applicazione delle disposizioni del trattato che regolano la libera circolazione delle merci, Bruxelles, 2010). Sul punto anche: COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Il mercato interno delle merci: un pilastro della concorrenzialità dell’Europa, Bruxelles, COM (2007) 35 def. 118 Verso l’applicazione del principio di precauzione nei settori della salute e della tutela dei consumatori si pongono diverse pronunce della Corte di giustizia in cui si ribadisce che si tratta di un principio di applicazione generale del diritto comunitario (tra queste, in particolare: CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 5 maggio 1998, causa C180/96, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord contro Commissione delle Comunità europe, in Raccolta della giurisprudenza, 1998, p. I-2265). La sentenza del Tribunale di primo grado che conferma la decisione del Consiglio di vietare l’uso di alcuni antibiotici come additivi per i mangimi animali, non essendo chiari a livello scientifico gli sviluppi della resistenza agli antibiotici nell’uomo (TRIBUNALE DI PRIMO GRADO, Sentenza 11 settembre 2002, causa T-13/99: Pfizer Animal Health SA/Consiglio dell’Unione Europea, in GUCE C 289/21, 29 novembre 2002), invece, ha statuito che il principio di precauzione è applicabile anche in materia di salute non in quanto principio generale di diritto comunitario ma in base allo stesso art. 174 TCE (art. 191 TFUE) (GRADONI, op. cit., 2003, p. 205, ivi anche commento alle pronunce della Corte di giustizia). 119 BRUNO, Il principio di precauzione tra diritto dell’Unione Europea e WTO, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell’ambiente, 2000, 10, p. 569 e ss. 120 GERMANÒ e ROOK BASILE, Diritto agrario, in AJANI e BENACCHIO, Trattato di diritto privato dell’Unione Europea, vol. XI, Torino, 2006, p. 406. 44 paralizzerebbe la circolazione nel mercato del prodotto insicuro»121. Sostanzialmente, con la prevenzione si inibiscono solo fatti dannosi e rischi noti mentre con la precauzione è l’incertezza sul piano scientifico circa l’esistenza del rischio che impone comunque misure restrittive122. Ad ogni modo emerge con chiarezza non solo lo sforzo del legislatore comunitario di non allontanarsi dagli impegni internazionali in ambito WTO, ma anche «la sostanziale prevalenza del principio di gestione del rischio su quello di precauzione, utilizzabile solo in casi estremi e, come emerge dall’art. 7, in via provvisoria, salvo il raggiungimento della certezza scientifica della dannosità del prodotto»123. L’insieme di tutti questi strumenti e misure va a incidere su più livelli istituzioni comunitarie, autorità di controllo nazionali, imprese - con l’obiettivo di garantire al consumatore europeo un livello di protezione elevato e prodotti alimentari sicuri lungo tutta la filiera. L’intero sistema è finalizzato a rendere omogenee le strutture di tutela degli Stati membri, coinvolgendo i legislatori nazionali e regionali nella capacità di declinare gli interessi del commercio e della libera circolazione delle merci sul principio della tutela del consumatore e della sua salute. Si conferma, in tal modo, la natura di bene pubblico della sicurezza alimentare che esige «l’intervento governativo finalizzato ad assicurare alla collettività adeguate condizioni di affidabilità sanitarie dei prodotti destinati all’alimentazione umana»124. Alla food safety «è riconosciuto, altresì, l’attributo di bene di merito, cioè di bene da rendere accessibile, sempre e in qualunque condizione, a tutte le fasce sociali»125. Attualmente, anche se spesso su basi giuridiche diverse, si prosegue nell’adozione di regole comunitarie di carattere igienico-sanitario e di disposizioni finalizzate all’informazione del consumatore con riguardo sia ai 121 PAOLONI, op. cit., 2007, p. 65. In tal senso BRUNO, Principio di precauzione e organismi geneticamente modificati, in Rivista di diritto agrario, 2000, II, fasc. 2, p. 223; GRADONI, op. cit., 2003, p. 204 e ss. 123 COSTATO, Il regolamento 178/2002 e la protezione dei consumatori di alimenti, in Nuovo diritto agrario, 2003, pp. 4-5, www.nuovodiritoagrario.it. 124 IDDA et al., Le scelte dell’impresa agricola, in MARTINO, PERUGINI, SEDIARI, a cura di, La sicurezza degli alimenti - Contributi all’analisi economica, 2006, p. 324. 125 PAOLONI, op. cit., 2007, p. 63. 122 45 prodotti agricoli - materie prime dell’industria alimentare o da consumare quali sono, senza trasformazione - sia ai cibi frutto di lavorazioni industriali126. In questo contesto, pertanto, il diritto penale non è più l’unico paradigma legale di riferimento per l’impresa alimentare - e per il produttore agricolo - in quanto ad esso si affiancano più regolamentazioni in cui profili di diritto comunitario, amministrativo e civile si intrecciano con tecniche di gestione aziendale127. Pertanto, gli operatori della filiera agro-alimentare si trovano di fronte, come detto, a più livelli di regolamentazione “istituzionale”, non solo a regole del commercio internazionale in seno al WTO ma anche a misure tecniche da cui discendono gli standard di sicurezza che si fondano su regole di soft law128, messi a punto da organizzazioni internazionali come il Codex Alimentarius129, e addirittura a standard introdotti da enti di certificazione di origine privatistica ma con ibride funzioni di carattere pubblicistico130. Gli operatori, inoltre, si trovano a interagire anche con nuovi attori, come l’Autorità competente alla repressione delle pratiche commerciali scorrette (direttiva 2005/29/CE)131. 126 COSTATO, Dall’impresa agricola alla protezione dei consumatori, cit., 2003. PISANELLO, op. cit., 2010, p. 15. 128 Sull’argomento: COSTATO, Il soft law nel diritto agrario e alimentare, in Lavoro e Diritto, 2003, p. 37 e ss. 129 Cfr. supra nota 78. Sulla rilevanza degli standard del Codex Alimentarius nel sistema europeo di sicurezza alimentare: BORGHI, Valutazione e gestione del rischio e standars del Codex Alimentarius, in Agricoltura, istituzioni, mercati, 2007, 3, pp. 33-46. 130 D’ADDEZIO, Atti del convegno “Diritto alimentare, globalizzazione e innovazione”, in Rivista di diritto agrario, fasc. 4, 2005, p. 591. 131 La direttiva è strutturata come una direttiva di armonizzazione massima, in modo da non consentire divergenze tra i livelli di protezione assicurati dagli Stati membri in materia di pratiche commerciali sleali tramite la normativa nazionale di recepimento. In Italia l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) - autorità amministrativa indipendente istituita con la legge 287/1990 relativa alle norme sulla concorrenza e sul mercato - è competente a reprimere le pratiche commerciali sleali (scorrette, ingannevoli, aggressive) riguardo ai prodotti agro-alimentari (decreti legislativi 2 agosto 2007, nn. 145 e 146) (cfr. COSTANTINO, Il ruolo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nel settore agroalimentare, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., 2011, vol. III, pp. 230248). Le pratiche commerciali riconducibili alla comunicazione commerciale nel caso dei prodotti agro-alimentari riguardano tutti i rapporti impresa-consumatori non solo etichetta, marchio, pubblicità ma anche il post vendita; pertanto le competenze dell’Autorità, che è dotata di poteri istruttori e sanzionatori, spaziano dalla denominazione del prodotto alla composizione del prodotto, dalle attestazioni di qualità alla provenienza del prodotto, dalle modalità di produzione alle dichiarazioni nutrizionali, dalla pubblicità comparativa (ai sensi della direttiva 2006/114/CE che codifica la direttiva 84/450/CEE e le modifiche introdotte dalla direttiva 97/55/CE e restringe il campo di applicazione alle transazioni tra imprese) alla pericolosità del prodotto. In tal senso BERTI, Prodotti alimentari: etichettatura e marketing, relazione per 127 46 Il nuovo sistema di regole varato a inizio millennio, a partire dal reg. (CE) n. 178/2002 e dalle novelle apportate in materia igienico-sanitaria dai regolamenti del «pacchetto igiene», è frutto dell’innovazione giuridica sia come reazione all’innovazione tecnologica, alla «globalizzazione»132 e alle emergenze sanitarie, sia come azione attraverso il diritto alimentare in cui nuovi istituti e modelli si aggiungono a quelli tradizionali: «dalla rintracciabilità alla precauzione, dall’origine di area vasta al nuovo sistema dei controlli con affidamento di compiti pubblicisti ad organismi di matrice privata (ad es. i Consorzi di tutela dei vini)»133. Chi produce, dunque, è soggetto a «regole di prodotto e di produzione» (legislazione orizzontale e settoriale) e, per effetto del reg. (CE) n. 178/2002, a «regole di organizzazione e di comportamento» (autocontrollo e rintracciabilità, artt. 17-18), a «regole di relazione» dell’impresa con il mercato (etichettatura, art. 16; informazione, artt. 19-20) e a «regole di responsabilità» (risarcimento del danno, art. 21)134; è tenuto, inoltre, a tutti gli adempimenti amministrativi ed è sottoposto al controllo ufficiale delle autorità competenti. In tal senso, come si dirà nell’ultimo paragrafo, la disciplina introdotta dal reg. (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori, che presenta, in un’ottica di unificazione della legislazione conto dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, seminario AIDA presso la Cassa Forense, Roma, 26 ottobre 2010. 132 La globalizzazione, nonostante l’uso ormai generalizzato del termine, può assumere, a seconda del contesto, una diversa accezione: «un significo economico», riferito alla internazionalizzazione dei processi di produzione e distribuzione delle merci; «un significato commerciale», riferito alle regole di commercio stabilite da accordi internazionali; «un processo culturale», riferito a quel processo che attraverso la diffusione di modelli standardizzati di comportamento e di consumo tende a far perdere le identità locali; «in’ideologia», riferita al trionfo della liberalizzazione e all’esaltazione dell’efficienza dei meccanismi del mercato; «una forma di imperialismo», caratterizzata da un iniquo trasferimento di ricchezze dal Sud al Nord del mondo (LANG, Globalisation and the Challenge to the Organic Strategy, in IFOAM, Fundamentals of Organic Agricultural, Proceedings of the 11th IFOAM International Scientific Conference, Copenaghen, 1996, pp 199-222. 133 ALBISINNI, Diritto alimentare tra innovazione, regolazione e mercato, cit., 2005, p. 568. 134 Questa classificazione delle regole è autorevolmente sostenuta da ALBISINNI, Nuove regole di impresa nel sistema europeo di diritto alimentare, in Rivista di diritto agrario, 2003, p. 337 ed è ampiamente trattata in Id., Strumentario di diritto alimentare europeo, Torino, 2009, pp. 66-74. Il reg. (CE) n. 178/02 introduce nuove regole di filiera per l’impresa alimentare, di cui ne modifica il concetto: è impresa l’allevatore o l’agricoltore, il ristoratore e persino lo studio professionale che ha un distributore automatico per la somministrazione al pubblico di caffè. Cfr. anche ALBISINNI, Dalla legislazione alimentare al diritto alimentare europeo, cit., 2010 47 europea in materia di etichettatura e informazione sui prodotti alimentari, numerose intersezioni con altre norme - etichettatura dei prodotti senza glutine, allergeni, claims nutrizionali e salutistici, disciplina generale sulla pubblicità, che ne ampliano ulteriormente lo spettro d’azione - investe di disposizioni specifiche sulla responsabilità, in relazione alla presenza e accuratezza delle informazioni sui prodotti alimentari, gli operatori della filiera che lavorano a contatto o con riferimento ai consumatori lungo la catena alimentare. Ciò comporterà una complessa riorganizzazione del settore e un notevole sforzo nell’attuazione della disciplina, dal momento che il regolamento investe di responsabilità anche la «collettività», intendendo con essa una definizione più ampia della precedente normativa, ovvero «qualunque struttura (compreso un veicolo o un banco di vendita fisso o mobile), come ristoranti, mense, scuole, ospedali e imprese di ristorazione in cui, nel quadro di un’attività imprenditoriale, sono preparati alimenti destinati al consumo immediato da parte del consumatore finale» [art. 2.2, lettera d), reg. (UE) n. 1169/11]. Insomma, a un quadro legislativo prettamente repressivo si è sostituito un più articolato e sofisticato insieme di regole che hanno nella “giustificazione” scientifica la propria regula aurea: concetti come conformità, flessibilità, responsabilità dell’operatore del settore agro-alimentare e condivisione dell’autorità competente sono i punti cardinali135, essendo «la materia della sicurezza alimentare destinata a mutare con i tempi, sia per il cambiare delle sensibilità umane sia per il divenire della ricerca scientifica»136. La realizzazione dei principi di sicurezza alimentare nell’ambito del quadro normativo nazionale, ad ogni modo, può essere veicolata da modelli di organizzazione dell’impresa e da strumenti contrattuali che si mostrano adattabili alle esigenze della food safety137. 135 PISANELLO, op. cit., 2010, p. 12. COLCELLI, I nuovi principi della sicurezza alimentare tracciati nel reg. (CE) n. 178/2002, in MARTINO, PERUGINI, SEDIARI, op. cit., 2006, p. 70. 137 PAOLONI, op. cit., 2007, p. 62. 136 48 4. I pre-requisiti degli alimenti e i requisiti di qualità: alla ricerca di definizioni giuridiche Nel nuovo secolo, con il processo di riforma di medio termine della PAC [reg. (CE) n. 1782/2003], l’Unione Europea si è posta l’obiettivo di rendere l’agricoltura europea maggiormente competitiva, orientata agli interessi dei consumatori e rispettosa dell’ambiente138; a tale scopo, gli agricoltori sono lasciati liberi di produrre ciò che il mercato esige, attraverso lo sviluppo del processo di disaccoppiamento degli aiuti, concessi nel rispetto della c.d. «condizionalità» (cross compliance)139. 138 «La recente evoluzione del diritto agrario comunitario ha, però, indirizzato la PAC verso traguardi e scopi ben diversi da quelli originari […]. Da un lato con il pagamento unico si prevedono interventi che possono addirittura essere interpretati come contrari all’aumento della produttività in agricoltura e quanto meno indifferenti alla garanzia dell’approvvigionamento […], dall’altro l’adozione di sostegni “agrari” e deliberati come tali per la tutela del territorio anche non agricolo, e non marginalmente, inducono a ritenere che si voglia progressivamente dimenticare quanto prescritto dal trattato CE per realizzare un’agricoltura ben diversa da quella prospettata dai padri fondatori della CEE e cristallizzata nelle norme del titolo II [«Agricoltura», ora titolo III «Agricoltura e pesca» del TFUE]» (COSTATO, Attività agricole, sicurezza alimentare e tutela del territorio, in Rivista di diritto agrario, 2008, fasc. 3, p. 453). Sull’argomento, in particolare: COSTATO, GERMANÒ, ALBISINNI, L’attuazione in Italia della riforma della PAC del 2003, in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2004, 9, p. 525 e ss.; più recentemente: ALBISINNI, Istituzioni e regole dell’agricoltura dopo il Trattato di Lisbona, cit., 2010 e COSTATO et. al., a cura di, Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona. I riflessi sul diritto agrario alimentare e ambientale, Napoli, 2011. 139 La condizionalità, di per sé, non è un concetto nuovo ma mentre prima della riforma della PAC era una misura volontaria per gli Stati membri e si applicava soltanto alle norme ambientali [c.d. eco-condizionalità, cfr. reg. (CE) n. 1259/99], dal 2003 essa è diventata obbligatoria per i percettori degli aiuti diretti ed è stata estesa al di là della conformità con le norme ambientali fino a includere nuovi requisiti riguardanti la sanità pubblica, la salute delle piante e degli animali, il benessere degli animali, nonché il mantenimento dei terreni agricoli in buone condizioni agronomiche e ambientali. Sul punto: BIANCHI, Le condizionalità dei pagamenti diretti o delle responsabilità dell’agricoltore beneficiario dei pagamenti diretti nell’ambito della PAC, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell’ambiente, 2003, 11, p. 597 e ss. Gli impegni di condizionalità valgono anche per gli agricoltori beneficiari di alcune delle misure dell’Asse II dei PSR 2007-2013 [reg. (CE) n. 1698/05], a conferma del progressivo rafforzamento dell’integrazione degli obiettivi ambientali sia all’interno del primo pilastro (politiche di mercato), sia del secondo pilastro (politiche di sviluppo rurale) della PAC (cfr. supra nota 41). Anche nel successivo reg. (CE) n. 73/09 [che ha abrogato il reg. (CE) n. 1782/03] il sostegno concesso ai produttori in ambito PAC resta fermamente subordinato al rispetto della condizionalità. Nelle misure di sviluppo rurale per il periodo di programmazione 2007-2013 è previsto per l’agricoltura nelle zone rurali un sostegno specifico «alle operazioni innovative connesse alle nuove sfide», tra cui cambiamenti climatici, energie rinnovabili, risorse idriche, biodiversità, emerse nella c.d. Health Check [COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, In preparazione alla valutazione dello stato di salute della PAC riformata, Bruxelles, COM (2007) 722 def. ]. I PSR, pertanto, sono stati rivisti con l’obiettivo di ridare coerenza alla loro gestione, in particolare per quanto riguardo l’asse agroambientale, nel quale rientrano le azioni per l’agricoltura e la zootecnia biologiche (GIUCA, Qualità e 49 Questa riforma, tuttavia, può considerarsi un “punto di svolta” anche sotto il profilo della qualità, che assume una posizione centrale nella PAC con misure di sostegno specifiche. Si può addirittura parlare di «interdipendenza e complementarietà tra i due pilastri della PAC della politica della qualità»140, sicurezza alimentare: ratio legis o paradosso per i prodotti biologici?, in Economia agroalimentare, 2010, fasc. 2, p. 83). Nell’orientamento per il periodo 2014-2020, la Commissione ritiene che l’agricoltura biologica, tra le iniziative adottate in ambito PAC insieme alla politica di qualità e alla promozione, abbia un impatto importante sulla situazione degli agricoltori e, pertanto, viene presa in esame tra le misure che dovrebbero rientrare nella nuova forma di pagamenti diretti all’agricoltura verde o componente ecologica, i cosiddetti pagamenti di inverdimento (greening) [COMMISSIONE EUROPEA, La PAC verso il 2020: rispondere alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio, Bruxelles, COM (672), 2010]. In tal caso occorrerà definire, negli Stati membri, come tale misura si possa conciliare con i pagamenti agroambientali previsti nel II pilastro, dal momento che le regioni europee ritengono che l’agricoltura biologica, proprio perché rientra in una politica di sviluppo sostenibile, debba disporre di un maggior sostegno nel quadro della PAC (COMITATO DELLE REGIONI, La PAC verso il 2020: rispondere alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio, 2011). Il 12 ottobre 2011 la Commissione Europea ha presentato le proposte legislative relative alla PAC per il periodo 2014-2020 che comprendono sette regolamenti: sistema dei pagamenti diretti [COM (2011) 625] e regole per la loro applicazione nel 2013 [COM (2011) 630]; passaggio delle misure di sostegno per il settore vitivinicolo al regime di pagamento unico [COM (2011) 631]; OCM unica [COM (2011) 626] e fissazione di aiuti e restituzioni ad essa connessi [COM (2011) 629]; sostegno allo sviluppo rurale [COM (2011) 627]; c.d. «regolamento orizzontale», relativo al finanziamento, alla gestione e al monitoraggio della PAC [COM (2011) 628] (cfr. http://ec.europa.eu/agriculture/cap-post-2013/legal-proposals/index_en.htm). Gli elementi salienti delle proposte sono: «l’introduzione di un pagamento verde, la convergenza degli aiuti tra Stati membri, la necessità di assicurare il sostegno ai soli agricoltori in attività, il tetto agli aiuti (capping), lo schema semplificato per i piccoli produttori e la revisione della politica di sviluppo rurale». Il regolamento orizzontale «raggruppa le disposizioni comuni ai due pilastri che affiancano le questioni finanziarie» e in esso sono trasferite le norme sul sistema di consulenza aziendale, il sistema integrato di gestione e controllo e la condizionalità. «Dalla PAC post 2013 scompare definitivamente lo strumento della modulazione, reso superfluo dalla norma che permette la flessibilità tra pilastri, cioè il trasferimento di fondi dal FEAGA al FEASR e viceversa» (PUPO D’ANDREA, Finestra sulla PAC: le proposte dei regolamenti 2014-2020, in Agriregionieuropa, 27, 2011, p. 32). La proposta di riforma della PAC appare favorevole al rafforzamento dell’agricoltura biologica che nel primo pilastro beneficia della componente greening, senza ulteriori obblighi per gli agricoltori, mentre nel secondo pilastro passa da azione a misura, svincolata dalle misure agroambientali, con un suo budget. 140 GENCARELLI, La politica di qualità alimentare nella nuova PAC, in Rivista di diritto alimentare, 2009, III, 1, p. 51. Nel quadro della riforma della PAC post 2013, il sostegno finanziario dei fondi regionali per «ottenere una produzione agroalimentare di alta qualità» è stato sollecitato dal Parlamento Europeo. Nella primavera 2010 la Commissione Europea ha lanciato un dibattito pubblico sul futuro della PAC e sul contributo che questa politica può offrire allo sviluppo della strategia «Europa 2020», adottata per preparare l’economia per il prossimo decennio (cfr. supra nota 65). Gli obiettivi ai quali la PAC deve dare risposta sono, fra gli altri, agricoltura sostenibile, tutela della natura e sostegno allo sviluppo rurale, ma si prevede di ridurne l’attuale struttura. Al riguardo, la posizione dei Paesi UE diverge, da Gran Bretagna, Svezia e Danimarca che vogliono puntare sull’innovazione e sul progresso tecnologico, nel rispetto delle risorse naturali, a Italia e Francia che vogliono continuare a sostenere l’agricoltura di qualità e le specificità dei prodotti europei nel mercato globale (GIUCA, Qualità e sicurezza alimentare, cit., 2010, p. 84). Le autonomie locali, in Europa, ritengono che la politica di qualità debba costituire «uno degli assi principali della PAC per il periodo successivo al 2013» (COMITATO DELLE REGIONI, Per una politica europea 50 dal momento che si fondono nella chiave di maggior successo per la strategia europea nel settore alimentare fattori come il gusto, la tradizione, la specificità dei metodi di produzione. Tra questi, trova spazio il metodo di produzione biologico tanto che, nel 2004, l’Unione Europea ha promosso un sistema integrato di informazione, ricerca e innovazione per il settore, esplicitandone obiettivi e strategie nel «Piano d’azione europeo per l’agricoltura biologica e gli alimenti biologici»141 e, contestualmente, ha avviato il lungo processo di revisione della normativa sull’agricoltura biologica, culminato nel reg. (CE) n. 834/07 che recepisce le conclusioni del Consiglio sul Piano d’azione. Il Piano di azione delinea una visione strategica globale del contributo che l’agricoltura biologica può recare alla PAC e, di fatto, la UE colloca la produzione biologica fra gli elementi di forza del sistema agro-alimentare europeo, insieme ai prodotti tipici e di qualità. Anzi, la qualità dei prodotti agricoli e agro-alimentari europei, secondo la Commissione Europea, è indiscutibile: «frutto delle tradizioni, della maestria e della capacità di ambiziosa a favore dei regimi di qualità dei prodotti agricoli, Bruxelles, 2011/C 192/06, p. 1) così come le regioni italiane si sono espresse sull’efficacia degli strumenti della qualità nel rappresentare «un richiamo costante ed imprescindibile nella riforma della PAC e nelle politiche di promozione e commercio dell’UE» (CONFERENZA DELLE REGIONI E DELLE PROVINCE AUTONOME, Posizione delle Regioni e delle Province autonome sulle proposte legislative europee contenute nel «Pacchetto qualità», doc. 11/84/CR09d/C10, Roma, 7 luglio 2011, pp. 1-6). Da ultimo il Parlamento Europeo, approvando la comunicazione della Commissione sulla PAC verso il 2020 (cfr. infra nota 139), ritiene non solo che lo sviluppo della politica di qualità per i prodotti alimentari debba costituire «un aspetto prioritario della PAC da approfondire e rafforzare ulteriormente» ma, nel caso di prodotti di elevata qualità, deve essere consentito «l’uso di strumenti originali di gestione, tutela e promozione, per consentire il loro sviluppo armonioso e permettere che continuino a dare un contributo importante alla crescita sostenibile e alla competitività dell’agricoltura europea» (PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione del 23 giugno 2011 sulla PAC verso il 2020: rispondere alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio, Bruxelles). 141 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Piano d’azione europeo per l’agricoltura biologica e gli alimenti biologici, Bruxelles, COM (2004) 415 def. Il Piano propone una lista di 21 azioni, suddivise in tre sezioni: 1) il mercato dei prodotti alimentari; 2) gli indirizzi politici e l’agricoltura biologica; 3) le norme e i controlli. Tali azioni sono finalizzate: allo sviluppo del mercato dei prodotti alimentari biologici, fondato sull’informazione, con il miglioramento dell’informazione per i consumatori e gli operatori e l’utilizzo del logo comunitario; a rendere più efficienti gli aiuti pubblici a favore dell’agricoltura biologica, incoraggiando l’adozione delle varie misure di sviluppo rurale presso gli Stati membri; a migliorare e rafforzare le norme comunitarie applicabili all’agricoltura biologica, nonché le disposizioni in materia di importazioni e controlli. Sul punto: SGARBANTI, Il Piano di azione europeo per l’alimentazione e l’agricoltura biologica, in CASADEI e SGARBANTI, a cura di, Il nuovo diritto agrario comunitario, Atti del convegno organizzato in onore del Prof. Luigi Costato (in occasione del suo 70° compleanno), Milano, 2004, p. 239 e ss. 51 innovazione dei produttori, il modello europeo è anche il risultato di una PAC forte e di norme di produzione - in materia di sanità, protezione dell’ambiente e di benessere degli animali - ineguagliate nel resto del mondo»142. Ma cosa si intende per qualità? Sulla definizione della qualità, alla quale si accennerà in questo paragrafo e in quello successivo, «da tempo la letteratura agraristica si interroga, soprattutto sulla base delle sollecitazioni legislative di origine comunitaria e internazionale»143, mentre «dottrina e giurisprudenza non sono pervenute a risultati condivisi […]. La qualità dei prodotti agro-alimentari è un termine oggi non del tutto definito e privo di univoco significato sotto il profilo giuridico»144. Le «difficoltà definitorie» della qualità145 non sono state sciolte nemmeno dal Libro verde sulla qualità del 2008146, dal quale «non sembra che emerga che cosa la Commissione intenda per qualità degli alimenti e in che cosa questa si differenzi dall’igiene e dalla sicurezza alimentare»147. Ora, per essere immesso sul mercato come alimento, un prodotto agricolo non deve essere dannoso per la salute, né deve essere inadatto al consumo umano [art. 14, reg. (CE) n. 178/2002]; pertanto «la qualità alimentare è sicuramente un concetto diverso da quello di igiene e di sicurezza alimentare, che sono i pre-requisiti perché si abbiano sul mercato prodotti che possano qualificarsi come alimenti»148. 142 COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde. Politica di informazione e promozione dei prodotti agricoli: una strategia a forte valore aggiunto europeo per promuovere i sapori dell’Europa, Bruxelles, COM (2011) 436 definitivo, p. 2. 143 JANNARELLI, La qualità dei prodotti agricoli: considerazioni introduttive ad un approccio sistemico, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell’ambiente, 2004, 1, p. 5. 144 ALBISINNI, L’origine dei prodotti agro-alimentari e la qualità territoriale, in Rivista di diritto agrario, 2000, p. 23. 145 ADORNATO, Le “declinazioni della qualità”: una nota introduttiva, in ADORNATO et. al., a cura di, Agricoltura e alimentazione. Principi e regole della qualità. Disciplina internazionale, comunitaria, nazionale, 2010, Milano, pp. 19-27. 146 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli: norme di prodotto, requisiti di produzione e sistemi di qualità, Bruxelles, COM (2008) 641 def. Cfr. paragrafo 6. 147 GERMANÒ, Il libro verde della Commissione Europea del 15 ottobre 2008: alla ricerca di una definizione di alimenti di qualità, in Rivista di diritto agrario, 2008, fasc. 3, p. 481. Dello stesso avviso è ALBISINNI, Il libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli: un’incerta prospettiva per il 2013, in Economia e diritto agroalimentare, 2009, n. 2, pp. 59-72. 148 GERMANÒ, Qualità alimentare: un’Europa, due sistemi”, in Rivista di diritto alimentare, 2009, III, 1, p. 22. 52 I pre-requisiti sono, dunque, i requisiti minimi relativi alla sicurezza e all’igiene degli alimenti, sostanzialmente contenuti nel «pacchetto igiene»149 e richiamati nel Libro verde sulla qualità di cui si dirà più avanti, e i requisiti mercantili contenuti nelle norme di commercializzazione per i prodotti agricoli150, come argomentato nelle pagine precedenti. Si ricava, poi, dalla lettura congiunta delle norme di commercializzazione, dal reg. (CE) n. 450/2008 relativo al Codice doganale comunitario aggiornato, e dallo stesso Libro verde sulla qualità che i pre-requisiti conferiscono al prodotto agricolo una qualità «sana, leale e mercantile» per poter liberamente circolare nel mercato unico europeo e, dunque, rappresentano «una condizione imprescindibile per la vendita al consumatore»151. I prodotti agro-alimentari comunitari hanno pre-requisiti (requisiti minimi) comuni, dunque omogenei, ma si distinguono «sul piano della qualità in ragione delle differenze e delle specifiche identità territoriali e storiche, che li rendono appetibili per il consumatore»152; la qualità, dunque, si lega a sistemi di governo locali per scelte di valorizzazione e crescita piuttosto che di tutela e promozione. Gli strumenti giuridici comunitari per valorizzare la qualità, tuttavia, sembrano stemperare questi spazi di scelta locale laddove, gli art. 68153 e 69 del 149 Cfr. supra nota 111. Le norme di commercializzazione per i prodotti agricoli freschi e trasformati, disciplinate dal reg. (CE) n. 1234/07 (c.d. «OCM unica») e da altri regolamenti comunitari, riguardano i seguenti prodotti: carni bovine, uova, ortofrutticoli freschi e trasformati, miele, luppolo, latte e prodotti lattiero-caseari, olio d’oliva, carni suine, pollame, carni ovine, zucchero, vino, prodotti di cacao e di cioccolato, estratti di caffè e di cicoria, succhi di frutta, confetture, gelatine e marmellate di frutta, bevande alcoliche, burro, margarina e miscele. Si tratta di criteri standard come caratteristiche minime, categorie merceologiche, classificazione secondo il calibro e la qualità; omogeneità, con riferimento al contenuto di imballaggi o partite; condizionamento; indicazioni esterne sugli imballaggi, etichettatura e presentazione del prodotto al consumo. I prodotti destinati all’alimentazione umana, inoltre, per poter essere immessi sul mercato (cfr. supra nota 110) devono rispettare le norme per l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari nonché la relativa pubblicità ai sensi della direttiva 2000/13/CE [in attesa che diventi applicativo il reg. (UE) n. 1169/11 - cfr. note 221, 243 e 266] e della direttiva 2006/114/CE concernente la pubblicità ingannevole e comparativa (cfr. note 131 e 155). 151 GIUCA, Qualità e sicurezza alimentare, cit. 2010, p. 85. 152 AIDA, op. cit., 2009, p. 7. 153 L’art. 68 è una nuova forma di sostegno specifico facoltativo previsto dall’ultima riforma della PAC (Health Check, cfr. infra nota 139) e le cui modalità di applicazione sono dettagliate dal reg. (CE) n. 639/09, che consente agli Stati membri di utilizzare un plafond fino al 10% del massimale nazionale dei pagamenti diretti (430 milioni di euro per l’Italia) per nuove misure, decise a livello nazionale. Tali misure possono riguardare specifici tipi di agricoltura, specifici settori produttivi, zone soggette a programmi di ristrutturazione e/o sviluppo, nonché premi di 150 53 nuovo reg. (CE) n. 73/2009 sulla PAC, lasciano agli Stati membri la possibilità di concedere un sostegno per specifici tipi di agricoltura (di qualità?), annoverando la partecipazione degli agricoltori ai sistemi di qualità comunitari ma non a quelli nazionali154 (invero, entrambi i sistemi rientrano nelle misure di sostegno allo sviluppo rurale155). assicurazione del raccolto, degli animali e delle piante e fondi di mutualizzazione per epizoozie e malattie delle piante. Con le scelte assunte nel corso della Conferenza Stato-Regioni e dettagliate nel d.m. 29 luglio 2009 (e successive modifiche), l’Italia ha deciso di applicare questo sostegno per il periodo 2010-2013, destinando 147,25 milioni di euro per pagamenti accoppiati nei seguenti settori: latte bovino, carne bovina, zucchero, ovicaprino, olio di oliva e per pianta in vaso Danaee racemosa (Ruscus). Un importo di 99 milioni di euro è stato destinato, inoltre, all’avvicendamento triennale tra cereali e proteo-oleaginose che, come pagamento disaccoppiato, contribuisce alla realizzazione di una misura agroambientale [avvicendamento ridotto a due anni ed esteso, dal d.m. 25 febbraio 2010, n. 2240, a leguminose da granella, foraggere, erbai, maggese vestito e barbabietola], mentre 70 milioni di euro [aumentati a 120 milioni di euro annui dalla legge finanziaria 2010] sono stati destinati alle assicurazioni agevolate (FRASCARELLI, Articolo 68: le decisioni definitive. Le scelte nazionali premiano i bovini da carne, il latte, il tabacco e la barbabietola, articolo on-line, in EDID, 2009, 32, pp. 1-3). 154 Il reg. (CE) n. 1782/03, relativo ai precedenti regimi di sostegno nell’ambito della PAC, prevedeva, all’art. 69, l’attuazione facoltativa da parte degli Stati membri di un pagamento supplementare agli agricoltori «per tipi specifici di agricoltura ritenuti importanti per tutelare o valorizzare l’ambiente ovvero per migliorare la qualità e la commercializzazione dei prodotti agricoli»; il reg. (CE) n. 73/09, relativo ai nuovi regimi di sostegno nell’ambito della PAC contiene, all’art. 68, punto 1, un’analoga disposizione: «Gli Stati membri possono concedere sostegno specifico agli agricoltori […] per i) specifici tipi di agricoltura che sono importanti per la tutela o il miglioramento dell’ambiente, ii) il miglioramento della qualità dei prodotti agricoli, iii) il miglioramento della commercializzazione dei prodotti agricoli, iv) il miglioramento dei criteri in materia di benessere degli animali, v) specifiche attività agricole che comportano benefici agroambientali aggiuntivi». Tuttavia, nel fare riferimento alla qualità dei prodotti agricoli, l’art. 68 richiama espressamente, nel secondo capoverso, lettera b), i regolamenti (CE) relativi ai sistemi di qualità comunitari per i prodotti DOP/IGP, STG, vini e per la produzione biologica, escludendo, di fatto, i sistemi di qualità nazionali (cfr. infra nota 155). 155 Il reg. (CE) n. 1783/03, che modifica il reg. (CE) n. 1257/99 sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG), ha introdotto, all’art. 24 ter, un sostegno agli agricoltori «che partecipano volontariamente ai sistemi di qualità comunitari o nazionali» e un contributo importante alle iniziative di informazione e promozione di questi prodotti presso i consumatori. Con il nuovo reg. (CE) n. 1698/05 sul sostegno allo sviluppo rurale del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), si rinnova, all’art. 32, la concessione di un sostegno agli agricoltori (misure 132 e 133, asse I) che partecipano ai «sistemi di qualità alimentare comunitari o riconosciuti dagli Stati membri, rispondenti a precisi criteri da definirsi secondo la procedura di cui all’art. 90, paragrafo 2». Il reg. (CE) n. 1974/06, recante disposizioni di applicazione del reg. (CE) n. 1698/05, riconduce espressamente, all’Allegato II, punto 5.3.1.3.2, i sistemi di qualità alimentare riconosciuti dagli Stati membri ai sistemi di qualità nazionali. Tanto nei sistemi di qualità comunitari quanto in quelli nazionali la specificità del prodotto deve essere riconducibile agli obblighi precisi relativi ai metodi di produzione che garantisca le caratteristiche specifiche o una qualità del prodotto superiore alle norme commerciali correnti; le specifiche di produzione vincolanti devono essere soggette al controllo da parte di organismi terzi indipendenti (CANALI, Il green paper verso una strategia europea per i prodotti di qualità?, relazione presentata alla giornata di studio organizzata da Agriregionieuropa, Qualità in agricoltura. Politica agricola comune e valorizzazione delle produzioni mediterranee, 54 Si muove, invece, verso la diversificazione delle agricolture biologiche nazionali, il nuovo reg. (CE) n. 834/2007 sulla produzione biologica che, all’art. 25, autorizza l’uso di loghi nazionali e privati nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti che soddisfano i requisiti previsti dallo stesso regolamento156. Il regolamento, in particolare, lascia agli Stati membri la possibilità di applicare norme nazionali - o, in mancanza di queste, norme private accettate o riconosciute dagli Stati membri - per talune specie animali, piante acquatiche e microalghe, in attesa di norme comunitarie dettagliate di produzione157, e li autorizza a regolamentare il comparto della ristorazione privata e collettiva (rimandando a un riesame comunitario in materia entro il 2011)158. L’art. 34 del reg. (CE) n. 834/07, addirittura investe gli Stati membri Verona, 2009). Solo recentemente, al fine di consentire una regolare applicazione della misura 132 prevista nella politica di sviluppo rurale per il sostegno agli agricoltori che partecipano volontariamente ai sistemi di qualità alimentare, la legge 3 febbraio 2011, n. 4, ha istituito, all’art. 2, il Sistema di qualità nazionale di produzione integrata (SQNPI), in linea con le disposizioni del reg. (CE) n. 1974/06, definito come «il sistema di produzione agroalimentare che utilizza tutti i mezzi produttivi e di difesa delle produzioni agricole dalle avversità, volti a ridurre al minimo l’uso delle sostanze chimiche di sintesi e a razionalizzare la fertilizzazione, nel rispetto dei principi ecologici, economici e tossicologici» La legge rinvia a successivi decreti ministeriali il regime e le modalità di gestione del Sistema (la cui adesione è facoltativa), la disciplina produttiva, il segno distintivo con cui identificare i prodotti conformi al Sistema, nonché adeguate misure di vigilanza e di controllo. Allo stesso tempo, con il decreto MIPAAF del 4 marzo 2011, è stato regolamentato il Sistema di qualità nazionale zootecnica (SQN), riconosciuto a livello nazionale ai sensi del reg. (CE) n. 1974/06, che «individua i prodotti agricoli zootecnici destinati all’alimentazione umana con specificità di processo e/o di prodotto, aventi caratteristiche qualitativamente superiori rispetto alle norme di commercializzazione o ai requisiti minimi stabiliti dalla normativa comunitaria e nazionale nel settore zootecnico» (art. 1), sottostanti a un disciplinare di produzione vincolante, per tipologia di prodotto, e a un piano di controllo, il cui rispetto è verificato da un organismo di controllo indipendente. Il decreto istituisce un registro pubblico ministeriale delle produzioni SQN, detta le condizioni per l’adesione (volontaria) degli operatori localizzati nel territorio comunitario e fissa le regole per la denominazione, l’etichettatura e l’utilizzo del marchio collettivo SQN; il successivo provvedimento MIPAAF del 25 ottobre 2011 ha dettato le linee guida per la redazione dei disciplinari di produzione per i prodotti zootecnici afferenti al Sistema. 156 CANFORA, Il nuovo assetto dell’agricoltura biologica nel sistema del diritto alimentare europeo, in Rivista di diritto agrario, 2007, fasc.3, pp. 377-378. Cfr. capitolo II, paragrafo 2. 157 «Qualora non siano fissate le norme dettagliate di produzione per talune specie animali, piante acquatiche e microalghe, si applicano […] norme nazionali o, in mancanza di queste, norme private, accettate o riconosciute dagli Stati membri» [art. 42, reg. (CE) n. 834/07], così come in materia di alimenti per animali da compagnia [art. 95, reg. (CE) n. 889/08]. Norme specifiche sono state successivamente dettate per la produzione di lievito biologico e prodotti a base di lievito [reg. (CE) n. 1254/08] e per la produzione di animali e alghe marine dell’acquacoltura biologica [reg. (CE) n. 710/09]. Cfr. capitolo II, paragrafo 1. 158 «Gli Stati membri possono applicare norme nazionali o, in mancanza di queste, norme private, sull’etichettatura e il controllo dei prodotti provenienti da operazioni di ristorazione collettiva nella misura in cui tali norme sono conformi alla normativa comunitaria» [art. 1, reg. (CE) n. 834/07]. «Entro il 31 dicembre 2011 la Commissione presenta al Consiglio una relazione [che esamina] il campo di applicazione del presente regolamento, in particolare per 55 della facoltà di applicare nel proprio territorio norme più rigorose alla produzione biologica vegetale e a quella animale, ma solo se «tali norme siano applicabili anche alla produzione non biologica, siano conformi alla normativa comunitaria e non vietino o limitino la commercializzazione di prodotti [alimenti e mangimi] biologici prodotti al di fuori del territorio dello Stato membro interessato». In tal senso ne deriva che la qualità dei prodotti biologici si traduce nelle qualità delle agricolture biologiche nazionali. Con riferimento «alla “pluralità” delle agricolture, diversamente connotate per struttura aziendale, configurazione sociale, capacità e metodi produttivi che svolgono ruoli diversi ma significativi nei diversi ambiti locali, la qualità di un prodotto è configurabile anche attraverso la specificità aziendale, specie in relazione al territorio»; la multifunzionalità dell’azienda agricola rappresenta «la sintesi di questa dimensione plurale» in cui l’azienda, oltre a garantire la produzione alimentare, assicura una serie di servizi da cui traggono origine esternalità positive a favore dell’intera collettività159. La tendenza a spostare il baricentro dell’azienda agricola dalla produzione di beni a quella di servizi, d’altra parte, è sempre più presente nella regolamentazione comunitaria e nelle leggi nazionali160. Se le pluralità delle agricolture e la specificità aziendale “conferiscono” qualità al prodotto, essa assume significati diversi in relazione al soggetto da cui viene considerata e secondo la fase della filiera a cui fa riferimento. Negli anni ‘90 la norma tecnica UNI EN ISO 8402 ha definito la qualità «come l’insieme delle caratteristiche di un’entità [sia essa un’attività, un processo, un prodotto, un sistema o una persona, o una qualsiasi loro combinazione] che ne determina la capacità di soddisfare esigenze espresse ed implicite del cliente»161. In questa ottica, se il produttore agricolo individua essenzialmente la qualità nelle caratteristiche intrinseche del prodotto, il quanto riguarda gli alimenti biologici preparati dalla ristorazione collettiva» [art. 41, reg. (CE) n. 834/07]. 159 ADORNATO, Le “declinazioni della qualità”: una nota introduttiva, cit., 2009, p. 19. 160 COSTATO, Attività agricole, sicurezza alimentare e tutela del territorio, cit., 2008, p. 459. 161 La norma UNI EN ISO 8402:1995 «Sistemi Qualità. Gestione per la Qualità ed assicurazione della Qualità - Termini e definizioni» stabilisce i termini e le definizioni fondamentali relativi alla qualità, ai sistemi qualità e agli strumenti e alle tecniche per tenerla sotto controllo. Cfr. supra note 30 e 31. 56 trasformatore punta a garantire l’uniformità dei prodotti che soddisfino requisiti minimi accettati a livello internazionale162; tra l’altro, la grande industria, anche al fine di assicurare il rispetto delle normative pubblicistiche in tema di sicurezza, persegue sempre più assiduamente programmi di standardizzazione e di uniformità produttive dei prodotti agro-alimentari, oggettivamente inconciliabili con le esigenze di specificità, anche territoriale, delle imprese agricole primarie163. Il consumatore, invece, percepisce la qualità come soddisfacente i requisiti minimi ex lege, dunque i requisiti di natura igienico-sanitaria, ma anche quelli di natura merceologico-mercantile che caratterizzano la qualità commerciale del prodotto (aspetto esteriore, packaging, ecc.), comprensiva anche del servizio complessivo incorporato164; in più, nel tempo, questi requisiti sono diventati ormai imprescindibili per il consumatore, ovvero sono diventati prerequisiti. Il cittadino-consumatore, infatti, si mostra sempre più esigente e attento ai prodotti che mangia, alla loro provenienza, ai metodi di coltivazione, ai processi di produzione, alle proprietà nutrizionali, ma anche alla loro valenza ecologica, agli aspetti culturali, al contenuto etico e sociale delle produzioni; di conseguenza, ogni elemento aggiuntivo che possa da questi essere percepito come un plus finisce per essere incluso nel concetto stesso di qualità, accrescendo il valore aggiunto dei prodotti agro-alimentari in termini di esigenze implicitamente soddisfatte e ne determina il posizionamento nella mente e nella sua scala dei bisogni165. 5. I requisiti di sicurezza e qualità dei prodotti biologici: gli OGM e la questione della coesistenza Il concetto di qualità tende a cambiare, dunque, in relazione alle esigenze da soddisfare e in relazione alle differenti produzioni; pertanto, la percezione della qualità per i consumatori di prodotti da agricoltura biologica 162 MACCIONI, L’ambiguità della qualità, in Rivista di diritto alimentare, 2009, III, 1, p. 31. Sul punto JANNARELLI, La qualità, cit., 2004, 1; PAOLONI, op. cit. 2007. 164 GIUCA, Qualità e sicurezza alimentare, cit., 2010, p. 85. 165 Tali riflessioni si ritrovano nell’analisi del consumatore e negli studi di marketing. Cfr, in particolare: FABRIS, Il nuovo consumatore, cit., 2003; KOTLER e KELLER, op. cit. 163 57 risiede nelle caratteristiche intrinseche che, secondo diversi studi condotti a livello comunitario e nazionale166, sono associate al metodo naturale di produzione, alla valenza ambientale, all’assenza di OGM, alla “sanità” del prodotto, ovvero all’assenza di residui di sostanze nocive e, nel caso di prodotti confezionati, all’assenza di coloranti e conservanti. Nei considerando del reg. (CE) n. 834/2007 si legge che il metodo biologico è in grado di fornire «beni pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale»; l’Unione Europea, dunque, si mostra sensibile alla percezione che il consumatore ha, attualmente, della produzione biologica e ne istituzionalizza, all’art. 3, gli «obiettivi generali: a) stabilire un sistema di gestione sostenibile dell’agricoltura; b) ottenere prodotti di alta qualità; c) produrre un’ampia varietà di alimenti che rispondano alla domanda dei consumatori di prodotti ottenuti con procedimenti che non danneggino l’ambiente, la salute umana, la salute dei vegetali o la salute e il benessere degli animali». Il regolamento appare fortemente ispirato alla qualità e alla sicurezza alimentare, ma si può davvero affermare che questi aspetti rappresentino un binomio che la politica comunitaria assegna ai prodotti biologici? Ovvero, qualità e sicurezza degli alimenti e mangimi biologici rappresentano lo scopo, la ragione, il criterio ispiratore del nuovo regolamento comunitario?167 Il regolamento (CE) n. 834/07 - maturato, come detto, dopo un lungo processo di revisione del vecchio regolamento (CEE) n. 2092/91 con lo scopo di rendere la normativa più coerente alle dinamiche che investono il settore biologico - fornisce basi giuridiche di maggiore chiarezza per la produzione 166 Cfr. BERARDINI et al., Lo scenario dell’agricoltura biologica in Italia, Roma. 2006; ISMEA e AREA & STUDIO CRESCI, I prodotti agroalimentari di origine riconosciuta e i prodotti biologici, Roma, 2006; CICIA, Nuove dinamiche nel consumo di prodotti biologici: un’indagine nazionale, paper, Università degli Studi di Napoli, 2007; VAN DER BORG et al., Analisi della domanda di prodotti biologici, paper, Università di Venezia, 2007; ISMEA, Il mercato dei prodotti biologici: tendenze generali e nelle principali filiere, Roma, 2008; BELLINI, Le determinanti del comportamento di consumo e di acquisto dei prodotti biologici in Italia: i risultati della ricerca, Osservatorio sui consumi SANA, Università degli Studi di Parma, relazione presentata al 23° Salone internazionale del naturale, Bologna, 8-11 settembre 2011, in www.sana.it. 167 Sul punto: GIUCA, Qualità e sicurezza alimentare, cit., 2010, p. 75 e ss. 58 biologica animale, vegetale, di acquacoltura e di mangimi, nonché per la produzione di alimenti biologici trasformati168. Il regolamento, che rende possibile etichettare come biologici gli alimenti trasformati contenenti almeno il 95% di ingredienti biologici (non più il 70% come disposto dal precedente, ora abrogato, reg. (CEE) n. 2092/91), consente di utilizzare il termine «biologico» (che sostituisce la vecchia dicitura «Agricoltura biologica - Regime di controllo CE» che faceva riferimento alla conformità del metodo di produzione al sistema di controllo), oltre a derivati e abbreviazioni quali «bio» e «eco», nell’etichetta e nella pubblicità dei prodotti biologici conformi alla nuova normativa. Inoltre, per garantire maggiore visibilità ai cibi biologici del mercato unico (ora «mercato interno», art. 3 TFUE), il regolamento ha reso obbligatorio l’utilizzo del logo di produzione biologica dell’UE per gli alimenti biologici preconfezionati169. Come si avrà modo di approfondire nel prossimo capitolo, il reg. (CE) n. 834/07 ha introdotto una serie di norme relative alle indicazioni obbligatorie che devono figurare sull’etichettatura dei prodotti biologici destinati all’alimentazione umana (art. 24) e dispone il divieto di utilizzare radiazioni ionizzanti (art. 10) nonché OGM e prodotti derivati o ottenuti da OGM (art. 9) nei prodotti biologici (alimenti e mangimi) e nei loro ingredienti. Dunque, coerentemente con gli obiettivi di stabilire un sistema di gestione sostenibile dell’agricoltura e di produrre alimenti con procedimenti che non danneggino l’ambiente e la salute umana, vegetale e animale, il regolamento (CE) n. 834/2007 conferma quanto già disposto dalla precedente normativa, ovvero il divieto di utilizzare organismi geneticamente modificati nella 168 Cfr. supra paragrafo 2. Le disposizioni estremamente dettagliate del reg. (CEE) n. 2092/91, stratificandosi nel tempo, hanno reso «difficilmente intelligibili le regole chiave su cui fondare il sistema»; al contrario il reg. (CE) n. 834/07 presenta una struttura lineare ed essenziale, priva degli allegati di dettaglio che hanno appesantito l’originaria normativa, nonché, al posto del precedente meccanismo delle deroghe ad hoc, «un’applicazione flessibile delle norme di produzione che può essere richiesta dagli Stati membri e autorizzata dalla Commissione in situazioni particolari, espressamente indicate dal legislatore [circostanze particolari di carattere ‘calamitoso’ ma anche climatico, geografico, strutturale], che legittimino eccezioni limitate nel tempo alle applicazioni delle normali regole produttive» (CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2011, p. 86). Per il dettaglio delle regole di produzione, etichettatura e controllo si rimanda al capitolo II. 169 Per un approfondimento del logo UE, divenuto obbligatorio dal 1° luglio 2010 per effetto del reg. (CE) n. 967/08, e le cui modalità di applicazione sono state dettagliate dal reg. (UE) n. 271/10, si rimanda al capitolo II, paragrafo 2. 59 produzione biologica, ma il comma 2 dell’art. 9 richiama chiaramente le norme in materia di presenza accidentale di OGM autorizzati negli alimenti e nei mangimi [reg. (CE) n. 1829/03]170. Pertanto, come avviene per i prodotti agroalimentari convenzionali, è ammessa la presenza fortuita di OGM nel prodotto biologico, nei suoi ingredienti o nelle materie prime per mangimi nella misura massima dello 0,9% e, in tal caso, il prodotto in questione può essere etichettato (e venduto) come biologico. A questo proposito, non può non rilevarsi una certa incoerenza, in ambito UE, tra la legislazione orizzontale, che tiene conto, tra l’altro, della tutela della salute umana e dell’ambiente, e la legislazione settoriale in materia di OGM. Questa ultima, infatti, benché abbia trovato la sua ratio nel presupposto che sul territorio comunitario nessuna forma di agricoltura possa essere esclusa e abbia adottato il principio di precauzione171, manca di norme uniformi e vincolanti sulla coesistenza tra colture convenzionali, biologiche e transgeniche172, 170 Cfr. infra nota 176. L’Unione Europea ha assunto una posizione di cautela rispetto agli OGM, avendo inserito il principio di precauzione nel Trattato dopo la Conferenza sulla biodiversità di Rio de Janeiro (cfr. supra nota 116), poi ripreso nella legislazione alimentare con l’art. 7 del reg. (CE) n. 178/02 (su questo punto, in particolare: BORGHI, Le declinazioni del principio di precauzione, in Rivista di diritto agrario, 2005, fasc. 4, p. 711 e ss.; Id. Il rischio alimentare e il principio di precauzione, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., 2001, vol. III, pp. 53-72) e dettando per gli OGM norme speciali. La valutazione degli OGM avviene caso per caso - con una procedura unica che riguarda sia la coltivazione ai sensi della direttiva 2001/18/CE sia l’impiego nei prodotti alimentari e nei mangimi ai sensi del reg. (CE) 1829/03, sentito il parere dell’EFSA - per evitare un rischio per l’ambiente e la salute che, dai dati scientifici e tecnici disponibili, risulti eventualmente possibile ma non ancora dimostrato (cfr. supra nota 101). Tra l’altro, è stato osservato che «la procedura unica rappresenta l’esito di un compromesso con le industrie sementiere che avrebbero dovuto seguire un lungo e complesso procedimento di immissione in commercio» (HERMITTE, Les zones sans plantes génétiquement modifiées en droit européen. L’illégalité comme stratégie juridique, in Journal International de Bioétique, 2006, vol. XVII, 3, p. 39 e ss.). Al contrario gli Stati Uniti, dove risiedono le principali multinazionali produttrici di materiale GM, sul cui utilizzo esse riscuotono i diritti di proprietà, hanno adottato il principio di «sostanziale equivalenza» del prodotto GM rispetto a quello convenzionale, nella convinzione che non possano farsi distinzioni sulla base del processo di produzione, bensì esclusivamente in relazione a caratteristiche «misurabili», assoggettando gli OGM al quadro di regole generali dettato per intere categorie di prodotti (alimentari, piante, pesticidi, additivi). Sul punto: SIRSI, Le regole per gli OGM, cit., 2010, p. 471; SIRSI, L’impiego in agricoltura di organismi geneticamente modificati e la coesistenza con le coltivazioni non geneticamente modificate, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., vol. II, pp. 269-324. 172 Sul punto: GERMANÒ, Sulla coesistenza tra coltivazioni transgeniche e coltivazioni convenzionali: profili giuridici, in Rivista di diritto agrario, 2005, pp. 371-417. Il problema delle conseguenze sull’ambiente agrario della coltivazione di piante GM in presenza di un mercato non solo europeo ma mondiale, differenziato in ragione dell’accettazione o del rifiuto dei prodotti GM e delle regole di commercializzazione, ha imposto anche ai Paesi tradizionalmente produttori (USA, Brasile, Argentina) la gestione delle contaminazioni delle 171 60 avendo, di fatto, riconosciuto e autorizzato la contaminazione accidentale e lasciato agli Stati membri, con la Raccomandazione 2003/556/CE, la discrezionalità di stabilire norme più restrittive sulla coesistenza, conformemente al principio di sussidiarietà173, e di decidere le misure per evitare che gli OGM contaminino le altre colture, almeno fino ai nuovi orientamenti della Commissione del luglio 2010, di cui si dirà più avanti174. In sostanza, le norme UE in materia di OGM seppure affrontino, da un lato, i potenziali rischi per l’ambiente e la salute umana (coltivazione e impiego di OGM - direttiva 2001/18/CE175) e, dall’altro, il diritto di scelta dei consumatori colture convenzionali e/o biologiche; al riguardo, ha fatto storia il primo caso negli USA, Paese che può considerarsi «la culla della produzione agricola transgenica», del divieto di semina e di commercializzazione di una varietà GM su tutto il territorio nazionale (foraggera GM «alfalfa»). La vicenda alfalfa è stata oggetto di una serie di pronunce che hanno determinato la sospensione della coltivazione e l’imposizione di una serie di regole e restrizioni, per le quali si rimanda al commento di SIRSI, Il problema della coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche negli USA: il caso alfalfa, in Rivista di diritto agrario, 2008, fasc. 3, p. 86 e ss. 173 L’art. 3 ter del Trattato sull’Unione Europea stabilisce che la delimitazione delle competenze dell’UE si fonda sul principio di attribuzione e che l’esercizio delle competenze dell’Unione si basa sui principi di sussidiarietà e proporzionalità. Ove si tratti di competenza condivisa tra l’UE e gli Stati membri - come l’agricoltura e la pesca (tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare), l’ambiente, la protezione dei consumatori o determinati aspetti di sanità pubblica (art. 4 TFUE) - le iniziative spettano in primo luogo agli Stati membri. Secondo il principio di sussidiarietà, introdotto, quindi, dal Trattato di Maastricht e inserito nel Trattato CE, la Comunità interviene «soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri. […] In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati» (art. 5 TCE). Si tratta di principi cardine dell’UE, ulteriormente potenziati dal TFUE attraverso il Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità allegato al Trattato. Sul punto: COSTATO, La PAC e il Trattato di Lisbona, in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2008, 12, pp. 734-735; GERMANÒ, L’agricoltura e l’alimentazione. Le fonti del diritto agroalimentare fra i Trattati dell’Unione Europea e la Costituzione e la codificazione italiane, in Rivista di diritto agrario, 2011, fasc. 1, pp. 78-116. 174 COMMISSIONE EUROPEA, Sulla libertà per gli Stati membri di decidere in merito alla coltivazione di colture geneticamente modificate, Bruxelles, COM (2010) 380 def.. 175 L’approccio degli Stati membri riguardo agli organismi geneticamente modificati è stato uniformato sin dagli anni Novanta, con la direttiva 90/220/CEE del Consiglio sull’emissione deliberata nell’ambiente di OGM, in base alla quale sono stati autorizzati 17 organismi diversi, tra cui varietà di mais, colza e soia (per le autorizzazioni attuali cfr. nota 185). Inoltre, alcuni prodotti e ingredienti alimentari ottenuti a partire da OGM, ma che non li contengono (tra cui oli di soia e di colza e amido di mais), sono entrati nel mercato europeo, in accordo con il reg. (CE) n. 258/97 sui nuovi prodotti e nuovi ingredienti alimentari, con una procedura di autorizzazione semplificata, basata sul principio di equivalenza rispetto ai corrispettivi prodotti ottenuti a partire da colture convenzionali (ROSSI, La “sorveglianza rinforzata” degli organismi geneticamente modificati, in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2001, 9-10, p. 623). La questione degli OGM, sempre più accompagnata da una pletora di dibattiti a livello politico, economico, scientifico, sociale ed etico sulla loro coltivazione, utilizzo e consumo, tra attivisti contrari agli OGM e pressioni dell’industria internazionale interessata a un business in rapida espansione, ha cominciato a entrare nelle 61 [commercializzazione, etichettatura e tracciabilità di alimenti e mangimi contenenti, costituiti o ottenuti a partire da OGM - regolamenti (CE) n. 1829/03 e n. 1830/03]176, oltre a lasciare agli Stati membri la scelta dei regimi di agende politiche degli Stati membri e dell’Unione Europea. Finché, alla fine del 2001, la Commissione Europea ha lanciato, sul proprio sito, un forum rivolto ai cittadini sul futuro delle biotecnologie e della scienza della vita per interrogarsi - e intervenire - sulle questioni di maggiore interesse e preoccupazione per l’opinione pubblica, ovvero la legislazione in vigore sul rilascio di OGM a livello nazionale sia per scopi sperimentali, sia per la produzione e il loro consumo, la comunicazione dei rischi e dei vantaggi, le nuove autorizzazioni per coltivare varietà GM (INEA, Annuario dell’agricoltura italiana, Napoli, 2002, p. 135). Anche a «causa delle pressioni dei Paesi produttori, in particolare gli USA, e per evitare gravi conseguenze in sede WTO», per effetto della moratoria di diversi Stati membri sulle nuove autorizzazioni all’importazione in Europa di prodotti GM (cfr. infra nota 192), la UE ha adottato la direttiva 2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati che ha abrogato la direttiva 90/220/CEE, «anche se più selettiva e rigida nell’ammissione e nella durata delle autorizzazioni» (COSTATO, Sicurezza alimentare e scienza «igienico-sanitaria», in Rivista di diritto agrario, 2007, fasc. 1, p. 52). La direttiva, infatti, sempre tenuto conto del principio di precauzione, introduce nuovi principi nella valutazione dei rischi ambientali (valutazione della nocività immediata e dei possibili effetti ambientali diretti e indiretti a lungo termine), limita le autorizzazioni iniziali degli OGM ad un massimo di dieci anni, con possibilità di revoca o di rinnovo, e riconosce agli Stati membri la facoltà di ricorrere alla «clausola di salvaguardia» (art. 23) per vietare temporaneamente l’uso o la vendita sul proprio territorio di OGM autorizzati qualora sulla base di nuove o ulteriori informazioni si ritiene che questi rappresentino un rischio per la salute umana o l’ambiente. La direttiva, inoltre, istituisce un registro pubblico per tutte le coltivazioni transgeniche sperimentali e commerciali e obbliga gli Stati membri a garantire l’etichettatura e la rintracciabilità in tutte le fasi della commercializzazione, ad assicurare un monitoraggio dopo la commercializzazione e a tenere informato il pubblico. Sul punto: ROSSI, La “sorveglianza rinforzata”, op. cit., 2001. 176 Il reg. (CE) n. 1829/03 relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati e il reg. (CE) n. 1830/03 concernente la tracciabilità e l’etichettatura di OGM e la tracciabilità di alimenti e mangimi ottenuti da OGM, nonché recante modifica della direttiva 2001/18/CE, sono entrati in vigore il 18 aprile 2004. In base al nuovo quadro normativo, gli OGM importati o prodotti (come si è detto, per le nuove autorizzazioni di OGM è prevista una procedura unica di valutazione del rischio sia per l’immissione deliberata nell’ambiente sia per l’impiego nei prodotti alimentari e mangimi, cfr. infra nota 171) devono essere identificati da un codice, riportato su un registro tenuto dalla Commissione Europea e gli operatori del settore alimentare, al momento di utilizzare o manipolare prodotti GM, hanno l’obbligo di trasmettere e conservare, per cinque anni, informazioni in ogni fase dell’immissione sul mercato. Il sistema di etichettatura viene esteso a tutti gli alimenti e ai mangimi, contenenti o derivanti da OGM, mentre la soglia di tolleranza per la presenza di OGM autorizzati nei prodotti (mangimi compresi) è fissata nello 0,9%, oltre la quale tale presenza deve essere indicata in etichetta. Sul punto: SIRSI, Le norme sull’etichettatura degli organismi geneticamente modificati, in COSTATO, diretto da, Trattato breve, op. cit., 2003, pp. 683-688; BRUNO, Biotecnologie e comunicazione: le etichette dei prodotti geneticamente modificati, in GERMANÒ e ROOK BASILE, Il diritto alimentare, op. cit., 2005, p. 159; BENOZZO, Alimenti geneticamente modificati, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., vol. III, 2011, pp. 148-182. Dopo anni di dibattito senza giungere ad un accordo, la Commissione del Codex Alimentarius (cfr. supra nota 78) ha deciso di interrompere il suo lavoro sulle definizioni e le condizioni di etichettatura in materia di OGM ed ha sviluppato una raccolta di testi del Codex rilevanti per l’etichettatura degli alimenti derivati dalle moderne biotecnologie sul mercato mondiale che è stata approvata durante il summit che si è tenuto a Ginevra dal 4 al 7 luglio 2011. In tale occasione è stato concordato che uno Stato nazionale può scegliere volontariamente di indicare la presenza di OGM in etichetta per i prodotti venduti all’interno dei propri confini, senza andare incontro a provvedimenti legali dal parte del WTO per motivi di concorrenza 62 responsabilità civile considerati più appropriati a livello nazionale in materia di coesistenza e affidare ad accordi internazionali il problema del danno e della responsabilità nei movimenti transfrontalieri di OGM177, non prendono in considerazione tutta una serie di implicazioni - sociali, economiche, politiche ed etiche - connesse al loro impiego178. Addirittura, tali norme trascurano il commerciale; gli Stati Uniti, storicamente contrari, hanno dato il via libera all’accordo, mentre si sono opposti Canada, Messico, Argentina, Costa Rica e Australia (CODEX ALIMENTARIUS, Compilation of Codex Texts relevant to labelling of foods derived from modern biotechnology, CAC/GL 76-2011, in www.codexalimentarius.net). 177 Le ipotesi di danno e di responsabilità cui il consumo e la diffusione di OGM potrebbero dar luogo per il produttore agricolo, ovvero danno alla salute (responsabilità oggettiva per prodotto difettoso) e danno all’ambiente, al quale è strettamente connessa la responsabilità civile per danni da contaminazione genetica di colture altrui, sono state approfondite, tra gli altri, da GERMANÒ, GOLDONI, JANNARELLI, ROCK BASILE, MASINI, TRAISCI, PAOLONI, SIRSI. Sul punto, ivi bibliografia: SABBATINI, OGM e responsabilità per danno ambientale, in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2007, 10, pp. 590594. Dopo diversi anni di negoziato, il 19 ottobre 2010 è stato firmato, da oltre 160 Paesi, il nuovo trattato sulla responsabilità e il risarcimento del danno conseguente al movimento transfrontaliero degli OGM, nel corso della decima Conferenza delle Parti (CoP10) della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica, tenutasi a Nagoya, in Giappone, dal 18 al 29 ottobre 2010 (cfr. supra nota 65). Il trattato, supplemento al «Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza», adottato dagli Stati membri nel maggio 2000, all’interno della Convenzione della diversità biologica, per aumentare la sicurezza degli scambi internazionali di materia vivente geneticamente modificata, entrerà in vigore 90 giorni dopo la sua ratifica da parte di almeno 40 Paesi membri del Protocollo di Cartagena. Esso dispone che le aziende che producono e importano OGM, compreso chi coltiva piante transgeniche, saranno ritenute responsabili del danno all’ecosistema nativo e i governi nazionali potranno chiedere il rimborso per le eventuali spese di compensazione sostenute al loro posto; le aziende, inoltre, dovranno stipulare polizze assicurative per il possibile danno alla biodiversità e alla salute umana causato dall’inquinamento genetico (UNITED NATIONS, The Nagoya - Kuala Lumpur Supplementary Protocol on Liability and Redress to the Cartagena Protocol on Biosafety, Montreal, 2011). 178 Una recente relazione della Commissione Europea ha messo in luce gli attuali limiti della valutazione delle implicazioni socioeconomiche della coltivazione di piante geneticamente modificate nell’UE, essendo l’esperienza europea in questo settore obiettivamente limitata. Le informazioni raccolte circa gli impatti economici dell’adozione di OGM attraverso l’analisi della letteratura scientifica internazionale e le conclusioni dei progetti di ricerca «Co-Extra», «Sigmea» e «Consumerchoice», finanziati nell’ambito del programma quadro di ricerca europeo, sono ritenuti sufficienti dalla Commissione per avere un quadro chiaro della realtà europea; tuttavia, le informazioni concernenti gli impatti sociali e sulla catena alimentare, fornite principalmente dagli Stati membri, hanno spesso scarso valore statistico e si fondano su preconcetti sulla coltivazione degli OGM. In generale, la metà dei Paesi europei non vedrebbe alcun beneficio dalle semine GM; per la Commissione, invece, gli agricoltori che coltivano le varietà transgeniche, rese resistenti agli erbicidi e agli attacchi dei parassiti, potrebbero beneficiare di una resa maggiore (COMMISSIONE EUROPEA, Relazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio sulle implicazioni socioeconomiche della coltivazione degli organismi geneticamente modificati basata sui contributi degli Stati membri, come richiesto dalle conclusioni del Consiglio Ambiente del dicembre 2008, Bruxelles, 2010). A novembre 2011 la Commissione Europea ha pubblicato due relazioni realizzate da consulenti indipendenti per valutare l’efficienza del processo di regolamentazione e formulare opzioni per il miglioramento e l’adeguamento del sistema riguardo, rispettivamente, alla coltivazione e alla produzione di alimenti e mangimi GM. Secondo gli esperti, benché gli obiettivi del quadro legislativo non risultino inadeguati o insufficienti sia all’esigenza di tutelare la salute dei 63 problema di fondo, ovvero quello di accertare se l’agricoltura convenzionale e/o biologica e quella transgenica possano convivere, soprattutto nelle tante regioni, come quelle italiane, i cui territori sono caratterizzati da migliaia di piccole e medie aziende con un tessuto poderale estremamente polverizzato179. Non è un caso che diverse Regioni e centinaia di Comuni di diversi Stati membri, tra cui l’Italia, abbiano scelto da anni - pur andando contro alle disposizioni comunitarie - di escludere o di limitare fortemente le coltivazioni OGM sul proprio territorio, maturate proprio in seguito al rinvenimento di partite di sementi e di piante contaminate. La Commissione, sul controverso tema della coesistenza tra colture geneticamente modificate e agricoltura convenzionale e biologica, nell’ultimo rapporto che prende in esame lo stato dell’arte nell’UE180 ha confermato l’approccio secondo il quale non sono necessarie nuove misure di armonizzazione in questo campo a livello comunitario181 e sottolinea che le colture GM non hanno causato alcun danno dimostrabile all’agricoltura che non usa OGM. Nel documento, inoltre, la Commissione ribadisce la sua contrarietà a stabilire zone o regioni «OGM-free»182 e ritiene che le entità territoriali che si sono proclamate tali hanno espresso «dichiarazioni» di consumatori sia alla ceazione di un idoneo mercato interno, sono necessari ulteriori aggiustamenti alla normativa, la cui implementazione è resa difficile dalla gestione a livello politico delle problematiche legate agli OGM; riguardo alla coltivazione, in particolare, gli esperti evidenziano la necessità di rendere più flessibile ed efficiente il sistema di autorizzazione e di armonizzare il processo di valutazione del rischio (EUROPEAN COMMISSION, Evaluation of the EU legislative framework in the field of GM food and feed, Framework Contract for evaluation and evaluation related services - Lot 3: Food Chain, Final Report, Brussels, 12 July 2010; Evaluation of the EU legislative framework in the field of cultivation of GMOs under directive 2001/18/EC and Regulation (EC) no 1829/2003, and the placing on the market of GMOs as or in products under Directive 2001/18/EC, Final Report, Brussels, March 2011). 179 INEA, Annuario dell’agricoltura italiana, Volume LXIII, Napoli, 2010, p. 45 e ss. 180 Dal quale risulta che 15 Stati membri hanno adottato una legislazione sulla coesistenza [COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sulla coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche, Bruxelles, COM (2009) 153 def.]. 181 Come dispone la Raccomandazione del 13 luglio 2010 - così come la precedente e abrogata Raccomandazione 2003/556/CE -, infatti, gli Stati membri decidono le misure per evitare che gli OGM contaminino le altre colture, stabilendo eventualmente le pratiche agronomiche e, come detto, i regimi di responsabilità civile. 182 In Europa 230 Regioni e 4.200 Province e Comuni si sono dichiarati OGM-free, mentre in Italia lo sono tutte le Regioni tranne Veneto, Valle d’Aosta, Calabria e Sicilia, 41 Province e 2.446 Comuni, pari ad oltre il 30% del totale (INEA, Annuario, cit., 2010, p. 349). 64 carattere «politico» e non «interdizioni giuridicamente vincolanti» di coltivare OGM. La legge italiana183, fino alla predisposizione di piani regionali sulla coesistenza, vieta le colture transgeniche destinate all’immissione sul mercato (anche se si tratta di varietà autorizzate dalla Commissione e iscritte nel registro UE184), ad eccezione di quelle autorizzate per la ricerca e la sperimentazione185. I piani sulla coesistenza sono potestà esclusiva delle Regioni, come ribadito dalla circolare del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (MIPAAF) del 31 marzo 2006, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 116/06 sulla illegittimità di alcuni articoli della legge 5/05186. La Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, che ha sollecitato un’ampia consultazione pubblica tra tutte le parti interessate prima di decidere in materia di coesistenza, tenuto conto della proposta di riforma della 183 Legge 28 gennaio 2005, n. 5, conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, recante disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica. La dottrina italiana aveva già sollevato il problema della coesistenza e della possibile soluzione nell’art. 844 del codice civile sul divieto di immissioni senza peraltro suscitare l’interesse dei politici né del legislatore (GERMANÒ, Sulla coesistenza, cit., 2005, pp. 403-405, ivi bibliografia). 184 I prodotti GM iscritti nel registro UE al 31 dicembre 2011, legalmente importabili, coltivabili e/o commerciabili per uso alimentare umano e animale, sono: 26 varietà di mais, 8 di cotone, 3 di colza, 3 di soia, una barbabietola da zucchero, una patata, un lievito di birra e una proteina batterica (http://ec.europa.eu/food/dyna/gm_register/index_en.cfm). 185 L’Italia ha adottato verso gli OGM il principio di massima precauzione e, di fatto, anche le colture autorizzate per fini di ricerca e sperimentazione sono ferme al 2004, non essendo stati ancora approvati i protocolli tecnici per la sperimentazione, richiesta nel 2007, di 9 specie tra mais, vite, olio d’oliva, melanzane e pomodoro GM (INEA, Annuario, cit., 2010, p. 349). 186 «Sono costituzionalmente illegittimi gli articoli 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, commi 1 e 2, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, convertito, con modificazioni, in legge 28 gennaio 2005, n. 5. Mentre infatti il rispetto del principio di coesistenza delle colture transgeniche con le forme di agricoltura convenzionale e biologica inerisce ai principi di tutela ambientale elaborati dalla normativa comunitaria e dalla legislazione statale, la coltivazione a fini produttivi riguarda chiaramente il “nocciolo duro della materia agricoltura, che ha a che fare con la produzione di vegetali ed animali destinati all’alimentazione”. Le scelte operate dal legislatore nazionale sono lesive della competenza legislativa delle Regioni nella materia agricoltura, dal momento che non può essere negato, in tale ambito, l’esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni per disciplinare le modalità di applicazione del principio di coesistenza nei diversi territori regionali, notoriamente molto differenziati dal punto di vista morfologico e produttivo» (CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza 17 marzo 2006, n. 116, massima). Si veda, al riguardo, il puntuale commento di ALTILI, La coesistenza tra colture transgeniche e colture convenzionali nella sentenza della Corte Costituzionale n. 116 del 17 marzo 2006, in Diritto e Giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, II, 2007, pp. 96100. 65 Commissione in materia di OGM, ha ritirato il documento del 2007 187 ed ha adottato il 7 ottobre 2010 un documento in cui sollecita il MIPAAF a esercitare la «clausola di salvaguardia» per vietare sul territorio nazionale la semina e la produzione degli OGM ad oggi autorizzati dall’UE188. La posizione di contrarietà agli OGM delle Regioni ha assunto maggior peso a seguito della sentenza del TAR Lazio del giugno 2011 che ha annullato il decreto MIPAAF del marzo 2010 che impediva ad un maiscoltore di Pordenone di coltivare sementi OGM nei suoi terreni, nonostante una sentenza del Consiglio di Stato avesse riconosciuto il suo diritto in base alla normativa comunitaria189. Infatti, con un’immediata interrogazione parlamentare, proprio 187 CONFERENZA DELLE REGIONI E DELLE PROVINCE AUTONOME, Linee guida per le normative regionali di coesistenza tra colture convenzionali, biologiche e geneticamente modificate, 18 ottobre 2007. 188 CONFERENZA DELLE REGIONI E DELLE PROVINCE AUTONOME, Le nuove regole europee in materia di coltivazione di OGM: costruire un sistema agricolo italiano libero da OGM, 7 ottobre 2010. 189 L’azienda agricola di Silvano Dalla Libera, maiscoltore di Pordenone e vicepresidente di «Futuragra», l’associazione che si batte per l’introduzione in Italia delle colture OGM, era ricorsa al TAR Lazio avverso alla nota del MIPAAF del 18 aprile 2007, con il quale il ministero aveva ritenuto di non potersi procedere all’istruttoria sulla richiesta di rilascio dell’autorizzazione per la messa a coltura di varietà transgeniche in attesa dell’adozione dei piani di coesistenza tra colture convenzionali e OGM, perché di competenza delle Regioni, come previsto dalla circolare MIPAAF del 31 marzo 2006. Con la sentenza n. 2893/2008, il TAR Lazio, sez. II ter, aveva dichiarato «inammissibile il ricorso per la mancata notificazione dello stesso ad almeno un controinteressato, dovendosi intendere per tali le Regioni alle quali è stato imputato di non aver provveduto all’adozione dei piani di coesistenza». Successivamente, la sentenza del TAR è stata riformata dal Consiglio di Stato (CONSIGLIO DI STATO, Decisione 19 gennaio 2010, Ricorso proposto da Azienda Agricola Silvano Dalla Libera contro Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, n. 00183/2010, Reg. Dec.) che, motivando «l’insussistenza dei relativi presupposti, per non potere essere le regioni considerate controinteressate, trattandosi di un procedimento autorizzatorio di competenza esclusivamente statale», ha annullato il provvedimento del MIPAAF del 18 aprile 2007 ed ha ordinato al ministero di procedere alla conclusione del procedimento autorizzatorio entro 90 giorni dalla notifica della decisione. Il MIPAAF ha avviato il relativo procedimento, acquisendo il parere della Commissione per i prodotti sementieri geneticamente modificati in data 18 marzo 2010, e lo ha concluso con l’adozione del decreto del 19 marzo 2010, con il quale ha però respinto l’istanza a suo tempo avanzata dall’azienda agricola per la messa in coltura di varietà di mais transgenico. Nel frattempo il TAR Lazio, accogliendo il ricorso presentato dalla «Monsanto» avverso la nota MIPAAF n. 7805 del 30 luglio 2008 - avente ad oggetto le condizioni per l’iscrizione nel registro nazionale delle varietà di specie agrarie e la messa in coltura degli ibridi di mais geneticamente modificati - ha ribadito che il procedimento autorizzatorio è di esclusiva competenza statale e che l’inerzia delle Regioni nell’adozione dei piani di coesistenza non legittima l’amministrazione statale ad arrestare i procedimenti di autorizzazione, poiché, operando in tale direzione, «lo Stato italiano si esporrebbe a responsabilità sul piano comunitario, rendendo di fatto inapplicabile nell’ordinamento nazionale quello che è un principio imposto dal diritto comunitario» (TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO, Sentenza 17 febbraio 2010, Ricorso proposto da Soc. Monsanto Agricoltura Italia Spa, contro Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, sez. II ter, n. 02378/2010 Reg. Sen.). In seguito, il TAR del Lazio, accogliendo il nuovo ricorso presentato 66 dall’azienda agricola di Dalla Libera, ha annullato il decreto del MIPAAF del 19 marzo 2010 e tutti gli atti prodromici, connessi e consequenziali, ivi compresa la relazione della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 18586 del 15 marzo 2010, nonché il parere della Commissione per i prodotti sementieri geneticamente modificati del 18 marzo 2010 (TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO, Sentenza 21 giugno 2011, Ricorso proposto da Azienda Agricola Dalla Libera Silvano contro Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, Ministero della Salute e Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Friuli-Venezia Giulia, sez. II ter, n. 05532/2011, Reg. Prov. Coll.). Secondo il TAR, infatti, il decreto del MIPAAF non riportava delle linee guida per la legittima coesistenza tra vari tipi di colture (tra cui quella transgenica) ma adottava come sostanziale punto di riferimento la relazione della Regione Friuli-Venezia Giulia - che «non costituisce nemmeno un vero e proprio piano di coesistenza» e che, proprio a causa di ciò, non poteva essere impiegato per vietare ai richiedenti la coltivazione OGM. In tal senso, «è stato negato il diritto alla scelta tra le diverse tipologie di coltura, escludendo in fatto proprio la coltura transgenica» e che «la situazione di stallo istituzionale […] si è venuta a creare in conseguenza della volontà […] manifestata chiaramente [dalle Regioni] di non volere adempiere agli obblighi di natura comunitaria» e dallo Stato, il quale deve «provvedere in caso di persistente inerzia di queste ultime», ai sensi dell’art. 117, comma 5, della Costituzione nonché dell’art. 8 della legge 131/03 e dell’art. 11, comma 8, della legge 11/05. Il TAR ha dunque posto la distinzione tra competenza comunitaria e statale, puntualizzando altresì l’ambito regionale in tema di OGM; entrando nel dettaglio, come si legge in una nota a sentenza, il TAR Lazio «chiarisce che la disciplina comunitaria regolamenta gli aspetti che incidono sulla circolazione degli OGM, condizionandola a valutazioni di carattere ambientale e sanitario, tutelando quindi l’ambiente, la vita e la salute. Lo Stato membro ha il compito di adottare le norme per evitare la presenza non volontaria di OGM con altri prodotti, tutelando la libertà di iniziativa economica, la qualità e la tipicità del settore agroalimentare. Il TAR rammenta che la sentenza del 2006 di parziale illegittimità costituzionale del d.l. n. 279 del 2004, ha lasciato inalterato il ‘principio di coesistenza’ tra colture tradizionali e colture OGM, garantendo a produttori e consumatori il diritto di scelta tra le due tipologie attraverso la separazione delle rispettive filiere. Il TAR ha rilevato che il procedimento finalizzato all’emanazione del provvedimento oggetto di impugnazione appartiene alla competenza statale, tuttavia, quando le Regioni sono inerti nell’adottare i ‘piani di coesistenza’, l’amministrazione ministeriale deve fronteggiare la lacuna attraverso i propri poteri sostitutivi, che sono previsti dalla legge per attuare gli obblighi comunitari gravanti sulle Regioni medesime. Pertanto la competenza ad adottare le modalità di attuazione, e quindi le ‘linee guida’ in materia di ‘coesistenza’, appartiene alle Regioni che, di conseguenza, non possono prendere in considerazione aspetti ambientali e sociali, bensì soltanto economici. Durante l’iter procedimentale che ha avuto per oggetto la richiesta di autorizzazione inoltrata dalla società ricorrente, il ministero ha adottato un provvedimento di diniego su un parere espresso dalla stessa Regione alla quale è imputabile la mancata attuazione delle linee guida in tema di coesistenza. Detto parere, inoltre, non si limitava ai profili economici, come di propria competenza, bensì argomentava anche su questioni ultronee. Su tali premesse il TAR ha pertanto accolto il ricorso» (BIARELLA, Coltivazione OGM: inerzia della Regione, illegittimo diniego di autorizzazione, nota in Altalex, 30 giugno 2011, ww.altalex.com). La Regione Friuli-Venezia Giulia ha poi vietato la coltivazione di OGM sul proprio territorio con la legge regionale 8 aprile 2011, n. 5. Tra l’altro, ad alimentare il dibattito sulla coesistenza in campo aperto tra coltivazioni tradizionali o biologiche e coltivazioni OGM è intervenuta la sentenza della Corte di giustizia europea sulla causa che oppone al Land della Baviera un apicoltore tedesco nei cui prodotti apicoli furono riscontrati residui del DNA di mais transgenico «MON 810» coltivato, a titolo sperimentale, a una distanza di circa 500 metri dagli alveari. Secondo la Corte di giustizia il miele e gli integratori alimentari a base di polline contenenti contaminazioni della medesima varietà di mais transgenico vanno considerati come alimenti che contengono ingredienti prodotti a partire da OGM ai sensi del reg. (CE) n. 1829/03 e, pertanto, sono soggetti ad un’autorizzazione per l’immissione in commercio e devono essere etichettati come OGM, a prescindere dall’intenzionalità del loro uso e dal danno che la contaminazione ha cagionato a chi intendeva evitare una coltivazione di OGM (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 6 settembre 2011, causa C-442/09, 67 in virtù dell’orientamento delle Regioni italiane è stato chiesto a Governo e MIPAAF di intervenire con strumenti idonei a garantire le colture biologiche e convenzionali, a seguito della quale il ministero ha inoltrato ad agosto 2011 agli organi comunitari la richiesta di poter avviare la procedura per l’attivazione della clausola di salvaguardia sul mais OGM «MON 810». Intanto, nel giugno 2009, 11 Stati membri hanno chiesto al Consiglio dei ministri dell’ambiente che fosse loro riconosciuta la possibilità di vietare la coltivazione di OGM sul proprio territorio e che si addivenisse ad un nuovo sistema di autorizzazione comunitario190. La Commissione Europea, nel Karl Heinz Bablok e altri contro Freistaat Bayern, Domanda di pronuncia pregiudiziale: Bayerischer Verwaltungsgerichtshof - Germania, doc. 62009CJ0442). 190 La revisione e il rafforzamento delle procedure di autorizzazione degli OGM è stata più volte sollecitata dagli Stati membri secondo i quali l’EFSA non può limitarsi a valutare i dati forniti dalle aziende titolari dei brevetti ma deve promuovere autonome indagini sui rischi per la salute umana e sulle evidenti conseguenze di contaminazione genetica. Sul punto: NUCCI, L’Autorità europea per la sicurezza alimentare: uno strumento per la protezione dei consumatori?, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell’ambiente, 2006, 12, p. 728 e ss. Nel frattempo, l’EFSA ha creato l’unità di «Assistenza alle richieste di valutazione» (Applications Helpdesk, http://www.efsa.europa.eu/it/applicationshelpdesk.htm) ed ha pubblicato tre documenti di aggiornamento, a seguito di consultazione pubblica su propri lavori, che forniscono un quadro esaustivo, rispettivamente, dei principi e dei requisiti per la valutazione del rischio ambientale e in materia di dati per alimenti e/o mangimi. Si tratta delle nuove linee guida per la valutazione ambientale del 12 novembre 2010, che considerano l’impatto degli OGM sull’ambiente anche a lungo termine e obbligano chiunque farà richiesta di autorizzazione all’UE per la coltivazione degli OGM a rispettare norme più severe per tutelare la salute. Secondo il documento sono sette le aree «che destano preoccupazione e dovranno essere affrontate per la valutazione del rischio e dell’impatto ambientale»: la persistenza e l’invasività della pianta OGM; il possibile trasferimento dei geni da pianta a pianta; la probabilità e le conseguenze del trasferimento di geni dalla pianta ai microrganismi; la potenziale evoluzione della resistenza negli organismi bersaglio; i potenziali effetti sugli organismi non bersaglio; i processi bio-geochimici come i cambiamenti nella composizione del terreno; il potenziale impatto delle tecniche di coltivazione, gestione e raccolta delle piante OGM (EFSA, Scientific opinion on Guidance on the environmental risk assessment of genetically modified plants, in EFSA Journal, 2010). Conseguentemente, l’EFSA ha ritenuto opportuno aggiornare, nell’agosto 2011, gli orientamenti per il monitoraggio ambientale postcommercializzazione delle piante GM autorizzate per l’immissione in commercio nell’UE, inasprendo i requisiti che i richiedenti devono rispettare a tal fine. Il documento llustra i requisiti per la definizione della struttura statistica del piano di monitoraggio su caso specifico, fornisce esempi di obiettivi e metodi per il monitoraggio dei rischi o delle incertezze individuati e raccomanda agli Stati membri di considerare la sorveglianza generale come parte integrante dei controlli sulla protezione dell’ambiente che si svolgono nell’UE, proponendo l’istituzione a livello nazionale di centri di segnalazione per integrare e armonizzare la raccolta dati [EFSA, Scientific opinion on Guidance on the Post-Market Environmental Monitoring (PMEM) of genetically modified plants, in EFSA Journal, 2011]. Il terzo documento, del 24 maggio 2011, è l’aggiornamento delle linee guida per la valutazione del rischio associato ad alimenti e mangimi derivati da piante geneticamente modificate. Il documento, che costituisce parte del reg. (CE) n. 1829/03, tiene conto dei più recenti sviluppi scientifici in settori quali la valutazione dell’allergenicità e la scelta della varietà di controllo con la quale la pianta GM viene confrontata e stabilisce una nuova metodologia statistica per rafforzare ulteriormente la valutazione comparativa del rischio associato alle piante GM (EFSA, Scientific opinion on 68 frattempo, ha continuato ad autorizzare, sentito il parere dell’EFSA come prevede la normativa, esclusivamente l’importazione e la commercializzazione di prodotti contenenti o costituiti da OGM destinati ad uso alimentare e per i mangimi ma non la loro coltivazione191, sussistendo una cautela più che decennale dettata dalla moratoria sulle nuove autorizzazioni all’importazione di prodotti GM (dal 1998 al 2004)192 e sulle nuove autorizzazioni di colture GM Guidance for risk assessment of food and feed from genetically modified plants, in EFSA Journal, 2011). «La chiave di volta della valutazione del rischio associato alle piante GM è il confronto tra la pianta GM e una coltura convenzionale appropriata che sia impiegata da tempo in tutta sicurezza, la cosiddetta “varietà di controllo”. Tali confronti sono solitamente effettuati utilizzando un unico test, il cosiddetto test della differenza, che verifica se la pianta GM sia diversa dalla sua varietà di controllo. Nella guida aggiornata, il panel GMO stabilisce per la prima volta l’impiego di due test per effettuare il confronto: un test della differenza e un test complementare dell’equivalenza, che verifica se le caratteristiche della pianta GM rientrino nel campo di variazione naturale riscontrato nelle colture convenzionali. La guida aggiornata contiene inoltre una nuova metodologia statistica che permette di misurare tale variazione naturale in modo accurato» (MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, News, Agricoltura italiana on line, 22, 2011, www.aiol.it). L'EFSA ha anche avviato una consultazione pubblica sulla bozza di linee guida per la valutazione del rischio di alimenti e mangimi derivati da animali GM e relativi aspetti di salute e benessere animale (EFSA Draft Guidance on the risk assessment of food and feed from genetically modified animals including animal health and welfare aspects, 10 agosto 2011, www.efsa.europa.eu) nel caso vengano presentate richieste di autorizzazione alla loro commercializzazione nell’UE, ad oggi mai presentate, mentre negli Stati Uniti la Food and Drug Administration (FDA) sta attualmente esaminando una richiesta di autorizzazione da parte dell’industria per l’immissione sul mercato di un salmone GM. La bozza dell’EFSA trae spunto dal CODEX ALIMENTARIUS COMMISSION, Guideline for the conduct of food safety assessment of foods derived from recombinant-DNA animals”, GL 68-2008, al quale l’Autorità ha fornito consulenza. Il 7 dicembre 2011, l’EFSA ha inoltre pubblicato le prime linee guida generali per fornire supporto ai richiedenti che intendano condurre esperimenti di alimentazione connessi a richieste relative a nuovi prodotti alimentari e ad alimenti e mangimi derivanti da OGM (EFSA, Scientific opinion on Guidance on conducting repeated dose-90-day oral toxicity study in rodents on whole food/feed, in EFSA Journal, 2011). 191 I Consigli Ambiente e Agricoltura non sono mai riusciti a prendere una decisione sulle autorizzazioni di nuovi OGM proposte dalla Commissione e, in mancanza della maggioranza qualificata, spetta all’Esecutivo autorizzare la coltivazione e/o la commercializzazione dei nuovi prodotti (direttiva 2001/18/CE). 192 Nel 1998 diversi Stati membri, guidati dalla Francia, hanno votato per un blocco delle autorizzazioni di OGM a livello europeo fino a che non fosse garantito il diritto di scelta dei cittadini attraverso appropriate norme di etichettatura e una revisione della normativa alla luce del principio di precauzione (poi avvenuta, come detto, con la direttiva 2001/18/CE). Come conseguenza, tra il 1998 e il 2004 nessun nuovo OGM è stato autorizzato nell’Unione Europea, venendosi a creare una “moratoria di fatto”, rimasta in vigore fino all’adozione dei regolamenti (CE) n. 1829/03 e n. 1830/03 in materia di utilizzazione, etichettatura e tracciabilità degli alimenti e dei mangimi GM, complementari alla direttiva 2001/18/CE e conformi al Protocollo di Cartagena (cfr infra nota 177). Nel febbraio 2006 il WTO, al quale si erano rivolti gli USA denunciando il mancato rispetto degli accordi sul commercio internazionale, basati sul principio che solo pericoli per la salute, scientificamente provati, possono costituire una barriera all’importazione (cfr. infra paragrafo 3), ha condannato i 6 Stati UE che hanno applicato, tra il 1998 e il 2004, singoli divieti sulle importazioni di mais GM autorizzato dall’UE. 69 (dal 1998)193. Finché, nel 2010, la Commissione ha deciso di autorizzare la coltivazione sul suolo europeo, a fini industriali, della patata «Amflora» GM e la commercializzazione di mangimi ottenuti con tale patata194, scatenando, così, nuove polemiche sui due fronti di chi è pro e di chi è contro gli OGM. Sebbene le superfici europee interessate alla coltivazione di OGM siano piuttosto esigue195, resta acceso il dibattito in Europa sulle questioni che 193 Dopo il 2004, Germania, Lussemburgo, Austria, Ungheria, Bulgaria, Francia e Grecia, ricorrendo alla clausola di salvaguardia (art. 23, direttiva 2001/18/CE), hanno bloccato sul proprio territorio le semine del mais GM MON 810, mentre altri 9 Paesi, tra cui l’Italia, non lo hanno mai autorizzato in attesa di una legislazione nazionale sulla coesistenza. Tuttavia, tutte le clausole di salvaguardia potrebbero essere messe in discussione dalla recente sentenza della Corte di giustizia nella causa che nasce dalla riunione di undici procedimenti instaurati in seguito alla sottoposizione alla Corte di giustizia di altrettante domande di pronuncia pregiudiziale da parte del Conseil d’État francese (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 8 settembre 2011, cause riunite C-58/10 a C-68/10, Monsanto SAS e altri contro Ministre de l'Agriculture et de la Pêche, in Raccolta della giurisprudenza, doc. 62010CJ0058). La Corte, accogliendo le conclusioni dell’avvocato generale (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Conclusioni dell’avvocato generale Mengozzi del 22 marzo 2011, cause riunite da C-58/10 a C-68/10, Monsanto SAS e altri) ha ritenuto illecito il divieto di coltivazione del mais MON 810 imposto dal governo francese, il quale avrebbe dovuto previamente investire del problema la Commissione Europea. Infatti, il mais MON 810, inizialmente autorizzato sulla base della direttiva 90/220/CE, è stato poi notificato come prodotto esistente ai sensi dell’art. 20 del reg. (CE) n. 1829/03, e non quindi sulla base della direttiva 2001/18/CE. «Legittimata all’adozione di misure urgenti ex art. 34 del reg. 1829/2003 - seppur in presenza di un rischio di danni per la salute o l’ambiente non meramente ipotetico è perciò la Commissione, con la possibilità per gli Stati membri di adottare misure unilaterali solo a titolo provvisorio e in via sussidiaria ed eccezionale, allorché non si riscontri un’azione tempestiva della prima» (BORGHI e SALVI, Giurisprudenza della Corte di giustizia in materia alimentare, in Rivista di diritto alimentare, 2011, 1, p. 47) (cfr. anche infra nota 175). Il Consiglio di Stato francese, applicando la sentenza della Corte di giustizia europea ha annullato, con propria sentenza, i decreti del ministero francese dell’agricoltura e della pesca che avevano sospeso la commercializzazione e la coltivazione del mais OGM MON 810 [CONSEIL D’ETAT (CE), Séance du 24 octobre 2011 - Lecture du 28 novembre 2011, Société Monsanto SAS et autres, n°312921, www.conseil-etat.fr/node.php?articleid=2517]. 194 Con la decisione 2010/135/CE la Commissione ha autorizzato la coltivazione e l’impiego industriale, sulla base delle direttiva 2001/18/CE, della patatata geneticamente modificata EH92-527-1 (BPS-25271-9) Amflora (Solanum tuberosum) per aumentare il tenore di amilopectina nell’amido; con la decisione 2010/135/CE la Commissione ha autorizzato, sulla base del reg. (CE) n. 1829/03, l’immissione in commercio di mangimi ottenuti dalla patata Amflora e la presenza accidentale o tecnicamente inevitabile di tale patata in prodotti alimentari e in altri mangimi. La coltivazione della patata Amflora è stata vietata da Austria, Ungheria e Lussemburgo ricorrendo alla clausola di salvaguardia. 195 Le colture GM nel mondo interessano 148 milioni di ettari, distribuiti in 29 Paesi. Gli Stati Uniti rappresentano il maggior produttore, con 67 milioni di ettari, seguiti da Brasile (25,4), Argentina (22,9), India (9,4), Canada (8,8), Cina (3,5), Paraguay (2,6), Pakistan (2,4) e Sud Africa (2,2). La varietà più diffusa è la soia, pari al 50% della superficie globale, seguita da mais (31%), cotone (14%) e colza (5%). In Europa, le superfici dell’unico mais autorizzato alla coltivazione («MON 810»), destinato all’industria dei mangimi, interessano un totale di 91.193 ettari (in calo del 3,8% rispetto al 2009), pari ad appena lo 0,1% della produzione mondiale. Le coltivazioni di mais GM si concentrano in soli 6 Paesi, ovvero in Spagna per l’80% e per il restante 20%, con meno di 5.000 ettari ciascuna, in Repubblica Ceca, Portogallo, Romania, Polonia e Slovacchia. Le colture di patata GM Amflora interessano superfici molto piccole, 70 riguardano la connessione tra OGM, salute e sicurezza alimentare196; negli ultimi tempi tali questioni hanno spesso dovuto lasciare spazio, a livello di comunicazione di massa, ad una dimensione politica che si divide tra consensi e contrarietà. Non hanno giovato le pressioni della lobby dell’industria interessata al business, la politica frammentata tra gli Stati membri e le posizioni altalenanti all’interno della stessa Commissione Europea, che vanno dalla cautela da parte della DG Ambiente al sostegno agli OGM da parte delle DG Commercio e Agricoltura, in una cornice di evidente ritrosìa dei consumatori nei confronti di questi prodotti, come ha mostrato l’ultima indagine «Eurobarometro»197. La produzione biologica (controllata e certificata da organismi terzi accreditati e autorizzati dalle autorità competenti) - in un contesto in cui tutta la produzione agricola deve garantire ai consumatori tipicità, trasparenza e rintracciabilità - garantisce, in tutte le fasi della produzione, preparazione e distribuzione, l’impiego di metodi di produzione conformi alle norme stabilite dal reg. (CE) n. 834/2007, con il ricorso alle sole sostanze autorizzate, contraddistinguendosi per l’elevato contenuto ambientale, culturale ed etico. Il criterio ispiratore per la normativa sulla produzione biologica, tuttavia, tende a sfumare nel paradosso dell’ammissibilità della presenza accidentale di OGM fino alla soglia massima dello 0,9% nell’alimento, nei suoi ingredienti o nelle materie prime per mangimi, andando a toccare la sfera della salute umana e intorno ai 450 ettari, e sono presenti solo in Germania, Repubblica Ceca e Svezia (ultimi dati disponibili al 2010, International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications ISAAA, www.isaaa.org). 196 La sicurezza igienico-sanitaria può considerarsi quale pre-requisito (cfr. infra paragrafo 3) anche per i prodotti geneticamente modificati, i quali, «in quanto alimenti, sono necessariamente destinatari della disciplina in materia dettata dal legislatore comunitario. La specificità […dei cibi…] OGM implica, piuttosto, che l’attenzione del legislatore sia rivolta ad ulteriori profili […], i quali possono, schematicamente riassumersi, a scopo sostanzialmente classificatorio, in tre sottocategorie di sicurezza alimentare: quella tossicologica, quella informativa e quella nutrizionale» (RUSSO, La sicurezza delle produzioni “tecnologiche”, in Rivista di diritto alimentare, 2010, n. 2, pp. 5-9). Ivi, secondo l’A. con la sicurezza tossicologica «si vuole fare riferimento alla non pericolosità intrinseca dell’alimento, in relazione non a elementi esterni ad esso, relativi alle modalità produttive o sopravvenuti al momento della sua produzione, bensì alla sua composizione»; con la sicurezza informativa «si intende fare riferimento alla necessità di un’adeguata informazione al consumatore quanto alle caratteristiche dell’alimento e alle sue modalità o quantità di consumo»; con la sicurezza nutrizionale il rischio è che «il prodotto alimentare […possa diventare...] pericoloso a seconda dell’uso che il consumatore fa (o non fa) nella propria dieta o delle quantità consumate». 197 Cfr. supra nota 101. 71 dell’ambiente e, in un certo senso, andando a inficiare la valenza etica di questo metodo di produzione. Si tratta, come detto, della stessa soglia ammessa per i prodotti convenzionali che non solo va a “frantumare” uno degli item («i prodotti biologici non contengono OGM») più indicati dagli estimatori del biologico come determinante della domanda di prodotti biologici destinati all’alimentazione umana198, ma non consente di differenziare gli alimenti biologici, sotto questo profilo, da quelli ottenuti attraverso tecniche agricole convenzionali. Nemmeno stempera questo paradosso il recente nuovo approccio della Commissione Europea sulla coesistenza che, pur aprendo agli Stati membri, come si dirà, la possibilità di ridurre la soglia accidentale di OGM nei prodotti alimentari biologici (e in particolari tipi di produzione), allo stesso tempo ribadisce che l’obiettivo perseguito dal regolamento (CE) n. 834/07 è quello di limitare per quanto possibile la loro presenza in questi prodotti199. Seguendo un nuovo approccio più flessibile sulla coesistenza, maturato con la Comunicazione del 13 luglio 2010, la Commissione ha lasciato libertà agli Stati membri di decidere se consentire o meno ai propri agricoltori di coltivare gli OGM autorizzati dall’UE senza ricorrere necessariamente alla clausola di salvaguardia, potendo tener conto degli aspetti nazionali, regionali o locali specifici legati alla coltivazione di piante transgeniche. La Comunicazione è accompagnata da una Raccomandazione sulla coesistenza200, che abroga la precedente Raccomandazione 2003/556/CE e reca nuovi orientamenti per l’elaborazione di misure nazionali per evitare la presenza involontaria di OGM nelle colture convenzionali e biologiche, e da una proposta di modifica della direttiva 2001/18/CE201 che consentirebbe agli Stati membri di legiferare per 198 VAN DER BORG et al., op. cit., 2007. GIUCA, Qualità e sicurezza alimentare, cit., p. 90. 200 COMMISSIONE EUROPEA, Raccomandazione del 13 luglio 2010 recante orientamenti per l’elaborazione di misure nazionali in materia di coesistenza per evitare la presenza involontaria di OGM nelle colture convenzionali e biologiche. Secondo la Commissione restano da affrontare, nel quadro della coesistenza, soltanto gli aspetti economici connessi alla commistione tra colture transgeniche e non transgeniche, dal momento che nell’UE possono essere coltivati solo OGM autorizzati a norma della direttiva 2001/18/CE o del reg. (CE) n. 1829/2003 e, dunque, gli aspetti ambientali e sanitari sono già contemplati dalla valutazione del rischio ambientale della procedura di autorizzazione dell’UE. 201 COMMISSIONE EUROPEA, Proposta di regolamento del parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto riguarda la possibilità per gli Stati 199 72 limitare o vietare la coltivazione di OGM autorizzati dall’UE in tutto il loro territorio o in parte di esso. In base alla proposta di modifica della normativa, al fine di tutelare particolari tipi di produzione come quelle biologiche, uno Stato (o una Regione) può adottare, conformemente ai trattati e agli impegni internazionali dell’UE, misure destinate a limitare in queste colture il tenore di OGM a livelli inferiori alla soglia dello 0,9% prevista per gli alimenti e i mangimi tradizionali202 (soglia che, come detto, obbliga ad indicare in etichetta la presenza di OGM nell’alimento), potendo inoltre decidere, come detto, che il proprio territorio sia esente da OGM. La possibilità di adottare queste misure, che devono basarsi su motivazioni diverse da quelle legate alla valutazione degli effetti negativi sulla salute e sull’ambiente e possono essere di ordine sociale, economico, etico e morale203, membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio, Bruxelles, COM (2010) 375 def. La proposta, che dovrà essere adottata secondo la procedura di codecisione tra Parlamento Europeo e Consiglio come dispone il Trattato di Lisbona, nel rispetto del principio della sussidiarietà e della proporzionalità (art. 69) (cfr. nota 173), non modifica l’attuale sistema UE di autorizzazioni degli OGM, basato sulla valutazione scientifica dei rischi sanitari e ambientali, e le norme sulla libera circolazione e importazione di alimenti, mangimi e sementi GM autorizzati. 202 Tra l’altro, nel febbraio 2011, ha suscitato polemiche sul fronte no-OGM, la decisione del Comitato permanente per la sicurezza alimentare e la salute animale della UE (SCFCAH) di portare allo 0,1% la soglia di contaminazione da OGM nei mangimi per allevamenti importati da Paesi terzi, recepita dalla Commissione nel reg. (UE) n. 619/11 e vista, pertanto, come una concessione alla lobby industriale a spese della salute dei cittadini. Il regolamento, che fissa i metodi di campionamento e di analisi per i controlli ufficiali degli alimenti per animali riguardo alla presenza di materiale geneticamente modificato, rammenta che la soglia dello 0,1% (cosiddetto «zero tecnico») è «il livello minimo in cui i risultati tra laboratori ufficiali sono riproducibili in modo soddisfacente» (14° considerando) ai fini della presenza, nelle materie prime dei mangimi importati da Paesi extra-UE, di OGM per i quali è stata autorizzata la commercializzazione in un Paese terzo e per i quali sia in corso nell’UE una procedura di autorizzazione o la cui autorizzazione sia scaduta. 203 Il Comitato delle Regioni, compiacendosi dell’apertura rappresentata dalla possibilità di tener conto di questi ordini di motivi per vietare la coltivazione di OGM su un determinato territorio, considera preliminari alla modifica della direttiva 2001/18/CE le seguenti problematiche: innanzi tutto l’insufficienza delle norme relative all’etichettatura dei prodotti derivati da OGM (sfuggono, infatti, all’etichettatura, carne, latte e uova provenienti da animali nutriti con OGM), poi l’insufficienza della procedura di valutazione del rischio e dei controlli, auspicando un maggior coordinamento tra EFSA e autorità competenti a livello nazionale in materia di coltivazione di OGM e, infine, l’impatto negativo delle colture geneticamente modificate su quelle convenzionali o biologiche e sulle politiche rurali perché le colture GM sottraggono a taluni territori i mezzi per l’attuazione di adeguate strategie di sviluppo rurale (COMITATO DELLE REGIONI, La libertà per gli Stati membri di decidere in merito alla coltivazione di colture geneticamente modificate sul loro territorio, Bruxelles, 28 gennaio 2011). Nel luglio 2011, dopo i pareri favorevoli della Commissione per l’Ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare e della Commissione per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale 73 investe, nelle intenzioni della Commissione, esclusivamente la sfera economica del produrre, senza alcun richiamo diretto al concetto di qualità delle produzioni biologiche, definite nella Comunicazione del 13 luglio 2010 «particolari tipi di produzione, spesso più costose», e senza alcun richiamo ai recenti documenti sulla qualità dei prodotti agricoli di cui si dirà nel prossimo paragrafo. La ratio, infatti, è nella potenziale perdita di reddito che i produttori biologici potrebbero avere in caso di presenza di tracce di OGM in percentuali anche inferiori alla soglia dello 0,9%, qualora volessero commercializzare gli alimenti biologici come non contenenti organismi geneticamente modificati; i produttori, pertanto, potrebbero perdere la relativa maggiorazione del prezzo dei cibi biologici, secondo la Comunicazione, «in alcuni casi e secondo la domanda di mercato e le rispettive disposizioni delle leggi nazionali, dal momento che alcuni Stati membri hanno elaborato norme nazionali per diversi tipi di etichettatura senza OGM»204. Tuttavia, non si può non tener conto che la facoltà riconosciuta agli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul proprio territorio, l’assenza di norme univoche sulla coesistenza, nonché la possibilità di (doc. A7-0170/2011), il Parlamento Europeo ha votato, con 548 voti a favore, 84 contrari e 31 astenuti, l’emendamento che permetterebbe agli Stati di bandire o limitare le coltivazione di piante transgeniche nel proprio territorio non solo per l’impatto socio-economico (impossibilità di attuare misure di coesistenza, destinazione dei suoli) ma anche per ragioni di tutela ambientale, come la resistenza ai pesticidi, l’invasività di certe colture, la minaccia alla biodiversità, la mancanza di informazioni sufficienti sulla particolare pianta transgenica, nonché per salvaguardare la produzione convenzionale e biologica da possibili contaminazioni da OGM. Tra i criteri del divieto non rientrano le motivazioni di natura sanitaria, essendo parte integrante della procedura di autorizzazione degli OGM (cfr. infra nota 200); gli Stati membri potranno, inoltre, contare su una solida base legale per non incorrere nelle sanzioni lanciate dal WTO, esigere maggiori informazioni da parte delle industrie biotech per condurre ricerche indipendenti sui rischi e adottare misure di responsabilità civile per i casi di contaminazione (cfr. infra nota 177). La posizione del Parlamento per la riforma della legislazione esistente in materia di OGM, che non ha ricevuto l’appoggio della Commissione per la quale il divieto dovrebbe essere giustificato solo da ragioni socio-economiche, etiche e morali, dovrà passare al vaglio del Consiglio e della stessa Commissione (PARLAMENTO EUROPEO, Possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio, P7_TA-PROV (2011) 0314, Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 5 luglio 2011 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio, in Testi approvati, Parte II, nella seduta di martedì 5 luglio 2011, pp. 197-213). 204 Al riguardo, e dal momento che la particolarità dei prodotti biologici non investe solo il reddito degli agricoltori ma anche le aspettative dei consumatori, come sostiene la Commissione nel Libro verde sulla qualità, appare più che mai necessaria una revisione dell’art. 9 del reg. (CE) n. 834/07 che individui soluzioni univoche per tutti gli Stati membri. 74 “differenziare” particolari tipi di produzioni nazionali (biologiche e non) in base al contenuto di OGM, potrebbe minare il principio di non-discriminazione tra prodotti agro-alimentari nazionali e importati e dare luogo a restrizioni di natura commerciale tra i diversi Stati membri205. Però, in assenza di validi piani di coesistenza, la libertà di coltivare OGM di fatto limita, per il rischio di contaminazione, la libertà di produrre secondo altri metodi, quali l’agricoltura biologica. Inoltre, occorre tener conto che, di fronte alla possibilità per gli Stati membri di adottare misure per ridurre la soglia accidentale di OGM nella produzione biologica e in particolari tipi di produzione, la stessa Commissione riconosce, nella Comunicazione del 13 luglio 2010, che «il soddisfacimento efficace di queste esigenze di separazione specifiche può risultare molto difficile e costoso in alcune regioni a causa di vincoli e caratteristiche locali particolari». Si aggiunga, come già accennato nel precedente paragrafo, che la facoltà per gli Stati membri di intervenire sulle regole di produzione, prevista dal reg. (CE) n. 834/07, modifica in peius la normativa comunitaria perché, rinunciando a una definizione uniforme delle regole per l’agricoltura biologica, consente di derogare a norme specifiche per supplire a situazioni di difficoltà206 ove, come riportato alla lettera g) dell’art. 22 «sia necessario usare additivi per alimenti e altre sostanze [….] o additivi per mangimi e altre sostanze […] e tali sostanze non siano disponibili sul mercato se non ottenute da OGM»! 205 La “svolta” sulla coesistenza da parte della Commissione ha alimentato ulteriormente il dibattito sugli OGM e diverse sono le posizioni assunte in ambito UE: dai Paesi contrari (Francia, Germania, Italia, Spagna e Polonia), che non vedono di buon occhio la “nazionalizzazione” della politica sugli organismi geneticamente modificati in assenza di certezze giuridiche (sulle sementi, sulla responsabilità, sulla coesistenza), ai Paesi sostenitori che intravedono un mercato interno degli OGM “a macchia di leopardo” lesivo del diritto alla concorrenza; dalle associazioni ambientaliste e dei consumatori contrari a colture e prodotti transgenici che temono le pressioni delle lobby, degli USA e del WTO sulle scelte nazionali, alle associazioni dei coltivatori pro OGM, che lamentano disparità di trattamento tra agricoltori dei diversi Stati membri in conflitto con la loro libertà di scelta. Facendosi portavoce di tutte queste problematiche, i ministri UE sia dell’agricoltura sia dell’ambiente hanno respinto nel 2010 la proposta della Commissione di modifica della direttiva 2001/18/CE, a cui ha fatto seguito il parere del Consiglio dei Ministri UE dell’11 novembre 2010 che ritiene tale proposta in conflitto con le regole del WTO (GIUCA, Qualità e sicurezza alimentare, cit., pp. 95-96). 206 CANFORA, Il nuovo assetto dell’agricoltura biologica, cit., 2007, p. 377. 75 6. Requisiti di qualità e prodotti biologici: dal Libro verde della Commissione Europea al «pacchetto qualità» Nell’ottobre 2008, prima dell’entrata in vigore della nuova normativa sulla produzione biologica, la Commissione Europea ha avviato una consultazione pubblica sul tema della qualità dei prodotti agricoli nella politica comunitaria, invitando tutti gli interessati ad inviare, entro la fine dell’anno, osservazioni, commenti e risposte ai quesiti posti in uno specifico Libro verde207. Nel documento, la Commissione pone una lunga serie di domande sul ruolo delle norme di commercializzazione per i prodotti agricoli, sul futuro sviluppo delle indicazioni geografiche, sui numerosi sistemi di certificazione della qualità dei prodotti alimentari e, specificatamente per i prodotti biologici, chiede come migliorare il funzionamento del mercato unico europeo per questi alimenti. Ora, nell’introduzione del Libro verde si legge che un’opportunità per gli agricoltori, volta a creare nuovi sbocchi di mercato e a massimizzare i profitti, è quella di «disciplinare il comparto biologico fissando requisiti rigorosi». Questi requisiti rigorosi sono qualcosa di più dei requisiti minimi (di sicurezza e igiene)? Si tratta, cioè, dei requisiti di «qualità superiore» richiamati nel Libro verde, che «offrono al consumatore qualcosa di più dei requisiti minimi, sia in termini di caratteristiche speciali come il sapore, l’origine, ecc., sia riguardo al metodo di produzione»? Nel Libro verde, però, appare poco chiara la demarcazione tra requisiti minimi (di sicurezza e igiene) e requisiti di qualità, come è stato evidenziato, con accurata argomentazione, dall’«Associazione italiana di diritto alimentare» (AIDA) nel documento inviato alla Commissione208. La qualità dei prodotti alimentari è inizialmente associata, nel Libro verde, alla garanzia di sicurezza igienica (la sicurezza viene poi giustamente inserita nel testo tra i «requisiti 207 Cfr. supra nota 146. I temi oggetto del Libro verde sulla qualità [COM (2008) 641] sono stati discussi nella Tavola rotonda del 20 gennaio 2009, organizzata a Roma dall’AIDA e dalla rivista di Economia e diritto agroalimentare, con contributi di COSTATO, ALBISINNI, GERMANÒ, PAOLONI, BORGHI, MACCIONI, DEL GIUDICE, POMARICI, GENCARELLI, DE ROSA e SURACE pubblicati nella Rivista di diritto alimentare, 2009, III, 1, cit., alla quale si rimanda per approfondimenti. 208 AIDA, op. cit., 2009, p.7. 76 minimi»); subito dopo la qualità è definita, invece, come la «capacità di “soddisfare le aspettative dei consumatori”, precisando che le qualità in tal senso intese sono relative alle “caratteristiche del prodotto, quali i metodi di produzione utilizzati o il luogo di produzione”, con ciò assumendo la qualità come soddisfazione di bisogni edonistici, per loro natura plurali, negoziabili, distinti ed aggiuntivi rispetto alla sicurezza igienica, per sua natura uniforme e non negoziabile»209. Il Libro verde, poi, associa i prodotti di qualità ai cibi «saporiti, tradizionali e genuini»210, senza fornire una definizione giuridica dei loro elementi distintivi211, i quali, però, soddisfacendo il consumatore, sono da 209 Ibidem, p. 7. Osserva GERMANÒ, Il libro verde della Commissione Europea del 15 ottobre 2008, cit., 2008, p. 482: «il “sapore” è quel qualcosa che, nel giudizio soggettivo del consumatore è indice di qualità», ma «la tradizionalità non è di per sé equivalente a qualità, salvo che quest’ultima non venga, dal consumatore, connessa a fattori culturali che potrebbero - ma ancora non lo sono - transitare da una, ma sempre più frequente, semplice preferenza al riconoscimento, nell’immaginario collettivo, di un pregio che l’Ordinamento poi assume e disciplina come espressione, appunto di qualità». Invece, «la genuinità è sinonimo più di sicurezza che di qualità. Il Dizionario Garzanti della lingua italiana definisce “genuino” ciò “che non contiene sostanze estranee alla propria natura” e riporta come contrario il termine “artificioso”. […] Attribuire al termine “qualità” il significato di conservazione, nel prodotto, delle sue caratteristiche naturali sarebbe mistificante, come se si volesse fare intendere che accanto a prodotti agricoli di qualità perché “naturali” ci potrebbero essere prodotti agricoli non di qualità perché “artificiali”: l’assurdità della conclusione mi spinge e ritenere che la genuinità attiene alla sicurezza e non già alla qualità». La Commissione Europea, nel tornare su questi aspetti nel «Libro verde» sulla politica di informazione e promozione dei prodotti agricoli - pur mantenendosi estranea ad una definizione giuridica di qualità - afferma che la promozione dei prodotti di qualità «svolge un ruolo fondamentale per rispondere alla domanda crescente di prodotti genuini, locali e tradizionali» e valorizza «caratteristiche come la freschezza, l’innovazione, le qualità nutrizionali e la conoscenza dei prodotti»; inoltre, interrogandosi su una strategia a forte valore aggiunto per promuovere i «sapori dell’Europa» e lanciando una consultazione pubblica al riguardo, la Commissione afferma che «occorre valorizzare appieno il patrimonio culinario dell’Unione in tutta la sua diversità» (COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde. Politica di informazione e promozione dei prodotti agricoli, cit., 2011, pp. 2-5). Al fine di tracciare i contorni di una strategia di promozione più mirata e ambiziosa a favore del settore agro-alimentare in Europa, il Libro verde tratta e presenta quesiti su vari aspetti della politica di informazione e di promozione: il suo valore aggiunto per l’Europa (in termini di qualità dei prodotti, igiene, sicurezza alimentare, nutrizione, etichettatura, benessere degli animali, rispetto dell’ambiente), gli obiettivi e le misure per i mercati interni (compresi quelli locali e regionali) e per quelli esterni, nonché aspetti più generali relativi al contenuto e alle modalità di gestione. Cfr. la relazione di sintesi sui contributi alla consultazione del Libro verde: EUROPEAN COMMISSION, A reinforced value-added European Strategy for promoting the Tastes of Europe, Summary report of the Green paper consultation, 2011, http://ec.europa.eu/agriculture/promotion/policy/consultation. 211 Secondo ALBISINNI, Il libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli, cit., 2009, p. 61, il Libro verde manca di una sostanziale attenzione ai requisiti di qualità legati al prodotto, al processo, alla sua origine e alla sua storia - requisiti che costituiscono, invece, secondo JANNARELLI, La qualità dei prodotti agricoli, cit., 2004. una componente essenziale della qualità nell’agroalimentare - e mostra un’attenzione quasi esclusiva a contenuti disciplinari legati alla comunicazione sul mercato. L’eccessiva attenzione ai profili commerciali e comunicativi, ovvero di marketing, della qualità, da una parte, e la disattenzione nei confronti 210 77 intendersi requisiti di «qualità superiore». Alla luce di queste considerazioni, dunque, se si auspicano requisiti rigorosi per i prodotti biologici, questi non possono che essere requisiti di «qualità superiore» [o «alta qualità» secondo l’art. 3 del reg. (CE) n. 834/2007], con particolare riguardo al metodo di produzione212; in tal senso, il paradosso dell’ammissibilità della presenza accidentale di OGM nella soglia massima dello 0,9%, come argomentato nel precedente paragrafo, appare piuttosto singolare. Oltre tutto, nel Libro verde, manca un qualsiasi riferimento alla questione degli OGM ma, allo stesso tempo, si asserisce che i metodi di produzione devono, comunque, venire incontro alle preoccupazioni etiche e sociali della società civile. Fermo restando la necessità di verificare, nei prossimi anni, la funzionalità della nuova normativa sulla produzione biologica, dalle 560 osservazioni (il 9% italiane) sull’intero Libro verde, giunte alla Commissione da parte di soggetti pubblici e privati di 26 Stati membri e di 5 Paesi terzi, sono emersi, relativamente ai prodotti biologici213: a) commenti incentrati sui consumatori riguardo alla mancanza di informazioni, alla loro richiesta di origine della produzione biologica (preferenza per una produzione biologica a livello locale) e di trasparenza dei marchi privati; b) la necessità di una maggiore differenziazione dei prodotti biologici dai prodotti convenzionali; c) l’opportunità di un nuovo logo che garantisca l’uniformità dei criteri di produzione, controllo e certificazione a livello comunitario; d) la necessità di controlli più efficaci lungo tutta la filiera del biologico. della fase agricola della produzione (di qualità), dall’altra, è confermata dall’assenza del riferimento all’art. 69 del reg. (CE) n. 1782/03 (cfr. supra nota 155), relativo all’attuazione facoltativa di un sostegno per tipi specifici di agricoltura e per la produzione di qualità nell’ambito della PAC (MACCIONI, Qualità delle produzioni e «sostengo specifico», in Rivista di diritto alimentare, 2009, 3, pp. 45-48). Secondo il Libro verde la qualità deve servire a «vincere» la gara nel mercato ed è espressione di un vantaggio competitivo sul mercato ma poi viene proposta una qualità che rischia di configurarsi come indistinta etichettatura di conformità a requisiti di base, in conflitto con un’idea della qualità come capacità distintiva dei prodotti alimentari sul mercato. Sul punto anche GERMANÒ, La qualità dei prodotti agroalimentari secondo la Comunità Europea, in Rivista di diritto agrario, 2009, fasc. 3, p. 382, e ancora ALBISINNI, La qualità in agricoltura e nell’alimentazione, in Rivista di diritto alimentare, 2009, III, n. 3, p. 4. 212 GIUCA, Qualità e sicurezza alimentare, cit., 2010, pp. 91-92. 213 EUROPEAN COMMISSION, Conclusions from the consultation on agricultural product quality, Directorate-general for agriculture and rural development, Brusseles, 2009, http://ec.europa.eu/agriculture/quality/policy/consultation/contributions/summary_en.pdf. 78 Nella successiva Comunicazione della Commissione sulla politica di qualità dei prodotti agricoli manca, ancora una volta, una definizione giuridica di qualità214 e viene usato il virgolettato quasi a smorzare l’ufficialità delle affermazioni215. Infatti, nel documento si legge: «le “qualità” dei prodotti agricoli comprendono sia le “caratteristiche del prodotto” (proprietà fisiche, chimiche, microbiologiche e organolettiche - dimensioni, conformazione, sapore, aspetto, ingredienti, ecc.) sia le “modalità di produzione” (metodo di produzione, tipo di allevamento, tecniche di lavorazione utilizzate, luogo di produzione e/o di trasformazione, ecc.)»216. La Comunicazione, specificatamente, non aggiunge nulla in merito alla qualità dei prodotti biologici, anzi ribadisce che l’agricoltura biologica è definita nella legislazione UE e a livello internazionale217 e ciò garantisce ai consumatori la qualità dei prodotti biologici e agevola gli scambi sia all’interno del mercato unico, sia con i Paesi terzi. La Commissione, infine, si propone di migliorare il mercato unico per i prodotti biologici e di contribuire al riconoscimento reciproco delle norme di produzione biologica con i Paesi terzi, partecipando allo sviluppo di disposizioni internazionali in materia218. 214 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Sulla politica di qualità dei prodotti agricoli, Bruxelles, COM (2009) 234 def. La Comunicazione, nonostante riprenda le ulteriori precisazioni contenute nell’articolata relazione d’impatto che l’ha preceduta (EUROPEAN COMMISSION OF THE EUROPEAN COMMUNITIES, Impact assessment report for a communication on agricultural product quality policy, working document, version 08-4-09), lascia ancora irrisolta la questione che cosa sia veramente la qualità. Sul punto: GERMANÒ, Le politiche europee della qualità alimentare, in Rivista di diritto alimentare, 2009, 3, pp. 1222. 215 Secondo l’«Accademia della Crusca» (www.accademiadellacrusca.it): «le virgolette si usano indifferentemente per circoscrivere un discorso diretto o per le citazioni e possono anche essere usate per prendere le distanze dalle parole che si stanno usando (e nel parlato si dice infatti “tra virgolette”)». 216 Proprio riguardo alle caratteristiche dei prodotti e ai metodi di produzione, la Commissione, nella Comunicazione COM (2009) 234 def, prendendo atto che i regimi comunitari di tutela della tipicità dei prodotti agricoli e alimentari e dei vini sono troppo complessi e che esistono numerose certificazioni nazionali e private che impattano sul mercato e confondono i consumatori, riconosce la necessità di tenere conto dei regimi nazionali e privati di tipo «certificazione» (per i quali propone di elaborare degli orientamenti per il loro corretto funzionamento) o di tipo «etichettatura» (per i quali propone di sviluppare le norme di commercializzazione nell’ambito dell’OCM unica). 217 Dal Codex Alimentarius, cfr. supra nota 78. 218 Prima della pubblicazione del reg. (CE) n. 1235/08 recante modalità di applicazione del reg. (CE) n. 834/07 per quanto riguarda il regime di importazione di prodotti biologici dai Paesi terzi (cfr. nota 349), GERMANÒ, Il libro verde della Commissione Europea, cit., 2008, p. 495, sosteneva che l’istituzione di un unico controllore comunitario probabilmente sarebbe stato troppo oneroso mentre sarebbe stato sicuramente fattibile disporre di un più articolato 79 Al fine di un miglior funzionamento del mercato interno dei prodotti biologici si è espresso anche il Parlamento Europeo, ritenendo necessaria, tra l’altro219, l’indicazione del Paese di origine sia per le materie prime, sia per i prodotti trasformati importati da Paesi terzi anche quando è applicabile il logo dell’Unione Europea per i prodotti biologici220. Intanto, mentre si dibatteva presso lo stesso Parlamento Europeo sulla questione dell’etichettatura di origine per i prodotti agro-alimentari (il nuovo reg. 1169/11 relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori è stata oggetto di un esame dettagliato e controverso, sia a livello europeo che nazionale, durato oltre tre anni221), il reg. (CE) n. 967/2008 ha reso regolamento che contenesse le disposizioni a cui obbligatoriamente i controllori nazionali (UE e non-UE) devono rispondere. Infatti, «un concreto sviluppo del mercato unico europeo dei prodotti biologici non può aversi fin quando non si garantirà ai consumatori un “forte” controllo del rispetto delle norme che impongono il non-uso di prodotti chimici di sintesi. E ciò vale non solo con riguardo ai prodotti UE, ma soprattutto con riguardo ai prodotti non-UE. Ad esempio, come fa il consumatore ad essere sicuro che le banane di uno dei Paesi dell’America centrale sono [prodotti] “biologici”? Si chiederà, innanzi tutto, chi ne è stato il controllore; poi, quale organismo dell’Unione Europea ha controllato che i criteri di controllo adoperati dal controllore non-comunitario sono stati efficienti ed efficaci; e, infine, quali responsabilità (anche penali) sono previste a carico di un malfidato controllore sia nel Paese in cui agisce, sia nella Comunità». 219 «Il Parlamento Europeo è del parere che […] si debbano fissare limiti massimi per l’utilizzo dei prodotti fitosanitari vietati nell’agricoltura biologica; sia necessario riesaminare la questione della doppia certificazione spesso richiesta dai grossisti per impedire la disponibilità di quantitativi sufficienti di prodotti biologici sul mercato comunitario; sia necessario differenziare chiaramente l’etichettatura dei prodotti non agricoli che presentano un riferimento ai metodi di produzione biologici da quella dei prodotti derivanti da agricoltura biologica» (PARLAMENTO EUROPEO, Garantire la qualità degli alimenti. Armonizzazione o reciproco riconoscimento delle norme, Risoluzione del 10 marzo 2009). 220 Secondo le norme vigenti, i prodotti preconfezionati agricoli e alimentari importati da Paesi terzi possono riportare i riferimenti all’agricoltura biologica solamente se sono stati importati nel rispetto degli artt. 32 e 33 del reg. (CE) n. 834/07 e del reg. (CE) n. 1235/08. Per l’etichettatura di questa tipologia di prodotti si applicano le medesime prescrizioni previste per i prodotti non importati, incluso il codice dell’organismo di controllo cui è soggetto l’Operatore che ha effettuato la produzione o la preparazione più recente, ad eccezione dell’obbligo di utilizzo del logo biologico dell’UE, il quale è facoltativo per la categoria dei prodotti biologici [prodotti conformi all’art. 23, par. 4, lettera a) del reg. (CE) n. 834/07]. Se il logo viene utilizzato in etichetta occorre riportare anche i riferimenti relativi all’indicazione di origine ma è sufficiente l’indicazione «Agricoltura non UE», la quale può essere sostituita o integrata dall’indicazione del Paese in cui sia stato prodotto non meno del 98% delle materie prime agricole di cui il prodotto è composto [art. 24, reg. (CE) n. 834/07] (cfr. capitolo II, paragrafo 1.1). Il Parlamento, dunque, vorrebbe rendere obbligatoria tale sostituzione o integrazione, ritenendo, inoltre, che si debba rafforzare la credibilità del logo UE attraverso programmi di supporto alle vendite di prodotti biologici. 221 Nel 2008 la Commissione Europea, per venire incontro alle richieste delle associazioni dei consumatori ma anche del mondo dell’industria in materia di etichette alimentari, ha presentato una proposta di regolamento finalizzata ad accorpare e aggiornare le disposizioni vigenti in materia di etichettatura generale ed etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari, disciplinate, rispettivamente, dalle direttive 2000/13/CE e 90/496/CEE. La proposta era 80 finalizzata, in particolare, a inserire disposizioni specifiche sulla responsabilità in seno alla catena alimentare riguardo alla presenza e all’esattezza dell’informazione alimentare; a fissare criteri misurabili su alcuni elementi della leggibilità delle etichette apposte ai prodotti alimentari; a chiarire le norme riguardanti l’indicazione del Paese d’origine o il luogo di provenienza; a introdurre indicazioni nutrizionali obbligatorie nella parte principale del campo visivo della maggior parte degli alimenti trasformati; a istituire un sistema che regoli alcuni aspetti dell’etichettatura volontaria degli alimenti appoggiata dagli Stati membri. [COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori, Bruxelles, COM (2008) 40 definitivo]. Sul punto: COSTATO, L’informazione dei consumatori postrema frontiera della C.E., in Rivista di diritto alimentare, 2008, 4, p. 3. In seguito, il Parlamento Europeo, secondo la procedura legislativa ordinaria in prima lettura, ha approvato una risoluzione accogliendo l’emendamento presentato dall’Italia, che prevedeva di estendere l’indicazione obbligatoria del Paese di origine prevista per alcune categorie di prodotti (cfr. infra nota 223) a tutti i tipi di carne, al pollame, ai prodotti lattiero-caseari, ad altri prodotti a base di un unico ingrediente e a carne, pollame e pesce utilizzati come ingrediente nei prodotti alimentari trasformati [PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione legislativa del 16 giugno 2010 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sulla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori presentata dalla Commissione (COM (2008) 40)]. Il Consiglio Europeo ha invece ridotto la portata del provvedimento, limitando tale obbligo alla carne non lavorata di origine suina, ovina, caprina e al pollame, proponendo contestualmente alla Commissione di sottoporre successivamente al Parlamento e al Consiglio una relazione sull’indicazione obbligatoria di origine per il latte usato come ingrediente dei prodotti lattierocaseari, la carne usata come ingrediente, gli alimenti non trasformati, i prodotti costituiti da un solo ingrediente e gli ingredienti che rappresentino più del 50% di un prodotto alimentare [CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Posizione del Consiglio in prima lettura in vista dell’adozione del regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che modifica i regolamenti (CE) n. 1924/2006 e n. 1925/2006 e abroga le direttive 87/250/CEE, 90/496/CEE, 1999/10/CE, 2000/13/CE, 2002/67/CE, 2008/5/CE e il regolamento (CE) n. 608/2004, n. 7/2011]. In seguito la Commissione ha ritenuto che questa prescrizione, alla luce del TFUE, debba essere attuata attraverso atti delegati (cfr. nota 364) poiché occorrono elementi di natura legislativa per determinare, ad esempio, il livello geografico appropriato al luogo di produzione nazionale, regionale, ecc. e, pur non volendosi opporre a un voto espresso a maggioranza qualificata, ha ravvisato nel testo approvato dal Consiglio elementi che si discostano dalla proposta della Commissione oltre a non tener conto del parere in prima lettura del Parlamento e, di conseguenza, degli emendamenti del Parlamento che la Commissione aveva indicato di poter accettare [COMMISSIONE EUROPEA, Comunicazione al Parlamento europeo ai sensi dell’articolo 294, paragrafo 6, del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea relativa alla posizione del Consiglio in prima lettura sull’adozione di un regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori, Bruxelles, COM (2011) 77 def.]. L’orientamento della Commissione in materia di etichettatura di origine, d’altra parte, risulta chiaramente nella proposta in ordine alle norme di commercializzazione presentata a fine 2010 nell’ambito delle misure del “pacchetto qualità” (di cui si dirà in questo paragrafo), la quale, in seguito a una valutazione d’impatto prevede per tutti i settori agricoli una base giuridica che imporrà l’obbligo di indicare in etichetta il luogo di produzione. Gli emendamenti e le modifiche al regolamento (CE) n. 1234/2007 sull’OCM unica in materia di comunicazione, nomi e marketing contenute nel pacchetto qualità (riprese nella proposta legislativa sull’OCM unica relativa alla PAC per il periodo 2014-2020 - cfr. supra nota 139), nonché le nuove definizioni di origine incluse nel Codice doganale aggiornato (cfr. nota 338) e l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr. supra nota 10) sono, nel frattempo, avvenuti nel corso del lungo iter di approvazione della nuova disciplina di informazioni sugli alimenti ai consumatori (sul punto: ALBISINNI, The new EU Regulation on the provision of food information to consumers, in Rivista di diritto alimentare, 2011, 2, p. 32 e ss.). A maggio 2011 la Commissione ambiente, sanità pubblica e sicurezza alimentare del Parlamento Europeo ha ampliato la portata del testo [COM (2008) 40], votando per l’indicazione obbligatoria in etichetta dell’origine di tutti i singoli ingredienti del prodotto 81 obbligatorio, dal 1° luglio 2010, l’utilizzo del nuovo logo di produzione biologica dell’UE sulle confezioni degli alimenti preconfezionati, unitamente (carne, pollame, latticini, frutta e verdura) e di alcuni cibi trattati, proponendo anche di segnalare tutti i Paesi, se diversi, di nascita, allevamento e macellazione del bestiame (cfr. www.europarl.europa.eu/it). Il Parlamento Europeo, riunitosi il 6 luglio 2011 per la discussione nella sessione plenaria della seconda (e finale) lettura, ha adottato il testo reintroducendo la proposta contenuta nella risoluzione del 16 giugno 2010 [PARLAMENTO EUROPEO, Informazione dei consumatori sui generi alimentari, in Testi approvati, P7_TAPROV(2011)0324, 6 luglio 2011, pp. 34-114] (cfr. anche nota 266). La Commissione, che ai sensi dell’art. 294 del TFUE deve formulare un parere sugli emendamenti proposti dal Parlamento in seconda lettura, li ha poi accolti tutti a fine luglio 2011 [COM (2011) 475 definitivo]. Contemporaneamente, la Commissione per le petizioni del Parlamento Europeo, presieduta dall’Italia, ha denunciato distorsioni nel mercato cunicolo italiano in ordine alla formazione dei prezzi alla produzione, ritenendo necessario estendere l’obbligo di etichettatura di origine anche alle carni di coniglio (notizia ANSA, 27 luglio 2011, ww.ansa.it). Il 29 settembre 2011 il Consiglio ha adottato la proposta, divenuta, infine, reg. (UE) n. 1169/11 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, il quale modifica il reg. (CE) n. 1924/06 relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute (cfr. nota 243) e il reg. (CE) n. 1925/06 sull’aggiunta di vitamine e minerali negli alimenti e abroga - a decorrerre dal 13 dicembre 2014 - il reg. (CE) n. 608/04, relativo all’etichettatura di prodotti alimentari addizionati di fitosteroli, esteri di fitosterolo, fitostanoli ed esteri di fitostanolo, nonchè le seguenti direttive: direttiva 87/250/CEE sull’indicazione del titolo alcolometrico volumico nell’etichettatura di bevande alcoliche destinate al consumatore finale; direttiva 90/496/CEE relativa all’etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari; direttiva 99/10/CE concernente deroghe alla direttiva 79/112/CEE per quanto riguarda l’etichettatura dei prodotti alimentari; direttiva 2000/13/CE sull’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari; direttiva 2002/67/CE sull’etichettatura dei generi alimentari contenenti chinino e caffeina; direttiva 2008/5/CE concernente specificazione sull’etichetta di alcuni prodotti alimentari di altre indicazioni obbligatorie oltre a quelle previste dalla direttiva 2000/13/CE. Il reg. (UE) n. 1169/11, all’art. 26.2 estende l’indicazione obbligatoria del Paese di origine o del luogo di provenienza (cfr. anche nota 337) a carni fresche, refrigerate o congelate della specie suina, ovina, caprina e di pollame (allegato XI); l’art. 26.3 specifica che laddove venga indicato il Paese di origine, o il luogo di provenienza di un alimento, e questo non coincida con l’origine del suo ingrediente primario (ovvero quello o quelli che rappresentano più del 50% di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa - art. 2.2., lettera q) (cfr. nota 337), deve essere indicato anche il Paese di origine/luogo di provenienza dell’ingrediente primario oppure ne debba comunque essere segnalata la diversità. L’applicazione dell’art. 26, punti 2 e 3, è soggetta all’adozione di atti di esecuzione della Commissione (cfr. nota 364) da adottare entro due anni, a seguito di valutazione d’impatto (analisi costi-benefici, impatto giuridico sul mercato interno, impatto sugli scambi internazionali), e previa consultazione dell’EFSA. L’art. 26 ai punti 6 e 5, inoltre, conferisce mandato alla Commissione Europea a presentare una relazione sulla possibilità di estendere l’indicazione obbligatoria del Paese di origine o del luogo di provenienza entro il 13 dicembre 2013, per le carni utilizzate come ingrediente, e entro il 13 dicembre 2014 per altri tipi di carne diversi da quelle bovine (che già la possiedono per legislazione verticale) e non compresi nell’allegato XI, nonché a latte (anche quale ingrediente di prodotti lattiero-caseari), alimenti non trasformati [come definiti dall’art. 2 del reg. (CE) n. 852/04 sull’igiene dei prodotti alimentari], prodotti a base di un unico ingrediente e ingredienti che rappresentino più del 50% del prodotto finito. Per le carni, anche utilizzate come ingrediente, le relazioni e le valutazioni d’impatto dovranno prendere in considerazione, inoltre, le opzioni sulle modalità di espressione del Paese d’origine o del luogo di provenienza riguardo al luogo di nascita, di allevamento e di macellazione. 82 all’indicazione dell’origine della materia prima in etichetta: ma le diciture previste basteranno a soddisfare i consumatori, in termini qualitativi?222 Nel frattempo, alla luce, anche, del nuovo approccio UE in materia di coesistenza e tenuto conto che l’estenzione dell’obbligo di indicare in etichetta il luogo di origine per tutti i prodotti avverrà nei prossimi anni223, si auspica 222 Si tornerà su queste riflessioni nei prossimi capitoli. Le norme sull’etichettatura, la presentazione, la pubblicità e il logo dei prodotti biologici sono approfondite nel capitolo II, paragrafi 1, 1.1 e 2. 223 L’indicazione in etichetta del luogo di produzione è obbligatoria, in tutti i Paesi UE, oltre che per prodotti biologici, DOP/IGP e denominazione geografiche dei vini (cfr. supra nota 40), per le seguenti categorie di prodotti agro-alimentari: ortofrutticoli freschi [regolamenti (CE) n. 1234/07 e n. 361/08], carni bovine e prodotti a base di carni bovine [regolamenti (CE) n. 1760/2000 e 275/07), miele (direttiva 2001/110/CE), pesci, molluschi e crostacei freschi [reg. (CE) n. 104/2000 e reg. (CE) n. 2065/01], uova fresche [regolamenti (CE) n. 2052/03, 2295/03, 1028/06, 589/08], olio d’oliva vergine ed extravergine [reg. (CE) n. 1019/02 e reg. (CE) n. 182/09]. In Italia, per esigenze di tutela della salute pubblica e di repressione delle frodi (possibilità tra quelle concesse dall’art. 18 della direttiva 2000/13/CE alla quale si aggiunge la protezione dei consumatori per effetto dell’art. 39 del reg. (UE) n. 1169/11 che abroga la direttiva dal 13 dicembre 2014], sono state adottate disposizioni più restrittive sull’origine della materia prima per la rintracciabilità del latte fresco (d.m. 27 maggio 2004 e d.m. 14 gennaio 2005 riguardo alla zona di mungitura o alla provenienza nazionale o comunitaria), per la carne avicola fresca (pollo, tacchino, faraona, anatra e oca) e i prodotti contenenti carni avicole fresche non sottoposti a trattamento termico importati da Paesi terzi (ordinanza Ministero della Salute 26/8/05 e successive modifiche, in vigore fino al 31/12/2012) e per la passata di pomodoro, la cui denominazione è vincolata all’utilizzo di pomodoro fresco, con l’indicazione della zona di coltivazione, e ai requisiti elencati nel d.m. 23 settembre 2005. A consolidare le scelte di avanguardia sull’indicazione di origine in etichetta per tutti gli alimenti, già intraprese con la legge 204/04 che non ha mai avuto attuazione a seguito dei rilievi mossi dall’UE in ordine alla sua legittimità, è intervenuta la legge 3 febbraio 2011, n. 4, che, all’art. 4, detta disposizioni in materia di etichettatura e qualità dei prodotti alimentari. La legge rende obbligatoria per i prodotti alimentari commercializzati, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati l’indicazione in etichetta del luogo di origine o di provenienza del prodotto e ribadisce l’obbligo stabilito dalle norme comunitarie dell’indicazione dell’eventuale utilizzazione di ingredienti in cui vi sia presenza di OGM in qualunque fase della catena alimentare [direttiva 2001/18/CE, regolamenti (CE) n. 1829/03 e n. 1830/03]. In caso di prodotto alimentare non trasformato, il luogo di origine o di provenienza è da intendersi il Paese di produzione, mentre nel caso di prodotto trasformato, l’indicazione comprende il luogo dell’ultima trasformazione sostanziale e quello di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o produzione dei prodotti: ad esempio, nel caso di un sugo di pomodoro, il luogo di origine del pomodoro. Nella relazione che ha accompagnato l’iter del disegno di legge, si ribadisce che la formulazione contenuta in questo nuovo testo di legge è in linea con la direttiva 2000/13/CE, in quanto evidenzia la centralità dell’indicazione dell’origine o della provenienza dei prodotti alimentari; queste indicazioni, infatti, sono ritenute «attributi dell’offerta che consentono al consumatore di poter conoscere le caratteristiche del prodotto» e di poter operare una scelta consapevole dei propri acquisti «senza alcun ostacolo per la libera circolazione delle merci nel mercato comune». Secondo la direttiva 2000/13/CE, l’indicazione del luogo di origine o il luogo di provenienza di un prodotto agro-alimentare deve essere indicato in etichetta nel caso in cui l’omissione possa indurre in errore l’acquirente circa l’origine o la provenienza del prodotto; l’art. 26, par. 2, lett. a) del recente reg. (UE) n. 1169/2011, destinato ad abrogare la direttiva conferma tale disposizione con riguardo al Paese di origine o al luogo di provenienza (cfr. nota 338). La legge 4/2011, in realtà, è una “legge contenitore” che prevede decreti attuativi per ogni prodotto, filiera per filiera, soggetti al parere di legittimità dell’UE, tenuto conto della clausola 83 che il processo di riflessione avviato dal Libro verde della Commissione e le proposte contenute nella successiva Comunicazione che non hanno ancora trovato attuazione, in particolare il riconoscimento giuridico di nuove menzioni quali «prodotto di montagna» e «prodotto tradizionale», portino a una necessaria chiarezza normativa tra requisiti minimi e requisiti di qualità e a definire giuridicamente gli elementi della qualità dei prodotti agro-alimentari e le loro identità con riguardo agli alimenti biologici, tipici e tradizionali. Non sembrano, tuttavia, aver fatto completa chiarezza in tal senso le proposte normative e le Comunicazioni, riunite nel cosiddetto «pacchetto qualità», adottate dalla Commissione Europea nel dicembre 2010, ancorché «finalizzate all’attuazione di una politica in grado di aiutare gli agricoltori a comunicare meglio le qualità e le caratteristiche dei prodotti agricoli ai consumatori finali»224, considerato che gli alimenti europei si caratterizzano per specificità regionale e metodi di produzione tradizionali, unitamente a un altissimo livello di sicurezza (food safety)225. Le misure adottate dalla Commissione con il pacchetto qualità consistono in: 1) una proposta di regolamento sui regimi di qualità dei prodotti agricoli226; dello stand-still (cfr. supra nota 93); tra l’altro, nei mesi precedenti alla sua approvazione la Commissione Europea aveva invitato l’Italia a soprassedere alla sua applicazione, in attesa dell’entrata in vigore di un regolamento comunitario in materia, dal momento che il reg. (UE) n. 1169/11 relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori non era stato ancora approvato (cfr. supra nota 221). Sul punto: ALBISINNI, Il made in Italy dei prodotti alimentari e gli incerti tentativi del legislatore italiano, in Agriregionieuropa, 2011, 25, pp. 43-49. Nel frattempo, allo scopo di rendere maggiormente comprensibili le informazioni sull’origine dei prodotti in etichetta, nei casi in cui questa è obbligatoria, il d.m. 3 agosto 2011, n. 5464, ha disposto che tale indicazione sia posta sulla parte frontale della confezione, nello stesso campo visivo della denominazione di vendita, con adeguati caratteri (mediamente superiori a 2 mm.) e in modo indelebile; tale provvedimento, essendo coerente con la deliberazione legislativa adottata a luglio 2011 dal Parlamento Europeo (cfr. supra nota 221), è immediatamente operativo. 224 RAGIONIERI et. al., La proposta legislativa sulla politica europea di qualità: il c.d. «Pacchetto qualità», in COSTATO et. al., a cura di, Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona, op. cit., 2011, p. 323. 225 Secondo la stessa Commissione, infatti, «la normativa UE stabilisce alcuni dei più rigorosi requisiti minimi di produzione del mondo, in materia di igiene e sicurezza degli alimenti, identità e composizione dei prodotti, tutela ambientale, salute degli animali e delle piante e benessere degli animali» (COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli, cit., 2008, p. 5). 226 COMMISSIONE EUROPEA, Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sui regimi di qualità dei prodotti agricoli, Bruxelles, COM (2010) 733 definitivo. La proposta di regolamento, che sostituirà i reg. (CE) n. 510/06 sulle DOP/IGP e il reg. (CE) n. 509/06 sulle STG, incorporando le norme vigenti relative ai termini riservati facoltativi contenuti nel reg. (CE) n. 1234/07 (OCM unica) e nella direttiva 2001/110/CE relativa al 84 2) una proposta di modifica del reg. (CE) n. 1234/07 (OCM unica) riguardo alle norme di commercializzazione dei prodotti agricoli227; 3) linee guida per definire le best practices per lo sviluppo e l’operatività dei sistemi di certificazione relativi ai prodotti agricoli e alimentari228; 4) linee guida per miele, prevede il rafforzamento e la semplificazione del regime di riferimento per le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche (DOP/IGP), la revisione del regime per le specialità tradizionali garantite (STG) e la definizione di un nuovo contesto per le indicazioni facoltative che garantiscono un uso corretto dei riferimenti all’elevata qualità del prodotto quali, ad esempio, «allevamento all’aperto» per uova e pollame o «prima spremitura a freddo» per l’olio di oliva. I principali aspetti di semplificazione contenuti nella proposta, che è stata oggetto di diversi emendamenti, tra cui quello non approvato che prevedeva la fusione in un unico testo dei sistemi di certificazione DOP/IGP e STG, riguardano: il riconoscimento del ruolo e della responsabilità dei gruppi di produttori (associazioni/consorzi) che richiedono la registrazione dei termini, per quanto riguarda la gestione del volume delle produzioni, il monitoraggio, la promozione e la comunicazione dei prodotti; l’abbreviazione delle procedure (da 12 a 6 mesi per l’esame della domanda di registrazione dei prodotti); i chiarimenti introdotti sui diritti di proprietà intellettuale riguardo a imitazioni, usurpazioni ed evocazioni (per la prima volta si fa espressamente riferimento in uno strumento normativo all’esigenza «di garantire il rispetto uniforme nell’intera UE dei diritti di proprietà intellettuale connessi alle denominazioni protette nell’Unione») con l’introduzione della protezione ex-officio che riconosce agli Stati membri l’obbligo di mettere in atto adeguate azioni amministrative e giuridiche al fine di prevenire o fermare l’uso improprio delle denominazioni; la semplificazione delle definizioni da sottoporre ai consumatori, in particolare per le STG (con aumento del criterio della “tradizionalità” da 25 a 50 anni - che resta di 25 anni per prodotti e ricette antichi ripresi, però, di recente - e la possibilità di estendere la STG anche ai prodotti non trasformati); un unico Comitato per la politica di qualità in sostituzione dei due attualmente operativi per le DOP/IGP e per le STG (Sul punto: RAGIONIERI et. al., op. cit., 2011, pp. 323-328). Il progetto di relazione Garcia-Perez sulla proposta di regolamento, che richiede ancora un lavoro negoziale, è stato approvato a larghissima maggioranza dalla Commissione Agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo il 21 giugno 2011; in esso è stato inserito un nuovo emendamento che consente alle denominazioni STG registrate senza riserva del nome in base all’attuale quadro normativo, la possibilità di modifica della denominazione con un nome suscettibile di registrazione e il successivo inserimento nel nuovo registro comunitario (EUROPEAN PARLIAMENT, Food quality labels: simpler rules for farmers, more clarity for customers, Press release, 21 giugno 2011). 227 COMMISSIONE EUROPEA, Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n. 1234/2007 del Consiglio in ordine alle norme di commercializzazione, Bruxelles, COM (2010) 738 definitivo. Sulla base della proposta di modifica del regolamento sull’OCM unica per il riconoscimento degli standard di mercato a livello internazionale, volta a semplificare l’adozione, da parte della Commissione, delle norme di commercializzazione, verrà introdotta per tutti i settori una base legale per l’etichettatura obbligatoria del luogo di produzione. In tal modo la Commissione potrà adottare, a seguito di adeguate valutazioni d’impatto e dunque dei vincoli pratici legati ad alimenti specifici, gli atti delegati necessari (conformemente al Trattato di Lisbona, cfr. nota 364) riguardanti la possibilità di rendere obbligatoria sull’etichetta l’indicazione del luogo di produzione al livello geografico più appropriato per soddisfare la domanda di trasparenza e informazione dei consumatori, valutando ciascuna situazione caso per caso (uno dei primi settori ad essere esaminati sarà il lattiero-caseario); inoltre, saranno mantenute le indicazioni di origine obbligatorie per quei settori dove queste già esistono (cfr. infra note 221e 223). Il testo della proposta, relativamente alle norme di commercializzazione, è stato ripreso nella proposta legislativa sull’OCM unica relativa alla PAC per il periodo 2014-2020 (cfr. supra nota 139). 228 COMMISSIONE EUROPEA, Orientamenti UE sulle migliori pratiche riguardo ai regimi facoltativi di certificazione per i prodotti agricoli e alimentari, (2010/C 341/04) del 16.12.2010. Si tratta di nuovi orientamenti della Commissione sul funzionamento dei regimi 85 l’etichettatura degli alimenti che contengono prodotti DOP e IGP tra i loro ingredienti229. La Commissione ritiene che attraverso le misure del pacchetto qualità «gli agricoltori saranno in grado di fornire agli acquirenti maggiori informazioni sulle caratteristiche dei loro prodotti e dovrebbero poter contare su prezzi più adeguati, [mentre gli operatori del] settore agro-alimentare, i dettaglianti e i consumatori potranno identificare più agevolmente le caratteristiche e la qualità dei prodotti e fare scelte più consapevoli»230. A tal fine, il pacchetto qualità definisce una politica globale in termini di: a) regimi nazionali e privati di certificazioni per semplificarli, senza peraltro interessare i prodotti biologici o delle regioni ultraperiferiche231, né i sistemi di indicazione geografica per vini, alcol e vini aromatici [reg. (CEE) n. 1601/91 e successive modifiche e integrazioni] e bevande spiritose [reg. (CE) n. 110/2008]; b) indicazioni che facoltativi di certificazione dei prodotti agricoli e alimentari, volti a evidenziare le migliori pratiche relative al loro funzionamento. 229 COMMISSIONE EUROPEA, Orientamenti sull’etichettatura dei prodotti alimentari che utilizzano come ingredienti prodotti a denominazione di origine protetta (DOP) o a indicazione geografica protetta (IGP), (2010/C 341/03) del 16.12.2010. Si tratta di nuovi orientamenti non vincolanti, destinati ai produttori, che forniscono l’interpretazione della Commissione in merito alle norme attualmente vigenti. L’uso di ingredienti a denominazione protetta è disciplinato, in Italia, dal d. lgs 297/04 in base al quale l’operatore che intenda evidenziare in etichetta o nella pubblicità un ingrediente DOP o IGP è soggetto alla richiesta dell’autorizzazione al Consorzio di tutela riconosciuto o, se questo non esiste, al MIPAAF. 230 COMMISSIONE EUROPEA, Proposta dell’UE sui regimi di qualità dei prodotti agricoli. Sintesi per i cittadini, 2010. 231 Le regioni ultraperiferiche (RUP) sono rappresentate da quattro dipartimenti - Martinica, Guadalupa, Guyana e Riunione - e due collettività - Saint-Barthélemy e Saint-Martin - francesi d’oltremare, dalla Comunità autonoma spagnola delle isole Canarie e dalle regioni autonome portoghesi delle Azzorre e di Madera. Le RUP, a differenza dei Paesi e dei territori d’oltremare, sono parte integrante dell’Unione Europea e formano oggetto di una dichiarazione allegata al Trattato CE, a seguito del Trattato di Amsterdam, e possono beneficiare di misure specifiche in virtù dell’attuale art. 349 del TFUE (ex art. 299 TCE), tenuto conto delle loro particolari caratteristiche e del loro ritardo strutturale. Il reg. (CE) n. 247/06, che reca misure specifiche nel settore dell’agricoltura a favore delle RUP, ha istituito un simbolo grafico specifico, controllato da un’autorità competente, che permette al consumatore di identificare e riconoscere i prodotti agricoli di qualità provenienti dalle RUP (http://ec.europa.eu/regional_policy/themes/outermost/index_it.htm). «Se per qualità si intende un ulteriore pregio del prodotto (cioè oltre il rispetto delle regole di igiene e di sicurezza alimentare) e se tale pregio si ricollega di per sé al territorio di cui il prodotto porta il nome, i prodotti ad indicazione geografica [delle RUP] hanno già la possibilità di fregiarsi del logo DOP o IGP […] sicchè non c’è bisogno di ulteriormente differenziare i loro prodotti dai prodotti del resto dell’Unione, sotto il profilo della qualità derivata dal legame prodotto/territorio. Il punto, allora, non è il segno, il nome, il logo, la disciplina. Il punto è che occorre promuovere, con politiche informative, le produzioni di queste regioni svantagggiate dall’insularità e dalla lontananza dalla patria continentale» e comunicare ai cittadini degli Stati diversi da Francia, Spagna e Portogallo che le RUP sono parte del territorio dell’UE (GERMANÒ, Il libro verde della Commissione Europea, cit., 2008, pp. 495-496). 86 conferiscono valore aggiunto alle caratteristiche dei prodotti agricoli 232; c) norme di commercializzazione233, con la competenza, da parte della Commissione, di estendere l’obbligo dell’indicazione in etichetta del luogo di produzione, in funzione delle specificità di ciascun settore agricolo e delle esigenze di trasparenza dei consumatori. Proprio riguardo alle norme di commercializzazione, un emendamento alla proposta di modifica del reg. (CE) n. 1234/07 (OCM unica), prevede, all’art. 114 b, uno standard generale di commercializzazione obbligatorio per tutti i prodotti elencati nell’allegato I del TFUE per i quali non sia stabilito uno standard specifico: un prodotto rispetta lo standard generale se soddisfa il requisito minimo di essere «sano, giusto e commercializzabile», richiamando in tale articolo l’elemento giuridico del pre-requisito che conferisce al prodotto agricolo (e agro-alimentare) una qualità «sana, leale e mercantile» per poter liberamente circolare nel mercato interno europeo e, dunque, rappresenta «una condizione imprescindibile per la vendita al consumatore»234. Tale prerequisito discende, come osservato nel precedente paragrafo 4 di questo capitolo, dalla lettura congiunta delle vigenti norme di commercializzazione, del reg. (CE) n. 450/2008 relativo al Codice doganale comunitario aggiornato e del Libro verde sulla qualità del 2008. 232 Un emendamento alla proposta di regolamento sui regimi di qualità dei prodotti agricoli [COM (2010) 733], riguardo ai termini riservati facoltativi, che non hanno subìto modifiche nel contenuto ma solo un adattamento per renderli conformi alle previsioni del TFUE, prevedeva il termine «prodotti di agricoltura di montagna» per i prodotti composti da materie prime originarie di aree di montagna e per i quali tutte le fasi di trasformazione sono avvenute in aree di montagna (RAGIONIERI et. al., op. cit., 2011, p. 326). L’emendamento, cancellato e poi reintrodotto nel progetto di relazione Garcia-Perez approvato il 21 giugno 2011, prevede la possibilità per gli Stati membri di introdurre su base volontaria il termine «prodotto di montagna», riservato ai prodotti provenienti dalle aree come definite dall’art. 18 del reg. (CE) n. 1257/99 ma con possibilità di deroghe da parte della Commissione in casi motivati (es. caseificio a fondo valle per latte di alta montagna); la Commissione Europea, inoltre, dovrà presentare uno studio di impatto riguardo la creazione di un altro termine facoltativo «prodotto dell’agricoltura insulare» - entro il 30 settembre 2012 (EUROPEAN PARLIAMENT, Food quality labels, op. cit., 2011). 233 Un altro emendamento alla proposta di regolamento sui regimi di qualità dei prodotti agricoli [COM (2010) 733], approvato il 21 giugno 2011, prevede che gli Stati membri rendano operativo un insieme di regole sulla commercializzazione e vendita diretta per assistere gli agricoltori in queste attività, attraverso un logo comune e un sistema di identificazione «prodotto della mia azienda agricola» per i prodotti tipici (RAGIONIERI et. al., op. cit., 2011, p. 326). La Commissione Europea presenterà una valutazione di impatto sull’opportunità di istituire questo nuovo regime di etichettatura relativo all’agricoltura locale e alla vendita diretta entro il 30 settembre 2012. 234 Ibidem, 2011. 87 I requisiti minimi dei prodotti agro-alimentari - ovvero i requisiti di igiene e sicurezza [come definiti e disciplinati dal reg. (CE) n. 178/02 e dalle norme del pacchetto igiene]235 e i requisiti identitari del prodotto disciplinati da norme merceologiche e mercantili (caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e organolettiche) - rappresentano, come si è avuto modo di evidenziare nelle pagine precedenti, una certezza ex lege, oltre ad essere considerati pre-requisiti dagli stessi consumatori. «Nel momento in cui il consumatore acquista un prodotto [agro-alimentare] dà per certo che questi requisiti siano soddisfatti, che non ci sia frode e che essendo un prodotto sano abbia determinate caratteristiche nutrizionali»236. A questi pre-requisiti si aggiungono specifici requisiti di produzione che gli agricoltori dell’UE sono tenuti a rispettare, come quelli attinenti alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali, all’uso di pesticidi e di prodotti veterinari (c.d. baseline standards): tutti i prodotti agricoli circolanti nel mercato interno europeo devono possedere i pre-requisiti e i baseline standars237. I requisiti di qualità, pertanto, sono requisiti ulteriori che il prodotto agricolo e agro-alimentare può eventualmente possedere, ma non è necessario che abbia, tali da conferire “pregio” al prodotto (cosa, come, dove è stato prodotto), in grado di soddisfare le aspettative dei consumatori, espresse e implicite (organolettiche, sensoriali, estetiche, intellettuali, culturali, etiche, ecc.). Alcuni di questi requisiti, come accennato, sono stati “istituzionalizzati” 235 Cfr. infra paragrafo 3 e ivi nota 111. PERI, Dalla qualità all’eccellenza dell’olio di oliva, lettura all’Accademia dei Georgofili, Firenze, 14 febbraio 2008. Al riguardo, GERMANÒ, Il libro verde, cit., 2008, p. 481, puntualizza: «il grado delle prestazioni nutrizionali del prodotto, ovvero la quantità maggiore o minore di valore proteico, vitaminico, calorico che occorre sempre segnalare in etichetta non esprime una vera e propria qualità, perché non indica qualcosa in più dell’essere stesso dell’alimento, di quel determinato e specifico alimento preso in considerazione». 237 L’Impact assessment report for a communication on agricultural product quality policy della Commissione (cfr. infra nota 214) nell’elencare i baseline standards, ovverosia i requisiti minimi pretesi dalla produzione dei prodotti agricoli (i farming requirements), include, oltre alle regole di igiene e sanità («hygiene and safety») a cui i produttori sono obbligati, anche le regole relative a «animal nutrition rules laying down in particolar prohibited materials; animal welfare and transport; plant health rules; animal rules regulating the use of veterinary drugs; environmental compliance to protect biodiversity, water quality, and soil». Si tratta di requisiti che, a parte quelli relativi al corretto trasporto degli animali e al rispetto dell’ambiente, possono annoverarsi nell’ampia categoria dei requisiti di igiene e sicurezza degli alimenti (GERMANÒ, La qualità dei prodotti agro-alimentari, cit., 2009, pp. 368-369). 236 88 con regole tecniche (vini di origine e qualità specifica, DOP/IGP, STG, prodotti biologici), altri, invece, seguono le norme tecniche e le regole del mercato (norme UNI EN ISO, marchi collettivi, private labels), purché misurabili e quindi assoggettati ad un adeguato sistema di controllo e certificazione da parte di soggetti terzi 238. Nel caso degli alimenti biologici, più dimensioni contribuiscono a definirne le caratteristiche qualitative che il consumatore associa, come accennato, al metodo naturale di produzione, alla valenza ambientale, all’assenza di residui di sostanze nocive e di OGM e, nel prodotto trasformato, all’assenza di coloranti e conservanti; la fiducia dei consumatori nei cibi biologici è rafforzata dal fatto che questi prodotti sottostanno a uno specifico quadro giuridico che, da venti anni, ne disciplina il metodo di produzione, la loro etichettatura e il loro controllo. Ciò nondimeno, il consumatore percepisce la qualità di un prodotto alimentare agricolo, industriale, tipico o biologico che sia, attraverso: l’informazione esterna (etichettatura, pubblicità); i «segnali di qualità» (quality cues)239, ovvero indicatori intrinseci (gusto, aspetto, salubrità) e indicatori estrinseci in grado di “comunicare” (segni distintivi, origine dei prodotti, marca); gli elementi attrattivi, come la convenience (rapporto qualità attesa/prezzo) e il servizio (conservabilità, facilità d’uso, ecc.). Come si vedrà nel prossimo capitolo, i segni distintivi “istituzionali” dei prodotti agro-alimentari biologici e le modalità della loro indicazione (termini, etichettatura, logo europeo) svolgono il ruolo “pubblico” di garantire al consumatore le caratteristiche, i pregi, la qualità e la specifica identità dei prodotti che acquista e consuma; mentre il ruolo “privato” delle marche commerciali e del marketing, chiaramente volto a “costruire” la notorietà e la 238 «I sistemi di certificazione nell’UE vanno dal rispetto di norme di produzione obbligatorie all’osservanza di ulteriori prescrizioni relative alla tutela ambientale, al benessere degli animali, alle qualità organolettiche, alla tutela dei lavoratori, al commercio equo e solidale, alle implicazioni dei cambiamenti climatici, a considerazioni etiche, religiose o culturali, ai metodi di produzione e all’origine. [Così,] l’industria alimentare e i dettaglianti di generi alimentari possono basarsi sulla qualità certificata per suscitare maggiore fiducia riguardo i prodotti offerti» (COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Libro verde sulla qualità, cit., 2008, p. 19). 239 Sull’argomento: GRUNERT, Food quality and safety: consumer perception and demand, in European Review of Agricultural Economics, 2005, 32 (3), pp. 369-391; STEFANI et al., Consumer Expectations, liking and willingness to pay for specialty foods: do sensory characteristics tell the whole story?, in Food Quality and Preference, 2006, 17, pp. 53-62. 89 reputazione del prodotto sul mercato, a fidelizzare o disaffezionare il consumatore sulla base di esigenze espresse o implicite, momentanee o durature, è fortemente ridotto a strumento di distinzione tra prodotti simili dal punto di vista dell’aspetto visivo ed è informativo non tanto della qualità quanto di attributi di tipo credence, ovvero difficili da accertare240. 240 NASPETTI e ZANOLI, Il ruolo dei contrassegni di qualità nella costruzione della fiducia del consumatore: il caso dei prodotti biologici, in BASILE e CECCHI, Diritto all’alimentazione agricoltura e sviluppo, Atti del XLI convegno di studi SIEA, Roma, p. 325. 90 Capitolo II LA GARANZIA DEI REQUISITI DI SICUREZZA E QUALITÀ DEI PRODOTTI AGRO-ALIMENTARI BIOLOGICI: I SEGNI DISTINTIVI DELL’UNIONE EUROPEA SOMMARIO: 1. L’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti biologici: la comunicazione delle informazioni e la tutela del consumatori. - 1.1. L’etichetta quale strumento della sicurezza degli alimenti e mezzo di comunicazione della qualità dei prodotti biologici. - 2. Il logo di produzione biologica dell’Unione Europea (c.d. «Eurofoglia»): garanzia di origine, natura e qualità degli alimenti biologici? - 3. Il controllo e la certificazione dei prodotti biologici. 1. L’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti biologici: la comunicazione delle informazioni e la tutela del consumatore Il disegno della disciplina comunitaria in tema di etichettatura degli alimenti è tratteggiato, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, dal principio del mutuo riconoscimento adottato dalla Corte di giustizia con la sentenza Cassis de Dijon «quale strumento di affermazione di un autentico mercato comune»241 e prende forma con le misure adottate dal Consiglio per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia, colorandosi di un’ampia serie di disposizioni sia di carattere generale (normative orizzontali), sia di carattere specifico per classi di prodotto (normative verticali)242. 241 ALBISINNI, Le norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari, in COSTATO, diretto da, Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, cit., 2003, p. 635. 242 Cfr. capitolo I, paragrafo 1. 91 Sin dai primi interventi comunitari in materia di «etichettatura»243, conseguenza dell’apertura dei mercati e della crescente circolazione di alimenti 243 Le norme orizzontali in materia di etichettatura risalgono alla direttiva 77/94/CEE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti i prodotti alimentari destinati a un’alimentazione particolare e alla successiva direttiva 79/112/CEE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità. La direttiva 79/112/CEE si applicava esclusivamente ai prodotti alimentari in imballaggi preconfezionati, mentre per i prodotti alimentari venduti sfusi veniva lasciata agli Stati membri «la facoltà di fissare, tenuto conto delle condizioni locali e delle circostanze pratiche, le modalità di etichettatura»; con la direttiva 89/395/CEE la disciplina è stata estesa anche ai prodotti destinati alla collettività, quali ristoranti, mense e ospedali. La direttiva 2000/13/CE, che ha codificato le modifiche avvenute negli anni in materia di etichettatura ed ha abrogato la precedente direttiva del ’79, ne conserva la ratio (informazione chiara e trasparente), definisce all’art. 1 l’«etichettatura» («le menzioni, indicazioni, marchi di fabbrica o di commercio, immagini o simboli [che si riferiscono] ad un prodotto alimentare e figuranti su qualsiasi imballaggio, documento, cartello, etichetta, anello o fascetta che accompagni tale prodotto alimentare o che ad esso si riferisca») e ne ricalca l’art. 2 con lo stesso disposto: «l’etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono: a) essere tali da indurre in errore l’acquirente, specialmente: i) per quanto riguarda le caratteristiche del prodotto alimentare e in particolare la natura, l’identità, le qualità, la composizione, la quantità, la conservazione, l’origine o la provenienza, il modo di fabbricazione o di ottenimento, ii) attribuendo al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede, iii) suggerendogli che il prodotto alimentare possiede caratteristiche particolari, quando tutti i prodotti alimentari analoghi possiedono caratteristiche identiche; b) fatte salve le disposizioni comunitarie applicabili alle acque minerali naturali e ai prodotti alimentari destinati ad un’alimentazione particolare, attribuire al prodotto alimentare proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana né accennare a tali proprietà». Il nuovo reg. (UE) n. 1169/11 relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori (cfr. supra nota 221 e infra nota 266) che il 13 dicembre 2014 abrogherà la direttiva 2000/13/CE distingue tra «etichetta» (qualunque marchio commerciale o di fabbrica, segno, immagine o altra rappresentazione grafica scritto, stampato, stampigliato, marchiato, impresso in rilievo o a impronta sull’imballaggio o sul contenitore di un alimento o che accompagna detto imballaggio o contenitore) ed «etichettatura» (qualunque menzione, indicazione, marchio di fabbrica o commerciale, immagine o simbolo che si riferisce a un alimento e che figura su qualunque imballaggio, documento, avviso, etichetta, nastro o fascetta che accompagna o si riferisce a tale alimento). Il regolamento, all’art. 7, rubricato «Pratiche leali d’informazione», riprende e amplia l’art. 2 della direttiva 2000/13/CE disponendo che le informazioni sugli alimenti e nella loro pubblicità e presentazione (forma, aspetto o imballaggio, materiale d’imballaggio utilizzato, modo in cui sono disposti o contesto nel quale sono esposti) «sono precise, chiare e facilmente comprensibili per il consumatore» e «non inducono in errore, in particolare: a) per quanto riguarda le caratteristiche dell’alimento e, in particolare, la natura, l’identità, le proprietà, la composizione, la quantità, la durata di conservazione, il paese d’origine o il luogo di provenienza, il metodo di fabbricazione o di produzione; b) attribuendo al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede; c) suggerendo che l’alimento possiede caratteristiche particolari, quando in realtà tutti gli alimenti analoghi possiedono le stesse caratteristiche, in particolare evidenziando in modo esplicito la presenza o l’assenza di determinati ingredienti e/o sostanze nutritive; d) suggerendo, tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare alimento o di un ingrediente, mentre di fatto un componente naturalmente presente o un ingrediente normalmente utilizzato in tale alimento è stato sostituito con un diverso componente o un diverso ingrediente. […] Fatte salve le deroghe previste dalla legislazione dell’Unione in materia di acque minerali naturali e alimenti destinati a un particolare utilizzo nutrizionale, le informazioni sugli alimenti non attribuiscono a tali prodotti la proprietà di prevenire, trattare o guarire una malattia umana, né fanno riferimento a tali proprietà». Nel corso degli anni, norme specifiche sono state dettate per: data di scadenza; 92 aventi caratteristiche differenti in ragione delle diverse culture nazionali, i consumatori sono individuati come referenti necessari della disciplina, accanto alle imprese del settore, e la «finalità di assicurare un’informazione compiuta e di garantire consapevoli scelte di acquisto [assurge a] canone fondante, accanto a quello inteso a contribuire alla piena affermazione dei principi di concorrenza propri del mercato comune»244. Al contrario, l’ispirazione originaria della normativa nazionale in materia di etichettatura è stata per lungo tempo riducibile all’interno di profili pubblicistici di vigilanza igienico-sanitaria degli alimenti per assicurare al consumatore definite qualità intrinseche del prodotto245, lasciando in secondo piano i profili della leale concorrenza tra produttori e della tutela del consumatore. Piuttosto, le norme per questi ultimi profili si rifacevano, in Italia, oltre che alla legge 283/62, alle generali disposizioni - inerenti lo svolgimento delle attività economiche - in tema di concorrenza, libertà nell’esercizio del commercio o dell’industria, protezione da pratiche fraudolente o tutela dei segni distintivi, nel contesto di precetti di natura penale contenuti nel Codice penale e in leggi speciali246. Nel tempo, l’accresciuta sensibilità verso nuove domande dei consumatori ha spostato l’attenzione dai temi della quantità a quelli della qualità e formule quali «prodotti agricoli di qualità» e «prodotti di nicchia» si sono contrapposte ai bisogni di massa e ai grandi numeri, stemperando il convergere verso la standardizzazione delle caratteristiche degli alimenti e della loro presentazione sul mercato; pur sussistendo, tuttavia, «un’irrisolta contraddizione, quasi che i peso netto; presenza di coloranti, conservanti, edulcoranti e additivi chimici; aggiunta di vitamine e minerali; etichettatura nutrizionale; prodotti alimentari destinati all’infanzia; prodotti dietetici; integratori alimentari. In particolare, la direttiva 2003/89/CE, nota come «direttiva allergeni», ha previsto una più chiara enumerazione in etichetta degli ingredienti contenuti e degli allergeni secondo il criterio della «lista positiva», mentre il reg. (CE) n. 1924/06 vieta frasi ambigue o ingannevoli sulle proprietà curative degli alimenti, sugli effetti per la salute e sui contenuti nutrizionali. Le norme in materia di etichettatura, in Italia, sono state novellate dal d. lgs. 109/92 (che ha abrogato la legge 283/62 - cfr. infra nota 245) successivamente modificato dal d. lgs. 181/03 che recepisce la direttiva 2000/13/CE. Sul punto: GERMANÒ, Corso di diritto agroalimentare, cit., 2007, p. 149 e ss. 244 ALBISINNI, Le norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari, cit., 2003, p. 634. 245 La legge 30 aprile 1962, n. 283 «Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande» agli artt. 8 e 13 dettava analitiche prescrizioni in tema di indicazioni obbligatorie e indicazioni vietate nelle etichette dei prodotti alimentari, ulteriormente specificate dal regolamento di esecuzione (D.P.R. 26 marzo 1980, n. 327). 246 ALBISINNI, op. ult. cit., 2003, pp. 632-633. Cfr. capitolo I, paragrafo 3. 93 prodotti di massa non potessero ambire ad una definizione di peculiari qualità e distinte identità e che viceversa ai prodotti di qualità specifica cui si riconosceva distinta identità fosse però riservato un ambito solo ristretto e confinato»247. A limare questa difficoltà sono intervenuti i regolamenti (CEE) n. 2081/92 e n. 2082/92 relativi, rispettivamente, ai prodotti DOP/IGP e AS 248, e il regolamento (CEE) n. 2092/91 sui prodotti da agricoltura biologica249, dettando disposizioni che hanno investito congiuntamente le caratteristiche intrinseche dei prodotti e dei metodi di produzione e la loro etichettatura e presentazione sul mercato250. Nel corso degli anni, accanto alle regole di eccezione di questi regolamenti, applicabili a ristrette categorie di prodotti, si sono affermati modelli di regolazione «che puntano a fare della qualità e dell’identità dei prodotti alimentari una caratteristica dichiarata e verificabile anche dei prodotti di massa e che privilegiano l’etichettatura quale momento centrale di una più ampia disciplina così finalisticamente orientata»251. Tali modelli, ovviamente, assumono portata orizzontale per tutti gli alimenti immessi in commercio. L’evoluzione dell’interesse dei consumatori verso la salubrità degli alimenti - dettata anche da esigenze salutistiche e da nuovi modelli alimentari e l’orientamento verso un’agricoltura più sostenibile e una migliore qualità della vita, hanno indotto la Commissione Europea a definire un nuovo quadro giuridico del settore alimentare e a considerare la sicurezza alimentare una priorità strategica, soprattutto in seguito alle significative emergenze sanitarie e alimentari che hanno segnato l’ultimo scorcio del secolo scorso e il passaggio al nuovo millennio. A complemento delle misure poste in essere in materia di igiene e sicurezza sanitaria, la politica di informazione e promozione dei prodotti agricoli - che dagli anni ’80 si è progressivamente estesa alla maggior parte dei prodotti agricoli e agro-alimentari di prima trasformazione - si è dimostrata efficace nel sostenere gli sforzi compiuti dai produttori dell’UE per 247 Ibidem, p. 635. Cfr. supra nota 39. 249 Cfr. capitolo I, paragrafo 2. 250 ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, cit., 2003, pp. 734-735. 251 ALBISINNI, op. ult. cit., 2003, p. 636. 248 94 riconquistare negli anni Duemila la fiducia dei consumatori, creando un ambiente favorevole all’apertura di nuovi mercati per prodotti come l’olio d’oliva e contribuendo al successo dei regimi europei di qualità (DOP/IGP, STG, agricoltura biologica)252. La politica comunitaria per la sicurezza alimentare, come ampiamente descritto nel precedente capitolo, è quella di assicurare un livello elevato di tutela della salute umana e degli interessi dei consumatori in relazione agli alimenti, attraverso l’applicazione di sistemi di garanzia, di comunicazione, di osservazione, di vigilanza connessi alle tecniche produttive e alla conoscenza del prodotto alimentare. L’aspetto più strettamente economico della libera circolazione degli alimenti è stato posto in secondo piano quando la General Food Law ha identificato il consumatore non solo in una figura da tutelare nell’approccio globale, integrato e scientifico dell’intera catena alimentare «dai campi alla tavola», ma nel destinatario di tutte le informazioni relative alle problematiche alimentari, rendendolo parte consapevole e attiva, se non centrale, del “sistema sicurezza”253. In tal senso, fatte salve le disposizioni più specifiche della legislazione alimentare, l’art. 16 del reg. (CE) n. 178/02, rubricato «Presentazione», riprendendo il dettato della direttiva 2000/13/CE (art. 2.1), ribadisce che: «l’etichettatura, la pubblicità e la presentazione degli alimenti o mangimi, compresi la loro forma, il loro aspetto o confezionamento, i materiali di confezionamento usati, il modo in cui gli alimenti o mangimi sono disposti, il contesto in cui sono esposti e le informazioni rese disponibili su di essi attraverso qualsiasi mezzo, non devono trarre in inganno i consumatori». Tenuto conto che il ruolo della comunicazione sarà ulteriormente rafforzato a seguito dell’applicazione, nei prossimi anni, del reg. (UE) n. 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori che adegua la disciplina dell’etichettatura ai precetti in materia di sicurezza alimentare contenuti nella General Food Law e che abrogherà la direttiva il 13 dicembre 252 COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde. Politica di informazione e promozione dei prodotti agricoli, cit., 2011, p. 3. 253 INEA, Annuario dell’agricoltura italiana, Napoli, 2003, p. 128. 95 2014, si comprende la valenza di questo articolo, il cui dettato è ripreso e ampliato del reg. (UE) n. 1169/11 nell’art. 7, rubricato «Pratiche leali d’informazione». Secondo l’art. 3 del nuovo regolamento, infatti, la fornitura di informazioni sugli alimenti non solo intende stabilire nell’Unione le condizioni per la libera circolazione degli alimenti ma tende a un livello elevato di protezione della salute e degli interessi dei consumatori, con l’obiettivo di fornire ai consumatori finali le basi per effettuare scelte consapevoli e per utilizzare gli alimenti in modo sicuro, nel rispetto di considerazioni sanitarie, ma anche economiche, ambientali, sociali ed etiche; in tal senso, altro principio cardine delle informazioni sugli alimenti - che rafforza il ruolo di parte consapevole e attiva del consumatore ad esso assegnato dalla General Food Law - è la consultazione dei cittadini e delle parti interessate, direttamente o attraverso organi rappresentativi, nel corso dell’elaborazione, valutazione e revisione della legislazione alimentare. D’altra parte, è chiaro che «i consumatori vorrebbero norme che li garantiscano di un’informazione che permetta loro scelte razionali e libere, e norme che, sancendo la responsabilità dei produttori ed offerenti degli alimenti, siano idonee a prevenire e sanzionare comportamenti lesivi della loro fiducia»254. Occorre, peraltro, ricordare che proprio i messaggi pubblicitari 255, nonché la presentazione e, in particolare, il packaging di un prodotto, giocano un ruolo fondamentale nell’influenzare la scelta dell’acquirente, concorrendo in modo speciale a creare il bisogno o il desiderio, e rappresentano, pertanto, un elemento di forte competitività sul quale si concentrano le politiche di marketing dei prodotti alimentari. Ma se le strategie di pubblicità e presentazione «sono volte ad accompagnare il nome dell’alimento con disegni e immagini che suggeriscano un’idea di qualità o di provenienza da luoghi 254 GERMANÒ, Il diritto dell’alimentazione tra imprenditori e consumatori che chiedono e legislatori e giudici che rispondono, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell’ambiente, 2007, 11, p. 656. 255 Riguardo ai messaggi pubblicitari si rimanda alla direttiva 2006/114/CE concernente la pubblicità ingannevole e comparativa e successive modifiche e integrazioni (cfr. nota 131), che all’art. 2, lettera a), definisce «pubblicità: qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere la fornitura di beni o servizi, compresi i beni immobili, i diritti e gli obblighi». 96 famosi per quella determinata produzione»256, nonché a «realizzare forme e dimensioni della confezione, scegliere colori, studiare immagini, utilizzare materiali […], “posizionare” indicazioni (denominazione di vendita, modalità d’uso, di conservazione, di shelf life, di ingredienti) e inventare claims suggestivi, [allo stesso tempo esse riescono anche a] concentrare sulla faccia principale della confezione […] tutti gli artifici grafici e lessicali possibili ad illustrazione di qualità e caratteristiche che solo un attento […] censore è in grado di dimostrare in netta contraddizione con quanto riportato in ridottissima evidenza sul retro e/o sulle fasce laterali»257. Nel corso degli anni, poi, è profondamente cambiato il quadro a livello nazionale che, se da un lato è caratterizzato da nuovi soggetti regolatori, i quali, come si è avuto modo di vedere nel capitolo precedente, si pongono accanto alle tradizionali autorità statali - la Comunità Europea in primis, il WTO, l’Autorità competente alla repressione delle pratiche commerciali scorrette, le organizzazioni internazionali come il Codex Alimentarius - dall’altro, sconta la perdita di relazione diretta tra produttore e consumatore di alimenti per effetto dello sviluppo della distribuzione verso forme moderne e avanzate con conseguenti nuove tendenze nel comportamento di acquisto dei consumatori258. In tal senso, l’etichettatura degli alimenti «è diventata momento decisivo e totalizzante per una comunicazione sul prodotto e sul produttore che in passato transitava attraverso occasioni di diretta valutazione del prodotto non confezionato e utilizzava la personale e individualizzata conoscenza del produttore e del venditore, oggi confinate in una dimensione di eccezione»259, seppure tale dimensione si stia pian piano dilatando attraverso le micro-filiere aziendali ed altre esperienze di filiera corta260, come i mercati contadini o farmer’s markets261. 256 GERMANÒ, Il mercato alimentare e la comunicazione nei contratti di cessione dei prodotti, in Rivista di diritto agrario, 2009, fasc. 1, p. 147. 257 NERI, Etichettatura, presentazione, pubblicità dei prodotti alimentari nel decreto leg.vo 109/92. Il trinomio deve essere applicato in funzione univoca, in Rivista di diritto alimentare, 2008, n. 4, pp. 23-24. 258 CENSIS e COLDIRETTI, op. cit., 2010. 259 ALBISINNI, Le norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari, cit., 2003, p. 633. 260 La filiera corta, o circuito breve, è concepita, in Italia, come un insieme di attività che prevedono un rapporto diretto tra produttore e consumatore, singolo o associato, che accorcia il numero degli intermediari commerciali e tende a far diminuire il prezzo finale del prodotto; 97 L’etichettatura, dunque, si configura in una dichiarazione al pubblico di caratteristiche, pregi, qualità e specifiche identità che non solo consente al consumatore di fare una scelta consapevole tra più prodotti ma che contribuisce ad attestare la sicurezza del prodotto alimentare, il quale, già per il fatto di essere stato immesso nel mercato alimentare, deve essere sano, sicuro e adatto al consumo umano262. L’etichettatura si inserisce, così, in un meccanismo negoziale per il quale, nel momento della scelta del prodotto e del pagamento del prezzo, il consumatore accetta le clausole contrattuali - che derivano da un’esplicita promessa del produttore e del venditore - contenute nell’etichetta, «la cui completa, esatta e corretta conoscenza delle informazioni è necessaria perché si abbia l’accordo»263. oltre alla classica vendita diretta in azienda, le attività promosse dalla filiera corta possono inserirsi in vari contesti, dai mercati all’aperto o in locali appositamente attrezzati (punti vendita collettivi), agli accordi fra produttori e commercianti, ristoratori, albergatori o con gruppi di acquisto o cooperative di consumo. Il fenomeno dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) in Italia, in particolare, è più che decennale anche se le attività e le finalità sono state definite solo recentemente (legge 244/2007); attraverso i GAS, gruppi di persone, famiglie, parenti, amici e colleghi fanno la spesa insieme, applicando il principio di equità e solidarietà ai propri consumi, estendendolo ai piccoli produttori e fornitori locali, anche mercati all’ingrosso; la scelta degli acquisti avviene sulla base della qualità del prodotto e dell’impatto ambientale, privilegiando cibi locali e stagionali, alimenti da agricoltura biologica o integrata, prodotti del commercio equo e solidale (GIUCA, Il principio di equità e solidarietà applicato agli acquisti: il caso dei GAS, in BRIAMONTE e GIUCA, a cura di, op. cit., Roma, 2010, pp. 74-80). Recenti realtà di filiera corta sono la raccolta dei prodotti direttamente nei campi (pick up your own), le consegne a domicilio, l’e-commerce e i distributori automatici. Per una disamina delle varie tipologie di vendita diretta disciplinate dalla legislazione italiana vigente: ALABRESE, La vendita diretta dei prodotti agricoli, in Rivista di diritto alimentare, 2008, 3, pp. 3-7; ALBISINNI, La vendita diretta dei prodotti agricoli, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., vol. I, 2011, pp. 263-294. 261 Si tratta di spazi pubblici esclusivamente riservati ai produttori agricoli (con esclusione degli ambulanti che sono, invece, commercianti che gestiscono banchi di vendita di alimenti o altri prodotti non alimentari nei mercati rionali) per la vendita diretta, anche di prodotti biologici, che le Regioni e i Comuni (che li autorizzano) possono sostenere - ai sensi del d. lgs. 228/2001 e del d.m. 20 novembre 2007 - tramite campagne di comunicazione e contributi economici. Le Regioni, inoltre, possono assegnare contributi per i Comuni che utilizzano i prodotti biologici dei farmer’s markets per le mense scolastiche. Sugli aspetti normativi dei mercati contadini: STRAMBI, I farmers markets e la normativa sull’igiene degli alimenti, in Rivista di diritto alimentare, 2008, 3, pp. 8-14; ALBISINNI, La vendita diretta, cit., vol. I, 2011, pp. 288-292. 262 GERMANÒ, Il mercato alimentare e la comunicazione, cit., 2009, p. 141. Ivi l’A. sottolinea che in base all’art. 14 del reg. (CE) n. 178/02 gli alimenti non possono essere immessi sul mercato se sono dannosi per la salute o inadatti al consumo umano (cfr. anche capitolo I, paragrafo 4). 263 GERMANÒ, Sull’etichetta degli alimenti, cit., 2010, pp. 98-99. Al riguardo, nel reg. (UE) n. 1169/11 relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori (cfr. supra nota 221 e infra nota 266) viene chiarito, tra l’altro, all’art. 8 rubricato «Responsabilità», che l’operatore del settore alimentare responsabile delle informazioni sugli alimenti è «l’operatore con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto o, se tale operatore non è 98 Pertanto, nel «singolo contratto di scambio di prodotti alimentari, che si esprime in un contatto di fatto senza parole parlate ma consistente in due gesti isolati di offerta e di scelta, […] le clausole contrattuali sono esplicitate nell’etichetta»264 e, ancor prima, nella presentazione e nei messaggi pubblicitari dell’alimento acquistato dove «il diritto impone che: a) siano date certe indicazioni; b) che le parole usate abbiano un determinato significato onde l’informazione non sia ambigua, confusoria, decettiva»265. L’indirizzo del legislatore comunitario verso questa direzione può cogliersi nell’attualità del cià citato reg. (UE) n. 1169/11, relativo alla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori, dove all’art. 1, par. 1, si legge che tale regolamento «stabilisce le basi che garantiscono un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti, tenendo conto delle differenze di percezione dei consumatori e delle loro esigenze in materia di informazione, garantendo al tempo stesso il buon funzionamento del mercato interno»266. stabilito nell’Unione, l’importatore nel mercato dell’Unione», il quale deve assicurare «la presenza e l’esattezza delle informazioni sugli alimenti, conformemente alla normativa applicabile in materia di informazioni sugli alimenti e ai requisiti delle pertinenti disposizioni nazionali». L’attribuzione delle responsabilità al «soggetto che commercializza a proprio nome» il prodotto «rischia di complicare notevolmente i rapporti di terziarizzazione totale e, al contempo, impone al fabbricante od al committente un onere di verifica puntuale sul destino dei propri prodotti anche in relazione alla possibile circolazione degli alimenti in Stati che avranno sfruttato le […] implementazioni alla lista delle indicazioni obbligatorie» (RUBINO, Il nuovo regolamento relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori fra novità e conferme, in Eurocarni, 2011, 10, p. 25). 264 GERMANÒ, Sull’etichetta degli alimenti, cit., 2010, p. 99. 265 GERMANÒ, Il mercato alimentare e la comunicazione, cit., 2009, p. 150. «Le dichiarazioni espresse nell’etichetta, nella presentazione e nella pubblicità degli alimenti […] sono, per esplicita disposizione comunitaria (poi trasposta nel nostro codice civile), fonte di integrazione delle clausole del regolamento contrattuale. Più in particolare, l’art. 2, par. 2, lett. d) della direttiva 99/44/CE dettante norme su taluni aspetti della vendita e della garanzia dei beni di consumo, ripreso quasi integralmente dalla lettera c) dell’art. 1519-ter cod. civ. e, poi, dall’art. 129 del Codice del consumo di cui al d.lgs. 206/2005, attribuisce contenuto vincolante al messaggio pubblicitario, disponendo che il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita, tenuto conto, non solo della natura del bene, ma anche “se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura”» (Ibidem). 266 Cfr. supra nota 221 e infra nota 243. Oltre a definire principi, requisiti e responsabilità che disciplinano le informazioni sugli alimenti e, in particolare, l’etichettatura degli alimenti, il reg. (UE) n. 1169/11 «fissa gli strumenti volti a garantire il diritto dei consumatori all’informazione e le procedure per la fornitura di informazioni sugli alimenti, tenendo conto dell’esigenza di prevedere una flessibilità sufficiente in grado di rispondere alle evoluzioni future e ai nuovi requisiti di informazione» (art. 1, par. 2). Il regolamento, ribadendo all’art. 7.2 che «le informazioni sugli alimenti sono precise, chiare e facilmente comprensibili per il 99 consumatore», detta norme per la presentazione degli imballaggi alimentari, riguardo all’aspetto, alla descrizione e alla presentazione grafica, estende l’obbligo dell’indicazione in etichetta del Paese di origine o del luogo di provenienza - tramite atti di esecuzione della Commissione (cfr. nota 364) da adottare entro due anni e previa consultazione dell’EFSA (art. 5) - per carni suine, ovine, caprine e pollame, fresche, refrigerate o congelate, e loro ingredienti primari ed eventualmente, dopo valutazioni di fattibilità, anche per carni utilizzate come ingredienti, carni diverse da quelle già soggette all’obbligo in questione, latte, latte usato quale ingrediente di prodotti lattiero-caseari, alimenti non trasformati, prodotti a base di un unico ingrediente e ingredienti che rappresentano più del 50% di un alimento (art. 26). Il regolamento fornisce maggiori informazioni attraverso l’etichetta e l’imballaggio (art. 13) - aprendo anche alla possibilità di utilizzare in futuro mezzi diversi (art. 12) - per i prodotti alimentari venduti nella UE, riguardo alla leggibilità (art. 13), alla data di congelamento (obbligatoria per carne, preparazioni a base di carne e prodotti non trasformati a base di pesce congelati - allegato III), all’indicazione degli allergeni (in modo chiaro e obbligatoria anche per i prodotti non imballati - artt. 21 e 44), degli ingredienti e dell’aggiunta di acqua (allegato VII) - introducendo la definizione di «nanomateriale ingegnerizzato» ovvero materiale prodotto intenzionalmente e caratterizzato da una o più dimensioni dell’ordine di 100 nm o inferiori (art. 2.2, lettera t - cfr. la raccomandazione 2011/696/UE del 18 ottobre 2011 per la definizione di «nanomateriale») -, dei componenti/ingredienti contenuti in alimenti che imitano altri (ad es. materie vegetali contenute nei «similformaggi» - allegato VI), delle indicazioni obbligatorie che devono accompagnre le denominazioni riguardo allo stato fisico (ad es. «alimento decongelato») o alla preparazione («carni macinate», i cui requisiti entreranno in vigore il 1° gennaio 2014, «carne ricomposta» e «pesce ricomposto», quando la carne e il pesce sono ottenuti dalla combinazione di più parti - allegato VI), dei requisiti specifici e delle dichiarazioni nutrizionali (artt. 29-35). In particolare, l’indicazione del contenuto energetico e delle percentuali di grassi, grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale, deve essere riportato obbligatoriamente, dal 13 dicembre 2016, in una tabella sul retro del prodotto, espresso per 100g o 100ml (e facoltativamente anche in porzioni). In contrapposizione al sistema “a semaforo” (bollino rosso, giallo o verde) per indicare in etichetta l’opportunità o meno, ai fini nutrizionali, di assumere un dato alimento sulla base del contenuto di grassi, zuccheri e sale (ideato nel Regno Unito e sostenuto dai Paesi del Nord Europa) - proposto in un emendamento poi bocciato dal Parlamento -, l’art. 32 ammette l’utilizzo della GDA’s (Guideline Daily Amounts), quantità giornaliere indicative (allegato XIII, parte B), su base volontaria per esprimere in termini percentuali il contributo di una porzione di alimento rispetto ai fabbisogni medi quotidiani, con dovere di precisare che i valori si riferiscono a un adulto medio tramite la dicitura «Assunzioni di riferimento di un adulto medio (8400 kJ/2000 kcal)»; a tal fine viene, tra l’altro, introdotto un apporto medio giornaliero raccomandato per le proteine pari a 50g. La Commissione adotterà, mediante atti di esecuzione (cfr. nota 364), regole sull’espressione per porzione o per unità di consumo per categorie specifiche di alimenti (art. 33.5). Per gli alimenti senza preimballggio offerti in vendita al consumatore finale o alle collettività o imballati sui luoghi di vendita su richiesta dei consumatori o preimballati nei locali attigui alla distribuzione per la vendita diretta, per i quali si applicano solo le indicazioni obbligatorie riguardo agli allergeni, gli Stati membri posso adottare disposizioni che richiedono la fornitura, parziale o totale, delle indicazioni obbligatorie o loro elementi previsti dagli articoli 9 e 10 del regolamento. Al capo VI, rubricato «Disposizioni nazionali», gli artt. 38 e 39 lasciano agli Stati membri la possibilità di adottare disposizioni nazionali concernenti materie non specificamente armonizzate dal regolamento purché non vietino, ostacolino o limitino la libera circolazione delle merci, compresa la discriminazione nei confronti dei prodotti alimentari provenienti da altri Stati membri, nonché ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per esigenze di protezione della salute pubblica, protezione dei consumatori, prevenzione delle frodi o protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni d’origine controllata e repressione della concorrenza sleale. Tale possibilità, tuttavia, «rischia di compromettere gli sforzi di armonizzazione compiuti in oltre trent’anni di legislazione comunitaria orizzontale sull’etichettatura degli alimenti, frammentando il quadro complessivo e creando agli operatori consistenti problemi nella individuazione delle regole vigenti nei diversi mercati dei Paesi UE» (RUBINO, op. cit., 2011, 10, p. 24). Gli Stati membri possono altresì «introdurre disposizioni concernenti l’indicazione 100 La comunicazione, pertanto, non si esaurisce nell’etichetta, ovvero nelle parole e nei segni riportati sull’etichetta, ma si estende alla pubblicità267, sicché l’offerta del bene è anche offerta di dati suggestivi, emotivi e non solo consapevoli; infatti, nonostante le informazioni obbligatorie in etichetta e quelle che non possono mancare, secondo il diritto, nella presentazione degli alimenti, «distorsioni percettive, disposizioni normative di significato fuorviante e il moltiplicarsi delle fonti di comunicazione, fino al limite della saturazione e della conseguente incapacità di memorizzare tutti i dati, possono incidere negativamente sulla comunicazione»268. La pubblicità, in particolare, per «sua natura tendenzialmente massificante, tende progressivamente a far degenerare la comunicazione da momento di incontro di volontà, e cioè da atto dialettico, a prodotto destinato a un consumo immediato e passivo», con il pericolo di veicolare attraverso la pubblicità qualunque tipo di comunicazione anche non commerciale269. Tutto ciò ha accresciuto la consapevolezza del ruolo della comunicazione ma ha anche affinato l’attenzione dei relativi strumenti a tutela del consumatore, attraverso i numerosi interventi di carattere obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza» e forniscano alla Commissione «elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni», sposando in tal senso l’orientamento della Corte di giustizia sulle «indicazioni geografiche qualificate» nella nota sentenza «Budvar» (cfr. capitolo III, paragrafo 1, ivi nota 388). 267 Il reg. (CE) n. 834/07 definisce la pubblicità all’art. 2, lettera m), come: «qualsiasi presentazione al pubblico, con mezzi diversi dall’etichettatura, che intende o potrebbe influenzare e determinare atteggiamenti, convinzioni e comportamenti atti a promuovere direttamente o indirettamente la vendita di prodotti biologici». 268 GERMANÒ, Il mercato alimentare e la comunicazione, cit., 2009, pp. 148-149. Sull’argomento: GHIDINI, Paradossi e lacune dei consumatori, in GERMANÒ e ROOK BASILE, Agricoltura e alimentazione tra diritto, comunicazione e mercato, Milano, 2003, p. 41, ove l’A. evidenzia come certe norme del diritto comunitario o di quello nazionale presentano una potenziale ingannevolezza e cita le ipotesi dei prodotti «affumicati» (che non sono sottoposti ad affumicatura come si potrebbe pensare ma che sono solo «siringati» con un «aroma» di fumo), dei prodotti di «carne» (che, riferendosi alla carne, potrebbero ben essere costituiti anche o soprattutto di grasso, tendini, nervetti, intestini o parti di scarto), del «risotto al tartufo» e degli «amari alle erbe» (in cui è stato immesso, rispettivamente, solo l’aroma del tartufo o l’aroma delle erbe). Cfr. anche DI LAURO, Regole della comunicazione e tutela del consumatore, in Rivista di diritto agrario, 2005, p. 724-740; Id., La comunicazione e la disciplina della pubblicità dei prodotti alimentari, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., 2011, vol. III, pp. 547-578. 269 ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, cit., 2003, p. 730. 101 comunitario e nazionale e gli accordi internazionali rivolti al mercato, alla comunicazione e all’informazione270. Alla forte «asimmetria informativa» presente nel sistema agro- alimentare271, a causa della quale il consumatore non dispone di tutte le informazioni necessarie per distinguere e acquistare il prodotto che risponde meglio alle proprie aspettative, «l’ordinamento reagisce, da un lato, creando le condizioni perché nell’offerta sul mercato dei prodotti alimentari sia assicurata la trasparenza dell’operazione negoziale con riguardo alle informazioni (etichettatura) e alle comunicazioni (pubblicità) provenienti dell’impresa e, dall’altro lato, intervenendo direttamente sull’equilibrio delle posizioni contrattuali»272. Quando, nella conclusione dei contratti di acquisto di beni di consumo alimentare, «al di là del divario informativo dipendente dalla disomogeneità delle posizioni di partenza»273, il confronto tra le parti è del tutto escluso ma «è desumibile soltanto da una valutazione sociale dei comportamenti e del contesto in cui tali comportamenti si sono verificati»274, l’etichettatura soddisfa 270 Ibidem. La condizione di «asimmetria informativa» fra gli agenti economici (per esempio, il venditore dispone di più informazioni del compratore), che va a superare il postulato di informazione perfetta e completa, è alla base del lavoro di George Akerlof, «premio Nobel per l’economia» nel 2001 (insieme a Michael Spence e Joseph E. Stiglitz), il quale ha apportato notevoli cambiamenti nella macroeconomia keynesiana, spiegando molte situazioni della vita reale attraverso fondamenti microeconomici di cui era priva la teoria economica convenzionale. Nell’acquisire informazioni relative agli alimenti tra i molti disponibili sul mercato i consumatori si trovano a dover fronteggiare molti fallimenti di mercato dovuti alla presenza di «asimmetria informativa» e al potere di mercato dei produttori. Si prefigura, pertanto, una situazione nota come «azzardo morale»: le imprese sfruttano la lacunosità delle informazioni per rifilare bidoni («lemons») al consumatore, ovvero vendendo, in assenza di controlli sulla qualità dei loro prodotti, alimenti con un livello qualitativo inferiore a quello segnalato e praticando il prezzo che corrisponde ad una qualità elevata. In tale incertezza, senza la sicurezza che a prezzi più alti corrispondano aumenti proporzionali di qualità offerta, i consumatori tenderanno, nel tempo, ad abbassare le loro aspettative sulla qualità dei prodotti alimentari, riducendo al contempo la loro disponibilità a pagare. Il mercato risulta pertanto influenzato da un meccanismo noto come «selezione avversa» in cui il prezzo medio non remunera sufficientemente la buona qualità, con il risultato che la presenza di prodotti di bassa qualità tende a scacciare dal mercato quelli di buona qualità, pregiudicando l’efficienza del mercato stesso (AKERLOF, The market for “Lemons”: quality uncertainty and the market mechanism, in Quarterly Journal of Economics, 1970, 84 (3), pp. 488-500). 272 MASINI, Appunti sui contratti dell’imprenditore agricolo con il consumatore, in Rivista di diritto alimentare, 2008, n. 2, p. 50. 273 Ibidem. 274 «È quello che […] accade quotidianamente […] nei supermarket, nei grandi magazzini, nei distributori automatici e negli affari conclusi in via telematica. In tutte queste ipotesi l’accordo sulla causa e sull’oggetto si deduce dal contesto entro cui avvengono quegli atti e quei 271 102 il bisogno di informazione dei consumatori in merito al contenuto, al luogo o al metodo affinché questi possano effettuare le loro scelte di acquisto affidandosi a opportuni, quanto basilari, criteri valutativi, e possano fare una comparazione in ordine alla qualità e al prezzo. Anzi, proprio perchè manca il confronto tra le parti, l’etichettatura individua «alcuni standard che ogni prodotto definito dalla propria classe merceologica deve possedere al fine di facilitare la percezione, da parte dell’acquirente, dell’adeguatezza dell’operazione economica»275. La comunicazione delle informazioni, con riguardo al diritto alimentare, assume, pertanto, l’esigenza di assicurare al mercato la simmetria informativa essenziale al suo funzionamento ma anche quella di assolvere interessi riconducibili alla sicurezza degli alimenti, secondo principi di correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali. In tal senso, lo strumento giuridico dell’etichetta, che sarà approfondito nel prossimo paragrafo, non è solo il luogo della comunicazione ma è anche veicolo dell’informazione e strumento di sicurezza degli alimenti276. 1.1. L’etichetta quale strumento della sicurezza degli alimenti e mezzo di comunicazione della qualità dei prodotti biologici Attualmente, accanto alle norme sull’etichettatura applicabili a tutti i prodotti immessi in commercio nel territorio dell’UE - pur riconoscendo ad ogni Stato membro il diritto di definire il grado di tutela della salute e della proprietà industriale e commerciale277 - si pongono quelle relative all’igiene e alla salubrità degli alimenti, agli organismi geneticamente modificati, alle denominazioni di vendita, ai marchi e agli altri segni distintivi, alla pubblicità comportamenti da cui è desumibile la reciproca percezione di due decisioni collimanti. Nel caso del cliente che in un supermarket paghi alla cassa la merce raccolta nel cestello, non vi è dubbio che riguardo a quella merce si sia concluso un contratto di compravendita tra il cliente e il gestore dell’organizzazione di vendita mediante offerta reale delle merci anche se i contraenti non si conoscono neppure. Infatti, l’organizzazione di vendita rende palese la decisione di vendere da un lato e il pagamento alla cassa la decisione di comprare dall’altro» (MAJELLO, Essenzialità dell’accordo e del suo contenuto, in Rivista di diritto civile, 2005, I, p. 124). 275 MASINI, op. cit., 2008, p. 50. 276 LUCIFERO, La comunicazione e l’etichettatura degli alimenti nella disciplina della sicurezza alimentare, in Agricoltura, istituzioni, mercati, 2008, 1, pp. 137-159. 277 MINELLI, Etichettatura di origine del latte e dei prodotti derivati, in Rivista di diritto agrario, 2010, fasc. 3, p. 411. 103 ingannevole o comparativa, ai sistemi di certificazione obbligatori o volontari e alla tracciabilità dei prodotti alimentari. Questo complesso di norme deve essere letto «in combinazione con le regole del mercato poste in essere a tutela degli interessi dei consumatori tanto con riguardo all’atto di contrattazione quanto con riguardo all’atto della consumazione del prodotto alimentare»278; sicché tutte queste disposizioni concorrono, in varia misura, a determinare i contenuti delle etichette dei prodotti alimentari secondo modalità prescrittive che, in riferimento ai contenuti di ciascun precetto, possono classificarsi in tre categorie: indicazioni obbligatorie, indicazioni facoltative e indicazioni vietate279. Nel caso dei prodotti biologici, oltre alle indicazioni che per legge devono figurare sull’etichetta di tutti i prodotti alimentari, come la denominazione di vendita280, l’indicazione degli ingredienti e delle relative quantità, le sostanze 278 Le norme sull’etichettatura consentono all’utente l’immediata individuazione dei soggetti responsabili (produttore, condizionatore o rivenditore) degli eventuali danni causati da prodotto difettoso, attraverso le indicazioni al riguardo espresse in etichetta. La direttiva 85/374/CEE (modificata dalla direttiva 99/34/CE), richiamata dall’art. 21 del reg. (CE) n. 178/02, ha introdotto la responsabilità oggettiva del produttore per danno da prodotto difettoso, mentre i giudici europei (cfr. CORTE DI GIUSTIZIA, Sentenza 23 novembre 2006, causa C-315/05, Lidl Italia S.r.l. contro Comune di Arcole, in Raccolta della giurisprudenza, 2006, p. I-11181, ove la Corte è stata chiamata in funzione della domanda pregiudiziale del giudice italiano a stabilire chi - fabbricante o distributore - doveva essere ritenuto responsabile per il fatto che le indicazioni in etichetta di un prodotto alimentare preconfezionato non corrispondevano al vero) hanno rilevato che il principio di responsabilità per una errata indicazione può essere esteso anche ad un soggetto diverso dal produttore, in considerazione di una norma interna (LUCIFERO, La comunicazione e l’etichettatura, cit., 2008, pp. 150-154). Per un approfondimento, da ultimo: GIUFFRIDA, La responsabilità civile per danno da prodotto alimentare difettoso, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., 2011, vol. III, pp. 617-639. 279 Sul punto: ALBISINNI, Le norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari, op. cit., 2003, p. 632. Tuttavia, secondo ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, op. cit., 2003, pp. 734-735, l’etichettatura degli alimenti non si esaurisce nella specificazione di queste indicazioni ma si connota come segmento di una più generale disciplina di comunicazione nel mercato che assume come proprio orizzonte una dimensione essenzialmente concorrenziale. 280 Riguardo alla denominazione di vendita del prodotto, ovvero alla denominazione merceologica prevista per tale prodotto, secondo l’art. 5 della direttiva 2000/13/CE, coordinato con le disposizioni specifiche previste dalla normativa nazionale (d.lgs 109/92 e successive modifiche e integrazioni), deve essere utilizzato, qualora esista, il nome comunitario dell’alimento (spesso contenuto nei regolamenti delle OCM) o, in mancanza, il nome previsto dalle leggi nazionali; in assenza di queste ultime la denominazione di vendita è il nome sancito dagli usi dello Stato membro nel quale si effettua la vendita al consumatore finale (LUCIFERO, La comunicazione e l’etichettatura, cit., 2008, pp. 146-147). Cfr. supra nota 26. Sul punto anche GERMANÒ, Corso di diritto agroalimentare, cit., 2007, p. 149. Il reg. (UE) n. 1169/11, all’art. 2, fornisce le seguenti tre definizioni di denominazione: «‘denominazione legale’: la denominazione di un alimento prescritta dalle disposizioni dell’Unione a esso applicabili o, in mancanza di tali disposizioni, la denominazione prevista dalle disposizioni 104 allergeniche, il termine minimo di conservazione, le modalità di conservazione, le istruzioni per l’uso, il produttore, il titolo alcolometrico volumico effettivo per le bevande che contengono più di 1,2% di alcol in volume [direttiva 2000/13/CE; d. lgs. 109/92; d. lgs. 181/03 e successive modifiche e integrazioni]281, le diciture che consentono di identificare la partita (lotto) alla quale appartiene una derrata alimentare (direttiva 2011/91/UE), la rintracciabilità282 (sono previsti al riguardo, come si dirà, obblighi specifici per gli operatori biologici di tutta la filiera) e l’origine obbligatoria per alcune categorie di prodotti agro-alimentari283, il regolamento (CE) n. 834/07 ha introdotto una serie di norme relative alle indicazioni obbligatorie che devono comparire sull’etichettatura (art. 24). Il successivo regolamento (CE) n. 889/2008, recante modalità di applicazione del reg. (CE) n. 834/07, ha poi dettagliato le norme tecniche, l’etichettatura e i criteri di controllo per la produzione agricola, l’allevamento e la preparazione alimentare284. legislative, regolamentari e amministrative applicabili nello Stato membro nel quale l’alimento è venduto al consumatore finale o alle collettività; ‘denominazione usuale’: una denominazione [alla quale si ricorre in assenza di denominazione legale] che è accettata quale nome dell’alimento dai consumatori dello Stato membro nel quale tale alimento è venduto, senza che siano necessarie ulteriori spiegazioni; ‘denominazione descrittiva’: una denominazione [alla quale si ricorre in assenza di denominazione legale e di denominazione usuale] che descrive l’alimento e, se necessario, il suo uso e che è sufficientemente chiara affinché i consumatori determinino la sua reale natura e lo distinguano da altri prodotti con i quali potrebbe essere confuso». 281 Riguardo alle indicazioni specifiche in etichetta cfr. infra nota 243. Il reg. (UE) n. 1169/11, applicativo nei prossimi anni, estende l’obbligo dell’indicazione in etichetta del Paese di origine o del luogo di provenienza per carni suine, ovine, caprine e pollame, fresche, refrigerate o congelate e loro ingredienti primari ed eventualmente, dopo valutazioni di fattibilità, anche ad altri alimenti e prevede l’obbligo della dichiarazione nutrizionale dal 13 dicembre 2016 (cfr. supra nota 221 e infra nota 266). 282 La rintracciabilità [art. 18, reg. (CE) n. 178/02] è realizzata con l’obbligatoria conservazione delle bolle di consegna delle fatture, ovvero dei documenti che comprovano i vari passaggi commerciali e per alcuni prodotti, come carni bovine e pesci, è contenuta nell’etichetta in forza di specifiche norme di legge (cfr. supra nota 108). 283 Cfr. supra nota 223. 284 Le regole della produzione biologica si applicano ai prodotti agricoli vivi o non trasformati e ai prodotti agricoli trasformati destinati ad essere utilizzati come alimenti provenienti dall’agricoltura, inclusa l’acquacoltura, qualora siano immessi sul mercato o siano destinati ad essere immessi sul mercato, compresi mangimi, materiale di propagazione vegetativa e sementi per la coltivazione e lieviti utilizzati come alimenti o come mangimi [art. 1, n. 2, reg. (CE) n. 834/07]. Tali regole si collocano sostanzialmente su due diversi livelli: le disposizioni di carattere generale, contenute nel titolo III del reg. (CE) n. 834/07 e articolate in norme di produzione vegetale, di produzione animale, di mangimi e di alimenti trasformati, e le norme di dettaglio, alle quali rinvia lo stesso regolamento all’art. 38, contenute nel reg. (CE) n. 889/08, modificato dal reg. (CE) n. 1254/08 e integrato dal reg. (CE) n. 710/09. Non si considerano come facenti parti della produzione biologica i prodotti della caccia e della pesca di animali selvatici, mentre è considerata «metodo di produzione biologico» la raccolta di vegetali 105 Le informazioni che obbligatoriamente devono comparire in etichetta e - di contro - quelle vietate, soddisfano quelle esigenze implicite del consumatore in ordine alla qualità dell’alimento, essenzialmente riconducibili alla sicurezza del prodotto alimentare di cui si avuto modo di dire nel precedente capitolo, non potendosi, ovviamente, trascurare i possibili effetti derivanti da contaminazioni ambientali, al pari di tutti i prodotti destinati al consumo umano. Le indicazioni obbligatorie (ingredienti e relative quantità, modalità di conservazione, ecc.) si configurano quali indici di sicurezza e salubrità dell’alimento (in quanto tale, indipendentemente dal fatto di essere biologico) mentre i segni distintivi della “biologicità”, su cui si rifletterà in questo e nel prossimo paragrafo, rimandano alle caratteristiche intrinseche relative al metodo biologico che ne determinano la qualità, svolgendo, pertanto, non solo una funzione descrittiva ma anche di promozione di questi alimenti. È, invece, lasciato ai segni e alle menzioni che possono essere indicate facoltativamente dall’operatore - marchi, immagini, informazioni e/o certificazioni relative a particolari modi di produzione oltre quello biologico che riguardano, ad esempio, l’origine e la provenienza del prodotto e il territorio - il compito di evidenziare le caratteristiche che soddisfano le esigenze esplicite285. Sennonché, il legislatore comunitario, ai fini di un’adeguata e consapevole scelta da parte del consumatore ha realizzato uno strumento giuridico - il segno di produzione biologico, ovvero il termine «biologico» e il logo di produzione selvatici e di alghe marine purché a specifiche condizioni [artt. 12, n. 2, e 13 del reg. (CE) n. 834/07 e art. 6 quater introdotto dal reg. (CE) n. 710/09 nell’ambito del reg. (CE) n. 889/08]. (CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2011, p. 86). Inoltre, sono espressamente esclusi dal campo di applicazione della normativa sulla produzione biologica i prodotti della ristorazione collettiva, per i quali è concessa facoltà agli Stati membri di applicare norme nazionali [art. 42, reg. (CE) n. 834/07], i mangimi per animali da compagnia (pet food) [art. 95, reg. (CE) n. 889/08] sui quali gli Stati membri possono legiferare, i mangimi per animali da pelliccia [art. 59, reg. (CE) n. 889/08] e le alghe coltivate diverse dalle alghe marine (art. 13, n. 2, reg. (CE) n. 834/07). I prodotti tessili e i prodotti cosmetici, seppure utilizzano materie prime vegetali soggette alle norme sulla produzione biologica, dopo il processo di trasformazione non sono più riconducibili al settore primario e, pertanto, non sono più assoggettabili alle norme sui prodotti agricoli biologici [GIUCA, L’agricoltura biologica in Emilia Romagna, in ABITABILE e VIGANÒ, a cura di, Politiche e strumenti di sostegno per l’agricoltura biologica in alcuni Paesi europei, 2011, in corso di pubblicazione, Roma]. 285 Le menzioni che possono essere indicate facoltativamente, a parte alcune espressamente regolate da una disciplina cogente, sfuggono a ogni enumerazione, proprio perché sono lasciate all’inventiva dell’imprenditore. Sul punto: LATTANZI, Il territorio nell’etichetta: dall’indicazione di origine all’indicazione del territorio, in ADORNATO, a cura di, Sviluppo integrato e risorse del territorio. Un caso di studio nel Piceno, Milano, 2006, pp. 176-177. 106 biologica dell’Unione Europea (di cui si dirà nel prossimo paragrafo) destinato, insieme a quello delle DOP/IGP/STG, ad arricchire i simboli della comunicazione nel mercato e quindi dei mezzi della comunicazione dell’informazione tra i soggetti286. Lo stesso legislatore ha fatto sì che le caratteristiche e qualità del prodotto biologico siano determinate per legge287, che siano attestate dal segno biologico - che svolge, pertanto, funzione di garanzia istituzionale tramite il funzionamento di un adeguato sistema di controllo e certificazione, come si dirà nei prossimi paragrafi - e che siano comunicate e rese trasparenti attraverso l’etichetta, consapevole del fatto che il consumatore di prodotti alimentari biologici abbia bisogno, ancora di più del consumatore di prodotti convenzionali, di fiducia nei confronti di chi vende e produce. Il consumatore di prodotti biologici, infatti, non solo ha bisogno come tutti i consumatori di alimenti - di sicurezza sulla sanità dei prodotti ma ha bisogno, soprattutto, di essere rassicurato sull’effettiva rispondenza del prodotto alle “promesse” che il biologico esprime, ovvero di prodotto controllato e tracciato, ottenuto attraverso un modello di agricoltura sostenibile, basato sui principi etici di salvaguardia e valorizzazione delle risorse naturali e sul rispetto dell’ambiente, della salute umana e del benessere animale288. Al fine di comunicare immediatamente le caratteristiche intrinseche del prodotto, seppure nelle norme prevalgano i requisiti di processo, in etichetta si legge «prodotto biologico» e non più «da agricoltura biologica». Ma solo in un caso il prodotto può essere definito «biologico» nella denominazione di vendita, ovvero quando almeno il 95% in peso degli ingredienti di origine 286 LUCIFERO, La comunicazione e l’etichettatura, cit., 2008, p. 141. Secondo la Commissione Europea i loghi che contraddistinguono i prodotti DOP/IGP, STG e dell’agricoltura biologica «offrono ai consumatori la garanzia di prodotti di qualità, in particolare sotto il profilo del sapore, dell’origine e dei metodi di produzione» (COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde. Politica di informazione e promozione dei prodotti agricoli, cit., 2011, p. 6). Si è avuto modo di riflettere sulla qualità dei prodotti agro-alimentari nel capitolo precedente al quale si rimanda (in particolare, cfr. supra nota 210). 287 I prodotti biologici devono essere ottenuti o importati da un operatore (agricoltore, distributore a marchio, importatore) certificato in conformità alle norme comunitarie e assoggettato alle misure di controllo previste dal reg. (CE) n. 834/07, devono essere conformi alle regole del piano ufficiale di ispezione e devono provenire direttamente dal produttore/preparatore o devono essere preparati in una confezione sigillata. 288 GIUCA, Forme di responsabilità sociale certificata in agricoltura biologica: il ruolo della marca e dei marchi di qualità, in BRIAMONTE e PERGAMO, a cura di, I metodi di produzione sostenibile nel sistema agroalimentare, Roma, 2010, p. 125. 107 agricola che lo compongono sia biologico [non più il 70% come disponeva il reg. (CEE) n. 2092/91] mentre in ipotesi di percentuali inferiori, il termine «biologico» può essere riportato in etichetta - in una della lingue ufficiali degli Stati membri di cui all’allegato del reg. (CE) n. 834/07 - solo nell’elenco degli ingredienti e non nel campo visivo di vendita, con l’indicazione della percentuale totale di ingredienti biologici sul totale di quelli di origine agricola [art. 23, par. 4, lett. a) e b), reg. (CE) n. 834/07]289. Nella definizione di «etichettatura» contenuta nell’art. 2 del reg. (CE) n. 834/07 (che ricalca, a scanso di equivoci, l’art. 1 della direttiva 2000/13/CE), oltre ai termini, alle diciture e alle indicazioni sono compresi i marchi di fabbrica, i nomi commerciali, le immagini o i simboli riguardanti imballaggi, nonché documenti, avvisi, etichette, cartoncini, nastri o fascette presenti su di essi, che accompagnano o si riferiscono a un prodotto; secondo le norme vigenti l’etichettatura dei prodotti alimentari biologici290 deve contenere, in 289 Come accennato (cfr. capitolo I, paragrafo 5), l’uso di indicazioni riferite alla produzione biologica nell’etichettatura e nella pubblicità riguardano i prodotti (vegetali e animali) provenienti dall’agricoltura, inclusi animali e alghe marine dell’acquacoltura - ovvero prodotti agricoli vivi o non trasformati, prodotti agricoli trasformati destinati ad essere utilizzati come alimenti, mangimi, materiale di propagazione vegetativa e sementi per la coltivazione - e i lieviti utilizzati come alimenti o come mangimi: questi prodotti, ottenuti o importati, possono essere etichettati come «prodotti biologici» se conformi alle prescrizioni del regolamenti (CE) n. 834/07, n. 889/08 e n. 1235/08. In particolare, nell’etichettatura e nella pubblicità di un prodotto agricolo vivo o non trasformato si possono usare termini riferiti al metodo di produzione biologico soltanto se, oltre a tale metodo, anche tutti gli ingredienti di tale prodotto sono stati ottenuti conformemente alle prescrizioni sulla produzione biologica. Per quanto riguarda gli alimenti trasformati, almeno il 95% degli ingredienti devono essere prodotti con metodo biologico e derivanti da ingredienti di origine agricola e con l’impiego di soli prodotti e sostanze (additivi, aromi, preparazioni microrganiche, sale, ecc.) autorizzate all’uso per la produzione biologica [allegati VIII e IX del reg. (CE) n. 889/08] e in assenza di promiscuità (ovvero la materia prima biologica non è stata miscelata con la medesima sostanza di tipo convenzionale). Per i prodotti trasformati con meno del 95% di ingredienti biologici, che non possono, quindi, essere etichettati con il termine «biologico», è possibile: a) indicare nell’elenco degli ingredienti il termine «biologico» accanto anche a un solo ingrediente, indipendentemente dalla sua incidenza sul prodotto finito, a condizione che l’ingrediente sia conforme alla normativa stessa e che nell’etichetta sia riportata la percentuale di ingredienti biologici sul totale; b) indicare il termine «biologico» negli ingredienti e nello stesso campo visivo della denominazione di vendita solo quando il principale ingrediente è un prodotto della caccia o della pesca e il prodotto contiene altri ingredienti di origine agricola che siano tutti biologici [art. 23, reg. (CE) n. 834/07]. In ogni caso, i prodotti biologici e i loro ingredienti non devono essere stati sottoposti a trattamenti con ausiliari di fabbricazione e coadiuvanti tecnologici diversi da quelli consentiti dalla normativa sulla produzione biologica, non devono aver subìto trattamenti con radiazioni ionizzanti e devono essere ottenuti senza l’impiego di OGM né di prodotti derivati o ottenuti da OGM. 290 Cfr. art. 2, reg. (CE) n. 834/07; titolo III, reg. (CE) n. 889/08; art. 8, d.m. 27 novembre 2009, n. 18354, modificato dal d.m. 28 maggio 2010, n. 1032. Nei prossimi anni tali norme dovranno adeguarsi al reg. (UE) n. 1169/11 relativo alla fornitura di informazioni sugli 108 modo facilmente visibile, chiaramente leggibile e indelebile, i seguenti elementi: il termine «biologico», i riferimenti relativi al metodo di produzione biologico (riportati con modalità differenti sulle etichette delle seguenti categorie di prodotti: alimenti biologici; prodotti alimentari con ingredienti biologici e non biologici in proporzioni variabili; prodotti alimentari con ingredienti biologici il cui ingrediente principale proviene dalla caccia o dalla pesca291; prodotti della vinificazione da uve bio292 o in conversione alimenti ai consumatori, che dal 13 dicembre 2014 abrogherà la direttiva 2000/13/CE ma che ne riprende e amplia i contenuti (cfr. supra nota 221 e infra note 243 - definizioni di etichetta ed etichettatura - e 266. 291 Cfr. infra nota 289. L’esempio più evidente per questa categoria di prodotti, inclusi per la prima volta nelle norme sulla produzione biologica, è quello del tonno in scatola che non può essere etichettato «tonno biologico» perché è pescato e non allevato, ma se conservato in olio extravergine d’oliva biologico può essere etichettato come «tonno – in olio extravergine d’oliva biologico» (CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2011, p. 93). 292 Il reg. di esecuzione (UE) n. 344/11 ha prorogato di due anni, fino al 31 luglio 2012, il periodo di transizione relativo alle disposizioni in materia di etichettatura per il vino prodotto a partire da uve biologiche [art. 95, reg. (CE) n. 889/08], non essendo ancora intervenuta, seppure espressamente richiamata nel reg. (CE) n. 834/07 (7° considerando), una specifica disposizione che possa regolare in maniera univoca tutte le fasi della filiera vitivinicola e far entrare nel mercato la denominazione merceologica «vino biologico». Pertanto, è possibile fare riferimento in etichetta al metodo di produzione biologico esclusivamente per le uve (d.m. 28 maggio 2010, n. 1032), ad esempio mediante la dicitura «vino da uve biologiche». Una prima proposta di regolamentazione del vino biologico ha preso corpo nel 2009, basandosi sui risultati di un progetto triennale promosso dalla Commissione Europea (ORWINE, www.orwine.org), finalizzato all’individuazione di appropriati strumenti conoscitivi scientifici e di mercato e in seguito al quale diverse organizzazioni private di Francia, Spagna e Italia, al fine di supportare il settore con regole condivise, hanno adottato «La Carta Europea del Vino Biologico». La proposta, che proponeva un limite inferiore per i solfiti, una lista ridotta di additivi e di mezzi tecnici permessi e l’esclusione di determinate pratiche enologiche rispetto al vino convenzionale, è stata ritirata dalla Commissione il 17 giugno 2010 «perché non si è trovato un compromesso credibile che rispettasse dei reali standard biologici su quelli in vigore per il vino convenzionale» tanto che lo stesso Commissario Ciolos aveva dichiarato inique le nuove regole per la maggioranza degli Stati membri (SINAB, News, 18 giugno 2010, www.sinab.it). Nella proposta, infatti, la presenza di solfiti utilizzati per la conservazione del vino era stata fissata in 100 mg/lt per i vini rossi e in 150 mg/lt per i vini bianchi, praticamente 50 mg/lt in meno rispetto ai vini convenzionali. La proposta ha trovato la contrarietà dei Paesi del Nord Europa - Germania in testa, sostenuta da Polonia, Austria, Olanda, Regno Unito, Svezia e Portogallo - perché, essendo penalizzati dalle condizioni climatiche, sono soliti utilizzare una maggiore concentrazione di solfiti per stabilizzare il vino rispetto ai Paesi mediterranei. A luglio 2011, dopo un anno di trattative, è stato presentato il documento di lavoro sul vino biologico (H.3/2010/157707 del 30/06/2011) allo SCOF (Standing Committee on Organic Farming), il Comitato permanente previsto dall’art. 37 del reg. (CE) n. 834/07 per garantire un’applicazione uniforme della legislazione comunitaria per il settore, costituito da rappresentanti degli Stati membri e presieduto da un rappresentante della Commissione [EUROPEAN COMMISSION, Short Report of the 99th meeting of the Standing Committee on Organic Farming (SCOF) of 7-8 July 2011]. Il testo in discussione, essendo simile al precedente, non risolve la questione dei solfiti, anzi acuisce la discriminazione tra le zone viticole, proponendo livelli di solfiti nel vino biologico diversi in base alla zona, ovvero più 109 dall’agricoltura biologica 293 biologica; prodotti in conversione ; lievito bio e prodotti a base di lievito bio 294 dall’agricoltura ; prodotti biologici bassi per i Paesi mediterranei e più alti per i Paesi del Nord (AIAB, Regolamento europeo sul vino bio, AIAB: “Lo SCOF rilancia al ribasso penalizzando i produttori del Sud”, Comunicato stampa, 8 luglio 2011). La proposta, infatti, come si legge nella nota diffusa dal MIPAAF, prevede la possibilità di utilizzare diversi quantitativi di SO2 in relazione alla “zona” di provenienza delle uve, ovvero: 1) «fino a 100 mg/lt per i vini rossi e 150 mg/lt per i vini bianchi se prodotti con uve provenienti dalla zona C [di cui all’Allegato XI b del reg. (CE) n. 1234/07]», nella quale ricadono Italia, Spagna, Portogallo e Francia del Sud; 2) «una riduzione di 30 mg/lt di SO2 rispetto alle quantità stabilite all’Allegato IB del reg. (CE) n. 606/09 (OCM vino) per tutti gli altri tipi di vino», dunque anche per quelli prodotti con uve delle zone A e B, nelle quali ricadono Paesi come Germania e Francia centrale e settentrionale. La proposta, inoltre, ammette «la possibilità di utilizzare SO2 fino al massimo previsto dall’Allegato IB del reg. (CE) n. 606/09 qualora si dovessero verificare della condizione climatiche eccezionali stabilite dall’autorità competente dello Stato membro». Secondo la delegazione italiana, tali condizioni d’uso di anidride solforosa rappresentano «una sperequazione qualitativa tra le produzioni di vino Nord europee e quelle nazionali» poiché l’Italia ricade interamente nella zona C e «i nostri produttori dovrebbero sostenere costi elevati per l’ottenimento di vini di qualità, a differenza degli altri che produrrebbero vini biologici al limite della commerciabilità, sostenendo costi più bassi (l’SO2 rappresenta il mezzo tecnico più a buon mercato); inoltre, si profila «un inganno per i consumatori, in quanto i vini ottenuti nelle zone di produzione A, B, pur con maggiori contenuti di anidride solforosa, usufruirebbero della stessa denominazione di vendita ‘vino biologico’ e del logo europeo» (MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, Comitato permanente “Legislazione Agricoltura Biologica”, tenutosi a Bruxelles in data 7-8 luglio 2011 - art. 37 Reg. (CE) n. 834/07”, nota n. 13951 del 18 luglio 2011). Il MIPAAF ha manifestato la propria contrarietà alla proposta al «Comitato permanente Legislazione Agricoltura Biologica», invitando a prendere in considerazione, insieme ad altri Stati membri, la proposta dell’IFOAM di «definire regole per il vino biologico che non comportino differenze tra aree geografiche, bensì tra categorie di vini» (MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, Comitato permanente “Legislazione Agricoltura Biologica”, tenutosi a Bruxelles in data 27-28 settembre 2011 - art. 37 Reg. (CE) n. 834/07”, nota n. 18836 del 4 ottobre 2011). Per sostenere questa possibilità, i Ministeri dell’agricoltura italiano e spagnolo hanno inviato una nota congiunta alla Commissione Europea riguardo alla proposta di regolamento sul vino biologico, in cui chiedono: di legare il quantitativo utilizzabile di SO2 alla categoria di appartenenza del vino (determinata in base al contenuto di zucchero) piuttosto che in funzione delle diverse zone vitivinicole individuate dall’OCM vino; di eliminare le limitazioni previste per l’uso delle resine a scambio ionico; di consentire la tecnica della desolforazione per la produzione dei mosti concentrati e concentrati rettificati; di inserire, tra i prodotti ammissibili per la produzione di vino biologico, il lisozima e il sorbato di potassio (MIPAAF, comunicato del 4 novembre 2011, in www.sinab.it) Nell’ottobre 2011 il punto sul vino biologico è stato ritirato dall’odg in quanto la Commissione Europea ha annunciato che in uno dei prossimi SCOF sottoporrà all’attenzione degli Stati membri una nuova proposta di regolamento sul vino biologico (MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, Comitato permanente “Legislazione Agricoltura Biologica”, tenutosi a Bruxelles in data 25-26 ottobre 2011 - art. 37 Reg. (CE) n. 834/07”, nota n. 22072 del 7 novembre 2011). Il vino ottenuto da uve biologiche, in Italia, a fronte di una produzione - pari a 52.273 ettari nel 2010 (dati SINAB, www.sinab.it) - che la rende leader mondiale insieme alla Spagna, seguita da Francia, USA e Turchia vive una diffusione limitata sul mercato domestico dove la “biologicità” per questo prodotto non costituisce un valore aggiunto a differenza dei mercati del Centro e Nord Europa (Germania, Paesi Bassi, Belgio e Paesi scandinavi), dove si indirizzano le esportazioni italiane (cfr. capitolo III, paragrafo 2). 293 Gli agricoltori convenzionali devono sottostare ad un periodo di conversione di un minimo di due anni [con tempistiche che variano per zootecnia e acquacoltura - reg. (CE) n. 710/09] 110 importati da Paesi terzi295; prodotti d’acquacoltura biologici296) e rispettivi derivati o abbreviazioni («bio», «eco») nella denominazione di vendita e, dove presente, nella lista degli ingredienti in riferimento a quelli biologici; il logo di produzione biologica dell’Unione Europea, obbligatorio per i prodotti preconfezionati297, unitamente all’indicazione dell’origine della materia prima agricola (ovvero del luogo di allevamento quando si tratta di carni), tramite le diciture e secondo le modalità di cui si dirà nel prossimo paragrafo; il numero di codice dell’organismo di controllo cui è soggetto l’operatore che ha effettuato la produzione o la preparazione più recente che consiste in una sigla identificativa dello Stato membro - o Paese terzo (se il prodotto è importato e viene utilizzato il logo UE) - secondo i codici Paese di due lettere di cui alla norma internazionale ISO 3166 (IT per l’Italia), seguito da un termine che rinvia al metodo di produzione biologico («BIO» per l’Italia) e da un numero di riferimento stabilito dall’autorità competente (dal MIPAAF nel caso dell’Italia). Tale codice alfanumerico è collocato immediatamente dopo il logo UE e sotto il numero di codice è posta l’indicazione dell’origine delle materie prime. Nel nostro Paese il codice prima di poter iniziare a produrre prodotti agricoli che possano essere commercializzati come biologici. 294 Il lievito e i prodotti a base di lievito utilizzati come alimenti o mangimi sono considerati ingredienti di origine agricola solo a partire dal 31 dicembre 2013 [art. 27, reg. (CE) n. 889/08 come modificato dal reg. (CE) n. 1254/08] e fino ad allora non rientrano nella percentuale (95%) di ingredienti biologici di origine agricola che consentono di etichettare come «biologico» un alimento trasformato. 295 L’importazione di prodotti biologici da Paesi terzi è disciplinata dal reg. (CE) n. 1235/08, da ultimo modificato e rettificato dal reg. di esecuzione (UE) n. 1267/11 (cfr. nota 350). 296 Reg. (CE) n. 710/09 che modifica il reg. (CE) n. 889/08 recante modalità di applicazione del reg. (CE) n. 834/07 per quanto riguarda l’introduzione di modalità di applicazione relative alla produzione di animali e di alghe marine dell’acquacoltura biologica. 297 Per «prodotto alimentare in imballaggio preconfezionato» si intende: «l’unità di vendita destinata ad essere presentata come tale al consumatore finale ed alle collettività, costituita da un prodotto alimentare e dall’imballaggio in cui è stato confezionato prima di essere messo in vendita, avvolta interamente o in parte da tale imballaggio, ma comunque in modo che il contenuto non possa essere modificato senza che l’imballaggio sia aperto o alterato» (art. 1, direttiva 2000/13/CE). Il reg. (UE) n. 1169/11, che abrogherà la direttiva 2000/13/CE, fornisce la seguente analoga definizione di «alimento preimballato» all’art. 2: «unità di vendita destinata a essere presentata come tale al consumatore finale e alle collettività, costituita da un alimento e dall’imballaggio in cui è stato confezionato prima di essere messo in vendita, avvolta interamente o in parte da tale imballaggio, ma comunque in modo tale che il contenuto non possa essere alterato senza aprire o cambiare l’imballaggio». Il regolamentp precisa che l’«alimento preimballato» non comprende gli alimenti imballati nei luoghi di vendita su richiesta del consumatore o preimballati per la vendita diretta. 111 dell’organismo di controllo deve essere preceduto dalla dicitura «Organismo di controllo autorizzato dal MiPAAF» e deve comparire in una stringa con accanto il codice identificativo dell’operatore che ha effettuato la produzione o la preparazione più recente (produttore, addetto alla trasformazione o venditore) a questi attribuito dall’organismo di controllo preceduto dalla dicitura «operatore controllato n….»; inoltre, fatte salve le disposizioni vigenti in materia di etichettatura dei prodotti alimentari, deve essere obbligatoriamente riportato in etichetta anche il nome o la ragione sociale dell’operatore che ha effettuato la produzione o la preparazione più recente. Pertanto, nel caso in cui un distributore apponga il proprio marchio su un prodotto biologico preconfezionato è considerato a tutti gli effetti un «preparatore», in quanto modifica l’etichettatura del prodotto biologico e, di conseguenza, è tenuto a riportare in etichetta il proprio nome o ragione sociale, il codice del proprio organismo di controllo e il codice identificativo attribuitogli da quest’ultimo; analogamente, qualora il distributore voglia utilizzare in etichetta i codici relativi al suo fornitore, dovrà obbligatoriamente indicarne il nome per esteso come indicato nel reg. (CE) n. 889/08, art. 31, lettera a) (d.m. 28 maggio 2010, n. 1032; nota MIPAAF del 21 ottobre 2011, n. 20421). Sicché nell’etichetta sono presenti, nell’intera area comunitaria e in qualunque lingua della Comunità, quei “segni” distintivi della “biologicità”, ovvero il termine «biologico» - e dei relativi derivati «bio» e «eco» - e il logo di produzione biologica dell’UE, i quali, come si dirà nel prossimo paragrafo, attestano le caratteristiche del prodotto determinate dalla legge. Le norme relative all’etichettatura dettagliate dal reg. (CE) n. 889/08 si applicano mutatis mutandis agli animali da allevamento di specie diverse da bovini, equidi, suini, ovini, caprini, avicoli e api e agli animali d’acquacoltura diversi dalle specie di pesci, crostacei, echinodermi e molluschi compresi nell’allegato XIII bis [introdotto dal reg. (CE) n. 710/09] fino all’adozione di norme di produzione specifiche per tali prodotti. Gli Stati membri, inoltre, hanno la possibilità di regolamentare, in conformità alla normativa comunitaria, l’etichettatura e il controllo dei prodotti 112 provenienti da operazioni di ristorazione collettiva298, definita come «la preparazione di prodotti biologici in ristoranti, ospedali, mense e altre aziende alimentari analoghe nel punto di vendita o di consegna al consumatore finale» [art. 1, reg. (CE) n. 834/07]. Considerato, poi, che in attesa di norme comunitarie dettagliate di produzione, gli Stati membri possono applicare norme nazionali - o, in mancanza di queste, norme private accettate o riconosciute dagli Stati membri - per alcuni prodotti specifici299, appare evidente come la regolamentazione comunitaria sull’agricoltura biologica tenda «progressivamente ad abbandonare l’idea di una armonizzazione centralizzata esclusivamente sul piano comunitario»300 e, come è stato argomentato nelle pagine precedenti, a sposare l’idea di una “qualità” dei prodotti biologici che si traduce nelle “qualità delle agricolture biologiche nazionali”. Ciò nonostante sia stata abbandonata, nella stesura definita del regolamento (CE) n. 834/07, la norma dell’art. 20 della proposta301 che lasciava agli Stati membri la possibilità di intervenire attraverso indicazioni aggiuntive sull’etichettatura o nella pubblicità relative a particolari aspetti del metodo di produzione, purché conformi ai requisiti generali in materia di etichettatura di cui alla direttiva 2000/13/CE. Sicché, le disposizioni nazionali relative all’etichettatura dei prodotti biologici (alimenti e mangimi302) sono da considerarsi applicabili solo ai prodotti commercializzati sul territorio nazionale e non obbligatorie per quelli destinati esclusivamente al mercato estero. 298 Cfr. capitolo I, paragrafo 4. Cfr. supra note 157-158. 300 CANFORA, Ogm e agricoltura biologica, in Agricoltura, istituzioni, mercati, 2006, 3, p. 428. 301 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Proposta di regolamento del Consiglio relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici - Proposta di regolamento del Consiglio che modifica il regolamento (CEE) n. 2092/91 relativo al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e all’indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari, Bruxelles, COM (2005) 671 def.. 302 I mangimi che, nella loro etichetta, riportano riferimenti al metodo biologico (mangimi biologici, mangimi utilizzati in agricoltura biologica e mangimi in conversione all’agricoltura biologica), devono essere certificati ai sensi del reg. (CE) n. 834/07 e del d.m. 27 novembre 2009, n. 18354. Le prescrizioni specifiche per l’etichettatura dei mangimi sono dettate dal reg. (CE) n. 889/08 e non si applicano ai mangimi destinati agli animali da compagnia, agli animali da pelliccia e agli animali da acquacoltura. 299 113 Da ultimo, si vuole riflettere, ai fini dell’etichettatura dei prodotti biologici, sulle norme generali di produzione richiamate nelle pagine precedenti, secondo le quali i prodotti biologici e i loro ingredienti non devono aver subìto trattamenti con radiazioni ionizzanti ovvero con raggi gamma, raggi X e fasci di elettroni a scopo conservativo e per ridurre la presenza di microrganismi patogeni [divieto espressamente previsto all’art. 10 del reg. (CE) n. 834/07] e devono essere ottenuti senza l’impiego di OGM né di prodotti derivati o ottenuti da OGM sia nella forma di alimenti che di mangimi, ausiliari di fabbricazione, prodotti fitosanitari, concimi, ammendanti, sementi, materiale di moltiplicazione vegetativa, microrganismi e animali in produzione biologica [divieto espressamente sancito dall’art. 9 del reg. (CE) n. 834/07]. Mentre è possibile trattare in generale i prodotti agro-alimentari con radiazioni ionizzanti e l’indicazione degli ingredienti così trattati è obbligatoria in etichetta (direttive 1999/2/CE e 1999/3/CE), ciò non è consentito per i prodotti biologici e, dunque, non è possibile etichettare come biologico un prodotto sottoposto a tali pratiche; diversa, invece, è la questione relativa al divieto di uso di OGM, come ampiamente descritto nel capitolo precedente303. Poiché la qualificazione giuridica del prodotto finale («prodotto biologico») dipende dal rispetto delle regole del processo di produzione, una particolare attenzione per i rapporti di fornitura emerge dalle maglie della stessa legislazione comunitaria con riguardo agli OGM e, pertanto, nell’acquisto delle materie prime il produttore biologico è tenuto, ai sensi del reg. (CE) n. 834/07, a verificare la composizione del prodotto attraverso l’etichettatura o i documenti di accompagnamento del mangime o dell’alimento acquistato per la produzione304; nel caso di fornitura di prodotti per i quali non sussiste un obbligo normativo (alimenti finiti e mangimi) il regolamento impone ai produttori biologici di «chiedere al venditore di confermare che gli stessi non sono derivati o ottenuti da OGM» (art. 9.3). La legislazione relativa alla 303 Con la Raccomandazione del 13 luglio 2010 relativa al nuovo approccio comunitario sulla coesistenza (cfr. supra nota 200), la Commissione Europea ha aperto agli Stati membri la possibilità di adottare misure per ridurre la soglia accidentale di OGM nei prodotti biologici e in particolari tipi di produzione (cfr. capitolo I, paragrafo 5). 304 CANFORA, Sicurezza alimentare e nuovi assetti della responsabilità di filiera, in Rivista di diritto alimentare, 2009, 4, p. 16. 114 produzione biologica è dunque diretta a garantire, ovviamente, la sicurezza, al pari di tutti gli altri alimenti, ma anche la qualità del prodotto, in quanto, oltre agli obblighi di comportamento, impone «determinati contenuti contrattuali al produttore agricolo, che consistono in un obbligo positivo di informazione e accertamento delle caratteristiche del prodotto oggetto del contratto di fornitura»305. Sennonché - e si vuole ritornare su questo punto -, agli operatori biologici che hanno posto in essere tutte le misure precauzionali possibili è data comunque la possibilità di etichettare il prodotto come biologico anche qualora sia riscontrata una presenza accidentale e tecnicamente inevitabile di OGM nel prodotto biologico, nei suoi ingredienti o nelle materie prime per mangimi a un livello inferiore allo 0,9%, la stessa soglia prevista per i prodotti agroalimentari convenzionali. Ciò non solo va a incrinare, come detto, la valenza etica e i princìpi del metodo biologico - inducendo a riflettere sul fatto che per i prodotti alimentari l’etichetta assolva alla finalità di dare trasparenza ad un mercato considerato speciale, come quello alimentare, «che deve essere fornito innanzi tutto di sicurezza»306 - ma fa da eco al coro di voci di diversi autori che già da tempo hanno cominciato a parlare della “convenzionalizzazione” di un’agricoltura biologica307. In tal senso, l’agricoltura biologica non sarebbe più espressione di un modo alternativo di produrre animato da forti motivazioni ideali, ma rifletterebbe gli stessi interessi e valori del sistema agro-alimentare 305 Ibidem, p. 17. GERMANÒ, Il mercato alimentare e la comunicazione, cit., 2009, p. 142. È stato osservato che spesso le etichette dei prodotti biologici contengono, su libera iniziativa degli operatori, «un espresso riferimento al fatto che il prodotto non contiene OGM, ma con modalità “peculiari” per non incorrere nei divieti imposti dalla legge»; poiché l’etichetta non deve indurre in errore l’acquirente suggerendo che quel prodotto abbia caratteristiche particolari quando invece tutti i prodotti analoghi hanno caratteristiche identiche [art. 2, direttiva 2000/13/CE al quale subentrerà, quando sarà applicativo, l’art. 7 del reg. (UE) n. 1169/11, dai contenuti analoghi ma più ampi (cfr. infra nota 243)], gli operatori utilizzano «formule di questo genere “questo prodotto, così come tutti i prodotti da agricoltura biologica, ai sensi della normativa comunitaria, non contiene organismi geneticamente modificati”, riferendo cioè sostanzialmente questa caratteristica di ‘forte’ impatto nell’opinione pubblica, all’intera categoria di prodotti della quale il loro fa parte, ma ponendola comunque all’attenzione del consumatore» (CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, op. cit., 2011, p. 94). 307 BUCK et al., Farm to table: the organic vegetable commodity chain of northern California, in Sociologia Ruralis, 1997, 37 (1), pp. 1-20; GUTHMAN, The trouble with “Organic Lite” in California: a rejoinder to the “conventionalisation” debate, in Sociologia Ruralis, 2004, 44 (3), pp. 301-316; LOCKIE et al., Going Organic. Mobilizing networks for environmentally responsible food production, Wallingford, 2006. 306 115 industriale, mosso da ragioni economiche e strategie di marketing a far leva sui valori estetici ed edonistici dei consumatori308. 2. Il logo di produzione biologica dell’Unione Europea (c.d. «Eurofoglia»): garanzia di origine, natura e qualità dei prodotti biologici? Il reg. (CE) n. 834/07 attribuisce, lo si è detto, il diritto di usare nell’etichettatura, nella pubblicità o nei documenti commerciali, il termine «biologico», nonché i rispettivi derivati e abbreviazioni, quali «bio» e «eco», singolarmente o in abbinamento, nell’intera Comunità e in qualsiasi lingua comunitaria (secondo i termini stabiliti nell’allegato), con riferimento al prodotto o ai suoi ingredienti o alle materie prime per mangimi (art. 23). Tale diritto è attribuito a chi rispetta determinati metodi di produzione vegetale e animale (titolo III) in tutte le fasi della produzione, preparazione e distribuzione (art. 2), relativamente ai prodotti agricoli e zootecnici - inclusi i prodotti dell’acquacoltura - freschi e trasformati destinati ad essere utilizzati come alimenti, ai mangimi, ai materiale di propagazione vegetativa e alle sementi (art. 1), ovvero non usa prodotti chimici di sintesi, né OGM e prodotti derivati o ottenuti da OGM (mangimi o medicinali) (art. 9), né radiazioni ionizzanti (art. 10), e che, per conseguenza - e lo si vuole qui rilevare -, è stato iscritto dall’organismo di controllo (secondo il sistema di controllo di cui al titolo V del regolamento) nell’elenco degli operatori soggetti al controllo (art. 28.5). Pertanto, se con la disciplina introdotta dal precedente reg. (CEE) n. 2092/91 «ci si [trovava] di fronte ad un segno di certificazione o di attestazione che [permetteva] all’operatore, iscritto nell’elenco e soggetto a periodici controlli, di servirsi di una sorta di denominazione merceologica»309, con 308 FONTE e AGOSTINO, Principi, valori e standard: il movimento biologico di fronte alle sfide della crescita, in Agriregionieuropa, 2008, 12, p. 45. 309 GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., 2006, p. 286. L’A. osserva che la posizione acquisita dall’operatore con l’iscrizione all’elenco, una specie di albo, «è una forma di ricchezza immateriale che l’imprenditore coordina con gli altri elementi dell’azienda per l’esercizio della sua attività». Così anche anche SAIJA e TOMMASINI, op. cit., 2011, pp. 521522: «[…] l’indicazione del biologico nell’etichetta è un’attestazione ed una certificazione di 116 l’attuale normativa, che novella e rafforza il quadro normativo, il termine «biologico», per funzioni, interessi e tutela, continua a presentare punti di convergenza con la denominazione merceologica legale, in quanto le caratteristiche per stabilire la “biologicità” di un prodotto sono predeterminate dalla legge310, ovvero dal reg. (CE) n. 834/07, che detta le norme per la produzione biologica e l’etichettatura dei prodotti biologici, e dai successivi regolamenti applicativi. L’attestazione di biologicità, allo stato attuale, assicura il non uso di sostanze chimiche di sintesi né di organismi geneticamente modificati (OGM) e prodotti derivati o ottenuti da OGM (mangimi o medicinali), né di radiazioni ionizzanti nella concimazione della terra, nella coltivazione dei vegetali, nelle pratiche zootecniche e di acquacoltura [queste ultime non disciplinate dal vecchio reg. (CEE) n. 2092/91] e nella elaborazione e trasformazione dei prodotti agricoli, anche se non esclude, come già accennato, che vi possano essere nel prodotto contaminazioni ambientali, quali, ad esempio, le piogge acide o i vapori di piombo provenienti dalle confinanti autostrade311. Al riguardo, l’art. 10 del vecchio reg. (CEE) n. 2092/91 vietava le indicazioni che potessero indurre il consumatore a credere che i segni distintivi, dunque la certificazione, costituissero «una garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore»312. Il nuovo reg. (CE) n. 834/07, che si inserisce in un contesto generale di riscrittura delle regole sulla produzione alimentare e provvede, pertanto, ad adeguare le norme sulla produzione biologica alla General Food Law, fa sì che i richiami al reg. (CE) n. 178/02 - non solo alla definizione di «alimenti», «mangimi», «immissione sul mercato» (art. 2, lett. j) ma ai concetti e alle regole sulla sicurezza alimentare, in particolare al metodo della valutazione del rischio e alle misure di precauzione e prevenzione (art. 4, lett. a, punto iv) e alla tracciabilità e alla responsabilità di filiera (art. 27, par. qualità ed il diritto di utilizzare il segno maturato dall’agricoltore iscritto all’albo rappresenta un bene immateriale». 310 Sul punto: ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, op. cit., 2003, pp. 734735. 311 GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, op. cit., 2006, p. 286. 312 «Questa considerazione un tempo spiegava l’esclusione dell’agricoltore dalla responsabilità oggettiva per danni da prodotti difettosi, a cui ora è invece soggetto per la direttiva 99/44/CE» (Ibidem). 117 13) - riconducano all’alveo generale del diritto alimentare interventi normativi specifici per la produzione biologica, produzione che si inquadra in un’ottica di filiera313. In tal senso, pertanto, è pacifico ritenere che i segni distintivi del prodotto apposti dall’operatore della filiera non debbano trarre in inganno i consumatori, come dispone l’art. 16 del reg. (CE) n. 178/02, e non debbano indurlo a credere che il prodotto biologico abbia effetti o proprietà che non possiede o suggerirgli che il prodotto possieda caratteristiche particolari, quando tutti i prodotti alimentari analoghi possiedono caratteristiche identiche, come dispone l’art. 2 della direttiva 2000/13/CE [e come disporrà, quando sarà applicativo, l’art. 7 del reg. (UE) n. 1169/11, dai contenuti analoghi ma più ampi]. Sennonché, il prodotto biologico, come dettagliato nel precedente capitolo, possiede requisiti di «qualità superiore» o «alta qualità» [art. 3, reg. (CE) n. 834/07], ovvero caratteristiche intrinseche al metodo di produzione garantite al consumatore attraverso i segni distintivi della biologicità, ma senza per questo essere sani o superiori per qualità nutritive rispetto ad altri. Sui prodotti preconfezionati, dove figura il termine «biologico», che di per sé è un segno distintivo apposto al prodotto (tramite etichetta) che consente al consumatore di distinguerlo dagli altri dello stesso genere ma ottenuti con tecniche differenziate, cioè non biologiche, fino al 30 giugno 2010 è stato possibile apporre, facoltativamente, il vecchio logo comunitario allorché gli organismi nazionali di controllo autorizzati avessero certificato la conformità del prodotto alla normativa sulla produzione biologica. Tale logo (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), di forma circolare, presentava un anello verde dal bordo blu a puntine, sul quale compariva, in senso rotatorio, la dicitura a caratteri blu «AGRICOLTURA BIOLOGICA» in una delle ligue ufficiali degli Stati membri, mentre al centro era rappresentata una spiga verde su sfondo blu, circondata, in senso rotatorio, da una serie di stelline bianche rappresentative degli Stati membri. Il riferimento a un logo comunitario, da utilizzarsi in associazione con l’indicazione di conformità al regime di controllo o in sostituzione di tale 313 CANFORA, Il nuovo assetto dell’agricoltura biologica, cit., 2007, pp. 362-363. 118 indicazione [«Agricoltura Biologica - Regime di controllo CEE» poi divenuta, per effetto del reg. (CE) n. 331/2000, «Agricoltura Biologica - Regime di controllo CE»], è stato inserito all’articolo 10 del reg. (CEE) n. 2092/91 a seguito delle modifiche introdotte dal reg. (CE) n. 1935/95. Il reg. (CE) n. 1804/99 sulle produzioni animali ha poi modificato l’art. 13 del regolamento del 1991 affinchè fosse possibile modificare l’allegato V, secondo le procedure di cui all’art. 14, proprio per definire un logo comunitario. Secondo il legislatore europeo, che a inizio millennio ha finalmente dettato le condizioni per la presentazione e l’utilizzazione facoltativa del logo comunitario in etichetta [contenute nell’allegato V del reg. (CEE) n. 2092/91, modificato dai reg. (CE) n. 331/2000 e n. 746/04], esso «consente agli operatori di aumentare la credibilità dei rispettivi prodotti agli occhi dei consumatori dell’Unione Europea e di migliorarne l’identificazione» [4° considerando, reg. (CE) n. 311/2000]. Ciò basta a comprendere la valenza concorrenziale di tali simboli (termini riferiti alla produzione biologica e logo comunitario) anche se non sviluppano una capacità distintiva “propria”, in quanto «incapaci di individuare l’origine del prodotto di una determinata impresa, perché destinati ad essere usati da una pluralità di imprenditori diversi. Pur tuttavia questi ultimi si avvalgono della capacità attrattiva che esplica la funzione di garanzia delle caratteristiche e delle qualità del prodotto, essendo riferita alla tecnica di produzione determinata dalla legge e controllata da appositi organismi»314. Con il reg. (CE) n. 834/07 è diventato obbligatorio apporre il logo comunitario sulla confezione degli alimenti preconfezionati con l’ulteriore specificazione dell’indicazione dell’origine delle materie prime agricole, ovvero se provenienti dall’agricoltura dell’Unione Europea o di Paesi terzi (art. 24, par. 1, lett. c)315, mentre resta facoltativo per i prodotti sfusi o preincartati di produzione comunitaria e per i prodotti importati da Paesi terzi, per i quali, 314 ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, cit., 2003, p. 734. Cfr. supra nota 220. Al riguardo, il Comitato economico e sociale europeo ha proposto di differenziare il logo attraverso una colorazione diversa quando il luogo di origine dei prodotti non è l’UE [COMITATO ECONOMICO E SOCIALE EUROPEO, Parere in merito alla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n. 834/2007 relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici, COM (2010) 758 definitivo, 2011/C 218/24]. 315 119 solo in caso di uso del logo UE, è obbligatorio riportare il codice di identificazione dell’organismo o dell’autorità di controllo316. Ciò ha portato ad obiettare che «il logo assume il ruolo di strumento di valorizzazione dell’agricoltura europea nella misura in cui essa si diversifica dalle produzioni extraeuropee, anziché mirare a unificare le produzioni agricole europee e presentarsi come unico segno distintivo dei prodotti biologici»317, il che dovrebbe avvenire proprio in virtù del fatto che le caratteristiche del prodotto comunicate dal segno non sono quelle convenzionate da produttori, preparatori e distributori ma sono quelle determinate dal reg. (CE) n. 834/07 in tutto il territorio comunitario. A onor del vero, il regolamento riconosce la specificità territoriale dell’azienda agricola, attraverso la previsione di eccezioni nazionali per l’avvio o il mantenimento della produzione biologica in aziende soggette a vincoli climatici, geografici o strutturali (art. 22, par. 2, lett. a) e, come detto più volte, consente a ciascun Stato membro di applicare nel proprio territorio norme più rigorose alla produzione biologica vegetale e animale318, ma resta il fatto che l’attestazione di biologicità, rilasciata da organismi di certificazione accreditati, garantisce l’osservanza dei metodi di coltivazione e di trasformazione secondo le disposizioni di un regolamento comunitario, ovvero secondo disposizioni comuni in tutto il territorio UE. In ciascun Stato UE, peraltro, come si dirà nel prossimo paragrafo, solo il prodotto di cui i rispettivi organismi nazionali di controllo autorizzati abbiano certificato la conformità alla normativa comunitaria “dal seme al negozio” può vantare la sua caratteristica biologica in etichetta e adottare il logo biologico UE, unitamente all’indicazione dell’origine della materia prima agricola. 316 «Per questi prodotti, nonostante il sistema di importazione preveda l’applicazione del sistema di controllo che coinvolge gli importatori come operatori economici della filiera e ricorra ad un sistema di equivalenza per quanto concerne il rispetto del metodo di produzione, se ne segnala unicamente la non appartenenza alle coltivazioni europee» (CANFORA, Il nuovo assetto dell’agricoltura biologica, cit., 2007, p. 377) 317 Ibidem. 318 Purché «tali norme siano applicabili anche alla produzione non biologica, siano conformi alla normativa comunitaria e non vietino o limitino la commercializzazione di prodotti [alimenti e mangimi] biologici prodotti al di fuori del territorio dello Stato membro interessato» [art. 34, par. 2, reg. (CE) n. 834/07]. Cfr capitolo I, paragrafo 4. 120 L’uso obbligatorio del logo comunitario, che per effetto dell’applicazione del reg. (CE) n. 834/07 doveva decorrere dal 1° gennaio 2009, è stato posticipato al 1° luglio 2010 dal reg. (CE) n. 967/08 in attesa di creare un nuovo simbolo grafico e ciò, come si legge nel 4° considerando del regolamento, «per evitare di imporre agli operatori inutili oneri finanziari e organizzativi». Riguardo al vecchio logo facoltativo comunitario, che ha trovato basso riscontro in passato, soprattutto nei Paesi del Nord Europa, gli operatori ne avevano lamentato la scarsa immediatezza comunicativa oltre a una forma grafica che poteva generare confusione con i loghi utilizzati per i prodotti DOP o IGP319, tanto che nella consultazione pubblica dell’ottobre 2008 sul tema della qualità dei prodotti agricoli320 è emersa, riguardo ai prodotti biologici, proprio l’opportunità di un nuovo logo a fronte della necessità di una maggiore differenziazione dei prodotti biologici dai prodotti convenzionali. Nel frattempo, però, il Consiglio [4° considerando, reg. (CE) n. 967/08] ha lasciato che gli operatori utilizzassero ancora il vecchio logo321, stemperando l’intenzione di voler garantire nell’etichetta dei prodotti biologici «un logo comunitario distintivo e attraente, che simboleggi la produzione biologica e identifichi chiaramente i prodotti». Tuttavia, come si dirà nei prossimi paragrafi, il reg. (CE) n. 834/07 (art. 25.2) ammette l’utilizzo di loghi nazionali e privati nella etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti biologici che soddisfino i requisiti previsti dalla normativa comunitaria, riconoscendo l’efficacia comunicativa di ulteriori segni distintivi che potrebbero garantire, ad esempio, il rispetto di disciplinari più restrittivi rispetto alla regolamentazione comunitaria. 319 GIUCA, Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale, in ABITABILE e POVELLATO, Le strategie per lo sviluppo dell’agricoltura biologica. Risultati degli Stati Generali 2009, Roma, 2010, p. 187. 320 EUROPEAN COMMISSION, Conclusions from the consultation on agricultural product quality, cit., 2009. Cfr. supra nota 213. 321 I prodotti ottenuti, confezionati ed etichettati a norma del reg. (CEE) n. 2092/91 o del reg. (CE) n. 834/07 anteriormente al 1° luglio 2010, potranno essere commercializzati con termini che fanno riferimento al metodo di produzione biologico, compreso il logo facoltativo, fino ad esaurimento delle scorte; inoltre, il materiale da imballaggio prodotto a norma del reg. (CEE) n. 2092/91 anteriormente al 1° luglio 2010, potrà essere utilizzato per i prodotti commercializzati a livello nazionale con termini che fanno riferimento al metodo di produzione biologico fino al 1° luglio 2012, a condizione che i prodotti rispettino i requisiti del nuovo reg. (CE) n. 834/07, come dispongono il reg. (UE) n. 271/10 e il d.m. 28 maggio 2010, n. 1032. 121 Le modalità di applicazione obbligatoria del logo UE sono state dettagliate dal successivo reg. (UE) n. 271/10 con riguardo al nuovo simbolo grafico (raffigurato nell’allegato a questo lavoro) - un rettangolo orizzontale di colore verde chiaro con dodici stelle bianche che tracciano il profilo di una foglia con al centro una cometa (da cui il nome «Eurofoglia») - scelto dalla Commissione Europea dopo aver lanciato un bando europeo e dato avvio a una campagna promozionale per il biologico322, compensando l’assenza di tale iniziativa negli anni passati. Nei considerando del reg. (UE) n. 271/10 si specifica che, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il logo comunitario è definito «logo di produzione biologica dell’Unione Europea» e che tale logo è «in vigore, utilizzabile e tutelato in quanto è stato registrato come marchio collettivo di agricoltura biologica nell’Ufficio di proprietà intellettuale del Benelux». Tuttavia, come sarà approfondito nei prossimi paragrafi, vanno sottolineate profonde differenze sotto il profilo strutturale tra il logo biologico dell’UE e l’istituto del marchio collettivo. Quest’ultimo è «oggetto di un diritto assoluto che sorge con atto statuale (la registrazione) determinato dall’iniziativa di un gruppo privato o di un ente pubblico ed è, secondo uno schema privatistico, subordinato alle regole di validità e tutela»; il contenuto, anch’esso determinato da un atto di natura privatistica (il regolamento), «vincola i produttori al consorzio e impone un disciplinare di produzione per cui le caratteristiche del prodotto comunicate dal segno sono esclusivamente quelle convenzionate dai produttori» mentre quelle attestate dal segno biologico, lo si è detto, «sono quelle determinate dalla legge, indipendentemente dai controlli eseguiti»323. Il logo di produzione biologica dell’UE è, dunque, un segno distintivo (di qualità324) - ed è pur sempre un marchio collettivo325 - che svolge funzione di 322 Una giuria indipendente ha proceduto alla selezione delle dieci migliori proposte pervenute tra quelle inviate da 3.400 studenti di arte e grafica appartenenti a tutti i 27 Paesi UE. Tre di queste sono state selezionate e successivamente sottoposte a una consultazione pubblica che si è conclusa il 31 gennaio 2010 con la scelta del logo «Euro-leaf» (Eurofoglia), disegnato dallo studente tedesco Dusan Milenkovic (http://ec.europa.eu/agriculture/organic/home_it). 323 ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, cit., 2003, p. 735. 324 In tal senso GIACOMINI et al., Lo sviluppo dei marchi geografici collettivi e dei segni distintivi per tutelare e valorizzare i prodotti freschissimi, Milano, 2007, pp. 9-18. 325 «The Organic Farming Mark is a collective mark applied for by EC. The Organic Farming Mark indicates that the organic products bearing the said Mark comply with the requirements 122 garanzia e di certificazione, attestando la biologicità del prodotto, ovvero la conformità alle disposizioni sui metodi di produzione biologica per gli alimenti preconfezionati e, dunque, i caratteri qualitativi del prodotto, per cui almeno il 95% degli ingredienti sono stati prodotti con metodo biologico, sono conformi alle regole del piano ufficiale di ispezione e provengono direttamente dal produttore o sono preparati in una confezione sigillata326. La Commissione ha poi ulteriormente sancito, con il reg. di esecuzione (UE) n. 344/11, che «soltanto gli operatori che hanno assoggettato la loro impresa al sistema di controllo per l’agricoltura biologica possono utilizzare il logo biologico dell’UE nell’etichettatura» (2° considerando), ritenendo la tracciabilità, in tutte le fasi della produzione, della preparazione e della distribuzione di ciascun prodotto recante il logo biologico dell’UE, un fattore importante per garantire ai consumatori che la produzione dei prodotti biologici sia avvenuta in conformità ai requisiti previsti dalla normativa comunitaria327. Il logo deve essere apposto sulle confezioni degli alimenti preconfezionati328 unitamente all’indicazione del luogo in cui sono state coltivate le materie prime agricole di cui il prodotto è composto; tale indicazione deve comparire nello stesso campo visivo del logo, sotto il numero contained in the present Regulations and relevant Legislation» (EUROPEAN COMMISSION, Regulations on Use and Management of the Organic Farming Collective Mark, Brussels, 2010, p. 3). Il regolamento per l’uso e la gestione del marchio collettivo, le istruzioni d’uso del logo e i formati grafici sono disponibili sul sito dell’UE: http://ec.europa.eu/agriculture/organic/eupolicy/logo_it. Per un approfondimento sui marchi collettivi cfr. infra paragrafo 4. 326 Sui prodotti che possono contenere i riferimenti al biologico in etichetta cfr. supra nota 289. 327 Il reg. di esecuzione (UE) n. 344/11 ha modificato il secondo comma dell’art. 57 del reg. (CE) n. 889/08 come segue: «Per quanto concerne l’etichettatura, il logo biologico dell’UE è utilizzato soltanto se il prodotto di cui trattasi è prodotto nel rispetto dei requisiti stabiliti dal reg. (CE) n. 834/07, dal reg. (CE) n. 1235/08 e dal presente regolamento, da operatori che soddisfano i requisiti del sistema di controllo di cui agli articoli 27, 28, 29, 32 e 33 del reg. (CE) n. 834/07». Appare chiaro, in tal senso, che i distributori di prodotti a marchio privato devono essere assoggettati direttamente al sistema di controllo (cfr. infra paragrafo 3). 328 Secondo le disposizioni contenute nell’art. 1 e nel titolo IV del reg. (CE) n. 834/07 e nel titolo III del reg. (CE) n. 889/08, il logo non può essere utilizzato per i seguenti prodotti: prodotti con meno del 95% di ingredienti biologici; alimenti che contengono ingredienti biologici e non biologici in proporzioni variabili; prodotti composti principalmente da ingredienti della caccia e/o della pesca; prodotti in conversione all’agricoltura biologica; vino e aceto prodotti con uve bio o in conversione all’agricoltura biologica; mangimi ottenuti in conformità ai regg. (CE) n. 834/07 e n. 889/08 ma in cui meno del 95% di sostanza secca del prodotto è biologico; materiale di propagazione vegetativa biologico e sementi per la coltivazione biologici; prodotti che, al momento, non rientrano nel campo di applicazione del reg. (CE) 834/07, ovvero prodotti della ristorazione collettiva, mangimi ad uso professionale e alimenti per animali da compagnia (pet food), prodotti tessili, prodotti cosmetici e alghe coltivate diverse dalle alghe marine. 123 di codice dell’autorità o dell’organismo di controllo che obbligatoriamente deve essere riportato insieme al logo [art. 58, reg. (CE) n. 889/08], tramite una delle seguenti diciture [art. 24, par. 1, lett. c, reg. (CE) n. 834/07]: «Agricoltura UE», quando la materia prima agricola è stata coltivata in Europa; «Agricoltura non UE», quando la materia prima agricola è stata coltivata in Paesi terzi; «Agricoltura UE/non UE», quando parte della materia prima agricola è stata coltivata nella UE e una parte di essa è stata coltivata in un Paese terzo. Gli Stati membri, ai sensi dell’art. 27.10 del reg. (CE) n. 834/07, hanno il compito di provvedere affinché il sistema di controllo nazionale permetta la tracciabilità di ogni prodotto in tutte le fasi della produzione, preparazione e distribuzione conformemente all’art. 18 del reg. (CE) n. 178/02. Pertanto, mentre il numero di codice dell’autorità o dell’organismo di controllo cui è soggetto l’operatore che ha effettuato la produzione o la preparazione più recente è indicazione obbligatoria che, insieme al logo, deve comparire in etichetta per effetto di una norma cogente comunitaria [art. 24, par. 1, lett. a, reg. (CE) n. 834/07], il nome o la ragione sociale dell’operatore (produttore, addetto alla trasformazione o venditore), nonché il codice identificativo a questi attribuito dall’organismo di controllo, discende da una norma cogente nazionale (d.m. 28 maggio 2010, n. 8515). Ne consegue che il logo UE svolge, accanto alle funzioni di garanzia della natura (biologicità) e qualità del prodotto (caratteristiche determinate dalla legge), anche - esclusivamente ai fini del diritto dei consumatori all’informazione e senza alcun legame diretto del territorio con le caratteristiche qualitative del prodotto - la funzione di garanzia di origine territoriale (luogo di provenienza) della materia prima agricola («agricoltura UE/non UE»). Il logo UE, in tal senso, “comunica” l’origine territoriale ma non la provenienza delle aziende di produzione, trasformazione e commercializzazione, essendo aperto a tutte le imprese comunitarie ed extracomunitarie in regime di equivalenza o meno, ovvero quando la produzione biologica è provata dalla certificazione rilasciata da un organismo o da un’autorità di controllo riconosciuti ai sensi del reg. (CE) n. 834/07. Tuttavia, oggi l’origine aziendale è in parte “comunicata” dall’obbligo di 124 indicare in etichetta il nome o la ragione sociale o il marchio depositato e la sede (località) o del fabbricante o del confezionatore o dell’importatore o di un venditore stabilito nella Comunità Europea (art. 3, par. 1, direttiva 2000/13/CE), nonché la sede (località) dello stabilimento di produzione o di confezionamento (obbligo previsto solo in Italia - in base agli artt. 3 e 11 del d. lgs. 109/92 - per i prodotti realizzati e commercializzati in Italia, ad esclusione di queli recanti il bollo sanitario, il quale consente comunque di risalire allo stabilimento) e dal codice dell’operatore (produttore o preparatore o distributore) che, come detto, a livello nazionale e ai fini della tracciabilità, deve comparire in etichetta insieme al logo UE (d.m. 8515/10). A questo proposito, il reg. di esecuzione (UE) n. 426/11, recante modifica del reg. (CE) n. 889/08, stabilisce che dal 1° gennaio 2013 gli Stati membri devono mettere a disposizione del pubblico nei modi opportuni, compresa la pubblicazione su Internet, e osservando le disposizioni in materia di protezione dei dati personali, le informazioni concernenti gli operatori soggetti al sistema di controllo329. Un’ultima riflessione riguarda la dicitura «Agricoltura UE» che compare in etichetta, la quale può essere sostituita o integrata dall’indicazione del Paese in cui sia stato prodotto non meno del 98% delle materie prime agricole di cui il prodotto è composto, ad esempio «Agricoltura italiana» o «Agricoltura UE materia prima italiana». Questa informazione obbligatoria che accompagna il segno distintivo del prodotto biologico completandone l’immagine, soddisfa, senza dubbio, l’esigenza del consumatore ad essere informato sulla provenienza del prodotto in modo da poter operare in piena libertà la propria scelta di acquisto; come è noto, il consumatore è spesso indotto dalla cultura e dalle tradizioni, dalle abitudini e dalle emozioni gustative e, in genere, dal contesto socio-economico 329 In Italia, a fine 2011 la Conferenza Stato-Regioni ha raggiunto l’intesa sul testo della bozza di decreto ministeriale che istituisce il Sistema informativo biologico per la gestione informatizzata della notifica di attività con metodo biologico. Il sistema, che integra i sistemi informativi regionali esistenti (cfr. www.sian.it/abiopubb/home/startConsElencoAziende.do), renderà disponibile su internet l’elenco aggiornato degli operatori e il documento giustificativo rilasciato dagli organismi di controllo relativo allo stato di certificazione di ogni azienda a sistema. Riguardo all’obbligo di notifica cfr. infra nota 347. 125 in cui vive, a preferire un prodotto alimentare di origine nazionale330, mostrandosi anche molto attento agli impatti sul cambiamento climatico in termini di riduzione di gas serra, sia dal lato delle metodiche di produzione sia dal lato delle modalità con cui i cibi vengono distribuiti e commercializzati, privilegiando, di fatto, i consumi locali di prodotti tipici e biologici e la filiera corta331. Ma l’indicazione del luogo in cui sono state coltivate le materie prime agricole di cui il prodotto biologico è composto rappresenta, in verità, un esempio di distorsione percettiva, di cui si è argomentato nel paragrafo 1, che potrebbe incidere negativamente sulla comunicazione al consumatore. In primo luogo perché il logo obbligatorio UE non lega direttamente le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto al territorio ma, semmai, al rispetto di un metodo di produzione disciplinato dal reg. (CE) n. 834/07 e utilizzabile da qualunque operatore comunitario o extra-comunitario, anche se l’indicazione del luogo di produzione potrebbe comunque rappresentare un valore aggiunto nei modi e nei termini di cui si dirà nel prossimo capitolo. In secondo luogo nel caso, ad esempio, dell’Italia, sono moltissimi i prodotti biologici trasformati che contengono ingredienti extracomunitari in misura superiore al 2%, soprattutto zucchero, malto, grassi vegetali, sciroppo di glucosio e altri dolcificanti e che quindi sottostanno all’obbligo di etichettatura con la dicitura «Agricoltura UE/non UE»332. In assenza di obblighi comunitari in materia di indicazione dell’origine della materia prima per tutti gli alimenti333, l’immagine del biologico che contiene materie prime agricole di provenienza non comunitaria (con obbligo di indicazione in etichetta) rischia di essere penalizzata a favore di produzioni convenzionali, analogamente 330 Sull’argomento: SASSATELLI, Fiducia, sicurezza, qualità. Gli italiani e il cibo, paper presentato al Convegno di inaugurazione dell’Osservatorio sulle regole dell’agricoltura e dell’alimentazione (ORAAL), Pisa, 2010. 331 Sull’argomento: CRISTIANI, La filiera corta in agricoltura biologica, in Rivista di diritto alimentare, 2008, 3, pp. 15-20. 332 Tra questi i biscotti, la pasticceria artigianale e industriale, le confetture e le confetture extra, le marmellate e le marmellate extra, le gelatine e le gelatine extra, i succhi e i nettari di frutta, gli yogurt ai gusti, le caramelle e i pastigliaggi, i prodotti a base di cacao, i gelati, le paste alimentari fresche o secche e i prodotti da forno a base di kamut®, grano saraceno, segale, amaranto e quinta (GIUCA, Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale, cit., 2010, p. 189). 333 Cfr. supra note 221 e 223. 126 realizzate con ingredienti non nazionali ma esentate dall’obbligo di doverlo comunicare in etichetta334. Ad esempio, la pasta biologica al kamut® (cereale non disponibile di produzione extra-comunitaria335), realizzata in Italia, deve essere etichettata come «non UE», mentre la pasta convenzionale, realizzata in Italia con grano duro ma di origine australiana, non è tenuta a dettagliare in etichetta l’origine della materia prima. «Il consumatore potrebbe preferire la pasta convenzionale rispetto a quella biologica perché percepita come ‘prodotto al 100% italiano’, con palese induzione in errore e possibile squilibrio commerciale; si profila, infatti, l’ipotesi di ostacolo per la libera circolazione delle merci nel mercato comune, in quanto il consumatore non dispone di quegli attributi dell’offerta in questo caso l’indicazione dell’origine o della provenienza - che gli consentono di poter conoscere le caratteristiche del prodotto e di poter operare una scelta consapevole dei propri acquisti. Altri esempi di percezione distorta per il consumatore possono derivare dai prodotti che hanno ottenuto il riconoscimento IGP: per alcuni di questi, infatti, i disciplinari non pongono vincoli sull’origine della materia prima (che può essere anche extracomunitaria) ma sono percepiti, grazie alla certificazione, come prodotti della tradizione alimentare italiana. Se fossero realizzate delle versioni biologiche di questi prodotti IGP, con materie prime biologiche di origine extra-comunitaria, a causa dell’indicazione obbligatoria ‘non UE’ in etichetta, questi prodotti verrebbero percepiti come frutto del mercato globale, con indebita penalizzazione della produzione biologica nazionale a vantaggio della produzione convenzionale, che pur presenta ingredienti d’origine extracomunitaria»336. 334 GIUCA, op. ult. cit., 2010, p. 189. «Il kamut è un antico antenato del grano radicatosi in Egitto. In una tomba vicina alla località egiziana di Dashare venne trovata, dopo la seconda guerra mondiale, una scatola di pietra con 36 semi. Spediti in Montana e ivi coltivati dettero luogo a grani giganti utilizzati per l’alimentazione zootecnica. Nel 1986 il grano gigante fu esposto in una fiera alimentare in California, destando l’interesse dei consumatori. Il grano, registrato negli USA con il nome kamut®, fu così immesso in commercio, inizialmente trasformato in pasta, poi in pane e infine in fiocchi. La varietà kamut del grano è stata brevettata, ovviamente senza l’individuazione di una comunità autoctona da tutelare» (GERMANÒ, Il cibo nel diritto internazionale del mercato e dei prodotti agricoli: disciplina e controversie, in agricoltura, istituzioni, mercati, 2009, 1-2, p. 112). 336 GIUCA, op. ult. cit., 2010, pp. 189-190. 335 127 Infine, come considerazione di carattere generale che riguarda tutti i prodotti agro-alimentari, occorre ricordare che il luogo di origine o di provenienza deve oggi essere indicato obbligatoriamente in etichetta nel caso in cui l’omissione possa indurre in errore l’acquirente circa l’origine o la provenienza del prodotto, come dispone la direttiva 2000/13/CE e come conferma il reg. (UE) n. 1169/2011 destinato ad abrogarla (riferendosi, però, al paese di origine o al luogo di provenienza337), e nel caso in cui il nome commerciale o altri elementi sull’etichetta, quali un’immagine, una bandiera o il riferimento ad una località possano indurre in errore il consumatore sull’esatta origine del prodotto. Sennonché, come ampiamente descritto nel capitolo precedente a proposito della qualità, anche l’origine è termine privo di univoco significato sotto il profilo giuridico338. 337 In tal senso, il Parlamento Europeo e il Consiglio hanno sposato gli orientamenti della giurisprudenza, là dove, all’art. 26, par. 2, lett. a) del recente reg. (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, dispongono che l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza - quest’ultimo inteso come luogo da cui proviene l’alimento ma che non è il paese di origine, ovvero il luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale dell’alimento ai sensi degli articoli da 23 a 26 del reg. (CEE) n. 2913/92, come sostituito dal reg. (CE) n. 450/08 relativo al nuovo Codice doganale - è obbligatoria «nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente paese d’origine o luogo di provenienza». L’art. 26.3 precisa anche che quando il Paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento sia indicato e non sia lo stesso di quello del suo ingrediente primario deve essere indicato «il paese d’origine o il luogo di provenienza di tale ingrediente primario» oppure il «paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario è indicato come diverso da quello dell’alimento» (cfr. infra nota 338). 338 Di «coesistenza di una molteplicità di formule nel linguaggio del legislatore europeo» e di come l’incertezza in argomento abbia indotto alcuni studiosi francesi a parlare di «mistero dell’origine» (BRANLARD, La reconnaisance et la protection par le Droit des mentions d’origine géographique comme élément de qualité des produits alimentaires, in Revue de droit rural, 1995, p. 409), argomenta ALBISINNI nei suoi lavori, in particolare ne L’origine dei prodotti agro-alimentari e la qualità territoriale, cit., 2000, pp. 23-44. Ancora, l’A. sottolinea come «la parola sia polisenso, e l’origine di un alimento non sia necessariamente riducibile alla provenienza geografica. Sicché appare più un auspicio che una constatazione la posizione di chi propone l’adozione di una chiara distinzione semantica, che attribuisca ad ‘origine’ l’indicazione di un legame di causalità fra l’origine e le caratteristiche del prodotto, ed a ‘provenienza’ la semplice indicazione del luogo da cui proviene il prodotto, senza alcuna implicazione di particolari caratteristiche legate a tale provenienza» (ALBISINNI, Le norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari, cit., 2003, p. 639). Secondo l’A., il tema dell’origine si pone in termini diversi riguardo ai prodotti agricoli immessi al consumo non trasformati (ortofrutta) e a prodotti trasformati (formaggi, salumi, conserve, vino, olio), per i quali la molteplicità delle tecniche e delle filiere produttive investe una pluralità di luoghi, in riferimento ai componenti e alle fasi del prodotto finale. Il reg. (CE) n. 450/08 (nuovo Codice doganale), distingue tra «origine preferenziale» delle merci quando le norme sull’origine del prodotto agricolo sono stabilite dagli accordi tra UE e un Paese terzo e «origine non 128 3. Il controllo e la certificazione dei prodotti biologici Nel prendere atto, con la General Food Law, della complessità della produzione e della rilevanza dell’attività di ciascuna impresa, hanno assunto rilievo, nel diritto alimentare comunitario, le regole di comportamento dell’impresa339, dirette a governare il processo di produzione; pertanto, il “sistema sicurezza” - come descritto nel capitolo precedente - non coinvolge soltanto il prodotto finito ma la stessa fabbricazione del prodotto. Dunque, «non è un caso che, nella revisione dei regolamenti sui prodotti di qualità (DOP, IGP, STG, biologico) sia scomparsa ogni differenza, sul piano delle regole procedurali, tra i controlli ufficiali sulle produzioni alimentari e i controlli sulle produzioni alimentari di qualità, rispetto alle quali in passato si preferenziale»: in questo secondo caso l’origine di un prodotto agricolo coincide con l’origine geografica, mentre l’origine di un prodotto trasformato è individuata nel Paese o territorio in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale, ovvero quella economicamente più rilevante (RIZZIOLI, Le etichette fra informazione ed origine, relazione presentata alla giornata di studio Etichette, origine e informazioni al consumatore, Accademia dei Georgofili, Firenze, 25 marzo 2010). Sicché «il canone di origine si semplifica e si banalizza. L’origine della materia prima e le fasi intermedie di lavorazione perdono rilievo, mentre viene privilegiato il momento finale della trasformazione, non necessariamente coincidente con la fase caratterizzante dell’intero processo, essendo richiesto esclusivamente che si sia trattato di una ‘fase importante del processo di fabbricazione’ […]. A fronte delle difficoltà che il tema dell’etichettatura di origine dei prodotti alimentari di massa continua ad incontrare nella disciplina orizzontale europea, rilevanti novità sono emerse negli ultimi anni in riferimento ad alcuni specifici prodotti. [Con il] reg. (CE) n. 820/97 […] sono state introdotte norme che prevedono l’indicazione generalizzata dell’origine geografica da area vasta della carne bovina […]. Nell’arco di poco più di un decennio, dal reg. (CE) n. 2815/98 al reg. (CE) n. 182/09, si è resa obbligatoria la designazione di origine dell’olio vergine ed extravergine di oliva, inizialmente introdotta solo come facoltativa. La modifica nella dimensione spaziale esprime una rilevante novità nella filosofia sottesa all’uso della nuova formula. Destinatari della designazione d’origine non sono i c.d. ‘prodotti di nicchia’ o i ‘giacimenti gastronomici’ (che già godono di specifici segni distintivi, calibrati in ragione di aree ben più piccole e specificamente delimitate), quanto piuttosto la grande massa del prodotto medio, destinato ad un consumo generalizzato, attraverso i grandi circuiti distributivi, i grossi volumi di vendita ed il massiccio intervento dell’industria alimentare, sia nelle fasi della lavorazione e confezione del prodotto, che in quelle della sua commercializzazione. La progressiva adozione del criterio obbligatorio di etichettatura di origine da area vasta si afferma, negli stessi anni che hanno visto le richiamate novità disciplinari per la carne bovina e l’olio di oliva, anche per altre classi di prodotto, così segnando una crescente espansione del ricorso a tale canone di comunicazione sul mercato» (ALBISINNI, Il made in Italy dei prodotti alimentari, cit., 2011, pp. 44-45). Da ultimo, il reg, (UE) n. 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, riprende la prima versione del Codice doganale comunitario secondo cui il luogo di provenienza è da intendersi come luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale dell’alimento (cfr. infra nota 337) e chiarisce che «il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare ai sensi del presente regolamento». Cfr. supra note 221 e 223 e infra nota 266. 339 Cfr. supra nota 133. 129 segnava la differenza tra controllo sul processo di produzione rispetto all’ordinario controllo sul prodotto finale»340. Così, l’art. 27 del reg. (CE) n. 834/07 - e con contenuti analoghi l’art. 10 del reg. (CE) n. 510/06 (riguardo alle DOP/IGP) e l’art. 14 del reg. (CE) n. 509/06 (riguardo alle STG) - afferma che «gli Stati membri istituiscono un sistema di controllo e designano una o più autorità competenti responsabili dei controlli relativi agli obblighi sanciti dal presente regolamento in conformità del regolamento (CE) n. 882/2004». Al di là della differenza dei contenuti, che nel caso delle produzioni biologiche insistono sul rispetto delle norme di produzione definite dai regolamenti comunitari, mentre nel caso delle produzioni DOP/IGP e STG sul rispetto di specifiche regole tecniche contenute nei disciplinari di produzione, è significativo il richiamo alla disciplina del reg. (CE) n. 882/04 per effetto non solo della semplificazione della normativa341, «ma anche del diverso approccio seguito per i controlli sulle produzioni alimentari tout court. […] Dunque, da un lato, l’attività di ogni impresa che opera nella produzione alimentare è da considerare singolarmente dal punto di vista del rispetto delle regole di produzione necessarie a garantire l’immissione sul mercato di un prodotto alimentare sicuro; dall’altro, l’approccio sistemico di filiera incide anche su una rinnovata considerazione dei rapporti contrattuali che legano le imprese coinvolte nella produzione»342. Le nuove norme, pertanto, confermano e ulteriormente estendono l’obbligo di controllo e certificazione per tutti gli operatori della filiera. Il titolo V del reg. (CE) n. 834/07 e il titolo IV del reg. (CE) n. 889/08, entrambi rubricati «Controlli», dettagliano le regole dei controlli 343 e 340 CANFORA, Sicurezza alimentare, cit., 2009, p. 14. Infatti, il reg. (CE) n. 882/04 ha armonizzato i sistemi di controllo per DOP/IGP/STG, vini di qualità (VCQG) e prodotti biologici, lasciando agli Stati membri (artt. 4-5) la designazione di autorità competenti (autorità pubbliche e/o organismi privati di certificazione) responsabili in relazione alle finalità e ai controlli ufficiali stabiliti dallo stesso regolamento. Recentemente la Commissione Europea ha redatto, in collaborazione con gli Stati membri, un documeto di raccordo tra la legislazione specifica del biologico e la legislazione più generale sui controlli ufficiali relativi agli alimenti e ai mangimi, proprio con la finalità di agevolare la comprensione di alcuni aspetti del sistema di controllo per l’agricoltura biologica (EUROPEAN COMMISSION, Working document of the Commission services on official controls in the organic sector, version 8 July 2011). 342 CANFORA, op. ult. cit., 2009, pp. 14-15. 343 Gli artt. 63-92 del reg. (CE) n. 889/08 «delineano i dettagli del regime di controllo con riferimento alle diverse tipologie produttive (vegetali, animali con regole particolari per 341 130 aggiornano la disciplina sostanziale già contenuta nel vecchio reg. (CEE) n. 2092/91 ai principi della valutazione del rischio e del principio di precauzione contenuti nel reg. (CE) n. 882/04344; «sono state tra l’altro evidenziate le responsabilità delle autorità di controllo nazionali nella definizione dei compiti attribuiti agli organismi di controllo [OdC] privati, ferme restando le competenze non delegabili a soggetti terzi, perché responsabilità diretta degli Stati membri ai fini dell’attuazione del regolamento (CE) n. 834/07, [che sono]: vigilanza, audit e competenza a concedere le eccezioni previste dal regolamento (art. 27.7)»345. All’art. 28 del reg. (CE) n. 834/07 si legge che «prima di immettere prodotti sul mercato come biologici o in conversione al biologico346, gli operatori che producono, preparano, immagazzinano o importano da un paese terzo prodotti [...biologici...] o che immettono tali prodotti sul mercato: a) notificano la loro attività alle autorità competenti dello Stato membro in cui l’attività stessa è esercitata347; b) assoggettano la loro impresa al sistema di l’apicoltura, mangimi), di trasformazione o importazione e individua le caratteristiche dei documenti contabili e dei registri (delle produzioni vegetali o di stalla) che debbono essere tenuti a disposizione dell’autorità o dell’organismo di controllo. […] Ulteriori “requisiti di controllo” specifici per le alghe marine e per l’acquacoltura sono contenute nel reg. (CE) n. 710/09 che integra il reg. (CE) n. 889/08 con riferimento a queste peculiari tipologie produttive (artt. 73 bis e ter; artt. 79 bis-quinquies; artt. 93 e 95)» (CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2011, p. 90). 344 «Oltre alle condizioni stabilite nel reg. (CE) n. 882/04, il sistema di controllo istituito conformemente al presente regolamento comprende almeno l’applicazione di misure precauzionali e di controllo che la Commissione deve adottare secondo la procedura di cui all’art. 37, paragrafo 2» [art. 27.2, reg. (CE) n. 834/07]. «In aggiunta al sistema di controllo fondato sul reg. (CE) n. 882/04 […] è opportuno prevedere misure di controllo specifiche, in particolare per quanto concerne le prescrizioni applicabili a tutte le fasi di produzione, di preparazione e di distribuzione dei prodotti biologici» [15° considerando, reg. (CE) n. 889/08]. 345 CANFORA, Il nuovo assetto dell’agricoltura biologica, cit., 2007, p. 365. 346 Tutte le aziende agricole che iniziano la produzione biologica devono osservare un periodo di «conversione» che viene dettagliato dal legislatore per tipo di coltura o produzione animale [cfr. titolo II, capo 5, reg. (CE) n. 889/08 e norme specifiche contenute nel reg. (CE) n. 710/09]. Cfr. supra nota 293. 347 Gli impegni specifici per gli operatori, i preparatori e gli importatori che, con l’obbligo di notifica sono assoggettati al sistema di controllo, sono disciplinati nel dettaglio dai regolamenti (CE) n. 889/08, n. 710/09 e n. 1235/08, con riferimento alle varie categorie produttive e alle diverse qualifiche soggettive; in Italia, ai sensi del d.lgs. 220/95, gli operatori devono notificare l’inizio dell’attività di produzione biologica a Regioni e Province autonome nel cui territorio è ubicata l’azienda mentre, nel caso di importazione, la notifica va inviata al MIPAAF. Presso le Regioni e province autonome sono istituiti gli elenchi degli operatori dell’agricoltura biologica, suddivisi in tre sezioni: «produttori agricoli» (aziende biologiche, aziende in conversione, aziende miste); «preparatori» (operatori che nello svolgimento della propria attività utilizzano prodotti certificati provenienti da aziende biologiche); «raccoglitori di prodotti spontanei». Tali elenchi sono trasmessi al MIPAAF entro il 31 marzo di ogni anno al fine di costituire l’Elenco 131 controllo di cui all’art. 27». Si tratta di un sistema complesso e misto, che conferisce al settore privato il compito di garantire la conformità dei processi e dei prodotti a quanto stabilito dalla norma cogente (le autorità competenti, infatti, possono individuare strutture di controllo private che devono offrire adeguate garanzie di oggettività e imparzialità in quanto svolgono una funzione di garanzia pubblica su delega e sotto il controllo dell’autorità pubblica) e al sistema pubblico il compito di garantire il riconoscimento degli organismi che controllano e certificano nonché la “tenuta” del quadro di riferimento, fatto di regole, vigilanza e controlli. Tale sistema, pertanto, consente di assicurare al cittadino-consumatore la conformità delle produzioni ai canoni di salubrità, qualità e lealtà commerciale e, allo stesso tempo, di prevenire e contrastare frodi e illeciti di diversa natura348. nazionale degli operatori dell’agricoltura biologica, dove compare anche una quarta sezione riservata agli operatori che svolgono attività di importazione. Presso il ministero, inoltre, è istituito l’Elenco degli organismi di controllo autorizzati (CRISTIANI, op. ult. cit., 2011, pp. 90-91). Gli elenchi sono pubblici e consultabili su internet e dal 1° gennaio 2013 tutte le informazioni concernenti gli operatori soggetti al sistema di controllo (e non solo gli elenchi) dovranno essere resi pubblici da tutti gli Stati membri nei modi opportuni e nel rispetto della privacy, ai sensi del reg. di esecuzione (UE) n. 426/11. 348 Il sistema nazionale di controllo e certificazione delle produzioni biologiche è regolato, in Italia, dal d. lgs. 220/95, emanato in attuazione agli artt. 8 e 9 del reg. (CEE) n. 2092/91 (cfr. infra paragrafo 5), sostituiti dagli artt. 27-31 del reg. (CE) n. 834/07. L’autorità responsabile a livello nazionale dell’attività di controllo e coordinamento dell’applicazione delle norme comunitarie è il MIPAAF che, attraverso l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), dipartimento PREF, e il Comando Carabinieri politiche agricole, effettua controlli di tipo merceologico e sull’identità dei prodotti e dei mezzi tecnici di produzione agricola (sementi, mangimi) lungo tutta la filiera (trasformazione, magazzinaggio, trasporto, commercio, somministrazione e importazione di alimenti e mangimi) (DORE e TIMI, Il controllo e la certificazione, in RETE RURALE NAZIONALE, Bioreport 2011. L’agricoltura biologica in Italia, Roma, 2011, pp. 75-76). Il concreto svolgimento delle attività di controllo degli operatori agricoli, zootecnici o apicoltori, sulla base del Programma annuale di produzione (PAP), invece, è delegato agli OdC (cfr. infra nota 350). Nel 2010 l’ICQRF ha effettuato 1.264 ispezioni sull’intero territorio nazionale, controllando 1.150 operatori e 1.997 prodotti. Nel corso delle ispezioni, sono stati prelevati 424 campioni, soprattutto prodotti ortofrutticoli, cereali in granella e sfarinati, per la verifica delle caratteristiche di composizione quali-quantitativa e della loro conformità ai requisiti di legge. Il 5,2% degli operatori, il 3,8% dei prodotti e il 3,8% dei campioni sono risultati irregolari; pertanto, sono state inoltrate 17 notizie di reato all’autorità giudiziaria che hanno riguardato sia l’art. 515 c.p. (frode nell’esercizio del commercio), per la presenza di principi attivi non consentiti in prodotti da agricoltura biologica, sia l’art. 356 c.p. (frode nelle pubbliche forniture), per sostituzione nelle mense di prodotti da agricoltura biologica con prodotti convenzionali. La maggior parte delle 87 contestazioni amministrative elevate, invece, sono dovute a violazioni delle norme che disciplinano l’etichettatura (quali, ad esempio, prodotti convenzionali concernenti illeciti riferimenti al metodo di produzione biologico o con indicazioni in etichettatura non conformi alla normativa) e a inadempienze degli obblighi di rintracciabilità dei prodotti (ICQRF, Relazione attività duemila10, Roma, 2011). Presso il ministero, inoltre, è stata istituita, ai sensi del d.m. 27 agosto 2004, l’Unità nazionale di 132 L’attività di controllo sugli operatori, condotta da una struttura tecnica e amministrativa qualificata e organizzata che opera in base a organigrammi e istruzioni formalizzate, è definibile come «l’attività di tipo tecnico e documentale necessaria [sia] alla verifica della notifica di attività con metodo biologico e alla richiesta di certificazione da parte dell’operatore, [sia alla successiva] sorveglianza per il mantenimento dei requisiti fissati dalla norma e dalle prescrizioni date dall’organismo di certificazione e sul corretto uso dei documenti di certificazione o equivalenti. […] L’attività di certificazione, che è propria degli organismi autorizzati, consiste nell’emissione dei documenti che attestano la conformità dei processi e dei prodotti alla norma di riferimento e in tutte le azioni che riguardano la gestione di tali documenti, compresa l’irrogazione di sanzioni agli operatori»349. In Italia, sia l’attività di controllo sugli operatori sia l’attività di certificazione sono svolte dagli OdC accreditati secondo la norma europea EN 45011 e autorizzati dal MIPAAF350. coordinamento della vigilanza sulle strutture autorizzate a svolgere il controllo e le certificazioni delle produzioni agro-alimentari regolamentate da norme comunitarie (prodotti biologici, DOP, IGP, STG, vini VQPRD, identificazione ed etichettatura delle carni bovine e delle carni di pollame), mentre presso le Regioni e Province autonome operano le Unità territoriali di vigilanza, all’uopo istituite (INEA, Annuario dell’agricoltura italiana, Napoli, 2005, p.80). 349 ISMEA, Lo scenario economico dell’agricoltura biologica, Roma, 2004, pp. 271 e 279. 350 In tutti gli Stati membri, a decorrere dal 1° gennaio 2009, gli OdC devono essere accreditati - in base alle norme tecniche EN 45011 (a livello europeo) o ISO 65 (a livello internazionale) che definiscono i «Requisiti generali relativi agli organismi che gestiscono sistemi di certificazione dei prodotti» [art. 27, par. 5, lettera b, reg. (CE) n. 834/07] - dall’Ente nazionale di accreditamento degli organismi di certificazione, che deve essere un unico organismo designato da ciascun Stato membro, come dispone il reg. (CE) n. 765/08, il quale «ha proposto un modello sistemico ed integrato, attraverso una considerazione unitaria dei protagonisti del mercato. In questa prospettiva appare particolarmente significativo l’ampliamento della [sua] area applicativa in materia di accreditanmento dei verificatori, con l’inclusione nel modello unitario anche dei prodotti alimentari inizialmente escluso» (ALBISINNI, Sicurezza e controlli: chi garantisce cosa?, Abstract della relazione presentata al Convegno AIDA, Controlli, certificazioni, responsabilità tra pubblico e privato, tra domestico e globale, Viterbo, 2-3 dicembre 2011). In Italia, ACCREDIA (ex SINCERT), è l’Ente unico nazionale di accreditamento, designato con decreti ministeriali del 22 dicembre 2009. Nel nostro Paese gli OdC sono strutture private di controllo e certificazione che, dopo un’istruttoria iniziale che ne ha accertato competenza, imparzialità e terzietà, sono autorizzati a svolgere attività di certificazione e attività di controllo degli operatori (con visite ispettive che, complessivamente, si aggirano sulle 60.000 all’anno, con oltre 6.000 campioni analizzati), ai sensi del d. lgs 220/95. Il MIPAAF autorizza gli OdC tramite l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), sentito il Comitato di valutazione degli OdC. Il Comitato, istituito ai sensi del d. lgs. 220/95, art. 3, ha il compito di esprimere pareri sui provvedimenti di autorizzazione o revoca degli OdC; tuttavia, sono le Regioni che propongono la revoca dell’autorizzazione all’esercizio del controllo, nell’ipotesi che in sede di 133 verifica si sia constatato il venir meno dei requisiti necessari. La vigilanza sugli OdC è attribuita al MIPAAF che, ai sensi della legge 296/06, opera attraverso l’ICQRF, dipartimento VICO, e alle Regioni e Province autonome per le strutture ricadenti nei loro territori. Queste adottano, rispetto all’attività di controllo svolta dall’ICQRF, proprie procedure e linee di programmazione, in funzione del numero degli OdC che operano sul proprio territorio e del loro peso in termini di numero di operatori controllati sul numero complessivo di operatori biologici attivi. Regioni e Province svolgono, attraverso proprie strutture, visite ispettive presso le sedi regionali degli OdC e visite a campione presso gli operatori biologici. Con l’entrata in vigore del reg. (CE) n. 834/07, l’ICQRF ha revocato l’autorizzazione a 5 organismi per mancanza di accreditamento alla norma EN 45011 o alla guida ISO 65; per evitare gravi effetti su tutti gli operatori del settore iscritti negli elenchi degli organismi revocati, che si sarebbero di fatto trovati esclusi dal sistema, l’ICQRF ha svolto attività di controllo in sostituzione degli OdC revocati, dal 1°gennaio 2009 al 30 giugno 2010. In tale periodo sono stati autorizzati a svolgere attività di controllo e certificazione 2 nuovi OdC e 3 degli organismi precedentemente revocati, a seguito dell’avvenuto accreditamento alla norma EN 45011. Gli OdC autorizzati dal MIPAAF a svolgere il controllo sugli operatori biologici sono 15, di cui 12 autorizzati ad operare sull’intero territorio nazionale («CODEX S.r.l.», «Istituto Mediterraneo di Certificazione S.r.l.-IMC», «Suolo & Salute S.r.l», «Bios S.r.l.», «ICEA - Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale», «Bioagricert S.r.l.», «EcoGruppo Italia S.r.l.», «CCPB S.r.l.», «BIOZOO S.r.l.», «Sidel S.p.a.», «ABCERT S.r.l.», «QC S.r.l.») e 3 autorizzati ad operare esclusivamente nella Provincia Autonoma di Bolzano («BIKO-Kontrollservice Tirol», «IMO Gmbh», «Q.C.& I. Gmbh») (EUROPEAN COMMISSION, OFIS (Organic Farming Information System), Control Bodies and Control Authorities approved on 31/12/2010, list version 11/04/2011, http://ec.europa.eu/agriculture/organic/home_it; per il dettaglio degli OdC autorizzati in Italia, i sudetti confermati al 31/11/2011, cfr. www.sinab.it). Ad essi è stato attribuito il numero univoco di riferimento, che deve essere riportato obbligatoriamente sull’etichetta dei prodotti biologici, al fine di consentire l’identificazione dell’organismo che ha controllato e certificato il prodotto biologico (DORE e TIMI, op, cit., 2011, p. 78). Sei OdC (CCPB, ICEA, Bios, QC, IMC, BIOZOO) sono stati autorizzati ad effetuare anche attività di controllo e certificazione delle produzioni di animali e alghe marine dell’acquacoltura biologica (nota MIPAAF del 27 ottobre 2011, n. 24869). Riguardo agli OdC dei Paesi extra UE, la valutazione avviene, ai sensi del titolo VI del reg. (CE) n. 834/07 e delle modalità applicative [capo V del reg. (CE) n. 889/08; reg. (CE) n. 1235/08 e successive modifiche e integrazioni], attraverso tre “canali”. Il primo è sulla base del giudizio di equivalenza, effettuato direttamente dalla Commissione Europea per alcuni Paesi terzi e già previsto dalla normativa precedente, che consiste nella verifica della sussistenza di un sistema di produzione e di controllo equivalente rispetto a quello in vigore nella Comunità [art. 33, punti 1 e 2, reg. (CE) n. 834/07]. Il secondo “canale” è quello del nuovo regime di import, ovvero del riconoscimento degli organismi e delle autorità per i fini dell’equivalenza di cui all’art. 33.3 del reg. (CE) n. 834/07; il reg. di esecuzione (UE) n. 1267/11 della Commissione ha reso operativo questo canale dal 1° luglio 2012 ed ha dato avvio alla fase transitoria di passaggio dall’attuale sistema di autorizzazioni nazionali, in vigore fino al 1° luglio 2014 (in Italia il MIPAAF valuta l’equivalenza con il regolamento comunitario sulla base di requisiti aggiuntivi di cui all’art. 11 del d.m. del 27 dicembre 2009, n. 18354; cfr. nota 599), all’elenco degli organismi e delle autorità di controllo riconosciuti ai fini dell’equivalenza competenti per eseguire i controlli e rilasciare certificati nei Paesi terzi, pubblicando un primo elenco di 30 OdC riconosciuti dalla Commissione per questi scopi (tre OdC sono europei e due di questi, «CCPB s.r.l.» e «ICEA», sono italiani). Il terzo “canale” è quello della piena “conformità” alla norma europea [art. 32, reg. (CE) n. 834/07], a seguito dell’istanza di riconoscimento che gli organismi di certificazione e le autorità di controllo possono presentare alla Commissione entro il 31 ottobre 2014 [come disposto dal reg. di esecuzione (UE) n. 590/11]. A tutti gli enti è richiesto l’accreditamento ai sensi della norma tecnica ISO 65, mente l’equivalenza dei disciplinari tecnici è valutata assumendo come livello minimo le «Linee guida 32-1999» del Codex Alimentarius (GIUCA, La normativa del settore, in RETE RURALE NAZIONALE, cit., 2011, p. 48). Per le norme tecniche UNI EN ISO cfr. supra nota 31, mentre per il Codex alimentarius cfr. supra note 78-79). L’elenco dei Paesi terzi dai quali è autorizzata l’importazione in regime di equivalenza, con inclusione indeterminata o a scadenza, aggiornato 134 Dunque, tutti gli operatori della filiera devono sottostare agli obblighi previsti dal “sistema dei controlli”, anche l’operatore che subappalti una delle attività (produzione, preparazione, immagazzinaggio, importazione) e le medesime verifiche sono previste per le attività subappaltate351. Invece, i singoli Stati membri «possono esentare dai previsti obblighi, qualora ritenuti sostanzialmente sproporzionati, taluni operatori al dettaglio, che svolgano esclusivamente attività di vendita direttamente al consumatore o all’utilizzatore finale»352. La certificazione dei prodotti biologici rientra, pertanto, in un sistema di certificazione regolamentato, in cui la qualità del prodotto è legata alla qualità del processo, che comprende le procedure di produzione e le procedure di verifica delle attività svolte e dei risultati ottenuti a tutti i livelli della filiera; solo il prodotto di cui gli OdC (accreditati e autorizzati dalle autorità da ultimo con il reg. di esecuzione (UE) n. 1084/11, comprende Argentina, Australia, Canada, Costa Rica, Giappone, India, Israele, Nuova Zelanda, Svizzera e Tunisia. Le importazioni sono principalmente ammesse per prodotti vegetali non trasformati, materiale di propagazione vegetativa e sementi, nonché per gli alimenti composti da ingredienti di origine vegetale. Gli animali e i prodotti di origine animale possono essere importati solo da Argentina, Canada, Svizzera e Nuova Zelanda, mentre i mangimi biologici possono essere importati solo da Canada e Svizzera. Secondo una delicata situazione di diritto transitorio, le importazioni da Paesi terzi non in regime di equivalenza possono essere regolate, fino al 1° gennaio 2013, da autorizzazioni specifiche rilasciate dallo Stato membro (cfr. d.m. 27 novembre 2009, n. 18354) in base alla deroga di cui all’art. 19 del reg. (CE) n. 1235/08. «Nel disegno del legislatore comunitario, la facoltà per gli Stati di concessione, caso per caso, agli importatori di autorizzazioni alla commercializzazione nel mercato comunitario […è stata] prevista, in fase di transizione, per non turbare gli scambi internazionali» (CRISTIANI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2011, pp. 89-90). Non occorre autorizzazione per le importazioni di prodotti biologici dai Paesi dello Spazio economico europeo (Islanda, Liechtenstein e Norvegia - cfr. supra nota 109). 351 L’art. 2, lettera b) del reg. (CE) n. 834/07 definisce come fasi della produzione, preparazione e distribuzione «qualsiasi fase a partire dalla produzione primaria di un prodotto biologico fino al magazzinaggio, alla trasformazione, al trasporto, alla vendita o fornitura al consumatore finale inclusi, e se pertinente l’etichettatura, la pubblicità, le attività di importazione, esportazione e subappalto». Pertanto, tutta la filiera, dalla produzione alla distribuzione, deve essere controllata da un organismo di controllo e in tal senso si esprimono la circolare MIPAAF 11 novembre 2009, n. 17281, e la nota MIPAAF del 21 ottobre 2011, n. 20421, le quali chiariscono che anche i distributori che appongono sul prodotto propri marchi ed etichette, definendo la composizione e la tipologia del prodotto finito, devono essere assoggettati a controllo perché svolgono operazioni in materia di etichettatura e, dunque, svolgono attività assimilabile alla preparazione alimentare, già soggetta a controllo ai sensi del reg. (CEE) n. 2092/91. 352 CRISTIANI, op. ult. cit., 2011, p. 88. Specificamente, il reg. (CE) n. 834/07, all’art. 28.2, dispone: «Gli Stati membri possono esentare dall’applicazione del presente articolo gli operatori che vendono prodotti direttamente al consumatore o all’utilizzatore finale, a condizione che non li producano, non li preparino, li immagazzinino solo in connessione con il punto di vendita o non li importino da un paese terzo o non abbiano subappaltato tali attività a terzi». 135 competenti) abbiano certificato la conformità alla normativa “dal seme al negozio” può, dunque, fregiarsi dei “segni” distintivi della “biologicità”, ovvero del termine «biologico» e del logo di produzione biologica dell’UE 353. Quest’ultimo, infatti, è obbligatoriamente accompagnato dal codice di identificazione dell’organismo o dell’autorità di controllo cui è soggetto l’operatore che ha svolto l’operazione di produzione o di preparazione più recente (produttore, addetto alla trasformazione o venditore). Come accennato nel paragrafo precedente, i richiami - tra gli altri - alla tracciabilità di ogni prodotto in tutte le fasi della produzione, preparazione e distribuzione ai sensi dell’art. 18 del reg. (CE) n. 178/02 [art. 27, par. 13 del reg. (CE) n. 834/07] e, dunque, alle misure precauzionali che la Commissione riterrà di adottare, riconducono gli interventi normativi specifici per la produzione biologica alle norme generali del diritto alimentare354. In ambito comunitario, naturalmente, vige il principio della libera circolazione dei prodotti biologici [art. 34, reg. (CE) n. 834/07], mentre le autorità competenti e gli enti preposti al controllo non devono ostacolare la commercializzazione dei prodotti conformi alle norme comunitarie ma controllati da autorità e organismi situati in un altro Stato membro355. Le regole sul metodo di produzione biologica, di cui si è detto nelle pagine precedenti356, richiedono che di norma l’intera azienda sia biologica. «Tuttavia, a determinate condizioni, è ammessa una suddivisione aziendale in più unità con regimi produttivi diversi; per quanto attiene alle produzioni vegetali è 353 GIUCA, Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale, cit., 2010, p. 182. In Italia sono state adottate specifiche linee guida per la tracciabilità degli alimenti biologici di origine animale con il d.m. 4 agosto 2000 (modificato dal d.m. 29 marzo 2001), relativo alle modalità di attuazione del reg. (CE) n. 1804/99 sulle produzioni zootecniche biologiche. Le linee guida, che incidono direttamente sui meccanismi di controllo anticipando le disposizioni previste dal reg. (CE) n. 834/07, riguardano bovini, suini, ovicaprini, volatili, prodotti a base di carne, uova, latte e prodotti lattiero-caseari, miele e cera (CRISTIANI, op. ult. cit., 2011, p. 92). 355 Secondo la Corte di giustizia (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 29 novembre 2007, causa C-393/05, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica d’Austria, in Raccolta della giurisprudenza, 2007, p. I-10195), vìola il principio della libera circolazione dei servizi (art. 56 TFUE, ex art. 49 TCE) il requisito previsto dalla normativa austriaca che richiede agli organismi privati di controllo riconosciuti in altro Stato membro di disporre di uno stabilimento in territorio austriaco per l’esercizio dell’attività di controllo (Sul punto: BEVILACQUA, L’esercizio privato di funzioni pubbliche, in Giornale di diritto amministrativo, 2008, 7, p. 732). Cfr. infra paragrafo 1.4. 356 Cfr. capitolo I, paragrafo 1 (ivi nota 85) e supra nota 284. 354 136 necessario che si tratti di varietà diverse, facilmente distinguibili, [mentre] con riferimento alle produzioni zootecniche, ad eccezione dell’acquacoltura nella quale si prevede, a determinate condizioni, la possibilità di una ‘produzione simultanea’ biologica e non biologica, dovrà trattarsi di specie distinte. In questi casi la produzione dovrà svolgersi in unità separate e ‘la separazione’ dovrà essere documentata»357. Gli OdC accreditati e autorizzati possono rilasciare all’operatore biologico i seguenti documenti, coerentemente con le disposizioni contenute nel titolo V del reg. (CE) n. 834/07 e nel titolo IV del reg. (CE) n. 889/08: 1) certificato di azienda controllata (attestato di idoneità), che attesta l’inserimento dell’azienda nel sistema di controllo, per la specifica attività notificata, e consente l’iscrizione dell’operatore agli Albi degli operatori del biologico 358; l’attestato, inoltre, rappresenta il documento giustificativo di cui all’art. 29 del reg. (CE) n. 834/07 e all’allegato XII del reg. (CE) n. 889/08, a validità predeterminata, che consente l’identificazione dell’operatore e del tipo o della gamma di prodotti; 2) certificato del prodotto biologico (certificato di conformità), che elenca singolarmente i prodotti per i quali il licenziatario è autorizzato dall’OdC a rilasciare dichiarazioni di conformità alla normativa di riferimento: tali dichiarazioni sono rappresentate dalle etichette di confezionamento e dai documenti di transazione; 3) autorizzazione alla stampa delle etichette. Il sistema di certificazione biologico è l’unico processo di produzione che prevede che ogni singolo operatore coinvolto sia licenziatario e sia, quindi, titolare di un certificato di conformità dei processi e dei prodotti a una norma cogente - il reg. (CE) n. 834/07 - rilasciato da organismi accreditati in base alla norma tecnica EN 45011. Il “concetto” di certificazione implica l’assunzione di 357 CRISTIANI, op. ult. cit., 2011, p. 87. «L’operatore che intende commercializzare la propria produzione come “biologica” deve comunicarlo ufficialmente all’autorità competente (MIPAAF/Regioni e Province autonome, in Italia), scegliendo uno degli OdC autorizzati. L’OdC, ricevuta la comunicazione (notifica) da parte dell’operatore, deve effettuare una serie di controlli documentali e una prima visita ispettiva presso l’azienda al fine di verificare il rispetto dei requisiti previsti dalle norme comunitarie e nazionali relative al biologico. Se la verifica iniziale dell’OdC ha esito positivo, l’operatore viene inserito nel sistema di controllo [spetta alla Regione del territorio di origine dell’azienda iscriverla nell’elenco regionale degli operatori biologici] e ha la responsabilità e l’obbligo di rispettare quanto stabilito dalla normativa e di documentare tutte le operazioni svolte in azienda, anche attraverso la tenuta di appositi registri» (DORE e TIMI, op. cit., 2011, p. 75). 358 137 responsabilità da parte dell’operatore, il quale per primo «deve essere certo del fatto che i processi produttivi e i prodotti che ne sono conseguenti siano conformi allo specifica norma di riferimento»; in tal senso, con l’attività di certificazione l’OdC «non interviene prevalentemente per sanzionare o per verificare la presenza di errori e/o di frodi ma piuttosto in primis per valutare la conformità di un processo e di un prodotto, pur riservandosi la possibilità di intervenire con sanzioni che consentano all’operatore di migliorare le condizioni del proprio processo produttivo. […Nel “concetto”] di controllo, pubblico o privato che sia, […] la responsabilità è in capo soprattutto al controllore che verifica la conformità secondo un approccio soprattutto teso a riscontrare eventuali anomalie e non conformità, assumendosi la responsabilità dei prodotti controllati da cui esautora talvolta il produttore»359. Ciascun OdC ha, dunque, l’obbligo di verificare l’idoneità e il processo produttivo delle imprese assoggettate al sistema di controllo, effettuando visite ispettive e verifiche documentali con cadenza almeno annuale ad ogni anello della catena di produzione [art. 27, par. 3, reg. (CE) n. 834/07], tramite sopralluoghi di personale tecnico che, oltre a verificare il rispetto della normativa e la regolare tenuta dei registri obbligatori, può prelevare campioni da far analizzare in laboratori accreditati, se vi sia il sospetto che siano stati utilizzati prodotti non ammessi. Nel caso si riscontrino irregolarità, viene soppresso ogni riferimento al metodo biologico per l’intera partita o l’intero ciclo di produzione e, qualora si accerti «un’infrazione grave o avente effetti prolungati» da parte degli operatori, viene sospesa l’autorizzazione a commercializzare i prodotti come biologici per un periodo da concordare con l’autorità competente dello Stato membro e può anche essere ritirata definitivamente la certificazione dell’azienda [art. 30, reg. (CE) n. 834/07]360. 359 PIVA, Controlli sulle produzioni a garanzia di qualità totale, in Terra e vita, 2010, 6, p. 16. Le norme comunitarie richiedono che vi sia un nesso di proporzionalità fra le misure (sanzionatorie) adottate dall’OdC e l’entità della violazione [art. 30, par. 1, reg. (CE) n. 834/07]. Tuttavia, il quadro operativo sull’agricoltura biologica è ancora in nuce, essendo del tutto assenti le disposizioni sanzionatorie; infatti, nel nuovo regolamento, come nel precedente reg. (CEE) n. 2092/91, persiste l’estrema genericità relativa alla configurazione della fattispecie sanzionatoria dell’infrazione, la cui conseguenza è «una inevitabile difformità applicativa del regime sanzionatorio in auge nei diversi Stati membri […e] in assenza di una legislazione nazionale di attuazione [come nel caso italiano], una potenziale difformità applicativa, tra i diversi organismi di controllo, del regime sanzionatorio da applicarsi agli 360 138 Annualmente l’OdC redige e trasmette all’autorità competente (al MIPAAF/Regioni e Province autonome, in Italia) il piano dei controlli con il quale, attraverso un sistema di valutazione che prevede la stima dei possibili rischi di non conformità associati all’operatore e ai punti critici del processo produttivo, determina la frequenza e il numero di visite ispettive da effettuare sugli operatori361. «Vige poi il principio per il quale ‘senza indugio’ fra i soggetti deputati al controllo nei singoli Stati membri deve avvenire la trasmissione di ogni informazione, per quanto riguarda le infrazioni o irregolarità; lo scambio di ‘informazioni utili’ tra le medesime autorità è comunque previsto sia su richiesta ‘debitamente giustificata’ che per libera iniziativa dei soggetti stessi»362. Pertanto, in conformità all’art. 92.2 del reg. (CE) n. 889/08, in tutti i casi in cui uno Stato membro riscontra la presenza di irregolarità riguardanti l’applicazione del regolamento stesso su prodotti biologici provenienti da un altro Stato membro, ne informa lo Stato interessato e la Commissione con una notifica, attraverso il sistema OFIS (Organic Farming Information System), la banca dati comunitaria contenente, tra l’altro, le autorizzazioni di importazione concesse dagli Stati membri a Paesi terzi, le autorizzazioni ad adoperare ingredienti di origine agricola che non possono essere ottenuti con i metodi di produzione biologici, l’elenco degli organismi di controllo degli Stati membri. Lo Stato membro interessato deve fornire informazioni utili, mediante il sistema informativo, entro e non oltre 30 giorni dalla data di notifica; in Italia, il d.m. 26 luglio 2011, n. 14458, ha definito le modalità di risposta alle operatori controllati qualora non rispettino le disposizioni comunitarie persino nell’ambito dello stesso territorio dello Stato membro; difformità applicativa tanto più accentuata quanto maggiore è la genericità della sanzione comunitaria da applicare». L’art. 28, par. 6, lettera b) del reg. (CE) n. 834/07 prevede che l’aurotità incaricata del riconoscimento degli OdC privati prenda in considerazione, ai fini del riconoscimento stesso, una pluralità di elementi tra cui le misure che l’organismo prevede di imporre nei casi in cui si accertino irregolarità e/o infrazioni; ne consegue che «il rischio di incongruenze e potenziali effetti distorsivi sulla concorrenza provocati da abusi strumentali degli ampi margini di manovra consentiti agli OdC nell’applicazione delle misure di controllo» passa, in Italia, attravero il “filtro” del MIPAAF (tramite ICQRF) al momento della valutazione dei requisiti ai fini del rilascio dell’autorizzazione nonché della vigilanza esercitata dall’ICQRF insieme a Regioni e Province autonome; tali attività, infatti, sono volte a garantire uno standard minimo di serietà degli organismi stessi. (PETRELLI, Il regime sanzionatorio in agricoltura biologica, in Rivista di diritto agrario, 2000, I, pp. 103-104). 361 DORE e TIMI, op. cit., 2011, p. 75. 362 CRISTIANI, op. ult. cit., 2011, p. 89. 139 notifiche presentate dagli Stati membri, individuando i compiti delle amministrazioni e dei soggetti interessati dalle notifiche363. Sul fronte normativo, poiché il reg. (CE) n. 834/07 conferisce alla Commissione competenze di esecuzione in relazione ad alcune delle disposizioni in esso contenute, è all’esame dell’esecutivo la proposta di regolamento volta a definire gli elementi per i quali può essere esercitato dalla Commissione il potere di adottare «atti delegati», nonché le condizioni cui deve essere soggetta tale delega, e il potere di adottare «atti di esecuzione»364. Questi ultimi devono riguardare, nella fattispecie, l’attribuzione dei numeri di codice nell’ambito del regime di controllo, l’indicazione dell’origine dei prodotti e norme uniformi in merito allo scambio di informazioni che gli Stati membri, i Paesi terzi, le autorità e gli enti di controllo sono tenuti a inviare o che la Commissione stessa deve mettere a disposizione o riguardanti la 363 Secondo l’art. 3 del decreto ministeriale, nei casi di irregolarità rilevate su prodotti biologici commercializzati in uno degli Stati membri e provenienti dallo Stato italiano, la notifica è trasmessa, attraverso il sistema informativo comunitario OFIS (Organic Farming Information System), dallo Stato interessato al MIPAAF - Dipartimento delle politiche competitive del mondo rurale e della qualità, Direzione generale dello sviluppo agroalimentare e della qualità, Ufficio Saq X -, il quale, se necessario, acquisisce elementi integrativi presso lo Stato membro notificante. Il MIPAAF, ai sensi degli artt. 3 e 4, invia richiesta di informazioni all’OdC al quale l’operatore è assoggettato e per conoscenza alle autorità pubbliche di vigilanza (ICQRF VICO, Regioni e Province autonome in cui ha sede l’operatore coinvolto) e alle autorità pubbliche di controllo (ICQRF - PREF, Comando Carabinieri politiche agricole). L’OdC che riceve la richiesta di informazioni redige il «Rapporto rapido» (allegato I), corredato dalle prove documentali raccolte, e lo trasmette al ministero entro 15 giorni, il quale provvede a inviarlo allo Stato membro notificante tramite il sistema OFIS; se lo Stato dichiara di non accettare la risposta, il ministero richiede informazioni aggiuntive all’OdC, che deve provvedere a inviarle entro 15 giorni (art. 5.5). In caso di segnalazioni riguardanti contaminazioni da prodotti non autorizzati nella produzione biologica, l’OdC interessato effettua apposite analisi ai sensi dell’art. 65, par. 2, del reg. (CE) n. 889/2008 e ne informa dei risultati il ministero (art. 5.6); le autorità che effettuano controlli nel settore agroalimentare e gli OdC, entro sette giorni segnalano al ministero le irregolarità rilevate su prodotti biologici commercializzati in Italia e provenienti da altri Stati membri dell’UE. Il ministero informa le autorità pubbliche di vigilanza e di controllo e, attraverso il sistema informativo OFIS, notifica allo Stato membro interessato l’irregolarità rilevata, mettendo a conoscenza le stesse autorità competenti e gli OdC delle informazioni fornite dallo Stato membro interessato (art. 6). 364 In conseguenza dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, gli articoli 290 e 291 del TFUE conferiscono alla Commissione, rispettivamente, il potere di adottare «atti delegati» ovvero atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo - e «atti di esecuzione». L’articolo 291 del TFUE consente agli Stati membri di «adottare tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione»; tali atti conferiscono alla Commissione competenze di esecuzione allorché sono necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti medesimi. 140 pubblicazione di tali informazioni, nonché il riconoscimento di Paesi terzi e di autorità e OdC a fini di equivalenza e conformità365. Secondo il Comitato economico e sociale europeo le misure di semplificazione del reg. (CE) n. 834/07, proposte dalla Commissione, «riguardano principalmente gli aspetti amministrativi, mentre persiste la necessità di semplificare in generale i regolamenti per gli agricoltori e i produttori biologici»366. Ciò assume particolare rilievo riguardo al sistema di certificazione che, maturato in un contesto “di nicchia”, con pochi attori, si trova oggi a doversi confrontare, da un lato, con le richieste delle agricolture europee caratterizzate da realtà che vanno dalla micro aziende che propongono la vendita diretta alla certificazione di interi territori - e, dall’altro, con le “sfide” legate alle crescenti importazioni provenienti dai Paesi extra UE. La realizzazione di procedure comuni in ambito europeo e la disponibilità di maggiori e più puntuali informazioni possono porre il sistema di controllo e certificazione non solo «in condizioni di intervenire con sempre maggiore precisione e incisività per emarginare chi opera male»367, ma di portare l’ago della bilancia sempre meno sull’aspetto “commerciale” e sempre più sulla tutela del consumatore368. 365 COMMISSIONE EUROPEA, Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio recante modifica del reg. (CE) n. 834/07 del Consiglio relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici, Bruxelles, COM (2010) 759 definitivo. 366 COMITATO ECONOMICO E SOCIALE EUROPEO, op. cit., 2011. 367 PIVA, op. cit., 2010, p. 17. In tal senso occorre una ripresa effettiva di ruolo del ministero nella semplificazione burocratica e nel coordinamento del sistema di controllo e certificazione. 368 La maggior parte degli Stati membri ha scelto di affidare a soggetti privati il controllo e la certificazione dell’agricoltura biologica, i quali hanno finito per ritagliarsi un ruolo centrale all’interno del complesso sistema dell’agricoltura biologica europea. Le maggiori critiche al riguardo, risiedono nel fatto che le risorse per le attività di controllo e certificazione provengono direttamente dalle imprese controllate; naturalmente, ogni soggetto privato, per essere riconosciuto come organismo di controllo, deve dimostrare la propria terzietà rispetto alle aziende controllate, ovvero di operare nell’esclusivo interesse del consumatore finale del prodotto biologico. Sicché, seguendo la filiera di produzione, in una logica di tutela delle singole transazioni commerciali, alla fine è sulla figura del consumatore finale che vengono a gravare i costi della certificazione del prodotto, il quale “subisce” quei costi aggiuntivi dovuti anche alle garanzie che lui stesso richiede. Tali costi ricadono, invece, sull’intera collettività in quei Paesi come Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Islanda, dove l’attività di controllo è di competenza esclusiva di soggetti pubblici e assume un carattere meno “commerciale” in una logica di tutela della collettività, o Lussemburgo, Spagna e Regno Unito, caratterizzati da un sistema di controllo e certificazione affidato a strutture di controllo pubbliche e private che operano secondo ruoli e responsabilità definiti dalle rispettive normative nazionali (ISMEA, Lo scenario economico dell’agricoltura biologica, cit., 2004, p. 15). 141 Capitolo III LA GARANZIA DEI REQUISITI DI SICUREZZA E QUALITÀ DEI PRODOTTI AGRO-ALIMENTARI BIOLOGICI: I LOGHI NAZIONALI SOMMARIO: 1. Sull’ammissibilità dell’utilizzo di loghi nazionali nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti biologici. Le iniziative realizzate ante reg. (CE) n. 834/07 dai Paesi UE: i marchi collettivi geografici pubblici. - 1.1 Il marchio francese «AB». - 1.2. Il marchio danese «Ø-mærket» (c.d. marchio rosso). - 1.3. (segue): il marchio danese per i cibi biologici delle cucine commerciali «Økologiske spisemærke». - 1.4. Il marchio austriaco «AMA-Biozeichen». - 1.5. Il marchio finlandese «Luomu» (c.d. marchio del sole). - 1.6. Il marchio ceco «BIO-Produkt ekologického zemědělství» (c.d. biozebra). - 1.7. Il marchio tedesco «Bio-Siegel». - 1.8. I marchi delle «Comunidades autónomas» spagnole (c.d. marchi regionali). - 2. Il caso italiano. - 2.1 La creazione di un marchio italiano: il contesto normativo. - 2.2. Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale. - 2.3. (segue): l’individuazione degli elementi distintivi del logo nazionale e alcune riflessioni sulla sua funzione. 1. Sull’ammissibilità dell’utilizzo di loghi nazionali nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti biologici. Le iniziative realizzate ante reg. (CE) n. 834/07 dai Paesi UE: i marchi collettivi geografici pubblici Secondo il legislatore comunitario, il logo biologico dell’UE non dovrebbe in alcun caso impedire l’utilizzazione simultanea di loghi nazionali o privati [26° considerando, reg. (CE) n. 834/07]. Al riguardo, sembra del tutto lecito dedurre che se il logo biologico dell’UE può essere usato da una pluralità 142 di soggetti, analogamente i loghi nazionali e privati altro non possono essere che segni distintivi di marchi collettivi pubblici e privati369 (e su questo si rifletterà in questo paragrafo), i quali possono essere utilizzati, come dispone 369 Riguardo al concetto di logo e di marchio è opportuno chiarire che la marca (brand), che può essere un nome, un termine, un simbolo, un disegno (logo) o una combinazione di questi, è finalizzata a identificare i beni e i servizi di un produttore o di un gruppo di produttori e a differenziarli da quelli dei concorrenti (AMERICAN MARKETING ASSOCIATION, The Marketing Dictionary on-line, 2008, http://www.marketingpower.com). La marca (o parte della marca) alla quale si conferisce protezione legale in quanto se ne afferma la proprietà esclusiva è il marchio d’impresa (trademark) che tutela il diritto esclusivo del venditore ad usare il nome della marca o la parte non pronunciabile della marca (brand mark), come il simbolo, il disegno (logo), il colore o il suono (KOTLER e KELLER, op. cit., 2007, p. 370). Il marchio d’impresa è disciplinato da fonti comunitarie (direttiva 2008/95/CE) e nazionali [artt. 2569-2574 c.c.; d. lgs. 30/05 recante il codice della proprietà industriale (c.p.i.), coordinato e aggiornato dal d.lgs. 140/06 e modificato dal d. lgs. 131/10; d.m. 33/10 (regolamento di attuazione del c.p.i.)] che circoscrivono la registrazione come marchio d’impresa a tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della sua confezione, le combinazioni o le tonalità cromatiche, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. Il marchio di impresa per poter essere registrato all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIMB) e godere di tutela legale, oltre a rispondere ai requisiti della rappresentabilità grafica (art. 7, c.p.i.) e della novità estrinseca (art. 12, c.p.i.), deve avere capacità distintiva o originalità, ovvero non possono essere registrati i segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio e i segni costituiti da denominazioni generiche di un prodotto o un servizio, né le descrizioni o i segni che indicano delle qualità intrinseche del prodotto o del servizio come la sua specie, la qualità, la quantità, la destinazione, l’epoca di fabbricazione o la provenienza geografica, per indicare la quale si deve ricorrere alla denominazione d’origine (art. 13, c.p.i.). Il marchio, inoltre, deve rispondere al requisito della liceità e diritti di terzi, pertanto non deve essere contrario alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, non deve ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi e non deve costituire violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi (art.14, c.p.i). Diverso dal marchio d’impresa è il marchio collettivo (art. 11, c.p.i.), che si distingue per la separazione tra titolarità del marchio e diritto d’uso, il quale è concesso a soggetti rispettosi di un disciplinare e svolge funzione di garanzia di origine, natura o qualità dei prodotti che se ne fregiano. I loghi degli organismi di controllo e certificazione privati, che svolgono la funzione di garantire la conformità del processo produttivo e dei prodotti alle disposizioni comunitarie, comunicando un insieme di valori sociali ed emozionali (c.d. qualità percepita) legati alla notorietà del logo stesso, sono parte integrante di un marchio collettivo di garanzia e certificazione di proprietà dell’OdC, concesso in uso all’operatore controllato e certificato che si attiene ad un disciplinare di produzione; anche i loghi delle associazioni dell’agricoltura biologica che hanno sviluppato propri standard (assoggettati a controlli effettuati da OdC riconosciuti), sono parti integranti di marchi collettivi. Pertanto, per loghi privati, parti integranti di marchi collettivi, devono intendersi sia i loghi delle associazioni di agricoltori e delle loro organizzazioni ombrello, sia i loghi degli organismi di controllo e certificazione di altre organizzazioni private. Spesso sono gli importatori che richiedono che i prodotti biologici soddisfino, oltre alla normativa UE, gli standard privati, perchè questi vanno oltre le norme UE; la differenza principale sta nel fatto che le aziende agricole che rispettano esclusivamente le norme UE sono autorizzate ad operare in modo convenzionale su parti dell’azienda, mentre le aziende che rispettano gli standard privati non possono svolgere parallelamente su parti dell’azienda agricoltura convenzionale e su altre agricoltura biologica (c.d. aziende miste) (KILCHER et al., The organic market in Europe, Zurich, 2011, p. 110). 143 l’art. 25.2, nella etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti che soddisfano i requisiti del reg. (CE) n. 834/07370. Si tratta di una possibilità esplicitata per la prima volta nella regolamentazione dell’etichettatura dei prodotti biologici che, se da un lato, rinvia alle norme del diritto comunitario la disciplina dei loghi privati (parti integranti di marchi collettivi la cui rilevanza è legata alla notorietà presso i consumatori), dall’altra offre spunti di riflessione sulla natura giuridica dei loghi nazionali (parti integranti di marchi collettivi pubblici) e sulla loro coerenza alle disposizioni comunitarie in materia di marchi collettivi geografici (art. 15.2, direttiva 2008/95/CE)371. Infatti, la presenza di un riferimento all’origine nazionale dei prodotti in marchi collettivi pubblici in mancanza di una “giustificazione”372, può indurre i consumatori a preferire le produzioni 370 L’allegato XI, lett. a, punto 8 del reg. (CE) n. 889/08 come modificato dal reg. (UE) n. 271/10, stabilisce che il logo biologico dell’UE può essere associato con altri elementi grafici o testuali che si riferiscano all’agricoltura biologica, a condizione che non sia cambiata o modificata la natura del logo stesso, né alcuna indicazione di cui all’art. 58 del reg. (CE) n. 889/08 rubricato «Condizioni per l’utilizzo del numero di codice e del luogo d’origine»; se il logo biologico dell’UE è accompagnato da loghi nazionali o privati che utilizzano un colore verde diverso dal colore di riferimento di cui al punto 2 dell’allegato XI, il logo biologico dell’UE può essere utilizzato nel suddetto colore diverso da quello di riferimento. 371 La direttiva 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, cha ha abrogato e sostituito la precedente direttiva 89/104/CEE, all’art. 15.2 dispone che «in deroga all’articolo 3, paragrafo 1, lettera c), gli Stati membri hanno la facoltà di stabilire che i segni o le indicazioni che, nel commercio, possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o dei servizi costituiscano marchi collettivi, oppure marchi di garanzia o di certificazione. Un marchio siffatto non autorizza il titolare a vietare ai terzi l’uso commerciale di detti segni o indicazioni, purché l’utilizzazione sia conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale o commerciale; in particolare un siffatto marchio non può essere fatto valere nei confronti di un terzo abilitato a usare una denominazione geografica». Il legislatore italiano ha adottato particolari cautele in riferimento a tale deroga, «in considerazione del fatto che il toponimo costituente il marchio collettivo è pur sempre un’indicazione generica e che la sua gestione in via esclusiva da parte del titolare del marchio collettivo può prestarsi ad abusi ed effetti distorsivi della concorrenza». Pertanto, l’Ufficio brevetti e marchi è legittimato a negare, con provvedimento motivato, la registrazione del marchio collettivo, quando esso possa recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative o creare situazioni di ingiustificato privilegio (art. 11, comma 4, c.p.i.), «comunemente individuate nella insufficiente garanzia di accesso al marchio a condizioni paritetiche da parte di tutti gli imprenditori insediati nella zona geografica di riferimento, il cui prodotto - se arbitrariamente escluso dall’uso del marchio - non solo non sarebbe riconoscibile sul mercato come proveniente da un certo luogo, ma - laddove si attribuisca al marchio una funzione di certificazione di qualità - potrebbe ingiustamente apparire di standard qualitativo inferiore al prodotto che del marchio si fregia» (ALBISINNI, CORAPI e CARRETTA, Uso dei marchi collettivi geografici: i problemi pratici e interpretativi, Roma, 2007, p. 18). 372 Secondo la Corte di giustizia europea l’utilizzo di marchi nazionali e regionali promossi dagli Stati membri o di denominazioni destinati a prodotti provenienti da specifiche zone geografiche di alcuni Stati membri «si pone in contrasto con la disciplina concorrenziale in quanto rende vano ogni accesso da parte di prodotti degli altri Stati membri contrastando l’art. 144 dello Stato membro di appartenenza, assecondando un «nazionalismo alimentare» nei confronti del quale la Corte di giustizia si è sempre espressa negativamente a difesa del principio della libera circolazione delle merci (art. 34 TFUE)373. 34 TFUE che, com’è noto, si prefigge l’eliminazione delle barriere alla libera circolazione delle merci, senza peraltro trovare alcuna giustificazione nelle previsioni previste dall’art. 36 TFUE [ex art. 30 TCE, secondo cui le restrizioni all’importazione giustificate, tra l’altro, da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale sono autorizzate, qualora non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri], né nella tutela della particolare e notoria reputazione acquisita da un prodotto originario di un dato luogo, o regione, agli occhi del consumatore» (LUCIFERO, La comunicazione simbolica nel mercato alimentare: marchi e segni del territorio, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., vol. III, 2011, p. 357). Nel 1978, infatti, con il caso «Eggers» la Corte di giustizia ha ritenuto incompatibile con il mercato unico, sulla base dell’art. 28 TCE (art. 34 TFUE), la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo, «la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri» (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 12 ottobre 1978, causa 13/78, Joh. Eggers Sohn et Co. contro Città di Brema, in Raccolta della giurisprudenza, 1978, p. 1935); a tale principio fanno eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza (cfr. infra nota 388). Tenendo conto degli orientamenti della Corte di giustizia, «già con Nota SG(98) D/1618 del 24 febbraio 1998 il Commissario europeo all’agricoltura ha invitato i Governi degli Stati membri ad adeguare la disciplina dei marchi collettivi nazionali o regionali di qualità e di origine ad una serie di regole, fra le quali: solo caratteristiche intrinseche del prodotto possono costituire requisito per la concessione dei marchi di qualità e di origine; le caratteristiche qualitative prescritte per la concessione del marchio non possono risolversi nei meri requisiti obbligatori imposti dalla legislazione alimentare comunitaria o nazionale, bensì devono rappresentare un quid pluris che distingua il prodotto da altri della medesima categoria; l’origine del prodotto non può rappresentare una condizione di accesso al marchio; ogni imprenditore comunitario deve avere accesso al marchio senza limitazioni di carattere territoriale. In assenza di adeguamento a tali regole, secondo l’opinione della Commissione, i marchi collettivi nazionali e regionali sarebbero contrari agli artt. 12, 28 e 34 del Trattato di Roma [gli attuali artt. 18 (divieto di discriminazione in base alla nazionalità), 34 (divieto alle restrizioni quantitative all’importazione e alle misure di effetto equivalente che si impone non solo agli Stati membri ma anche alle loro ripartizioni amministrative) e 40 (istituzione di regole comuni in materia di concorrenza nell’ambito della PAC) del TFUE] e gli Stati membri assoggettabili a procedura d’infrazione» (ALBISINNI, CORAPI e CARRETTA, op. cit., 2007, p. 39). La posizione della Commissione risulta chiara nella successiva relazione annuale sul controllo dell’applicazione del diritto comunitario in cui si legge che «qualsiasi denominazione o etichetta nazionale di qualità debba, in forza degli articoli 12 e 34 del trattato CE [18 e 40 TFUE], essere accessibile di pieno diritto a qualsiasi produttore o utente potenziale comunitario i cui prodotti soddisfano le esigenze oggettive e controllabili stabilite» [COM (2000) 92 def., 23 giugno 2000, par. 2.13.1]. 373 In tal senso, nel 1997, la Corte (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 7 maggio 1997, cause riunite C-321/94, C-322/94, C-323/94 e C-324/94, Jacques Pistre, Michèle Barthes, Yves Milhau e Didier Oberti, in Raccolta della giurisprudenza, 1997, pag. I-2343) ha affermato l’assimilabilità della denominazione «prodotti della montagna francese» ad una indicazione di provenienza semplice e, in quanto tale, operante come un marchio di qualità diretto a promuovere i prodotti delle zone montane; pertanto, secondo la Corte, l’uso della dicitura «montagna» accompagnata da aggettivi nazionali ha carattere discriminatorio nei confronti dei prodotti importati dagli altri Stati membri, se riservata ai soli prodotti nazionali ed elaborati a partire da materie prime nazionali, ed è perciò incompatibile con l’art. 34 TFUE (cfr. PICCHI, Marchio d’origine, ipotesi di tutela del Made in Italy e 145 Le prime esperienze di valorizzazione delle produzioni biologiche in Europa attraverso l’impiego di marchi collettivi pubblici sono state realizzate, quadro normativo internazionale, 2005, p. 8). Invece, è ammissibile il segno «prodotto nella montagna italiana» (art. 15, legge 97/94) o «prodotto di montagna» art. 23, d. lgs. 228/01) che i produttori iscritti in un determinato albo tenuto dal MIPAAF (art. 85.1, legge 289/02) possono aggiungere (e proprio per questo motivo) esclusivamente ai prodotti che hanno ottenuto la DOP o IGP (GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., 2006, p. 269). In riferimento ai sistemi di marchi nazionali e regionali la Corte di giustizia ha accolto più volte i ricorsi di infrazione al Trattato promossi dalla Commissione contro gli Stati membri. Nel 2002, la Corte ha dichiarato che la Repubblica Federale di Germania è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 34 TFUE, con la concessione del marchio di qualità «Markenqualität aus deutschen Landen» (marchio di qualità della campagna tedesca), da parte della Centrale Marketing-Gesellschaft der deutschen Agrarwirtschaft (CMA), a prodotti trasformati fabbricati in Germania (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 5 novembre 2002, causa C-325/00, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica federale di Germania, in Raccolta della giurisprudenza, 2002, p. I-9977). Infatti, la CMA, «pur costituita nelle forme privatistiche di una società di capitali, è comunque un soggetto istituito per legge, beneficiario di risorse pubbliche anche attraverso contributi obbligatori imposti a tutti i produttori, tenuto per statuto a rispettare le indicazioni di un fondo pubblico, che procede anche alla nomina di taluni degli amministratori della società». (ALBISINNI, CORAPI e CARRETTA, op. cit. 2007, p. 39). Secondo la Corte, pertanto, il messaggio pubblicitario legato al marchio, poiché sottolinea la provenienza tedesca dei prodotti interessati «può indurre i consumatori ad acquistare i prodotti che portano il marchio […] escludendo i prodotti importati» (Sul punto: GERMANÒ e ROOK BASILE, Manuale di diritto agrario comunitario, cit., 2010, p. 267). Nel 2003, la Corte ha affermato la responsabilità della Repubblica Francese, la quale «non avendo posto fine, entro il termine fissato nel parere motivato, alla protezione giuridica nazionale concessa [alla menzione «controle par qualitè France»], alla denominazione «Salaisons d’Auvergne» nonché ai marchi regionali [riservati a prodotti elaborati in zone geografiche specifiche] «Savoie», «FrancheCompté», «Corse», «Midi-Pyrénées», «Normandie», «Nord-Pas-de-Calais», «Ardennes de France», «Limousin», «Languedoc-Roussillon» e «Lorraine» […] è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti [in forza dell’art. 34 TFUE]» (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 6 marzo 2003, causa C-6/02, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese, in Raccolta della giurisprudenza, 2003, p. I-2389). Nel 2004, la Corte ha dichiarato che il Regno del Belgio, avendo adottato e mantenuto in vigore una normativa che concede il «label de qualitè Wallon» (marchio di qualità Vallone) a prodotti finiti di una determinata qualità fabbricati o trasformati in Vallonia, «è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti [ai sensi dell’art. 34 TFUE]», in quanto tra le condizioni per ottenere il suddetto marchio figura l’obbligo di trasformazione o di fabbricazione in Vallonia, mentre i presupposti che danno accesso ad una denominazione di qualità dovrebbero riferirsi esclusivamente alle caratteristiche intrinseche del prodotto, escludendo qualsiasi riferimento alla sua origine geografica (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 17 giugno 2004, causa C-255/03, Commissione contro il Regno del Belgio, in GUUE C019 del 22.1.2005). In Italia, diverse leggi regionali istitutive di marchi collettivi di origine e di qualità sono state giudicate inammissibili dalla Commissione Europea perché i disciplinari dei marchi non prevedevano requisiti oggettivi e obiettivamente controllabili dei prodotti ma si basavano sulla sola circostanza di essere prodotti nell’area regionale, configurandosi quali strumenti di preferenza delle produzioni locali in danno di quelle degli altri Stati membri, in violazione dell’art. 34 TFUE. Diversamente, il marchio collettivo «Agriqualità. Prodotto da agricoltura integrata. Marchio concesso dalla regione Toscana» (l. r. 25/99) ha superato il vaglio della Commissione perché riflette una funzione tipica del marchio collettivo di garanzia qualitativa, ovvero «lega le caratteristiche del prodotto non al luogo ma al rispetto di un metodo di produzione utilizzabile da qualunque soggetto, anche situato fuori dalla Toscana per la produzione di beni anche privi di materie prime toscane» (LUCIFERO; La comunicazione simbolica nel mercato alimentare: marchi e segni del territorio, cit., 2011, p. 359). 146 ancor prima dell’emanazione del reg. (CEE) n. 2092/91, in Francia e Danimarca, rispettivamente nel 1985 e nel 1989, e successivamente in Austria (1994), Finlandia (1998), Repubblica Ceca (2000) e Germania (2001); in Spagna, invece, dopo l’esperienza, nel periodo 1989-1996, di un marchio nazionale, è stata promossa, a partire dal 1993, l’istituzione di alcuni marchi regionali374. Si tratta di marchi tuttora attivi, che saranno descritti nei prossimi paragrafi e di cui si riporta la riproduzione grafica in allegato a questo lavoro, in cui l’adesione da parte degli operatori avviene su base volontaria - ad eccezione del marchio ceco - e per i quali i rispettivi regolamenti d’uso non prevedono requisiti tali da penalizzare economicamente le imprese licenziatarie o disattenderne l’interesse ad aderire, anche in considerazione della possibilità che c’è stata, fino al 30 giugno 2010, di poter ricorrere all’utilizzo del logo facoltativo comunitario375. Con l’obbligatorietà del logo di produzione biologico UE e dell’indicazione dell’origine in etichetta, questi marchi nazionali, peraltro, potrebbero gradualmente scomparire, venendo meno la loro peculiarità di sistema di tracciabilità, ora svolta dal logo UE. Tuttavia, i marchi collettivi nazionali e privati attestanti sistemi di certificazione biologica con standard di produzione e/o controlli più rigorosi rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, oppure l’origine nazionale (anche se posta in secondo piano nel caso dei marchi nazionali) o addirittura prezzi equi per gli agricoltori, possono rappresentare potenziali valori aggiunti per differenziarsi dal logo UE obbligatorio. La motivazione di fondo che ha accomunato negli anni scorsi la realizzazione dei marchi collettivi pubblici, promossi esclusivamente con 374 GIUCA, Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale, cit., 2010, p. 193. Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo all’istituzione dei marchi pubblici biologici, il ricorso da parte degli operatori al logo facoltativo comunitario, ai sensi del reg. (CE) n. 331/2000, è risultato poco diffuso, anche a causa di un’iniziale resistenza da parte delle associazioni dei produttori e delle autorità nazionali di controllo, che tendevano a tutelare il ruolo esercitato sino ad allora, nell’ambito dei rispettivi Paesi, di unici titolari dei segni di identificazione dei prodotti biologici. Il marchio nazionale ha risposto, soprattutto per i Paesi del Nord, alla necessità di disporre di uno strumento commerciale di immediato riconoscimento rispetto, invece, alla pluralità di marchi degli organismi di controllo e delle associazioni di produttori esistenti in tutto il mercato comune (Ivi, p. 196). 375 147 risorse pubbliche376, è una scelta strategica di marketing istituzionale al fine di identificare la produzione biologica sul mercato nazionale con un simbolo univoco “statale”, in grado di frenare la tendenza a standardizzare l’immagine del biologico e garantire la specificità del prodotto biologico, assicurando e comunicando al consumatore le qualità intrinseche rispondenti a un determinato disciplinare377. In effetti, nell’ottica puramente di marketing, il marchio collettivo pubblico - sebbene si configuri per la separazione tra uso e titolarità del marchio e seppure possa essere affiancato da altri marchi come quelli dell’organismo di controllo o di conformità a standard privati - assurge a marchio individuale dei prodotti dello “Stato-impresa” (mentre nell’impianto normativo vigente il marchio d’impresa rappresenta uno strumento privatistico della concorrenza la cui funzione essenziale è quella distintiva378), la cui strategia deve far leva, al pari di un brand d’impresa, sull’accrescimento del valore del marchio, che è rappresentato dalla fedeltà al marchio, dalla reputazione del marchio, dalla qualità percepita e da altri patrimoni del marchio379. In tal senso, il “successo” del marchio non deriva tanto dalle caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto biologico certificato - nelle quali oltre tutto trova la sua ragione d’essere il premium price (ossia il differenziale di prezzo tra un prodotto biologico e il suo omologo convenzionale) - quanto piuttosto nella capacità del titolare, che a seconda dei casi si identifica con il ministero dell’agricoltura, con un ente regionale o con un’altra istituzione pubblica locale, di “conquistare” con efficaci azioni promo-pubblicitarie, la fiducia dei consumatori nel marchio pubblico e nei valori da questi percepiti, in termini di garanzia “istituzionale” di qualità, sicurezza e controlli dei prodotti marcati, per il tramite comunque di ente terzi di controllo e certificazione. 376 Attualmente, sono risorse stanziate con i piani di azione nazionale sull’agricoltura biologica elaborati dagli Stati membri a fronte delle disposizioni contenute nel Piano d’azione europeo per l’agricoltura biologica e gli alimenti biologici del 2004. Cfr. supra capitolo I, nota 141. 377 GIUCA, op. ult. cit., 2010, p. 196. 378 LUCIFERO, op. ult. cit., 2011, p. 346. Il marchio, invero, «ha assunto un ruolo fondamentale per la sua funzione comunicativa, ossia una funzione pubblicitaria, determinando conseguentemente l’opportunità di contemperare gli interessi privati con l’interesse generale di rendere il mercato trasparente» (Ivi, p. 369). 379 Sul punto, in particolare: AILAWADI et. al., Revenue Premium as an Outcome Measure of Brand Equity, in Journal of Marketing, 2003, 67 (4) pp. 1-17; VAN DER BORG et al., op. cit., 2007. 148 La prospettiva cambia spostandosi sul piano giuridico, dove il marchio collettivo, disciplinato sia dalla normativa comunitaria [direttiva 2008/95/CE, reg. (CE) n. 207/09] sia da quella nazionale (d. lgs. 30/05 e successive modifiche e integrazioni, d.m. 13 gennaio 2010, n. 33), rappresenta uno strumento privatistico di tutela di genus merceologici di prodotti (ad es. mele) o “panieri di prodotti” appartenenti anche a più categorie merceologiche (ad es. mele e biscotti), la cui titolarità spetta a un’organizzazione a cui fanno capo più imprese aderenti dalle quali provengono i prodotti; ma più che dare rilievo, a differenza del marchio individuale, al rapporto tra un prodotto e il suo produttore, esso assolve una funzione di garanzia e certificazione, prima ancora che distintiva380, in quanto è capace di assicurare «l’origine, la natura e la qualità» dei prodotti marcati381. «A tal fine, occorre che in sede di registrazione, inter alia, sia depositato un documento che individua le regole concernenti le condizioni di uso del marchio collettivo, i controlli e le relative sanzioni (il c.d. “disciplinare”), che assolve la funzione di uniformare la produzione delle imprese aderenti e, quindi, anche la corrispondenza a un determinato standard qualitativo. Ne discende che [il titolare del marchio] rappresenta il soggetto chiave per garantire l’effettiva corrispondenza dei beni alle caratteristiche indicate nel regolamento, attraverso i controlli, gli obblighi contenuti nel disciplinare e l’applicazione delle sanzioni […] garantendo ai consumatori un messaggio di sicurezza qualitativa che si riflette in tutti i prodotti marcati»382. Inoltre, con la registrazione presso 380 Il marchio individuale, quale segno distintivo del prodotto, non garantisce al consumatore niente di più che la costante provenienza del prodotto dalla medesima impresa mentre il marchio collettivo geografico assolve anch’esso la funzione distintiva dei prodotti di una cerchia di produttori, «ma identifica costoro per l’appartenenza all’ente o all’associazione titolari del marchio e, dunque, per la loro soggezione al potere di controllo di essi per quanto concerne il rispetto degli standard di qualità» (GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., 2006, p. 266). 381 Ivi, p. 265. Sul punto anche: LUCIFERO, La comunicazione simbolica nel mercato alimentare: marchi e segni del territorio, cit., 2011, pp. 351-352. Per gli aspetti dei marchi collettivi all’interno delle strategie di marketing, cfr. PILATI e RICCI, Il ruolo dei marchi collettivi in agricoltura, in Rivista di economia agraria, 1994, 3, pp. 491-512 382 LUCIFERO, op. ult. cit., 2011, p. 352. Parimenti è stato osservato da CARBONE, Specificità e limiti dei marchi collettivi per i produttori agroalimentari, in Rivista di economia agraria, 1996, 3, p. 357-378, che se i prodotti portanti lo stesso marchio risultano significativamente differenziati, i consumatori ricevono informazioni contraddittorie (unico marchio, ma qualità variabile o non costante) e la funzione di informazione e garanzia del marchio viene meno. Il consumatore può essere indotto ad allontanarsi da un marchio che si 149 l’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (UAMI) che ha sede ad Alicante, in Spagna, al marchio collettivo nazionale, che diventa «marchio collettivo comunitario», può essere garantita una protezione in tutti gli Stati membri, secondo il principio della c.d. unitarietà del marchio [reg. (CE) n. 207/09, che ha abrogato il reg. (CE) n. 40/94]383. Pertanto, mentre nel marchio individuale «la rassicurazione della qualità del prodotto […] deriva dall’esperienza che il consumatore ha acquisito usando quel prodotto e dal grado di attendibilità che egli attribuisce alle promesse ricevute attraverso la pubblicità […], la garanzia di qualità che il marchio collettivo dà al consumatore si fonda, da un lato, sull’autodisciplina degli associati e, dall’altro, sull’intervento dello Stato qualora l’ente o l’associazione non effettui i controlli previsti nello statuto o non applichi le sanzioni a carico degli associati trasgressori delle regole statutarie»384. Infatti, secondo il legislatore nazionale, il soggetto titolare del marchio è responsabile dell’osservanza del regolamento e deve quindi assicurare sistemi indipendenti di controllo385; l’omissione dei controlli, da parte di tale soggetto, previsti dalle disposizioni regolamentari, è causa di decadenza del marchio (art. 26, lett. b, c.p.i.). palesa scarsamente affidabile o a ridurre la sua disponibilità a pagare in seguito a esperienze di livello qualitativo percepito come di scarsa soddisfazione. Pertanto, la percezione di omogeneità dei prodotti è condizione necessaria a un efficace funzionamento del marchio collettivo e l’adozione di strumenti regolamentari e tecnici in grado di assicurarla, attraverso sistemi indipendenti di controllo, appare, di conseguenza, di fondamentale importanza. 383 Il reg. (CE) n. 207/09 produce effetti uniformi in tutta l’Unione Europea ma «non sempre disciplina ogni singolo aspetto e fa talvolta espresso riferimento alla legislazione nazionale; ad esempio, i tribunali dei marchi comunitari, competenti in materia di azioni per contraffazione, sono tribunali nazionali all’uopo designati dagli Stati membri (art. 95); […] l’intenzione evidente del legislatore comunitario non era di accantonare i sistemi dei marchi nazionali, bensì di affiancare loro il sistema dei marchi comunitari» (UAMI, Legislazione nazionale relativa al marchio comunitario e al disegno o modello comunitario, 2010, p. 7). 384 GERMANÒ, Situazioni giuridiche protette con riguardo alla localizzazione geografica della produzione: il marchio geografico ed il marchio regionale di qualità, in Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente, 1996, 11, p. 664. 385 In tal senso, la verifica della conformità a standard e disciplinari di processo e/o di prodotto tramite un processo di controllo e certificazione da parte di soggetti terzi e indipendenti che operino in conformità alla norma internazionale UNI EN ISO 45011 (cfr. supra nota 31) è in grado di esplicitare l’effettiva tutela dei consumatori, dell’ente titolare del marchio e degli stessi produttori licenziatari; infatti non si può ritenere sufficiente a garantire idoneamente l’integrità del sistema quella che di fatto, altrimenti, costituirebbe l’autocertificazione dell’impresa interessata all’utilizzo del marchio. Sul punto: ALBISINNI e CARRETTA, La qualificazione commerciale dei prodotti attraverso l’utilizzo dei marchi collettivi, Roma, 2003, pp. 24-26. 150 Il marchio collettivo geografico, specificamente, «può assurgere a garanzia della qualità del prodotto stesso, intesa come provenienza da un territorio ben determinato, in funzione distintiva rispetto ai prodotti analoghi ottenuti anche da imprese non associate situate nelle medesima zona»386. Esso, pertanto, ha la «duplice natura di segno di identità e distinguibilità, e così di origine da un territorio dichiarato e garantito, e insieme di garanzia di qualità per il consumatore»387. Secondo l’orientamento della giurisprudenza comunitaria, l’origine geografica comunicata attraverso il marchio collettivo deve però escludere il nesso diretto di causalità fra l’area di produzione e le caratteristiche distintive del prodotto, in quanto tale nesso di causalità è esclusivo per le DOP/IGP e deve essere regolamentato unicamente dal reg. (CE) n. 510/06 (sentenze Exportur, Warsteiner e Budvar)388. 386 STRAMBI, Gli strumenti di promozione dei prodotti agro-alimentari tradizionali ad alta vocazione territoriale alla luce della comunicazione sulla politica di qualità dei prodotti agricoli, in Rivista di diritto agrario, 2010, p. 122. Ivi, l’A. cita GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., 2006, p. 267: «Il marchio collettivo geografico per prodotti agricoli […] in sostanza garantisce che intere catene di prodotti, di provenienza diversa ma tutti accomunati dall’origine in un’area determinata, possiedono naturalmente, in virtù del suolo e del clima di tale località di produzione, quelle specifiche proprietà organolettiche che li hanno resi rinomati e fatti apprezzare dal pubblico dei consumatori». 387 ALBISINNI, CORAPI e CARRETTA, op. cit., 2007, p. 45. 388 Nella sentenza «Exportur» relativa al caso del «Torrone di Alicante», la Corte di giustizia europea (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 10 novembre 1992, causa C-3/91, Exportur, in Raccolta della giurisprudenza, 1992, p. I-5553; cfr. per un approfondimento: ALBISINNI, L’aceto balsamico di Modena, il torrone di Alicante e la birra Warstein. Denominazioni geografiche e regole del commercio alimentare, in Rivista di diritto agrario, 2001, II, pp. 101-140), ha ammesso che il nome geografico può identificare i prodotti ottenuti nel luogo geografico richiamato, per cui ha deciso che spetta solo ai produttori di torrone della zona specifica (Alicante) l’uso dell’indicazione «Torrone di Alicante» - e non ai produttori francesi che sulla base di una convenzione franco-spagnola del 1973 volevano utilizzare tale indicazione per i propri dolciumi -, in quanto tale indicazione geografica gode di una grande reputazione presso i consumatori e costituisce per i produttori stabiliti nel luogo che essa designa un mezzo essenziale per costituirsi una clientela, aprendo così la via all’interpretazione secondo cui il territorio richiamato dal nome del prodotto, pur non attribuendo alcuna particolarità o qualità, rileva unicamente in quanto segnala il luogo della sua fabbricazione. Sul punto: LUCIFERO, La comunicazione simbolica nel mercato alimentare, cit., 2011, p. 409. Al riguardo, sia il marchio collettivo geografico (MCG) che la DOP/IGP «hanno come presupposto il legame di un prodotto con un determinato territorio, ma - come ha chiarito successivamente la Corte di giustizia nella sentenza sulla «birra Warsteiner» [CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, sentenza 7 novembre 2000, causa C-312/98, Schutzverband gegen Unwesen in der Wirtschaft eV contro Warsteiner Brauerei Haus Cramer GmbH & Co. KG, in Raccolta della giurisprudenza, 2000, p. I-9187] - mentre in una DOP/IGP è il territorio che genera la qualità, le caratteristiche o anche la semplice rinomanza del prodotto, nel MCG questo nesso diretto di causa/effetto non esiste o comunque non deve essere considerato» (ALBISINNI, CORAPI e CARRETTA, op. cit., 2007, p. 58). La Corte di 151 giustizia è tornata sull’argomento con la sentenza «Budvar» dal nome della «Birreria Bud» di Budweis, società nazionale ceca che chiedeva l’inibitoria all’utilizzo sul territorio austriaco del marchio «American BUD» da parte della «Rudolf Ammersin GmbH», società con sede a Vienna controllata dalla birreria «Anheuser-Busch», con sede a Saint Louis (Stati Uniti), poiché, in forza dei trattati bilaterali conclusi in pre-adesione tra la Repubblica Ceca e la Repubblica d’Austria, l’utilizzazione della denominazione «Bud» nel detto Stato membro era riservata a birra prodotta nella Repubblica Ceca. La Ammersin, che contestava la legittimità di un simile accordo, ritenuto in contrasto con la disciplina sulla libera circolazione delle merci e con la successiva mancata richiesta di tutela del toponimo su base comunitaria all’atto di adesione, siccome potenzialmente ascrivibile ai prodotti DOP/IGP, ha avuto torto (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 18 novembre 2003, causa C-216/01, Budéjovicky Budvar, národní podnik contro Rudolf Ammersin GmbH, in Raccolta della giurisprudenza, 2003, p. I-13617). La Corte, nelle motivazioni della sentenza «Budvar», distingue tra «indicazioni geografiche semplici» e «indicazioni geografiche qualificate»: «le prime [non tutelate dall’ordinamento comunitario ma compatibili con le norme in materia di DOP/IGP] indicano solo l’origine del prodotto, non esistendo alcun nesso tra la qualità, la reputazione o un’altra caratteristica dello stesso, da un lato, e la sua origine espressa dal nome, dall’altro; le seconde, invece, trasmettono al consumatore un messaggio più complesso, fornendo informazioni non solo in merito al territorio di origine ma anche al legame tra quest’ultimo e le proprietà, le caratteristiche o la reputazione del prodotto stesso. In altre parole, le indicazioni geografiche qualificate, come le DOP e le IGP, presuppongono quel nesso, quel legame tra territorio e caratteristiche che manca nelle indicazioni semplici» (LOSAVIO, Il consumatore di alimenti nell'Unione Europea e il suo diritto ad essere informato, 2007, pp. 169-170). La Corte ha ritenuto l’accordo bilaterale un ostacolo alla libera circolazione delle merci, tuttavia la tutela delle indicazioni geografiche semplici (nel caso il «marchio Bud») è riconducibile all’eccezione relativa alla proprietà intellettuale e industriale che ai sensi dell’art. 36 TFUE può giustificare eccezioni alla libera circolazione delle merci se proporzionate all’effettiva tutela del bene giuridico protetto. Il giudice europeo in seguito ha accolto i ricorsi proposti dalla Budvar avverso le decisioni della seconda commissione di ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI) del 14 giugno 2006 (procedimento R 234/2005-2) e del 28 giugno 2006 (procedimenti R 241/2005-2 e R 802/2004-2) nonché del 1° settembre 2006 (procedimento R 305/2005-2) relative a procedimenti di opposizione riguardanti domande di registrazione del segno «BUD» come marchio comunitario depositate dalla società americana Anheuser-Busch (TRIBUNALE DI PRIMO GRADO DELLE COMUNITÀ EUROPEE, 16 dicembre 2008, cause riunite T225/06, T-255/06, T-257/06 e T-309/06, Budějovický Budvar/UAMI - Anheuser-Busch (BUD), in Raccolta della giurisprudenza, 2008, p. II-3555). Sennonché la Corte di giustizia, alla quale si è rivolta la società americana, ha stabilito che se la società ceca non utilizza in modo effettivo nei diversi Stati UE l’indicazione di provenienza geografica «Bud», altre aziende possono registrare il segno distintivo; infatti, perché una società possa avvalersi di una tutela del proprio marchio in ambito UE non basta la sola registrazione (che può essere richiesta con il solo fine di impedire l’iscrizione di un nuovo marchio) ma occorre che il segno sia realmente utilizzato in ogni Stato e sia divenuto elemento distintivo tanto per gli acquirenti e i consumatori quanto per i fornitori e i concorrenti. (CASTELLANETA, Tutela del marchio solo negli Stati in cui è utilizzato, in Il Sole 24 Ore, 2011, p.13). Infatti, secondo la Corte «per poter impedire la registrazione di un nuovo segno, il segno che viene invocato a sostegno dell’opposizione deve essere effettivamente utilizzato in un modo sufficientemente significativo nel traffico commerciale e deve avere un’estensione geografica che non sia puramente locale, ciò che implica, qualora il territorio di protezione di tale segno possa essere considerato come diverso da locale, che la suddetta utilizzazione abbia luogo in una parte rilevante di tale territorio». La Corte, pertanto, ha annullato la sentenza del Tribunale di primo grado «nella parte in cui il Tribunale, per quanto riguarda l’interpretazione dell’art. 8, n. 4, del reg. (CE) n. 40/94, sul marchio comunitario, come modificato dal reg. (CE) n. 422/04, ha erroneamente affermato, anzitutto, che la portata del segno in questione, che non può essere puramente locale, deve essere valutata unicamente sulla base dell’estensione del territorio di protezione di tale segno, senza tener conto dell’utilizzo di quest’ultimo in tale territorio, in secondo luogo, che il territorio pertinente per valutare l’uso del segno in questione non è 152 Ma mentre il marchio collettivo geografico privato finisce con il circoscrivere limitate aree collegando il prodotto con un determinato territorio di cui è possibile utilizzare il toponimo389, nel marchio collettivo geografico di cui sia titolare un soggetto pubblico non sono ammissibili indicazioni di provenienza riferite all’intero territorio di uno Stato membro o di una Regione (potrebbero, invece, essere ammesse indicazioni di provenienza riferite ad aree di minore estensione) e non sono ammissibili indicazioni di provenienza nazionale riferite indistintamente a tutti i prodotti agro-alimentari dello Stato membro (potrebbero, invece, essere ammesse indicazioni specifiche, riferite a specifici prodotti)390. In tal senso, appare coerente la modifica apportata in necessariamente il territorio di protezione del segno stesso e, infine, che l’uso di questo segno non deve necessariamente verificarsi prima della data di deposito della domanda di registrazione del marchio comunitario» (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 29 marzo 2011, causa C-96/09, Anheuser-Busch Inc. contro Budějovický Budvar, národní podnik, in Raccolta della giurisprudenza, 2011, doc 62009CC0096). La Corte di giustizia è stata nuovamente interpellata sul caso nella domanda di pronuncia pregiudiziale con riferimento al Regno Unito, dove la birreria ceca «Budějovický Budvar» e la birreria americana «Anheuser-Busch» commercializzano entrambe le loro birre, rispettivamente dal 1973 e dal 1974, con il segno «Budweiser» o con un marchio d’impresa che comprende tale segno da circa 30 anni prima della loro registrazione e dove, nel 2000, sono state autorizzate a registrare congiuntamente e simultaneamente i loro marchi «Budweiser», sebbene l’americana AnheuserBusch abbia presentato la richiesta per prima. Al riguardo, la Corte sottolinea che «i consumatori del Regno Unito percepiscono chiaramente la differenza tra le birre della Budvar e quelle dell’Anheuser-Busch, in quanto il loro gusto, prezzo e presentazione sono sempre stati diversi [e] si evince che, nonostante i due marchi siano identici, le [suddette] birre […] sono chiaramente identificabili come prodotte da imprese diverse. […] L’uso simultaneo in buona fede e di lunga durata dei due marchi identici in questione non pregiudica o non può pregiudicare la funzione essenziale del marchio anteriore dell’Anheuser-Busch. Pertanto, il marchio posteriore “Budweiser” registrato a favore della Budvar nel Regno Unito non deve essere dichiarato nullo [CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 22 settembre 2011, causa C-482/09, Budějovický Budvar, národní podnik/Anheuser-BuschInc., domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) - (Regno Unito), in GUUE C 331 del 12.11.2011]. 389 Il collegamento della “qualità” del prodotto all’origine geografica «è ritenuto legittimo solo nelle ipotesi di marchi collettivi privati, come nel caso [in Italia] dei marchi di vini di proprietà dei Consorzio Chianti classico, Chianti Putto, Chianti Gallo nero, ecc., anche perché il Consorzio non può impedire che gli altri produttori della zona si servano dello stesso toponimo nell’etichetta» (GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., p. 269). 390 «Se ne potrebbe concludere - in via di ipotesi interpretativa ed applicativa - che, ferma la piena legittimazione di associazioni di produttori (è dunque legittimo, ad esempio, il ruolo di un soggetto che assista l’avvio di simili iniziative ad opera dei privati produttori, lasciando poi agli stessi la gestione del sistema, salvo mantenere al soggetto pubblico il ruolo di certificatore), anche un soggetto pubblico (quale ad esempio le Camere di Commercio in Italia) potrebbe procedere alla diretta registrazione di marchi di origine e di qualità relativi a specifici prodotti, curando la redazione ed il deposito del relativo regolamento ed assicurando il rispetto di tale regolamento da parte dei soggetti licenziatari del marchio collettivo così registrato. Più complesso il caso della registrazione di un marchio locale riferito ad un intero paniere di prodotti locali, poiché in questa ipotesi - alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia […] - occorrerebbe individuare elementi comuni ai diversi prodotti effettivamente 153 Italia dal d. lgs. 131/10 all’art. 19 del c.p.i., comma 3, secondo cui le amministrazioni dello Stato, delle Regioni, delle Province e dei Comuni possono ottenere registrazioni di marchio «anche aventi ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del relativo territorio». Pertanto, alla luce di quanto fin qui illustrato, il marchio collettivo geografico può essere, sì, promosso dall’amministrazione pubblica che ne ha la titolarità (Stato, Regioni, enti locali, ecc.) ma solo qualora non leghi le caratteristiche qualitative del prodotto alla provenienza geografica nazionale/regionale dei prodotti che se fregiano perché, al contrario, favorirebbe le rispettive produzioni degli Stati membri (o delle ripartizioni amministrative) violando il principio comunitario della tutela della concorrenza e della libera circolazione di beni e servizi. Il Trattato non ammette, infatti, misure pubbliche che possano ostacolare gli scambi intracomunitari (art. 34 TFUE), come nel caso che accordino ai prodotti nazionali/regionali una preferenza in modo da escludere in tutto o in parte lo smercio di prodotti importati equivalenti391. Oltre tutto, il marchio nazionale/regionale svolgerebbe una funzione attrattiva per il consumatore, il quale potrebbe essere indotto ad riconoscibili, e tali da poter giustificare la condivisione del nome» (ALBISINNI, CORAPI e CARRETTA, op. cit., 2007, p. 42). 391 GERMANÒ, op .ult. cit., 2006, p. 265 ss. Al riguardo, l’art. 107 TFUE stabilisce che «salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza». Riguardo al settore agricolo, si vedano gli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale 2007-2013 (tali aiuti riguardano attività di produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, esclusa pesca e acquicoltura – cfr. nota 393), il reg. (CE) n. 1857/06 (aiuti di Stato a favore delle piccole e medie imprese attive nel settore della produzione di prodotti agricoli) e il reg. (CE) n. 1535/07 (aiuti de minimis nel settore della produzione dei prodotti agricoli). Secondo la Corte (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 19 settembre 2002, causa C113/02, Regno di Spagna contro Commissione delle Comunità europee, in Raccolta della giurisprudenza, 2002, p. I-7601), gli Stati membri sono tenuti ad astenersi dal prendere qualsiasi misura che deroghi o rechi pregiudizio alle organizzazioni comuni di mercato, create per raggiungere gli obiettivi della PAC (cfr. supra nota 13); nella valutazione degli aiuti, vi è sempre la presunzione che l’aiuto produca effetti distorsivi della concorrenza ed è sufficiente che si configuri un pregiudizio potenziale (non è necessario che l’incidenza dell’aiuto sugli scambi intracomunitari sia effettiva). Per un approfondimento della materia: GERMANÒ, Gli imprenditori agroalimentari e gli aiuti di Stato, in COSTATO, GERMANÒ, ROOK BASILE, op. cit., vol. III, 2011, p. 249-320. 154 istituire un collegamento - che a stretto rigore può non sussistere - tra prodotto e zona di produzione392. Il marchio collettivo geografico pubblico svolge, pertanto, funzione di garanzia e certificazione, poiché attesta i caratteri qualitativi dei prodotti che se ne fregiano (controllando la presenza di requisiti o caratteristiche dei prodotti sulla base dei parametri indicati nei disciplinari di produzione) ma non lega tali caratteristiche all’origine geografica della materia prima o alla provenienza delle aziende di produzione, trasformazione e commercializzazione, dovendo, tra l’altro, essere aperto a tutte le imprese comunitarie ma anche extracomunitarie in regime di equivalenza o meno (a condizione che la produzione sia conforme alla normativa europea di settore) per non incorrere in una violazione al Trattato. L’amministrazione pubblica non può finanziare azioni pubblicitarie a favore del prodotto biologico nazionale che si fregia di un marchio pubblico ponendo il riferimento all’origine in primo piano (seppure, tale riferimento deve essere secondario nel messaggio pubblicitario)393, ma può intervenire in 392 GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., p. 269. Ciò è del tutto coerente con gli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale 2007-2013 (GU C 319 del 27.12.2006), dove, nella sezione VI.D. rubricata «Aiuti alla pubblicità dei prodotti agricoli», si legge: «Per quanto riguarda l’origine dei prodotti, per molti anni la Commissione ha autorizzato determinati tipi di aiuti per la pubblicità dei prodotti agricoli. Dall’esperienza è emerso […] che le campagne pubblicitarie sono spesso destinate a rafforzare le preferenze dei consumatori nazionali per prodotti provenienti dallo stesso Stato membro, il che rende questo tipo di aiuti incompatibili col trattato» (VI.D.1. Analisi). Pertanto, «(153) gli aiuti di Stato a favore di campagne pubblicitarie all’interno della Comunità saranno dichiarati compatibili con il trattato se sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) la campagna pubblicitaria è destinata a prodotti di qualità definiti come prodotti che soddisfano criteri da stabilirsi a norma dell’articolo 32 del regolamento (CE) n. 1698/2005, a denominazioni riconosciute a livello comunitario [come le DOP (denominazioni di origine protette), le IGP (indicazioni geografiche protette) o altre denominazioni di origine protette in virtù della normativa comunitaria] oppure per marchi di qualità nazionali o regionali; b) la campagna pubblicitaria non è focalizzata sui prodotti di una o più imprese determinate; c) la campagna pubblicitaria rispetta il disposto dell’articolo 2 della direttiva 2000/13/CE, nonché, ove applicabili, le norme di etichettatura specifiche stabilite per determinati prodotti. (154) Se la campagna pubblicitaria è destinata a denominazioni riconosciute a livello comunitario, può essere fatto riferimento all’origine dei prodotti purché il riferimento all’origine corrisponda esattamente ai riferimenti registrati dalla Comunità. (155) Nel caso dei marchi di qualità nazionali o regionali, il riferimento all’origine può essere indicato purché sia secondario nel messaggio pubblicitario. Per valutare se l’indicazione dell’origine sia effettivamente secondaria nel messaggio, la Commissione prenderà in considerazione sia l’importanza globale del testo o del simbolo che fanno riferimento all’origine, comprese le immagini o la presentazione generale, sia l’importanza del testo o del simbolo che fanno riferimento all’argomento chiave usato nella pubblicità, cioè la parte del messaggio non incentrata sull’origine del prodotto» (VI.D.2. Orientamenti). Il 10 febbraio 2009 la Commissaria Fischer Boel ha risposto per conto 393 155 ambiti di estremo rilievo per il settore, quali, ad esempio, la promozione generale del consumo di prodotti biologici e del logo biologico dell’UE, il sostegno all’internazionalizzazione o il sostegno all’interprofessione e agli accordi di filiera. Le attuali azioni di comunicazione adottate dagli Stati membri per i propri marchi nazionali biologici, infatti, non fanno alcun riferimento diretto all’origine geografica del prodotto biologico e ne promuovono il consumo esclusivamente all’interno del proprio Paese. Al momento della loro istituzione, i marchi collettivi pubblici biologici regolamento d’uso, gestione del marchio, condizioni per l’utilizzo (disciplinare), procedure per la domanda di autorizzazione all’uso, campo di applicazione, utilizzo ai fini della comunicazione, controlli e sanzioni previste in caso di inosservanza o violazioni delle prescrizioni - presentavano peculiarità nazionali che sono andate sfumando in seguito al loro adeguamento all’evolversi della normativa comunitaria394. I disciplinari, infatti, ampliavano il campo di applicazione anche a settori non disciplinati dai regolamenti (CEE) della Commissione Europea a un’interrogazione scritta in materia di marchi nazionali presentata il giorno precedente, in cui il parlamentare finlandese Hannu Takkula lamentava come sulla base delle indicazioni della Commissione sugli aiuti di Stato alla commercializzazione dei prodotti alimentari non è possibile utilizzare la bandiera finlandese e altri simboli nazionali nella commercializzazione di prodotti alimentari nazionali se lo Stato finanzia la campagna. Il parlamentare faceva notare che i consumatori finlandesi devono poter conservare il diritto di conoscere il Paese d’origine e il modo di produzione dei prodotti alimentari, essendo emerso da indagini nazionali che molti consumatori vogliono sapere se i prodotti da loro consumati sono locali e non sono trasportati via aerea a beneficio così della riduzione dei cambiamenti climatici o se le verdure sono raccolte da immigrati clandestini sfruttati economicamente. La Commissaria, richiamando la sezione VI.D. degli orientamenti, ha ribadito che le campagne pubblicitarie con contributo dello Stato e tese a rafforzare le preferenze dei consumatori interni per i prodotti degli stessi Stati membri sono incompatibili con l’art. 34 TFUE perché suscettibili di ostacolare ai prodotti di altri Stati membri l’accesso al proprio mercato. Ciò significa che, in generale, la Commissione non autorizzerà l’aiuto di Stato a campagne pubblicitarie il cui messaggio primario è l’origine del prodotto, al di fuori dei casi previsti dal punto 154 degli orientamenti; nel caso di marchi di qualità nazionali o regionali all’origine può essere accennato solo come messaggio secondario, dopo che l’aiuto è stato comunicato e autorizzato dalla Commissione. La disciplina degli aiuti di Stato non si applica alla pubblicità, comprese le etichette, interamente pagate dagli operatori senza alcun contributo economico pubblico; gli operatori sono liberi di indicare l’origine dei loro prodotti e i metodi di produzione nelle etichette o in altro materiale pubblicitario finché sopportano essi stessi i costi della pubblicità (PARLAMENTO EUROPEO, Diritto alla denominazione dell’origine dei prodotti alimentari. Interrogazione Scritta di Hannu Takkula (ALDE) alla Commissione, 9 gennaio 2009 con risposta della Commissione del 10 febbraio 2009, P-0040/2009, www.europarl.europa.eu). 394 LANDI e MARUZZO, Il percorso di costituzione di un marchio collettivo per le produzioni biologiche toscane, in Annali della Facoltà di medicina e veterinaria dell’Università di Pisa, 2004, pp. 199-204. 156 n. 2092/91 e n. 1804/99 o contenevano disposizioni più severe e vincolanti rispetto alle norme comunitarie ante reg. (CE) n. 834/07 riguardo alla tracciabilità, al benessere animale, alla questione degli OGM 395. Oggi, se il disciplinare di produzione prevede norme più rigorose per la produzione biologica vegetale e per quella animale, queste devono valere per l’intera produzione vegetale e animale nazionale, nel rispetto del diritto comunitario, e non devono vietare o limitare la commercializzazione di prodotti biologici prodotti al di fuori del territorio nazionale [art. 34.2, reg. (CE) n. 834/07]. Nelle legislazioni di Francia, Danimarca e Spagna il marchio biologico pubblico, istituito in conformità all’allora direttiva 89/104/CEE (e all’attuale art. 15.2, direttiva 2008/95/CE), è un marchio collettivo geografico che si configura come un marchio di garanzia (della natura e qualità dei prodotti) e presenta caratteristiche più incisive del marchio collettivo dal quale si differenzia; invece, le legislazioni della Repubblica Ceca, dell’Austria e della Germania, come quella italiana396, non prevedono alcuna distinzione tra marchio di garanzia/certificazione e marchio collettivo che confluiscono nell’unica categoria di marchio collettivo geografico397. I marchi collettivi pubblici di questi Paesi tendono, oggi, a valorizzare le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto (legate alla specificità del metodo di produzione) ma senza alcun riferimento diretto all’origine geografica corrispondente allo Stato o alla regione specifica e, per non incorrere in una violazione al Trattato, consentono il libero accesso a ogni impresa comunitaria ed extra-comunitaria in regime di equivalenza o meno. Anche l’Austria, che già aveva perso la causa promossa dalla Commissione Europea in violazione al principio della libera circolazione dei servizi398, con la legge federale 55/07 - come si dirà nel paragrafo 1.4 - ha modificato la norma in vigore che faceva riferimento esclusivamente ai prodotti nazionali nei programmi di promozione dei marchi collettivi nazionali di qualità, incluso il marchio biologico nazionale, che non solo aveva fatto sorgere dubbi sulla 395 Ibidem. Cfr. infra paragrafo 5. 397 GIUCA, Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale, cit., 2010, p. 193. 398 Cfr. supra nota 355. 396 157 compatibilità degli aiuti nazionali a favore della pubblicità con gli orientamenti comunitari in materia, di cui si dirà più avanti, ma escludeva espressamente il rilascio dei marchi collettivi nazionali ai produttori non austriaci, in netta violazione del principio contenuto nell’art. 34 TFUE. Il marchio austriaco, pertanto, ha oggi una doppia veste grafica, in funzione dell’origine della materia prima, per cui il logo ha il bordo rosso e la scritta Austria (che può essere sostituita dal nome di un altro Paese - anche extracomunitario in regime di equivalenza o meno - o di una Regione/Provincia austriaca o non austriaca di provenienza) quando almeno il 70% degli ingredienti è di origine nazionale o proviene dal Paese o dalla Regione/Provincia indicati, con una soglia di tolleranza ammessa per l’origine esterna delle materia prime, se non disponibile della qualità richiesta, fino al 30%, mentre è in bianco e nero e senza tale scritta se si supera questa soglia di tolleranza399. Nel caso della Danimarca, della Finlandia, della Repubblica Ceca e della Spagna, il marchio è concesso anche ai prodotti la cui fase produttiva è stata interamente svolta all’estero purchè il confezionamento o l’etichettatura avvengano nel territorio nazionale e in tal caso il marchio attesta che l’impresa che ha realizzato l’ultima operazione (confezionamento e/o etichettatura), è un’impresa nazionale e come tale è stata sottoposta ai controlli, rispettivamente, dell’Autorità di controllo pubblica danese (Plantedirektoratet), dai Centri pubblici per lo sviluppo economico, dei trasporti e dell’ambiente (ELY-center), dell’Autorità di controllo nazionale per il tramite di uno dei tre OdC cechi e delle Autorità di controllo delle Regioni spagnole (Consejos Reguladores de la Agricultura Ecológica). «Tuttavia, poiché queste autorità pubbliche non procedono a operazioni di controllo all’esterno dei confini nazionali, ne consegue che il marchio è concesso in via esclusiva ai prodotti confezionati da imprese nazionali con materia prima conforme di qualsiasi origine (comunitaria ed extra-comunitaria)»400. Proprio riguardo ai controlli, i marchi nazionali ne prevedono di specifici e, come nel caso dei marchi di garanzia della Spagna, possono indicare l’autorità pubblica responsabile del controllo. 399 400 Cfr. infra paragrafo 1.4. GIUCA, op. ult. cit., 2010, p. 196. 158 Come si vedrà entrando nel dettaglio nei prossimi paragrafi, i regolamenti d’uso dei marchio francese, del marchio finlandese, del marchio ceco, del marchio tedesco e dei marchi regionali spagnoli non fanno riferimento all’origine nazionale del prodotto o dei suoi ingredienti e in essi mancano riferimenti grafici (simboli o colori nazionali) che possano in qualche modo identificare la nazionalità; tali riferimenti, invece, sono presenti nel marchio danese e, come detto, nel marchio austriaco. Seppure tali riferimenti indotti (colori) o espliciti (il nome dello Stato) possano esercitare una funzione attrattiva e indurre ad un collegamento con la zona di produzione, la presenza di un disciplinare che lega il prodotto alle caratteristiche intrinseche (il metodo di produzione), senza alcun legame con il luogo, nonché l’apertura a tutte le imprese comunitarie ed extracomunitarie in regime di equivalenza o meno, hanno reso questi marchi conformi alle norme UE. Il reg. (CE) n. 834/07 sembra aver parzialmente inciso sul «nazionalismo alimentare», stemperando, per la categoria dei prodotti biologici, gli orientamenti giurisprudenziali in materia di marchi collettivi nazionali, essendo l’indicazione del Paese di origine espressamente prevista nell’etichettatura dei prodotti biologici quando vi proviene il 98% delle materie prime (art. 24.1) ed essendo possibile apporre, contemporaneamente al logo biologico dell’UE, anche il logo nazionale (art. 25.2). Ne consegue, però, che per i prodotti biologici che soddisfano i requisiti dell’art. 24.1 del reg. (CE) n. 834/07, l’indicazione geografica del luogo di origine può evincersi, oltre che dalla dicitura «agricoltura UE», dove UE può essere sostituito dal nome del Paese di provenienza (che è un modo di rendere nota in etichetta l’origine del prodotto)401, anche dal marchio nazionale - che deve comunque essere aperto a imprese comunitarie ed extracomunitarie in regime di equivalenza o meno - e 401 Riguardo, come si è detto (cfr. intra par. 1.2) alla possibilità di apporre l’indicazione (facoltativa) del nome del Paese, il reg. (CE) n. 834/07 chiarisce che tale indicazione non deve figurare con colore, dimensioni e tipo di caratteri che le diano maggiore risalto rispetto alla denominazione di vendita del prodotto (art. 24.1, lett. c), la quale, usualmente, è collocata immediatamente prima dell’elenco degli ingredienti utilizzando caratteri di dimensioni contenute (a tutto beneficio del nome commerciale); in tal senso, l’origine non è un elemento di significatività preminente, ma solo accessorio, nel rispetto del principio comunitario del libero commercio tra Stati membri. 159 dall’eventuale toponimo utilizzato (Stato), ma senza che, nel disciplinare, vi sia un legame tra il luogo e le caratteristiche del prodotto. In tal senso, il marchio pubblico continuerebbe a svolgere esclusivamente la funzione di garanzia e certificazione, attestando le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto legate al metodo di produzione, mentre fornirebbe, con l’indicazione geografica, una mera indicazione di provenienza delle materie prime (o perlomeno di una elevata percentuale di esse), al pari di quella svolta dall’indicazione del Paese che obbligatoriamente deve comparire insieme al logo biologico dell’UE e che potrebbe, di fatto, assimilarsi alla c.d. «indicazione geografica semplice» individuata dalla Corte di giustizia europea nella sentenza Budvar sopra citata. Appare evidente, inoltre, che qualsiasi riferimento all’origine nazionale nel logo del marchio e, nella fattispecie, il toponimo Stato (ma sempre come modo di rendere nota in etichettata l’origine del prodotto) contrasterebbe con il dettato dell’art. 24.1 del reg. (CE) n. 834/07 se meno del 98% delle materie prime avesse un luogo di origine non nazionale. In tal senso, i parametri d’uso della versione “nazionale” del logo austriaco che include l’indicazione «Austria» dovrebbero essere rivisti. Se ne deduce che il logo nazionale potrebbe essere istituito da un qualsiasi Stato membro - o extra-UE in regime di equivalenza o meno - ed essere utilizzato, insieme all’Eurogoglia, solo da chi è in grado di dimostrare la provenienza da tale Stato del prodotto biologico certificato (e purchè il 98% di materia prima provenga da tale Stato). Il logo nazionale, in questa ipotesi, non avrebbe i requisiti del marchio collettivo ma quelli di un simbolo grafico; un modo, dunque, per rendere nota in etichetta l’origine geografica, senza l’istituzione del marchio collettivo pubblico da concedere a soggetti rispettosi di un disciplinare da questo regolamentato402. 402 In tal senso, in Italia (infra paragrafo 2.1), non sembrano contrastare con la posizione della Commissione (per cui, come detto, l’origine geografica deve essere comunicata solo attraverso le DOP/IGP o un marchio collettivo privato), alcuni marchi pubblici istituiti da leggi statali, ma solo nella misura in cui tali marchi si configurano quali loghi, ovvero segni grafici, per rendere nota in etichetta l’origine del prodotto e non come loghi parte integrante di un marchio collettivo con un regolamento d’uso e un disciplinare. Sul punto, cfr. GERMANÒ, Manuale di diritto agrario, cit., 2006, pp. 267-268. 160 1.1. Il marchio francese «AB» La Francia, forte di una lunga tradizione nell’impiego di metodi di coltivazione a basso impatto ambientale, è stato il primo Paese europeo ad adottare, negli anni ’80, una disciplina sistematica in materia di agricoltura biologica valida su tutto il territorio nazionale, tanto che l’esperienza francese ha poi fornito più di uno spunto al legislatore comunitario nel delineare principi e struttura del progetto normativo che ha portato all’emanazione del reg. (CEE) n. 2092/91403. Il primo concreto intervento pubblico si deve alla legge 502/80 sull’orientamento agricolo (Loi d’orientation agricole n° 80-502 du 4 juillet 1980 - LOA), a cui ha fatto seguito, nel 1981, la creazione di una commissione nazionale responsabile per l’organizzazione e lo sviluppo della produzione biologica. La LOA stabiliva che i cahiers des charges (disciplinari), che fissavano le condizioni di produzione agricola senza uso di prodotti chimici di sintesi, potevano essere omologati su ordinanza del ministro dell’agricoltura; tuttavia, è con la legge 1202/88 (Loi n° 88-1202 du 30 décembre 1988) «relative à l’adaptation de l’exploitation agricole à son environnement économique et social» che è stata consacrata l’identità tra agricoltura senza utilizzo di prodotti chimici di sintesi e agricoltura biologica, termine, questo, introdotto per la prima volta404. Nel 1985, sulla base dell’art. 28 (punto 1.1) della legge 808/60 (Loi n° 60808 du 5 août 1960 d’orientation agricole) - il cui contenuto è stato riformulato proprio dalla legge 1202/88 con l’introduzione, accanto al marchio agricolo, del certificato di conformità - il ministero dell’agricoltura francese (Ministère de l’agriculture, de l’alimentation, de la pêche et des affaires rurales), ha istituito il marchio agricolo AB (marque «AB»), che 403 CRISTIANI, Agricoltura biologica tra economia e diritto, cit., 1990, p. 318. Lo sviluppo dell’agricoltura biologica in Francia è maturato a partire dagli anni ’60, con il diffondersi del metodo Lemaire-Boucher (cfr. supra nota 50) e con la nascita, nel 1972, della Fédération Nationale d’Agriculture Biologique (FNAB) e dell’IFOAM a Versailles (cfr. cap. I, paragrafo 2); nello stesso anno sono stati messi a punto i primi disciplinari di settore dall’associazione di produttori Nature & Progrès (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 102). 404 MANSERVINI, La regolamentazione dell’agricoltura biologica in Francia, in Rivista di diritto agrario, 1989, p. 638 e ss. 161 contrassegnava i prodotti da agricoltura biologica, ottenuti nel rispetto delle condizioni di produzione, trasformazione e commercializzazione fissate in un disciplinare omologato con decreto ministeriale. In tal senso, il sistema di produzione qualificato come biologico rispondeva «all’osservanza di prescrizioni tecniche, in qualche modo riconosciute e approvate dall’ordinamento dello Stato»405 e il marchio AB aveva lo scopo di informare il consumatore della “biologicità” del prodotto che, peraltro, possedeva caratteristiche qualitative specifiche fissate a priori 406. Il riconoscimento da parte dello Stato del metodo di produzione biologico e l’adozione del marchio hanno portato l’ampia accettazione dell’agricoltura biologica non solo all’interno del Paese ma anche oltre i suoi confini; in quel periodo, infatti, la Francia rappresentava il più importante fornitore europeo di prodotti biologici, concentrando sul proprio territorio il 40% del totale degli ettari investiti a biologico in Europa407. Nell’adeguarsi alla normativa comunitaria in materia di agricoltura biologica e in materia di marchi, il ministero francese ha depositato, nel 1996, una nuova versione del marchio e dei relativi loghi (quelli attuali), per cui il marchio «AB» è registrato come marchio collettivo di certificazione, ai sensi della direttiva 89/104/CEE (e dell’attuale art. 15.2, direttiva 2008/95/CE), dell’art. R 641-31 (titolo IV, libro VI) del codice rurale francese e dall’art. L 715 (punto 2, § 4) del codice della proprietà intellettuale francese (Loi nº 92597 du 1er juillet 1992) e successive modifiche e integrazioni, ed è di esclusiva proprietà del ministero408. Come accennato nel paragrafo precedente, nella 405 Questo tipo di disciplina si differenziava dalla normativa «di semplice rinvio alle disposizioni in tema di pubblicità menzognera, propria di molti Paesi europei [Germania, Olanda, Belgio, Inghilterra], in cui l’osservazione delle pratiche biologiche restava sullo sfondo, come mero presupposto di fatto». Ciò non significava, però, che fosse garantita la “qualità” del prodotto, dal momento che l’art. 27 del decreto 227/81 così recitava: «è proibita qualunque indicazione che lasci credere che il prodotto, ottenuto secondo i criteri del capitolato omologato, sia garantito dallo Stato o sia ufficialmente controllato» (CRISTIANI, Agricoltura biologica tra economia e diritto, cit., 1990, p. 319). 406 MANSERVINI, op. ult. cit., 1989, p. 647. 407 KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 102. 408 Tale proprietà è in virtù, come è specificato nell’art. 3 del regolamento d’uso del marchio AB, del deposito come marchio collettivo di certificazione effettuato a nome del ministero francese presso l’INPI per la Francia, di un deposito comunitario ai sensi dell’art. 64 del reg. (CE) n. 40/94 [abrogato e sostituito dal reg. (CE) n. 207/09], di un deposito internazionale presso l’OMPI e dei depositi ove la sua protezione sia necessaria (MINISTÈRE DE 162 legislazione francese, come in quelle danese e spagnola, il marchio collettivo geografico è un marchio di garanzia o certificazione, ed è più incisivo del marchio collettivo dal quale si differenzia. Il restyling del marchio si colloca in un momento storico, gli anni ’90, caratterizzati dall’aumento dell’offerta di prodotti biologici soprattutto nei Paesi del Nord Europa, anche per effetto dei nuovi indirizzi comunitari sull’agricoltura biologica che si sono tradotti in programmi d’incentivazione nazionali; in questo contesto la Francia, ormai persa la leadership di Paese tradizionalmente esportatore, ha cominciato a promuovere il mercato interno e a favorire la domanda locale409. Alla lenta crescita del mercato interno di inizio millennio, si è contrapposta una dinamica favorevole degli ultimi anni410, anche per effetto del governo che sostiene con forza lo sviluppo dell’agricoltura biologica come componente sostenibile dell’agricoltura nazionale411. Oggi, la Francia è tra i primi Paesi consumatori di prodotti biologici in Europa anche se non è tra i primi produttori412. L’AGRICULTURE ET DE LA PÊCHE, Règles d’usage de la marque «AB», http://agriculture.gouv.fr/l-agriculture-biologique). 409 GIUCA, La commercializzazione di prodotti biologici, cit., 2009, p. 130. 410 Nel biennio 2008-2009 la Francia si è caratterizzata per un consistente aumento della superficie a biologico rispetto agli anni precedenti, posizionandosi per numero di ettari biologici alle spalle di Spagna, Italia, Germania e Regno Unito. Sempre nel 2009, la Francia si è collocata tra i Paesi europei che hanno fatto segnare la maggiore crescita del mercato; la spesa per il consumo pro capite di prodotti biologici è stata di 47 euro/anno, all’ottavo posto nella UE. In particolare, il 46% dei francesi ha consumato prodotti biologici almeno una volta al mese, rispetto al 44% nel 2008, il 26% almeno una volta alla settimana e il 9% tutti i giorni (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 104). 411 Il governo francese, completando le azioni finanziate con i fondi comunitari attraverso la PAC e lo sviluppo rurale, in particolare, sostiene gli agricoltori che si convertono al biologico e finanzia la ricerca e lo sviluppo del settore biologico; il piano di azione nazionale per l’agricoltura biologica per il periodo 2008-2012 («Agriculture et alimentation biologiques: Horizon 2012»), coerentemente con gli indirizzi contenuti nel piano di azione europeo per il settore (cfr supra nota 141), si pone l’obiettivo di triplicare la superficie dedicata all’agricoltura biologica entro il 2012 (Ivi, p. 102). 412 La superficie francese coltivata a biologico, nel 2010, è di 845.440 ettari (+25% rispetto al 2009), pari al 3,1% della superficie agricola utilizzata (al di sotto della media europea del 4%); il 61% dei terreni agricoli è utilizzato a foraggere, il 20% a cereali e l’8% a colture perenni, ovvero frutticoltura e viticoltura (quest’ultima interessa 50.268 ettari). Gli operatori della filiera biologica hanno raggiunto quota 31.022; di questi, 20.604 sono aziende certificate biologiche (+23% rispetto al 2009), pari al 4% delle aziende agricole, e altri 4.158 produttori biologici si sono aggiunti nel primo semestre del 2011. Il 37% delle aziende biologiche si dedica alla zootecnia, di cui circa il 25% alleva bovini da latte; i capi bovini totali (da carne e da latte) allevati con metodo biologico sono 168.083, mentre gli ovi-caprini sono 196.996. Oltre 7 milioni di polli da carne, 2,2 milioni di galline ovaiole e 69.495 arnie di api sono allevati con metodo biologico. Il mercato francese degli alimenti biologici è stimato, nel 2010, in 3,4 miliardi di euro (valore che sale a 3,5 miliardi con la ristorazione), secondo solo alla 163 Il sistema del marchio francese, oggetto di costanti campagne nazionali, si basa sul principio della totale tracciabilità dei prodotti e dei suoi ingredienti lungo tutta la filiera413 e il regolamento d’uso prevede il rispetto, oltre a quanto contemplato nella normativa comunitaria, delle norme di produzione francesi che differiscono solo per le produzioni animali, con ulteriori obblighi414, dettagliate in uno specifico disciplinare pubblicato con decreto del ministero dell’agricoltura francese del 20 agosto 2000 e successivamente aggiornato 415. Il decreto ha ampliato il campo di applicazione del marchio ai prodotti di origine animale non ancora coperti dalla normativa comunitaria (lumache, conigli, struzzi) e con ulteriori integrazioni ha incluso, nel 2004, gli alimenti destinati agli animali da compagnia (pet food) - attualmente non regolamentati a livello UE - che devono, pertanto, rispettare i requisiti elencati nel disciplinare oggetto del decreto, mentre nel 2007 [prima del reg. (CE) n. 710/09] ha incluso l’acquacoltura. Il regolamento d’uso del marchio AB è stato adeguato, nel 2009, alla nuove disposizioni introdotte con la riforma della normativa per i prodotti biologici avviata dal reg. (CE) n. 834/07416, secondo il quale, come riportato nell’allegato, la parola biologique (biologico) è il termine riservato, in lingua francese, al metodo biologico e che, pertanto, può essere usato nell’etichettatura e pubblicità dei prodotti certificati a norma di legge. Germania a livello europeo, il 10,8% in più rispetto all’anno precedente; esso rappresenta il 2% del mercato agro-alimentare totale nazionale. Il mercato francese dipende sensibilmente dalle importazioni che, nel 2010, hanno rappresentato oltre il 35% dei prodotti biologici consumati (dati disponibili sul sito: www.agencebio.org). 413 ROTH e LE GUILLOU, L’agriculture biologique: une garantie pour la sécurité du consommateur européen?, in Rivista di diritto agrario, 2003, p. 560. 414 «La France s’est donc, dans ce cadre, dotée d’un cahier des charges plus strict, sur de nombreux points, que la réglementation européenne. Celui-ci impose, par example, un «lien au sol» qui oblige les producteurs de produits animaux à également produire sur leur exploitation 40% de l’alimentation de ces animaux. Or, une telle obligation est totalement absente du règlement (CEE) n. 1804/99» (Ivi, p. 563). 415 MINISTÈRE DE L’AGRICULTURE, DE L’ALIMENTATION, DE LA PÊCHE ET DES AFFAIRES RURALES, Cahier des charges concernant le mode de production et de préparation biologique des animaux et des produits animaux définissant les modalités d'application du règlement CEE n° 2092/91 modifié du Conseil et/ou complétant les dispositions du règlement CEE n° 2092/91 modifié du Conseil, 20 août 2000, version consolidée, 13/09/2005, http://agriculture.gouv.fr/l-agriculture-biologique. 416 MINISTÈRE DE L’AGRICULTURE ET DE LA PÊCHE, op. cit., 2009. 164 Il marchio AB può essere utilizzato sia sulle confezioni di prodotti certificati ai sensi del reg. (CE) n. 834/07, sia su materiale utilizzato per scopi informativi e promozionali. Quando il marchio è utilizzato nell’etichettatura di prodotti certificati, il logo, riprodotto nell’allegato 1 del regolamento d’uso e nell’allegato a questo lavoro, è un rettangolo verticale con al centro la sigla «AB» di colore bianco su sfondo verde in cui la lettera B è sormontata da due foglioline bianche, accompagnata dalla dicitura «CERTIFIÈ AGRICULTURE BIOLOGIQUE» («AGRICOLTURA BIOLOGICA CERTIFICATA») a caratteri verdi su sfondo bianco417. Tale logo identifica i prodotti418 agricoli biologici, gli alimenti che contengono almeno il 95% di ingredienti di origine agricola biologici, i mangimi e gli alimenti per animali da compagnia (pet food) che contengono almeno il 95% di ingredienti di origine agricola biologici, conformi alle disposizioni in vigore previste dai regolamenti comunitari e dalla legge francese, nel rispetto del regolamento d’uso e del disciplinare francese per le produzioni animali (d.m. 20 agosto 2000), certificati da un organismo o da un’autorità pubblica competente per il controllo419. In tal caso, il logo può essere utilizzato nell’etichettatura di questi prodotti, in particolare in relazione alle operazioni di produzione, preparazione, etichettatura e controllo delle importazioni e per fini di comunicazione in relazione a tali prodotti, da qualsiasi operatore (francese, comunitario, extracomunitario in regime di equivalenza o meno, a condizione che la produzione sia conforme alla normativa europea di settore)420 che ne abbia fatto richiesta - 417 L’allegato riporta le soluzioni grafiche del logo (dimensioni, colori, posizione sulle confezioni), il quale, nei limiti del possibile, deve essere collocato in prossimità della lista degli ingredienti. Inoltre, il nome dell’organismo di controllo o il suo numero di codice, devono essere all’interno del campo visivo occupato dal marchio AB (Ibidem). 418 Con circolare del ministero francese dell’agricoltura e della pesca sono di volta in volta specificati i prodotti autorizzati, in funzione della normativa comunitaria o nazionale (cfr. http://legifrance.gouv.fr). Al riguardo, è stato specificato che il marchio AB può essere usato per il vino prodotto da uve biologiche, purché accompagnato dalla dicitura «vino ottenuto con uve da agricoltura biologica» oppure «vino di uva biologica»; le stesse regole sono applicabili anche all’aceto (cfr. sito del ministero francese: http://agriculture.gouv.fr/l-agriculturebiologique). Cfr. anche infra paragrafo 3. 419 La Francia, come l’Italia, ha delegato le funzioni di certificazione e controllo a OdC privati, designando le autorità addette al loro riconoscimento e alla loro vigilanza. 420 «L’utilisation de la marque «AB» à des fins de certification sur l’étiquetage des produits d’origine agricole ou des denrées alimentaires est soumise à une procédure de demande 165 per il tramite dell’ente di certificazione, responsabile dei controlli dei prodotti per i quali l’operatore richiede l’utilizzo del marchio AB - e abbia ottenuto l’autorizzazione dal ministero francese dell’agricoltura, l’attuale Ministère de l’agriculture et de la pêche. La verifica della conformità d’uso del marchio AB, pertanto, è sotto la responsabilità dell’ente di certificazione che ha controllato e certificato i prodotti. Il logo, in tal senso, svolge la funzione propria del marchio collettivo di certificazione e garanzia, come dettagliato nel paragrafo precedente, ovvero trasmette al consumatore il “messaggio” che il logo, di proprietà del ministero, garantisce che il prodotto marchiato AB è certificato biologico, che contiene il 95% di ingredienti di origine agricola biologici, che soddisfa i requisiti richiesti dalla normativa comunitaria e francese in materia di prodotti biologici, nonché i parametri indicati nel disciplinare in quanto è controllato da OdC accreditati e autorizzati dalle autorità competenti secondo le norme comunitarie. Quando il marchio è utilizzato per la comunicazione, il logo con la sigla «AB», riprodotto nell’allegato 2 del regolamento d’uso e nell’allegato a questo lavoro, presenta, invece, la dicitura «AGRICULTURE BIOLOGIQUE» («AGRICOLTURA BIOLOGICA») e compare su materiale destinato alla comunicazione e nei mezzi utilizzati per l’informazione dei consumatori in materia di agricoltura biologica. In tal caso, l’utilizzo del marchio è autorizzato da «Agence BIO», alla quale il ministero ha affidato, dal 1°gennaio 2008, la gestione del marchio e la verifica per il suo utilizzo a scopi promozionali e divulgativi421. In tal senso il logo assume la veste di segno distintivo del d’utilisation. Elle est réservée aux opérateurs qui ont notifié leur activité dans le pays où celleci est exercée auprès de l'organisme habilité à recevoir les notifications et ont soumis leur entreprise au contrôle d’un organisme ou d’une autorité publique chargé du contrôle dans l’Union européenne conformément aux articles 27, 28 et 35 du règlement CE 834/2007 ou à celui d’un organisme ou d’une autorité publique chargé du contrôle dans les Pays tiers conformément aux articles 32 et 33 du règlement CE 834/2007 et règlements associés» (Article 5 - Conditions d’usage) (MINISTÈRE DE L’AGRICULTURE ET DE LA PÊCHE, op. cit., 2009, p.2). 421 Agence BIO è un gruppo di interesse pubblico istituito con decreto 12 novembre 2001 per lo sviluppo e la promozione dell’agricoltura biologica in Francia, costituito da una associazione di partner pubblici, tra i quali il Ministère de l’agriculture et de la pêche e il Ministère de l’écologie, de l’énergie, du développement durable et de l’aménagement du territoire, e da organi professionali, enti di ricerca, organizzazioni ambientaliste e associazioni di consumatori (cfr. www.agencebio.org). 166 marchio, in termini di marketing istituzionale, al pari di un brand, ovvero di una marca privata, la cui rilevanza è legata alla notorietà presso i consumatori. Le sanzioni previste nel regolamento d’uso del marchio (allegati 3-1 e 3-2) sono proporzionali alle irregolarità e infrazioni e prevedono, senza pregiudizio di azioni penali e civili, la richiesta di azioni correttive entro un determinato periodo, la sospensione del diritto nei termini stabiliti dall’organismo di controllo, dall’autorità o da Agence BIO, fino al ritiro. Nel 2010, a seguito dell’entrata in vigore del logo biologico europeo, il governo francese ha predisposto specifiche indicazioni al fine di coniugare il marchio AB con il logo biologico dell’UE, specificando che, ai sensi del reg. (CE) n. 889/08 (allegato XI)422, il logo AB può essere riportato nell’etichettatura con il colore verde originario al quale si adegua il colore verde del logo UE423. Il governo francese riconosce al marchio AB un ruolo nello sviluppo del settore e nella crescita della domanda interna, forte del fatto che il marchio è conosciuto dall’85% dei consumatori francesi, mente l’81% riconosce i prodotti come biologici dalla presenza del marchio AB nell’etichettatura e solo il 15% dal logo biologico dell’UE424. La riconoscibilità del marchio AB presso i consumatori si deve senz’altro all’attività di informazione e comunicazione svolta dal governo francese attraverso Agence BIO e al conseguente utilizzo da parte delle imprese, che funziona da moltiplicatore della notorietà. 1.2. Il marchio danese «Ø-mærket» (c.d. marchio rosso) In Danimarca, dove negli anni ’80 si è sviluppata - in linea con gli altri Paesi del Nord Europa - una maggiore coscienza ambientalista e salutista dei 422 Cfr supra nota 370. Cfr. AGENCE BIO, Nouveau logo bio de l’Union européenne. Conditions d’utilisation en 10 questions - réponses, 2010, www.agencebio.org; SYNDICAT NATIONAL DES ENTREPRISES BIO, Nouveau logo européen bio. Quelles garanties? Comment gérer la transition à la fois pour les professionnels et les consommateurs?, 2010, www.synabio.com/doc/synabio-doc-326.pdf. 424 AGENCE BIO, Baromètre consommation et perception des produits biologiques en France, 2010, www.agencebio.org. 423 167 consumatori, è stata la politica del governo a promuovere attivamente l’agricoltura biologica425, integrandola nei propri ambiti di ricerca e dotandosi di una legislazione adeguata al settore. La prima legge in materia, che risale al 1987, ha rappresentato un forte segnale per la crescita del settore, in quanto sosteneva la conversione degli agricoltori all’agricoltura biologica e assegnava fondi del bilancio statale per il marketing426. La Danimarca, in tal senso, si colloca tra i primi Paesi al mondo, insieme alla Francia e all’Austria, ad aver dettato norme nazionali per l’agricoltura biologica e, nel 2004, è stato il primo Paese ad adottare norme nazionali per l’acquacoltura biologica, attualmente incluse nell’ordinanza 1671/10427. nonché, come si dirà più avanti, anche il primo a dotarsi di un efficiente sistema di controllo pubblico dei prodotti alimentari biologici e dei produttori. Quale Paese importatore, l’espansione dell’offerta ha stimolato la creazione di una efficiente organizzazione commerciale danese a livello regionale e interregionale, con la distribuzione moderna interessata, sin dagli anni ’90, a 425 Lo sviluppo dell’agricoltura biologica in Danimarca risale, in realtà, agli anni ’20, con molteplici estimatori interessati agli alimenti prodotti in modo naturale, senza il sussidio di prodotti chimici, e la conseguente nascita, nel 1936, dell’Associazione Biodinamica tra agricoltori danesi che utilizzavano tale metodo. Solo nel 1981, tuttavia, il movimento danese per il biologico ha preso forma concreta, con la fondazione dell’organizzazione danese per l’agricoltura biologica (Økologisk Landsforening - LØJ), attualmente esistente, che riuniva agricoltori, trasformatori e consumatori, con uno specifico disciplinare di produzione e un servizio di ispezione indipendente, tanto che già nel 1982 si vendevano carote prodotte con metodo biologico nei negozi di alimentari; subito dopo, la legislazione danese ha fornito un forte impulso allo sviluppo del settore (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 97). 426 La legge originaria sull’agricoltura biologica è stata sostituita, con l’entrata in vigore del reg. (CEE) n. 2092/91, dalla legge n. 118 del 3 marzo 1999 sui prodotti alimentari biologici e dal decreto legge n. 757 del 3 ottobre 1999 sulla produzione biologica, modificati nei contenuti e integrati da varie ordinanze ministeriali con l’evolversi della normativa comunitaria (FAO, World markets for organic fruit and vegetables, report, 2001, www.fao.org). Tutti questi provvedimenti sono stati abrogati e sostituiti dalla normativa nazionale emanata successivamente all’entrata in vigore del reg. (CE) n. 834/07 (cfr. infra nota 436). 427 Sul punto: IFOAM, Acquacoltura Biologica. Regolamenti (CE) 834/2007, (CE) 889/2008, (CE) 710/2009. Storia, valutazione, interpretazione, Bruxelles, 2010, p. 14. Le norme nazionali, contenute nell’ordinanza 144/2004 dell’Amministrazione veterinaria e alimentare del ministero dell’agricoltura (Fødevarestyrelsen), e le successive modifiche, sono state sostituite, dopo l’entrata in vigore del reg. (CE) n. 710/09, da quelle contenute nell’ordinanza del 2010 sugli alimenti biologici e l’acquacoltura, che consente alle aziende che già eseguono la produzione secondo le norme nazionali di adeguarsi alle norme UE entro il 1° luglio 2013 (Bekendtgørelse nr. 1671 af 22. december 2010 om økologiske fødevarer og økologisk akvakultur m.v.) (cfr. www.foedevarestyrelsen.dk). 168 questo mercato in espansione428. A poco a poco, tutte le catene alimentari hanno ampliato le referenze di prodotti biologici nella loro gamma di prodotti, puntando alla stabilità dei consumatori abituali e a un incremento dei consumatori occasionali; sicché negli ultimi anni, nonostante il periodo di crisi finanziaria, i consumatori danesi hanno continuato a mostrare interesse per questi prodotti429. L’attuale sviluppo della produzione biologica in Danimarca430 - che resta comunque insufficiente a soddisfare la domanda interna (tanto che il Paese è importatore netto di prodotti biologici, soprattutto frutta fresca e verdura) - è, pertanto, il risultato non solo del sostegno del governo - al quale si deve, nel 1995, il primo programma nazionale di settore da parte di un Paese europeo431 ma anche della forte cooperazione tra autorità governative, agricoltori biologici e vendita al dettaglio. Ciò si è tradotto nel primato europeo della più alta quota di mercato dei prodotti biologici sul totale del proprio mercato alimentare e nel più alto consumo pro capite di prodotti biologici non solo in Europa ma in tutto il mondo432. 428 GIUCA, La commercializzazione di prodotti biologici, cit., 2009, pp. 129-130. Nel 1993, quando la catena danese di supermercati «Super-Brugsen» ha introdotto sconti e iniziative di marketing per i prodotti biologici, altre catene hanno seguito l’esempio con analoghe iniziative di vendita, con una conseguente crescita esplosiva delle vendite che ha portato a una completa inversione di tendenza, con la domanda che superava l’offerta; il mercato biologico danese ha poi subìto una stagnazione, per poi riprendere la crescita a partire dal 2005 (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 89). 430 Secondo gli ultimi dati disponibili la superficie nazionale coltivata a biologico, nel 2009, è di 156.433, il 5,4% della SAU danese, mentre le aziende certificate biologiche sono 2.694 (dati FiBL al 31/12/2011, www.organic-world.net). L’80% dei terreni agricoli biologici è investito a seminativi; di questi, 74.000 interessano i foraggi verdi, 46.000 i cereali e poco meno di 2.000 ettari gli ortaggi. Mentre la superficie totale coltivata a biologico non è cambiata molto negli ultimi dieci anni, il numero delle aziende agricole è diminuito ma è aumentata la dimensione media per azienda biologica, pari a 62 ettari, leggermente più grande di quella media delle aziende convenzionali (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 97). La zootecnia biologica danese si concentra essenzialmente sui bovini da latte e da carne e sulle galline ovaiole, i cui prodotti sono destinati anche all’esportazione (www.organicdenmark.dk). 431 La Danimarca ha sviluppato nel 1995 e nel 1999, due piani d’azione quinquennali per l’agricoltura biologica, elaborati dal Consiglio per l’agricoltura e i prodotti biologici, un organismo pubblico operante dal 1987 con funzioni di consulenza e assistenza ministeriale in materia di agricoltura biologica, che hanno costituito la base per gran parte del lavoro politico negli anni successivi. Attualmente, è all’esame un nuovo piano, mentre il settore continua ad essere sostenuto da misure governative, da misure comunitarie nel quadro della PAC e dello sviluppo rurale e da finanziamenti nazionali per la ricerca e la promozione (KILCHER et al., op. cit., 2011, pp. 97-98). 432 Il mercato danese degli alimenti biologici è cresciuto del 5,7% nel 2009, per un volume d’affari stimato in 765 milioni di euro e una quota pari al 7,2% del mercato agro-alimentare nazionale; i prodotti biologici più diffusi sono: latte, latticini e formaggi; farina d’avena; uova, 429 169 Un ruolo significativo nel creare, tra i consumatori danesi, fiducia nei prodotti biologici si deve all’«Ø-mærket», il c.d. røde-mærke Ø (marchio rosso Ø), istituito nel 1989 ai sensi della direttiva 89/104/CEE (e dell’attuale art. 15.2, direttiva 2008/95/CE) e sottostante alla successiva normativa danese sui marchi433, in base alla quale il marchio collettivo geografico si configura, analogamente alle legislazioni di Francia e Spagna, come marchio di garanzia o certificazione, con caratteristiche più incisive del marchio collettivo dal quale si differenzia, come descritto nelle pagine precedenti. Le modalità di applicazione del marchio rosso Ø, di proprietà del Ministero dell’alimentazione, dell’agricoltura e della pesca (Ministeriet for Fødevarer, Landbrug og Fiskeri - MFLF), sono attualmente contenute nell’ordinanza ministeriale 1671/10 (§ 17 e allegato 4) e nella guida istituzionale (paragrafo 3.8)434. Il marchio è rilasciato, nel pieno rispetto della legislazione alimentare comunitaria e nazionale [reg. (CE) n. 178/02 e legge danese 526/05], ai prodotti alimentari biologici di origine nazionale, comunitaria, extracomunitaria in regime di equivalenza o meno435, a condizione che la produzione sia conforme alla normativa comunitaria in materia e alla legge danese sulla produzione biologica (da ultimo, la legge 416 del 3 maggio 2011 e con quote di vendita sull’intero settore biologico pari, rispettivamente, al 38%, al 36% e al 26%. Particolarmente sviluppato è il settore lattiero-caseario biologico, con produzioni annue di 170 milioni di kg di latte per il consumo, pari al 10% della produzione totale di latte in Danimarca, 2 milioni di kg di burro e 3 milioni di kg di formaggio biologico (www.organicdenmark.dk). Nel 2009, la spesa pro capite per i consumi di alimenti biologici è stata la più alta nel mondo, pari a 139 euro/anno, davanti alla Svizzera (132 euro/anno) (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 89). 433 Si tratta della legge 342/91 sui marchi collettivi (Fællesmærkeloven, Lov nr. 342 af 6. juni 1991), della legge consolidata sui marchi 782/2001 (Lovtidende - Bekendtgørelse af Varemærkeloven nr. 782 af 30. august 2001) e del regolamento n. 787/03 concernente il deposito, la registrazione ecc., di marchi e marchi collettivi (Bekendtgørelse om ansøgning og registrering m.v. af varemærker og fællesmærker nr. 787 af 9. september 2003) e successive loro modifiche e integrazioni (UAMI, op. cit., 2010, p. 13). 434 Si tratta della guida ai prodotti alimentari biologici, disponibile sul sito del MFLF, in lingua danese, nelle pagine della Direzione responsabile per la produzione vegetale e animale (MINISTERIET FOR FØDEVARER, LANDBRUG OG FISKERI, Vejledning om økologiske fødevarer m.v., Fødevarestyrelsen, 2011, pp. 26-28). Molte informazioni sono reperibili nella versione in lingua inglese del sito del ministero dell’agricoltura danese (www.fvm.dk). 435 Purché si tratti di prodotti disciplinati dalle norme comunitarie e nazionali per la produzione biologica; pertanto, il marchio danese non può essere applicato su alimenti che non siano di origine agricola, come ad esempio l’acqua, né può essere utilizzato per il vino ottenuto da uve da agricoltura biologica perché il marchio è corredato della dicitura biologico che non può essere utilizzata per il vino (Ivi, p. 26). 170 precedenti ordinanze ministeriali ancora in vigore436), i cui standard di produzione corrispondono a quelli comunitari. L’Ø-mærket può essere utilizzato anche per prodotti biologici non destinati all’alimentazione umana, come gli alimenti per cani e per gatti (pet food) che, come è noto, non sono ancora regolamentati dalla normativa comunitaria, mentre sono disciplinati a livello nazionale (ordinanza 1671/10, § 2). Il logo (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), parte integrante del marchio le cui specifiche sono descritte nell’allegato 4 dell’ordinanza 1671/10, è un rettangolo orizzontale caratterizzato dal simbolo grafico Ø, di colore rosso (colore della bandiera danese), che rappresenta l’iniziale di økologisk (biologico) - che è il termine riservato al metodo biologico in lingua danese, secondo l’allegato al reg. (CE) n. 834/07, e che, pertanto, può essere usato nell’etichettatura e pubblicità dei prodotti certificati a norma di legge - con all’interno, su sfondo bianco, il simbolo della corona reale che rappresenta il Ministero dell’alimentazione, dell’agricoltura e della pesca. Tale simbolo è affiancato, sulla destra, dalla dicitura «Stats-kontrolleret økologisk» (biologico/controllato dallo Stato), anch’essa di colore rosso, che garantisce che il controllo è competenza dello Stato. Per venire incontro alle esigenze di confezionamento e ad una riduzione dei costi per gli utilizzatori, il logo può anche essere riprodotto in bianco e nero sulle confezioni dei prodotti certificati biologici. Tuttavia, per il rilascio del marchio devono essere soddisfatti ulteriori requisiti in materia di procedure di controllo (ordinanza ministeriale del 21 436 La legge 416/11 (Økologilov n. 416 del 3 maggio 2011, jf. lovbekendtgørelse nr. 196 af 12. marts 2009, med de ændringer, der følger af § 7 i lov nr. 341 af 27. april 2011), che si applica alla produzione, stoccaggio, preparazione, importazione e commercializzazione dei prodotti agricoli biologici e della pesca, compresi gli alimenti, ha modificato la precedente normativa che, a sua volta, aveva modificato la legge di recepimento dei regolamenti (CE) n. 834/07 e 889/08 (Økologilov n. 463 del 17 giugno 2008) e i relativi decreti applicativi. Restano in vigore l’ordinanza 1671/10 sugli alimenti biologici e l’acquacoltura (cfr. infra nota 427), le ordinanze n. 1111 e n. 1112 del 2008 e successive modifiche, relative, rispettivamente, al sistema dei controlli (Bekendtgørelse nr. 1111 af 21. november 2008 om økologisk jordbrugsproduktion m.v.) e alla produzione e commercializzazione di polli vivi (Bekendtgørelse nr. 1112 af 21. november 2008 om produktion og markedsføring af økologiske levekyllinger) e l’ordinanza 244/04 relativa alla produzione agricola biologica, il cui art. 19 è stato abrogato (Bekendtgørelse nr. 244 af 2. april 2004 om økologisk jordbrugsproduktion m.v.). La normativa è reperibile sul sito del MLFL: http://pdir.fvm.dk/om_oekologi.aspx?ID=2389 o tramite il motore danese di ricerca delle leggi nazionali (https://www.retsinformation.dk). 171 novembre 2008, n. 1111), secondo i quali l’ultima preparazione del prodotto (confezione e/o etichettatura) deve essere effettuata da una società (trasformatore, importatore, confezionatore) localizzata nel territorio danese, soggetta, pertanto, al controllo delle autorità governative. Dunque, l’Ø-mærket può essere applicato sulle confezioni di prodotti biologici solo in Danimarca, in quanto le autorità danesi non controllano i prodotti confezionati in altri Paesi. Il sistema di controllo danese sui prodotti biologici, come avviene anche in Finlandia, Paesi Bassi e Islanda, non si avvale di strutture di controllo private ma solo di strutture pubbliche437. L’autorità nazionale competente, ovvero il MFLF, opera attraverso la Direzione responsabile per la produzione vegetale e animale («Plantedirektoratet»), alla quale vanno indirizzate le domande delle aziende agricole a commercializzare e vendere i loro prodotti come biologici e le domande delle imprese che intendono importare mangimi biologici, e l’Amministrazione veterinaria e alimentare («Fødevarestyrelsen»), responsabile del settore della lavorazione e distribuzione, alla quale vanno indirizzate le domande delle strutture di trasformazione, importazione e confezionamento di prodotti alimentari biologici438. Il MFLF ha investito delle funzioni di controllo e certificazione, ai sensi del reg. (CE) n. 834/07, art. 27.1, dieci autorità di controllo, organi della pubblica amministrazione di impianto regionale (Autorità alimentari e veterinarie), coordinate, per i propri ambiti di competenza, dalla Plantedirektoratet e dalla Fødevarestyrelsen. Le Autorità alimentari e veterinarie regionali, alle quali spetta il rilascio dell’autorizzazione delle aziende del settore agricolo e di trasformazione alimentare, nonché degli importatori, e il controllo di tutte le aziende autorizzate, coprono l’intera filiera di produzione, dall’azienda di produzione primaria al punto vendita, utilizzando personale pubblico per le visite ispettive, accreditato secondo la norma europea EN 45011439. Le autorità regionali operano esclusivamente sul territorio del regno, con il coordinamento delle due autorità centrali del ministero per garantire un controllo uniforme in 437 Cfr. capitolo II, paragrafo 3. KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 100. 439 Cfr. supra nota 350. Informazioni sul sistema dei controlli sono disponibili sui siti del ministero (http://pdir.fvm.dk) e delle autorità ministeriali (Plantedirektoratet: www.pdir.dk; Fødevarestyrelsen: www.vfd.dk) dove sono presenti documenti in lingua inglese. 438 172 tutto il Paese e l’effettuazione di almeno una visita annuale di controllo, in conformità alle normali procedure di controllo sugli alimenti; in tal senso si inseriscono i controlli sull’uso dell’Ø-mærket. Il “logo Ø con la dicitura Stats-kontrolleret økologisk” (Ø-mærket) può essere apposto sulle confezioni di prodotti alimentari biologici e di pet food biologici ma non può essere utilizzato nel marketing e nella pubblicità di questi prodotti; in tal caso, infatti, deve essere utilizzato il “logo Ø senza la dicitura Stats-kontrolleret økologisk” (Ø’et)440. Tuttavia, l’Ø-mærket può essere utilizzato nel marketing e nella pubblicità dei prodotti agricoli e di alcuni prodotti non alimentari441, come il fieno e gli alberi di Natale e, in tal caso, il marchio è gestito e controllato dalla Plantedirektoratet. L’Ø-mærket, ivi compreso l’Ø’et, può essere utilizzato in connessione con la sensibilizzazione e l’educazione sul consumo di prodotti biologici, anche in relazione con le campagne generali per la promozione degli alimenti biologici; le richieste di autorizzazione all’uso del marchio per tale scopo devono essere indirizzate alla Fødevarestyrelsen. Il marchio pubblico danese per i prodotti biologici non comporta alcuna indicazione sull’origine della materia prima, tanto che può essere concesso anche ai prodotti la cui fase produttiva è stata interamente svolta all’estero; esso, infatti, svolge la funzione propria del marchio collettivo geografico pubblico (garanzia e certificazione), in quanto lega le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto alla specificità del metodo di produzione, senza alcun 440 I negozi che vendono alimenti certificati biologici sfusi, come frutta e verdura all’ingrosso, che non sono autorizzati al confezionamento dei prodotti e non possono ottenere il rilascio del marchio Ø, non possono utilizzare il logo rosso per reclamizzare tali prodotti all’interno dei loro locali; invece, i negozi al dettaglio che vendono alimenti biologici confezionati e marchiati Ø, indipendentemente dal fatto che essi rientrino nei controlli biologico o meno possono utilizzare l’Ø’et con riferimento a specifici alimenti, tramite segnaletica ed etichette a scaffale, oppure come richiamo visivo generale, per esempio tramite sacchetti di plastica o cartellonistica. Quando si utilizza l’Ø’et è possibile reclamizzare informazioni di accompagnamento, anche accattivanti, che ne giustificano l’uso ma che non siano ingannevoli, come ad esempio «più di 100 prodotti biologici» se effettivamente presenti nel punto vendita; l’Ø’et può eventualmente essere utilizzato in connessione al nome di una società o di un logo nel caso di promozioni speciali, ma sempre unitamente a slogan che garantiscono che i consumatori non siano indotti in errore (MINISTERIET FOR FØDEVARER, LANDBRUG OG FISKERI, op. cit., 2011, pp. 26-28). 441 Naturalmente, quando si utilizzano l’Ø-mærket e l’Ø’et con riferimento a particolari alimenti, questi alimenti devono poter essere legalmente commercializzati come biologici nel nome del prodotto (Ibidem). 173 riferimento all’origine. In tal senso, come si è detto, è vietato l’utilizzo dell’Ømærket ai fini del marketing e della pubblicità, escludendo qualsiasi “sostegno statale” al commercio tra privati e nel rispetto degli Orientamenti per gli aiuti di Stato a favore della pubblicità442. Il logo, pertanto, garantisce che il prodotto marchiato Ø è certificato biologico, che contiene il 95% di ingredienti di origine agricola biologici, che soddisfa i requisiti richiesti dalla normativa comunitaria e danese in materia di prodotti biologici e che si tratta di prodotti trasformati e/o confezionati e/o etichettati in Danimarca e controllati dalle autorità pubbliche, ovvero dal MFLF per il tramite delle autorità di controllo centrali e regionali. Essendo l’attività di controllo di competenza esclusiva di soggetti pubblici, essa assume un carattere meno “commerciale”, in una logica di tutela della collettività, amplificando, in tal senso, i valori del logo nazionale e facendo leva sulla fidelizzazione del consumatore e sulla percezione di garanzia e sicurezza alimentare, tanto che è ammesso l’utilizzo dell’Ø’et (il logo Ø senza dicitura) direttamente sui gusci delle uova, sulla parte esterna dei formaggi e come timbro sulle parti anatomiche degli animali macellati, purché in prossimità dei bolli sanitari obbligatori e nel rispetto della legislazione alimentare (ordinanza 1571/10, allegato 4). In realtà proprio il rispetto alla legislazione alimentare si configura quale indice di sicurezza e salubrità dell’alimento in sé, indipendentemente dalla “biologicità” del prodotto, mentre il logo attesta la rispondenza del prodotto alle caratteristiche qualitative intrinseche relative al metodo biologico. Ad ogni modo, il logo rosso Ø gode di una elevata notorietà presso i consumatori danesi443 e il sistema di controllo nazionale è percepito come più affidabile e in qualche modo più severo di quello degli OdC privati esteri444. Per questo, ai fini di una maggiore penetrazione sul mercato danese, la maggior parte degli alimenti biologici proveniente dai Paesi UE o da Paesi terzi sono 442 Cfr. infra paragrafo 1. Il logo è conosciuto dal 98% dei consumatori danesi e il 90% dichiara di essere sicuro che i prodotti etichettati con il logo siano biologici (MINISTRY OF FOOD AGRICULTURE AND FISHERIES, Consumer confidence and the story of the Danish organic logo, brochure, 2009, http://agrifish.dk). 444 JANSSEN e HAMM, Consumer perception of different organic certification schemes in five European countries, in Organic Agriculture, 2011, 1 (1), p. 12. 443 174 importati in forma sfusa per l’elaborazione, la preparazione o il reimballaggio in Danimarca445, non essendo i prodotti di importazione confezionati autorizzati, come detto, all’utilizzo dell’Ø-mærket. Riguardo alla possibilità di usare il marchio biologico danese insieme al logo dell’UE (tra l’altro, l’obbligatorietà di quest’ultimo è stata fortemente appoggiata dalla Danimarca in Commission Europea), il ministero non fornisce indicazioni particolari, tranne che devono essere rispettati i requisiti previsti dalla normativa comunitaria446. 1.3. (segue): il marchio danese per i cibi biologici «Økologiske spisemærke» Nel 2009, il ministero dell’agricoltura danese, riprendendo le caratteristiche grafiche del logo rosso Ø per i prodotti biologici, ha depositato il marchio collettivo nazionale per i cibi biologici («Økologiske spisemærke»)447, unico esempio al mondo, che può essere rilasciato a grandi cucine commerciali di ristoranti, bar, ospedali, scuole, catering e mense che effettuano operazioni di ristorazione collettiva448, localizzate nel territorio danese, a seguito di richiesta all’autorità competente (Fødevarestyrelsen) Secondo le intenzioni del ministero, l’Økologiske spisemærke ha il duplice scopo di incoraggiare la produzione, la vendita e l’uso di alimenti biologici in ristoranti, mense e istituzioni e di massima trasparenza per i consumatori, attraverso l’indicazione della quantità di materie prime certificate biologiche utilizzate nei cibi presenti nei menù449. Al riguardo, il logo dell’Økologiske spisemærke (raffigurato nell’allegato a questo lavoro) è un rettangolo orizzontale che contiene una forchetta e un coltello con al centro la Ø con la 445 Riguardo alle importazioni da Paesi terzi il Fødevarestyrelsen ha predisposto una guida per gli operatori: Vejledning om import af økologiske fødevarer m.v. fra tredjelande, aprile 2009 (www.foedevarestyrelsen.dk). 446 MINISTERIET FOR FØDEVARER, LANDBRUG OG FISKERI, op. cit., 2011, p. 27. 447 Cfr. www.oekologisk-spisemaerke.dk. 448 L’art. 2, lett. aa) del reg. (CE) n. 834/07 fornisce la seguente definizione di operazioni di ristorazione collettiva: «la preparazione di prodotti biologici in ristoranti, ospedali, mense e altre aziende alimentari analoghe nel punto di vendita o di consegna al consumatore». 449 MINISTRY OF FOOD AGRICULTURE AND FISHERIES, Organically sourced cuisine it makes a difference!, brochure, 2009, www.oekologisk-spisemaerke.dk. 175 corona danese. Tale logo si presenta in tre versioni di colore oro, argento e bronzo, ciascuna accompagnata, rispettivamente, dalla dicitura «90-100% økologi», «60-90% økologi» e «30-60% økologi», a seconda della percentuale di materie prime certificate biologiche impiegate nelle operazioni di ristorazione. L’operatore che ottiene l’uso del marchio può indicare un piatto o una ricetta con il termine «økologi» («biologico») nel proprio menù solo se ogni singolo ingrediente utilizzato è certificato biologico e può utilizzare il termine «biologico» per farsi pubblicità (ad es. «ristorante biologico», «mensa biologica», ecc.) solo se ha ottenuto il logo nella versione oro. Il marchio per la ristorazione biologica è gestito dalla Foedevarestyrelsen, in collaborazione con l’Associazione nazionale danese per l’agricoltura biologica e i prodotti alimentari biologici (Økologisk Landsforening) che, attraverso le autorità regionali, garantisce i controlli sui registri di acquisto dell’esercizio di ristorazione o unità di catering, verificando che le quantità di prodotti biologici alla base della preparazione dei piatti inseriti nei menù siano le stesse per le quali ha ottenuto il logo oro, argento o bronzo450. L’Økologiske spisemærke non comporta alcuna indicazione sull’origine dei cibi biologici delle cucine che hanno ottenuto il marchio, ma svolge la funzione di certificare e garantire che le cucine marchiate utilizzano, nella percentuale indicata nel logo oro, argento o bronzo, materie prime sfuse certificate biologiche, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa comunitaria e danese o prodotti biologici trasformati e/o confezionati e/o etichettati in Danimarca e controllati dalle autorità pubbliche. Nel primo anno di applicazione un buon numero di ristoranti, bar e mense hanno richiesto l’Økologiske spisemærke451. 450 Le ispezioni avvengono almeno una volta l’anno, ma ogni tre mesi l’esercizio di ristorazione o unità di catering deve presentare all’autorità di controllo i registri di acquisto che dimostrino l’approvvigionamento del minimo richiesto di prodotti biologici per i quali ha ottenuto il logo; se il licenziatario scende sotto la percentuale stabilita perde il diritto d’uso del marchio (cfr. www.oekologisk-spisemaerke.dk). 451 Nel settembre 2009 il primo operatore ha ottenuto la certificazione per utilizzare l’Økologiske spisemærke; ad agosto 2011, secondo gli ultimi dati disponibili, risultano licenziatarie del marchio 100 grandi cucine, tra cui 19 ristoranti (MINISTRY OF FOOD AGRICULTURE AND FISHERIES, Organic food in Danish restaurants, News, 16.08.2011, www.fvm.dk). Sul sito dedicato è anche disponibile una mappa geografica con la 176 1.4. Il marchio austriaco «AMA-Biozeichen» In Austria l’agricoltura biologica è una pratica adottata da lungo tempo, soprattutto nel Sud del Paese, con agricoltori organizzati in associazioni di settore e la codifica di linee guida di produzione da parte del settore privato sin dall’epoca pionieristica; il Paese, tra l’altro, ha dato i natali al filosofo Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia alla quale si ispira l’agricoltura biodinamica, una delle principali correnti di pensiero che, come si è avuto modo di illustrare nel primo capitolo, ha portato alla diffusione del metodo di produzione biologica in tutto il mondo452. Il mercato austriaco dei prodotti biologici è rimasto a lungo una nicchia per estimatori; tuttavia, negli anni ’80, la crescente strutturazione del sistema produttivo e delle catene di vendita al dettaglio e, soprattutto, il riconoscimento statale del metodo produttivo - con l’inserimento dell’agricoltura biologica nella legge austriaca sui prodotti alimentari (c.d. «LMG») e delle norme tecniche nel «Codex Alimentarius Austriacus» (Österreichischer Lebensmittelkodex), capitolo A8 - hanno lanciato la crescita del settore453. localizzazione e il dettaglio degli operatori licenziatari del marchio suddivisi per categoria: catering; bar, caffetteria, taverna, asporto; mensa; ospizio; ristorante; istituzione; ospedale, casa di cura; hotel (www.oekologisk-spisemaerke.dk). 452 Le prime aziende agricole biologiche, in Austria, sono nate negli anni ’20 sulla base delle idee antroposofiche di Rudolf Steiner e successivamente, come in tutti i Paesi di lingua tedesca, queste hanno adottato il modello dell’agricoltura organica biologica, sviluppata in Svizzera da Hans Müller (cfr. cap. 1, paragrafo 2). Dopo le prime esperienze negli anni ’60, le associazioni di produttori biologici hanno cominciato a diffondersi negli anni ’70 e, tra queste, l’associazione nazionale «Ernte» ha codificato il metodo biologico, costruendo, negli anni, una precisa strategia di mercato, con accordi con la grande distribuzione per la commercializzazione dei prodotti dei propri associati (HOFER, Greening agricultural policy? The emergence and development of organic farming in Austria, 1999, University of Salzburg, paper disponibile nell’archivio: www.essex.ac.uk). Oggi, due agricoltori biologici su tre sono membri di un’associazione di settore, la più grande delle quali è «Bio Austria», fondata nel 2005, che conta circa 13.000 soci (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 89). 453 Nel 1988 il termine «agricoltura biologica» è stato inserito nella legge federale austriaca sui prodotti alimentari (c.d. «LMG»), in vigore sin dal 1975 (Lebensmittelgesetz 1975, BGBl. 1975, p. 86, versione pubblicata, a seguito di modifiche, nel BGBl. 1988, p. 226), ma già dal 1983 il ministro austriaco della salute e della tutela dei consumatori aveva emanato le linee guida che prescrivevano norme minime per i prodotti biologici, inserite nel «Codex Alimentarius Austriacus» (Österreichischer Lebensmittelkodex). Il Codex, che deve il suo nome all’omonima raccolta di norme e descrizioni per un’ampia varietà di alimenti sviluppata nell’Impero Austro-Ungarico tra il 1897 e il 1911 e che, sebbene privo di forza legale, fu usato come punto di riferimento dai tribunali per determinare le norme di identità per alimenti specifici, costituisce - nella versione moderna adottata a partire dal 1975 con la LMG - linee guida (senza alcuna azione diretta legislativa o regolamentare) contenenti descrizioni tecniche, 177 L’Austria non solo è il secondo Paese, dopo la Francia, a essersi dotato - in quegli anni - di una disciplina specifica di settore valida su tutto il territorio nazionale, ma si distingue per aver accelerato negli anni ‘90, attraverso il sostegno pubblico (ÖPUL e specifici piani di azione)454, il processo di sviluppo dell’intero settore. Anche grazie all’impulso dato dalle associazioni di produttori biologici, per il tramite di una massiccia campagna di sensibilizzazione degli agricoltori finalizzata a evidenziare i vantaggi ambientali ed economici di questo metodo produttivo, si è manifestata la volontà nazionale di rafforzare gli obiettivi ecologici della politica agricola austriaca, certamente collegata all’accesso del Paese alla Comunità Economica Europea, avvenuto nel 1995, e alla conseguente competizione economica internazionale455. Tali obiettivi hanno poi portato il Paese a diventare il primo in Europa e il secondo al mondo (dopo il Lichtenstein) per incidenza di ettari coltivati a biologico sul totale della superficie agricola utilizza (SAU), pari al 19,4%, a fronte di una media europea che si colloca appena al di sotto del 4%456. nozioni, metodi di analisi e criteri di valutazione utilizzati per stabilire direttive per l’immissione in commercio dei prodotti disciplinati dalla stessa LMG. Le disposizioni in materia di prodotti biologici, il cui campo di applicazione è stato ampliato, nel 1991, alla produzione animale, stabilivano i requisiti minimi per i prodotti biologici e si basavano sulla linee guida elaborate dagli agricoltori biologici nel 1970; la legge austriaca, così come la legge francese, è stata un modello per le istituzioni europee per la formulazione del reg. (CEE) n. 2092/91 (HOFER, op. cit., 1999). 454 Nel 1991 il Ministero federale per l’agricoltura, le foreste, l’ambiente e le risorse idriche (Lebensministerium) ha introdotto i sussidi nazionali per la conversione all’agricoltura biologica attraverso il primo programma pluriennale agro-ambientale nazionale 1995-2000 (Österreichisches Programm für Umweltgerechte Landwirtschaft.- ÖPUL), che ha interessato il 90% del territorio austriaco e grazie al quale numerose aziende zootecniche delle regioni alpine sono passate al biologico. L’effetto di queste misure, che sostituivano il supporto finanziario avviato già da qualche anno dalle “Regioni” - corrispondenti ai 9 Stati federati (Bundsländer) in cui è suddivisa l’Austria (Burgenland, Carinzia, Bassa Austria, Alta Austria, Salisburgo, Stiria, Tirolo, Vorarlberg, Vienna), si sono tradotte in un aumento esponenziale delle aziende biologiche, passate dalle 1.531 del 1990 alle 13.321 unità del 1994 (+770%) (ABITABILE, L’agricoltura biologica in Austria, in ABITABILE e VIGANÒ, a cura di, op. cit., 2011, in corso di pubblicazione). In sinergia ai quattro ÖPUL fino ad ora adottati, il governo austriaco ha predisposto, a partire dal 2001, tre specifici piani d’azione per l’agricoltura biologica (Aktionsprogramm Biologische Landwirtschaft), successivamente resi coerenti al Piano di azione europeo (cfr. supra nota 141). 455 Ibidem. 456 Secondo i dati del ministero dell’agricoltura austriaco (BLMFUW), la superficie nazionale coltivata a biologico, nel 2010, è di 544.627 ettari, praticamente un quinto della SAU, mentre le aziende certificate biologiche (+4,7% rispetto al 2009), pari al 16,2% del totale delle aziende agricole, hanno raggiunto quota 21.798. Quasi la metà dei terreni agricoli biologici è zona a prato e pascolo (45%) mentre il 33% è dedicato ai seminativi, di cui una metà è coltivato a 178 Proprio nel 1995 il Ministero federale per l’agricoltura, le foreste, l’ambiente e le risorse idriche (Lebensministerium - BMLFUW), ha istituito il marchio collettivo nazionale «AMA-Biozeichen» - ai sensi della direttiva 89/104/CEE (e dell’attuale art. 15.2, direttiva 2008/98/CE) e della legge federale austriaca sui marchi in vigore dal 1970457 -, al fine di incrementare la riconoscibilità dei prodotti biologici presso i consumatori austriaci, facendo seguito, tra l’altro, a una grande campagna pubblicitaria avviata l’anno prima, dal settore privato, a supporto dell’inserimento dei prodotti biologici nelle grandi catene di supermercati458. Il marchio collettivo per i prodotti biologici, di proprietà del ministero, è gestito da «Agrarmarkt Austria Marketing GesmbH» (AMA-Marketing), società a responsabilità limitata (da cui la sigla austriaca GesmbH) controllata al 100% da «Agrarmarkt Austria» (AMA), persona giuridica di diritto pubblico costituita con legge federale 376/1992 (legge nota come «AMA-Gesetz 1992»)459. foraggi verdi per l’alimentazione del bestiame e l’altra a cereali, per una produzione di 147.000 tonnellate; la vite interessa il 6% della SAU biologica, mentre è in aumento la barbabietola da zucchero, in quanto l’Austria si è prefissa l’obiettivo di diventare il primo produttore di zucchero biologico europeo. Oltre 300.000 capi di bestiame, pari al 16% dell’intero patrimonio zootecnico austriaco, sono allevati com metodo biologico e tra questi si distinguono ovicaprini (31%), suini (21%), bovini (18%) e pollame; nel 2010 sono stati prodotti 135 milioni di uova e 459.000 tonnellate di latte biologici, che rappresentano la produzione biologica di origine animale più rilevante (BIO AUSTRIA, Bio-Agrarstatistik Österreich, 2010, dossier, www.bioaustria.at). 457 La legge federale sui marchi 260/1970 [Markenschutzgesetz 1970 (MSchG), BGBl. n. 260], da ultimo modificata dalla legge federale 126/2009 (BGBl. n. 126), non fa distinzione tra marchio di garanzia/certificazione e marchio collettivo. Per un commento aggiornato della legge austriaca sui marchi: KUCSKO, Markenschutzgesetz 1970 MSchG in der Fassung der Novelle 2009 mit Anmerkungen aus den Materialien, Wien, 2010. La campagna informativa per il lancio del marchio, con un budget molto alto rispetto all’ampiezza del mercato, consisteva in spot nel corso di programmi gastronomici televisivi e inserzioni a pagina intera su quotidiani e periodici (cfr. www.ama.at). 458 Attualmente, in Austria, i prodotti biologici venduti attraverso le catene di supermercati e discount, realizzano circa i due terzi del fatturato alimentare biologico annuo; i negozi specializzati in alimenti biologici, che hanno svolto un ruolo importante nella storia del biologico in Austria (i c.d. reformhäuser, cfr. nota 523), si stanno espandendo e modernizzando, mentre sta crescendo l’utilizzo dei prodotti biologici nella ristorazione collettiva pubblica e privata (KILCHER et al., op. cit., 2011, pp. 89-90). 459 Agrarmarkt Austria (AMA) costituita con la legge federale sulla creazione dell’organismo regolatore del mercato (Bundesgesetz über die Errichtung der Marktordnungsstelle «Agrarmarkt Austria», BGBl. 376/1992 – c.d. AMA-Gesetz 1992), svolge la funzione di organismo pagatore nonché di promozione della produzione agro-alimentare austriaca sui mercati nazionale ed estero. Attraverso AMA-Marketing GesmbH, AMA riscuote per legge (art. 21 c, n. 1, punto 3, AMA-Gesetz 1992) i contributi versati dagli agricoltori e dai produttori agricoli austriaci per la realizzazione di misure di marketing, pertanto ha competenza su diversi 179 Le disposizioni che regolano l’istituzione dei marchi collettivi gestititi da AMA-Marketing sono contenute nell’AMA-Gesetz 1992, più volte modificata. In particolare, anche se le direttive contenute in questa legge non prevedono un requisito di origine dei prodotti, la limitazione ai prodotti nazionali oggetto di campagne di marketing per la loro promozione attraverso i marchi collettivi nazionali, enunciata all’art. 21 a, punto 1), faceva sorgere dubbi quanto alla compatibilità degli aiuti in questione con gli Orientamenti per gli aiuti di Stato a favore della pubblicità460 e, tra l’altro, proprio riguardo a questi aspetti, sono state recentemente pubblicate le conclusioni dell’avvocato generale europeo in merito a una controversia tra soggetti privati e Stato461. L’art. 21 dell’AMA- programmi di garanzia della qualità (relativi ai prodotti rispondenti a determinati requisiti di qualità, ai prodotti biologici, alla carne bovina), per i quali gestisce specifici marchi, tra cui AMA-Biozeichen (cfr. www.ama-marketing.at). 460 Nel caso di marchi di qualità nazionali o regionali, come si è detto, il riferimento all’origine può essere indicato purché sia secondario nel messaggio pubblicitario (cr. supra nota 393). 461 Il 21 settembre 1999 alcune imprese austriache specializzate nella macellazione e nel sezionamento di animali, essendo soggette al versamento di contributi all’AMA a titolo dell’art. 21 c, n. 1, punto 3), dell’AMA-Gesetz 1992, senza che i loro prodotti beneficiassero dei marchi «AMA-Biozeichen» e «AMA-Gütesiegel» e delle relative etichette, avevano inviato una denuncia alla Commissione delle Comunità Europee, facendo valere che erano state danneggiate da talune disposizioni dell’AMA-Gesetz 1992, poi notificate dall’Austria nel 2000 come aiuti di Stato NN 34/2000. Con decisione 30 giugno 2004, C(2004) 2037 def., relativa agli aiuti di Stato NN 34A/2000 concernenti i programmi di qualità e le etichette AMABiozeichen e AMA-Gütesiegel in Austria, la Commissione ha deciso di non sollevare obiezioni avverso le misure notificate, ritenute compatibili con il mercato comune, ai sensi dell’art. 87, n. 3, lett. c), TCE, poiché ritenute conformi alle condizioni poste dagli allora vigenti Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo (GU 2000, C 28, pag. 2), ai punti 13 e 14, e dagli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato a favore della pubblicità dei prodotti di cui all’allegato I del Trattato nonché di determinati prodotti non compresi in detto allegato. Il Tribunale ha accolto il ricorso dei proponenti in quanto parzialmente ricevibile e ha annullato la decisione della Commissione 30 giugno 2004, relativa agli aiuti di Stato concernenti i programmi di qualità e i marchi AMA-Biozeichen e AMA-Gütesiegel in Austria (TRIBUNALE DI PRIMO GRADO, Sentenza 18 novembre 2009, causa T-375/04, ScheucherFleisch GmbH e altri contro Commissione delle Comunità europee, in Raccolta della giurisprudenza, 2009, p. II-04155). Il Tribunale ha dichiarato che l’esame della compatibilità degli aiuti controversi con il mercato comune sollevava, in realtà, gravi difficoltà di valutazione che avrebbero dovuto condurre la Commissione ad avviare il procedimento di indagine formale di cui all’art. 88, n. 2, TCE. Tale analisi è stata contestata dalla Commissione e dalla Repubblica d’Austria e quest’ultima ha proposto un’impugnazione incidentale (GU 2010, C 80, pag. 21). L’avvocato generale ha proposto alla Corte di giustizia di respingere l’impugnazione proposta dalla Repubblica d’Austria avverso la sentenza del Tribunale di primo grado del 18 novembre 2009 (causa T-375/04), mettendo in luce «il margine discrezionale di cui dispone la Commissione quando si trova di fronte a gravi difficoltà nell’ambito dell’esame di compatibilità dell’aiuto, nonché la portata del sindacato giurisdizionale [del Tribunale dell’UE] nell’interpretazione dei motivi sollevati da una parte interessata qualora essa faccia valere, a sostegno del suo ricorso, sia motivi volti alla salvaguardia dei suoi diritti procedurali sia motivi volti a contestare la fondatezza della decisione della Commissione europea» (cfr. CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE 180 Gesetz 1992, inoltre, escludeva il rilascio dei marchi collettivi AMA (incluso l’AMA-Biozeichen, successivamente istituito) ai prodotti non austriaci configurandosi, pertanto, una violazione al Trattato, il quale vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente (oggi art. 34 TFUE) - e, parimenti, lo statuto dell’AMAMarketing indicava, come finalità della società, la promozione di prodotti agricoli e silvicoli nazionali. Di conseguenza, come accennato nelle pagine precedenti, l’articolo 21 dell’AMA-Gesetz 1992 è stato modificato dalla legge federale 55/07462 e non contiene più, dal 1º luglio 2007, il termine «nazionali», anche se, già nel 2002, l’AMA-Marketing aveva emanato una nuova versione della direttiva per il rilascio del marchio AMA-Biozeichen («Richtlinie version Sept/02»)463 senza alcuna riserva sull’origine dei prodotti464. Possono, pertanto, ottenere il marchio AMA-Biozeichen tutti gli operatori austriaci, comunitari, extra-comunitari in regime di equivalenza o meno che ne abbiano fatto richiesta a AMA-Marketing, a condizione che la produzione sia conforme alla normativa comunitaria in materia, alle linee guida contenute nel codice alimentare austriaco, capitolo A8, e alle linee guida di AMA-Marketing (direttiva per il rilascio del marchio, contratto di licenza d’uso, controlli e relative sanzioni) in conformità all’AMA-Gesetz 1992 e successive modifiche465. EUROPEA, Conclusioni dell’avvocato generale Yves Bot presentate il 9 giugno 2011, causa C-47/10 P, Repubblica d’Austria contro Scheucher-Fleisch GmbH e altri). 462 Si tratta della legge federale agricola n. 55 del 31 luglio 2007 [«Agrarrechtsänderungsgesetz 2007». 55. Bundesgesetz, mit dem ein Bundesgesetz über die Durchführung der gemeinsamen Marktorganisationen (Marktordnungsgesetz 2007 – MOG 2007) und ein MarktordnungsÜberleitungsgesetz erlassen werden sowie das AMA-Gesetz 1992, das Weingesetz 1999, das Forstgesetz 1975, das Pflanzenschutzmittelgesetz 1997 und das Landwirtschaftsgesetz 1992 geändert werden], in BGBl. I - Ausgegeben am 31. Juli 2007 (www.ris.bka.gv.at/Bund). Sul caso, cfr. infra, paragrafo 1. 463 AMA-MARKETING, Richtlinie Für die Verleihung des Rechtes zur Führung des AMABiozeichens ohne Ursprungsangabe und des AMA-Biozeichens mit Ursprungsangabe der Agrarmarkt Austria Marketing GesmbH. zur Förderung der landwirtschaftlichen Produktion aus biologischem Anbau, version Sept/02, www.ama-marketing.at. 464 Sull’argomento si rimanda alla giurisprudenza comunitaria, causa T-375/04 e conclusioni dell’avvocato generale Yves Bot del 9 giugno 2011 (cfr. infra nota 461). 465 Gli otto organismi di controllo riconosciuti dall’ente di accreditamento del Ministero federale dell’economia e del lavoro (secondo le norme EN 45011) (cfr. supra nota 350) e approvati dalla «Food Authority» della contea federale di appartenenza, verificano il rispetto delle linee guida del biologico mediante controlli sistematici lungo tutta la filiera di produzione (ABITABILE, L’agricoltura biologica in Austria, op. cit., 2011, in corso di pubblicazione). 181 Dopo l’adesione dell’Austria alla Comunità Economica Europea, il capitolo A8 del codice alimentare austriaco che conteneva, come detto, le linee guida per la produzione biologica, è stato superato dalle norme contenute nel reg. (CEE) n. 2092/91 e, successivamente, da quelle dettate dal reg. (CE) n. 834/07. Tuttavia, le disposizioni in esso contenute e non regolamentate dalla normativa comunitaria ma da questa ammesse, in materia di animali selvatici, conigli, lavorazione del vino e ristorazione, rappresentano standard richiesti obbligatoriamente per qualsiasi produzione e trasformazione di prodotti biologici in Austria e non si applicano ai prodotti biologici importati466. Il marchio AMA-Biozeichen, che richiede per i prodotti che se ne fregiano anche il rispetto di questi standard, può essere utilizzato sulle confezioni di prodotti alimentari biologici certificati ai sensi del reg. (CE) n. 834/07 e su materiale utilizzato per scopi informativi e promozionali, mediante un logo che si differenzia, graficamente, in funzione dell’origine della materia prima. È opportuno ricordare inoltre, che nella lingua tedesca (la lingua ufficiale in Austria), i termini ökologisch (ecologico) o biologisch (biologico), ritenuti equivalenti come dipone l’allegato al reg. (CE) n. 834/07, sono riservati ai prodotti aventi caratteristiche legate al metodo biologico a norma di legge e, pertanto, possono essere usati nella loro etichettatura e pubblicità. Il logo (raffigurato nell’allegato a questo lavoto), di forma circolare, presenta un anello rosso con la dicitura a caratteri bianchi «AUS BIOLOGISCHER LANDWIRTSCHAFT» («DA AGRICOLTURA BIOLOGICA») e, al centro, su sfondo bianco, la scritta a caratteri neri «BIO AMA-BIOZEICHEN» accompagnata dall’indicazione di origine «AUSTRIA» quando almeno il 70% di tutti gli ingredienti provengono da agricoltura biologica nazionale, con una soglia di tolleranza ammessa per l’origine esterna delle materia prime, se non disponibile della qualità richiesta, fino al 30%. Come esplicitato dalla direttiva dall’AMA-Marketing per il rilascio del marchio (art. 11, Richtlinie version Sept/02), l’indicazione di origine può 466 Le importazioni di prodotti biologici (soprattutto frutta, verdure, spezie, prodotti secchi) provenienti da Paesi terzi è regolata secondo le disposizioni comunitarie vigenti e le autorizzazioni sono rilasciate dalla Food Authority della contea federale in cui risiede l’azienda importatrice (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 91). 182 riguardare l’Austria oppure un’altro Paese (ad es. Francia) o una Regione/Provincia anche non austriaca (ad es. Baviera), o addirittura un’area omogenea (zona alpina, Unione Europea, ecc.); questo vuol dire che la scritta che fa riferimento al territorio di origine delle materie prime sulle confezioni degli alimenti biologici può essere sostituita dal nome di un altro Paese comunitario (ma anche extracomunitario in regime di equivalenza o meno), oppure dal nome della Regione/Provincia austriaca o non austriaca o di un’area, purché vi provenga almeno il 70% della materia prima. Quando questa soglia non è rispettata, il licenziatario del marchio deve utilizzare il logo nella versione grafica in bianco e nero e senza alcuna scritta di provenienza (raffigurato nell’allegato a questo lavoro). Pur essendo un modo di rendere nota in etichettata l’origine del prodotto, tuttavia qualsiasi riferimento all’origine nazionale, e in tal caso il toponimo Stato, come osservato nelle pagine precedenti, contrasterebbe con il dettato dell’art. 24.1 del reg. (CE) n. 834/07 se meno del 98% delle materie prime avesse un luogo di origine non nazionale; l’AMA, pertanto, dovrebbe rivedere i parametri d’uso della versione “nazionale” del logo austriaco che include l’indicazione «Austria». Tuttavia, riguardo alla possibilità di usare il logo austriaco insieme a quello obbligatorio europeo, l’AMA-Marketing non fornisce indicazioni. Ad ogni modo, il marchio austriaco svolge la funzione propria del marchio collettivo geografico pubblico, in quanto lega le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto alla specificità del metodo di produzione e non all’origine, il cui riferimento, come detto, è solo una mera indicazione. Per entrambi i loghi del marchio, la presenza di questo segno distintivo sulle confezioni garantisce la conformità degli alimenti biologici marchiati AMABiozeichen alla normativa comunitaria e nazionale, compresi i loro sistemi di controllo; infatti, a differenza del marchio francese AB e, come si vedrà, di quello tedesco «Bio-Siegel», i prodotti a marchio AMA-Biozeichen, che deve essere usato in combinazione con un numero di controllo attribuito da AMAMarketing, sono soggetti a specifici controlli (oltre a quelli svolti dai rispettivi 183 OdC)467 da parte di organismi terzi accreditati, che il richiedente accetta espressamente, con ispezioni che avvengono, anche senza preavviso, almeno una volta l’anno. I licenziatari, pertanto, sottoscrivono un contratto - specificamente sono escluse le imprese che producono anche prodotti convenzionali - e sono soggetti al pagamento di una tassa di registrazione del contratto di licenza e di un canone, relativo ai costi sostenuti da AMA-Marketing per i controlli. Le sanzioni stabilite dal contratto di licenza del marchio AMA-Biozeichen, proporzionali alle irregolarità e alle infrazioni, prevedono, oltre alla somministrazione di multe fino a un massimo di 37.500,00 euro, la richiesta di azioni correttive entro un determinato periodo, la sospensione o il ritiro del diritto nei termini stabiliti da AMA-Marketing468. Le imprese austriache che fanno uso del logo AMA-Biozeichen con la scritta «Austria», possono trarne un vantaggio concorrenziale in quanto il consumatore è spesso indotto a preferire un prodotto alimentare di origine nazionale469, con la conseguente fidelizzazione al marchio nazionale. Tuttavia, anche a fronte dei costi e degli ulteriori controlli sui prodotti, l’utilizzo di questo marchio da parte degli operatori è piuttosto contenuto470 e trova una forte concorrenza nei prodotti biologici con il marchio delle imprese della grande distribuzione (private label) e nei prodotti biologici di provenienza tedesca, la maggior parte dei quali sono contrassegnati dal marchio nazionale tedesco «Bio Siegel». Al fine di promuovere il consumo dei prodotti biologici e accrescere, indirettamente, la notorietà del marchio AMA-Biozeichen471, il governo austriaco, attraverso il BMLFUW e AMA-Marketing, ha sostenuto una 467 I controlli sul marchio francese AB (cfr. infra paragrafo 4.1) e sul marchio tedesco BioSiegel (cfr. infra paragrafo 1.7) sono svolti, invece, dagli Odc che hanno certificato i prodotti richiedenti il marchio. 468 Cfr. modulo del contratto di licenza di AMA-Marketing (Lizenzvertrag, DVR: 0824275, Version Okt/2005, www.ama-marketing.at). 469 SASSATELLI, op. cit., 2010. Sul punto: cfr. infra par. 2. 470 Gli operatori licenziatari del marchio AMA-Biozeichen sono 170 (meno dell’1% delle aziende biologiche di produzione), utilizzato su circa 1.100 prodotti alimentari biologici (ultimi dati disponibili al 30 settembre 2011, cfr. www.ama-marketing.at). 471 Secondo un sondaggio del 2008, il 28% dei consumatori austriaci ricorda spontaneamente il logo austriaco, mentre il 65,6% lo riconosce quando gli viene presentato (informazioni disponibili sul sito: www.ama.at). 184 massiccia campagna informativa, per il periodo 2007-2010, con lo slogan «Wir sind Bio» (Noi siamo biologici)472. La campagna, lanciata nella fase della crisi economica internazionale e della contrazione dei consumi, ha senz’altro contribuito ad accrescere la conoscenza dei prodotti biologici e dei segni distintivi (etichetta e logo UE) tra i consumatori; oggi l’Austria si distingue per l’elevato consumo pro capite di prodotti biologici e per lo sviluppo della quota di questi prodotti sul totale del mercato alimentare473. 1.5. Il marchio finlandese «Luomu» (c.d. marchio del sole) Pur essendo fortemente limitata dalle rigide condizioni climatiche e paesaggistiche, la Finlandia è stata una società prevalentemente agricola fino al 1970 ed è oggi il Paese più a Nord del mondo ad essere autosufficiente nei prodotti alimentari di base 474. Le prime aziende convertite all’agricoltura biologica risalgono addirittura al decennio precedente, anche se la ricerca finlandese in questo settore vanta 472 Secondo le informazioni disponibili sul sito www.ama-marketing.at, la campagna, che disponeva di un budget di tre milioni di euro cofinanziato dalla Commissione Europea ha evitato ogni riferimento diretto all’origine dei prodotti biologici, nel rispetto degli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale, con riguardo, in particolare, alla pubblicità dei prodotti agricoli (cfr. infra nota 393). Sul punto: PINTON, Organics: boom in Europe, tops PDO and PGI in Italy, in Fresh Point Magazine, 2011, 9, pp. 46-49. 473 Il mercato austriaco degli alimenti biologici, tra quelli più in crescita nella UE, si è incrementato di quasi il 30% nel 2010, per un volume d’affari stimato in 110,4 miliardi di euro e una quota del 7,3% del mercato agro-alimentare nazionale (dati BLMFUW, www.lebensministerium.at). La spesa pro capite per i consumi di alimenti biologici, pari a 104 euro/anno, è stata la terza più alta in Europa nel 2009, dopo Germania (139 euro/anno) e Svizzera (132 euro/anno) (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 89). 474 In Finlandia, che si trova tra le latitudini 60 e 70, la posizione geografica incide fortemente sulle condizioni di crescita annuale delle colture, che è di circa 170 giorni al Sud e di circa 130 giorni al Nord del paese, mentre il periodo di pascolo per gli animali è limitato, al massimo, a 120 giorni. Il clima rigido offre, tuttavia, anche dei vantaggi, come la riduzione dell’incidenza dei parassiti e, quindi, dell’uso di pesticidi e una maggiore concentrazione di zuccheri e di vitamina C nei frutti (HEINONEN, Organic Farming in Finland, 2007, www.organiceurope.net/country%5Freports/finland). Un terzo della popolazione, oltre 5 milioni di abitanti, vive nelle aree rurali dove sono presenti aziende a conduzione familiare di piccole dimensioni, retaggio di fattori storici e sociali e conseguenza della frammentazione della proprietà contadina per l’asegnazione di oltre 140.000 nuove aziende ai veterani e alla popolazione evacuata dalle zone cedute all’Unione Sovietica dopo la seconda Guerra Mondiale. La superficie media coltivabile delle aziende agricole è di circa 33 ettari; le foreste, che sono parte integrante della superficie agricola aziendale coprono una superficie di circa 60 ettari e da questa proviene circa il 15% del reddito aziendale (NIEMI e AHLSTEDT, Finnish agriculture and rural industries, Helsinki, 2006). 185 una tradizione centenaria475. Tuttavia, è solo a partire dagli anni ’80, caratterizzati dalla concentrazione delle organizzazioni di produttori biologici nella Regione del Savo meridionale476 - che per prima aveva intuito il potenziale sviluppo di questo settore - e dalla conseguente nascita dei canali specializzati (vendita diretta, mercato locale, grossisti, mulini e panifici locali di piccole dimensioni477), che si è manifestato l’interesse dei consumatori finlandesi per i prodotti biologici. Lo sviluppo del settore, però, si deve principalmente al sostegno finanziario per la conversione delle aziende agricole, avviato nel 1990 con il programma statale e proseguito, dopo il 1995, a seguito dell’adesione del Paese alla Comunità Europea, con le misure agro-ambientali di accompagnamento alla PAC478. L’agricoltura biologica è poi divenuta elemento integrante della 475 Si trattava di aziende agricole convenzionali già avviate economicamente ma spinte verso l’agricoltura biologica da motivazioni puramente ideologiche, tanto che il loro numero è rimasto sotto al paio di dozzine fino agli anni ’80. Le prime forme di agricoltura biologica in Finlandia risalgono, in realtà, al 1910, al movimento «Life reform» che si ispirava alla c.d. «agricoltura naturale» mentre parallelamente venivano condotti i primi esperimenti con l’agricoltura biodinamica che hanno portato, nel 1927, alla nascita della prima azienda agricola biodinamica e, nel 1946, alla fondazione dell’associazione finlandese dell’agricoltura biodinamica (Biodynaaminen yhdistys r.y.). Negli anni ’30 Artturi Ilmari Virtanen (1895-1973) sviluppò il metodo del foraggio «AIV-System», che costituisce ancora oggi, in agricoltura biologica, la base per fare in condizioni climatiche rigide un tipo di silaggio che migliora l’immagazzinamento del foraggio fresco con l’aggiunta di acido idroclorico o acido solforico senza effetti collaterali né sugli animali che lo consumano né sulle sue qualità nutritive, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1945 (HEINONEN, op. cit., 2007). 476 La Finlandia è suddivisa in sedici regioni: Uusimaa, Varsinais-Suomi (Finlandia Sudoccidentale), Satakunta, Häme, Pirkanmaa (Regione di Tampere), Kaakkois-Suomi (Finlandia Sud-orientale), Etelä-Savo (Sud Savo), Pohjois-Savo (Nord Savo), Pohjois-Karjala (Carelia settentrionale), Keski-Suomi (Finlandia centrale), Etelä-Pohjanmaa (Sud Ostrobotnia), Pohjanmaa (Ostrobotnia), Pohjois-Pohjanmaa (Nord Ostrobotnia), Kainuu, Lappi (Lapponia), Ahvenanmaa (isole Åland). Le principali aree coltivate ad agricoltura biologica si trovano nella parte sud-occidentale della Finlandia, con aree d’avanguardia caratterizzate dal Sud Savo e dalla Ostrobotnia; tuttavia, oggi lo sviluppo maggiore si sta svolgendo nella parte orientale del paese (Ibidem). 477 In quegli anni i prodotti biologici finlandesi, a causa della loro scarsità, non riuscivano a raggiungere il canale della moderna distribuzione e nei supermercati si trovavano solo prodotti biologici di origine straniera; oggi, invece, il 90% dei cibi biologici è venduto nei supermercati tradizionali, mentre il dettaglio specializzato è quasi inesistente, con uno o due negozi di alimenti biologici presenti in ciascuna delle grandi città. Il 10% dei prodotti biologici viene invece commercializzato attraverso gli spacci aziendali, i mercati contadini o i mercati coperti e gli outlet. Attualmente, la quota di mercato dei prodotti biologici in Finlandia è stimata intorno all’1% dell’intero mercato alimentare finlandese (Ibidem). 478 Proprio l’entrata della Finlandia nella Comunità Europea ha spinto verso l’agricoltura biologica molti agricoltori di grano convenzionale, penalizzati dalla forte riduzione dell’indice dei prezzi alla produzione. Grazie al sostegno finanziario, ai programmi di ricerca agricola e ai servizi di consulenza alle imprese, la Finlandia è passata dalle 373 aziende certificate biologiche nel 1989 alle 4.452 nel 1996, mentre l’obiettivo di arrivare a 120.000 ettari coltivati 186 politica agricola nazionale, tanto che oggi la Finlandia è tra i dieci Paesi europei con la più alta incidenza di ettari coltivati a biologico sulla superficie agricola nazionale, distinguendosi per la forte vocazione alla zootecnia biologica479. I primi standard per la produzione vegetale biologica sono stati sviluppati, nel 1986, dall’associazione finlandese per l’agricoltura biologica «Luomuliitto ry» che aveva istituito un comitato per la certificazione e avviato un sistema di controllo a livello nazionale; nel 1988 l’associazione ha adottato gli standard per la produzione animale e l’anno seguente gli standard per l’industria alimentare, ottenendo, in seguito alle disposizioni del reg. (CEE) n. 2092/91, l’accreditamento come OdC privato, perdendo, però, lo status di organismo di controllo sul territorio finlandese480. ad agricoltura biologica, fissato con il primo programma agro-ambientale per il periodo 19951999 è stato raggiunto già nel 1998 (Ibidem). Il successivo programma statale per il periodo 2000-2010, che aveva fissato l’obiettivo del 15% di superficie biologica entro il 2010, invece, non è riuscito in questo intento (cfr. infra nota 479). 479 Nel 2010, secondo i dati dell’Autorità finlandese per la sicurezza alimentare (Elintarviketurvallisuusvirasto - Evira), la superficie coltivata a biologico è aumentata del 4,5% ed ha raggiunto i 170.876 ettari, pari al 7,5% della SAU. Invece, il numero di aziende certificate biologiche si è lievemente contratto, scendendo a quota 4.022 (-0,7% rispetto al 2009), pari al 6,1% del totale delle aziende agricole finlandesi, dalle quali si differenziano per la dimensione media, superiore del 5%. Al contrario, i dati stimati al 1° dicembre 2011 mostrano un aumento degli operatori del 2,3% (4.114 unità) e un incremento della superficie coltivata a biologico dell’8,1%, per un totale di 184.797 ettari (www.evira.fi/portal/en/evira/themes/organic_production). Secondo i dati del Ministero delle politiche agricole e forestali (Maa - ja metsätalousministeriö – MMM) circa l’11% delle aziende agricole biologiche è autorizzato all’importazione, mentre più del 12% ha allevamenti biologici, soprattutto di suini, bovini e pollame. Oltre l’80% dei terreni agricoli biologici si divide tra zona a prato e pascolo e foraggio da seminativi, mentre il restante 20% è destinato a seminativi, soprattutto cereali, e a colture orticole; ampie aree di foresta, parte delle superfici aziendali, è certificata biologica per la raccolta di frutti di bosco (soprattutto bacche lingon, mirtilli) e funghi, per i quali esiste un sistema di certificazione specifico. I principali prodotti zootecnici sono latte e formaggi, carni suine, bovine e pollame (www.mmm.fi/en/index/frontpage/Agriculture/agricultural_production/organic_farming.html). 480 «Luomuliitto ry», fondata nel 1985 come organizzazione ombrello per i produttori biologici e le organizzazioni del settore, includendo tra queste l’associazione finlandese biodinamica (Biodynaaminen yhdistys r.y.), associa decine di organizzazioni, per la maggior parte regionali, che rappresentano migliaia di soci (cfr. www.luomu-liitto.fi). Luomuliitto promuove l’agricoltura biologica, operando anche nel settore editoriale con la pubblicazione, tra le altre, della rivista dedicata al settore «Luomulehti», e continua a sviluppare gli standard di produzione che, ad oggi, includono la produzione vegetale, i prodotti selvatici, gli allevamenti, l’apicoltura, la trasformazione dei prodotti alimentari e i mezzi tecnici; gli standard, che prevedono requisiti obbligatori più stringenti rispetto alla normativa comunitaria, sono certificati da Luomuliitto (che rilascia agli operatori il proprio marchio collettivo privato «Ladybird») sulla base, però, delle relazioni di ispezione effettuate dalle autorità pubbliche (HEINONEN, op. cit., 2007). 187 Infatti, nel 1995, con l’entrata in vigore delle norme finlandesi che recepivano il reg. (CEE) n. 2081/92 e regolamentavano per la prima volta la produzione biologica a livello nazionale (poi aggiornata con l’evolversi della normativa comunitaria481), l’organizzazione dei controlli sulla produzione biologica vegetale - che già da un anno erano svolti ufficialmente dal Centro di controllo della produzione vegetale dell’Agenzia nazionale alimentare (Elintarvikevirasto - KTTK) - è stata assegnata al Ministero delle politiche agricole e forestali (Maa - ja metsätalousministeriö - MMM)482. Nel 1998 è stata istituita, con fondi statali, l’associazione per promuovere gli alimenti biologici «Finfood-Luomu», i cui obiettivi sono quelli di lanciare sul mercato domestico i prodotti biologici come parte della cultura alimentare finlandese, attraverso azioni promozionali e campagne di informazione nazionale destinate ai consumatori, nonché di incrementare le esportazioni483. Con l’intento di identificare la produzione biologica con un segno univoco e dare impulso al mercato interno, sempre nel 1998 è stato istituito, ai sensi della direttiva 2008/95/CE, art. 15.2, e della normativa finlandese484, il marchio collettivo nazionale «Luomu - valvottua tuotantoa - kontrollerad 481 La decisione MMM del 1° dicembre 1995, n. 1339, sull’agricoltura biologica e l’organizzazione dei controlli sui prodotti biologici (Maa- ja metsätalousministeriön päätös 1339/1995 luonnonmukaisesta maataloustuotannosta sekä luonnonmukaisesti tuotettujen maataloustuotteiden ja elintarvikkeiden valvonnan järjestämisestä) rappresenta la prima disciplina sistematica nazionale del settore, in seguito affiancata dal decreto ministeriale del 22 giugno 2000, n. 74, per le produzioni biologiche zootecniche (Maa- ja metsätalousministeriön asetus 74/2000 luonnonmukaisesta eläintuotannosta 22 kesäkuuta). La decisione 1339/95 è stata poi sostituita dal decreto ministeriale del 30 marzo 2000, n. 346 (Maa- ja metsätalousministeriön asetus 346/2000), a sua volta sostituito dal decreto ministeriale del 20 maggio 2005, n. 336, (Maa- ja metsätalousministeriön asetus 336/05). Quest’ultimo è stato sostituito dal decreto ministeriale 845/08, attualmente vigente (cfr. infra nota 485) (www.finlex.fi). 482 Informazioni tratte dal sito ufficiale finlandese sull’agricoltura biologica (www.luomu.fi). 483 Nel 2006 Finfood Luomu ha lanciato una strategia di sviluppo del mercato finlandese per guadagnare la posizione di leader nella produzione e nel consumo di prodotti biologici in Europa entro il 2015. Gli obiettivi prevedono di raggiungere la quota del 6% di acquisti nei negozi al dettaglio e l’uso di ingredienti biologici in ogni cucina professionale del settore della ristorazione collettiva pubblica. Particolarmente ambizioso, inoltre, è il raggiungimento dell’incidenza del 10% di prodotti biologici sul totale delle esportazioni di prodotti alimentari finlandesi, dal momento che le esportazioni - cereali, soprattutto avena, verso Francia, Italia, Gran Bretagna, Germania e Danimarca, e prodotti trasformati tra cui liquirizia, patate (amido) farina, frutti di bosco ed erbe - sono ad oggi ancora poco rilevanti (HEINONEN, op. cit., 2007). 484 Si tratta della legge 795/80 sui marchi collettivi, come modificata dalla legge 40/93 (Yhteismerkkilaki 5.12.1980/795 muutoksineen 25.1.1993/40), e successive modifiche e integrazioni (UAMI, op. cit., 2010, p. 13). 188 ekoproduktion» che riporta, nelle lingue finlandese e svedese485, la dicitura «produzione biologica certificata». Il marchio, di proprietà del MMM e la cui gestione è affidata all’Autorità finlandese per la sicurezza alimentare (Elintarviketurvallisuusvirasto - Evira), è un marchio collettivo geografico pubblico riservato ai prodotti biologici prodotti agricoli, alimenti, alcool, bevande e mangimi per animali - conformi alle norme comunitarie [reg. (CE) n. 834/07 e reg. (CE) n. 889/08] e nazionali vigenti (da ultimo il decreto ministeriale 846/08486), realizzati e/o trasformati, di origine nazionale o importati, purchè etichettati in Finlandia, come dispone il regolamento d’uso aggiornato al 2009 (punto 1.2)487. Per i prodotti biologici marcati, quindi, non sono previsti requisiti aggiuntivi rispetto a quelli fissati dalla normativa comunitaria ma, come avviene per i marchi nazionali danese e ceco e per i marchi regionali spagnoli488, i prodotti devono essere confezionati e/o etichettati da un operatore nazionale e, pertanto, collegati al sistema di controllo finlandese sulla produzione biologica. I prodotti che possono ottenere il marchio nazionale sono dettagliati nella domanda di licenza d’uso del marchio489 e sono contraddisti dai termini luonnonmukainen (biologico in lingua finlandese) o ekologisk (biologico in lingua svedese) che compaiono sulla confezione o da qualsiasi altra espressione relativa al metodo di produzione in agricoltura biologica comprensiva di tali termini nelle lingue ufficiali della Finlandia, come dispone l’allegato al reg. (CE) n. 834/07. 485 La Finlandia è una nazione bilingue e le lingue nazionali sono il finlandese e lo svedese; quest’ultimo, dovuto a sette secoli di dominio della Svezia, rappresenta la lingua madre solo per il 6% della popolazione finlandese ed è parlato nelle Regioni sud occidentali e nelle isole Åland. Il paragrafo 37 della Costituzione tutela anche le lingue sami, dei rom e quella dei segni finlandese (cfr. www.finlandia.ws). 486 Si tratta del decreto ministeriale dell’11 dicembre 2008, n. 846, relativo alla produzione biologica, l’etichettatura e il controllo dei prodotti biologici (MMM:n asetus 846/2008 luonnonmukaisesta tuotannosta, luon- nonmukaisten tuotteiden merkinnöistä ja valvonnasta) che ha abrogato i precedenti decreti ministeriali 336/05 (produzione biologica), 1271/03 (materiale di propagazione) e 74/2000 (zootecnia biologica) (www.finlex.fi). 487 EVIRA, Valvontaosasto, Luomu - valvottua tuotantoa - merkki, 2009, in www.evira.fi. 488 Cfr. infra paragrafi 1.2, 1.6 e 1.8. 489 Si tratta di un elenco di prodotti inclusi nelle seguenti categorie: cereali, prodotti lattierocaseari, prodotti a base di carne, vegetali, alimenti per l’infanzia, cibi pronti (come insalate, scatolame, zuppe), uova, grassi, miele, dolci, altri prodotti alimentari e materiali di moltiplicazione (EVIRA, Hakemus oikeus käyttää luomu merkki, 2011, 82247, in www.evira.fi). 189 Il logo, parte integrante del marchio collettivo pubblico, è conosciuto a livello nazionale come «marchio del sole», aurinkomerkki in lingua finlandese e Sol-märket in lingua svedese. Il logo (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), le cui caratteristiche grafiche sono indicate nel regolamento d’uso, ha forma circolare, presenta un anello bianco sul quale compare, in senso rotatorio, la scritta a caretteri verdi «VALVOTTUA TUOTANTOA KONTROLLERAD EKOPRODUKTION», mentre al centro spicca la scritta orizzontale «Luomu», a caratteri bianchi più grandi, su sfondo verde; tale sfondo rappresenta un prato sul quale sorge un sole bianco dai lunghi raggi. Le due scritte vanno a formare, come detto, la dicitura «PRODUZIONE BIOLOGICA CERTIFICATA». Il marchio del sole deve sempre essere accompagnato sulla confezione dal numero di identificazione, nome e indirizzo dell’operatore che ha effettuato la produzione o la preparazione più recente (produttore, addetto alla trasformazione o venditore) e dal numero di identificazione dell’OdC e può essere utilizzato dalle aziende agricole licenziatarie che effettuano la vendita diretta al consumatore finale; il logo, inoltre, può essere utilizzato anche a scopi promozionali nelle brochure e nella cartellonistica dei punti vendita che vendono prodotti biologici con il marchio nazionale o esternamente nelle immediate vicinanze490. Il marchio del sole, quindi, svolge la funzione propria del marchio collettivo di certificazione e garanzia, attestando che il prodotto marcato Luomu è certificato biologico, dunque contiene il 95% di ingredienti di origine agricola biologici, soddisfa i requisiti richiesti dalla normativa comunitaria e finlandese in materia di prodotti biologici ed è controllato dagli OdC pubblici accreditati secondo le norme EN 45011 e autorizzati dalle autorità competenti secondo le norme comunitarie491. Come avviene in Danimarca492, Paesi Bassi e Islanda, il sistema di controllo finlandese sui prodotti biologici si avvale esclusivamente di strutture di controllo pubbliche, anche se sono presenti sul suo territorio due organismi 490 EVIRA, Valvontaosasto, op. cit., 2009, punti 1.3 e 1.4. Cfr. supra nota 350. 492 Cfr. infra paragrafo 1.2. 491 190 di certificazione e controllo accreditati ma non autorizzati dal governo finlandese a svolgere la funzione di controllo493; questi organismi possono rilasciare agli operatori che ne fanno richiesta le certificazioni di conformità ai loro standard privati per la produzione biologica di piante acquatiche e microalghe, specie animali e pet food di cui i regolamenti comunitari non hanno stabilito le regole di produzione, purchè rispettino i requisiti previsti dalla normativa comunitaria e dietro autorizzazione dell’Evira e i cui controlli, però, sono effettuati dalle autorità pubbliche (decreto MMM 846/08, § 7). L’Autorità finlandese per la sicurezza alimentare Evira, organo del MMM (quest’ultimo è l’autorità nazionale per l’applicazione della normativa sulla produzione biologica), presso il quale è istituito il registro nazionale di tutti gli operatori biologici, dirige e coordina, per conto del ministero, il sistema nazionale dei controlli sulla produzione e i piani di monitoraggio494. L’Evira, inoltre, svolge il controllo sulla commercializzazione di alimenti biologici495, ritenuto dallo stesso decreto MMM 846/08 parte integrante del controllo alimentare finlandese (disciplinato dalla legge alimentare 23/06). L’Evira vigila anche sul corretto utilizzo del marchio nazionale Luomu, concesso in uso agli operatori biologici e la cui adesione avviene su base volontaria. La certificazione e il controllo da parte delle strutture statali 493 Si tratta delle già citate associazioni finlandesi per l’agricoltura biologica «Luomuliitto ry» e per l’agricoltura biodinamica «Biodynaaminen yhdistys r.y». Sul punto: HEINONEN, op. cit., 2007. 494 Le aziende e le produzioni biologiche finlandesi, incluse le operazioni di trattamento minimo di prodotti agricoli autoprodotti nelle aziende (come dispone il decreto MMM 846/08, § 17), sono certificate e controllate, a livello locale, almeno una volta l’anno, da uno dei quindici Centri per lo sviluppo economico, dei trasporti e dell’ambiente (ELY-center), dipartimenti rurali di Evira, accreditati in base alle norme EN 45011, autorizzati a operare, in aggiunta all’Evira e alla «Valvira» (cfr. infra nota 495), come OdC pubblici. Nelle isole Åland è il governo autonomo, attraverso la Giunta regionale (Ålands landskapsregering), accreditata e autorizzata quale OdC pubblico, che gestisce il registro degli operatori dell’agricoltura biologica e certifica, organizza ed effettua i controlli sulle aziende biologiche nel proprio territorio (www.evira.fi/portal/en/evira). 495 L’Evira svolge i controlli sugli operatori dei settori alimentare (preparatori, dettaglianti, commercianti all’ingrosso, importatori di alimenti e bavande alcoliche) delle sementi e delle piante biologiche e dei mangimi biologici, coadiuvata, per i controlli sui dettaglianti, dagli ELY-center e dagli uffici comunali. I controlli sulla trasformazione e commercializzazione di bevande alcoliche da produzione biologica, invece, sono di competenza dell’Autorità nazionale di vigilanza per il benessere e la salute (Sosiaali- ja terveysalan lupa- ja valvontavirasto Valvira), mentre gli uffici doganali finlandesi svolgono i controlli sui prodotti agricoli e gli alimenti biologici, i mangimi biologici, le bevande alcoliche biologiche, i semi e le piante biologiche inportati da Paesi extra-UE (cfr. www.evira.fi/portal/en/evira e www.valvira.fi/en). 191 rappresentano un costo per gli operatori biologici, così come la licenza d’uso del marchio Luomu. Le sanzioni contenute nel decreto MMM 846/08, § 36, si riferiscono essenzialmente agli illeciti per il mancato rispetto delle norme per la produzione biologica e comportano la sospensione o la decadenza dallo status di operatore biologico e il divieto di porre in commercio prodotti biologici privi dei requisiti previsti dalla normativa comunitaria. Riguardo alle irregolarità e alle infrazioni riscontrate dall’Evira nell’utilizzo del marchio nazionale, le sanzioni sono invece contenute nel regolamento d’uso del marchio (punti 4 e 5) e consistono nel divieto di utilizzare il marchio per determinanti prodotti fino alla revoca della concessione all’uso del marchio e alla somministrazione di una sanzione pecuniaria massima di 10.000 euro. Riguardo alla possibilità di usare il marchio del sole insieme al logo Eurofoglia dell’UE, tanto il MMM quanto l’Evira ne sottolineano la possibilità ma non forniscono ulteriori indicazioni. Negli ultimi anni gli esiti ottenuti con l’attuazione del progetto Finfood a sostegno del marchio Luomu, conosciuto dal 90% dei finlandesi, hanno generato un incremento delle vendite di prodotti biologici sul mercato domestico e i canali di vendita specializzati per i prodotti biologici hanno cominciato a svilupparsi, anche sulla base della particolare attenzione che il mercato finlandese sta sempre più riservando all’aspetto salutistico degli alimenti496. 496 Le crisi alimentari e le zoonosi che si sono succedute in Europa a cavallo del nuovo millennio, non sembravano aver determinato una maggiore attenzione dei consumatori finlandesi verso i prodotti biologici, a differenza di quanto è accaduto negli altri Stati membri. Anzi, i prodotti biologici in Finlandia, nonostante la presenza di un marchio nazionale, in quegli anni avevano perso parte del loro valore agli occhi dei consumatori, i quali ritenevano che il rapporto qualità/prezzo non fosse adeguato; ciò, tuttavia, è coinciso con l’arrivo, nel decennio scorso, della catena tedesca «Lidl», che opera nel canale discount con prodotti convenzionali a basso costo e che, in un primo momento, ha lasciato poco spazio per lo sviluppo della fornitura di alimenti biologici nei supermercati, interessati a rivedere, a fini competitivi, le strategie di prezzo per i propri assortimenti (HEINONEN, op. cit., 2007). 192 1.6. Il marchio ceco «BIO-Produkt ekologického zemědělství» (c.d. biozebra) L’interesse della Repubblica Ceca per l’agricoltura biologica è maturato contestualmente all’adozione, nella UE, del reg. (CEE) n. 2092/91, in vista del processo di integrazione per l’adesione alla Comunità Europea, cominciato con la domanda presentata nel 1996. Infatti, sin dall’inizio degli anni ’90, il Ministero dell’agricoltura (Ministerstvo zemědělství - MOA) ha introdotto un sostegno finanziario alle pochissime aziende che allora praticavano un sistema produttivo alternativo e sconosciuto alla maggioranza dei consumatori497. Il governo, avvalendosi della collaborazione della prima organizzazione di settore che aveva codificato in quegli anni il metodo biologico e messo a punto un disciplinare di produzione498, ha emanato la legge 242/2000, entrata in vigore nel 2001499 con lo scopo di integrare nel sistema nazionale ceco, nel periodo successivo all’entrata del Paese nella UE (avvenuta il 1° maggio 2004), le disposizioni contenute nel reg. (CEE) n. 2092/91, con particolare riguardo alle procedure amministrative500. In effetti, dalla data di adesione all’UE, le disposizioni del regolamento comunitario vengono applicate direttamente nella Repubblica Ceca - sostituite, dal 1° gennaio 2009, da quelle dettate dal reg. (CE) n. 834/07 - con pochissime 497 Nel 1990 la Repubblica Ceca aveva solo tre aziende agricole che applicavano metodi di agricoltura biologica; alla fine del 2003 le aziende convertite al biologico erano diventate 810 per poi superare le 4.000 unità nel 2011 (dati MOA, cfr. www.mze.cz; http://eagri.cz/public/web/en/mze). 498 «PRO-BIO», la prima associazione degli agricoltori biologici cechi, è stata fondata nel 1990 mentre nel 1997 ha iniziato a operare «KEZ o.p.s.» (Kontrola ekologického zemědělství Controllo Agricoltura Biologica), la prima organizzazione di controllo riconosciuta dal MOA e accreditata dall’Istituto ceco di accreditamento (informazioni reperibili sul sito: www.kez.cz). 499 Nello stesso anno la Commissione Europea aveva incluso la Repubblica Ceca nella lista dei Paesi terzi il cui sistema di controllo e certificazione dell’agricoltura biologica era riconosciuto compatibile con il sistema dell’UE (MINISTRY OF AGRICULTURE OF THE CZECH REPUBLIC, Action Plan of the Czech Republic for the Development of Organic Farming by 2010, 2004, p. 8). 500 La legge 242/2000 (Zákon č. 242/2000 Sb., o ekologickém zemědělství a o změně zákona č. 368/1992 Sb., o správních poplatcích, ve znění pozdějších předpisů), alla quale hanno fatto seguito i decreti ministeriali applicativi 53/2001 e 263/2003, detta le norme per l’agricoltura biologica e la produzione di prodotti alimentari biologici richiamando essenzialmente le norme comunitarie, disciplina il sistema nazionale di certificazione dei prodotti biologici e degli alimenti e la loro etichettatura e istituisce un sistema di controllo e vigilanza sul rispetto delle sue disposizioni (MINISTRY OF AGRICULTURE OF THE CZECH REPUBLIC, op. cit., 2004, p. 8). 193 disposizioni di raccordo inserite nella legislazione nazionale501, che ha continuato ad occuparsi principalmente di alcuni aspetti tecnici e amministrativi, quali la registrazione degli agricoltori nel sistema nazionale dell’agricoltura biologica e le sanzioni per gli operatori del settore. Le sanzioni, elencate al § 33, legge 242/2000, sono pecuniarie e proporzionali sia ai reati e agli illeciti per il mancato rispetto delle norme per la produzione biologica, sia alle irregolarità e alle infrazioni riscontrate dagli OdC nell’utilizzo del marchio nazionale - concesso in uso secondo le modalità di cui si dirà più avanti - fino all’eventuale eliminazione del logo dalle confezioni e/o revoca della concessione all’uso del marchio. Alle sovvenzioni pubbliche502 e agli indirizzi prioritari di intervento contenuti nel primo piano di azione ceco del 2004 per lo sviluppo del settore503, si deve l’espansione delle terre utilizzate per l’agricoltura biologica, vista non solo come una tendenza di mercato, ma come una reale prospettiva di sviluppo per gli agricoltori, tanto che oggi la Repubblica Ceca è ai primi posti in Europa 501 La legge 242/2000 è stata modificata con emendamenti introdotti dalle leggi 320/2002, 553/2005, 227/2009 e 281/2009, mentre il decreto 16/06 (VyHlášCe č. 16/2006 Sb.) ne ha implementato alcune disposizioni, anche con riferimento alle caratteristiche grafiche del logo nazionale [cfr. il testo integrale della legge 242/2000 coordinato con i regolamenti (CE) n. 834/07 e 889/08 e commentato in lingua ceca: MOA, MINISTERSTVO ZEMĚDĚLSTVÍ, Úplné znění zákona č. 242/2000 Sb., 2009, www.biokont.cz/images/z242nr834nk889710_web1.pdf]. In materia di produzione biologica, inoltre, sono state dettate due disposizioni metodologiche del MOA, la prima relativa al mantenimento di frutteti secondo le norme dell’agricoltura bilogica (Metodický pokyn č. 1/09) e la seconda inerente il pascolo di animali convenzionali in aziende miste con superfici biologiche (Metodický pokyn č. 2/09) (cfr. www.mze.cz). 502 Gli aiuti governativi alle aziende, che hanno inizialmente interessato il solo quadriennio 1990-93, sono stati riproposti per il periodo 1997-2003 come sussidi erogati per le superfici registrate nel sistema nazionale dell’agricoltura biologica, generando la massima espansione del settore (MINISTRY OF AGRICULTURE OF THE CZECH REPUBLIC, op. cit., 2004, p. 3). L’attuale sostegno all’agricoltura biologica, pari a circa 40 milioni di euro annui, avviene attraverso il Programma di sviluppo rurale (PSR) per il periodo 2007-2013, le cui misure sono attuate attraverso la legge 79/07 (Nařízení vlády č. 79/2007 Sb., o podmínkách provádění agroenvironmentálních opatření) e successive modifiche (www.mze.cz). 503 Il «Piano d’azione della Repubblica Ceca per lo sviluppo dell’agricoltura biologica entro il 2010» («Akční plán ČR pro rozvoj ekologického zemědělství do roku 2010», který přijala vláda dne 17.3.2004 svým usnesením č.236/2004), predisposto dal MOA in collaborazione con i rappresentanti delle associazioni di agricoltori biologici (PRO-BIO, «Libera»), l’organismo di controllo KEZ, università, istituti di ricerca, agricoltori biologici, trasformatori e distributori di alimenti biologici, è stato approvato dal governo con delibera 236/04. Il 14 dicembre 2010 il governo ha approvato il secondo piano di azione pluriennale fino al 2015 («Akční plán ČR pro rozvoj ekologického zemědělství v letech 2011 až 2015») (www.mze.cz). 194 (e leader tra i nuovi Paesi membri UE) per incidenza di ettari coltivati a biologico sulla superficie agricola utilizzata (SAU)504. Il riconoscimento del metodo di produzione biologico e il sostegno da parte dello Stato hanno generato un livello di fiducia del mercato verso questi prodotti e un ampio consenso da parte dei consumatori; così, da un numero limitato di prodotti biologici presenti nei negozi di alimenti naturali negli anni ‘90, si è passati, in seguito all’aumento della domanda degli ultimi anni, al graduale inserimento nella gamma di referenze dei rivenditori di generi alimentari, anche al di fuori delle grandi città, e a un sempre maggiore interesse delle grandi catene di supermercati per questa tipologia di prodotti, con prodotti biologici contrassegnati con il marchio della catena (private label)505. Sin dalla comparsa dei prodotti biologici sul mercato nazionale e al fine di incrementarne la riconoscibilità presso i consumatori, la Repubblica Ceca ha disposto che gli alimenti biologici, gli altri prodotti provenienti dalla produzione biologica (come la lana e il lino) e i mezzi tecnici utilizzati in agricoltura biologica (§ 3, legge 242/2000), etichettati nella Repubblica Ceca in conformità alle norme comunitarie e nazionali, riportino obbligatoriamente sulla confezione, oltre al codice dell’operatore autorizzato e a quello dell’OdC ceco, il logo nazionale della produzione biologica (§ 23, legge 242/2000). A tal fine, la struttura privata KEZ (Kontrola ekologického zemědělství) è stata incaricata di svolgere i controlli, per conto del governo, sull’applicazione della normativa ed è stata autorizzata al rilascio di questo logo “nazionale” (con l’attribuzione, di fatto, della proprietà), avendo ottenuto dall’Istituto ceco di accreditamento il riconoscimento come primo organismo di certificazione e controllo privato ceco sui prodotti biologici506. Il KEZ ha quindi utilizzato, in 504 La superficie nazionale coltivata a biologico, nel 2010, è di 448.202 ettari (+12% rispetto al 2009), pari al 9,7% della SAU ceca, un’incidenza molto alta che colloca il Paese al quarto posto in Europa dopo Austria (18,5%), Svezia (12,6%) e Svizzera (10,8%) e davanti all’Italia (8,7%) (dati FiBL, www.organic-world.net). L’80% dei terreni agricoli biologici è destinato a prati e pascoli e solo 47.400 ettari sono investiti a seminativi; di questi, 24.000 ettari interessano i cereali e 14.000 i foraggi verdi, metre le superfici destinate a prodotti vegetali e frutta sono in aumento (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 93). Secondo i dati diffusi dal MOA, la superficie ceca coltivata a biologico ha raggiunto i 483.176 ettari (10,5% della SAU), mentre le aziende biologiche sono 4.022 (erano 3.517 al 31/12/2010) (ultimi dati disponibili al 25 agosto 2011, www.mze.cz; http://eagri.cz/public/web/en/mze). 505 KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 93. 506 Riguardo ai sistemi di controllo cfr. capitolo II, paragrafo 3. 195 accordo con il ministero, un proprio marchio denominato «BIO-produkt ekologického zemědělství» (BIO-prodotto di agricoltura biologica) da apporsi obbligatoriamente sugli alimenti biologici (prodotti e/o trasformati) etichettati nella Repubblica Ceca per effetto, come detto, della legge 242/2000. A seguito dell’emanazione della legge ceca sui marchi del 3 dicembre 2003, n. 441, il marchio BIO-produkt ekologického zemědělství è stato inquadrato come marchio collettivo geografico ai sensi dell’art. 15.2 della direttiva 2008/95/CE507, e la proprietà è stata trasferita allo Stato, ovvero al MOA, a partire dal 2005; l’anno seguente l’Istituto nazionale di accreditamento ha riconosciuto altri due OdC privati cechi508. Il MOA, che è l’autorità responsabile a livello nazionale dell’attività di controllo e coordinamento dell’applicazione delle norme comunitarie sulla produzione biologica, dal 1° gennaio 2010 - in ottemperanza alle competenze che secondo la normativa comunitaria non sono delegabili a soggetti terzi effettua, attraverso l’Istituto Centrale per la supervisione e la sperimentazione agricola (Ústřední kontrolní a zkušební ústav zemědělský - ÚKZÚZ), controlli di tipo merceologico e sull’identità dei prodotti e dei mezzi tecnici di produzione agricola (sementi, mangimi) lungo tutta la filiera, mentre il concreto svolgimento delle attività di controllo sugli operatori biologici sono svolte dai rispettivi organismi di controllo privati cechi che hanno effettuato la certificazione, ciascuno titolare di un proprio marchio e del rispettivo logo grafico. Da quando ha ottenuto la titolarità del marchio BIO-produkt ekologického zemědělství, il MOA, che riteneva che il concetto di qualità in agricoltura biologica non fosse sufficientemente compreso dai consumatori e che il logo nazionale non fosse ancora familiare per il grande pubblico, si è impegnato nel sostegno alla trasformazione e commercializzazione dei prodotti dell’agricoltura biologica, considerati i punti più deboli della filiera per 507 Alla legge 441/03 (Zákon č. 441/2003 Sb., o ochranných známkách, ze dne 3. prosince 2003) ha fatto seguito il decreto di esecuzione del 20 febbraio 2004, n. 97 (Vyhláška č. 97/2004 Sb., k provedení zákona o ochranných známkách ze 20. února 2004) (UAMI, op. cit., 2010, pp. 25-26). 508 «ABCERT GmbH», che è un ramo dell’OdC tedesco «ABCERT AG» (cfr. www.abcert.cz), e «BIOKONT CZ , s r.o.» (cfr. www.biokont.cz). 196 l’ulteriore sviluppo del settore nella Repubblica Ceca509. In stretta connessione con il piano di azione nazionale per l’agricoltura biologica, il ministero ha istituito, nel 2007, una campagna promozionale triennale per promuovere il consumo degli alimenti biologici510. Gli indirizzi istituzionali contenuti nei piani di azione, le campagne promozionali e gli aiuti di Stato alle piccole e medie imprese (PMI)511, nonché gli incentivi comunitari - di cui dal 2007 beneficiano in modo cospicuo gli agricoltori attraverso le misure del PSR - hanno determinato una significativa crescita del settore nel corso degli ultimi anni. Tuttavia, a fronte di un incremento delle esportazioni, il mercato interno, con la maggior parte delle materie prime che proviene dall’estero, rimane piuttosto contenuto, mentre la quota di consumi pro capite di prodotti biologici appare ancora modesta512. Ai sensi della legge 242/2000, tutti i prodotti confezionati (realizzati e/o trasformati), etichettati nella Repubblica Ceca, ovvero alimenti biologici, 509 Il piano d’azione del 2004 annoverava, tra gli obiettivi prioritari, il miglioramento della posizione dell’agricoltura biologica nella Repubblica Ceca, l’aumento della fiducia dei cittadini verso questo metodo produttivo e il miglioramento della percezione positiva della qualità degli alimenti biologici da parte dei consumatori (MINISTRY OF AGRICULTURE OF THE CZECH REPUBLIC, op. cit., 2004, p. 9 ss.). 510 La campagna triennale di promozione del MOA denominata «L’agricoltura biologica e gli alimenti biologici» («Ekologické zemědělství a biopotraviny») è stata approvata nel 2007 dal Consiglio del Governo per lo sviluppo sostenibile (Rada vlády pro udržitelný rozvoj - RVUR), istituito nell’ambito della strategia per lo sviluppo sostenibile (Strategie udržitelného rozvoje ČR, kterou schválila vláda ČR dne 8.12.2004 svým usnesením č.1242/2004) approvata dal governo ceco con delibera 1242/04 (www.mze.cz). La campagna di promozione nazionale del MOA, che si avvale della supervisione della Direzione marketing del fondo di intervento statale per l’agricoltura (SZIF), si configura come aiuti di Stato della Rrepubblica Ceca notificati alla Commissione Europea (N 675/07) e da questa approvati con decisione dell’8 dicembre 2008 (GUUE - Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 30/09). L’obiettivo della campagna nazionale è quello di informare i consumatori sui princìpi e i vantaggi dell’agricoltura biologica, aumentare la consapevolezza della etichettatura di alimenti biologici e incrementare il consumo interno di questi alimenti, senza alcun legame con l’origine dei prodotti, nel rispetto degli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale con riguardo alla pubblicità dei prodotti agricoli (cfr. supra nota 393). 511 Il regime di aiuti per le PMI previsto fino al 31 dicembre 2013 riguarda la formazione e la consulenza di alto livello (in modo neutro e senza alcun riferimento all’origine dei prodotti biologici), con l’obiettivo secondario di sensibilizzare maggiormente gli agricoltori del settore biologico ai diversi aspetti di questo metodo di produzione, compresi quelli della commercializzazione e della vendita di prodotti biologici (Aiuto di Stato XA 33/08, GUUE C 127/08). 512 La Repubblica Ceca dipende per il 60% dei consumi di prodotti biologici dall’estero. Secondo una ricerca condotta da «Green Marketing», i cui risultati sono evidenziati in un comunicato stampa del 29 luglio 2009 pubblicati sul sito www.green-marketing.cz, il mercato dei prodotti biologi è cresciuto del 40% nel 2008 e del 70% nel 2007; tuttavia il fatturato, pari a 68 milioni di euro nel 2008, rappresenta circa lo 0,6% del mercato alimentare ceco, mentre la spesa pro capite per il consumo di prodotti biologici è di soli 6,6 euro. 197 prodotti provenienti dalla produzione biologica come lana e lino e mezzi tecnici utilizzati in agricoltura biologica conformi alle norme comunitarie e nazionali, controllati e certificati dagli OdC cechi, ottengono l’uso gratuito513 del marchio collettivo nazionale di proprietà del MOA da apporre obbligatoriamente sulle confezioni. Tutti i prodotti marchiati con il logo BIOProdukt ekologického zemědělství si contraddistinguono per il termine ekologické (ecologico) o biologické (biologico) - o per qualsiasi altra espressione relativa al metodo di produzione in agricoltura biologica comprensiva di tali termini - entrambi riservati al metodo biologico e ritenuti equivalenti in lingua ceca, come dispone l’allegato al reg. (CE) n. 834/07, e che, pertanto, possono essere usati nell’etichettatura e pubblicità dei prodotti certificati a norma di legge; i prodotti marchiati, inoltre, riportano sulla confezione il codice di controllo di uno dei tre OdC cechi 514 che esercitano il controllo sull’operatore, effettuando visite ispettive almeno una volta l’anno, ed eventualmente anche il logo dell’OdC che, ai fini della commercializzazione, gode di minore notorietà rispetto al logo nazionale. Il logo ceco (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), parte integrante del marchio collettivo BIO-produkt ekologického zemědělství, da sempre è conosciuto a livello nazionale come «biozebru» o «biozebry» (biozebra) ed ha conservato la stessa forma grafica dalla sua origine fino ad oggi, ovvero un semicerchio orizzontale a strisce bianche e verdi verticali con al centro la scritta a caratteri bianchi «BIO» (con la lettera I che riproduce un fiorellino) e la dicitura sottostante a caratteri verdi «PRODUKT EKOLOGICKÉHO ZEMĚDĚLSTVÍ» («PRODOTTO DA AGRICOLTURA BIOLOGICA»). Il logo, le cui caratteristiche grafiche sono indicate nell’allegato 2 del decreto 16/06, può essere riprodotto, per esigenze grafiche, anche in bianco e nero ed è ammesso l’uso a scopi promozionali nella cartellonistica nei punti di vendita che vendono prodotti biologi con il marchio nazionale; in tal caso il logo riprodotto è accompagnato dalla dicitura «ZDE SE PRODÁVAJÍ 513 I costi di utilizzo del marchio, in realtà, sono compresi nei costi di certificazione e controllo che l’operatore corrisponde al proprio OdC per ottenere lo status di operatore certificato biologico (cfr. www.mze.cz). 514 Dal 1° luglio 2010, agli OdC sono stati assegnati, come negli altri Paesi UE, i nuovi codici previsti dalla normativa comunitaria (cfr. capitolo II, paragrafo 3). 198 BIOPOTRAVINY» («QUI SI VENDONO ALIMENTI BIOLOGICI»). I mezzi tecnici che secondo la normativa comunitaria e nazionale (§ 3, legge 242/2000) possono essere utilizzati in agricoltura biologica, possono riportare sulla confezione il logo nazionale esclusivamente con la dicitura «MOŽNO POUŽÍT V EKOLOGICKÉHO ZEMĚDĚLSTVÍ» («PUÒ ESSERE UTILIZZATO IN AGRICOLTURA BIOLOGICA») 515. Il logo nazionale ceco può essere usato nell’etichettatura di prodotti alimentari biologici di origine nazionale o importati516, certificati secondo il reg. (CE) n. 834/07 e nel rispetto delle disposizioni ceche sulla produzione biologica (legge 341/2000 e decreto 16/2006), le quali, tra l’altro, non richiedono il rispetto di standard aggiuntivi rispetto a quelli comunitari, Tuttavia, come avviene in Danimarca, Finlandia e Spagna (di cui si dirà nel paragrafo 1.8), la concessione del marchio sottende che il confezionamento o l’etichettatura avvengano nel territorio nazionale; qualsiasi operatore comunitario e extra-comunitario, in regime di equivalenza o meno (a condizione che la produzione sia conforme alla normativa europea di settore), che intende esportare sul mercato ceco, pertanto, può fare richiesta affinchè i propri prodotti vengano confezionati e/o etichettati preso una società ceca in modo da ottenere il marchio nazionale del MOA, corrispondendo il pagamento di una tassa517 ad uno dei tre organismi di controllo e certificazione privati cechi che effettuerà il controllo presso tale società ceca. Il logo biozebru, quindi, non comporta alcuna indicazione sull’origine della materia prima ma svolge la funzione propria del marchio collettivo geografico pubblico (certificazione e garanzia), in quanto attesta che i prodotti marchiati soddisfano i requisiti di legge previsti per gli alimenti biologici e garantisce che questi sono stati controllati in ogni fase, dal produttore al consumatore finale, dagli OdC accreditati e autorizzati dall’autorità ceca. 515 Informazioni riportate in lingua ceca sul sito dell’OdC KEZ (www.kez.cz). Per le merci non imballate, i rivenditori devono provare, al momento della richiesta del marchio nazionale, l’origine delle merci attraverso i documenti di accompagnamento. L’importazione di prodotti biologici provenienti da Paesi terzi è regolata dalle norme comunitarie; gli importatori devono fare domanda ad uno dei tre OdC cechi che si incaricano di trasmetterla al MOA (www.mze.cz). 517 Cfr. supra nota 468. 516 199 Tale logo, però, pur essendo da sempre utilizzato per contrassegnare i prodotti alimentari biologici certificati nella Repubblica Ceca, legando le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto alla diversità del metodo di produzione, potrebbe essere destinato a scomparire518 in quanto, non richiedendo il rispetto di ulteriori requisiti rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria in materia, finisce per svolgere la stessa funzione del logo di produzione biologico UE, obbligatorio dal 1° luglio 2010. Naturalmente, se il marchio nazionale ceco si offrisse di garantire elementi, quali, ad esempio, prezzi equi per gli agricoltori, potrebbe rappresentare un potenziale valore aggiunto per differenziarsi dal logo UE obbligatorio. Al riguardo, sin dall’inizio del 2010, con riferimento alla duplice obbligatorietà del logo biozebru e del logo europeo sulle confezioni dei prodotti biologici cechi, il ministero sta studiando un possibile emendamento alla legge nazionale sull’agricoltura biologica che assegni al logo ceco caratteristiche tali da differenziarsi dalle garanzie offerte dal logo europeo, con adesione su base volontaria ed eventualmente con una duplice veste grafica, di cui una per i prodotti locali, prendendo ad esempio il logo nazionale austriaco519. Allo stesso tempo, però, tali caratteristiche devono rispettare il principio sancito dall’art. 34 del Trattato - che vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente - e il dettato dell’art. 24.1 del reg. (CE) n. 834/07, secondo il quale se il prodotto biologico certificato e marchiato con il logo europeo è accompagnato, nella sua ulteriore specificazione dell’indicazione dell’origine delle materie prime agricole provenienti dall’agricoltura dell’Unione Europea o di Paesi terzi, dall’indicazione dello Stato di provenienza, il 98% delle materie prime agricole di quel prodotto deve avere origine in tale Stato. Dal momento che molti prodotti trasformati certificati sul mercato ceco hanno un’alta percentuale di materia prima di origine non nazionale, ad 518 Il marchio nazionale, tuttavia, potrrebbe cessare di esistere solo per effetto di una legge, essendo, come detto, obbligatorio per i prodotti cechi e per i prodotti di origine non nazionali, trasformati e confezionati nella Repubblica Ceca e quindi certificati da OdC cechi. 519 Informazioni in lingua ceca tratte dal documento del MOA (MINISTERSTVO ZEMĚDĚLSTVÍ), Oznacování biopotravin - Význam ceské biozebry (Etichettatura dei prodotti biologici - Il significato del biozebry ceco), 2010, www.pro-bio.cz. 200 esempio la maggior parte dei caseifici importa latte biologico dalla Slovacchia, le autorità ceche si stanno interrogando sul significato dell’annosa questione dell’origine520 e certamente sono più attente al dettato del reg. (CE) n. 450/08 (nuovo Codice doganale), secondo cui l’origine di un prodotto trasformato è individuata nel Paese o territorio in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale, ovvero quella economicamente più rilevante521. In una indagine statistica nazionale condotta sugli operatori del settore e pubblicata nell’aprile 2011, inoltre, è emerso che il 62% dei produttori/trasformatori e l’82% dei distributori non vuole cambiamenti concernenti l’etichettatura di alimenti biologici nè il relativo utilizzo della biozebra in relazione all’origine delle materie prime522. 1.7. Il marchio tedesco «Bio-Siegel» La Germania vanta tradizioni pionieristiche nella diffusione dell’agricoltura biologica523 e nell’operatività di associazioni di produttori affiliate all’IFOAM, che ha sede centrale a Bonn, fulcro dello sviluppo di centinaia di movimenti nazionali524. Il «Biofach» di Norimberga, evento fieristico e di convention di punta a livello mondiale, giunto alla XXII edizione, coinvolge ogni anno migliaia di espositori e richiama quasi 50.000 operatori da più di 100 Paesi525. 520 Notizia del 16 giugno 2010 riportata in lingua ceca sul sito: www.epravo.cz. Cfr. supra nota 338. 522 Documento in lingua ceca relativo all’indagine statistica condotta nel 2010 dal MOA, Dipartimento di economia agraria (ÚZEI), con riferimento al merca eagri.cz/public/web/file/131447/Zprava_EZ_2010_final.pdf to nazionale degli alimenti biologici, inclusi produzione, trasformazione, distribuzione, esportazione e importazione di prodotti e alimenti biologici (HRABALOVÁ et. al., Statistická šetrení ekologického zemedelství provedená v roce 2010 - zpráva o trhu s biopotravinami, výstup tématického úkolu MZe CR c. 4212/2011, trad. it. Indagine statistica dell'agricoltura biologica nel 2010 Relazione sul mercato degli alimenti biologici, Brno, 2011, pp. 6-7). 523 Risale agli anni ’20 del secolo scorso la nascita, in Germania, dell’agricoltura biodinamica, nata su ispirazione del filosofo Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, ma già a fine Ottocento esistevano a Berlino i reformhäuser, negozi specializzati in prodotti naturali, tipologia di negozio presente, oggi, in Germania e Austria (cfr. capitolo I, paragrafo 2). 524 L’IFOAM è oggi riconosciuta con lo status di organismo consultivo dalle Nazioni Unite e fornisce una piattaforma globale per la cooperazione e gli scambi internazionali in questo settore. Cfr. supra capitolo I, paragrafo 2. 525 Cfr. www.biofach.de. 521 201 Tuttavia, in assenza di norme comunitarie, la disciplina giuridica della materia nella Repubblica federale tedesca, ridotta all’essenziale, si è limitata a riconoscere l’esistenza della produzione con metodo biologico nell’ambito della legislazione in tema di etichette dei prodotti alimentari e della relativa pubblicità526. Al settore privato, dunque, è stata lasciata l’elaborazione dei codici di comportamento e dei disciplinari di produzione 527. Negli anni ’90, la disponibilità di contributi in ambito PAC per l’estensivizzazione delle produzioni (con il divieto di usare fertilizzanti chimici di sintesi e pesticidi in tutta l’azienda) e l’attuazione dei programmi agroambientali dei «Länder» (ripartizioni amministrative territoriali analoghe alle Regioni), che discendono dai nuovi indirizzi comunitari di politica agricola e per lo sviluppo rurale528, hanno trainato lo sviluppo dell’agricoltura biologica nella Germania unificata529. Fino ad allora la produzione biologica è rimasta un settore di nicchia, anche a causa della ritrosìa degli stessi agricoltori biologici e commercianti specializzati, i quali, temendo di subire la concorrenza diretta dei prodotti agricoli convenzionali, ne hanno frenato la diffusione presso le grosse 526 CRISTIANI, Agricoltura biologica tra economia e diritto, cit., 1990, p. 317. Sulla scia dei movimenti culturali degli anni ‘60 e ’70, che hanno fatto emergere nuove riflessioni sugli effetti ambientali negativi dell’agricoltura industriale e sull’inquinamento in generale, è nata e si è sviluppata in Germania la SÖL (Stiftung Ökologie & Landbau), la fondazione per la ricerca «ecologia e agricoltura», che identifica nell’agricoltura biologica il principale strumento per mantenere puliti suolo, acqua e aria a beneficio delle generazioni future. Nel 1988, su stimolo della SÖL, le sei grandi associazioni di produttori attive nel settore - «Demeter», «Bioland», «Anog», «Biokreis», «Naturland», «Ecovin» - hanno costituito l’AGÖL (Arbeitsgemeinschaft Ökologischer Landau), l’Associazione per l’agricoltura biologica (organizzazione ombrello), impegnandosi ufficialmente ad adottare norme comuni di base già elaborate nel 1984 [informazioni tratte da «InterBio - Promozione della domanda interna ed internazionale», progetto coordinato dallo IAMB - Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari e finanziato dal MIPAAF nell’ambito del Piano di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici (cfr. infra paragrafo 2): IAMB-INTERBIO, Scheda Germania, 2011, www.interbio.it/scheda-paese,207,208,8,germania.htm]. 528 CHIOZZOTTO, L’agricoltura biologica in Germania, in ABITABILE e VIGANÒ, a cura di, op. cit., 2011, in corso di pubblicazione. 529 L’agricoltura biologica è un fenomeno che ha avuto origine nella Germania occidentale ma ha cominciato a estendersi anche a Est dopo la riunificazione; molte aziende di Stato nella Repubblica democratica tedesca, di enorme entità ma del tutto inefficienti, sono state chiuse e trasformate in riserva naturale, mentre quelle in prossimità delle maggiori città sono state frazionate e cedute ad agricoltori che hanno avviato la produzione biologica (IAMBINTERBIO, cit.). 527 202 superfici di vendita e circoscritto la commercializzazione presso i tradizionali reformhäuser530. Tuttavia, è solo nel nuovo millennio, insieme alle misure statali pluriennali di sostegno al mercato (BÖL)531, che hanno trovato forma specifiche norme esecutive per il settore, a livello nazionale, con la legge per l’agricoltura biologica del 12 luglio 2002 (legge nota come «Öko-Landbaugesetz» - ÖLG), la quale, modificatasi nel tempo, oggi rafforza l’attuazione della normativa comunitaria532. Mentre, l’anno prima, il 5 settembre 2001, il Ministero dell’alimentazione, dell’agricoltura e della tutela dei consumatori (Bundesministerium für Ernährung, Landwirtschaft und Verbraucherschutz BMELV), sulla spinta emozionale di un grosso scandalo che ha messo in luce la debolezza del sistema tedesco dei controlli in tema di prodotti biologici - che non includeva lo stoccaggio e l’immagazzinamento dei prodotti biologici tra le attività da assoggettare al controllo533 - ha depositato il marchio collettivo di 530 GIUCA, La commercializzazione di prodotti biologici, cit., 2009, p. 130. Le vendite di prodotti biologici presso queste strutture rappresentano, attualmente, il 25% delle vendite totali di prodotti biologici (HAMM e RIPPIN, Germany - Market data 2000-2008, www.organicworld.net/statistics-germany-market.html.). 531 Il programma federale di settore per il periodo 2002-2015 (Bundesprogramm Ökologischer Landbau - BÖL), destinato a completare le misure di sostegno comunitario con misure specifiche per ciascun segmento della filiera, dalla produzione agricola alla promozione dei consumi, nasce sotto l’egida della verde Renate Künast, ministro dell’agricoltura dal 2001 al 2005 nel governo Schroeder, alla quale si deve l’ulteriore stimolo del settore biologico in Germania. Il BÖL dispone di un finanziamento di 16 milioni di euro annui (informazioni disponibili sul sito: www.bundesprogramm-oekolandbau.de). 532 L’ÖLG del 10 luglio 2002 (in BGBI. I, p. 2558) è stata modificata il 12 agosto 2005 (in BGBI. I p. 2431) per recepire le disposizioni del reg. (CE) n. 392/04 (cfr. infra nota 533) ed è stata da ultimo modificata, per l’adeguamento al reg. (CE) n. 834/07, dalla legge 7 dicembre 2008 (in BGBl. I, p. 2358), a sua volta modificata dall’art. 33 della legge 9 dicembre 2010 (in BGBI. I, p. 1934). L’ÖLG disciplina la delega di funzioni da parte dei Länder agli OdC, designa l’Agenzia federale per l’agricoltura e l’alimentazione (Bundesanstalt für Landwirtschaft und Ernährung - BLE) quale autorità responsabile dell’autorizzazione e della vigilanza degli OdC e le assegna funzioni esecutive (ad es. la concessione di autorizzazioni per la commercializzazione dei prodotti biologici importati da Paesi terzi e l’approvazione provvisoria dell’uso di ingredienti non biologici di origine agricola), regola il funzionamento e il campo d’azione degli organismi di controllo e detta disposizioni penali e sanzionatorie [cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Federale di Germania (Bundesgesetzblatt - BGBI.), Ministero di giustizia: http://bundesrecht.juris.de]. 533 Un operatore biologico aveva stoccato una consistente partita di cereali in un magazzino che in precedenza ospitava un deposito di prodotti fitosanitari, con il risultato di inquinare, inconsapevolmente, la granella biologica. Il reg. (CEE) n. 2092/91, come noto, già disponeva il controllo completo della filiera, esercitato a partire dal produttore agricolo fino all’ultimo operatore responsabile del confezionamento e dell’immissione in commercio di un prodotto destinato all’alimentazione umana; tuttavia, l’attività di immagazzinamento ha acquisito una sua autonomia, sottraendosi alla generica definizione di attività di preparazione, la quale già citava le operazioni di conservazione tra quelle contemplate ai fini dell’obbligo 203 produzione biologica («Bio-Siegel») all’ufficio nazionale dei brevetti e marchi in base alla legge tedesca sui marchi534 che - come quella austriaca, finlandese, ceca e italiana - non fa alcuna distinzione tra marchio di garanzia/certificazione e marchio collettivo. Il marchio Bio-Siegel, che si configura quale marchio collettivo geografico ai sensi della direttiva 89/104/CEE (e dell’attuale art. 15.2, direttiva 2008/95/CE), è stato lanciato dal BMELV con un’ampia campagna di promozione e marketing, con l’intento di dare fiducia ai consumatori, identificare la produzione biologica con un segno univoco, facilmente riconoscibile, e dare impulso al mercato interno535. La Germania è oggi il più grande mercato di alimenti biologici in Europa536 - il secondo al mondo dopo gli Stati Uniti - ma è anche il maggior importatore di prodotti biologici e, in particolare, di prodotti biologici italiani, in quanto la produzione nazionale soddisfa circa il 60% della domanda di questi prodotti537; nella UE, comunque, il Paese si posiziona alle spalle di Spagna e Italia per superficie biologica e numero di operatori del settore538. dell’assoggettamento, con il nuovo art. 8 del regolamento, entrato in vigore il 1° luglio 2005 a seguito delle modifiche introdotte dal reg. (CE) n. 392/04. In Italia, gli enti di certificazione avevano già provveduto a esercitare il controllo su questa tipologia di operatori ma alcuni Stati membri, tra cui la Germania, non lo avevano ancora fatto (PIERLEONI, Controlli di magazzino nei prodotti biologici, in L’Informatore Agrario, 2005, n. 24, p. 65). 534 Legge del 25 ottobre 1994 sulla protezione dei marchi e altri segni («legge sui marchi»), (BGBI. I p. 3082; 1995 I p. 156; 1996 I p. 682), come da ultimo modificata dalla legge 22 dicembre 2010 (BGBI. I, p. 2248). 535 Secondo il BMELV il logo «crea trasparenza e offre orientamento affidabile nella giungla dei marchi biologici» a fronte dei loghi dei 24 OdC privati autorizzati a operare nel territorio tedesco, un terzo dei quali anche in Paesi terzi (cfr. home page del ministero dedicata all’agricoltura biologica, Ökologischer Landau: www.bmelv.de). 536 Il mercato tedesco degli alimenti biologici è praticamente triplicato nel 2009, raggiungendo 5,8 miliardi di euro (secondo dopo gli USA, pari a 18,6 miliardi di euro), e rappresenta il 3,4% del mercato alimentare totale tedesco; la spesa per il consumo pro capite di prodotti biologici, calcolato in 71 euro/anno, però, si colloca al settimo posto tra i Paesi europei (WILLER e KILCHER, op. cit., 2011, pp. 156-159). 537 KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 109. 538 Gli operatori della filiera biologica, in Germania, hanno raggiunto quota 32.714 nel 2010; di questi, 21.942 sono aziende di produzione certificate biologiche (+4,3% rispetto al 2009), pari al 7,3% delle aziende agricole totali, e 7.703 sono operatori della trasformazione (+4,5%). La superficie coltivata a biologico è di 990.702 ettari (+4,6%), pari al 5,9% della superficie agricola utilizzata; circa 200.000 ettari e quasi 9.000 aziende si concentrano nella sola area della Baviera. Oltre il 50% dei terreni agricoli biologici è destinato a prati e pascoli e il 44% ai seminativi; di questi quasi 200.000 ettari sono investiti a cereali, oltre 150.000 a foraggi verdi, 22.000 a legumi secchi e quasi 12.000 a ortaggi; la zootecnia biologica si concentra prevalentemente su bovini, con oltre 500.000 capi da carne e da latte, ovicaprini e suini (entrambi intorno ai 140.000 capi) e pollame (quasi 3 milioni di capi) (dati annuali elaborati dal BLE, disponibili sul portale dell’agricoltura biologica a cura del BMELV: www.bmelv.de/EN/Agriculture-RuralAreas/OrganicFarming/organic-farming_node.html). 204 L’utilizzo del marchio Bio-Siegel, di proprietà del ministero, è stato immediatamente regolamentato con la legge 10 dicembre 2001 (legge nota come «ÖkoKennzG»)539, successivamente modificata con l’evoluzione della normativa comunitaria, mentre le caratteristiche grafiche del logo sono state dettagliate nell’ordinanza ministeriale del 6 febbraio 2002 e successive modifiche (ordinanza nota come «ÖkoKennzV») 540. Al riguardo, è opportuno ricordare che nella lingua tedesca i termini ökologisch (ecologico) e biologisch (biologico) sono riservati al metodo biologico e ritenuti equivalenti, come dispone l’allegato al reg. (CE) n. 834/07, e che, pertanto, possono essere usati nell’etichettatura e pubblicità dei prodotti certificati a norma di legge. Il marchio Bio-Siegel può essere utilizzato sulle confezioni di prodotti certificati ai sensi del reg. (CE) n. 834/07 e sul materiale utilizzato per scopi informativi e promozionali, anche in menù di ristoranti e mense (§ 1, ÖkoKennzG), essendo la ristorazione collettiva - come definita all’art. 2 del regolamento comunitario - disciplinata dalla legge tedesca (§ 4, ÖLG). Il logo (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), parte integrante del marchio, dalla caratteristica forma esagonale con doppio bordo bianco-verde, presenta nel suo campo visivo su sfondo bianco la dicitura a caratteri neri «BiO - nach EG-Öko-Verordnung» («BiO - conforme al regolamento biologico UE»), con la lettera i di BiO che ricorda una filo d’erba verde. Il logo identifica i prodotti agricoli e gli alimenti che contengono almeno il 95% di ingredienti di origine agricola biologici, conformi alle disposizioni in vigore previste dalla normativa comunitaria e tedesca, certificati da un organismo o un’autorità pubblica competente per il controllo; sono esclusi i mangimi, i prodotti in 539 La legge relativa all’introduzione e all’uso di un marchio per i prodotti dell’agricoltura biologica (Gesetz zur einführung und verwendung eines kennzeichens für erzeugnisse des ökologischen landbaus - ÖkoKennzG) nella versione aggiornata, pubblicata il 20 gennaio 2009 (in BGBl. I, p. 78), è stata da ultimo modificata dall’art. 29 della legge 9 dicembre 2010 (in BGBl. I, p. 1934) che ha introdotto pene detentive e ammende pecuniarie [cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Federale di Germania (BGBl.), Ministero di giustizia: http://bundesrecht.juris.de]. 540 L’ordinanza del Ministero dell’alimentazione, dell’agricoltura e della tutela dei consumatori contenente il regolamento per la progettazione e l’utilizzo del marchio Bio-Siegel (Verordnung zur gestaltung und verwendung des öko-kennzeichens - Öko-Kennzeichenverordnung ÖkoKennzV), pubblicata il 6 febbraio 2002 (in BGBl. I, p. 589), è stata modificata dall’art 1 dell’ordinanza ministeriale del 30 novembre 2005 (in BGBl. I, p. 3384) (Ibidem). 205 conversione e i prodotti alimentari arricchiti con vitamine e sali minerali (§ 1.3, ÖkoKennzG). Il logo può essere utilizzato nell’etichettatura di questi prodotti e per fini di comunicazione ad essa attinente da qualsiasi operatore - produttore, trasformatore, distributore o importatore - tedesco, comunitario, extracomunitario (in regime di equivalenza o meno, a condizione che la produzione sia conforme alla normativa europea di settore) che abbia ottenuto, previa richiesta, l’autorizzazione dall’Agenzia federale per l’agricoltura e l’alimentazione (§ 3, ÖkoKennzV)541. L’Agenzia, infatti, è l’autorità designata dal ministero per la gestione e la verifica dell’utilizzo del logo (§ 2.2, ÖkoKennzG). Va da sé che responsabili dei controlli dei prodotti certificati, per i quali si richiede l’utilizzo del marchio Bio-Siegel, sono i rispettivi OdC. Il logo svolge, pertanto, la funzione propria del marchio collettivo geografico pubblico che lega le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto alla diversità del metodo di produzione, senza alcun riferimento all’origine. Il logo, pertanto, garantisce che il prodotto marchiato Bio-Siegel è certificato biologico, che contiene il 95% di ingredienti di origine agricola biologici, che soddisfa i requisiti richiesti dalla normativa comunitaria e tedesca in materia di prodotti biologici, che si tratta di prodotti controllati da OdC accreditati e autorizzati dalle autorità competenti secondo le norme comunitarie. Le modifiche introdotte dalla legge 9 dicembre 2010 alla disciplina del marchio Bio-Siegel (ÖkoKennzG), hanno fortemente inasprito il sistema sanzionatorio, distinguendo tra illeciti amministrativi e reati. Mentre i primi consistono in negligenze e infrazioni nell’uso del logo e prevedono la somministrazione di multe fino a 30.000 euro, i reati sono ascrivibili all’immissione sul mercato con il logo Bio-Siegel di prodotti non biologici o 541 Non vi sono ulteriori obblighi né costi per l’utilizzo del logo Bio-Siegel; gli operatori biologici certificati che intendono utilizzare il logo devono presentare una sola etichetta per ogni prodotto certificato biologico e inviare il modulo di notifica al Bio-Siegel Information Centre del ministero. I punti vendita che commercializzano al dettaglio prodotti recanti il logo Bio-Siegel non sono tenuti ad alcuna registrazione, purché non etichettino né preparino i prodotti o salvo che non siano operatori controllati (cfr. www.bio-siegel.de). 206 non conformi alle norme comunitarie e nazionali vigenti in materia di etichettatura dei prodotti biologici. Questi reati sono puniti con pene detentive fino a un anno e con la contestuale confisca di tali prodotti, ai sensi del Codice penale (§ 74 bis) e delle norme penali tedesche vigenti. Il logo Bio-Siegel è presente su decine di migliaia di prodotti biologici tedeschi e di importazione542. L’uso del logo, di norma, è espressamente richiesto dagli importatoti tedeschi in quanto costituisce un potente strumento di valorizzazione del prodotto sul mercato interno; tutte le campagne pubbliche di promozione dell’agricoltura e dei prodotti biologici insistono sul logo tanto che la sua notorietà presso i consumatori non scende mai in nessuna indagine al di sotto dell’80% degli intervistati543. Secondo il governo tedesco, le misure comunitarie e nazionali di sostegno al settore hanno stimolato l’aggregazione delle filiere e gli sbocchi commerciali, mentre gli investimenti per la promozione del consumo, con l’utilizzo del logo nazionale nelle campagne di comunicazione, hanno sostenuto lo sviluppo della domanda interna544; proprio per questo motivo, il BMELV ha dichiarato di voler continuare a promuovere l’utilizzo del logo Bio-Siegel, specificando che il logo rimane invariato quando è utilizzato insieme al logo biologico UE545. 1.8. I marchi delle «Comunidades autónomas» spagnole (c.d. marchi regionali) In Spagna l’agricoltura biologica, adottata in via poneristica negli anni 546 ’70 , ha conosciuto un’iniziale fase di sviluppo nel decennio successivo, 542 Al 31 dicembre 2011 risultano 4.009 aziende tedesche ed estere autorizzate all’uso del logo su 63.803 prodotti (Ibidem). 543 Secondo l’ultimo sondaggio condotto nel 2008 dalla Società di ricerche di mercato di Norimberga, l’87 % dei tedeschi conoscono il logo Bio-Siegel (informazioni disponibili sulla home page del sito: www.bio-siegel.de). 544 Le campagne di comuinicazione sono svolte nel rispetto degli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale, con riguardo, in particolare, alla pubblicità dei prodotti agricoli (cfr. supra nota 393), senza alcun riferimento diretto all’origine dei prodotti biologici (IAMB-INTERBIO, cit.). 545 Cfr. www.bio-siegel.de. 546 Alla fine degli anni ’70 alcuni giovani agricoltori, soprattutto piccoli risicoltori localizzati in Catalogna e Murcia, si erano organizzati in cooperative per produrre con metodo biologico per 207 caratterizzato dall’operatività delle associazioni private che hanno messo a punto i primi standard di produzione547 e offerto agli agricoltori opportunità commerciali sul mercato estero548. Se, nel 1988, l’estensione del campo di applicazione delle norme sulla vite da vino ai prodotti biologici può configurarsi quale primo intervento normativo spagnolo di settore549, è l’anno successivo, con un decreto ministeriale, che viene riconosciuta a livello istituzionale la denominazione generica «Agricultura Ecológica» («agricoltura biologica») e vengono fissate a livello l’autoconsumo e per i mercati locali cittadini, tanto che, nel 1975, era già disponibile un primo assortimento di prodotti biologici e dietetici in alcuni negozi a Barcellona (IAMB-INTERBIO, Scheda Spagna, 2011, www.interbio.it/scheda-paese,207,208,13,spagna.htm). 547 I primi standard privati sono stati predisposti dall’«Associazione Vida Sana» nel 1982 e nel 1984 e dal «Coordinamento Agricoltura Biologica» (CAE) nel 1984 e nel 1985 [VIGANÒ, L’agricoltura biologica in Spagna, in ABITABILE e VIGANÒ, a cura di, op. cit., in corso di pubblicazione]. 548 L’iniziale orientamento degli agricoltori verso questa pratica agricola sostenibile era dettato, in effetti, non tanto da una filosofia di vita quanto piuttosto dalle opportunità di sviluppo che si aprivano sul mercato estero, in particolare in Germania, Gran Bretagna e Paesi scandinavi, grossi Paesi importatori dove era maggiormente sviluppata l’attenzione ambientalista e salutista dei consumatori (GIUCA, La commercializzazione di prodotti biologici, cit., 2009, pp. 129-130.). In quegli anni, in particolare, le associazioni nazionali di supporto all’agricoltura biologica hanno indotto numerosi agricoltori a convertirsi a questo metodo di produzione, supportandoli nella sottoscrizione di contratti con trader stranieri in modo da assicurare la collocazione delle produzioni sul mercato estero, dal momento che i consumi interni in questa nicchia erano piuttosto contenuti (GONZÁLVEZ, Organic Farming in Spain, 2007, www.organic-europe.net/country_reports/spain). 549 Si tratta del regio decreto 759/88 (Real Decreto 759/1988, de 15 de julio) che ha incluso i prodotti vitivinicoli ottenuti senza l’uso di sostanze chimiche di sintesi nel regime delle denominazioni di origine dettato dalla legge spagnola 25/70, recante lo statuto della vigna, del vino e degli alcolici (Ley 25/197, de 2 de dicembre, Estatuto de la Viña, del Vino y los Alcoholes). Sul punto: VIGANÒ, L’agricoltura biologica in Spagna, cit., 2011, in corso di pubblicazione. La legge 25/70 e il decreto 157/88, relativi alle condizioni alle quali un vino può ricevere una «denominación de origen» (denominazione di origine) o una «denominación de origen calificada» (denominazione di origine qualificata), sono stati oggetto di un ricorso sollevato in sede comunitaria da alcuni Stati membri secondo i quali «una normativa applicabile ai vini cui è attribuita una denominazione di origine, che subordini l’uso del nome della regione di produzione come denominazione di origine all’imbottigliamento in tale regione, costituisce una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all’esportazione ai sensi [dell’art. 34 del TFUE]». La Corte di giustizia ha respinto il ricorso ritenendo che «l’obbligo di imbottigliamento nella regione di produzione, inteso a preservare la notevole reputazione del vino recante la denominazione d’origine potenziando il controllo delle sue caratteristiche particolari e della sua qualità, è giustificato come misura di tutela della denominazione d’origine di cui gode l’insieme dei produttori del settore vitivinicolo della detta regione, per i quali essa riveste un’importanza decisiva, e deve essere considerato conforme al diritto comunitario, malgrado i suoi effetti restrittivi sugli scambi, in quanto costituisce un mezzo necessario e proporzionato per raggiungere l’obiettivo perseguito, nel senso che non esistono misure alternative meno restrittive idonee a conseguirlo» (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 16 maggio 2000, causa C-388/95, Regno del Belgio contro Regno di Spagna, in Raccolta della giurisprudenza, 2000 p. I-03123). 208 nazionale, sulle orme di Francia, Austria e Danimarca, norme specifiche per l’etichettatura dei prodotti biologici550. Ma la vera novità del decreto del 1989 che, pur finalizzato a regolamentare e favorire lo sviluppo commerciale di questi alimenti ha dato luogo a un difficile periodo di accettazione e applicazione551, è stata l’istituzione del Consiglio di regolamentazione dell’agricoltura biologica (Consejo Regulador de la Agricultura Ecologica - CRAE), organo statale dell’allora ministero dell’agricoltura (Ministerio de Agricultura, Pesca y Alimentación - MAPA), che accentrava le funzioni di monitoraggio e controllo sulla produzione biologica, essendo l’unico organismo di controllo e certificazione riconosciuto a livello nazionale. Il CRAE rilasciava, ai fini della commercializzazione, il marchio collettivo nazionale di certificazione e garanzia, istituito ai sensi della legge spagnola sui marchi552, il cui uso era obbligatorio nell’etichettatura dei prodotti confezionati per identificare sul mercato interno i prodotti biologici ottenuti in Spagna a norma di legge e controllati dal CRAE stesso. Il logo (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), parte integrante del marchio collettivo pubblico, era un rettangolo orizzontale a sfondo bianco con cornice verde al cui interno compariva la dicitura «AGRICULTURA ECOLÓGICA» («AGRICOLTURA BIOLOGICA»), un sole e un prato stilizzati, i riferimenti al CRAE e il numero dell’operatore certificato 553. Tale logo assegnava, pertanto, una forte valenza di riconoscibilità al prodotto biologico spagnolo, offrendo la garanzia di un controllo istituzionale sulla conformità del prodotto agli standard fissati per legge. 550 Decreto del ministero dell’agricoltura, della pesca e dell’alimentazione del 4 ottobre 1989 [Orden ministerial de 4 de octubre de 1989 por la que se aprueba el Reglamento de la Denominación Genérica «Agricultura Ecológica» y su Consejo Regulador, in Boletín Oficial del Estrado (BOE) n. 239/89]. 551 PICAZOS e PARRA, Organic Agriculture in Spain, Bad Dürkheim (Germany), 2000, p. 268. 552 Si tratta della prima legge sui marchi (Ley 32/1988), alla quale ha fatto seguito il regolamento di esecuzione nel 1990 (Real Decreto 645/1990 de 18 de mayo de 1990, por el que se aprueba el Reglamento para la ejecución de la Ley 32/1988 de 10 de noviembre de marcas, modificado por Real Decreto 441/1994 de 11 de marzo de 1994), pubblicato in BOE n. 125/90 (UAMI, op. cit., 2010, pp. 27-28). 553 PICAZOS e PARRA, op. cit., 2000, p. 268. 209 Per effetto del regio decreto 1852/93 che, a seguito dell’entrata in vigore del reg. (CEE) n. 2092/91, ha adeguato le precedenti norme nazionali per la produzione biologica a quelle comunitarie554, il CRAE ha cambiato il significato del suo acronimo in Commissione di regolamentazione dell’agricoltura biologica (Comisión Reguladora de Agricultura Ecologica CRAE), in seno al MAPA, ed ha cambiato anche le sue funzioni (art. 7.1 del regio decreto), divenendo organo consultivo per le autorità competenti in materia di normativa, ricerca, sostegno e controllo della produzione biologica555. In base al regio decreto - e nell’ambito del processo di decentramento amministrativo spagnolo iniziato nel 1993 e completato nel 1997 556 - le competenze della CRAE in materia di controllo e certificazione in agricoltura biologica sono state trasferite alle Comunità autonome (Comunidades autónomas - CCAA), ripartizioni territoriali analoghe alle Regioni557, alle quali compete la materia agricoltura. La CRAE, pertanto, ha continuato ad operare come organismo unico pubblico di controllo e certificazione, autorizzando il rilascio del marchio nazionale obbligatorio da apporre sui prodotti certificati a norma di legge fino al marzo 1996, anno in cui, finito il trasferimento delle sue funzioni alle Comunità autonome, il marchio collettivo nazionale ha cessato di esistere558. Intanto, le Comunità autonome hanno provveduto alla creazione di singoli organismi pubblici di controllo e certificazione tra il 1993 e il 1999, sul modello di quello unico preesistente (ovvero del vecchio CRAE) e a sviluppare, tramite questi organismi, propri marchi pubblici di certificazione e garanzia dei prodotti biologici, i cui loghi, in una prima fase, riprendevano il 554 Regio decreto 1852/93 sui prodotti agricoli e sull’indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari (Real Decreto 1852/1993, de 22 de octubre, sobre producción agrícola ecológica y su indicación en los productos agrarios y alimenticios) (cfr. http://noticias.juridicas.com/base_datos/Admin/rd1852-1993.html). 555 GONZÁLVEZ, op. cit., 2007. 556 Ibidem. 557 La Spagna è costituita da 17 Comunidades autónomas: Andalucía, Aragona, Asturie, Baleari, Canarie, Cantabria, Castiglia La Mancia, Castiglia e León, Catalogna, Estremadura, Galizia, Madrid, Murcia, Navarra, La Rioja, Paesi Baschi, Comunità Valenzana (cfr. www.marm.es). 558 FERSINO, a cura di, Il mercato dei prodotti da agricoltura biologica in Europa, Bari, 1999, p. 221. 210 logo nazionale, con l’acronimo CRAE integrato o sostituito da quello del proprio organo di controllo pubblico559, in attesa che il MIPA adottasse, sulla base dell’art. 3.2 del regio decreto 1852/93, un logotipo quale simbolo nazionale da poter includere nei marchi delle Comunità autonome. Ai sensi del reg. (CE) n. 834/07, il ministero dell’agricoltura, oggi Ministero dell’ambiente e delle aree rurali e marine (Ministerio de medio ambiente y medio rural y marino - MARM), è l’autorità nazionale competente per le attività di controllo e per il coordinamento dell’applicazione delle norme comunitarie. Alle Comunità autonome competono l’organizzazione e supervisione del sistema di certificazione e monitoraggio della produzione biologica a livello “regionale” (ovvero a livello della propria ripartizione territoriale), tramite le proprie autorità competenti, che sono i Consigli (Consejos) o i Comitati (Comités) dell’agricoltura biologica. Consigli e Comitati sono agenzie territoriali a maggioranza di capitale pubblico - che varia, a seconda dei casi, dal 60 al 90% del bilancio totale (fanno eccezione l’Aragona, dove la partecipazione pubblica è del 50%, e l’Andalusia, dove il capitale è a maggioranza privata) - che hanno ottenuto il riconoscimento come OdC per operare nel territorio di loro competenza e che dipendono, rispettivamente, dalla giunta o dal dipartimento dell’agricoltura della stessa Comunità autonoma o direttamente dalla sua direzione generale560. L’attività di controllo e certificazione dei prodotti biologici avviene in ogni Comunità autonoma sia tramite le strutture e il personale tecnico specializzato del proprio Consiglio o Comitato dell’agricoltura biologica, sia tramite ispettori 559 PICAZOS e PARRA, op. cit., 2000, p. 268. I Consigli e i Comitati operano con regole simili nell’organizzare e supervisionare il sistema di certificazione per l’agricoltura biologica e consigliare il governo “regionale” in azioni politiche; entrambe le strutture hanno al loro interno una rappresentanza ampia di stakeholder (produttori, trasformatori, distributori e loro associazioni, associazioni di consumatori) che partecipano per il 10-40% al capitale sociale ottenendone in cambio i servizi (controllo e certificazione, attività di promozione, ecc.) e solo alcuni posti sono riservati alle autorità “regionali”, che non hanno diritto di voto. I membri sono eletti ogni quattro anni dagli operatori biologici certificati i quali, naturalmente, non partecipano ai compiti di ispezione, svolti da squadre speciali formate da dipendenti dei Consigli/Comitati e/o da consulenti professionali in qualità di ispettori accreditati in base alla norma tecnica EN 45011 (cfr. supra nota 350) (GONZÁLVEZ, op. cit., 2007). 560 211 accreditati, designati o autorizzati dalla Comunità stessa561. Sono operativi, ma non in tutte le Comunità autonome, anche OdC privati autorizzati a svolgere attività di controllo e certificazione in una o più Comunità autonome, ai quali gli operatori posono decidere liberamente - e in alternativa - di rivolgersi ma, in tal caso, non otterranno il logo “regionale”562. Quello spagnolo, pertanto, è un sistema di controllo e certificazione misto, affidato a strutture di controllo e certificazione pubbliche e private che operano, come in Lussemburgo e Regno Unito, secondo ruoli e responsabilità definiti dalla normativa nazionale, ovvero tramite il MARM e le CCAA. La CRAE è rimasto organo consultivo pubblico-privato del MARM, operando come forum strutturato in diversi gruppi di lavoro comprendenti gli stakeholder del settore biologico (produttori, trasformatori, distributori e loro associazioni, associazioni di consumatori), le autorità centrali e locali, nonché i direttori degli enti “regionali” di certificazione pubblica, ovvero Consigli e Comitati (pertanto tutte le CCAA vi sono rappresentate)563. Questo organismo, tra il 1993 e il 1997, ha sviluppato e definito norme tecniche, ovvero schemi privati, nei seguenti settori, non ancora coperti - in quel periodo - dalla 561 L’attività di controllo e certificazione dei prodotti biologici è svolta, su tutti gli operatori della filiera, dai Consigli per l’agricoltura biologica in nove Comunità autonome (Asturie, Baleari, Canarie, Cantabria, Castiglia e León, Catalogna, Galizia, Murcia e Navarra) e dai Comitati per l’agricoltura biologica in tre Comunità autonome (Aragona, Madrid e Comunità Valenzana). In Estremadura tale attività è svolta da due OdC, ovvero dal Consiglio per l’agricoltura biologica, esclusivamente per i controlli sulla trasformazione, distribuzione e importazione, e dal Comitato per l’agricoltura biologica, esclusivamente per i controlli sulla produzione. In Andalucía, l’attività di certificazione e controllo è svolta dal Comitato divenuto nel 2002 OdC a maggioranza privata, mentre in tre Comunità autonome (La Rioja, Paesi Baschi e Castiglia La Mancia), l’amministrazione “regionale” si è impegnata in questi compiti, senza creare un Consiglio o un Comitato, ma avvalendosi di squadre di ispettori privati accreditati dall’ENAC (Entidad Nacional de Acreditación) al controllo e alla certificazione, designati dal dipartimento dell’agricoltura della stessa Comunità autonoma o direttamente dalla sua direzione generale (Ibidem). 562 Oltre ai 15 OdC pubblici isituiti in 14 Comunità autonome (due in Estremadura), e alle tre strutture pubbliche (un dipartimento agricoltura e due direzione generali, riconosciuti quali OdC) che “ottemperano”, tramite ispettori accreditati, alla funzione di controllo e certificazione pubblica, vi sono altri 9 OdC privati, anche esteri, autorizzati dal MARM ad operare in alcune Comunità autonome (EUROPEAN COMMISSION - OFIS, op. cit., 2011). 563 «Poiché negli ultimi anni la CRAE è stata scarsamente operativa, con il Piano di azione per l’agricoltura biologica 2007-2010, azione 3.2 “miglioramento dell’interlocuzione tra il MARM e le Comunità autonome”, si è provveduto a sostituire il quadro degli incontri stabilito dalla CRAE (ormai dismessa) con lo sviluppo di un calendario ufficiale delle riunioni con le Comunità autonome e i vari referenti del settore, sia per contribuire a determinare la posizione spagnola in seno al dibattito comunitario sull’agricoltura biologica, sia per monitorare il piano di azione attraverso la creazione di specifici gruppi di lavoro» [VIGANÒ, L’agricoltura biologica in Spagna, cit., 2011, in corso di pubblicazione]. 212 normativa comunitaria: produzione di conigli; trasformazione di mangimi composti per animali; latte e lavorazione di prodotti caseari; tracciabilità dei prodotti a base di carne e carne nei macelli; produzione di cervo; acquacoltura564. Tutti questi standard, che sono stati successivamente - e liberamente adottati e attuati dalle Comunità autonome nei propri territori 565, hanno di fatto collocato la Spagna tra i primi Paesi in Europa a recepire istituzionalmente, anche se solo a livello “regionale”, standard di produzione in questi ambiti. Nel 2006 la CRAE ha anche sviluppato uno standard di produzione per il vino prodotto da uve biologiche, adottato a livello nazionale566. I marchi pubblici, istituiti a partire dal 1993 dalle Comunità autonome per il tramite del proprio OdC (Consiglio o Comitato dell’agricoltura biologica), in conformità dell’allora direttiva 89/104/CEE (e dell’attuale art. 15.2, direttiva 2008/95/CE), sono marchi collettivi geografici - c.d. marchi regionali in ambito UE - che si configurano nella legislazione spagnola, come in quella francese e danese, quali marchi di garanzia (della natura e della qualità dei prodotti). Infatti, la vigente legge 71/01 sui marchi567, che ha sostituito quella precedente del 1988, sottolinea, all’art. 68, il ruolo di controllo e garanzia di qualità assegnato al titolare del marchio di garanzia (marca de garantia)568; tale marchio, pertanto, presenta caratteristiche più incisive del marchio collettivo (marca colectiva), dal quale si differenzia, disciplinato all’art.62 come segue: «Se entiende por marca colectiva todo signo susceptible de rapresentation grafica, […] que se sirva para distinguir en el mercato los productos o servicios 564 GONZÁLVEZ, op. cit., 2007. Le autorità di controllo e certificazione “regionali” hanno potuto sviluppare e realizzare i propri standard in alcune aree specifiche, come nel caso delle norme per l’acquacoltura, inizialmente adottate nel 2007 nella sola Andalusía, perchè messe a punto, nell’ambito del CRAE, dalla struttura di controllo e certificazione ìandalusa (CAAE), prima struttura spagnola pubblica “regionale” ad essere stata riconosciuta come OdC nel 1993, diventata nel 2002 struttura privata (VIGANÒ, op. ult. cit., 2011, in corso di pubblicazione). 566 MINISTERIO DE AGRICULTURA, PESCA Y ALIMENTACIÓN, Acuerdo de la Conferencia Sectorial de Agricultura de las CCAA y del MAPA de 23 de octubre de 2006, Directrices para la elaboración de vino procedente de uvas de agricultura ecológica. 567 Ley 17/2001, de 7 de diciembre, de Marcas in BOE, Bolletin oficial del estado, núm. 294, de 8 de diciembre de 2001. 568 ALBISINNI e CARRETTA, op. cit., 2003, pp. 13-14. 565 213 delos membres de una association titular de la marca de los productois o serviciosde otras empresas». I marchi “regionali” spagnoli, il cui uso avviene su base volontaria, sono rilasciati ai prodotti alimentari biologici di origine nazionale, comunitaria, extra-comunitaria in regime di equivalenza o meno a condizione che la produzione sia conforme alla normativa comunitaria in materia e alla legge spagnola sulla produzione biologica (regio decreto 1852/93 e successive modifiche e integrazioni569), che non prevede ulteriori standard di produzione oltre a quelli comunitari. Gli operatori certificati, inoltre, sono assoggettati alle diposizioni d’uso del marchio e relative sanzioni, contenuti in specifici provvedimenti normativi emanati dalle autorità competenti o eventualmente contenuti nelle leggi regionali che regolano il settore agro-alimentare nel suo complesso570. Analogamente al marchio rosso danese, a quello finlandese e a quello ceco, però, gli alimenti devono essere prodotti e/o confezionati e/o etichettati nel territorio di competenza del Consiglio o Comitato dell’agricoltura biologica che effettua il controllo e la certificazione e rilascia il marchio. Pertanto, un’impresa estera che volesse utilizzare il logo di una determinato OdC “regionale” (Consiglio o Comitato) deve richiedere ed effettuare il reimballaggio e l’etichettatura dei propri prodotti presso una società localizzata nella Comunità autonoma dove è autorizzato ad operare l’OdC e, dunque, soggetta al suo controllo571, non essendo i prodotti di importazione confezionati autorizzati all’utilizzo dei loghi “regionali”. Dei 18 loghi “regionali” attuali (raffigurati nell’allegato a questo lavoro), il cui uso è autorizzato dagli organismi di controllo e certificazione di ciascuna 569 Il regio decreto 1852/93 è stato modificato, all’art. 2, dal regio decreto 506/01 e, all’art. 3, dal regio decreto 1614/05 (cfr. http://noticias.juridicas.com/base_datos/Admin/rd18521993.html). 570 Le leggi “regionali” relative al settore agro-alimentare sono state emanate in Catalogna (legge 14/03), in Castiglia La Mancia (legge 7/07) e nei Paesi Baschi (legge 17/08) e regolamentano, tra l’altro, «le attività finalizzate a incentivare i marchi di certificazione di origine e qualità» e «il quadro delle organizzazioni di gestione della qualità, degli organismi di ispezione e controllo e degli organismi di sanzione che si occupano dei vari regimi di qualità» (MONTESI, Verso un miglioramento delle politiche per la qualità agroalimentare in UE, Bordeaux Cedex, 2011, pp. 52-54). 571 Riguardo alle importazioni di prodotti biologici da Paesi terzi vigono le norme comunitarie in materia e la responsabilità dei controlli è affidata al MARM (GONZÁLVEZ, op. cit., 2007). 214 Comunità autonoma (due, come detto, sono in Estremadura), 15 sono parti integranti di marchi collettivi pubblici gestiti dai corrispondenti enti “regionali” di certificazione (Consigli e Comitati dell’agricoltura biologica), mentre 3 sono parti integranti di marchi collettivi pubblici rilasciati dalle Comunità autonome di Castiglia La Mancia, La Rioja e Paesi Baschi per il tramite del rispettivo Dipartimento dell’agricoltura della stessa Comunità autonoma o direttamente dalla sua Direzione generale a seguito dell’attività di controllo e certificazione degli operatori biologici svolta, sul proprio territorio, da ispettori accreditati in base alla norma europea EN 45011. Il logo del marchio collettivo dell’Andalucía è l’unico rimasto fedele, nella grafica, a quello originario del CRAE, e presenta al suo interno l’acronimo dell’OdC (CAAE) e la dicitura «Andalucía Agricultura Ecológica». I loghi degli altri 17 marchi collettivi pubblici, di cui sono titolari le rispettive Comunità autonome e il cui rilascio è affidato ai rispettivi OdC, hanno forma rettangolare verticale e presentano tutti lo stesso motivo centrale su sfondo bianco, un’immagine raffigurante il cielo azzurro con la mezzaluna bianca e il sole giallo, sopra a una striscia marrone scuro o chiaro (la terra), percorsa da tre strisce diagonali verdi (l’erba). Ciascuno dei loghi “regionali” pubblici è corredato dal nome per esteso, orizzontale o verticale, dell’organismo pubblico di certificazione e controllo e/o dall’acronimo dello stesso organismo e/o dal nome o dall’acronimo della Comunità autonoma; in alcuni casi all’interno del logo sono riprodotti gli stemmi “regionali” e/o il logo stesso è accompagnato dai termini riferiti alla produzione biologica ammessi dal reg. (CE) n. 834/07 (art. 23 e allegato). Proprio riguardo all’uso dei termini relativi al metodo di produzione biologica, occorre dire che la mancanza di armonizzazione della terminologia utilizzata in Europa, unitamente all’esistenza «di svariate e diverse “scuole” e “filosofie”, alimentata dalla presentazione eterogenea dei prodotti, dall’amalgama tra prodotti biologici, prodotti di qualità, prodotti naturali, […nonchè] l’uso fraudolento delle indicazioni relative al metodo di produzione 215 biologico [hanno] contribuito ad accrescere […] una certa confusione, tra i consumatori, sul significato del concetto stesso di agricoltura biologica»572. La crescita del mercato spagnolo, fino a metà degli anni ’90 regolare ma lenta, ha scontato tutto questo, anche perchè la stessa legge spagnola ha contribuito a non fare chiarezza. Nel 2001, infatti, il governo spagnolo ha deciso di riconoscere esclusivamente il termine «ecológico» o il suo prefissoide «eco» per designare prodotti alimentari aventi caratteristiche legate al metodo di produzione biologico a norma di legge, escludendo l’utilizzo del termine «bio» riferito al metodo biologico in Europa ma divenuto abituale nel settore alimentare spagnolo per designare anche prodotti alimentari non biologici573. Dal 1° gennaio 2006, a seguito di una sentenza della Corte di giustizia574, i termini «ecológico» e «biológico» in lingua spagnola sono tornati ad essere riservati alle produzioni conformi alle norme comunitarie sulla produzione biologica ed equivalenti, come dispone oggi l’allegato al reg. (CE) n. 834/07; tali termini, pertanto, possono essere usati nell’etichettatura e pubblicità dei prodotti certificati biologici a norma di legge. I loghi degli OdC delle Comunità autonome riconducono le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto alla diversità del metodo di produzione, senza alcun legame diretto con l’origine “regionale”, potendo le materie prime 572 LE GUILLOU e SCHARPÉ, L’agricoltura biologica. Guida sulla normativa comunitaria, Comunità Europee, Lussemburgo, 2000, pp. 4-5. 573 L’art. 3, n. 1, del regio decreto 1852/93 disponeva quanto segue: «In conformità all’art. 2 del regolamento (CEE) n. 2092/91, un prodotto riporta indicazioni riferite a un metodo di produzione biologico allorché sull’etichetta, nella pubblicità o nei documenti commerciali il prodotto o i suoi ingredienti sono indicati con il termine “ecológico”. È inoltre possibile utilizzare, oltre alle indicazioni specifiche suscettibili di applicazione da parte delle Comunità autonome, le diciture: “obtenido sin el empleo de productos químicos de sínteses”, “biológico”, “orgánico”, “biodinámico”, e i rispettivi composti, oltre alle denominazioni “eco” e “bio”, accompagnate o meno dal nome del prodotto, da quello dei suoi ingredienti o dal suo marchio commerciale». L’articolo è stato modificato dal regio decreto 11 maggio 2001, n. 506 (BOE 26 maggio 2001, n. 126, pag. 18609) come segue:: «In conformità a quanto stabilito dall’art. 2 del regolamento (CEE) n. 2092/91, nella versione di cui al regolamento (CE) n. 1804/99, in ogni caso si ritiene che un prodotto rechi indicazioni concernenti un metodo di produzione biologico quando il prodotto stesso, i suoi ingredienti o le materie prime per mangimi sono contrassegnati, nell’etichetta, nella pubblicità o nei documenti commerciali, mediante il termine “ecológico” o il suo prefissoide “eco”, da soli o in combinazione con il nome del prodotto, dei suoi ingredienti o del marchio commerciale». 574 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sentenza 14 luglio 2005, causa C107/04, Comité Andaluz de Agricultura Ecológica e Administración General del Estrado, Comité Aragonés de Agricultura Ecológica, in Raccolta della giurisprudenza, 2005, p. I07137. 216 biologiche essere di importazione. Infatti, i riferimenti alla Comunità autonoma e/o all’eventuale stemma “regionale” riportati nei loghi hanno il solo scopo di indicare l’autorità pubblica “regionale” responsabile del controllo, per cui, un prodotto etichettato, ad esempio, in Catalogna è soggetto al controllo e alla certificazione dall’autorità di controllo competente della Catalogna (CCPAE) ed è autorizzato ad usare il corispondente logo con i riferimenti di tale autorità, anche se le materie prime biologiche sono di origine non nazionale. In tal senso, i loghi svolgono la funzione propria del marchio collettivo geografico pubblico, ovvero attestano che il prodotto è controllato e certificato da un OdC pubblico (o privato, accreditato e autorizzato dalle autorità competenti secondo le norme comunitarie), il cui nome è riportato nel logo stesso, al fine di garantire che il prodotto marchiato soddisfi i requisiti richiesti dalla normativa comunitaria e spagnola in materia di prodotti biologici, ovvero contiene il 95% di ingredienti di origine agricola biologici. Riguardo alla possibilità di usare i marchi biologici spagnoli insieme al logo dell’UE, le Comunità autonome non forniscono indicazioni particolari, mentre il MARM consente ai prodotti certificati che utilizzano un logo regionale l’uso, accanto al logo comunitario, di un ulteriore logo (raffigurato nell’allegato a questo lavoro) con la dicitura «Agricoltura biologica - Spagna», del tutto identico nella forma, nei colori e nel motivo centrale ai loghi “regionali”575. Risulta ovvio che tale logo, riportando in etichetta l’indicazione del Paese di origine, potrà essere apposto solo se non meno del 98% delle materie prime agricole di cui il prodotto è composto provengono dalla Spagna, unico caso previsto, ai sensi del reg. (CE) n. 834/07, art. 24.1 c), in cui la dicitura «Agricoltura UE» che compare obbligatoriamente in etichetta può essere sostituita o integrata dall’indicazione del Paese di origine delle materie prime del prodotto biologico. I loghi “regionali” spagnoli - che godono di elevata notorietà presso i consumatori spagnoli, in quanto il sistema di controllo pubblico è percepito come affidabile576 - sono, di fatto, utilizzati in misura significativa dal sistema delle imprese spagnolo, soprattutto dalle piccole imprese, per poter fruire 575 576 Cfr. www.marm.es/es/alimentacion/temas/la-agricultura-ecologica/default.aspx. GONZÁLVEZ, op. cit., 2007. 217 gratuitamente delle iniziative pubbliche di valorizzazione e promozione, svolte dalle Comunità autonome attraverso una specifica attività di gestione diversa da quella di certificazione e controllo, affiancate da campagne istituzionali ministeriali577. Nonostante la politica nazionale, «fortemente ispirata ai principi di coordinamento dei diversi operatori del settore, pubblici e privati, e di integrazione e complementarità delle diverse attività avviate e degli strumenti disponibili»578, abbia favorito l’attuale crescita dell’agricoltura biologica in Spagna, tanto che oggi il Paese è leader nella UE per superficie coltivata a biologico579, ad essa non corrisponde un’adeguato sbocco dei prodotti sul mercato580, soprattutto interno. 577 Il MAPA ha gestito la campagna istituzionale triennale «Cultura-Lógica, Agricultura Ecológica, es cultura, es de lógica» cofinanziata dall’UE, con un budget di 2,3 milioni di euro, nell’ambito del secondo programma nazionale per l’agricoltura biologica (Plan Integral de Actuaciones para el Fomento de la Agricultura Ecológica 2007-2010). Coerentemente con gli Orientamenti agli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale e, in particolare, agli aiuti alla pubblicità dei prodotti agricoli (cfr. supra nota 393), gli obiettivi sono stati quelli di stimolare il consumo di prodotti biologici, accrescere la consapevolezza del logo europeo tra i produttori e informare i consumatori sui prodotti biologici, naturalmente astenendosi da riferimenti all’origine nazionale o regionale dei prodotti (www.vivelagriculturaecologica.com). 578 A partire dalla seconda metà dgli anni ’90, in Spagna come nel resto d’Europa, l’agricoltura biologica ha beneficiato degli aiuti comunitari al settore, in particolare dei premi alla superficie nell’ambito delle misure di accompagnamento alla PAC - reg. (CEE) n. 2078/92, attuato dal regio decreto 51/95 (Real Decreto 51/1995 de 20 de enero 1995, BOE 8/2/95) - e, successivamente, degli aiuti agli agricoltori attraverso le misure agroambientali attivate nei periodi di programmazione della politica di sviluppo rurale. A ciò si è aggiunta una incisiva politica nazionale al settore agricolo e all’agricoltura biologica, che nel nuovo millennio si è tradotta nel primo programma di azione a favore del settore per il triennio 2004-2006, nonchè specifiche azioni di sostegno sviluppate anni prima da diverse Comunità autonome attraverso propri piani di settore (poiché alcune Comunità hanno ricevuto contributi comunitari solo a partire dal 1998), che hanno dato luogo a una produzione molto diversificata in tutte le ripartizioni territoriali, con la presenza di organizzazioni di agricoltori convenzionali con sezioni di sostegno per la conversione all’agricoltura biologica, alle quali si rivolgono la maggior parte degli agricoltori spagnoli interessati al biologico. Accanto a 20 associazioni nazionali di produttori biologici, 16 delle quali aderiscono all’IFOAM, esistono attualmente almeno un centinaio di organizzazioni private a sostegno del settore biologico a livello locale o di alcuni specifici segmenti della filiera (compresi gli OdC e i consumatori), metà delle quali sono piccolissime associazioni di produttori o di produttori e consumatori (VIGANÒ, L’agricoltura biologica in Spagna, cit., 2011, in corso di pubblicazione). 579 Secondo i dati del MARM, la superficie nazionale a biologico, nel 2010, pari al 6,6% della SAU totale nazionale, ha raggiunto 1.650.866 ettari (+3%), davanti all’Italia (1.113.742), mentre le aziende certificate biologiche, pari a 27.767 (la metà di quelle italiane) hanno fatto segnare una modesta crescita rispetto al 2009 (+0,5%). Il 63% della superficie biologica è costituita da prati e pascoli, mentre tra le coltivazioni prevalgono i seminativi; i cereali, in particolare, rappresentano il 27,5% delle coltivazioni biologiche, mentre i foraggi verdi l’11%. Si distinguono coltivazioni di olivo (21% del totale biologico), frutta secca (15%) e vite (9,5%). Il comparto zootecnico biologico è ancora poco sviluppato, con 5.091 aziende (pari al 18% del totale delle aziende biologiche), di cui il 49% con allevamenti bovini e il 37% con 218 Il peso del segmento dei prodotti biologici sul mercato alimentare spagnolo, infatti, è ancora molto modesto, a fronte di un volume d’affari del settore significativamente trainato dalle esportazioni581. Al di fuori del canale del dettaglio specializzato, con numerosi negozi specializzati nelle principali città, l’offerta di prodotti biologici è scarsa e la gamma poco ampia, soprattutto nei supermercati, dove si vende meno del 50% dei prodotti biologici ma, ciononostante, il consumo di questi prodotti, a fronte di un calo dei prodotti alimentari in una dinamica di crisi generale dei consumi, è comunque recentemente cresciuto582. 2. Il caso italiano In Italia risalgono alla fine degli anni ’60 le prime esperienze pionieristiche in agricoltura biologica583. Il decollo di questo settore, però, è avvenuto a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80, quando sempre più agricoltori e ovi-caprini. Le aziende con allevamenti di equini, suini e pollame rappresentano, complessivamente, poco più dell’11%, mentre meno del 4% sono quelle che praticano l’apicoltura (MINISTERIO DE MEDIO AMBIENTE Y MEDIO RURAL Y MARINO, Estadísticas 2010, Agricultura ecológica - España, 2011, p. 6 ss.). 580 Infatti, il 63% di terreno destinato alla produzione biologica non è coltivato (cfr. supra nota 556), indice che agli agricoltori conviene convertirsi al biologico più per ottenere il sostegno comunitario che per collocare i prodotti sul mercato (Ibidem). 581 I prodotti alimentari biologici rappresentano, in quantità, lo 0,2% delle vendite di alimenti e, in valore, lo 0,4%, con un mercato complessivo domestico di circa 37 milioni di euro, a fronte di un volume d’affari che, con le esportazioni, sale a oltre 900 milioni di euro (MINISTERIO DE MEDIO AMBIENTE Y MEDIO RURAL Y MARINO, El mercado de Productos Ecológicos - Año 2010, 2011, p. 8). In particolare, la produzione ortofruttticola biologica dell’Andalusía - la Comunità autonoma dove si concentra oltre la metà degli ettari nazionali destinati a coltivazioni biologiche - si è sviluppata notevolmente negli ultimi dieci anni proprio per effetto dell’esportazione verso i maggiori mercati UE, ovvero Germania, Francia e Gran Bretagna (IAMB - INTERBIO, Scheda Spagna, cit., 2011). 582 L’evoluzione delle vendite di prodotti alimentari biologici in Spagna nella seconda metà del 2010, rispetto allo stesso periodo del 2009, mostra una crescita dell’11,7%, a fronte di un calo dello 0,9% delle vendite di alimenti (MINISTERIO DE MEDIO AMBIENTE Y MEDIO RURAL Y MARINO, op. ult. cit., 2011, p. 8). 583 Nel secondo dopoguerra, mentre Draghetti cominciò a diffondere la sua impostazione «fisiologica» dell’agricoltura sul piano della ricerca, aprì a Milano la sezione italiana dell’«Associazione per l’Agricoltura Biodinamica»; tuttavia, è nel ventennio successivo che Garofano sviluppò il metodo «organico-minerale», dettando le basi tecnico-scientifiche dell’agricoltura biologica italiana e ispirando la nascita, nel 1969, della prima associazione seguace di questo metodo, l’«Associazione Suolo e Salute» (cfr. capitolo I, paragrafo 2). 219 consumatori spinti dalla ricerca del miglioramento della qualità della vita e di consumo hanno condiviso il metodo biologico584. Il primo standard privato a livello nazionale per l’agricoltura biologica è stato messo a punto nel 1985 dalla Commissione «Cos’è biologico», fondata due anni prima da rappresentanti di organizzazioni e associazioni di consumatori di molte Regioni italiane585 mentre, nel 1988, la costituenda «Associazione italiana per l’agricoltura biologica» (AIAB) ha redatto specifiche norme tecniche di settore586. In quegli anni, in assenza di una legge-quadro statale e in attesa di imminenti sviluppi a livello comunitario, «l’ordine logico delle fonti appare […] completamente sovvertito. Il legislatore regionale si affanna a elaborare progetti di legge [stabilendo regole in ordine alla possibilità di immettere sul mercato prodotti agricoli ottenuti con metodo biologico], con contenuto non sempre analogo tra Regione e Regione, e c’è il concreto rischio che tale attività diventi addirittura frenetica, nell’ottica di una captatio benevolentiae di stampo preelettorale. […] Il legislatore statale sembra procedere con un ritmo molto più lento e prudente, nella consapevolezza, più o meno esplicita, delle opportunità di attendere gli imminenti sviluppi della disciplina, quanto meno di indirizzo, a livello comunitario»587. Tra l’altro, le difficoltà che incontra l’iter normativo delle misure da prendere a livello nazionale sono in parte dovute «alla pretesa di ridisegnare l’orizzonte agricolo del paese indirizzandolo verso una radicale trasformazione: da un’agricoltura chimico-dipendente ad un’agricoltura “sana”, “pulita”, “bella dentro” […] sull’onda emotiva dell’emergenza ecologica»588. Lazio, Veneto, Marche, Umbria e Friuli-Venezia Giulia sono state le prime Regioni in Italia - e in Europa - a varare norme specifiche in materia, tra il 584 KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 112. CRISTIANI, Agricoltura biologica tra economia e diritto, cit., 1990, p. 317. 586 AIAB, Norme italiane di agricoltura biologica, in AAM (Agricoltura, Alimentazione, Medicina) Terra nuova, 1998, supplemento, n. 41. 587 CRISTIANI, op. ult. cit., 1990, pp. 325-327. 588 Ivi, p. 329. 585 220 1989 e il 1990, anticipando sia il regolamento comunitario che la legge nazionale, seguite, nel 1991, dalle Province autonome di Bolzano e Trento589. Tali leggi, in seguito riformulate in ottemperanza alle norme comunitarie e nazionali, presentavano lacune sia sul terreno giuridico che sul piano formale e sostanziale se non anche incongruità sotto il profilo scientifico-agronomico590. In primo luogo, il riferimento a «denominazioni» peculiari riservate ai prodotti ottenuti secondo i princìpi stabiliti da leggi regionali era in netto contrasto con la materia dei marchi e delle denominazioni di origine, riservata alla potestà legislativa dello Stato (D.P.R. 616/77); in secondo luogo, veniva meno una delle finalità della legislazione alimentare, ovvero la tutela del consumatore dalle frodi in commercio, in quanto i prodotti definiti «biologici» da ciascuna legge regionale, ottenuti nella Regione secondo una metodologia 589 Si tratta delle seguenti leggi: legge della Regione Lazio «Norme per l’agricoltura biologica» del 27 luglio 1989, n. 51 (abrogata dalla legge regionale «Norme per l’agricoltura biologica» del 30 giugno 1998, n. 21); legge della Regione Veneto «Norme relative all’agricoltura biologica e all’incentivazione della lotta fitopatologica» del 6 aprile 1990, n. 24 (abrogata dalla legge regionale «Abrogazione di norme regionali del settore primario» del 13 agosto 2004, n. 18); legge della Regione Marche «Disciplina dell’agricoltura biologica» del 13 dicembre 1990, n. 57 (abrogata dalla legge regionale «Nuove norme per l’agricoltura biologica» del 4 settembre 1992, n. 44, a sua volta abrogata dalla legge regionale «Disciplina dell’agricoltura biologica» del 29 dicembre 1997, n. 76; quest’ultima è stata modificata dalla legge regionale «Disciplina dell’agricoltura biologica» del 3 aprile 2002, n. 4, ed è affiancata dalla legge regionale «Disposizioni in materia di salvaguardia delle produzioni agricole, tipiche, di qualità e biologiche» del 4 marzo 2004, n. 5); legge della Regione Umbria «Norme per la produzione ed il controllo dei prodotti biologici e per l’incentivazione del metodo di lotta integrata per la salvaguardia dell’ambiente.» del 28 dicembre 1990, n. 46 (abrogata dalla legge regionale «Norme per la produzione ed il controllo dei prodotti biologici» del 28 agosto 1995, affiancata dalla legge regionale «Disposizioni in materia di coltivazione, allevamento, sperimentazione, commercializzazione e consumo di organismi geneticamente modificati e per la promozione di prodotti biologici e tipici» del 20 agosto 2001, n. 21); legge della Regione Friuli-Venezia Giulia «Norme per l’esercizio e la promozione dell’agricoltura biologica nel Friuli-Venezia Giulia» del 29 dicembre 1990, n. 59 (abrogata dalla legge regionale «Disciplina e promozione dell’agricoltura biologica» del 24 luglio 1995, n. 32); legge provinciale di Bolzano «Norme per la regolamentazione e promozione dell’agricoltura biologica e della produzione integrata» del 30 aprile 1991, n. 12 (abrogata dalla legge provinciale «Norme per l’agricoltura biologica» del 20 gennaio 2003, n. 3); legge provinciale di Trento «Norme in materia di agricoltura biologica» del 10 giugno 1991, n. 13 (abrogata dalla legge provinciale «Sostegno dell’economia agricola, disciplina dell’agricoltura biologica e della contrassegnazione di prodotti geneticamente non modificati» del 28 marzo 2003, n. 4) (GIUCA, La normativa del settore, cit., 2011, pp. 51-52). 590 CRISTIANI, op. ult. cit., 1990, p. 326. Ivi l’A. rimanda al commento critico alle prime proposte di una normativa regionale in materia di agricoltura biologica in VIGNOLI, Note sulla qualifica di imprenditore agricolo «biologico», in Rivista di diritto agrario, 1988, I, p. 255 e in CARROZZA, La partenza falsa delle leggi agrarie, in Rivista di diritto agrario, 1989, I, p. 650, nonché, riguardo all’uso di ferormoni e della nicotina in agricoltura biologica ammessi dalla legge 50/89 della Regione Lazio, alle perplessità sollevate dall’illustre entomologo SUSS, Biologico, la legge del Lazio è fonte solo di confusione, in Terra e vita, 1990, 2, p. 4. 221 «controllata», non tutelavano il consumatore dall’immissione sul mercato di altri prodotti che si proclamavano biologici ma non erano soggetti ad alcun controllo perché provenienti da Regioni che non si erano dotate di una disciplina al riguardo591. Del resto, sotto il profilo sanzionatorio le leggi regionali facevano riferimento a provvedimenti di carattere amministrativo (sospensione o radiazione dall’albo delle aziende agricole biologiche) e richiamavano genericamente al reato di frode in commercio. Spesso, inoltre, nei parametri agronomici e zootecnici di classificazione delle aziende agricole contenuti negli allegati alle leggi regionali, ai fini dell’iscrizione nell’elenco delle aziende biologiche e dell’ammissione al regime di aiuti previsto, si trovavano «divieti» e «proibizioni» ma anche «raccomandazioni» e «consigli», questi ultimi, ovviamente, privi di effetti giuridici592. In seguito all’approvazione del reg. (CEE) n. 2092/91, le proposte operative delle Regioni Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Liguria, Sardegna e Toscana, che erano all’esame degli organi competenti per una sollecita approvazione, furono riviste alla luce delle norme comunitarie e approvate prima della legge nazionale593. Nel frattempo, il Ministero dell’agricoltura e foreste, in assenza di un quadro uniforme nazionale per le ispezioni e la certificazione, mise a punto, sulla base del decreto ministeriale del 25 maggio 1992, n. 338, una task force 591 Ibidem. Ivi, p. 327. 593 Si tratta delle seguenti leggi: legge della Regione Basilicata «Produzione biologica ed integrata di prodotti agricoli» del 16 marzo 1993, n. 12 (abrogata dalla legge regionale «Disciplina delle produzioni biologiche regionali» del 27 aprile 1999, n.14); legge della Regione Campania «Disciplina, promozione e valorizzazione dell’agricoltura biologica» del 12 agosto 1993, n. 24; legge della Regione Emilia-Romagna «Norme per l’agricoltura biologica» del 26 ottobre 1993, n. 36 (abrogata dalla legge regionale «Norme per il settore agro-alimentare biologico» del 2 agosto 1997, n. 28); legge della Regione Liguria «Agricoltura biologica» del 1° febbraio 1994, n. 5 (abrogata dalla legge regionale «Interventi per la valorizzazione e la promozione dell’agricoltura di qualità e norme sul metodo di produzione biologico» del 6 dicembre 1999, n. 36, a sua volta abrogata dalla legge regionale «Disciplina degli interventi per lo sviluppo, la tutela, la qualificazione e la valorizzazione delle produzioni biologiche liguri» del 28 dicembre 2009, n. 66); legge della Regione Sardegna «Norme per la promozione e la valorizzazione dell’agricoltura biologica» del 4 marzo 1994, n. 9; legge della Regione Toscana «Norme per l’agricoltura biologica» del 19 aprile 1994, n. 31 e legge regionale «Norme per le produzioni animali ottenute mediante metodi biologici» del 12 aprile 1995, n. 54 (abrogate dalla legge regionale «Disposizioni in materia di controlli per le produzioni agricole ottenute mediante metodi biologici» del 16 luglio 1997, n. 49 (GIUCA, La normativa del settore, cit., 2011, pp. 51-52). 592 222 nazionale di ispettori a tempo pieno, realizzando un sistema di notifica centralizzato e un sistema di approvazione nazionale degli organismi di controllo privati594. Contro tale decreto, però, Toscana, Umbria, EmiliaRomagna e Lombardia ricorsero in giudizio, sollevando un conflitto di attribuzioni in ordine all’attuazione da parte dello Stato di regolamenti comunitari relativi a materie di competenza regionale; la Corte costituzionale, con sentenza n. 278 del 18 maggio 1993, accolse i motivi e annullò il decreto. Al fine di risolvere la controversia, la legge 146/94 confermò temporaneamente l’approvazione degli OdC autorizzati in base alle procedure previste dal decreto ministeriale, fino all’emanazione della legge nazionale di attuazione del regolamento comunitario595. In seguito, la Corte costituzionale, con sentenza n. 126 del 17 aprile 1996, ha riconosciuto alle Province autonome di Trento e Bolzano la possibilità di autorizzare OdC privati a svolgere attività di controllo e certificazione nel proprio territorio596. Il quadro normativo nazionale in materia di produzione ed etichettatura dei prodotti biologici è stato successivamente definito dal decreto legislativo 220/1995, attuativo degli articoli 8 e 9 del reg. (CEE) n. 2092/91, che 594 EUROPEAN COMMISSION, Report on a mission carried out in Italy from 15 to 19 May 2000, Application of Council Regulation (EEC) No 2092/91 on organic farming in Italy, 2000, p. 5. 595 La legge n. 146 del 22 febbraio 1994 «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 1993», all’art. 42.3, rubricato «Produzione agricola con metodo biologico: criteri di delega», autorizzava ad operare sul territorio italiano gli OdC indicati nell’elenco pubblicato nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, serie C, n. 284, del 21 ottobre 1993 (cfr. supra nota 571), e confermava la validità degli atti già da questi adottati. Per un approfondimento, cfr. SGARBANTI, Il metodo di produzione biologico, cit., 2003, p. 727 ss. 596 Il Ministero dell’agricoltura e foreste, in data 31 dicembre 1992, con sei decreti autorizzò altrettanti organismi di controllo a operare sul territorio italiano in relazione a quanto previsto dall’art. 15 del reg. (CEE) n. 2092/91. Si trattava dei seguenti OdC: «Associazione italiana per l’agricoltura biologica» (AIAB), al quale è subentrato l’«Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale» (ICEA), fondato da AIAB nel 2000; «Associazione Suolo e Salute»; «Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici» (CCPB); «Demeter-Associazione per la tutela della qualità biodinamica in Italia», in seguito divenuto CODEX; «Associazione marchigiana per l’agricoltura biologica» (AMAB), in seguito divenuto «Istituto Mediterraneo di Certificazione» (IMC); «Bioagricoop/Bioagricert». Il 14 maggio 1993 venne riconosciuto un altro organismo di controllo, «AgriEcoBio» (al quale sono subentrati in seguito «QC & I» ed «Ecocert»), portando a sette gli OdC autorizzati a operare in Italia (PINTON e ZANOLI, Organic Farming in Italy 2004, www.organic-europe.net/country_reports/italy/default.asp#history). Al 31 dicembre 2011, gli OdC autorizzati dal MIPAAF a svolgere il controllo sugli operatori biologici in Italia sono 15, di cui tre autorizzati ad operare nella sola provincia di Bolzano (cfr. supra nota 350). 223 specificava e aggiungeva ulteriori adempimenti per gli operatori italiani rispetto a quanto previsto dal regolamento comunitario, per meglio identificare i prodotti biologici sul mercato597; il decreto, come precisato dalla nota MIPAAF dell’8 dicembre 2008, n. 8371, non è decaduto con l’entrata in vigore del reg. (CE) n. 834/07 (direttamente applicabile, come è ovvio, sull’intero territorio comunitario) ma continua ad applicarsi, pertanto, in attuazione degli artt. 27-31 del nuovo regolamento, salvo eventuali incompatibilità con le successive norme comunitarie in materia di produzione biologica598. Come 597 Decreto legislativo «Attuazione degli articoli 8 e 9 del regolamento (CEE) n. 2092/91 in materia di produzione agricola ed agro-alimentare con metodo biologico» del 17 marzo 1995, n. 220, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 129 del 5 giugno 1995. Il decreto definiva i livelli di competenze e responsabilità tra le amministrazioni pubbliche interessate (Ministero e Regioni), operando scelte importanti in materia di sistema di controllo, modalità di accesso e presentazione delle produzioni, provvedendo alla piena applicazione delle disposizioni comunitarie. In base al decreto, il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali (oggi MIPAAF) garantiva (e garantise, oggi) l’applicazione del sistema di controllo attraverso il riconoscimento di OdC privati, strutturati operativamente sul territorio nazionale, ai quali era demandato (ed è demandato, oggi) il ruolo del controllo sulle attività degli operatori di agricoltura biologica. Ai fini del riconoscimento, un apposito Comitato nazionale (istituito con decreto del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali del 15 novembre 1995) valutava (e valuta, oggi) la capacità dell’organismo in termini di esperienza, affidabilità e obiettività nonché di dotazioni di risorse, personale e attrezzature di carattere tecnico e amministrativo. Il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali (oggi MIPAAF), le Regioni e le Provincie autonome svolgevano (e svolgono, oggi) l’importante funzione di garanzia del rispetto delle regole del “sistema agricoltura biologica”, attraverso le attività di coordinamento (aspetti tecnici, amministrativi e sanzionatori) e di vigilanza sull’operato degli OdC riconosciuti. Sugli attuali compiti delle autorità pubbliche, cfr. supra nota 348. 598 Dopo l’entrata in vigore del reg. (CE) n. 834/07 e dei successivi regolamenti comunitari sulla produzione biologica, l’etichettatura e i controlli, sono stati emanati specifici decreti di recepimento, preceduti e/o seguiti da norme transitorie, e ulteriori provvedimenti esplicativi o prescrittivi. Innanzi tutto, il decreto MIPAAF del 27 novembre 2009, n. 18354, contiene le disposizioni per l’attuazione dei regolamenti (CE) n. 834/07, n. 889/08 e n. 1235/08 e definisce alcuni parametri fondamentali che il legislatore comunitario ha demandato agli Stati membri; il decreto è stato preceduto dalle circolare ministeriale del 23 ottobre 2009, n. 23177, relativa all’attribuzione, da parte dell’autorità competente, del numero di riferimento agli organismi di controllo ai sensi dell’art. 58 del reg. (CE) n. 889/08, dalla circolare ministeriale dell’11 novembre 2009, n. 17281, contenente chiarimenti sulle norme comunitarie, con particolare riguardo agli adempimenti dei distributori a marchio in materia di etichettatura (adempimenti confermati dalla nota MIPAAF del 21 ottobre 2011, n. 20421), e dal d.m. dell’11 novembre 2009, istituitivo del «Gruppo di lavoro per l’agricoltura biologica», organo di supporto tecnico scientifico alle attività istituzionali del MIPAAF, formato da rappresentanti dell’Università e degli Enti di ricerca italiani. In seguito è stato aggiornato l’elenco dei fertilizzanti ammessi in agricoltura biologica (d.m. del 18 dicembre 2009, n. 29819), sono state fissate alcune procedure e sono stati chiariti alcuni aspetti: produzione parallela (produttori che gestiscono più unità di produzione nella stessa zona), le cui deroghe spettano alle Regioni (nota MIPAAF dell’11 maggio 2010, n. 7318); etichettatura dei prodotti biologici confezionati (d.m. 28 maggio 2010, n. 1032); utilizzo e commercializzazione di formulati commerciali (corroboranti) ai sensi delle norme vigenti per l’agricoltura convenzionale e ai sensi del reg. (CE) n. 889/08 (nota MIPAAF del 5 agosto 2011, n. 15884); ritorno in conversione in caso di utilizzo di sementi non biologiche e con deroga ENSE («Ente nazionale sementi», le cui funzioni sono 224 confluite nell’«Istituto Nazionale per la Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione-INRAN») non presentata o rifiutata (nota MIPAAF del 13 ottobre 2011, n. 19638); gestione delle deroghe per l’utilizzo delle sementi o materiale di moltiplicazione convenzionali (nota MIPAAF del 23 novembre 2011, n. 23504); termini di presentazione di disciplinari privati di produzione di alimenti per animali da compagnia (pet food) ai sensi dell’art. 95 del reg. (CE) n. 889/08 (nota MIPAAF del 23 novembre 2011, n. 23506). Il comunicato MIPAAF del 22 gennaio 2010, n. 750, e le note ministeriale del 3 agosto 2010, n. 12096, e del 17 novembre 2011, n. 23070, hanno integrato il d.m. 18354/09 con la prescrizione relativa alle rotazioni poliennali e agli avvicendamenti colturali con leguminose, mentre le disposizioni per l’individuazione dei requisiti minimi delle procedure di prelievo di campioni di prodotti biologici da analizzare in attuazione dei regolamenti comunitari sono state dettate dal d.m. 29 ottobre 2010, n. 16954, successivamente modificato dal d.m. del 17 ottobre 2011, n. 19942, e integrato dalla nota ministeriale del 4 febbraio 2011, n. 1874, con riferimento ai campioni da analizzare in apicoltura. Riguardo alle importazioni di prodotti biologici da Paesi terzi, dopo le norme transitorie dettate dalla circolare MIPAAF del 23 dicembre 2009, n. 16157, il d.m. 28 maggio 2010, n. 8515 (integrato dal d.m. del 26 ottobre 2010, n. 16620), ha modificato gli articoli 8 e 11 del precedente d.m. 18354/09, relativamente alle indicazioni obbligatorie in materia di etichettatura e alle modalità di rilascio dell’autorizzazione all’importazione da Paesi extra UE ai sensi dell’art. 19 del reg. (CE) n. 1235/08; inoltre, il d.m. del 20 gennaio 2011, n. 700, consente, per la richiesta di autorizzazione, anche l’utilizzo della posta elettronica certificata, mentre, in alternativa al certificato di conferma/riconoscimento dell’OdC, secondo la nota MIPAAF n. 22604 del 14 novembre 2011, può essere allegata una relazione di valutazione elaborata dall’organismo di accreditamento o dell’autorià competente del Paese terzo. In materia di produzione di animali e alghe marine dell’acquacoltura biologica, è stato emanato il d.m. 30 luglio 2010, n. 11954, di attuazione del reg. (CE) n. 710/09, affiancato dal d.m. 30 luglio 2010, n. 11955, relativo alla notifica per tale attività; al fine di garantire un’applicazione omogenea sul territorio nazionale delle disposizioni comunitarie in materia, le norme si soffermano sull’idoneità del mezzo acquatico e sul piano di gestione sostenibile che l’operatore deve presentare contestualmente alla notifica, da aggiornare annualmente, contenente i seguenti elementi: piano di monitoraggio ambientale (qualità dell’acqua e rilascio nutrienti); protocolli delle fasi del ciclo produttivo; capacità produttiva dell’impianto; rilascio di nutrienti; attività di manutenzione impianti; gestione rifiuti; gestione documentazione; gestione salute degli animali; misure di difesa e prevenzione dai predatori; misure per minimizzare il rischio di fughe e gli impatti sull’ecosistema. Con la comunicazione del 18 maggio 2011, n. 11632, l’ICQRF ha dettagliato alcuni adempimenti in merito al controllo e alla certificazione in acquacoltura biologica, mentre il MIPAAF ha fornito la percentuale di novellame non biologico ai sensi dell’art. 25 sexies, par. 3, del reg. (CE) n. 889/08 (nota del 7 febbraio 2011, n. 2005) e altri chiarimenti in materia [nota dell’11 maggio 2010, n. 7319, e nota del 13 settembre 2011, n. 17197, secondo la quale per «area perimetrale» di cui al reg. (CE) n. 889/208, art. 25 opties, lett. b) deve intendersi la zona che rappresenta l’«interfaccia terraacqua»] ed ha autorizzato gli OdC che effettuano attività di controllo e certificazione in acquacoltura (comunicazione del 27 ottobre 2011, n. 24869). Il d.m. del 13 gennaio 2011, n. 309, sostituendo il d.m. del 23 dicembre 2010, n. 20804, è intervenuto a colmare la lacuna sulla “soglia numerica” esatta (0,01 mg/kg, quale limite inferiore) relativa alla presenza di residui di prodotti fitosanitari, oltre la quale non è concedibile la certificazione di produzione biologica, anche in caso di contaminazione accidentale e tecnicamente inevitabile, mentre la nota ministeriale dell’11 luglio 2011, n. 13349, detta, al riguardo, i criteri applicativi per i prodotti biologici trasformati e la nota MIPAAF del 21 ottobre 2011, n. 20422, include le infusioni di erbe essiccate tra i prodotti di origine vegetale e animale per i quali deve essere presa come riferimento tale soglia numerica. Infine, il d.m. del 26 luglio 2011, n. 14458, ha fissato le procedure e i compiti delle amministrazioni e dei soggetti interessati dalle notifiche di segnalazioni di irregolarità, da parte degli Stati membri, nell’ambito del sistema informativo OFIS in agricoltura biologica. (cfr. supra nota 363) Da ultimo, il MIPAAF, con nota del 7 dicembre 2011, n. 25255, ha chiarito che il termine “vino” (cfr. supra nota 291) di cui all’art. 27.1 del reg. (CE) n. 889/08 e dell’art. 8.1.4 del d.m. n. 18354/09 è da riferirsi a tutti i prodotti del settore del vino di cui all’allegato I parte XII del reg. (CE) n. 1234/07 sull’OCM unica (GIUCA, La normativa del settore, cit., 2011, p. 50 e aggiornamenti SINAB, www.sinab.it). 225 riportato nell’allegato al reg. (CE) n. 834/07, «biologico» è il termine riservato, in lingua italiana, al metodo di produzione come disciplinato dal regolamento stesso e che, pertanto, può essere usato nell’etichettatura e pubblicità dei prodotti certificati a norma di legge. Tra il 1996 e il 2001 le Regioni che non avevano ancora legiferato in materia si sono dotate di una disciplina dell’agricoltura biologica, caratterizzata per lo più da disposizioni particolareggiate per l’attuazione della legge nazionale 220/95599, eccetto Puglia, Calabria e Sicilia, attualmente prive di norme regionali in materia. Successivamente, con l’evolversi della normativa comunitaria e nazionale, le Regioni hanno modificato, integrato o sostituito le norme precedentemente emanate. La legislazione regionale, oltre a dettagliare le norme comunitarie e nazionali di indirizzo in materia, individua gli strumenti e le azioni locali per valorizzare e promuovere l’agricoltura biologica e i prodotti biologici; essendo l’agricoltura materia di competenza legislativa e amministrativa delle Regioni (art. 117, Costituzione), a queste competono l’elaborazione, l’attuazione e la relativa realizzazione di politiche, programmi e iniziative riguardanti lo sviluppo dell’agricoltura biologica, attraverso la predisposizione di strumenti e strategie di intervento secondo le linee di programmazione regionale e gli indirizzi generali comunitari e nazionali. In molti casi, le Regioni prevedono la concessione di contributi alle associazioni regionali degli operatori biologici per la realizzazione di programmi specifici di assistenza tecnica e di divulgazione per le aziende agricole, di trasformazione, promozione e commercializzazione dei prodotti biologici e di educazione alimentare600. 599 Si tratta delle seguenti leggi: legge della Regione Molise «Norme per l’agricoltura biologica» del 13 marzo 1996, n.17 (abrogata dalla legge regionale «Norme per l’agricoltura biologica» dell’11 novembre 2005, n. 38); legge della Regione Abruzzo «Interventi nel settore agricolo, agroalimentare, della pesca marittima e acquacoltura» del 30 maggio 1997, n. 53; legge della Regione Piemonte «Norme per lo sviluppo dell’agricoltura biologica» del 25 giugno 1999, n. 13; legge della Regione Valle d’Aosta «Disposizioni in materia di controlli e promozione per le produzioni agricole ottenute mediante metodi biologici» del 16 novembre 1999, n. 36 (abrogata dalla legge regionale «Disposizioni in materia di allevamento bovino, ovino e caprino e di prodotti derivati, ottenuti mediante metodi biologici» del 17 aprile 2011, n. 8); legge della Regione Lombardia «Norme per gli interventi regionali in agricoltura» del 7 febbraio 2000, n.7, integrata dalla delibera Giunta Regionale «Approvazione programma di interventi per lo sviluppo dell’agricoltura biologica» del 12 dicembre 2003, n. 15533 (Ivi, pp. 51-52). 600 Ivi, p. 52. 226 In aggiunta alle norme di produzione comunitarie, nazionali e regionali, alcuni OdC hanno prodotto documenti esplicativi per gli operatori ed hanno definito propri standard di produzione601; numerosi comitati e piccole associazioni di agricoltori, produttori e consumatori biologici operanti in ogni Regione si sono riorganizzati e molti di loro sono entrati a fra parte della rete federativa «FederBio», fondata nel 1992. Negli anni ’90, il settore biologico italiano ha mostrato uno dei più grandi tassi medi di crescita annuale in Europa in termini di ettari coltivati a biologico602. L’interesse degli agricoltori e delle imprese di trasformazione per la certificazione dei prodotti e dei processi produttivi, a seguito degli incentivi alla produzione previsti fino al 2000 attraverso le misure agro-ambientali di accompagnamento alla PAC [reg. (CEE) n. 2078/92], erogati massicciamente nel periodo 1993-1996, nonché le opportunità di commercio che si aprivano all’estero, hanno collocato l’Italia tra i Paesi tradizionalmente esportatori, insieme a Francia, Spagna e Portogallo603. Contestualmente, lo sviluppo del settore è stato trainato anche da una maggiore attenzione del mercato interno, dovuta alle prime campagne nazionali per la promozione del settore. Un primo impulso “istituzionale” al consumo di prodotti biologici risale alla legge 488/99 («legge finanziaria 2000») che ha istituito il «Fondo per lo sviluppo dell’agricoltura biologica e di qualità» (art. 59)604 e ha disposto, per mense pubbliche di scuole e ospedali, l’utilizzo nelle 601 Standard privati più restrittivi rispetto alle norme comunitarie sono certificati dagli OdC ICEA, CCPB, IMC, Bios, QCertificazioni Codex (riguardo allo standard «Garanzia AIAB») e dall’OdC IMC (riguardo allo standard «Garanzia AMAB»); secondo questi due standard, tra l’altro, le aziende non possono essere miste (biologiche e convenzionali) e le materie prime devono essere coltivate in Italia (tranne caffè, cacao, frutta tropicale e spezie) (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 117). 602 La superficie coltiva a biologico, in Italia, è passata da circa 5.000 ettari nel 1985 a 960.000 ettari nel 1999, circa 200 volte di più (FAO, op. cit., 2001). 603 Ibidem. 604 L’articolo 59 della legge 488/99 è stato modificato dall’art. 123 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 («legge finanziaria 2001»), che ha ampliato le finalità del Fondo, e successivamente dall’art. 3 della legge 7 marzo 2003, n. 38, recante disposizioni in materia di agricoltura che ha istituito il «Fondo per la ricerca nel settore dell’agricoltura biologica e di qualità» (reso operativo con il d.m. del 18 luglio 2007) per il finanziamento di programmi di ricerca annuali, nazionali e regionali, in materia di agricoltura biologica, nonché in materia di sicurezza e salubrità degli alimenti. «Al Fondo per lo sviluppo dell’agricoltura biologica e di qualità, sono assegnate, attualmente, le seguenti finalità: il sostegno allo sviluppo della produzione agricola biologica mediante incentivi agli agricoltori e agli allevatori che attuano la riconversione del metodo di produzione, nonché mediante adeguate misure di assistenza 227 diete giornaliere di prodotti biologici, tipici e tradizionali, nonché di prodotti DOP e IGP605. Non sussistendo, all’epoca, altra forma di sostegno nazionale al tecnica e codici di buona pratica agricola per un corretto uso dei prodotti fitosanitari e dei fertilizzanti; il sostegno all’informazione dei consumatori sugli alimenti ottenuti con metodi di produzione biologica, sugli alimenti tipici e tradizionali, nonché su quelli a denominazione di origine protetta DOP e IGP» (GIUCA, L’agricoltura biologica nella politica comunitaria e nazionale, in MIPAAF, Strategie per l’agricoltura biologica nei PSR 2007-2013, Roma, 2009, p. 18). 605 Il Friuli-Venezia Giulia, con la legge regionale «Norme per l’introduzione dei prodotti biologici, tipici e tradizionali nelle mense pubbliche e per iniziative di educazione alimentare» dell’8 agosto 2000, n. 15 (modificata dalla legge regionale del 17 ottobre 2007, n. 25), è stata la prima Regione a rendere operative a livello locale le direttive della legge finanziaria del 2000 per l’impiego di prodotti biologici nella ristorazione collettiva. A seguire: Veneto, con la legge regionale «Norme in materia di consumo di alimenti nelle mense prescolastiche e scolastiche, negli ospedali e nei luoghi di cura e di assistenza» del 1° marzo 2002, n. 6; Marche, con la legge regionale del 3 aprile 2002, n. 4, che ha modificato la legge regionale «Disciplina dell’agricoltura biologica» del 29 dicembre 1997, n.76; Basilicata, con la legge regionale «Disposizioni per la precauzione in materia alimentare e per la coltivazione, l’allevamento, la sperimentazione e la commercializzazione di organismi modificati e di prodotti da essi derivati. Norme per la produzione dei prodotti biologici, tipici e tradizionali nelle mense pubbliche» del 20 maggio 2002, n. 18; Toscana, con la legge regionale «Norme per l’introduzione dei prodotti biologici, tipici e tradizionali nelle mense pubbliche e programmi di educazione alimentare nella Regione Toscana», attuata con decreto presidente giunta regionale (PGR) del 7 gennaio 2003, n. 2 (modificato dal decreto PGR del 23 febbraio 2007, n.11); Emilia-Romagna, con la legge regionale «Norme per l’orientamento dei consumi e l’educazione alimentare e per la qualificazione dei servizi di ristorazione collettiva» del 4 novembre 2002, n. 29; Lazio, con la legge regionale «Disposizioni in materia di alimentazione consapevole e di qualità nei servizi di ristorazione collettiva per minori» del 6 aprile 2009, n. 10; Provincia autonoma di Trento, con la legge provinciale «Norme per la promozione dei prodotti agricoli e agroalimentari a basso impatto ambientale e per l’educazione alimentare e il consumo consapevole» del 13 novembre 2009, n. 13; Sardegna, con la legge regionale per la promozione della qualità dei prodotti della Sardegna, della concorrenza e della tutela ambientale del 19 gennaio 2010, n. 1 (www.sinab.it). Anche se non tutte le Regioni hanno legiferato in materia, sono centinaia i Comuni (ai quali spetta la gestione della ristorazione scolastica e la stesura del capitolato per l’appalto del servizio), a partire da quelli metropolitani (Roma, Bologna, Firenze, Milano, Napoli, Palermo e Venezia), che «hanno optato per l’introduzione degli alimenti biologici nella refezione scolastica. Il Comune di Roma ha recentemente deciso, a fronte di una politica di contenimento delle spese, con decorrenza 1° dicembre 2010, di sostituire molti alimenti biologici e DOP/IGP delle mense scolastiche con alimenti convenzionali a costi inferiori. Le mense utilizzano sia prodotti biologici a km zero e da filiera corta, sia prodotti biologici certificati del commercio equo e solidale [cfr. supra nota 81], con modalità diverse che vanno dai microprogetti che coinvolgono singole scuole - con i genitori che curano direttamente l’approvvigionamento dei prodotti - ai progetti in cui la presenza del biologico è limitata a pochi alimenti base e altri in cui, invece, il pasto è completamente biologico» (GIUCA, La normativa del settore, cit., 2011, p. 52). Tutti i prodotti biologici devono provenire da fornitori, ovvero aziende che consegnano direttamente o tramite vettore il prodotto alimentare nei centri di refezione (la cui ragione sociale è presente nel documento di trasporto che accompagna le derrate) che operano obbligatoriamente all’interno del regime di controllo e certificazione previsto dai reg. (CE) n. 834/07 e n. 889/08 e tali fornitori devono essere assoggettati ad uno degli OdC riconosciuti dal MIPAAF; i centri di preparazione e somministrazione dei pasti con ingredienti biologici, che al momento non sono obbligatoriamente inseriti nel sistema di controllo e certificazione suddetto, si possono far certificare secondo standard privati in modo da definire le pietanze come «biologiche» (NASI, Prodotti biologici nella ristorazione collettiva e criteri ambientali minimi, in News on line, 2011, www.ccpb.it/index.php?option=com_content&task=view&id=2247&Itemid=278). 228 mercato biologico, è stato deciso di incrementare tale fondo con una tassa annuale sui pesticidi606. Le dimensioni relativamente piccole della maggior parte degli operatori biologici e l’elevata volatilità dei prezzi e della domanda - anche a causa dei numerosi scandali alimentari di quegli anni e dell’esplosione del morbo della “mucca pazza” (BSE) - hanno accompagnato la fase iniziale del mercato nazionale del biologico, rendendolo un mercato a rischio607. A cavallo tra vecchio e nuovo millennio, però, si è verificato un cambiamento nella percezione dei prodotti biologici da parte dei consumatori italiani, con il passaggio da prodotti elitari a scelta di cultura, di stile di vita e di consumo sostenibile e consapevole, legato alla sicurezza alimentare e ambientale sulla scia delle crisi alimentari e delle zoonosi a forte impatto emotivo608. In quegli anni, l’ingresso dei prodotti biologici nella grande distribuzione ha contribuito largamente alla circolazione e all’incremento dei consumi; addirittura, nel 2001, il mercato italiano di questi prodotti ha mostrato una crescita tale da configurarsi come un vero e proprio boom, con un incremento rilevante delle aziende di trasformazione di quasi il 50% rispetto all’anno precedente e una crescita costante del settore negli anni successivi609. Al successo del biologico ha inoltre contribuito, negli ultimi anni, la nascita e il consolidarsi - in aggiunta ai canali tradizionali (vendita diretta, dettaglio specializzato, grande distribuzione) - di canali di distribuzione c.d. “alternativi”, come i ristoranti che valorizzano la cucina biologica, le mense scolastiche, l’agriturismo, l’e-commerce, i farmer’s markets e i gruppi di acquisto solidale (GAS)610. Oggi l’Italia occupa una posizione di avanguardia nel panorama biologico internazionale, collocandosi tra i dieci maggiori produttori mondiali e 606 Il c.d. «contributo annuale per la sicurezza alimentare» è stato introdotto dall’art. 59 della legge 488/09, modificato dall’art. 123 della legge 388/2000. Il contributo deve essere versato, a partire dal 2001, nella misura del 2% del fatturato dell’anno precedente relativo alla vendita di prodotti fitosanitari, fertilizzanti da sintesi e presidi sanitari indicati nella lista allegata al decreto MIPAF del 3 gennaio 2002, secondo le modalità di pagamento ivi indicate, ulteriormente dettagliate nella circolare MIPAF del 6 maggio 2002. 607 FAO, op. cit., 2001. 608 GIUCA, La commercializzazione di prodotti biologici, cit., 2009, p 132. 609 Tra il 1985 e il 2001, anno in cui è stato raggiunto il picco massimo degli operatori coinvolti nella filiera, le aziende biologiche sono passate da 600 a 60.509 (dati SINAB, www.sinab.it). 610 Riguardo ai canali “alternativi” e alla definizione delle tipologie cfr. supra note 260 e 261. 229 rappresentando il principale esportatore in Europa611; il nostro Paese, inoltre, detiene la leadership per numero di operatori nell’UE e si posiziona dietro alla Spagna per superficie interessata, dopo aver mantenuto per un decennio il primato europeo per numero di ettari coltivati a biologico612, le cui fluttuazioni si devono, principalmente, alla discontinuità degli aiuti erogati attraverso i programmi di sviluppo rurale613. L’agricoltura biologica sta oggi assumendo un’importanza crescente nel comparto produttivo agricolo nazionale, oltre a raccogliere ampio consenso tra i consumatori. Le aziende di produzione e le superfici sono storicamente concentrate in misura più rilevante nelle regioni del Sud, mentre le aziende di trasformazione e quelle miste sono localizzate in prevalenza nelle regioni settentrionali e centrali, aree in cui anche i consumi degli alimenti biologici confezionati presentano quote di mercato maggiori614. 611 L’Italia è leader mondiale nella produzione di ortaggi, cereali, agrumi, uva e olive biologici, nonché di vino da uve biologiche. Le esportazioni di prodotti biologici, soprattutto frutta e verdura, olio d’oliva, vino da uve biologiche, aceto balsamico e pasta, rappresentano circa un terzo del fatturato complessivo di prodotti biologici in Italia (850 milioni di euro nel 2009). Il più importante mercato di esportazione è l’Europa, in particolare Germania, Francia, Austria e Svizzera, mentre quantità significative di esportazioni interessano il Giappone e, in misura contenuta, gli Stati Uniti; nel 2009, attraverso un progetto di internazionalizzazione, le esportazioni hanno interessato supermercati e ristorazione specializzata in Brasile e Sud America (KILCHER et al., op. cit., 2011, pp. 113-114). 612 Dal 1998 al 2007 l’Italia è stato il Paese europeo con la più grande area coltivata a biologico e con il maggior numero di aziende biologiche; nel 2010 il numero di operatori, pari a 47.663, ha subito una contrazione dell’1,7%, mentre la superficie interessata, pari 1.113.742 ettari, si è mantenuta praticamente costante rispetto al 2009 (+0,6%) e corrisponde a circa il 9% della SAU nazionale. Quasi il 26% della superficie biologica è costituita da prati e pascoli mentre i principali orientamenti produttivi sono foraggio verde da seminativi (17,8%), cereali (17,5%), olive (12,6%), ortofrutta (8,9%) e uva (4,7%); le produzioni animali, con oltre 4 milioni di capi, vedono una prevalenza di avicoli (oltre 2,5 milioni), ovicaprini (746.873), bovini (207.015), suini (29.411) e api (113.932 arnie) (SINAB, Agricoltura biologica in cifre al 32/12/2010, 2011, pp. 2-11). 613 La riduzione delle superfici e la contrazione del numero delle aziende di produzione negli anni Duemila, sono dovuti all’abbandono del metodo di produzione biologico da parte di molti agricoltori, soprattutto al Sud, a seguito dell’esaurirsi degli incentivi previsti dalle misure di accompagnamento alla PAC. Nella maggior parte dei casi, le sovvenzioni all’agricoltura biologica hanno svolto il ruolo di sostegno diretto al reddito per le Regioni e le aree marginali, piuttosto che di aumento dell’offerta dei prodotti biologici, spesso venduti come convenzionali per evitare i costi della certificazione ai fini della commercializzazione. Le misure di incentivazione sono state poi riproposte nei regolamenti sul sostegno allo sviluppo rurale e si sono tradotte in azioni inserite, dal 2001, nei PSR (GIUCA, L’agricoltura biologica nella politica comunitaria e nazionale, cit, 2009, p. 10). 614 Nel 2010, secondo i dati provenienti dal panel delle famiglie ISMEA/Nielsen, gli acquisiti domestici di prodotti biologici confezionati sono cresciuti, in termini monetari, dell’11,6% rispetto al 2009, concentrandosi per il 72% nel Nord Italia (42% nelle Regioni del Nord-Ovest 230 Con la crescita del mercato interno, le importazioni di prodotti biologici sono aumentate di importanza615, tuttavia il consumo nazionale di questi prodotti, seppure in continua crescita, rimane ancora lontano dai livelli raggiunti in altri Paesi europei, come Danimarca, Austria e Germania616. Per lo sviluppo del settore, i macro-obiettivi generali e gli assi di intervento ritenuti strategici sono attualmente contenuti nel «Piano di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici» (PAN), il documento a valenza pluriennale adottato dal MIPAAF il 15 aprile 2005, le cui finalità si riallacciano a quelle del «Piano d’azione europeo per l’agricoltura biologica e gli alimenti biologici»617. Il PAN, che si affianca alle misure di sostegno agli agricoltori contenute come in tutti i Paesi UE nei PSR, è composto da 22 azioni raggruppate in quattro assi di intervento e si pone come obiettivi principali il posizionamento dei prodotti biologici sul mercato globale, ovvero di sostenere e 30% in quelle del Nord-Est), per il 20% nel Centro e solo per l’8% nel Sud (DE RUVO, Il mercato, in RETE RURALE NAZIONALE, cit., 2011, p. 28). 615 Si tratta di prodotti biologici che rappresentano circa il 20% dei consumi nazionali, la cui coltivazione non riesce a soddisfare la domanda interna come cipolle, carote, mele e pere o prodotti richiesti per effetto della globalizzazione delle abitudini alimentari, come i prodotti tropicali (banane, ananas, avocado, noci di cocco). È difficile stimare il valore e il volume complessivi delle importazioni: i dati sulle importazioni dai Paesi UE non sono disponibili, inoltre molte aziende non comprano direttamente da Paesi terzi, ma da altri importatori europei, soprattutto olandesi (KILCHER et al., op. cit., 2011, p. 115). Le importazioni di prodotti biologici da Paesi terzi in regime di equivalenza e da Paesi terzi non in regime di equivalenza autorizzati dal MIPAAF (cfr. supra nota 350), per i quali si hanno dati verificabili, sono frutta fresca e secca, ortaggi, cereali, colture industriali, prodotti trasformati, estratti naturali, aromatici e da condimento; nel 2010 le importazioni di questi prodotti sono aumentate in quantità del 49%, pari a 73.902 tonnellate. Cereali (grano tenero, grano duro e mais), colture industriali (soprattutto girasole) e prodotti trasformati (in particolare, zucchero di canna, cacao e caffè) risultano i prodotti biologici maggiormente importati nel 2010 da Paesi terzi non in regime di equivalenza autorizzati dal MIPAAF; in particolare, gli ortaggi provengono principalmente dall’Africa, i trasformati dall’America del Sud, i cereali dall’Europa non UE e dall’America del Nord, la frutta fresca e secca dall’Europa non UE e dall’America del Sud e le colture industriali dall’Europa non UE (SINAB, op. ult. cit., 2011, pp. 37-46). 616 Il mercato italiano degli alimenti biologici, che per dimensioni si colloca dietro a Germania (5,8 miliardi di euro), Francia (3 mld) e Gran Bretagna (2 mld), è cresciuto del 9,5% nel 2009, per un volume d’affari stimato in 1,5 miliardi di euro e una quota pari al 3% del mercato agroalimentare nazionale, molto lontano dalle quote della Danimarca (7,2%) e dell’Austria (6%). Nel 2009, la spesa pro capite per i consumi di alimenti biologici, in Italia, è stimata 25 euro, tra le più basse in Europa, a fronte dei 139 della Danimarca, dei 132 della Svizzera e dei 104 dell’Austria (WILLER e KILCHER, op. cit., 2011, pp. 28-30). Secondo proiezioni recenti più ottimistiche, il mercato del biologico italiano è stimato in circa 3 miliardi di euro, con circa 1,8 miliardi di vendite al dettaglio in negozi specializzati, supermercati, vendite dirette delle aziende agricole (in particolare olio, vino e ortofrutta), vendite a domicilio e gruppi d’acquisto (CRISTINI, Le principali determinanti dell’evoluzione dei prodotti biologici in Italia, Osservatorio sui consumi SANA, Università degli Studi di Parma, relazione presentata al 23° Salone internazionale del naturale, Bologna, 8-11 settembre 2011, www.sana.it). 617 Cfr. supra, nota 141. 231 e sviluppare la produzione biologica e le relative catene di approvvigionamento, migliorare i servizi per il settore biologico e accrescere l’informazione dei consumatori; il piano, a differenza di altri Paesi europei, non ha un obiettivo quantitativo618. Il PAN è finanziato dal Fondo per lo sviluppo dell’agricoltura biologica e di qualità, attraverso un apposito capitolo di spesa, isituito con la legge del 30 dicembre 2004, n. 311 («legge finanziaria 2005») 619. Per la sua attuazione sono stati elaborati specifici programmi di azione nazionale620, l’ultimo dei quali, il «Programma di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti 618 Il PAN si divide nei seguenti assi: «Asse 1 - Penetrazione sui mercati mondiali: le azioni sono finalizzate alla creazione e al rafforzamento di reti a livello internazionale e al supporto per la comunicazione per la partecipazione coordinata a eventi internazionali. Asse 2 Organizzazione di filiera e commerciale: le azioni puntano al consolidamento e all’incremento della base produttiva, attraverso l’adeguamento normativo e delle politiche e il miglioramento dei servizi alle imprese, e all’aggregazione dell’offerta per via telematica, con il sostegno all’interprofessione, l’organizzazione commerciale e lo sviluppo di nuove produzioni e mercati. Asse 3 - Aumento della domanda interna e comunicazione istituzionale: le azioni sono volte al miglioramento delle conoscenze e dell’immagine del settore e del prodotto, all’aumento degli acquisti pubblici e alla definizione di una politica fiscale incentivante. Asse 4 - Rafforzamento e miglioramento del sistema istituzionale e dei servizi: le azioni sono finalizzate al potenziamento della presenza di esperti negli ambiti decisionali comunitari e internazionali, all’adeguamento delle politiche della salute e ambientali, al miglioramento della sostenibilità ambientale e dei servizi, in particolar modo dei sistemi di gestione dati» (GIUCA, Il Piano di azione nazionale, in RETE RURALE NAZIONALE, cit., 2011, p. 55). 619 Inizialmente era prevista una spesa di 5 milioni di euro per un triennio (legge 311/04 e d.m. del 21 dicembre 2005, n. 92024); in seguito, la legge 296/06 («legge finanziaria 2007») ha stanziato una integrazione di spesa di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009, mentre con la deliberazione CIPE del 18 novembre 2010 sono stati assegnati ulteriori 6,7 milioni di euro per il biennio 2008-2009 (Ivi, pp. 56-58). 620 Il primo programma annuale del PAN, il «Programma di azione nazionale per il 2005», è stato approvato con decreto ministeriale n. 92024 del 2005 ma le modalità di spesa sono state fissate dal decreto ministeriale del 19 novembre 2007, n. 21568; pertanto, le relative risorse stanziate sono confluite nel successivo «Programma di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici per l’anno 2005-2007», approvato con decreto ministeriale 23 aprile 2008, n. 3103. «Con successivi decreti sono state definite le iniziative finanziabili relative all’annualità 2007 e i relativi stanziamenti che hanno riguardato azioni riconducibili all’Asse 2 (aggregazione dell’offerta, sostegno all’interprofessione e azioni per il miglioramento della qualità e della logistica del prodotto biologico, organizzazione commerciale) e all’Asse 3 (eventi promozionali) che si sono concluse nel 2009» (Ivi, p. 56). Alcune delle iniziative promosse dal MIPAAF sono state gli «Stati Generali per il biologico», organizzati con il supporto dell’«Istituto nazionale di economia agraria» (INEA), che si sono tradotti in un percorso di confronto sulle problematiche del settore fra i suoi protagonisti, al fine di individuare possibili soluzioni alle questioni più evidenti (cfr. ABITABILE e POVELLATO, op. cit., 2010); «Interbio», coordinato dallo IAMB, finalizzato a promuovere l’agricoltura biologica italiana e i suoi valori sia a livello nazionale che internazionale (cfr. supra nota 504) e «Le Piazze del BIO», un evento che si è svolto contemporaneamente su tutto il territorio nazionale in date stabilite nel triennio 2009-2011 per promuovere il consumo di prodotti biologici, avvicinando i produttori ai consumatori attraverso l`allestimento di spazi coperti riservati agli agricoltori e la presenza delle istituzioni locali (cfr. www.sinab.it). 232 biologici per gli anni 2008-2009», di cui alcune azioni sono ancora in corso, è stato approvato con decreto ministeriale del 9 settembre 2009, n. 13641621. Il PAN ha finanziato anche specifiche attività di comunicazione istituzionali affidate alle Regioni e Province autonome622, i cui programmi sono stati sottoposti all’approvazione del «Comitato consultivo per l’agricoltura biologica ed ecocompatibile»623. Tuttavia, a fronte della crescita dei consumi interni di prodotti biologici, che si protrae già da diversi anni, l’offerta nazionale rimane sostanzialmente invariata. Per lo sviluppo del settore occorrerebbe, pertanto, «sostenere con maggiore determinazione una più ampia gamma di strumenti di politica economica innanzitutto promuovendo fermamente l’ampliamento della produzione biologica interna così da assecondare la domanda»; ciò dovrebbe essere accompagnato dal completamento del pluriennale iter di approvazione del disegno di legge sull’agricoltura biologica, di cui si dirà nel prossimo paragrafo, e dall’inserimento nel PAN «della quantificazione di obiettivi da conseguire, principalmente in termini di incremento della superficie, di consumi pro capite e di utilizzazione di prodotti e alimenti biologici nella ristorazione collettiva. Le politiche agroambientali, da un lato, e le politiche di 621 Alcuni degli obiettivi prioritari e strategici previsti dal decreto sono stati oggetto, nel 2009, di progetti di assistenza tecnica affidati al «Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in Agricoltura» (CRA). Altre iniziative, finanziate nel 2010 con specifici decreti ministeriali, hanno riguardato azioni di sostegno all’interprofessione e iniziative a sostegno delle organizzazioni dei produttori. Queste ultime, attraverso azioni coordinate tra produttori, trasformatori e distributori, garantite da accordi scritti, hanno dato luogo ad un progetto pilota per la creazione e lo sviluppo di forme innovative di commercializzazione e per la creazione o potenziamento delle piattaforme logistiche specializzate per il biologico, ovvero impianti comuni di stoccaggio, trasformazione e commercializzazione (GIUCA, op. ult. cit., 2011, p. 57). 622 A seguito dell’accordo della Conferenza Stato-Regioni del 17 dicembre 2009, nell’ambito del PAN è stata disposta la ripartizione di 2,5 milioni di euro destinati alle Regioni e Province autonome, a valere su fondi del 2008 (decreto dipartimentale del MIPAAF del 31 dicembre 2009, n. 37617) e ulteriori 4 milioni di euro, a valere su fondi del 2009 (deliberazione CIPE del 18 novembre 2010), al fine di valorizzare le produzioni biologiche attraverso le azioni 3.1 «Promozione del bio nella ristorazione collettiva biologica» e 3.2 «Promozione del bio al cittadino-consumatore» (Ivi, pp. 58-59). 623 Il Comitato è stato costituito il 29 ottobre 2001 per promuovere e incentivare le produzioni ecocompatibili e dell’agricoltura biologica e creare sinergie tra politiche, in particolare con quella ambientale, oltre a formulare pareri per l’attuazione della normativa comunitaria e nazionale (Comunicato MIPAF, in G.U. n. 2 del 3 gennaio 2002). Il Comitato è stato ridefinito nella composizione e nei compiti dal d.m. del 10 dicembre 2008, n. 10568, coerentemente alle nuove disposizioni comunitarie (GIUCA, L’agricoltura biologica nella politica comunitaria e nazionale, cit., 2009, p. 21). 233 acquisto delle pubbliche amministrazioni, dall’altro, dovrebbero convergere verso tali obiettivi che darebbero maggiore forza e credibilità alla politica nazionale a favore dell’agricoltura biologica considerata nel suo complesso»624. 2.1. La creazione di un marchio italiano: il contesto normativo Alla fine degli anni ’90, in assenza di un logo comunitario non ancora definito graficamente, il Ministero per il Commercio estero, accogliendo le istanze degli operatori del settore, si focalizzò sull’opportunità di adottare un marchio collettivo pubblico per i prodotti biologici immessi sul mercato nazionale che fosse più attraente della indicazione di conformità del metodo di produzione al regime di controllo che compariva allora in etichetta («Agricoltura Biologica - Regime di controllo CEE»)625. Tale indicazione, 624 VIGANÒ, La Rete Rurale Nazionale sul Biologico: nasce Bioreport, in RRN Magazine - La rivista della Rete Rurale Nazionale, 2011, 2, p. 80. Il d.m. 25 luglio 2011 ha definito i criteri ambientali minimi (CAM) da inserire nei bandi di gara della pubblica amministrazione per l’acquisto di prodotti e servizi nei settori della distribuzione collettiva e fornitura delle derrate alimentari che coinvolgono, oltre alla produzione, preparazione e somministrazione di alimenti e bevande, diversi aspetti tra cui il trasporto, l’imballaggio e la gestione dei rifiuti. I CAM sono le indicazioni tecniche contenute nel «Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica amministrazione», adottato con decreto interministeriale dell’11 aprile 2008, elaborato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sulla base delle indicazioni dell’UE sul Green Public Procurement [COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Politica integrata dei prodotti, sviluppare il concetto di ciclo di vita ambientale, Bruxelles, COM (2003) 302] e in ottemperanza della legge 296/06 (legge finanziaria 2007), art. 1, comma 1126. Il Piano nazionale prevede, entro il 2011, il raggiungimento, sul totale degli appalti aggiudicati, di una quota del 50% di «appalti verdi», ovvero di quelli che, oltre ad applicare un sistema di gestione ambientale (EMAS o ISO 14001), garantiscono il rispetto dei requisiti tecnici di base, uno dei quali prevede che una determinata percentuale dei prodotti debba provenire da produzione certificata biologica ai sensi del reg. (CE) n. 834/07, in particolare: frutta, verdure e ortaggi, legumi, cereali, pane e prodotti da forno, pasta, riso, farine, patate, polenta, pomodori e prodotti trasformati, formaggio, latte, yogurt, uova e olio extra-vergine devono provenire, per almeno il 40% di peso sul totale, da produzione biologica; la carne deve provenire per almeno il 15% da produzione biologica; il pesce deve provenire per almeno il 20% da acquacoltura biologica o da pesca sostenibile. II rispetto di «specifiche tecniche premianti» (come una maggiore quota percentuale di questi alimenti) consente, inoltre, di acquisire un punteggio maggiore in funzione della loro influenza sugli impatti ambientali. Tutti i prodotti biologici devono provenire da fornitori che operano obbligatoriamente all’interno del regime di controllo e certificazione previsto dai regolamenti (CE) n. 834/07 e n. 889/08; attualmente, non è obbligatorio che i centri di preparazione e somministrazione dei pasti con ingredienti biologici siano inseriti nel sistema nazionale di controllo e certificazione, i quali, tuttavia, possono farsi certificare secondo norme private (cfr. infra nota 605 e capitolo II, paragrafo 3). 625 SINAB, Il marchio unico nazionale dei prodotti biologici, in Schede Informative/Mercato/Quali sono le iniziative di sostegno al mio settore?/Il sostegno pubblico e privato/Informazione/Promozione, 2011, www.sinab.it. Tale marchio si configurava quale 234 infatti, risentiva della mancanza di adeguate campagne informative e promozionali volte a spiegarne il significato e l’importanza ed era spesso confusa con quelle che comparivano su altri alimenti simili (come i prodotti da «agricoltura integrata»626) ma non altrettanto garantiti dalla rispondenza a norme cogenti. L’«Unione interprofessionale operatori del Biologico» (UB) collaborò, nel 1997, con il ministero e con l’«Istituto per il Commercio Estero» (ICE) alla definizione di un marchio collettivo pubblico che potesse contraddistinguire in modo efficace i prodotti con metodo biologico rispetto alla moltitudine dei marchi degli organismi di controllo e delle aziende private del settore627. Il logo proposto (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), parte integrante del marchio collettivo pubblico denominato «Bio Italia», consisteva in un rettangolo verticale con al centro la sigla «ab» (iniziali di agricoltura biologica) in lettere tondeggianti a caratteri bianchi su sfondo verde, bianco e rosso (evocativo del «tricolore italiano»), e la scritta «ITALIA», in basso, di colore verde su sfondo bianco; tale logo, secondo UB, «conferendo ai prodotti biologici italiani una precisa identità di categoria, ne faciliterebbe anche la penetrazione sui mercati esteri, con effetti positivi sullo sviluppo dell’intero marchio collettivo geografico pubblico ai sensi della direttiva 2008/95/CE, art. 15.2, e dell’art. 2570 c.c. (cfr. supra note 369 e 371). 626 A livello comunitario non esistevano (e non esistono) regole cogenti ma indicazioni programmatiche sulla produzione integrata, i cui disciplinari si caratterizzano per l’impiego delle tecniche di lotta biologica, le forti limitazioni nell’uso di fertilizzanti chimici, il divieto dell’uso di diserbanti chimici residuali. Per questo tipo di produzioni, così come avviene per la produzione biologica, se ne incentiva l’utilizzo nell’ambito delle misure agro-ambientali contenute nei PSR. In Italia, la regolamentazione a livello territoriale definita da leggi regionali ha trovato unitarietà nelle «Linee guida nazionali di produzione integrata 2008-2009», approvate dal Comitato produzione integrata del MIPAAF nel settembre 2008, mentre la legge 4/11, art. 2, ha istituito il «Sistema di qualità nazionale di produzione integrata» (SQNPI) (cfr. supra nota 155). 627 UB è una struttura privata trasversale che si è costituita nel gennaio 1995, su proposta dell’OdC CCPB, riunendo, a livello nazionale, produttori, trasformatori, distributori, fornitori di servizi e altri soggetti che operano nel settore del biologico con lo scopo di intervenire, in modo propositivo, nel processo di organizzazione e regolamentazione del comparto, favorendo le necessarie sinergie. Nel 1997 UB ha attivato specifici gruppi di lavoro sulla zootecnia, sulla distribuzione e vendita al dettaglio e sulla ristorazione scolastica, che ha portato alla definizione delle «Linee guida per l’appalto di forniture di prodotti biologici per la ristorazione scolastica», ed ha avviato, in stretta connessione alle iniziative di promozione che l’organismo intraprende per statuto, una collaborazione con il Ministero per il Commercio estero per l’istituzione di un logo unitario nazionale per i prodotti biologici (SINAB, UB, in Schede Informative/Mercato/Quali sono le iniziative di sostegno al mio settore?/Il sostegno pubblico e privato/Informazione/Promozione, 2011, in www.sinab.it). 235 comparto. Tale marchio collettivo nazionale dovrebbe pertanto essere nuovo ed esclusivo per i prodotti biologici ed essere supportato, almeno per i primi tempi, da azioni pubblicitarie e promozionali mirate a farlo conoscere ai consumatori e a conquistarne l’apprezzamento e la fiducia»628. L’istituzione del marchio collettivo pubblico incarnava più una scelta strategica di marketing istituzionale al fine di identificare - e promuovere - la produzione biologica sul mercato nazionale (ed estero) con un simbolo univoco “competitivo” e di chiaro «nazionalismo alimentare» (configurandosi, tra l’altro, una possibile restrizione quantitativa all’importazione in violazione al Trattato CEE)629, piuttosto che assicurare e comunicare al consumatore le qualità intrinseche dei prodotti biologici rispondenti a un determinato disciplinare, in grado di garantire la specificità del prodotto marcato indipendentemente dall’origine, disciplinare di cui la proposta di UB non faceva menzione. Il marchio collettivo Bio Italia non è mai stato depositato all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIMB) e l’iniziativa è stata accantonata, anche in seguito alle vicende che in quegli anni hanno interessato diverse leggi regionali istitutive di marchi collettivi di origine e di qualità, giudicate inammissibili dalla Commissione Europea, configurandosi tali marchi quali strumenti di preferenza delle produzioni locali in danno di quelle degli altri Stati membri, in violazione al Trattato CEE630. Piuttosto, il «marchio identificativo della produzione agroalimentare nazionale», proposto in quegli anni (d. lgs. 173/98, art. 7), di cui possono fregiarsi i prodotti industriali ottenuti con sole materie prime agricole italiane o i prodotti direttamente realizzati da imprese agricole italiane, mai istituito, avrebbe potuto sposare la posizione della Commissione Europea, secondo la quale, come richiamato nelle pagine precedenti, l’origine geografica deve essere comunicata solo attraverso le DOP/IGP (esclusivamente per le quali sussiste un nesso diretto di causalità fra l’area di produzione e le caratteristiche distintive del prodotto) o un marchio collettivo privato (senza il nesso 628 SINAB, Il marchio unico nazionale dei prodotti biologici, cit., 2011. Cfr. infra paragrafo 1. 630 Ivi cfr. note 372-373. 629 236 suddetto), nonché essere di esempio per un marchio nazionale dei prodotti biologici, purché si fosse tradotto in un segno grafico - per rendere nota in etichetta l’origine del prodotto ed essere utilizzato solo da chi è in grado di dimostrare la provenienza nazionale del prodotto biologico certificato - e non come logo parte integrante di un marchio collettivo con un regolamento d’uso e un disciplinare. In questa seconda ipotesi, anche se il marchio pubblico attestasse le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto legate al metodo di produzione, senza alcun legame con l’origine, l’aggettivo «nazionale», pur non riferito ad alcun luogo specificamente individuabile, avrebbe carattere discriminatorio nei confronti dei prodotti importati dagli altri Stati membri, se tale marchio fosse riservato ai soli prodotti nazionali ed elaborati a partire da materie prime nazionali, ed è perciò incompatibile con l’art. 34 TFUE631. Non è un caso che le leggi successive che istituiscono marchi o loghi nazionali si siano orientate verso la promozione dell’immagine del prodotto italiano all’estero, puntando sul sostegno allo sviluppo e all’internazionalizzazione delle imprese: è il caso del marchio collettivo «Naturalmenteitaliano» (raffigurato nell’allegato a questo lavoro), destinato alle produzioni agroalimentari italiane di qualità (ma in questo caso il marchio è riservato esclusivamente alle DOP/IGP, per le quali è ammessa l’indicazione di origine geografica), divenuto successivamente un segno grafico ai fini della comunicazione632, e dei loghi «ITALIA»633 e «made in Italy»634, anch’essi 631 Sul punto: ALBISINNI, Nomi geografici e marchi commerciali: regole del mercato e sistemi locali, in Economia e diritto agroalimentare, 2007, 2, p. 23 e ss. 632 Il marchio nazionale, la cui vigilanza è affidata al MIPAAF, è stato istituito dalla legge 350/03 («legge finanziaria 2004»), art. 4.62. Con il successivo programma interregionale «Promozione commerciale sui mercati esteri», promosso dal ministero e dalle Regioni italiane in collaborazione con ISMEA (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) e ICE ai sensi della legge 578/96, art. 2, con lo scopo di diffondere e valorizzare la produzione agroalimentare nazionale (vini DOCG, DOC e IGT, prodotti DOP/IGP, biologici e a produzione integrata) in Usa, Canada, Svezia, Danimarca, Giappone, Russia e Polonia, il marchio «Naturalmenteitaliano» si è tradotto, nell’ambito delle attività di comunicazione del programma, in un portale internet il cui logo è un segno distintivo che raffigura lo stivale italiano assemblato con le immagini a colori di varie categorie di prodotti DOP/IGP. Il portale, tradotto in lingua tedesca, inglese, francese, danese e svedese, presenta centinaia di schede descrittive sui prodotti DOP e IGP e una serie di proposte di itinerari enograstronomici, ricette ed eventi ad essi collegati, offrendo alle aziende agroalimentari italiane che realizzano i prodotti DOP/IGP l’opportunità di avere gratuitamente una vetrina promozionale dei loro prodotti, oltre all’accesso ai servizi informativi e di assistenza all’export attraverso un secondo portale denominato «Agrisim» (cfr. i portali: www.naturalmenteitaliano.it e www.agrisim.it). 237 633 Il logo è caratterizzato dalla scritta «ITALIA» in caratteri neri a stampatello «bodoni», con sovraimpresso un fregio tipo nastro-onda con i colori verde, bianco e rosso, evocativi del «tricolore italiano». Il logo è stato presentato alla stampa il 24 giugno 2009 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dal Ministero del Turismo, di cui è divenuto il simbolo, ed è attualmente utilizzato per la promozione dell’immagine dell’Italia a fini turistici (PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, Presentazione del logo “ITALIA” Dossier del 25 giugno 2009, in www.governo.it). 634 Il logo, di forma circolare, accompagnato dal codice a barre del prodotto in versione «tricolore», è formato da tre cerchi concentrici: quello più piccolo, di colore verde, riporta la scritta centrale in diagonale a caratteri bianchi «MADE IN ITALY»; il secondo, con tonalità grigio/bianche dello sfondo e dei caratteri, riporta, in circolo, le scritte «IDEAZIONE», «REALIZZAZIONE», «CONFEZIONE», mentre il terzo, di colore verde-rosso, riporta in circolo le diciture a caratteri neri «Ideazione, disegno e progettazione», «Fabbricazione interamente italiana» e «Prodotti conformi alle norme sulla sicurezza e igiene». Si tratta di quel segno o figura, richiamato all’art. 16.4 della legge 20 novembre 2009, n. 166, «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee», proposto dal Ministero dello Sviluppo economico, al fine di “attestare la veridicità” delle indicazioni facoltative sulle origini interamente italiane di un prodotto, anche alimentare, classificato come «made in Italy» ai sensi della normativa vigente (in quanto tale segno può essere utilizzato solo da chi è in grado di dimostrare la provenienza nazionale del prodotto) e ridurre i contenziosi in dogana (PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, Etichette più chiare con il Made in Italy - Dossier del 4 dicembre 2009, in www.governo.it). Occorre ricordare che in seguito alle sollecitazioni di alcuni settori produttivi, il decreto legge 135/09 (convertito nella legge 166/09), che ha introdotto misure volte a rafforzare gli strumenti di lotta alla contraffazione, anche sotto il profilo penale, con specifica attenzione alle indicazioni geografiche e alle denominazioni di origine dei prodotti alimentari, ha abrogato l’art. 17 della legge 99/09, «indirizzata al sostegno del sistema produttivo, […che aveva…] previsto un ulteriore intervento additivo nel corpo dell’art. 4, comma 49 della legge 350/03 sul made in Italy [introducendo] l’obbligo - a pena del sequestro della merce, oltre che delle sanzioni penali personali - di fornire “un’indicazione precisa, in caratteri evidenti” dell’origine della merce su prodotti non originari dell’Italia qualora per detti prodotti vengano utilizzati “marchi di aziende italiane”. […Il decreto legge 135/09…] ha contestualmente introdotto una nuova disciplina contenente la definizione di prodotto «realizzato interamente in Italia», o «100% made in Italy», o «100% Italia», o «tutto italiano», per tale intendendo «il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano». L’utilizzo di tali indicazioni, o di indicazioni analoghe, è punito con le pene previste dall’art. 517 c.p. aumentate di un terzo» (ALBISINNI, Il made in Italy dei prodotti alimentari e gli incerti tentativi del legislatore italiano, cit., 2011, pp. 47-48). Secondo l’A. al quale si rimanda per un approfondimento (cfr. anche ALBISINNI, Il made in Italy dei prodotti alimentari, 2009, dispensa, pp. 1-143, in www.agraria.unitus.it), le tappe legislative citate hanno riempito solo in parte gli spazi di incertezza del legislatore italiano in merito alla controversa vicenda del made in Italy dei prodotti alimentari (proseguita con la legge 4/11 relativa all’etichettatura e qualità dei prodotti alimentari - cfr. supra capitolo I, paragrafo 6, ivi nota 223). Infatti, il decreto legge 135/09 aggiunge l’art. 43 bis alla legge 350/03 che stabilisce che il prodotto o la merce sia accompagnato da indicazioni precise ed evidenti o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto - intendendosi il luogo in cui si realizza il ciclo produttivo - mentre la successiva circolare del Ministero dello Sviluppo economico del 9 novembre 2009 chiarisce che questa disposizione normativa consente di accompagnare il prodotto con un’appendice informativa che, oltre ad essere direttamente applicata sul prodotto o sulla confezione, può assumere le forme di cartellino o targhetta e riportare a titolo esemplificativo una delle seguenti diciture: «prodotto fabbricato in… [seguito dal nome del Paese UE]; prodotto fabbricato in Paesi extra UE; prodotto di provenienza extra UE; prodotto importato da Paesi extra UE; prodotto non fabbricato in Italia». Il made in Italy «si risolve in una mera dicitura commerciale [o in un eventuale segno grafico distintivo] 238 segni grafici (raffigurati nell’allegato a questo lavoro) ma dalle differenti finalità, tanto che il secondo non è mai stato realizzato mentre un segno grafico con la dicitura «MADEINITALY» (raffigurato nell’allegato a questo lavoro) individua sul web la piattaforma ufficiale italiana di e-commerce. Mentre i segni distintivi - loghi di marchi collettivi pubblici - con cui identificare i prodotti conformi, rispettivamente, al «Sistema di qualità nazionale di produzione integrata» (SQNPI) e al «Sistema zootecnico nazionale» (SQN), previsti da recenti disposizioni normative ma non ancora realizzati635, si inseriscono a pieno titolo tra i marchi collettivi geografici pubblici con i limiti e le considerazioni di cui si è detto nelle pagine precedenti. L’idea di un logo biologico nazionale ha fatto il suo ingresso in Parlamento con il disegno di legge n. 1018 «Disposizioni per lo sviluppo e l’incentivazione dell’agricoltura biologica», presentato alla Camera il 21 giugno 2001, che ha segnato l’inizio di un interminabile e controverso iter di approvazione delle norme in materia, caratterizzato, come si dirà, dal succedersi di numerosi e sovrapponibili disegni di legge (in parte a causa delle conclusioni anticipate delle legislature), fino all’adozione di un testo unificato, attualmente in corso d’esame in Commissione agricoltura del Senato. Mentre la legislazione di settore si arenava a Montecitorio, le strategie per lo sviluppo dell’agricoltura e dei prodotti biologici furono discusse in un seminario nazionale ampiamente partecipato, organizzato dal Ministero delle politiche agricole e forestali a Foligno, nel luglio 2003, dove i principali apposta sul prodotto la cui titolarità non è in alcun modo attribuibile ad un soggetto privato ma che è stata normativamente introdotta a beneficio dell’attività produttiva nazionale e che può essere apposta [volontariamente] sui prodotti a condizione di verità onde non consentire una dicitura ingannevole per i consumatori sullo specifico profilo dell’origine territoriale del prodotto […]. Ne discende che la disciplina del made in Italy pur rilevando quale facoltà per il produttore, rileva a posteriori sotto il profilo sanzionatorio ogni qualvolta l’indicazione dell’origine sia mendace o sia idonea di per sé sola a trarre in inganno il consumatore circa l’origine del prodotto stesso [… Si tratta, pertanto, di] una mera indicazione aggiuntiva che rileva ai fini di legge solo allorquando fallace e menzognera» (LUCIFERO, La comunicazione simbolica nel mercato alimentare, cit, 2011, pp. 364-366). Invece, la dicitura «MADEINITALY THE OFFICIAL PORTAL» a caratteri grigi, sormontata da un semicerchio su sfondo bianco, il cui bordo riprende il «tricolore italiano», costituisce il logo, segno grafico, che individua sul web la piattaforma del governo italiano di e-commerce, attivata a novembre 2011 per l’internazionalizzazione delle aziende italiane attraverso la vendita on-line all’estero presso la grande distribuzione, negozi, ristoranti e singoli consumatori (cfr. www.madeinitaly.gov.it). 635 Cfr. supra nota 155. 239 stakeholder - cooperative e consorzi di produttori biologici, società di distribuzione specializzate, catene della GDO con il maggior assortimento di prodotti biologici, operatori della ristorazione collettiva e rappresentanti delle associazioni dei consumatori - furono chiamati ad esprimersi anche sull’istituzione di un logo nazionale, nell’ambito di un gruppo di lavoro sul mercato e i servizi alla produzione. In quell’occasione il gruppo di lavoro produsse un documento nel quale si epresse a favore dell’obbligatorietà del logo europeo (allora facoltativo) per consentire più incisive iniziative di comunicazione istituzionale, ritenendo che l’origine nazionale del prodotto non trasformato e la trasformazione sul territorio nazionale potessero essere evidenziate in forma testuale, con l’indicazione del ministero come autorità garante, piuttosto che attraverso un marchio nazionale636. Infatti, riguardo all’istituzione di un logo unitario per i prodotti biologici, il gruppo di lavoro espresse le sue perplessità sul versante tecnico - costi per gli operatori e difficoltà nel ritagliare uno spazio in etichetta tra le numerose indicazioni obbligatorie - ma anche su quello strategico: «oltre a voler evitare ogni possibile fonte di confusione di marchi per il consumatore, si ritiene che, essendo l’Italia un esportatore netto, l’incentivazione di forme di “nazionalismo” sia contraria agli interessi delle nostre imprese, che già trovano qualche forma di ostacolo in alcuni mercati (per esempio Regno Unito, Svezia, Danimarca) per la consuetudine dei consumatori locali a marchi nazionali (di Stato o privati) che impongono ricertificazioni o, comunque, oneri del tutto ingiustificati»637. Tuttavia, la necessità di assegnare una “carta d’identità” alla produzione biologica italiana attraverso un logo unitario nazionale fu a lungo sostenuta dal ministero, maturando «in un contesto in cui, essendo facoltativo il logo comunitario, si [voleva] dare maggiore visibilità ai prodotti biologici nazionali sul mercato domestico, puntando sulla qualità del prodotto e su tutti gli 636 CRIVELLO, Una storia quasi senza fine per il marchio del biologico, in Terra e vita, 2009, 26, p. 28. 637 Ivi, p. 29. Per un approfondimento, cfr. PETRELLI, a cura di, Il Piano d’Azione Italiano per l’Agricoltura Biologica fra Piano d’Azione Europeo, nuova normativa italiana e riforma della Politica Agricola Comune, Atti del seminario organizzato dal MIPAF, Foligno, 15-16 luglio 2003, Assisi, 2004. 240 elementi che [potessero] rendere maggiormente competitivo l’intero settore, in un contesto caratterizzato da rapide evoluzioni di mercato e di politica e da una crescente differenziazione dell’offerta di prodotti alimentari»638. La creazione di un logo nazionale per i prodotti vegetali e zootecnici ottenuti da agricoltura biologica è stata, pertanto, inserita nel Piano di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici. Negli obiettivi dell’Asse 3 «Aumento della domanda interna e comunicazione istituzionale» del PAN, si legge: «al fine di rendere più efficaci le azioni di comunicazione istituzionale e il sostegno ad iniziative di informazione promosse da organizzazioni del settore, con particolare attenzione al mondo della scuola e ai decisori di acquisto nelle famiglie e negli acquisti collettivi [...] verrà messo a punto un logo nazionale, definendone i requisiti grafici e d’utilizzo». Nel successivo Programma di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici per l’anno 2005 è specificato: «la campagna di promozione del logo nazionale sarà attuata successivamente all’approvazione del disegno di legge recante disposizioni per favorire lo sviluppo e la competitività della produzione agricola ed agroalimentare con metodo biologico e disciplina del relativo sistema di controllo il cui iter è in corso». Il Programma del 2005, pertanto, faceva riferimento al disegno di legge n. 1018, presentato alla Camera all’inizio della XIV legislatura, poi ripresentato al Parlamento il 13 dicembre 2006, nel corso della XV legislatura639, come disegno di legge di iniziativa governativa n. 2604 con il titolo «Disposizioni 638 GIUCA, Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale, cit., 2010, p. 185. D’altra parte, la definizione di un logo nazionale si andava a coniugare ad una politica agricola nazionale sempre più indirizzata alla valorizzazione e alla difesa del made in Italy agroalimentare, «segno d’eccellenza dei territori e di un’agricoltura con una sua identità ben marcata che trae origine dalla forte caratterizzazione dei sistemi locali in termini di ambiente, tradizioni, conoscenze e competenze» (Ivi, p. 201). A mano a mano, nei documenti di programmazione economica e finanziaria il concetto di produzione agro-alimentare si è andato a inserire in una dimensione più ampia di filiera e di territorio con azioni che puntano a sviluppare il patrimonio eno-gastronomico del Paese, insieme a quello culturale, artistico e naturale, con il sostegno di politiche di promozione di un “marchio Italia”; cosicchè nelle odierne forme di comunicazione istituzionale si tende a valorizzare e a dare riconoscibilità alla qualità dei prodotti agro-alimentari italiani, da un lato creando la consapevolezza dell’evoluzione dell’agricoltura tra tradizione e innovazione e, dall’altro, valorizzando il made in Italy quale stile di vita e di consumo (cfr. infra note 634 e 690). 639 La XIV legislatura ha coperto il periodo dal 30 maggio 2001 al 27 aprile 2006, mentre la XV legislatura ha coperto il periodo dal 28 aprile 2006 al 28 aprile 2008. La XVI legislatura, iniziata il 29 aprile 2008, è attualmente in corso (cfr. www.camera.it). 241 per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola ed agroalimentare con metodo biologico». Il disegno di legge n. 2064 e le numerose proposte di legge di iniziativa parlamentare seguenti, ad esso abbinato, che tenevano conto del nuovo reg. (CE) n. 834/07 sull’agricoltura biologica, sono state oggetto di confronto istituzionale con le Regioni, le organizzazioni professionali agricole e le associazioni di produttori biologici in un ampio ciclo di audizioni, al termine del quale la Commissione agricoltura della Camera ha adottato, il 29 novembre 2007, un testo unificato dal titolo «Agricoltura biologica» 640. L’art. 11 del testo unificato era dedicato al logo nazionale: «È istituito il logo nazionale per le produzioni biologiche. Il logo [...] prevede la dicitura “BIO ITALIA” o termine analogo. L’utilizzo del logo […] è riservato ai prodotti biologici per i quali tutte le fasi del processo di produzione sono interamente realizzate sul territorio nazionale, nel rispetto della disciplina dettata dal regolamento [(CE) n. 834/07] e dalla presente legge»641. Si può osservare che il marchio BIO ITALIA, così concepito, poteva avere carattere discriminatorio nei confronti dei prodotti importati dagli altri Stati membri, se fosse stato riservato ai soli prodotti nazionali ed elaborati a partire da materie prime nazionali (in violazione al Trattato). Inoltre, ignorando che i prodotti biologici sono prodotti sia agricoli che agroalimentari e che l’Italia è soprattutto un Paese trasformatore, il disegno di legge non includeva la trasformazione nelle fasi da svolgersi sul territorio italiano, di fatto escludendo 640 Il testo unificava i seguenti disegni di legge: C. 1629, LION, «Norme di principio e criteri di applicazione in materia di produzione biologica»; C. 1695, BELLOTTI, «Disposizioni per la riorganizzazione e la promozione dell’agricoltura biologica»; C. 2545, LOMBARDI, «Disciplina della coltivazione, della commercializzazione e della certificazione dei prodotti biologici»; C. 2604 di iniziativa governativa (DE CASTRO, LANZILLOTTA, BONINO, TURCO, BERSANI, PECORARO SCANIO, PADOA SCHIOPPA), «Disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola ed agroalimentare con metodo biologico»; C. 2880, DELFINO, «Disposizioni per lo sviluppo e la commercializzazione dei prodotti biologici e istituzione del Fondo nazionale per la ricerca e lo sviluppo dell’agricoltura biologica» (http://legxv.camera.it). 641 L’art. 11 demandava a successivi decreti interministeriali la definizione della forma e delle caratteristiche tecniche nonché la disciplina d’uso del logo nazionale, assegnando a ministero e organi competenti la facoltà di comminare sanzioni amministrative da tremila a ventimila euro per l’utilizzo del logo o la commercializzazione di prodotti recanti indebitamente indicazioni e riferimenti concernenti il metodo di produzione biologico (ddl C.1629, C. 1695, C. 2545, C. 2604, C. 2880). 242 la quasi totalità della produzione biologica nazionale dalla possibilità di ottenere il logo nazionale. Nei successivi programmi di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici per i bienni 2005-2007 e 2008-2009, la questione del logo nazionale, in assenza di una normativa al riguardo, è stata ripresa fino a proporre di sviluppare nel PAN «uno specifico studio di mercato sul posizionamento strategico del marchio nazionale che risulti propedeutico all’individuazione del logo facilitandone il riconoscimento da parte dei consumatori» (Azione 14, Asse 3). Tra il 2008 e il 2009, nel corso della XVI legislatura, sono stati presentati alla Camera sei disegni di legge sulla base del testo unificato «Agricoltura biologica», elaborato nella precedente legislatura, spesso sovrapponendosi, essendo stati proposti dai diversi gruppi parlamentari più o meno accogliendo le modifiche richieste dai soggetti interpellati nel corso delle precedenti udienze in Commissione agricoltura; ciascun testo, infatti, contiene un articolo rubricato «Logo nazionale», con disposizioni assai simili642. Sia questi disegni 642 Si tratta dei seguenti disegni di legge: 1) C. 335, BELLOTTI, «Disposizioni per la riorganizzazione e la promozione dell’agricoltura biologica», presentato il 29 aprile 2008, in parte ispirato al testo unificato «Agricoltura biologica» della XV legislatura, dove, all’art. 16, si legge: «Le diciture [numero o codice alfanumerico che identificano l’OdC e l’operatore assoggettato al sistema di controllo e di certificazione], qualora siano da apporre su etichette o imballaggi di prodotti il cui intero ciclo di preparazione è avvenuto nel territorio nazionale da parte di operatori iscritti nell’elenco nazionale istituito presso il Ministero […], possono essere inserite in un apposito logo le cui caratteristiche tecniche sono stabilite con decreto del Ministro […]. Nel caso di produzioni zootecniche e vitivinicole il logo […] può essere utilizzato solo se l’intero ciclo di produzione e di preparazione di tali produzioni è stato effettuato nel rispetto delle norme di cui alla presente legge. Con decreto del Ministro possono essere introdotte disposizioni per assicurare un’etichettatura corretta e trasparente dei prodotti alimentari ottenuti sul territorio nazionale con metodo biologico appartenenti a particolari settori di produzione». 2) C. 359, DELFINO e NARO, «Disposizioni per lo sviluppo e la commercializzazione dei prodotti dell’agricoltura biologica», presentato il 29 aprile 2008, che riproduce, con modifiche e aggiornamenti, il testo unificato sull’agricoltura biologica della precedente legislatura, dove all’art. 11 si legge: «È istituito il logo nazionale per le produzioni biologiche […che…] prevede la dicitura «BIO ITALIA» o termine analogo. L’utilizzo del logo […] è riservato ai prodotti biologici per i quali tutte le fasi del processo di produzione sono interamente realizzate sul territorio nazionale […] Con decreto del Ministro, da emanare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con il Ministro per le politiche europee e d’intesa con la Conferenza Stato-regioni […] sono definite la forma, le caratteristiche tecniche e la disciplina d’uso del logo nazionale […]. Salvo che il fatto non costituisca reato, il Ministero, tramite gli organi competenti, commina una sanzione amministrativa da euro 3.000 a euro 20.000 a chiunque impieghi o utilizzi il logo […] o ponga in commercio prodotti recanti indebitamente indicazioni e riferimenti concernenti il metodo di produzione biologico». 3) C. 1138, FIORIO et al., «Disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola e agroalimentare con metodo biologico», presentato il 22 maggio 2008 sulla base del testo 243 di legge che altri quattro in materia di agricoltura biologica - due dei quali, dedicati all’acquacoltura biologica, prevedono la «denominazione» e il «marchio nazionale» di riconoscimento per questi prodotti senza dettagliare i requisiti per ottenerne l’utilizzo643 - sono stati presentati con l’intento di unificato sull’agricoltura biologica della XV legislatura con alcune differenze rispetto al testo contenuto nel disegno di legge C. 359; tuttavia, l’art. 11 dei disegni di legge C. 359 e C. 1138 sono identici nei contenuti. 4) C. 1208, RAINIERI et al., «Norme di principio e criteri di applicazione in materia di produzione biologica», presentato il 29 maggio 2008, anch’esso sulla base del testo unificato sull’agricoltura biologica della precedente legislatura, dove l’art. 12, molto simile ai precedenti disegni di legge, dispone quanto segue: «È istituito il logo nazionale per le produzioni biologiche […]. Con decreto del Ministro, da emanare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico con il Ministro per le politiche europee e d’intesa con la Conferenza Stato-regioni […] sono definite la forma, le caratteristiche tecniche e la disciplina d’uso del logo nazionale. L'utilizzo del logo […] è riservato ai prodotti biologici per i quali tutte le fasi del processo di produzione sono interamente realizzate sul territorio nazionale […]. Salvo che il fatto non costituisca reato, il Ministero, mediante organi competenti in materia, provvede a comminare una sanzione amministrativa da euro 3.000 a euro 20.000 a chiunque impieghi o utilizzi indebitamente il logo […] o ponga in commercio prodotti recanti indebitamente indicazioni e riferimenti concernenti il metodo di produzione biologico». 5) C. 2778, COLUCCI et al., «Norme in materia di produzione biologica», presentato il 7 ottobre 2009 e in parte ispirato al testo unificato sull’agricoltura biologica della XV legislatura, dove all’art. 10 si legge: «È istituito il logo nazionale per le produzioni biologiche. L’utilizzo del logo nazionale […] è riservato ai prodotti biologici per i quali tutte le fasi del processo di produzione e di trasformazione sono interamente realizzate sul territorio nazionale […]. Con decreto del Ministro, da emanare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con il Ministro per le politiche europee e d’intesa con la Conferenza Stato-regioni […] sono definite la forma, le caratteristiche tecniche e la disciplina d’uso del logo nazionale […]. Salvo che il fatto non costituisca reato, il Ministero commina una sanzione amministrativa da 3.000 euro a 20.000 euro a chiunque impiega o utilizza il logo […] o pone in commercio prodotti in violazione delle norme in materia di etichettatura di cui all’articolo 9». 6) C. 2867, STUCCHI et al., «Disposizioni in materia di agricoltura e produzione agroalimentare biologica», presentato il 29 ottobre 2009 e anch’esso in parte ispirato al testo unificato sull’agricoltura biologica della precedente legislatura, dove all’art. 9 si legge: «È istituito il logo nazionale per le produzioni ottenute da agricoltura biologica. Con decreto del Ministro, di concerto con il Ministro per le politiche europee, d’intesa con la Conferenza Statoregioni […] sono definite la forma, le caratteristiche tecniche e il regolamento d’uso del logo nazionale […]. In ogni caso, l’utilizzazione del logo […] è concesso solo per prodotti il cui intero ciclo produttivo è svolto in Italia e per i quali sono riportate nell’etichetta l’origine del prodotto stesso, ovvero delle materie prime di cui è composto, nonché la totale assenza di organismi geneticamente modificati e di loro derivati» (www.camera.it). 643 Si tratta dei seguenti disegni di legge: 1) C. 336, BELLOTTI et al., «Disposizioni in materia di acquacoltura biologica», presentato il 29 aprile 2008, che all’art. 2, rubricato «Denominazione e marchio nazionale dell’acquacoltura biologica. Registri delle aziende di acquacoltura biologica», dispone: «Con regolamento del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali […] sono approvati la denominazione e il marchio di riconoscimento che contraddistinguono univocamente, per l’etichettatura, l’immissione in commercio e la pubblicità, i prodotti [dell’acquacoltura biologica, come definiti all’art.1]. L’utilizzazione non autorizzata o impropria della denominazione e del marchio […] comporta l’applicazione delle sanzioni previste dalla normativa vigente […]. 2) C. 597, TASSONE et al., «Disciplina dell’acquacoltura biologica», presentato il 29 aprile 2008, che all’art. 1, rubricato «Riconoscimento del metodo biologico», dispone, al secondo comma: […] il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, approva, con proprio decreto, la denominazione e il marchio di riconoscimento che contraddistinguono 244 innovare la disciplina del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 220, e le disposizioni emanate in attuazione di tale decreto; tuttavia, pur essendo stati tutti assegnati alla XIII Commissione permanente (Agricoltura) della Camera, di nessuno, al 31 dicembre 2011, è iniziato l’esame. Un articolo rubricato «Logo nazionale» era contenuto anche nel disegno di legge che ha portato all’emanazione della legge 4/2011, poi stralciato in Commissione agricoltura, in sede referente, a conclusione dell’articolato esame del testo alla Camera644. Nello stesso periodo, sempre in materia di agricoltura biologica e sempre con le stesse finalità, sono stati presentati tre disegni di legge al Senato, due dei quali - disegni di legge n. 1035 e n. 1115 - sono stati assegnati alla IX univocamente, ai fini dell’etichettatura, dell’immissione in commercio e della pubblicità, i prodotti dell’acquacoltura biologica». Gli altri due disegni di legge in materia di agricoltura biologica non fanno alcun cenno a loghi o marchi e riguardano gli incentivi, rispettivamente, per il consumo di prodotti della filiera corta e per il rinnovo del parco macchine agromeccanico; si tratta della proposta di legge C. 2876, DE GIROLAMO et al., «Incentivi alla produzione e alla vendita diretta dei prodotti agricoli locali, tradizionali e biologici», presentato il 4 novembre 2009, e della proposta di legge C. 2991, NASTRI et al., «Disposizioni per la riduzione dell’impatto ambientale nelle operazioni di distribuzione di prodotti biologici e chimici in agricoltura e incentivi per la modernizzazione del settore agromeccanico», presentato il 27 novembre 2009 (www.camera.it). 644 Si trattava dell’art. 2.1 del disegno di legge governativo n. 2260 «Disposizioni per il rafforzamento della competitività del settore agroalimentare», presentato alla Camera il 4 marzo 2009, dove si leggeva, ai commi 1 e 2: «È istituito il logo nazionale per le produzioni biologiche. L’utilizzo del logo […] è riservato ai prodotti biologici per i quali tutte le fasi del processo di produzione sono interamente realizzate sul territorio nazionale». Al disegno di legge n. 2260 sono state abbinate, dopo l’approvazione in Commissione agricoltura il 5 novembre 2009, la proposta di legge n. 2646, COSENZA et al., «Disposizioni concernenti l’etichettatura dei prodotti agroalimentari e delega al Governo per l’introduzione di agevolazioni fiscali per la tutela e la promozione del consumo dei prodotti agroalimentari nazionali tipici», presentata il 27 luglio 2009, e la proposta di legge n. 2743, SCARPA et al., «Disposizioni in materia di etichettatura dei prodotti alimentari», approvata dal Senato il 23 settembre 2009. Il testo dei disegni di legge è il frutto di un iter parlamentare piuttosto complesso, caratterizzato da una serie di misure su questioni rilevanti per il settore agricolo, ampiamente modificato nel corso dell’esame in sede referente presso la Commissione agricoltura della Camera che, in conseguenza del ristretto margine di disponibilità in ordine alla copertura finanziaria, ha deciso di concentrare l’esame del provvedimento sulla tematica della promozione del valore delle produzioni, con particolare riguardo alla qualità e tracciabilità dei prodotti e del sistema produttivo e all’ampliamento delle informazioni per il consumatore, anche alla luce delle prospettive di riforma della PAC e del quadro normativo comunitario in evoluzione. In tale contesto, pertanto, una serie di disposizioni - tra cui le agevolazioni previdenziali per le aree montane e svantaggiate, il sostegno per il settore bieticolo-saccarifero, il riordino delle agroenergie - sono state oggetto di stralcio (cfr. dossier di documentazione della Camera dei deputati, in www.camera.it). Per i contenuti della legge 4/2011 cfr. supra note 155 e 223. 245 Commissione permanente (Agricoltura e produzione agroalimentare)645. Dopo un eame congiunto dei due testi, il Comitato ristretto ha deciso di presentare un nuovo testo unificato per i due disegni di legge dal titolo «Nuove disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola ed agroalimentare con metodo biologico», adottato il 4 febbraio 2009 dalla IX Commissione del Senato. Nel testo unificato, volto ad assicurare la salute e l’informazione dei consumatori, è prevista, tra l’altro: l’istituzione dei «distretti biologici», quali sistemi produttivi locali a carattere interprovinciale e interregionale (art. 7) e dei «comprensori biologi», ovvero comparti produttivi aggregati e omogenei estesi su territori di una o più province (art. 8); la promozione delle intese di filiera del settore (art. 9); la disciplina del «vino biologico» ottenuto da una filiera interamente biologica (art. 15)646 e della ristorazione collettiva (art. 19); la gestione di tipo biologico di aree di verde pubblico (art. 18); la realizzazione del registro per le varietà delle sementi da conservazione biologiche (art. 13); la disciplina delle sanzioni a carico degli OdC e degli operatori (titolo IX). L’art. 12 è invece dedicato al logo nazionale: «È istituito il logo nazionale per le produzioni biologiche. L’utilizzo del logo […] è riservato ai prodotti biologici per i quali tutte le fasi del processo di produzione e trasformazione sono interamente realizzate sul territorio nazionale, nel rispetto della disciplina dettata dal regolamento [(CE) n. 834/07] e dalla presente legge»647. Rispetto alle indicazioni realtive al logo nazionale, contenute nel testo unificato 645 Si tratta dei seguenti disegni di legge: S. 593, PIGNEDOLI, «Norme per lo sviluppo e l’incentivazione dell’agricoltura biologica», presentato il 20 maggio 2008 e ancora da assegnare; S.1035, DE CASTRO et al., «Nuove disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola ed agroalimentare con metodo biologico», presentato il 18 settembre 2008; S. 1115, SANCIU et al., «Disposizioni in materia di produzione biologica», presentato il 15 ottobre 2008 (cfr. schede Atti Senato in www.senato.it). 646 L’emendamento all’art. 15 del nuovo testo unificato proposto da ALLEGRINI e BERTUZZI propone di sostituire le parole «vino biologico» con «vino prodotto con uve biologiche», in considerazione del fatto che, non essendo ancora intervenuta una specifica disposizione comunitaria al riguardo, è possibile fare riferimento in etichetta al metodo di produzione biologico esclusivamente per le uve (cfr. supra nota 292). 647 L’art. 12 demanda a successivi decreti interministeriali la definizione della forma e delle caratteristiche tecniche nonché la disciplina d’uso del logo nazionale, assegnando esclusivamente al MIPAAF la facoltà di comminare sanzioni amministrative da tremila a ventimila euro per l’utilizzo del logo o la commercializzazione di prodotti in violazione delle norme in materia di etichettatura previste all’art. 11 della stessa legge (Atti Senato, XVI Legislatura, n. 1035 e n. 1115). 246 «Agricoltura biologica» adottato alla Camera nel 2007, è stata eliminata la dicitura BIO ITALIA, evitando possibili incompatibilità con l’art. 34 TFUE; inoltre, proprio per questi motivi e considerato che molte materie prime sono importate da paesi UE ed extra UE, è stata inclusa la trasformazione nelle fasi da realizzarsi sul territorio nazionale per ottenere l’utilizzo del logo. Un emendamento all’art. 12 del nuovo testo unificato, propone, inoltre, di rendere obbligatorio l’utilizzo del logo nazionale648. Tuttavia, l’esame di questo e degli altri emendamenti presentati al testo unificato, iniziato in IX Commissione nella seduta del 3 marzo 2010 e proseguito in quelle del 21 e 27 settembre 2010, è stato rinviato a data da destinarsi649. Nel frattempo, alla Camera, sono stati presentati, nel corso del 2010, altri due disegni di legge che riguardano l’istituzione del logo nazionale per i prodotti biologici, entrambi assegnati alla XIII Commissione ma di cui non è ancora iniziato l’esame. Il primo disegno di legge650, finalizzato all’istituzione del logo nazionale dell’agricoltura biologica, si propone - come si legge nella presentazione - di: «contribuire […] a far assumere all’agricoltura biologica un ruolo centrale all’interno dell’economia rurale e garantire che essa possa essere sviluppata e incentivata per gli spazi di valorizzazione che ancora aspettano di essere colmati; collegare l’istituzione del logo nazionale al concetto di qualità per consentire all’Italia di competere anche sui mercati internazionali sotto il profilo della genuinità e della sicurezza delle produzioni biologiche; migliorare l’identificazione dei prodotti biologici in favore di una corretta informazione dei consumatori». Sennonché il disegno di legge, costituito da un unico 648 Si tratta dell’emendamento presentato da ALLEGRINI e BERTUZZI al testo unificato adottato dalla IX Commissione e da questa illustrato, in sede referente, nella seduta del 4 febbraio 2010, nel corso della quale era stato fissando il termine per la presentazione degli emendamenti alle ore 18 del 18 febbraio 2010 (cfr. scheda Atto Senato n. 1035: www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/32326.htm e scheda Atto Senato n. 1115: www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/32533.htm). 649 La V Commissione permanente (Bilancio), nella seduta consultiva del 25 maggio 2011, ha iniziato l’esame sul nuovo testo unificato per i disegni di legge n. 1035 e n. 1115 e sugli emendamenti, al fine di esprimere un parere alla IX Commissione, sollevando alcune osservazioni e rinviando il seguito dell’esame a data da fissare (Ibidem). 650 Si tratta del disegno di legge C. 3336, DI GIUSEPPE et al., «Istituzione del logo nazionale dell’agricoltura biologica per la tutela dei prodotti biologici italiani», presentato il 18 marzo 2010 (www.camera.it). 247 articolo651, assegna al logo la denominazione «prodotto biologico italiano» e tale aggettivo avrebbe carattere discriminatorio nei confronti dei prodotti importati dagli altri Stati membri, se tale marchio fosse riservato - come del resto si evince dalla norma - ai soli prodotti nazionali ed elaborati a partire da materie prime nazionali, ed è perciò incompatibile con l’art. 34 TFUE. Il secondo disegno di legge652, che - come si legge nella presentazione «intende disciplinare alcuni aspetti ritenuti di prioritaria importanza, affinché, nel rispetto delle norme comunitarie, si possa giungere ad una qualificazione e, quindi, ad una valorizzazione dei prodotti biologici italiani», è l’ennesima proposta di legge in materia, con norme specifiche analoghe a quelle previste nel testo unificato all’esame del Senato, dal quale si differenzia, tra l’altro, per la delega al Governo a legiferare per la definizione del sistema sanzionatorio. Il disegno di legge, però, si caratterizza per le norme relative all’istituzione del logo nazionale, il cui utilizzo, come si legge nella presentazione, «è subordinato al rispetto di requisiti più stringenti di quelli previsti dal regolamento comunitario, ad esempio, per quanto riguarda l’assenza di organismi geneticamente modificati […] e lo svolgimento dell’intero processo produttivo sul territorio nazionale». Tuttavia, se il recente nuovo approccio della Commissione Europea sulla coesistenza, come argomentato nelle pagine precedenti653, apre agli Stati membri la possibilità - seppur basandosi su motivazioni di ordine sociale, economico, etico e morale - di ridurre la soglia accidentale di OGM in particolari tipi di produzione, come i prodotti alimentari biologici, un logo che fosse parte integrante di un marchio collettivo pubblico riservato ai soli 651 Si legge all’art. 1: «È istituito il logo nazionale dell’agricoltura biologica, denominato «prodotto biologico italiano». L’utilizzo del logo nazionale […] è riservato ai prodotti biologici per i quali tutte le fasi relative alla produzione e alla lavorazione, nonché tutte le materie prime biologiche utilizzate sono interamente realizzate e prodotte sul territorio nazionale. Con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, da emanare di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano […] sono definite la forma, le caratteristiche tecniche e la disciplina d’uso del logo nazionale […]. L’utilizzazione e lo sfruttamento economico indebito del logo nazionale […], nonché la commercializzazione di prodotti recanti il logo medesimo non avendone i requisiti necessari, sono puniti ai sensi delle disposizioni di legge vigenti in materia» (ddl C. 3336). 652 Si tratta del disegno di legge C. 3704, NASTRI, «Disciplina dell’agricoltura biologica», presentato il 10 settembre 2010 (www.camera.it). 653 Cfr. capitolo I, paragrafo 5. 248 prodotti nazionali ed elaborati a partire da materie prime nazionali violerebbe l’art. 34 TFUE, anche se il contorto dettato dell’art. 9 del disegno di legge sembrerebbe “limitare” al contesto nazionale la fase della produzione primaria, potendo la fase della trasformazione contenere materie prime di origine non nazionale654. 2.2. Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale Per la realizzazione dell’Azione 14, relativa all’istituzione del logo nazionale, e dell’Azione 17, relativa all’evento promozionale «Stati generali del bio», dell’Asse 3 del PAN, il MIPAAF, con decreto del 23 dicembre 2008, n. 11348, ha assegnato all’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA) lo svolgimento di un progetto di ricerca denominato «Stati generali per lo sviluppo dell’agricoltura biologica italiana»655. Nell’ambito del progetto, l’INEA ha realizzato lo «Studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale da utilizzare nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti biologici», finalizzato ad evidenziare i 654 L’art. 9, rubricato «Logo nazionale», dispone: «È istituito il logo nazionale per le produzioni ottenute da agricoltura biologica. Con decreto del Ministro, di concerto con il Ministro per le politiche europee, d’intesa con la Conferenza Stato-regioni […] si definiscono: la forma, le caratteristiche tecniche e il regolamento d’uso del logo nazionale […]. In ogni caso, l’utilizzazione del logo di cui al presente articolo è concesso solo per prodotti il cui intero ciclo produttivo è svolto in Italia e per i quali sono riportate nell’etichetta l’origine del prodotto stesso, ovvero delle materie prime di cui è composto, nonché la totale assenza di organismi geneticamente modificati e di loro derivati» (ddl C. 3704). Se per ciclo produttivo devono intendersi le fasi della produzione vegetale e dela produzione animale come definite all’art. 2 del reg. (CE) n. 834/07, rispettivamente lettera e) («produzione vegetale»: la produzione di prodotti agricoli vegetali inclusa la raccolta di piante selvatiche a fini commerciali) e lettera f) [«produzione animale»: la produzione di animali terrestri domestici o addomesticati (compresi gli insetti], l’art. 9 del disegno di legge in questione sembrerebbe escludere la fase della preparazione come definita all’art. 2, lettera i), del regolamento comunitario («preparazione»: le operazioni di conservazione e/o di trasformazione di prodotti biologici, compresa la macellazione e il sezionamento dei prodotti animali, nonché il confezionamento, l’etichettatura e/o le modifiche apportate all’etichettatura riguardo all’indicazione del metodo di produzione biologico), come d’altronde sembrerebbe confermare la frase contenuta nello stesso art. 9 del ddl («sono riportate nell’etichetta l’origine del prodotto stesso, ovvero delle materie prime di cui è composto»), dove non vi è alcun riferimento all’origine nazionale né del prodotto finito né delle materie prime di cui questo è composto. 655 I risultati della ricerca sono contenuti in ABITABILE e POVELLATO, op. cit., 2010. 249 pro e i contro relativi alla realizzazione e all’adozione di un logo biologico nazionale656. Lo studio, che si interroga, in particolare, su alcune questioni di fondo relative alla natura giuridica del logo nazionale e alla sua coerenza alle disposizioni comunitarie in materia di marchi collettivi geografici di natura pubblica, si concentra sui seguenti aspetti: indaga l’utilità del logo nazionale per i prodotti biologici di cui all’art. 1.2 del reg. (CE) n. 834/07 - e il relativo profilo giuridico, focalizzandosi sui caratteri distintivi da attribuire ad esso perché possa essere funzionale e coerente con le esigenze del settore; studia l’interesse e l’impatto che l’introduzione del logo avrebbe sugli attori del sistema biologico nazionale, sul fronte del consumo e su quello della produzione; approfondisce e commenta, in una visione di insieme, gli elementi che hanno permesso di tracciare lo scenario per il logo nazionale e di definire i suoi elementi distintivi657. Secondo lo studio, il primo comma dell’art. 24 del reg. (CE) n. 834/07, dal quale si evince che l’indicazione «Agricoltura UE» può essere integrata o sostituita dall’indicazione «Agricoltura italiana» nello stesso campo visivo del logo comunitario per i prodotti in cui almeno il 98% degli ingredienti di origine agricola provenga dall’Italia, in un certo senso tiene conto, implicitamente, del fatto che un prodotto biologico tragga le sue qualità o le sue caratteristiche essenzialmente, esclusivamente o anche solo parzialmente dall’ambiente geografico658. Sennonché, i loghi nazionali pubblici, ammessi, ai sensi dell’art. 25 del regolamento, unitamente al logo europeo nella etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti biologici che soddisfino i requisiti 656 Ibidem. Una sintesi dello studio INEA coordinato da GIUCA e svolto in collaborazione con «DELFIA S.r.l.» è consultabile sul sito www.inea.it/statigeneralibio e sul sito www.sinab.it. 657 GIUCA, Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale, cit., 2010, p. 181. Lo studio è articolato nelle seguenti fasi: «a) definizione dello stato dell’arte del mercato biologico globale, europeo e nazionale al fine di delineare il contesto dello studio; b) analisi critica delle politiche di valorizzazione e differenziazione dei prodotti biologici realizzate in alcuni Paesi [UE…]; c) indagine conoscitiva rivolta ai destinatari del marchio collettivo nazionale tramite somministrazione di questionari a un panel significativo di consumatori e a testimoni privilegiati; d) lettura incrociata delle informazioni emerse dai punti precedenti tramite analisi SWOT (punti di forza e punti di debolezza, opportunità e minacce) con la messa a punto di un quadro definitorio e metodologico delle scelte possibili, a supporto dell’amministrazione pubblica, per delineare le caratteristiche peculiari del logo nazionale» (Ivi, pp. 183-184). 658 Ivi, p. 203. 250 stabiliti dalle norme comunitarie, non devono legare le caratteristiche qualitative del prodotto che se ne fregia all’origine territoriale, come è stato ampiamente argomentato anche nelle pagine precedenti, e devono essere accessibili a ogni impresa comunitaria o extra-comunitaria in regime di equivalenza o nel rispetto delle norme del titolo VI del reg. (CE) n. 834/07659. Inoltre, come si è avuto modo di riflettere anche in questo lavoro, il reg. (CE) n. 834/07 consente agli Stati membri di intervenire sulle regole di produzione in almeno tre casi: adottando standard di produzione rispondenti a norme più restrittive di quelle previste dal regolamento, «purché tali norme siano applicabili anche alla produzione non biologica, siano conformi alla normativa comunitaria e non vietino o limitino la commercializzazione di prodotti biologici prodotti al di fuori del territorio dello Stato membro interessato» (art. 34, comma 2); normando comparti produttivi non ancora regolamentati a livello comunitario, come la ristorazione collettiva (art. 1.3) e i mangimi per animali da compagnia [art. 95.5, reg. (CE) n. 889/08]; derogando a norme specifiche per supplire a situazioni di difficoltà, purchè limitate al minimo e nel tempo, per l’avvio o il mantenimento della produzione biologica in aziende soggette a vincoli climatici, geografici o strutturali, approvvigionamento di mangimi, sementi e altri fattori di produzione, i quali non siano disponibili sul mercato in forma biologica (c.d. «regola della flessibilità», art. 22)660. Partendo da questi presupposti, lo studio ha indagato la fattibilità del logo nazionale, parte integrante di un marchio collettivo pubblico, che garantisca “istituzionalmente” - sulla base di controlli affidati ad un soggetto terzo indipendente - la rispondenza del prodotto marcato ad una serie di elementi contenuti in un disciplinare che prescriva norme tecniche più rigorose (purché tali disciplinare sia applicabile anche alla produzione non biologica e sia conformi al diritto comunitario) in grado di conferire valore aggiunto al prodotto, utilizzando caratteristiche peculiari, ambientali e di contesto nelle quali l’agricoltura biologica nazionale si trova ad operare, come l’impiego di cultivar e razze animali autoctone, l’adozione di pratiche agrarie e/o metodiche di trasformazione tipiche locali, il rispetto di determinati vincoli ambientali e 659 660 Cfr. supra nota 350. GIUCA, op. ult. cit., 2010, p. 204. 251 sociali durante l’intero ciclo di vita del prodotto con uso di risorse locali e rinnovabili, la filiera «OGM free» (ovvero con una soglia accidentale di OGM inferiore allo 0,9%), misure più restrittive in materia di benessere animale e così via661. «In uno scenario di mercato in cui le pressioni provenienti dai meccanismi della competizione sono destinate a crescere, il potere mediatico dell’industria e della distribuzione moderna rischia di massificare il prodotto biologico. Intervenendo anche nel biologico su leve di marketing tipiche delle produzioni convenzionali con grandi numeri [come la promozione sul punto di vendita] volte alla segmentazione del mercato e alla creazione di un numero elevato di posizioni di nicchia per livello di reddito, ne deriva uno “snaturamento” dei valori nella percezione che il consumatore ha del prodotto biologico e della sua disponibilità a pagare un premium price per avere un prodotto con quei valori (e quelle qualità). Fortunatamente il settore, in Italia, gode di una consapevolezza dei valori del biologico da parte di uno “zoccolo duro” di consumatori di tutte le classi sociali, anagrafiche ed economiche con un discreto tasso di crescita dei consumi biologici […]. Il mercato […] presenta margini di espansione tramite, ad esempio, un ampliamento della gamma dei prodotti, maggiori investimenti sulla politica di marca, l’aumento della penetrazione nella grande distribuzione associata (GDA) e la crescita dei canali commerciali rilevanti (negozi specializzati, vendita diretta, GDA). La realizzazione di un logo nazionale per il biologico [con queste caratteristiche] potrebbe aprire una nuova frontiera nell’evoluzione della concorrenza delle produzioni agro-alimentari per valorizzare e dare riconoscibilità alla qualità dei prodotti biologici italiani»662. In sostanza, verrebbe a crearsi una nuova opportunità di comunicazione a tutti i livelli della filiera fino al consumatore finale, con una riduzione dell’asimmetria informativa produttori/consumatori e un aumento nel consumatore finale della percezione di valore e qualità del prodotto biologico che ha adottato il logo nazionale; ciò potrebbe tradursi in una migliorare capacità di penetrazione del prodotto marcato sul mercato 661 662 Ibidem. Ivi, pp. 199-200. 252 nazionale e in un aumento del peso degli alimenti biologici sui consumi domestici alimentari. Al fine di testare l’apprezzamento e l’utilità del logo nazionale sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta, è stata svolta un’indagine conoscitiva attraverso la definizione e l’utilizzo di due questionari a risposta multipla; il primo è stato sottoposto a un panel di consumatori italiani, in collaborazione con l’insegna di negozi specializzati nella vendita di prodotti biologici «NaturaSì», mentre il secondo è stato somministrato agli operatori che hanno partecipato attivamente ai gruppi tematici nell’ambito degli eventi organizzati nel corso degli «Stati generali del biologico»663. L’indagine, che ha visto l’88% dei consumatori, a fronte del 29% degli operatori, favorevole all’introduzione del logo nazionale e al suo utilizzo in etichetta, ha consentito di individuare l’incidenza delle caratteristiche che dovrebbe avere il disciplinare del logo nazionale sulla base delle preferenze espresse dagli intervistati su un ventaglio di proposte664. Successivamente, 663 «La scelta [dell’insegna] è stata motivata dal fatto che il dettaglio specializzato rappresenta, insieme alla vendita diretta in azienda, un tradizionale canale commerciale dei prodotti biologici in Italia e NaturaSì, con 68 supermercati biologici localizzati in 48 città, si colloca tra i principali protagonisti del trade. L’indagine è stata svolta nei mesi di ottobre e novembre 2009 […] su un campione ridotto ma significativo di consumatori di prodotti biologici (317 unità), che rappresenta lo 0,5% dell’universo indagato, pari a circa 60.000 utenti iscritti alla newsletter di Naturasì […]. Il campione [di operatori] indagato, composto da 28 unità, non ha alcuna significatività sul piano statistico ma rappresenta un panel di “testimoni privilegiati” costituito da operatori di diversa dimensione che si diversificano proporzionalmente lungo tutta la filiera biologica. L’indagine ha avuto, complessivamente, i seguenti obiettivi principali: conoscere tra gli estimatori di prodotti biologici la loro frequenza di acquisto e l’incidenza degli elementi di immediata riconoscibilità di questi prodotti sulle loro scelte; conoscere la propensione dei consumatori di prodotti biologici all’informazione in etichetta, alla trasparenza e alle forme di garanzia di questi prodotti; indagare sulla disponibilità di consumatori e operatori all’introduzione di un logo nazionale per i prodotti biologici e sulle aspettative delle caratteristiche dei prodotti ad esso collegati; indagare sull’orientamento degli operatori riguardo alle modalità del sistema di controllo del logo nazionale e agli oneri connessi» (Ivi, p. 205). 664 Secondo i consumatori e gli operatori indagati, il ruolo istituzionale di garanzia del logo nazionale dovrebbe essere supportato da un sistema più stringente di controlli di parte terza indipendente sul prodotto; per entrambi, il disciplinare dovrebbe prevedere l’adozione di standard produttivi più rigorosi di quelli previsti dal regolamento europeo (12% delle risposte di ciascun campione), come ad esempio limitazioni o divieto nell’uso di additivi, coadiuvanti, ingredienti non biologici, adozione dei principi dell’agroecologia e ulteriori specifiche relative al benessere animale. Inoltre il logo, attraverso il disciplinare, dovrebbe garantire l’origine nazionale della materia prima e degli ingredienti, l’impiego di varietà vegetali e razze animali autoctone e la localizzazione sul territorio italiano dell’azienda che lo produce (queste tre preferenze hanno totalizzato, insieme, oltre il 48% delle risposte tra i consumatori e oltre il 43% delle risposte tra gli operatori). Il disciplinare dovrebbe puntare anche alla bassa impronta ecologica del ciclo di vita del prodotto (10% e 8% delle preferenze espresse, rispettivamente, 253 utilizzando l’analisi SWOT665, sono stati indagati i fattori endogeni e esogeni capaci di influire sul contesto oggetto di studio, al fine di delineare lo scenario di riferimento per la creazione del logo nazionale. L’analisi ha permeso di costruire una tabella contenente «gli elementi che nell’immediato futuro potranno condizionare, positivamente o negativamente, la possibilità di creare un segno grafico o un marchio nazionale a supporto dello sviluppo del settore», nonché «le opportunità che il biologico nazionale dovrà essere in grado di cogliere, ma anche i vincoli che ne indirizzeranno o limiteranno l’adozione»666. L’immediata identificazione del prodotto biologico made in Italy da parte del consumatore e la capacità di accrescere la percezione di valore e qualità del prodotto biologico nazionale nel consumatore, in termini di garanzia e controlli, sono i principali punti di forza del logo nazionale inseriti nella matrice di analisi. Inoltre, per l’identificazione di ulteriori elementi di forza, è stato osservato che la presenza di un’istituzione pubblica, garante della rispondenza dei prodotti marchiati a determinati requisiti, rafforza la fiducia dal campione degli operatori, che avverte l’importanza della differenziazione del prodotto biologico sul mercato, e da quello di consumatori), ovvero sull’utilizzo di energie rinnovabili, sulla logistica e il confezionamento a basso impatto ambientale, sulla riduzione dei percorsi (trasporto a km zero) e sui vuoti a rendere (Ivi, pp. 206-213). 665 SWOT, acronimo di strenghs (punti di forza), weaknesses (punti di debolezza), opportunities (opportunità), threats (minacce), è uno strumento di pianificazione strategica usato nel marketing ai fini di un progetto, uno studio, una determinata politica in un’impresa o in ogni altra situazione in cui un’organizzazione o un individuo deve prendere una decisione per raggiungere un obiettivo. L’analisi, che può riguardare l’ambiente interno o esterno di un’organizzazione, consiste nell’identificare i punti di forza e di debolezza e nell’individuare quali possono essere le opportunità e le minacce al suo sviluppo attraverso la costruzione della matrice SWOT e prosegue con la valutazione delle WOT, ovvero con la valutazione dei punti di debolezza secondo l’importanza e la performance, la valutazione delle opportunità secondo l’attrattività e le probabilità di successo e la valutazione delle minacce secondo la gravità e la probabilità di manifestarsi. Sin dagli anni ‘80 l’analisi SWOT è stata proposta come supporto alle scelte di intervento pubblico per analizzare scenari alternativi di sviluppo; oggi è estesa alle diagnosi territoriali e alla valutazione dei programmi regionali e i regolamenti comunitari ne richiedono l’utilizzo per la valutazione di piani e programmi Per approfondimenti: KOTLER e KELLER, op. cit., 2007; LEE e SAI ON KO, Building balanced scorecard with SWOT analysis, and implementing «Sun Tzu’s The Art of Business Management Strategies» on QFD methodology, in Managerial Auditing Journal, 2000, 15, 1-2, pp. 68-76; PICKTON e WRIGHT, What’s swot in strategic analysis?, in Strategic Change, 1998, 7, pp. 101-109; CARSON et al., Marketing and entrepreneurship in SME’s: An Innovative Approach, 1995, Hertfordshire UK; WEIHRICH, The TOWS Matrix - A Tool for Situational Analysis, in Journal of Long Range Planning, 1982, 15, 2, pp. 54-66. 666 Nello studio, il quadro sintetico delle variabili interne ed esterne al sistema italiano che possono influenzare la fattibilità del logo è stato realizzato sulla base degli elementi emersi dall’analisi dei marchi nazionali istituiti nei Paesi UE, dei riferimenti giuridici per il logo nazionale, nonché dai risultati dell’indagine condotta sui consumatori e sugli operatori del biologico (GIUCA, op. ult. cit., 2010, pp. 213-215). 254 nei confronti di chi vende e produce, come confermato dall’indagine svolta, dalla quale è emerso che i consumatori identificano il marchio nazionale con la certezza che tutte le fasi del processo di produzione e trasformazione sono avvenute nel territorio italiano o che è stato adottato un disciplinare che rafforza il legame con le caratteristiche delle cultivar e delle razze animali autoctone, con le pratiche agrarie o con le metodiche di trasformazione. Gli aspetti giuridici che limitano gli elementi distintivi del marchio collettivo geografico pubblico e impongono l’assenza nel disciplinare di un legame diretto tra le caratteristiche qualitative del prodotto e l’origine territoriale, invece, sono stati identificati nella matrice tra gli elementi di debolezza e valutati tra i più importanti. Anzi, un ulteriore punto debole risiede proprio nella funzione svolta dal marchio collettivo geografico pubblico, che garantisce e certifica le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto legate al metodo di produzione sulla base dei parametri indicati nei disciplinari ma «non garantisce qualità organolettiche chiaramente definite: in assenza di panel di degustazione come nel caso degli oli extra-vergini o dei vini a denominazione protetta, un prodotto biologico a marchio nazionale potrebbe anche non risultare soddisfacente al consumatore»667. Ulteriori elementi di debolezza risiedono negli aspetti tecnici - ovvero nella difficoltà di collocare in etichetta, oltre a una serie di diciture testuali previste per legge, una pluralità di marchi, loghi e pittogrammi che discendono da norme cogenti, obblighi tecnici e usi consolidati668 - e in quelli economici, nel caso in cui il disciplinare di produzione preveda norme più rigorose di quelle comunitarie in materia di agricoltura biologica669. Tra le opportunità per la costituzione del logo nazionale identificate nella matrice, vi è quella di fornire maggiore visibilità ai prodotti biologici sul 667 Ivi, p. 216. Tra questi: il logo europeo, il codice a barre, la tabella nutrizionale, il pittogramma ecologico che invita a non disperdere l’imballaggio nell’ambiente, il bollo sanitario, il pittogramma che assicura l’utilizzo di materiale per imballi idoneo all’uso alimentare, l’esagono che dettaglia il materiale d’imballaggio, il lodo dell’OdC, il logo europeo per le produzioni DOP/IGP, il logo del Consorzio di tutela della DOP/IGP (Ivi, p. 214). 669 Al riguardo, «la frammentazione della base produttiva, caratteristica comune a tutto il sistema agro-alimentare italiano, potrebbe costituire un limite alla creazione di un disciplinare di produzione che accomuni le richieste di operatori diversi e, allo stesso tempo, potrebbe non garantire una rapida diffusione di un percorso di valorizzazione» (Ibidem). 668 255 mercato domestico attraverso un simbolo univoco. «Tenuto conto che la comunicazione è un punto debole del settore, il ricorso a incisive iniziative di comunicazione istituzionale e di educazione al consumo rappresenta un’opportunità capace di incidere sulla fidelizzazione del consumatore verso i prodotti biologici e probabilmente verso il marchio nazionale che questi trova nei punti di vendita»670. Poiché, in linea di massima, il consumatore indirizza le proprie scelte soprattutto verso prodotti alimentari di origine nazionale671, ciò gioca a favore del fatto che il marchio collettivo pubblico non può essere direttamente pubblicizzato o sostenuto per non incorrere nella violazione delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sulla libera concorrenza, come ampiamente argomentato nelle pagine precedenti672. Inoltre, la possibilità di migliorare sul mercato la capacità di penetrazione del prodotto con il logo nazionale è stata valutata come un’opportunità capace di «offrire l’occasione per cogliere nuovi spazi-canali di mercato, anche sottraendoli agli analoghi prodotti convenzionali, aumentando il peso dell’intero settore biologico sui consumi domestici. In questo senso, il […] marchio collettivo pubblico può superare, o quanto meno ridurre, l’asimmetria informativa produttore/consumatore attraverso una maggiore trasparenza di mercato. Perché ciò si verifichi è tuttavia necessario l’intervento delle istituzioni pubbliche che sono in grado di assicurare la conformità dei prodotti biologici a marchio nazionale a elevati standard di qualità codificati in un apposito disciplinare. Mentre la giusta comunicazione […] è fondamentale perché il marchio può essere oggetto di equivoci e generalizzazioni, in quanto i consumatori potrebbero non interpretare bene il suo significato o ignorare le informazioni presenti in etichetta»673. L’identificazione delle minacce e la loro valutazione secondo la gravità e la probabilità di manifestarsi hanno portato a ritenere che «l’introduzione di un logo nazionale - anche se finalizzato a recuperare le specificità del biologico che rischiano di essere stemperate dalla tendenza all’omologazione per effetto 670 Ivi, p. 216. SASSATELLI, op. cit., 2010. Sul punto, si rimanda al capitolo I, paragrafo 2. 672 Cfr. infra paragrafo 1. 673 GIUCA, op. ult. cit., 2010, p. 217. 671 256 della crescita del mercato - potrebbe portare a un’ulteriore segmentazione del settore dove già i prodotti a marchio industriale e commerciale (private labels delle insegne della GDO) creano più posizioni di nicchia per livello di reddito»674. Secondo lo studio potrebbe rappresentare un’ulteriore minaccia l’aggiunta del logo nazionale ai già numerosi marchi e diciture presenti sui prodotti biologici pre-confezionati con il rischio, da un lato, di generare confusione nei consumatori - in assenza, come detto, di un’adeguata comunicazione - e, dall’altro, di tradursi in costi aggiuntivi e oneri burocratici per gli operatori del settore, con un incremento della forbice tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo, tenuto conto del diverso peso delle varie componenti della filiera. Con l’adozione del logo nazionale potrebbe verificarsi, altra minaccia evidenziata, «l’erosione del vantaggio competitivo della nazionalità per le imprese italiane che aderiscono al marchio collettivo nazionale dovuta [non solo] alla coesistenza sul mercato di marchi nazionali di altri Paesi percepiti come convenience dai consumatori [e] all’obbligo di concedere il marchio anche ad aziende comunitarie ed extra-comunitarie in regime di equivalenza o meno» (a condizione che la produzione sia conforme alla normativa europea di settore) ma, soprattutto, all’obbligo di etichettatura con la dicitura «Agricoltura UE/non UE» per i moltissimi prodotti biologici trasformati che contengono ingredienti provenienti da Paesi extra UE in misura superiore al 2% (confetture, marmellate, nettari di frutta, caffè, cioccolato, prodotti da forno, ecc.675). In quest’ultimo caso, in attesa che entrino in vigore le norme del reg. (UE) n. 1169/2011 che estendono l’indicazione obbligatoria dell’origine della materia prima - già prevista per determinati prodotti o loro categorie - ad ulteriori categorie di alimenti, l’immagine del biologico che contiene materie prime agricole di provenienza non comunitaria - come osservato nelle pagine precedenti676 - potrebbe essere penalizzata a favore di analoghe produzioni convenzionali esentate dall’obbligo di comunicare l’origine delle materie prime 674 Ibidem. Cfr. supra nota 332. 676 Cfr. capitolo II, paragrafo 2. 675 257 in etichetta ma che potrebbero contenere materie prime di origine non nazionale. Da ultimo, è stata valutata come possibile minaccia la complicazione del sistema di controllo anche se è stato osservato che, da un lato, la possibilità di revisionare le procedure rendendole più efficaci e, dall’altro, la possibilità di migliorare il coordinamento degli enti preposti alla vigilanza, in realtà potrebbero configurarsi come delle opportunità. 2.3. (segue) l’individuazione degli elementi distintivi del logo nazionale e alcune riflessioni sulla sua funzione Lo studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale per i prodotti biologici in Italia ha messo in luce i possibili vantaggi e svantaggi legati alla veste giuridica che questo può assumere con riferimento al quadro normativo comunitario e nazionale. Se ne deduce che il logo nazionale può configurarsi come un segno grafico oppure come un logo parte integrante di un marchio collettivo geografico di natura pubblica. Nel caso in cui il logo nazionale, istituito da un’apposita legge che ne definisce la forma e le caratteristiche tecniche, fosse un segno grafico, disegno o pittogramma, da apporre sulle confezioni di prodotti certificati biologici, rispondenti ai requisiti previsti dalla normativa comunitaria e nazionale, non avrebbe alcuna funzione di garanzia e certificazione delle caratteristiche qualitative dei prodotti marcati ma sarebbe un modo di rendere nota in etichetta l’origine nazionale del prodotto677. La funzione del logo, in tal caso, è quella di comunicare “a colpo d’occhio” l’origine dei prodotti, come una sorta di marca “nazionale” dei prodottti biologici coltivati e trasformati dall’”impresa” Italia; ma mentre il brand svolge funzione distintiva dell’origine del prodotto da una determinata impresa e la veridicità della dichiarazione dell’origine italiana è autocertificata dal produttore titolare della marca, nel logo nazionale, che non svolge funzione distintiva dell’origine del prodotto da una determinata impresa, essendo destinato ad una pluralità di soggetti che se ne fregiano, la veridicità 677 GIUCA, op. ult. cit., 2010, p. 218. 258 della dichiarazione dell’origine è “garantita” dalla legge, nel senso che essa autorizza l’apposizione del logo sulla confezione solo a chi è in grado di dimostrare la provenienza nazionale del prodotto biologico. Il logo nazionale quale segno grafico svolge, pertanto, la funzione propria dell’indicazione geografica semplice, «indicando solo l’origine del prodotto, non esistendo alcun nesso tra la qualità, la reputazione o un’altra caratteristica dello stesso, da un lato, e la sua origine espressa dal nome, dall’altro»678, e rafforzerebbe la dicitura «Agricoltura italiana» che può essere indicata in etichetta accanto al logo obbligatorio UE in sostituzione della dicitura «Agricoltura UE» quando almeno il 98% delle materie prime agricole di cui il prodotto è composto sono state coltivate in Italia, come dispone il reg. (CE) n. 834/07, art. 24, comma 1, lettera c). Poiché molte imprese italiane non potrebbero usare il logo nazionale, dal momento che in molti casi la materia prima lavorata proviene da Paesi extraUE in percentuali superiori al 2%, lo studio propone di adottare un logo nazionale con la dicitura «Produzione Italia» per quei prodotti biologici che presentano percentuali di ingredienti di origine italiana uguali o superiori al 98%, oppure con la dicitura «Trasformazione Italia» per quei prodotti biologici che presentano percentuali di ingredienti di origine italiana inferiori al 98%, sebbene l’utilizzo di ulteriori diciture in etichetta potrebbe riflettersi in maggiori costi e in difficoltà tecnico-organizzative per gli operatori del settore679. Nel caso, invece, in cui il logo fosse parte integrante di un marchio collettivo geografico di natura pubblica, questo si caratterizzerebbe per la dissociazione fra titolarità e uso del marchio, l’esistenza di un disciplinare di produzione, nonchè di un regolamento contenente l’uso del marchio, il sistema dei controlli e il sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 2570 c.c. e dell’art. 11 del d. lgs. 30/05 recante il Codice della proprietà industriale (c.p.i.), nel rispetto della normativa comunitaria vigente in materia680. Riguardo al marchio collettivo geografico pubblico, «la legge italiana non traccia alcuna linea di 678 Sentenza «Budvar», cfr. supra nota 388. GIUCA, op. ult. cit., 2010, pp. 220-221. 680 Cfr. capitolo II, paragrafo 2. 679 259 demarcazione tra marchi collettivi e marchi di garanzia o certificazione, facendo convergere, anche sotto il profilo funzionale, le distinte tipologie di segni menzionate nella direttiva comunitaria, nell’unica categoria del marchio collettivo»681. Ne consegue che il logo nazionale, istituito tramite legge che ne definisce la forma e le caratteristiche tecniche e i cui elementi grafici distintivi possono anche essere tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del territorio682, svolgerebbe la funzione di garanzia e certificazione delle caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto collegate al metodo di produzione biologico683; in tal caso, l’origine - eventualmente indicata accanto al logo obbligatorio UE, in sostituzione della dicitura «Agricoltura UE» quando almeno il 98% delle materie prime agricole di cui il prodotto è composto sono state coltivate in Italia - è oggetto, tenuto conto, come detto, delle disposizioni dei Trattati, delle regole di diritto comunitario derivato e della giurisprudenza della Corte di giustizia, «di una semplice dichiarazione di provenienza, nel senso di luogo da cui proviene il prodotto, senza alcuna implicazione di particolari caratteristiche legate a tale provenienza»684. Il logo nazionale parte integrante di un marchio collettivo geografico pubblico, come argomentato nelle pagine precedenti, deve in ogni caso essere aperto a tutte le imprese comunitarie ed extra-comunitarie in regime di equivalenza o quando la produzione biologica è provata dalla certificazione rilasciata da un organismo o da un’autorità di controllo riconosciuti ai sensi del reg. (CE) n. 834/07, ovvero consentendo l’impiego di materie prime di origine non nazionale se, come nel caso dei marchi pubblici di Danimarca, Repubblica Ceca, Finlandia e Spagna, il marchio italiano dovesse disporre che l’ultima preparazione del prodotto (confezione e/o etichettatura) sia effettuata da una 681 ALBISINNI, CORAPI e CARRETTA, op. cit., 2007, p. 11. «I proventi derivanti dallo sfruttamento del marchio a fini commerciali, compreso quello effettuato mediante la concessione di licenze e per attività di merchandising, dovranno essere destinati al finanziamento delle attività istituzionali o alla copertura degli eventuali disavanzi pregressi dell’ente [titolare del marchio]» (art. 19, comma 3, del c.p.i., come modificato dal d. lgs, 131/10). 683 Tale funzione attesta la conformità del prodotto a standard qualitativi e a determinati requisiti riscontrabili in maniera esplicita all’interno del disciplinare di produzione e verificabili da parte di un organismo di controllo di parte terza. 684 ALBISINNI, Le norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari, cit., 2003, p. 639. Sul significato di origine cfr. supra nota 338. 682 260 società (trasformatore, importatore, confezionatore) localizzata nel territorio nazionale, soggetta, pertanto, al controllo delle autorità italiane685. Inoltre, qualora il disciplinare di produzione preveda norme più rigorose per la produzione biologica vegetale e per quella animale, queste devono valere per l’intera produzione vegetale e animale nazionale, nel rispetto del diritto comunitario, e non deve essere vietata o limitata la commercializzazione di prodotti biologici prodotti al di fuori del territorio italiano [reg. (CE) n. 834/07, art. 34.2]. Sia i consumatori italiani, «che sarebbero ben favorevoli alla diffusione di un marchio nazionale quale ulteriore garanzia della qualità del prodotto biologico», sia gli operatori del settore, seppure manifestino un interesse più contenuto verso questo segno ditintivo, ritengono che il disciplinare di un eventuale marchio nazionale dovrebbe essere riservato alle sole aziende produttrici con sede in Italia o dovrebbe disporre l’utilizzo di sole materie prime italiane o dovrebbe dettare standard produttivi più rigorosi, con maggiori controlli sul prodotto e maggiore frequenza di visite ispettive686. Tenuto conto della possibilità di estendere il logo nazionale anche a comparti produttivi non ancora regolamentati a livello comunitario, come la ristorazione collettiva, il suo utilizzo «potrebbe assegnare una “nuova identità” al prodotto nazionale, in quanto verrebbero garantite istituzionalmente le caratteristiche qualitative intrinseche e peculiari del prodotto [legate al metodo di produzione] e offerte nuove opportunità di comunicazione sia con il consumatore sia con gli operatori commerciali lungo tutta la filiera di produzione […considerato che] le rapide evoluzioni di mercato e di politica […a livello globale…] impongono alle imprese biologiche del mercato comune una maggiore efficacia competitiva e il raggiungimento di standard qualitativi e produttivi sempre più elevati»687. Tuttavia, di fronte alla presenza di questi orientamenti e alla necessità di superare l’asimmetria informativa del settore, «l’obiettivo di sostenere e 685 Cfr. infra paragrafi 1.2, 1.6 e 1.8. Si tratta di elementi emersi dalle indagini condotte, rispettivamente, sui consumatori e sugli operatori italiani nell’ambito dello studio INEA (cfr. GIUCA, op. ult. cit., 2010, pp. 206-223. 687 Ivi, pp. 221-222. 686 261 incrementare i consumi domestici del biologico made in Italy e di consolidare all’estero, rendendole immediatamente riconoscibili, le specificità delle produzioni agro-alimentari italiane [nel loro complesso], deve necessariamente passare attraverso percorsi di valorizzazione delle produzioni e di adeguate politiche commerciali, sostenute dalla comunicazione lungo la filiera e al consumatore finale e dall’educazione al consumo»688. Non è un caso che la campagna di comunicazione promossa dall’Unione Europea a sostegno della riforma della normativa per la produzione biologica, volta a incrementare la conoscenza nei consumatori dei prodotti biologici e del logo UE obbligatorio, messa a disposizione degli Stati membri, utilizzi i seguenti slogan che evocano immediatamente, con riferimento al metodo di produzione biologico, i concetti di qualità, sicurezza, salute e ambiente: «Agricoltura biologica. Qualità protetta»; «Il biologico è buono, sicuro e rispetta l’ambiente»; «Scegli biologico. Fa bene a te fa bene a tutti»689. L’Italia ha scelto di coniugare questi concetti con quello dell’eccellenza agro-alimentare made in Italy utilizzando gli slogan comunitari unitamente al seguente messaggio promozionale, dove il riferimento all’origine è posto in secondo piano690: «L’Italia è tra i principali Paesi in Europa che producono alimenti biologici. Il biologico italiano unisce la qualità e la tradizione del nostro patrimonio agroalimentare con una produzione che rispetta i cicli naturali e il benessere degli animali. I produttori biologici tutelano la biodiversità, non usano prodotti chimici di sintesi e rispettano normative europee molto severe che prevedono controlli a garanzia dei consumatori»691. Il “comunicare” un sistema di coltivazione che valorizza il sapere contadino di una volta coniugandolo a un insieme di valori che con il tempo è diventato ampio e innovativo - dagli aspetti etici e sociali, con una forte attenzione per la creazione di rapporti con la comunità, agli impatti sul 688 Ivi, p. 222. Cfr. http://ec.europa.eu/agriculture/organic/home_it. 690 Il messaggio, pertanto, è coerente con gli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale riguardo alla pubblicità dei prodotti agricoli (cfr. supra nota 391). 691 Il messaggio è utilizzato nella cartellonistica, nei mezi stampa e nelle brochure a cura del MIPAAF in occasione di manifestazioni ed eventi fieristici (cfr. www.politicheagricole.it). Riguardo alle iniziative promosse dal MIPAAF sul fronte della comunicazione istituzionale, anche per il tramite delle Regioni, attraverso le azioni del Piano di azione nazionale per l’agricoltura biologica e i prodotti biologici cfr. infra paragrafo 5.1 e il sito www.sinab.it. 689 262 cambiamento climatico in termini di riduzione di gas serra, sia dal lato della produzione che della distribuzione, può essere la chiave per aumentare l’impatto dei prodotti biologici nazionali sui cittadini/consumatori692. Questo tipo di comunicazione perderebbe sicuramente efficacia per i prodotti certificati biologici ai sensi del reg. (CE) n. 834/07 se questi utilizzassero un logo nazionale che non sia parte integrante di un marchio collettivo, perché in tal caso il segno grafico svolgerebbe una funzione meramente “comunicativa” dell’origine, escludendo qualsiasi legame tra questa e le caratteristiche qualitative intrinseche dei prodotti. Al contrario, l’utilizzo del logo nazionale, quale parte integrante di un marchio collettivo geografico pubblico, pur svolgendo una funzione di garanzia e certificazione delle caratteristiche qualitative intrinseche dei prodotti collegate al metodo di produzione biologico, senza alcuna implicazione di particolari caratteristiche legate all’origine, potrebbe in maniera indiretta legare la propria immagine proprio al territorio italiano. 692 GIUCA, Forme di responsabilità sociale certificata in agricoltura biologica: il ruolo della marca e dei marchi di qualità, cit., 2010, pp. 113-114. 263 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Economisti e giuristi concordano sul fatto che le leggi di natura economica influiscono sulla formazione del diritto e il diritto influisce sulla formazione delle leggi economiche693. Cosicché la necessità primaria di nutrirsi degli individui che alimenta la circolazione dei cibi sul mercato comune alimentare ha innescato un meccanismo di responsabilità per chi produce, somministra e vende tali prodotti con riguardo, in primis, agli aspetti igienico-sanitari che interessano la tutela della salute dei consumatori; tuttavia, a fronte di requisiti igienicosanitari minimi, ai quali corrisponde una chiara definizione giuridica, le diverse definizioni della qualità si intersecano e si modificano nel tempo, in uno spazio 693 Tra i numerosi contributi sul tema si citano: COMMONS, Legal Foundations of Capitalism, New York, 1924, trad. it. I fondamenti giuridici del capitalismo, introduzione di REBUFFA, Bologna, 1981; POLANYI, The economy as instituted process, in POLANYI et al., eds., Trade and market in early empires, New York, 1957, pp. 243-270, trad.it., L’economia come processo istituzionale, in POLANYI et al., a cura di, Traffici e mercati negli antichi imperi. Le economie nella storia e nella teoria, Torino, 1978; ASCARELLI, Ordinamento giuridico e processo economico, in ASCARELLI, Problemi giuridici, Milano, tomo I, 1959, p. 47; MENGONI, Forma giuridica e materia economica, 1963, ripubblicato in MENGONI, Diritto e valori, Bologna, 1983, p. 149; STIGLER, The theory of economic regulation, in The Bell Journal of Economics and Management Science, Spring 1971, vol. II, 1, pp. 3-21; FRANCESCHELLI, Il mercato in senso giuridico, in Giurisprudenza commerciale, 1979, I, p. 501; REBUFFA, Il sistema delle relazioni economiche nell’analisi della tradizione sociologica: diritto e mercato, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1983, p. 147; SANTINI, Commercio e servizi. Due saggi di economia del diritto, Bologna, 1988; STIGLITZ, The Economic Role of State, 1989, trad. it. Il ruolo economico dello stato, Bologna, 1992; HOVENKAMP, The first great law and economics movement, in Stanford Law Review, 1990, 42, pp. 993-1058; RAWLS, Political Liberalism, New York, 1993; IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Bari-Roma, 1998; IRTI, a cura di, Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1999, ivi interventi di IUDICA, p. 49, e ROSSI, p. 68; AA.VV., Agricoltura e diritto. Scritti in onore di Emilio Romagnoli, Milano, 2000, ivi IRTI, Diritto e mercato, vol. I, p. 25-36, e LIPARI, Il mercato: attività privata e regole giuridiche, vol. I, pp. 37-63; LA SPINA e MAJONE, Lo Stato regolatore, Bologna, 2000; LIPARI e MUSU, a cura di, La concorrenza tra economia e diritto, Bari, 2000, ivi LIPARI, Diritto e mercato nella concorrenza, pp. 27-43; IRTI e SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari, 2001; D’ALBERTI, Diritto pubblico dei mercati e analisi economica, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2007, 105, 4/6, pp. 239-267. 264 di regole - per l’appunto, economiche e giuridiche - alla ricerca di un linguaggio comune che permetta lo stabilirsi di una relazione contrattuale senza rischi e senza dubbi per coloro che intervengono negli scambi sul mercato. Come è stato osservato, l’innovazione dei processi e dei prodotti rinvia all’analisi economica mentre la loro regolazione rinvia all’analisi giuridica694. Tale binomio può cogliersi, nella seconda metà del secolo scorso, nel passaggio dalle legislazioni nazionali sulle modalità di produzione e sulle componenti dei prodotti trasformati (c.d. «leggi ricetta») al progressivo processo di liberalizzazione degli scambi nel mercato comune, iniziato con la costruzione dell’Organizzazione comune di mercato (OCM). Tale processo, proseguito con la giurisprudenza della Corte di giustizia - che con la sentenza Cassis de Dijon ha garantito il mutuo riconoscimento dei prodotti e, dunque, dei cibi - può dirsi ultimato con l’emanazione di regole minime di produzione e delle norme di commercializzazione. Nel frattempo, in mancanza di una normativa organica in materia igienicosanitaria, si è assistito alla presenza di regole di condotta, codici di comportamento, tecnologie e strumentazioni aggiornate nell’industria privata, con autorità regolatrici, norme tecniche e standard introdotti da enti di certificazione di origine privatistica in un contesto tipicamente transnazionale. Tutto ciò, se da un lato ha offerto un certo grado di garanzia ai consumatori, non solo sulla disponibilità (security) ma sulla sicurezza (safety) e qualità dei prodotti in commercio, dall’altro ne ha anche destabilizzato le scelte, facendo sorgere una serie di dubbi e timori, spesso legati ad una generalizzata carenza di informazioni ancorché alimentate da episodi di adulterazione, sofisticazione e contaminazione alimentare e dalla spinta emozionale di crisi sanitarie spesso ingigantite dai media. Da un lato, l’adozione di standard privati riduce i costi di transazione, in quanto le imprese adottano un “codice di comunicazione” comune finalizzato a limitare i rischi tecnologici lungo la filiera produttiva e a ridurre i rischi di mercato a livello esterno, come ad esempio l’effetto di «selezione avversa» in cui il prezzo medio non remunera sufficientemente la buona qualità con il 694 ALBISINNI, Diritto alimentare tra innovazione, regolazione e mercato, cit., 2005, p. 568. 265 risultato che la presenza di prodotti di bassa qualità tende a scacciare dal mercato quelli di buona qualità pregiudicando l’efficienza del mercato stesso695; d’altro lato però, ciascun produttore è portato, ovviamente, a mediare gli attributi qualitativi del prodotto “desiderati” dal consumatore con le proprie esigenze di contenimento dei costi di produzione e di raggiungimento del proprio massimo profitto. Negli anni ’90 gli accordi internazionali hanno mantenuto separati, nonchè ispirati a principi differenti, gli aspetti igienico-sanitari che riguardano, come detto, la tutela della salute dei consumatori, dagli aspetti economici, che mirano invece alla tutela del libero scambio. In particolare, nell’ambito dell’accordo SPS in seno al Trattato di Marrakech sulla World Trade Organization (WTO), gli Stati membri possono adottare una temporanea sospensione delle importazioni nel caso in cui lo Stato importatore abbia sospetti concernenti la salubrità dei prodotti, alla quale deve far seguito, in tempi rapidi, il raggiungimento o meno delle certezza scientifica della loro pericolosità; ne restano esclusi, pertanto, tutta una serie di fattori pertinenti, come le preoccupazioni ambientali, il benessere degli animali, l’agricoltura sostenibile, le attese dei consumatori, la definizione delle caratteristiche essenziali dei prodotti e dei loro processi e metodi di produzione, l’esistenza di una adeguata informazione e così via… Negli ultimi dieci anni, però, le istituzioni comunitarie e quelle nazionali hanno puntato su un sistema fatto di strumenti normativi e attività di prevenzione e repressione per recuperare il rapporto fiduciario produttoreconsumatore e assicurare un livello elevato di tutela della salute umana e degli interessi dei cittadini-consumatori lungo tutta la filiera dai «campi alla tavola» («from farm to fork»). Ne consegue che i requisiti di natura igienico-sanitaria, definiti dal regolamento sulla General Food Law e da quelli successivi del c.d. «pacchetto igiene», e i requisiti identitari del prodotto, disciplinati da norme merceologiche e mercantili, rappresentano una condizione imprescindibile per la vendita al consumatore; sono, cioè, pre-requisiti che conferiscono ai prodotti agro-alimentari una qualità «sana, leale e mercantile» e rappresentano oggi, 695 AKERLOF, op. cit., 1970, p. 488 e ss. 266 insieme alla tutela ambientale, alla salute degli animali e delle piante e al benessere degli animali, requisiti minimi ex lege comuni per tutti gli alimenti696. La «globalizzazione», nella sua accezione più ampia che racchiude gli aspetti economici, commerciali e culturali, ha determinato lo spostamento del vantaggio competitivo, nel commercio internazionale dei prodotti agroalimentari, dai costi di produzione alla reputazione dei cibi in termini di salubrità, qualità ed eticità, reale e/o percepita; così, anche se il consumo degli alimenti è sempre soggetto alle regole della saturazione del bisogno - e riguardo ai beni primari la legge di Engel spiega che quando il reddito aumenta la spesa alimentare cresce meno che proporzionalmente697 - nessun limite è posto ai servizi aggiuntivi e questo spinge lo sforzo innovativo dell’industria verso processi e prodotti diversificati. Le marche, gli standard delle industrie leader, le private labels della GDO, avvalendosi di elementi quali la tecnologia, l’innovazione, gli scandali alimentari, le crisi economiche, capaci di modificare l’atteggiamento dei consumatori e di trasformare i needs (i bisogni) in wants (i desideri), fanno leva sui servizi aggiuntivi e sono in grado di “costruire” la notorietà e la reputazione del prodotto sul mercato, di fidelizzare (o disaffezionare) il consumatore sulla base di esigenze espresse o implicite, momentanee o durature698. 696 COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli: norme di prodotto, requisiti di produzione e sistemi di qualità, cit., 2008, p. 5. 697 Ad Ernst Engel (1821-1896), economista e statistico tedesco, si riconosce un importante punto di partenza nell’analisi delle connessioni tra livello del reddito e struttura dei consumi. Per un approfondimento: PASINETTI, Sviluppo economico e distribuzione del reddito, Bologna, 1977. 698 Tra i numerosi contributi a questo tema, che tocca aspetti socio-economici e di marketing, si citano: KOTLER et al., Marketing management casi, presentazione di PARILLO, introduzione di SCOTT, Torino, 1992; WIERENGA et al., eds., Agricultural Marketing and Consumer Behaviour in a Changing World, Boston, 1997, ivi STEENKAMP, Dynamics in consumer behavior with respect to agricultural and food products, pp. 143-188; CALLON, eds., The laws of the markets, Oxford, 1998; PETER et. al., Consumer Behaviour and Marketing Strategy, London, 1999; LEGRENZI, Psicologia cognitiva applicata: pensare e comunicare, Roma-Bari, 2001; FABRIS, op. cit., 2003; FABRIS, a cura di, La comunicazione d’impresa. Dal mix di marketing al communication mix, Milano, 2003; FABRIS e MINESTRONI, Valore e valori di una marca. Come costruire e gestire una marca di successo, Milano, 2004; GRUNERT, op. cit, 2005, pp. 369-391. JAHN et. al., The reliability of certification: Quality labels as a consumer policy tool, in Journal of Consumer Policy, 2005, 28 (1), pp. 53-73; VERBEKE, Agriculture and the food industry in the information age, in European Review of Agricultural Economics, 2005, 32 (3), pp. 347-368; McCLUSKEY e LOUREIRO, Reputation and production standards, in Journal of Agricultural and Resource Economics, 2005, 30, 1, 267 I segni distintivi e la comunicazione dei prodotti agro-alimentari giocano un ruolo fondamentale per la creazione, il sostegno e la difesa delle “qualità” offerte ai consumatori perché, ormai superata la «soglia di saturazione» del bisogno alimentare è cresciuta la domanda di qualità intesa come standard sempre più elevati riguardo anche alla valenza ecologica, agli aspetti culturali, al contenuto etico e sociale, insomma a ogni altro elemento che possa accrescerne il valore aggiunto per i consumatori. Anzi, sono i wants e non più i needs a guidare i consumatori in un sistema, definito con originalità «from lab & brand to fork», dove è la legge del profitto a garantire la sicurezza, in quanto la garanzia è nella marca stessa, che va a sovrapporsi al sistema comunitario «from farm to fork», dove la sicurezza dipende dalla legge dello Stato e dalla sua capacità di garantirne il rispetto attraverso controlli e sanzioni lungo tutta la filiera699. Sennonché, dopo aver ampiamente indagato tutti questi aspetti, si comprende come ad alimentare la richiesta di alimenti come quelli biologici, caratterizzati da un modus operandi specifico e codificato che si riflette sulla definizione stessa della qualità dei prodotti, non è tanto la marca quanto i termini, l’etichetta e il logo UE, ovvero i segni distintivi dell’Unione Europea. Infatti, in questo caso le caratteristiche del prodotto comunicate dai segni non sono quelle convenzionate da produttori, preparatori e distributori ma sono quelle determinate da uno specifico regolamento comunitario. L’adesione agli standard della produzione biologica - elaborati da un’istituzione pubblica, seppure di concerto con associazioni private - avviene su base volontaria, ma è regolamentata a livello comunitario e nazionale. Tali standard, pertanto, quando un operatore aderisce a questo tipo di produzione diventano cogenti nella loro applicazione e sono rivolti a tutte le fasi della filiera produttiva. pp. 1-11; KOTLER e KELLER, op. cit., 2007; FREWER and VAN TRIJP, eds., Understanding consumers of food products, Cambridge UK, 2007, ivi GRUNERT, How consumers perceive food quality, pp. 181-199, e VAN DAM e VAN TRIJP, Branding and labelling of food products, pp. 153-180; DULLECK et al., The economics of credence goods: An experiment on the role of liability, verifiability, reputation and competition, in The American Economic Review, 2011, pp. 526-555. 699 SOTTE, Evoluzione dei consumi e legami sistemici nell’agroalimentare, in Rivista di diritto alimentare, 2010, IV, 1, p. 11. 268 Con il reg. (CEE) n. 2092/91 relativo al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e alla indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari, completato dal reg. (CE) n. 1804/99 per le produzioni anmali, i termini riferiti al metodo di produzione biologico - indicati in ogni lingua della Comunità («biologico» in italiano) o i corrispondenti termini derivati (come «bio» e «eco»), sono stati tutelati e riservati nell’etichettatura, nella pubblicità o nei documenti commerciali, al prodotto, ai suoi ingredienti o alle materie prime per mangimi ottenuti conformemente alle norme di produzione contenute nei suddetti regolamenti. Qualche anno dopo, le condizioni per la presentazione e l’utilizzazione facoltativa del logo comunitario sono state dettate dal reg. (CE) n. 311/2000, in quanto il legislatore comunitario ha riconosciuto all’apposizione di tale segno in etichetta la capacità di aumentare la credibilità dei prodotti biologici dei rispettivi operatori agli occhi dei consumatori e di migliorarne l’identificazione sul mercato. Come è noto, nell’acquisire informazioni relative agli alimenti tra i molti disponibili sul mercato, i consumatori si trovano a dover fronteggiare molti fallimenti di mercato dovuti alla presenza di «asimmetria informativa» e al potere di mercato dei produttori700; i prodotti biologici, in particolare, presentano un elevato grado di asimmetria informativa in quanto sono prodotti di tipo credence, ovvero con attributi (requisiti specifici per la produzione e la lavorazione) che il consumatore non può verificare né durante il processo di acquisto, né dopo il consumo701. In questo caso è forte il rischio di comportamenti opportunistici e fraudolenti nella catena di fornitura, dal momento che le probabilità di essere scoperti sono basse702; la fiducia sulla sicurezza e salubrità dei prodotti agro-alimentari biologici rappresenta, quindi, un problema critico per competere con successo sul mercato, proprio perchè l’attributo di fiducia è accompagnato da un premium price (differenziale di 700 AKERLOF, op. cit., 1970, p. 488 ss. NELSON, Information and consumer behaviour, in Journal of Political Economics, 1970, 78, p. 311 e ss.; JAHN et. al., op. cit., pp. 53 e ss. 702 McCLUSKEY, A game theoretic approach to organic foods: An analysis of asymmetric information and policy, in Agricultural and Resource Economics Review, 2000, 29 (1), pp. 1-9. 701 269 prezzo tra il prodotto biologico e il suo omologo convenzionale)703. L’intervento pubblico, pertanto, si giustifica con lo scopo di incrementare la disponibilità delle informazioni, migliorando il funzionamento del mercato e, soprattutto, la posizione negoziale dei consumatori. Con il reg. (CE) n. 834/07, che novella le norme per la produzione biologica e l’etichettatura dei prodotti biologici, e successivi regolamenti applicativi, l’uso del logo biologico dell’Unione Europea è diventato obbligatorio; i segni distintivi cogenti per i prodotti biologici, appartenendo al complesso di norme giuridiche che disciplinano la comunicazione e le sue regole, si configurano in una dichiarazione al pubblico di caratteristiche, pregi, qualità e specifiche identità, intrinsecamente legate alla produzione biologica, che consente al consumatore di fare una scelta consapevole tra più prodotti, mentre la sicurezza del prodotto marcato non è dovuta alla “biologicità” del prodotto ma ai requisiti igienico-sanitari e ai requisiti merceologici-mercantili che questo obbligatoriasmente soddisfa. Infatti, il prodotto biologico, in quanto alimento, già per il fatto di essere stato immesso nel mercato alimentare, deve essere sano, sicuro e adatto al consumo umano704. I segni distintivi cogenti, ovviamente, non devono trarre in inganno i consumatori, né devono indurlo a credere che il prodotto biologico abbia effetti o proprietà che non possiede o suggerirgli che il prodotto possieda caratteristiche particolari, quando tutti i prodotti alimentari analoghi possiedono caratteristiche identiche, così come non possono trascurarsi, al pari di tutti i prodotti destinati al consumo umano, i possibili effetti derivanti da contaminazioni ambientali, inclusa la discutibile soglia dello 0,9% per la presenza accidentale e tecnicamente inevitabile di OGM. Al riguardo, il reg. (CE) n. 834/07 attribuisce il diritto di usare nell’etichettatura, nella pubblicità o nei documenti commerciali degli alimenti trasformati contenenti almeno il 95% di ingredienti biologici (non più il 70% 703 BONROY e CONSTANTATOS, On the use of labels in credence goods markets, in Journal of Regulatory Economic, 2008, 33 (3), p. 237 e ss. 704 Così recita l’art. 14 del reg. (CE) n. 178/02, rubricato «Requisiti di sicurezza degli alimenti»: «Gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato. Gli alimenti sono considerati a rischio nei casi seguenti: a) se sono dannosi per la salute; b) se sono inadatti al consumo umano». 270 come disponeva il regolamento precedente), il termine «biologico», nonché i rispettivi derivati e abbreviazioni, quali «bio» e «eco», singolarmente o in abbinamento, nell’intera Comunità e in qualsiasi lingua comunitaria (secondo i termini stabiliti nell’allegato), con riferimento al prodotto o ai suoi ingredienti o alle materie prime per mangimi. Pertanto, il termine «biologico», per funzioni, interessi e tutela, presenta punti di convergenza con la denominazione merceologica legale, in quanto le caratteristiche per stabilire la “biologicità” di un prodotto sono predeterminate dalla legge. Tale diritto, e il contestuale obbligo di uso del logo UE (c.d. «Eurofoglia»), è attribuito, però, a chi rispetta determinati metodi di produzione vegetale e animale in tutte le fasi della produzione, preparazione e distribuzione, relativamente ai prodotti agricoli e zootecnici - inclusi i prodotti dell’acquacoltura - freschi e trasformati destinati ad essere utilizzati come alimenti, ai mangimi, ai materiale di propagazione vegetativa e alle sementi, ovvero non usa prodotti chimici di sintesi, né OGM e prodotti derivati o ottenuti da OGM (mangimi o medicinali), né radiazioni ionizzanti, e che, per conseguenza, è stato iscritto dall’organismo di controllo nell’elenco degli operatori soggetti al controllo. I consumatori che acquistano i prodotti contraddistinti con il termine «biologico», etichettati e marcati con il logo UE, hanno dunque una garanzia di sicurezza de iure che deriva dal fatto che si tratta di prodotti alimentari ed hanno una garanzia di qualità che deriva dal fatto che si tratta di prodotti della produzione biologica. In primo luogo, perché il reg. (CE) n. 834/07 si inserisce in un contesto generale di riscrittura delle regole sulla produzione alimentare e provvede, pertanto, ad adeguare le norme sulla produzione biologica alla General Food Law, facendo sì che i richiami al reg. (CE) n. 178/02 relativi alla definizione di «alimenti», «mangimi», «immissione sul mercato», nonché a concetti e regole sulla sicurezza alimentare - in particolare al metodo della valutazione del rischio e alle misure di precauzione e prevenzione, alla tracciabilità e alla responsabilità di filiera - riconducano all’alveo generale del diritto alimentare interventi normativi specifici per la produzione biologica in un’ottica di filiera. In secondo luogo, perché il prodotto biologico possiede 271 requisiti di «alta qualità» [art. 3, reg. (CE) n. 834/07], ovvero caratteristiche intrinseche al metodo di produzione garantite al consumatore attraverso i segni distintivi della biologicità che attestano la certificazione e il controllo di parte terza. In tal senso, i consumatori possono essere certi che almeno il 95% degli ingredienti del prodotto sono stati ottenuti con il metodo biologico, che il prodotto, ottenuto o importato da un operatore (agricoltore, distributore a marchio o importatore), è conforme alle norme del regime ufficiale di controllo, che proviene direttamente dal produttore o dal preparatore in un imballaggio sigillato e che reca il numero di codice dell’organismo di controllo e il nome o la ragione sociale del produttore, addetto alla trasformazione o venditore, nonché il codice identificativo a questi attribuito dall’organismo di controllo. I segni distintivi cogenti dei prodotti biologici, lo si ribadisce, non attestano effetti o proprietà che il prodotto non possiede nè caratteristiche particolari, quando tutti i prodotti alimentari analoghi possiedono caratteristiche identiche, ma attesta la rispondenza del prodotto ai requisiti della produzione biologica come definiti per legge. La valenza concorrenziale dei segni distintivi dell’Unione Europea, anche se non sviluppano una capacità distintiva “propria”, in quanto non individuano l’origine del prodotto di una determinata impresa, consentono a una pluralità di imprenditori di avvalersi della capacità attrattiva che esplica la funzione di garanzia delle caratteristiche e della qualità del prodotto biologico, essendo questa riferita alla tecnica di produzione determinata dalla legge e controllata da appositi organismi terzi indipendenti705. Proprio al fine di comunicare immediatamente le caratteristiche intrinseche del prodotto, seppure nelle norme prevalgano i requisiti di processo, in etichetta oggi si legge «prodotto biologico» e non più «da agricoltura biologica»; il sistema di certificazione biologico, oltre tutto, è l’unico processo di produzione che prevede che ogni singolo operatore coinvolto sia licenziatario e sia, quindi, titolare di un certificato di conformità dei processi e dei prodotti a una norma cogente, 705 ROOK BASILE, op. cit., 2003, p. 734. 272 rilasciato da organismi accreditati secondo le norme EN 45011, riconosciuti e autorizzati dalle autorità nazionali di controllo. Poichè la certificazione di parte terza riduce l’asimmetria informativa produttore-consumatore solo se il consumatore finale si fida dello schema di certificazione, ne consegue che il successo dei prodotti biologici dipende soprattutto dal livello di fiducia dei consumatori nel sistema di certificazione e controllo706. La valenza concorrenziale dei segni distintivi pubblici e la capacità di accrescere il livello di fiducia dei consumatori nei prodotti biologici ha motivato, negli anni passati, la scelta di Francia, Danimarca, Austria, Finlandia, Repubblica Ceca, Germania e Spagna di realizzare marchi collettivi pubblici per i prodotti certificati biologici, promossi esclusivamente con risorse pubbliche, ancor prima della possibilità, ora prevista dal reg. (CE) n. 834/07, di poter inserire in etichetta, accanto all’Eurofoglia, loghi nazionali, parti integranti di marchi collettivi pubblici. Le scelte perpetrate da questi Paesi sono state scelte strategiche, di marketing istituzionale, volte a identificare la produzione certificata biologica sul mercato nazionale con un simbolo univoco, in grado di frenare la tendenza a standardizzare l’immagine del biologico e a garantire la specificità del prodotto biologico, assicurando e comunicando al consumatore le qualità intrinseche rispondenti a un determinato disciplinare. I marchi, ovviamente, non prevedono requisiti tali da penalizzare economicamente le imprese licenziatarie o disattenderne l’interesse ad aderire e l’adesione da parte degli operatori avviene su base volontaria, ad eccezione del marchio ceco. I regolamenti d’uso di questi marchi, che si mantengono sul filo della coerenza alle attuali disposizioni comunitarie in materia di marchi collettivi geografici (art. 15.2, direttiva 2008/95/CE), hanno seguito l’evolversi della normativa comunitaria e nazionale. Al momento della loro istituzione, infatti, essi presentavano peculiarità nazionali che sono andate sfumando nel tempo fino a scomparire con l’adozione del reg. (CE) n. 834/07; quasi tutti i disciplinari, ad esempio, ampliavano il campo di applicazione anche a settori 706 ALBERSMEIER et al., System dynamics in food quality certifications: Development of an audit integrity system, in International Journal on Food System Dynamics, 2010, (1), p. 69 e ss. 273 non disciplinati dai regolamenti (CEE) n. 2092/91 e n. 1804/99 o contenevano disposizioni più severe e vincolanti rispetto alle norme comunitarie ante reg. (CE) n. 834/07 riguardo alla tracciabilità, al benessere animale e alla questione degli OGM. Oggi, se il disciplinare di produzione prevede norme più rigorose per la produzione biologica vegetale e animale, queste devono valere per l’intera produzione vegetale e animale nazionale, nel rispetto del diritto comunitario, e non devono vietare o limitare la commercializzazione di prodotti biologici che non siano di provenienza nazionale. È evidente che con l’obbligatorietà del logo di produzione biologico UE e dell’indicazione dell’origine in etichetta, questi marchi nazionali potrebbero gradualmente scomparire, venendo meno la loro - attuale e principale peculiarità di sistema di tracciabilità, ora svolta dall’Eurofoglia, a meno che non identifichino potenziali valori aggiunti, come controlli più rigorosi o la garanzia di costi di certificazione equi per gli agricoltori, differenziandosi dal logo dell’Unione Europea e dal sottostante sistema di certificazione. Vero è che sotto l’egida di questi marchi pubblici troviamo la produzione con metodo biologico di piante acquatiche e microalghe, specie animali, alimenti per animali da compagnia (pet food) e ristorazione riguardo ai quali i regolamenti comunitari, in attesa che vengano fissate regole comuni di produzione, lasciano agli Stati membri la possibilità di elaborare standard nazionali nel rispetto dei requisiti previsti dalla normativa comunitaria. È opportuno evidenziare che la presenza di un riferimento all’origine nazionale dei prodotti in marchi collettivi pubblici in mancanza di una “giustificazione”, può indurre i consumatori a preferire le produzioni dello Stato membro di appartenenza, assecondando un «nazionalismo alimentare» nei confronti del quale la Corte di giustizia si è sempre espressa negativamente a difesa del principio della libera circolazione delle merci (art. 34 TFUE). Nel marchio collettivo geografico di cui sia titolare un soggetto pubblico, pertanto, non sono ammissibili indicazioni di provenienza riferite all’intero territorio di uno Stato membro o di una Regione e non sono ammissibili indicazioni di provenienza nazionale riferite indistintamente a tutti i prodotti agro-alimentari dello Stato membro. 274 Secondo l’orientamento della giurisprudenza comunitaria, inoltre, l’origine geografica comunicata attraverso il marchio collettivo (pubblico o privato) deve sempre escludere il nesso diretto di causalità fra l’area di produzione e le caratteristiche distintive del prodotto, in quanto tale nesso di causalità è esclusivo per le DOP/IGP e deve essere regolamentato unicamente dal reg. (CE) n. 510/06. La Commissione Europea, infatti, si è sempre adoperata affinché i marchi di qualità non siano riservati de iure o de facto a prodotti nazionali o regionali, soprattutto quando questi non presentano una specificità qualitativa intrinseca debitamente riconosciuta come tale, proprio per evitare che tali marchi producano una discriminazione arbitraria nei confronti di produttori e operatori di altri Stati membri, nonché ostacoli ingiustificati alla libera circolazione dei prodotti. Nelle legislazioni di Francia, Danimarca e Spagna il marchio biologico pubblico è un marchio collettivo geografico che si configura come un marchio di garanzia e presenta caratteristiche più incisive del marchio collettivo dal quale si differenzia; invece, le legislazioni di Finlandia, Repubblica Ceca, Austria e Germania, come quella italiana, non prevedono alcuna distinzione tra marchio di garanzia/certificazione e marchio collettivo che confluiscono nell’unica categoria di marchio collettivo geografico. Il marchio collettivo geografico pubblico svolge comunque, in ciascun Paese esaminato, la funzione di garanzia e certificazione, come previsto dalle norme comunitarie, ovvero attesta i caratteri qualitativi dei prodotti che se ne fregiano controllando, attraverso organismi terzi indipendenti, la presenza di requisiti o caratteristiche dei prodotti sulla base dei parametri indicati nei disciplinari di produzione. Tali marchi, pertanto, non legano le caratteristiche qualitative dei prodotti marcati all’origine geografica della materia prima o alla provenienza delle aziende di produzione, trasformazione e commercializzazione ed anzi per non incorrere in una violazione al Trattato consentono il libero accesso a ogni impresa comunitaria ed extra-comunitaria in regime di equivalenza o meno, ovvero quando la produzione biologica è provata dalla certificazione rilasciata da un organismo o da un’autorità di controllo riconosciuti ai sensi del reg. (CE) n. 834/07. In tal senso, il regolamento del marchio austriaco che escludeva il 275 rilascio del logo ai prodotti non nazionali è stato modificato dalla legge federale agricola n. 55 del 31 luglio 2007 ed anche se i riferimenti indotti (colori) o espliciti (il nome dello Stato/Regione) presenti nel marchio austriaco, così come nel marchio danese, potrebbero esercitare una funzione attrattiva e indurre a un collegamento con la zona di produzione, proprio la presenza di un disciplinare che lega esclusivamente il prodotto alle caratteristiche intrinseche (il metodo di produzione), senza alcun riferimento al luogo di origine, nonché l’apertura a tutte le imprese comunitarie ed extracomunitarie in regime di equivalenza o meno, hanno reso questi marchi conformi alle norme UE. Nel caso di Danimarca, Finlandia, Repubblica Ceca e Spagna, la concessione del marchio sottende che il confezionamento o l’etichettatura avvengano nel territorio nazionale - potendo però la fase produttiva essere stata svolta interamente all’estero - e in tal caso il marchio attesta che l’impresa che ha realizzato l’ultima operazione (confezionamento e/o etichettatura) è un’impresa nazionale e come tale è stata sottoposta al rispettivo sistema nazionale dei controlli. In Danimarca e Finlandia tale sistema si avvale esclusivamente di strutture di controllo pubbliche, mentre in Spagna vige un sistema di controllo misto pubblico-privato; gli altri Paesi esaminati, inclusa l’Italia, hanno scelto di avvalersi di organismi di controllo privati. Tuttavia, le indagini di mercato nazionali hanno dimostrato che, indipendentemente dalla forma pubblica o privata del sistema di controllo, è la titolarità pubblica del marchio, percepito all’epoca dell’istituzione come attestante un sistema di certificazione più rigoroso rispetto al logo facoltativo UE, a far leva sul consumatore (prodotto percepito come sicuro e di qualità perché “garantito” dallo Stato); tra l’altro, in Danimarca e Repubblica Ceca i consumatori ritengono, erroneamente, che il logo riguardi esclusivamente prodotti biologici nazionali707. Un’ulteriore considerazione riguarda la relazione tra il logo nazionale, parte integrante di un marchio collettivo geografico pubblico, e l’indicazione del Paese di origine che è espressamente prevista dal reg. (CE) n. 834/07 nell’etichettatura dei prodotti biologici quando vi proviene il 98% delle materie 707 JANSSEN e HAMM, op. cit., 2011, p. 39. 276 prime. In tal caso, l’indicazione geografica del luogo di origine può evincersi non solo dal nome del Paese di provenienza (quale semplice modo di rendere nota in etichetta l’origine del prodotto) che può sostituire, per l’appunto, la dicitura «agricoltura UE» che accompagna obbligatoriamente l’Eurofoglia, ma anche dal marchio nazionale e dall’eventuale toponimo in esso utilizzato (anch’esso quale semplice modo di rendere nota in etichetta l’origine del prodotto), ma senza che nel disciplinare del marchio vi sia un legame tra il luogo e le caratteristiche del prodotto e purchè tale marchio sia aperto a imprese comunitarie ed extracomunitarie in regime di equivalenza o meno. In questa ipotesi, infatti, il marchio pubblico continuerebbe a svolgere esclusivamente la funzione di garanzia e certificazione, attestando le caratteristiche qualitative intrinseche del prodotto legate al metodo di produzione sulla base dei parametri indicati nei disciplinari, mentre fornirebbe, con l’indicazione geografica, una mera indicazione di provenienza delle materie prime (o perlomeno di una elevata percentuale di esse), al pari di quella svolta dall’indicazione del Paese che obbligatoriamente deve comparire insieme all’Eurofoglia e che potrebbe, di fatto, assimilarsi alla c.d. «indicazione geografica semplice» come individuata dalla Corte di giustizia europea nella nota sentenza «Budvar» del 18 novembre 2003, causa C-216/01. È chiaro che qualsiasi riferimento all’origine nazionale nel logo del marchio e, nella fattispecie, il toponimo Stato o Regione o analoga ripartizione territoriale (ma sempre come modo di rendere nota in etichettata l’origine del prodotto) contrasterebbe con il reg. (CE) n. 834/07, art. 24.1, se meno del 98% delle materie prime avesse un luogo di origine non nazionale; in tal senso, i parametri d’uso della versione “nazionale” del logo austriaco che include l’indicazione «Austria» quando il 70% delle materie prime è di origine locale, dovrebbero essere rivisti. Da ultimo se ne deduce che il logo nazionale potrebbe essere istituito da un qualsiasi Stato membro - o addirittura extra-UE in regime di equivalenza o meno - ed essere utilizzato insieme all’Eurogoglia solo da chi è in grado di dimostrare la provenienza da tale Stato del prodotto biologico certificato (e purchè il 98% di materia prima provenga da tale Stato); il logo nazionale, in 277 questa ipotesi, non avrebbe i requisiti del marchio collettivo ma quelli di un simbolo grafico che la legge autorizza ad utilizzare solo nel caso suddetto. Nel caso italiano, la necessità di assegnare una “carta d’identità” alla produzione biologica attraverso un logo unitario nazionale è stata a lungo sostenuta dal Ministero delle Politiche Agricole, in un contesto in cui, essendo facoltativo il logo comunitario, si voleva dare maggiore visibilità ai prodotti biologici nazionali sul mercato domestico, puntando sulla qualità e sulle peculiarità del prodotto, in un ambito caratterizzato da rapide evoluzioni di mercato e di politica e da una crescente differenziazione dell’offerta di prodotti alimentari. La creazione di un logo nazionale per i prodotti vegetali e zootecnici ottenuti da agricoltura biologica è stata inserita nel Piano di azione nazionale per l’agricoltura biologica ed è stata oggetto di uno studio di fattibilità. Diverse proposte di legge di iniziativa parlamentare, presentate con l’intento di innovare l’attuale disciplina nazionale dettata del decreto legislativo 220/95 e dalle disposizioni emanate in attuazione di tale decreto, prevedono l’istituzione del logo nazionale all’insegna di quel «nazionalismo alimentare» che lo porrebbe a rischio di infrazione comunitaria. Tuttavia, nell’unica proposta di legge attualmente in discussione al Senato, recante disposizioni per lo sviluppo e la competitività dei prodotti agro-alimentari biologici (nuovo testo unificato dei disegni di legge n. 1035 e 1115, adottato dalla Commissione nella seduta del 29 settembre 2009), l’istituzione e l’utilizzo di un logo nazionale - che un successivo emendamento del testo propone di rendere obbligatorio - si presenta coerente alle disposizioni comunitarie in materia di marchi collettivi geografici pubblici, non prevedendo l’uso di toponimi o aggettivi ed essendo riservata ai prodotti biologici la cui fase di produzione e/o trasformazione avvenga sul territorio nazionale, tenuto conto che molte materie prime sono importate da paesi UE ed extra UE. Sennonché, in generale, per i marchi collettivi geografici pubblici, l’adozione del logo nazionale potrebbe generare l’erosione del vantaggio competitivo della “nazionalità” per le imprese “autoctone” che aderiscono al marchio collettivo nazionale dovuta sia alla coesistenza sul mercato di marchi 278 nazionali di altri Paesi percepiti come convenience dai consumatori, sia dall’obbligo di apertura del marchio anche ad aziende comunitarie ed extracomunitarie in regime di equivalenza o meno. Nel caso italiano, in particolare, l’obbligo di etichettatura con la dicitura «Agricoltura UE/non UE» per i moltissimi prodotti biologici trasformati che contengono ingredienti provenienti da Paesi extra UE in misura superiore al 2% - tra cui confetture, marmellate, nettari di frutta, caffè, cioccolato, prodotti da forno - andrebbe a discapito dell’immagine del biologico; in attesa che entrino in vigore le norme del reg. (UE) n. 1169/2011 che estendono l’indicazione obbligatoria dell’origine della materia prima - già prevista per determinati prodotti o loro categorie - ad ulteriori categorie di alimenti, infatti, l’immagine del biologico che contiene materie prime agricole di provenienza non comunitaria potrebbe essere penalizzata a favore di analoghe produzioni convenzionali esentate dall’obbligo di comunicare l’origine delle materie prime in etichetta ma che potrebbero contenere materie prime di origine non nazionale. Per l’Italia potrebbe comunque aprirsi la possibilità di adottare un logo nazionale per i prodotti agro-alimentari biologici quale parte integrante di un marchio collettivo geografico di natura pubblica oppure quale semplice segno grafico privo degli elementi del marchio collettivo. Nel primo caso, il logo, essendo parte integrante di un marchio collettivo geografico di natura pubblica, si caratterizzerebbe per la dissociazione fra titolarità e uso del marchio, l’esistenza di un disciplinare di produzione, nonchè di un regolamento contenente l’uso del marchio, il sistema dei controlli e il sistema sanzionatorio, con funzioni di certificazione, ovvero della rispondenza dei prodotti alle caratteristiche intrinseche contenute nel disciplinare, seppure senza alcun legame tra queste e l’origine nazionale dei prodotti marcati. Nel secondo caso il logo, un simbolo i cui elementi grafici potrebbero essere tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del territorio, non avrebbe funzione di garanzia della sicurezza e qualità dei prodotti bensì quella di comunicare “a colpo d’occhio” l’origine dei prodotti ed anche in questa ipotesi non esisterebbe alcun nesso tra la qualità, la reputazione 279 o un’altra caratteristica dello stesso, da un lato, e la sua origine espressa dal nome, dall’altro. Però, trattandosi, in entrambi le ipotesi, di loghi apposti sulle confezioni di prodotti agro-alimentari certificati biologici, sono i segni distinitivi cogenti (termini, etichettatura, Eurogoglia) a svolgere le funzioni di garanzia della sicurezza e qualità dei prodotti marcati. Tuttavia, in generale, l’utilizzo del logo nazionale, quale parte integrante di un marchio collettivo geografico pubblico, pur svolgendo una funzione di garanzia e certificazione delle caratteristiche qualitative intrinseche dei prodotti collegate al metodo di produzione biologico, senza alcuna implicazione di particolari caratteristiche legate all’origine, potrebbe in maniera indiretta legare la propria immagine proprio al territorio e alle tradizioni nazionali. In tutti i Paesi esaminati l’amministrazione pubblica finanzia azioni promopubblicitarie a favore del prodotto biologico nazionale che si fregia di un marchio pubblico senza alcun riferimento all’origine - tale riferimento, d’altra parte, deve essere secondario nel messaggio pubblicitario secondo gli Orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale - e interviene in ambiti di estremo rilievo per il settore, quali, ad esempio, la promozione generale del consumo di prodotti biologici e del logo biologico dell’UE, il sostegno all’internazionalizzazione o il sostegno all’interprofessione e agli accordi di filiera. Comunicando, come potrebbe essere nel caso dell’Italia, un sistema di coltivazione che valorizzi le tradizioni del territorio - dalle cultivar autoctone ai saperi contadini di una volta - coniugandole a un insieme di valori della produzione biologica che con il tempo è diventato ampio e innovativo, il marchio collettivo pubblico potrebbe assegnare alle imprese biologiche nazionali che se ne fregiano una maggiore efficacia competitiva, spingendole al raggiungimento di standard qualitativi e produttivi sempre più elevati. 280 ALLEGATO - L’EUROFOGLIA E I LOGHI NAZIONALI IL LOGO EUROPEO IL LOGO EUROPEO (uso facoltativo fino al 30 giugno 2010) Logo con la dicitura «Agricoltura biologica» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici, nel marketing e nella pubblicità IL LOGO EUROPEO «EUROFOGLIA» Logo (confezioni di alimenti biologici) a colori e in b/n utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici, nel marketing e nella pubblicità Posizionamento dell’Eurofoglia e del logo nazionale nell’etichetta di alimenti biologici preconfezionati 281 IL MARCHIO FRANCESE «AB» Logo con la dicitura «Agricoltura biologica certificata» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici e pet food, nel marketing e nella pubblicità Logo con la dicitura «Agricoltura biologica»utilizzato nella comunicazione istituzionale IL MARCHIO AUSTRIACO «AMA-BIOZEICHEN» Logo con indicazione di origine nazionale utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici, nel marketing e nella pubblicità Logo senza indicazione di origine utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici, nel marketing e nella pubblicità 282 IL MARCHIO DANESE «Ø-MÆRKET» (C.D. MARCHIO ROSSO) «Ø-MÆRKET» Logo con la dicitura «biologico-controllato dallo Stato» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici e pet food e nella pubblicità di prodotti agricoli e di alcuni prodotti non alimentari a colori e b/n «Ø'ET» Logo utilizzato nel marketing e nella pubblicità di alimenti biologici e pet food e nella comunicazione istituzionale IL MARCHIO DANESE PER I CIBI BIOLOGICI DELLE CUCINE COMMERCIALI «ØKOLOGISKE SPISEMÆRKE» Logo colore oro con la dicitura «90-100% biologico» utilizzato per piatti e ricette dei menù e nel marketing e pubblicità della cucina (esercizi di ristorazione e unità di catering) Logo colore argento con la dicitura «60-90% biologico» utilizzato per piatti e ricette dei menù Logo colore bronzo con la dicitura «30-60% biologico» utilizzato per piatti e ricette dei menù 283 IL MARCHIO FINLANDESE «LUOMU-VALVOTTUA TUOTANTOA» Logo con la dicitura «Produzione biologica certificata» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO TEDESCO «BIO-SIEGEL» Logo con la dicitura «BIO conforme al regolamento biologico UE» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici, nei menù di esercizi di ristorazione e unità di catering, nel marketing e nella pubblicità e nella comunicazione istituzionale 284 IL MARCHIO CECO «BIO-PRODUKT EKOLOGICKÉHO ZEMĚDĚLSTVÍ» (C.D. BIOZEBRA) Logo con la dicitura «Prodotto di agricoltura biologica» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici Logo con la dicitura «Può essere utilizzato in agricoltura biologica» utilizzato nelle confezioni di mezzi tecnici Logo con la dicitura «Qui si vendono prodotti biologici» utilizzato per scopi commerciali (cartellonistica, espositori/scaffali, vetrine dei punti di vendita) Logo con la dicitura «Agricoltura biologica» a colori e in b/n utilizzato nella comunicazione istituzionale 285 I MARCHI DELLE «COMUNIDADES AUTÓNOMAS» SPAGNOLE (C.D. MARCHI REGIONALI) IL MARCHIO SPAGNOLO «CRAE» (in vigore dal 1989 al 1996) Logo con la dicitura «Agricoltura biologica» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «ANDALUCÍA» Logo con il nome della regione e dell’OdC con la dicitura «Agricoltura biologica» utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «ARAGONA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «ASTURIE» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «BALEARI» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici 286 IL MARCHIO REGIONALE «CANARIE» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «CANTABRIA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «CASTIGLIA LA MANCIA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «CASTIGLIA E LEÓN» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici 287 IL MARCHIO REGIONALE «CATALOGNA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «ESTREMADURA» Logo con il nome della regione e dell’OdC e con la dicitura «Produzione» utilizzato per certificare le aziende biologiche IL MARCHIO REGIONALE «ESTREMADURA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «GALIZIA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici 288 IL MARCHIO REGIONALE «MADRID» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «MURCIA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «NAVARRA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «LA RIOJA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici 289 IL MARCHIO REGIONALE «PAESI BASCHI» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici IL MARCHIO REGIONALE «COMUNITÀ VALENZANA» Logo con il nome della regione e dell’OdC utilizzato nelle confezioni di alimenti biologici Logo con la dicitura «Agricoltura biologica - Spagna» che può essere utilizzato, insieme a quello “regionale”, accanto al logo europeo obbligatorio 290 PROGETTI ITALIANI MARCHIO UNITARIO PER I PRODOTTI BIOLOGICI DI ORIGINE VEGETALE Logo messo a punto nel 1997 da UB per conto del Ministero per il Commercio estero con la dicitura «ab ITALIA» da utilizzare nelle confezioni di alimenti biologici LOGO «MADE IN ITALY» Segno grafico da utilizzare unitamente al codice a barre «tricolore» da chi è in grado di dimostrare le origini interamente italiane di un prodotto, anche alimentare, classificato come «made in Italy» ai sensi della legge normativa vigente LOGHI ITALIANI LOGO «NATURALMENTEITALIANO» Segno grafico utilizzato nella comunicazione per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle aziende che producono DOP/IGP IL LOGO ITALIA Segno grafico utilizzato per la promozione all’estero dell’immagine dell’Italia a fini turistici IL LOGO «MADEINTALY» Segno grafico utilizzato nel portale del governo italiano per l’internazionalizzazione delle aziende attraverso la vendita on-line 291 BIBLIOGRAFIA AA.VV. 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Ringrazio anche il prof. Francesco Adornato, sempre prodigo di indirizzi e di insegnamenti in questi tre anni, il collegio dei docenti della Scuola di dottorato nonchè il personale del Dipartimento di Diritto privato e del lavoro italiano e comparato dell’Università degli Studi di Macerata e del Dipartimento di Teoria della Stato della Sapienza – Università di Roma. Insieme a loro un ringraziamento va ai colleghi ed ex colleghi di corso, in particolare a Federica Zolla, Cinzia Benatti, Elisa Belgrado, Paola Colaneri, Monica Minelli, Priscilla Altili e Salvatore Altiero, e ai colleghi dell’INEA, in particolare a Francesca Giarè, Laura Viganò, Valentina Cardinale e Francesco Vanni, per il sostegno morale e gli utili consigli. Infiniti ringraziamenti vanno alla mia famiglia e agli amici di sempre che mi hanno sostenuta, sopportata e coccolata in questa avventura. 326