La “caduta”, il sacro e la perdita dell`innocenza In La caduta

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La “caduta”, il sacro e la perdita dell`innocenza In La caduta
La “caduta”, il sacro e la perdita dell’innocenza
1.
In La caduta Tancredi, un adolescente “pieno di ossessioni”, è alle prese con la fine
dell’infanzia (“In realtà, non si rendeva conto che per lui l’infanzia era finita, e l’inquieta e
torbida adolescenza incominciava”; II 196). La vicenda si svolge al mare, in una villa Liberty
(“paurosa. Non senza però quella delizia fonda e angosciosa che ispira la paura”; II 198),
presa in affitto dalla famiglia di Tancredi da un antiquario 1. Nel racconto sono presenti
anche la madre di Tancredi e la cameriera Veronica. Non manca il proverbiale temporale
imminente, che può sempre scoppiare in Moravia (“Quel giorno il cielo, di un colore diffuso
e scuro che pareva annunziare l’imminenza di un temporale”; II 201), con una “nube scura”
(II 201) e la “pioggia violenta”, osservata “con un gran senso di sicurezza e di intima delizia”
(II 206). Non sono assenti gli animali, un “grosso gatto” (II 202) e il topo. Tancredi mostra
astio e “abbietta paura” (II 203) per il gatto, con il quale ingaggia una lotta, lo colpisce con la
fionda, desidera ammazzarlo.
Nella scrittura, che si avvale molto dell’ingente peso della rimozione. Tancredi spia,
evidenzia soprattutto una “indiscrezione ardente e vergognosa” (II 205), viola l’intimità della
cameriera, fantastica e sogna che il topo sia venuto a contatto con Veronica. Tutti gli
elementi, contratti, coperti e spostati si coagulano in un universo disgregato e si organizzano
come sistema facendo affiorare un arcipelago.
Alla parete di una stanza della villa Tancredi guarda “una copia della tela di Caravaggio che
raffigurava la caduta di S. Paolo sulla via di Damasco”, con la dovuta descrizione:
Una gran luce fumosa e ardente che suggeriva il bruciaticcio della folgore, illuminava il corpo
nudo e macilento del Santo, il quale piombava a rovescio, le gambe in aria, le braccia tese in
avanti, la faccia abbacinata. Tutto il rimanente era nel buio, non tanto però che non si
scorgesse, come in un mondo diverso e più calmo la sella, la criniera e la testa del cavallo e,
accanto, un palafreniere con un turbante, imberbe e sereno. (II 199)
riconobbe sulla parete di fronte il quadro della caduta di San Paolo, più che mai, in quella
luce di tempesta, cupo e lividamente illuminato. (II 205)
Nel modificare il titolo originario del racconto, edito nel 1940 su “Prospettive”, che era San
Paolo, o la caduta, Moravia rappresentò ciò che avrebbe fatto in modo stupendo in Agostino:
1
che la fine dell’infanzia chiudeva il periodo dell’innocenza, e che si manifestava nella
rappresentazione della caduta da cavallo di Paolo di Tarso2, su cui il romanziere ritornò in
seguito nel romanzo 1934, allorché Shapiro, “collezionista di quadri, creatore di un museo,
personaggio ben noto nel mondo internazionale dell’arte”, incontrato da Lucio a Capri,
riferiva di aver avuto “come un’improvvisa conversione, in tutto simile, senza offesa, a quella
di San Paolo sulla strada di Damasco” (1934 267).
2.
La “caduta”, ha scritto Gilbert Durand è in rapporto con il simbolo delle tenebre, è “segno
della punizione”, è “l’emblema dei peccati di fornicazione, di gelosia, di collera, di idolatria e
di omicidio”, è verticalità, non orizzontalità, è discesa, precipitazione verso il basso, è abisso,
“tempo nefasto e mortale, moralizzato sotto forma di punizione”3. Il motivo della “caduta”,
che in senso figurato è colpa, è sottotraccia in tutta l’opera moraviana. Affiora prima come
spiare (“mettere l’occhio a quella fessura”; II 205), guardare senza essere visto, come in Il
vestito di Veronica, e si ingigantisce come voyeurismo e scopofilia. Tancredi guarda in una
stanza una scena molto frequente nell’opera di Moravia. In L’equivoco l’Urati “andò a mettere
l’occhio” alla “fessura” dell’uscio socchiuso e spiò “la donna che abitava quella camera” (II
163). Altrettanto accade in L’angelo dell’informazione (T 11). Lo spiare è interdetto, è un atto
proibito, una scena primaria, come nel racconto La cintura (C 135). Scatta l’angoscia per la
punizione, si paventa la castrazione, la morte, la cecità per aver visto: complesso di Atteone
o di Edipo. Lo spiare, però, non ha solo un significato sessuale. In Il misterioso e in Il curioso si
spia “attraverso il buco della serratura” (I 1390) non “cose straordinarie e proibite. La
curiosità dei vecchioni nascosti tra le foglie del bagno di Susanna non è la sua” (I 1392),
come Tarcisio in Il ritorno dalla villeggiatura (II 294). Anche il protagonista del romanzo L’uomo
che guarda riferisce che “lo scopofilo spia non soltanto ciò che è proibito ma anche ciò che è
sconosciuto; in altri termini, la scopofilia ha bisogno di scoprire l’ignoto”, da cui ricava “un
rapporto oscuro ma indubitabile tra il modo di scoprire della scopofilia e quello della
scienza” (UG 44), e che spiega, in altri termini, come la curiosità e il desiderio di sapere e di
conoscere siano meccanismi legati alla sfera della sessualità.
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Guardare in Moravia, in genere, è curiosità e volontà di conoscere. E si tratta sempre di
qualcosa di sacro. Santo e sacro sono analoghi. La santità è probità, integrità di vita e di
costumi. E la nozione di sacro è analoga a quella di tabù, interdizione, proibizione, divieto,
illecito. Il sacro è potenza misteriosa, intoccabile e non avvicinabile. Tancredi ha visto una
scena proibita, ha infranto un tabù, ha dissacrato il sacro e l’inviolabile. Anche Agostino, il
quale prima della scoperta del sesso “era ancora ignaro del bene e del male” (II 361), è
entrato in contatto con il male, ha perduto l’innocenza. Da ciò turbamento, disperazione e
angoscia.
La perdita dell’innocenza e la dissacrazione del sacro sono anche una profanazione. La quale
si presenta prima timidamente in Moravia, poi si ingigantisce progressivamente. Il motivo,
già rilevato nell’episodio del prete in La romana, è replicato sia in L’uomo che guarda, ove
urinare sull’altare di una chiesa è “profanazione” (UG 200), poi in Il viaggio a Roma, ove si
riscontra la “profanazione” dell’innocenza. Nel ricordo il protagonista sa che questa è
“male”, che era “domanda filosofica, benché angosciosa, e come tale non chiedeva risposta.
Ma il dolore che l’originava, era reale” (VR 28). Nel secondo dopoguerra, dopo la
pubblicazione del saggio La Speranza ossia Cristianesimo e Comunismo, il motivo si amplifica e si
avverte nitidamente in La ciociara, ove appare nelle riflessioni sulla religione di Cesira e in
Rosetta, che era “una santa” (III 1217), in Michele, che “da ragazzo, aveva pensato
seriamente di farsi prete” (III 1261), e che, “nonostante tutti i suoi discorsi contro la
religione, Michele rassomigliava piuttosto ai preti che agli uomini comuni”, nella
dissacrazione della chiesa (III 1419), nel “corpo sano e giovane, forte e pulito” di Rosetta,
“proprio di ragazza innocente qual era” (III 1445). Il motivo ha una rilevanza in Beatrice Cenci
(“io a nove anni ero una bambina innocente, e non sapevo nulla del male” (T 252), con
l’aspirazione e il sogno (“finché fui una fanciullina”) a restare “innocente” (T 257). Al
mattino, dopo i turbamenti notturni, da sveglia, Beatrice “finalmente, esausta, rinunziava alla
colpa e ritrovava nel sonno l’innocenza” (T 288). Il riferimento non era soltanto ad una
innocenza cristiana, ma anche “precristiana, pagana”, che Moravia, eliminando “ogni
moralismo” rintracciava anche nella scrittura dell’Ernesto sabiano (CI 1180).
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3.
Dalla perdita dell’innocenza emerge il dolore. Che viene conosciuto in tutta la densità della
sofferenza4. La conoscenza attraverso il dolore è essenziale in Moravia. Tutti i personaggi ne
sono afflitti, come Silvio Baldeschi in L’amore coniugale. Un dolore subìto anche da Cesira,
prima con la guerra poi con lo stupro della figlia. Un dolore storico (“mostro insaziabile”),
ossessivo, eccessivo, non creativo né utile5.
Il male è dolore. E viceversa. La “caduta” e la discesa verso il male sono provocati dal
demone, che si presenta sotto diverse spoglie. Nell’ultima scena de L’amore coniugale il
demone è rappresentato come donna, ma già precedentemente Silvio Baldeschi aveva
raffigurato Leda zoomorficamente come capra, animale demoniaco. Rosetta, dopo lo stupro
è capretto (“si vedeva il ventre bianco come il marmo e il pelo biondo e ricciuto simile alla
testina di un capretto”; III 1422). Cesira, invece, osserva il camionista che accompagna lei e
la figlia:
Aveva la voce grossa e rauca; sul collo enorme gli scendevano tanti riccioletti biondi che gli
facevano una testa come di caprone; e aveva veramente qualche cosa del caprone nel modo
con il quale guardava Rosetta e meglio ogni volta che poteva, gli avventava gli occhi nel
seno. (III 1435)
In un’annotazione del Diario europeo, alla data 25 giugno 1986, Moravia comunicava di aver
letto il libro di Jeffrey Burton Russel (in originale perché non tradotto in italiano), e collegava
la lettura alla visita fatta nel 1948 a Carl Gustav Jung, il quale gli aveva riferito che alla Trinità
doveva essere aggiunto come quarto anche il diavolo. Il romanziere riassumeva il significato
della teoria junghiana secondo la quale il diavolo era l’inconscio, e con un benefico rapporto
diretto con il conscio. Il cristianesimo aveva espulso il diavolo come negatività e questo si
ripresentava come “Male” e minacciava il mondo. Per Moravia era il “Numero”: “La
moltiplicazione di tutto e del contrario di tutto, nell’era della rivoluzione tecnologica, da
quella dei prodotti a quella dei consumatori dei prodotti, è all’origine di un Male nuovo e
strano che non ha precedenti e che, di conseguenza, va combattuto con mezzi nuovi, senza
precedenti” (DE 68-69).
Il diavolo, metafora delle paure, dell’angoscia, delle solitudini individuali e collettive, delle
pulsioni del desiderio, della tentazione del fantastico e dell’immaginazione, si presenta, per
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Moravia, in tutti i luoghi ove si manifestano il male e il dolore, come nei campi di
concentramento nazisti. In un’annotazione del 2 gennaio 1989 del Diario europeo, avendo letto
il libro di Erwin Panofsk su Durer, e suggestionato dal “racconto lungo” di Leonardo
Sciascia Cavaliere e la morte, Moravia si soffermava sull’incisione Il cavaliere, la morte e il diavolo, e
per non riprendere tutta l’analisi, che ora non è pertinente per il nostro argomento, scriveva
che il Bene soccombe al Male, però il Male è “duplice: è il diavolo, cioè la corruzione; è la
morte, cioè al tempo stesso il cancro di cui il Vice è malato e la mafia di cui è malato la
Sicilia; un paese può morire di mafia esattamente come un uomo può morire di cancro” (DE
248-249).
Il demone non è l’Altro, ha osservato Foucault, ma il Medesimo, l’esattamente somigliante,
l’altra parte di sé6, e di tutti i personaggi moraviani che combattono e cercano di sublimare il
loro presunto peccato.
Il demonio è ormai interiorizzato e rappresenta il male negli
individui e nella collettività, si traveste in diverse forme, non è più il diavolo goethiano che
apparteneva alla realtà oggettiva, ma, come in Dostoevski e in Thomas Mann, è soggettivo,
proiettato in figure7. La scrittura è elaborazione luttuosa della dannazione e della colpa per
prendere distanza da Atteone. Ciò spiega anche il doppio, la presenza costante, come
narrante, in molti racconti, della figura dell’amico del personaggio principale, del fratellastro,
del sosia, dunque, della maschera. Il narcisismo è omosessualità sublimata8.
Il diavolo è terrificante, tragico e grottesco. In L’uomo che guarda il protagonista ritiene che
esista un “demone” della “lussuria”, ma anche un altro “più sottilmente, quello di una specie
di ostile volontà tentatrice” (UG 121). Pascasie rappresenta per Dodo la tentazione e la lirica
di Mallarmé è uno specchio, come il quadro di Caravaggio in La caduta. Nel racconto Che me
ne faccio del carnevale una donna “si è mascherata da selvaggia” e ha comprato per il marito una
“maschera del diavolo, con la bocca oscena rossa come il fuoco, la barba di caprone, le
guance nere, la fronte aggrottata, le corna” (C 192). Nella riduzione teatrale della Mascherata
sono da segnalare, con le numerose modificazioni non solo formali, beninteso, in didascalia
le maschere della morte, del tempo e del diavolo (T 185-186). I titoli dei racconti Il diavolo non
può salvare il mondo, Il diavolo va e viene, Il diavolo zoppo, inclusi nella raccolta La cosa, hanno la
loro determinazione tematica e strutturale9. Nel racconto di una donna russa a Lucio “dietro
il banco, come dietro un altare, invece del commesso, il diavolo, tutto nudo anche lui, con le
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corna e le cosce pelose di caprone, proprio il diavolo in persona, che ci unisce in matrimonio
per sempre secondo il suo rito e la sua legge” (1934 127). La stessa donna dice poco dopo:
“io non volevo più ubbidire ad alcuna logica. Avevo visto sinora il mondo diviso tra Dio e il
Diavolo: Dio era la rivoluzione, il Diavolo, la borghesia” (1934 133).
L’8 agosto 1978, discorrendo di Paolo VI, Moravia scriveva degli elementi contraddittori
presenti nel papa e della “sua idea che il male fosse il diavolo, personificazione
preumanistica, medievale, arcaica” (IC 305).
La natura non conosce il male e il peccato. Non si deve possedere ma solo contemplare.
L’uomo deve rinunciare al possesso, come accade anche al protagonista in La villa del venerdì.
In Lettere dal Sahara Moravia giunge definitivamente all’ideologia - prospettata già dal Mino
della Romana - dell’assenza di uomini: “È una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi di
mezzo miliardo di anni fa. L’umanità non ci sarà ancora almeno per quattrocento milioni di
anni. Che bellezza!” (LS 202); “affacciandomi al panorama, ho avuto l’impressione di
guardare ad un altro mondo. Ma che mondo è, allora, questo? Ci penso su e mi rendo conto
che è il mondo, precisamente, dal quale, in epoca immemorabile, l’umanità è stata esclusa per
sempre” (LS 203-204). Si tratta della nostalgia del paradiso, del vagheggiato mito dell’Eden,
“la natura nel suo massimo splendore e rigoglio ma prima del peccato” (V 1012), dell’“antica
innocenza” (II 387). Già nel 1963 a Zanzibar Moravia ebbe “la sensazione del paradiso
terrestre più di qualsiasi altro luogo della terra, salvo forse le grandi spiagge brasiliane” (QTA
32), un paradiso che, però, “un tempo era un inferno”, perché da quell’isola partivano
migliaia di esseri umani considerati schiavi. Il viaggiatore ne deduceva che ogni paradiso
poteva trasformarsi in inferno, rivoltarsi e diventare intercambiabile negli eventi storici,
come era accaduto ai “nazisti”, che avevano ideato i campi di concentramento, nei quali
avevano messo a morte milioni di persone. Egli avvertiva, quindi, di fare attenzione ai
“miraggi” di qualsiasi tipologia (ciò era accaduto anche a Riccardo Molteni per Emilia in Il
disprezzo: “era già un’immagine di miraggio, circonfusa da un’aria di impossibilità e di
nostalgia, remota, come se non fosse stata a pochi passi da me, ma in qualche lontanissima
regione, fuori della realtà e fuori dei miei sentimenti”; III 861), dei “miraggi” che illudevano
su paradisi e inferni, poiché, com’era accaduto in un successivo viaggio in Africa: “Così
siamo corsi incontro al paradiso e invece abbiamo trovato l’inferno” (LS 78). Si tratta di
6
miraggi evidenti, come il caso di una donna, in un racconto dal titolo Il Paradiso, che intende
suicidarsi con i barbiturici per fare “il lungo viaggio fino in Paradiso tutto d’un fiato, senza
fermate intermedie” (PAUB 21). Oppure, in modo ancor più emblematico, nel racconto La
fata morgana, ove ad una coppia in macchina “appare il miraggio di un lago o acquitrino, con
le acque azzurre che tremano e scintillano sotto il sole” (VV 162) con la consapevolezza,
prima a lui, del miraggio, e che fa il paio con la “felicità”, allorché invece è solo “denaro”,
poi nota un aereo da turismo, “fantasma di qualche cosa che vola e volando si abbassa verso
il prato” (VV 163), un aereo “tenue e bianco aquilone”, miraggi, che apparentemente sono
un fenomeno ottico che va sotto il nome di fata morgana, ma assume il significato oggettivo
di ingannevoli speranze, illusioni, chimere. La delusione e la disperazione storica era stata già
avvertita in Adriana, che innanzitutto sognava ad occhi aperti le musiche che venivano dal
Luna-Park come “da un mondo irraggiungibile” dal quale si sentiva esclusa, per cui avvertiva
“una privazione definitiva, per non sapevo quali colpe” avesse commesso, “un mondo felice
e proibito” da quale era esclusa ricavandone un “sospetto di essere esclusa dal mondo allegro
e scintillante della felicità”, e che in seguito la donna collegò all’invidia per gli abitanti delle
villette non apparentabili alla sua povera abitazione, e che collocava “il proprio paradiso
nell’inferno degli altri”9.
Note
1
Si legga il ricordo delle vacanze viareggine nell’intervista a Dacia Maraini: “Quando
andavamo a Viareggio affittavamo una casa che si chiamava Villino Carovigno. Era una
specie di castelletto rosso, un piccolo maniero con delle torri rotonde. Apparteneva a un
antiquario che ne aveva fatto un deposito di sue croste” (Dacia Maraini, Il bambino Alberto,
cit., pp. 63-64). Il Villino, ricordava Moravia, “Era tappezzato di enormi quadri del Seicento.
Io passavo ore a guardarli. Fantasticavo su soggetti mitologici: i fauni, le ninfe” (ibid., p. 64).
Si badi, comunque, che anche il Tiberi, in La vita interiore, l’amministratore di Viola, è un
antiquario (VI 23).
2
La metafora si ripresenta in Il dio Kurt con il comandante del campo di concentramento,
che era stato un “avversario irriducibile del nazismo”, e che poi aveva avuto la sua “strada di
Damasco, la rivelazione” (T 462).
3
Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, trad. it. di Ettore Catalano, Bari,
Dedalo, 1972, pp. 105-108, per le locuzioni virgolettate.
4
Max Scheler, Il dolore, a cura di Giuseppe D’Acunto, Roma, Castelvecchi, 2016.
7
5
Sul tema del dolore e sulla sua sterilità rinvio al viaggio in URSS (UCI 28-29).
Michel Foucault, La prosa di Atteone, in Scritti letterari, a cura di Cesare Milanese, Milano,
Feltrinelli, 1971, pp. 87-99.
7
Gyorgy Lukacs, Thomas Mann, trad. di Giorgio Dolfini, in Scritti sul realismo, a cura di Andrea
Casalegno, vol. I, Torino, Einaudi, 1978,
Paolo Orvieto, Il mito di Faust. L’uomo, Dio, il diavolo, Roma, Salerno Editrice, 2006.
8
Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998.
9
Moravia scriveva il 24 marzo 1939 da Atene a Giorgio Vigolo, comunicando di sapere
“benissimo” ciò che avrebbe voluto scrivere. E aggiungeva “ – ma non dipende da me bensì
dal mio demone – il quale come tutti i demoni è capriccioso” (Alberto Moravia, Se è questa la
giovinezza vorrei che passasse presto cit., p. 366).
Si badi, inoltre, che Moravia interpretò il ruolo del diavolo nel film Smeraldina. Cfr. René De
Ceccatty, Alberto Moravia, cit., pp. 809-810.
10
In Il conformista Marcello Clerici si domandava, guardando la moglie, che cosa le passasse
per la testa e quali pensieri avesse. Ed immaginava che si sentisse come Eva cacciata
dall’Eden, inteso come mondo ovattato, e gettata in un Eden piccolo-borghese (III 327).
Nello stesso testo, ma nella parte espunta ed edita in appendice, è sintomatico un altro sogno
ad occhi aperti di esclusione, ma questa volta di Marcello (III 341).
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