Le resistenze delle donne: quattro lezioni

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Le resistenze delle donne: quattro lezioni
Assessorato alla Pubblica Istruzione della Provincia di Pisa
Centro per la didattica della Storia
Associazione Casa della Donna
LE RESISTENZE DELLE DONNE
Quattro lezioni - testimonianze
a cura di Alessandra Peretti
Pisa, 22 febbraio - 16 marzo 2006
Quaderni del Centro per la didattica della Storia
Numero 12
Immagine in copertina:
Srebrenica 1995
I Quaderni già pubblicati:
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3.
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8.
9.
10.
11.
Persecuzioni e stermini nella seconda guerra mondiale (2002)
La politica razziale del fascismo (2002)
Dalla discriminazione allo sterminio (2002)
La Grande Guerra (2002)
Fuori dall’ombra. Sguardi sulla storia della donne (2003)
Il primo dopoguerra e il culto dei caduti (2003)
Lotte contadine e operaie nel Pisano nel secondo dopoguerra (2004)
L’arte di stare insieme. Percorsi didattici tra Pisa e il Mediterraneo (2004)
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola (2004)
Pisa: 1940-1946. Le ferite di una città (2005)
La popolazione civile, le istituzioni ecclesiastiche, il clero a Pisa durante la II guerra mondiale (2006)
I testi qui presentati sono in origine interventi orali, direttamente sbobinati e non rivisti dalle relatrici. Presentano
quindi le strutture sintattiche, le ripetizioni e il tono discorsivo propri del linguaggio orale, anche se sono stati sommariamente rielaborati per la presente edizione da Alessandra Peretti, a nome del Centro per la didattica della
Storia. La curatrice si augura che l’importanza dei contenuti proposti giustifichi le inevitabili irregolarità formali e
le disomogeneità stilistiche dei testi.
Non è stato possibile per motivi tecnici registrare alcuni interventi e richieste emersi nel dibattito, di cui si è comunque indicato l’argomento nelle didascalie in corsivo.
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INDICE
Presentazione
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pag.
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1° incontro: LE ITALIANE
(22 febbraio 2006)
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2° incontro: LE ARGENTINE
(2 marzo 2006) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3° incontro: LE BOSNIACHE
(10 marzo 2006)
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4° incontro: LE IRANIANE
(16 marzo 2006)
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PRESENTAZIONE
In occasione dell’8 marzo 2006, l’Assessorato alla Pubblica Istruzione della Provincia, il Centro
per la didattica della Storia e l’Associazione Casa della Donna di Pisa hanno voluto proporre
una riflessione sulle molteplici forme di resistenza delle donne, in epoche diverse e in varie parti del mondo: resistenza non solo all’oppressione politica, ma anche alle durezze della vita in
situazioni estreme. Nel corso di quattro incontri svoltisi tra febbraio e marzo 2006, abbiamo
ascoltato testimoni dirette e studiose emotivamente partecipi di alcuni dei grandi drammi del
nostro tempo che hanno visto le donne in prima linea. Dalla “resistenza taciuta” delle italiane
durante la seconda guerra mondiale alle madri argentine dei desaparecidos, dalle vedove di
Srebrenica e dalle assediate di Sarajevo durante la guerra di Bosnia alle donne iraniane tuttora
in lotta contro il regime degli ayatollah, abbiamo voluto così recuperare la memoria di vicende
in cui, come spesso accade, la vita delle donne comunica un messaggio allo stesso tempo di
grande sofferenza e di grande forza.
Alle parole delle oratrici ha fatto seguito la presentazione di documenti visivi o letterari capaci di offrire ulteriori elementi di riflessione: il DVD Le radici della Resistenza di Francesca Pelini
e Francesco Andreotti (ed. Plus), dedicato alla rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara (luglio
1944); l’intervista di Daniela Padoan a Hebe de Bonafini La piazza delle madri dal fazzoletto bianco, regia di Dario Barezzi; l’episodio Bosnia di Danis Tanovic, dal film 11 settembre 2001; la lettura di brani del libro di Azar Nafisi Leggere Lolita a Teheran (ed. Adelphi).
Alessandra Peretti
Direttrice del Centro per la didattica della Storia
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LE RESISTENZE DELLE DONNE
“le donne sono visibili in ogni punto della storia, purché si abbiano gli strumenti per
vederle” (Anna Bravo)
LE ITALIANE
Partecipano all’incontro (22 febbraio 2006):
Rosa Dello Sbarba, Assessora alla Pubblica Istruzione della Provincia di Pisa
Sonia Pieraccioni, Centro per la didattica della Storia
Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia
Anna Bravo, Università di Torino
Alessandra Peretti
L’idea di un ciclo di conferenze sul tema delle “resistenze delle donne”, volutamente
minuscolo e al plurale, è partita proprio dall’interesse per la Resistenza intesa al maiuscolo, quella italiana, nel senso però più ampio e comprensivo che ha oggi il termine
“resistenza civile” e di cui parleremo fra poco. Ma l’interesse si è presto inevitabilmente spostato su altre aree del mondo che hanno conosciuto, in epoche a noi più vicine,
fenomeni analoghi di resistenza disarmata e civile di fronte all’oppressione e alla violenza. Infatti dall’Italia della seconda guerra mondiale, di cui parliamo oggi, ci sposteremo la settimana prossima all’Argentina degli anni ’70, per raccontare una resistenza
in apparenza particolarmente fragile, quella delle madri cui i figli vennero strappati
dalla ferocia di una dittatura che seppe farsi forte del silenzio e della complicità dei paesi democratici, oltre che della paura e dell’acquiescenza dei cittadini argentini, per torturare e fare sparire trentamila suoi oppositori, in gran parte giovani. La rivolta delle
madri di Plaza de Mayo appare in partenza così isolata e inerme, così ricattabile dalla
propria materna paura per la sorte dei figli, che la forza che ha dimostrato e il ruolo che
ha svolto appaiono incredibili. Vi ricordo che le madri tra un mese commemoreranno
il 30° anniversario del golpe che ha cambiato radicalmente la loro vita e da poco hanno ricevuto un importante riconoscimento, proprio qui in Italia.
Poi parleremo della resistenza delle donne di Bosnia, che si duplica nelle due terribili
esperienze dell’assedio di Sarajevo e del massacro di Srebrenica. Il primo si svolge sotto l’occhio indifferente del mondo che assiste al cecchinaggio degli inermi e alle stragi
delle granate serbe dalle proprie poltrone televisive per più di tre anni, dal ‘92 al ‘95. E
anche qui le donne agiscono secondo le infinite forme della resistenza civile: cercando
di contenere la violenza, difendendo cose e beni dalla distruzione, soccorrendo chi ne
ha bisogno, procurandosi i mezzi per la sopravvivenza dei loro cari. Ma è una forma
specificamente femminile di resistenza anche il continuare a truccarsi delle donne di
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Sarajevo di cui parlano i giornali dell’epoca, il loro desiderio di un rossetto o di vestirsi con eleganza, perfino mentre trascinano lungo le salite della città le carrozzine piene
di taniche d’acqua o fanno la fila per la spesa sotto l’incombere delle granate. Un modo per dire agli assedianti e a tutti: “Non vi illudete, non abbiate paura, noi siamo sempre le stesse”.
La seconda resistenza di cui parleremo a proposito della Bosnia, il 10 marzo, è quella
tragica che riguarda le donne di Srebrenica, a migliaia rimaste sole, spesso coi figli piccoli, dopo il massacro di 8.000 uomini, padri, figli, mariti: a fare i conti col dopo, con la
necessità di superare i traumi terribili della guerra e riprendere a vivere, pur permanendo la loro difficile identità di profughe. E parleremo poi delle altre donne, di cui
Irfanka Pasagic che verrà qui da Tuzla è l’emblema, che hanno offerto a tutti i sopravvissuti, donne, uomini e bambini, l’assistenza sanitaria, psichiatrica e materiale per permettere che questa sopravvivenza avvenisse.
Infine l’ultimo incontro, il 16 marzo, ci permetterà di conoscere meglio una resistenza
di oggi, quella delle donne iraniane impegnate a difendere o a riconquistare spazi di libertà e di autonomia che l’affermarsi del fondamentalismo islamico rende sempre più
difficili e precari, anche dove prima erano riconosciuti. E se questo mondo è stato conosciuto in Italia soprattutto attraverso un film cupo e claustrofobico come Il cerchio di
Jafar Panahi, non sarà inutile ricordare che la resistenza delle donne iraniane è in gran
parte, in un paese giovane e istruito, resistenza delle studentesse: e chi guardi le foto
delle loro manifestazioni di protesta non può non essere colpito dalla vivacità dei loro
atteggiamenti e dall’eleganza con cui fanno scivolare sui capelli quei foulards colorati
che portano al posto del velo cui sono obbligate.
Per concludere, vorrei dire che far conoscere alcune importanti forme di resistenza delle donne, che le accomuna al di là delle differenze di età, di paese, di oppressione subita, di contesto storico, ci è sembrato un modo anche per anticipare, in clima di 8 marzo, il ricordo di un evento per cui le donne italiane si sono a lungo battute e che saremo presto chiamate a celebrare il 2 giugno prossimo, 60° anniversario del primo voto
femminile della storia italiana. Mi auguro che questa celebrazione sia anche un sostegno e un omaggio a tutte le resistenze delle donne di oggi.
Dopo la presentazione del nostro programma, do la parola, per i saluti alle intervenute, alle donne che qui rappresentano le istituzioni organizzatrici: Rosa Dello Sbarba, assessora alla Pubblica Istruzione della Provincia, e Sonia Pieraccioni, presidente del
Centro per la didattica della Storia. Mi spiace che Giovanna Zitiello, presidente
dell’Associazione Casa della donna di Pisa, sia assente per sopravvenuti impegni.
Rosa Dello Sbarba
Quando abbiamo parlato con Alessandra Peretti, la direttrice del Centro per la didattica della Storia, di come iniziare questo incontro, ho preferito che si entrasse subito nel
merito, per far capire che cosa presentiamo e che cosa vorremmo fare insieme - insieme
alla comunità, insieme alle scuole - dal momento che è nostra intenzione fare un percorso comune.
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Sono contenta davvero che ci siamo trovate qui oggi. Sono contenta che l’Assessorato
all’Istruzione - e dirò perché la presenza dell’Assessorato all’Istruzione mi sembra importante - abbia lavorato insieme con il Centro per la didattica della Storia, che è qui
rappresentato dalle responsabili, da Alessandra Peretti, appunto, e da Sonia
Pieraccioni, presidente. Ringrazio inoltre la presidente del Consiglio Provinciale, che è
in sala, come segno anche di una condivisione nel modo di lavorare e nella scelta degli
argomenti da proporre.
Mi ha fatto inoltre piacere che, come ha proposto Alessandra Peretti, questa iniziativa
fosse organizzata insieme alla Casa della Donna, un’associazione storica che è parte, direi, della Provincia-istituzione, e con la quale ci interessa continuare a collaborare in
maniera stretta e organica.
Come ho appena detto, voglio anche spiegare perché secondo me è importante che sia
l’Assessorato all’Istruzione, insieme con tutte queste altre persone e associazioni, a promuovere un ciclo di iniziative sulle resistenze delle donne. Noi stiamo cercando di lavorare in continuità con quanto ho trovato quando ho avuto l’incarico di seguire questo Assessorato: di lavorare per ampliare le opportunità formative, per gli studenti prima di tutto, ma anche per gli insegnanti e per la comunità. Quindi di offrire momenti
di lavoro, di seminario, di approfondimento insieme, non tanto come conferenze, seppure di alto livello, accademiche e fine a se stesse, quanto come tappe di un lavoro che
progredisce, che nasce da una elaborazione, da una programmazione che condividiamo e che le professoresse che sono qui presenti conoscono. Esso va dallo studio della
Costituzione al vasto progetto che sosteniamo sul recupero della memoria: che ovviamente nasce dall’opportunità che ci è stata offerta con l’istituzione del Giorno della
Memoria e poi si allarga ad altre iniziative che le scuole stesse propongono, promuovono e per cui ci chiedono supporto. È il progetto attorno al quale è nato il Centro per
la didattica della Storia, come momento di confronto tra insegnanti, perché è importante che siano gli insegnanti stessi, quelli che lavorano nella scuola, ad innovare la didattica e quindi presentare contenuti nuovi, oltre che nella scelta dei temi, nei modi con
cui si studia e si insegna. Ecco come si inserisce nell’attività dell’Assessorato questa iniziativa, che consiste in un ciclo di conferenze a mio parere di altissimo livello: e per questo desidero fare i complimenti a chi concretamente le ha realizzate e le realizzerà nelle prossime settimane. Si tratta quindi di un’occasione per affrontare dei temi che sono
importantissimi per una didattica innovativa, i temi delle donne, che appartengono
particolarmente a noi tutte.
Ma quest’anno non finiremo con questo di parlare di memoria e di diritti. Nei nostri
programmi c’è, appunto, come è già stato detto, la volontà di commemorare la nascita
della Repubblica e il voto alle donne, all’interno di un lavoro sulla Costituzione fatto
nelle scuole, che si deve allargare a trattare anche della Costituzione Europea, per sviluppare anche su questo la sensibilità e la conoscenza dei nostri ragazzi e ragazze. Per
cui la nostra volontà è di continuare in questo modo, con questo impegno. Vi ringrazio
davvero di essere qui stasera e ringrazio le organizzatrici per aver messo insieme, attraverso il programma di questo ciclo, una rappresentazione delle donne che non è comune, uno spaccato diverso dal solito del ruolo delle donne.
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Sonia Pieraccioni
Anch’io sono veramente contenta di vedere realizzata questa idea che avevo già da un
po’ di tempo, e devo ringraziare sia Rosa Dello Sbarba che Alessandra Peretti che hanno subito condiviso questo progetto, che era comunque piuttosto complesso per i contatti che ha richiesto in varie parti del mondo. Vi voglio ora raccontare com’è nata questa idea.
L’idea è nata da uno spettacolo teatrale che penso tanti di voi avranno visto, quello di
Ottavia Piccolo, proprio sulle donne di Plaza de Mayo. In particolare all’interno dello
spettacolo si raccontava un episodio che mi ha colpito molto perché, tra l’altro, parlava
dei campionati mondiali di calcio che si sono svolti in Argentina nel 1978, poco dopo
che c’era stato il golpe. Chiaramente il calcio e lo spettacolo vanno avanti a tutto, anche
ai diritti, e quindi c’è stato come un annebbiamento, non solo delle coscienze ma anche
dell’informazione.
Il fatto particolare è che, quando l’Argentina è scesa in campo, mancava all’appello uno
dei giocatori più significativi della Nazionale e nessuno degli speakers che raccontava
questa partita - perché poi la partita fu vista in tutto il mondo - si curò di spiegare come mai un giocatore così significativo non giocava la partita iniziale del campionato del
mondo. Bene: questo giocatore era desaparecido, la notte era stato sequestrato ed era sparito.
Questo mi ha fatto veramente capire come si riesca, in un certo senso, ad annebbiare le
coscienze. Le coscienze poi sono state risvegliate dalle madri, che vedevano sparire
giorno dopo giorno i propri figli, senza sapere dove erano, che fine avevano fatto, e solo il loro coraggio di donne e di madri ha fatto sì che nel mondo si sapesse - non subito, ma dopo un po’ di tempo - quello che stava accadendo. Queste madri coraggiose
tutti i giorni, col loro fazzoletto bianco, con le loro foto, andavano in piazza, anche loro rischiando di essere arrestate, ed hanno portato avanti una battaglia assolutamente
impari senza mai perdersi di coraggio.
Io credo che tante donne nel mondo stiano facendo quello che hanno fatto le madri di
Plaza de Mayo, stiano combattendo per i diritti di tutti attraverso un lavoro costante,
forse anche fuori dalla ribalta, tanto che nessuno ne sa niente. Credo che invece sia necessario conoscere tutto questo, perché quando c’è una riduzione dei diritti, c’è una riduzione degli spazi pubblici, le donne sono le prime che ne risentono e che hanno la
necessità di fare qualcosa. Quindi sono le prime ad essere direttamente coinvolte.
Basta pensare alla battaglia delle donne afghane e alla promozione dell’iniziativa “Un
fiore per Kabul” che, almeno, ha fatto sì che il mondo conoscesse quello che stava accadendo. Questo veramente credo che sia necessario anche per noi, perché noi siamo
convinte di aver fatto passi avanti, di vivere in una società dove ci sono pari opportunità, pari diritti, però mi piacerebbe che ci fosse – oltre a un approfondimento storico
che riguardi il nostro paese - anche la consapevolezza che i tempi non sono sempre
quelli, cioè che le situazioni cambiano e quindi che l’insegnamento di altre donne può
servire anche a noi.
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Alessandra Peretti
Adesso vi presenterò brevemente l’argomento di oggi e il DVD sulle donne di Carrara
che verrà proiettato subito dopo. Nel frattempo arriverà da Torino la nostra oratrice, la
storica Anna Bravo, che del tema di cui parliamo oggi si occupa da moltissimi anni. Da
tanti anni che, quando io le ho proposto di venire a parlarcene, mi ha detto: “Non ne
posso più di questo argomento, ormai mi occupo di altro...”. Ma comunque è stata poi
contenta di venire a Pisa, a cui la legano anche rapporti di studio e di amicizia del passato.
L’idea di partire dal tema di oggi, la Resistenza con la R maiuscola, nasce dalla sensazione che qui a Pisa, e in particolare nelle scuole, si sia parlato finora poco di Resistenza
al femminile, nonostante tutto il lavoro sulla memoria fatto dalle scuole negli ultimi anni e l’impegno di alcune classi su singole figure di donne, come Licia Rosati o Livia
Gereschi. Viste per altro più come vittime della violenza nazifascista, che come espressione di una Resistenza al femminile.
Il fatto è che sia il discorso pubblico sulla Resistenza che l’immaginario collettivo che la
stessa storiografia hanno accantonato per decenni le molte storie vissute nel corso dell’ultima guerra da civili, deportati, internati militari, sfollati, donne, per far prevalere
su tutto la figura del partigiano combattente, maschio e armato. Se voi pensate anche a
come sia recente, da un certo punto di vista, il discorso su Auschwitz, sulla memoria e
sui campi di concentramento, capite che c’è stata tutta una serie di censure, almeno fino agli anni ’70. Le stesse donne che avevano fatto la scelta della resistenza armata, tra
le quali per altro solo una minoranza aveva veramente usato le armi, come del resto è
successo agli uomini, sono state per decenni presentate non come partigiane a tutti gli
effetti, ma col termine generico e riduttivo di staffette; e la loro opera, cui pure si è sempre reso omaggio, è stata intesa solo come un contributo o una partecipazione alla
Resistenza vera e propria, che era dunque qualcosa di altri, cioè una questione di uomini.
Non voglio dilungarmi su questo, di cui ci parlerà con molta maggiore competenza
Anna Bravo, ma certo nel 1976 la storia di dodici partigiane piemontesi raccontata da
Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina si intitolò La Resistenza taciuta, e questo è indicativo di come erano andate fino ad allora le cose. Occorreranno altri venti anni perché
sempre la Bruzzone con Anna Bravo pubblichino In guerra senz’armi. Storie di donne
1940-45, non più dedicato alla resistenza combattente, ma, come dicono le autrici, alla
zona grigia delle donne comuni, di quelle che non hanno scelto. Si tratta di quella che
la storiografia impara allora a chiamare resistenza civile: che usa il coraggio morale,
l’inventiva, la duttilità, la capacità di tessere rapporti per contenere la violenza degli
uni e degli altri, per impedire le distruzioni, per assistere chi ne ha bisogno. Non solo
le donne, ma principalmente le donne ne sono protagoniste e la prima manifestazione
forte di questo fenomeno è l’assistenza ai soldati sbandati dopo l’8 settembre, quell’attività tesa a soccorrere, sfamare, nascondere, rivestire che ebbe caratteristiche di massa.
Nella ricerca su questi temi ha avuto di recente un ruolo significativo una giovane studiosa scomparsa prematuramente nell’agosto scorso, a cui desidero dedicare il nostro
incontro di oggi. Non so quanti dei presenti abbiano conosciuto l’autrice del documentario che ora vi presentiamo e che si riferisce a un episodio importante di Resistenza al
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femminile nelle nostre zone. Parlo di Francesca Pelini, che ha studiato a Pisa col prof.
Pezzino e che univa alle capacità e serietà di storica, che sono testimoniate anche da
questo lavoro, una disponibilità e un calore umano di cui quanti l’hanno conosciuta
sentono dolorosamente la mancanza. Di lei si parlerà più estesamente nel corso di un
convegno che il prof. Pezzino, che oggi non ha potuto essere presente, intende preparare per maggio. Questo suo lavoro nasce dal recupero alla storia di un episodio avvenuto a Carrara nel luglio del ’44, quando all’ordine tedesco di evacuazione della città,
motivato dalla necessità di liberare da presenze scomode la zona di operazioni prossima alla linea gotica, su cui i tedeschi si apprestavano a resistere per quasi un anno, risposero le donne con una manifestazione di protesta che bloccò definitivamente l’evacuazione. Il video, che mette efficacemente insieme storia e memorie, è nato dalla collaborazione di Francesca Pelini con un altro nostro amico attento agli episodi spesso
sconosciuti di storia locale, il regista Francesco Andreotti, che ringraziamo della sua
presenza, oltre che del suo impegno. Ringraziamo anche le edizioni Plus che ci hanno
permesso la proiezione di oggi.
Viene proiettato il DVD di Francesca Pelini e Francesco Andreotti “Le radici della Resistenza.
Donne e guerra, donne in guerra. Carrara, Piazza delle Erbe, 7 luglio 1944” (ed. Plus).
Anna Bravo
Vi ringrazio dell’invito, anche perché mi fa piacere tornare su questi temi, avendo tra
l’altro la sensazione che ci siano in generale molte richieste sull’argomento di oggi. Il
che vuol dire che c’è una specie di circolo virtuoso tra partigiane e deportate, studentesse, donne delle istituzioni rappresentative, storiche di prima e seconda generazione,
che mi sembra una cosa positiva. Forse le ricerche sono andate avanti e hanno stimolato una serie di riflessioni anche delle protagoniste: infatti alcune delle cose che ho sentito nell’ultima parte del filmato erano legate ad un dibattito - consapevolmente o meno, questo non importa.
In questo periodo, in questi anni, c’è il rischio che il problema del rapporto donne-armi, che è davvero un rapporto difficile, complesso, ambivalente, perda il suo aspetto
così problematico, perché ci siamo abituati a vedere le donne che fanno parte degli eserciti regolari, purtroppo vediamo anche le donne terroriste. Quindi c’è il rischio che questa problematicità si dissolva, finisca in una accettazione poco critica. Io penso che riandare alle nostre partigiane, alle deportate, alle donne che hanno portato le armi ed a
quelle che non le hanno portate, ci serva anche a capire come sono complicate le cose e
che novità ha rappresentato la Resistenza nella storia delle donne e nella storia dei movimenti di liberazione.
Ci sono alcune caratteristiche da tener presenti. Parlo dello sfondo della guerra, che è
la seconda guerra mondiale, naturalmente: una guerra totale, una guerra che impegna
tutte le risorse economiche, che tende a subordinare la società al fronte, una guerra di
forte impatto ideologico, in cui da una parte ci sono le potenze democratiche e dall’altra c’è il nazifascismo. In mezzo l’Unione Sovietica, col suo ruolo un po’ strano perché
nel ’39 si allea con Hitler e nel ’41, attaccata da Hitler, si allea con le potenze democratiche. Quindi è una guerra che vede contrapposta un’idea di convivenza libera, con i li-
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miti naturalmente che questo può avere, e invece il peggio del peggio sul piano della
violenza, della gerarchia delle persone, delle classi e delle “razze”. È una guerra di sterminio, con i sei milioni di ebrei uccisi nei vari campi, i deportati politici, ma anche gli
zingari, gli omosessuali. È una guerra che vorrebbe nell’ideologia hitleriana rimodellare l’umanità, e per questo si parla anche della politica nazista come di bio-politica.
In questo quadro complesso le donne per la prima volta partecipano a livello di ampie
minoranze ai movimenti di resistenza. C’erano già state donne partigiane, combattenti, nella guerra di Spagna, ma era in un solo Paese. Questo invece è un fenomeno europeo ed è un fenomeno rilevante per gli equilibri politici, per l’immagine della
Resistenza e per la stessa coscienza delle donne. Nel filmato ho sentito una signora che
diceva: “Ma noi non abbiamo dato un contributo, noi proprio eravamo dentro”. Ed ha
ragione: per decenni si è sempre parlato di contributo delle donne alla Resistenza, come se fosse una cosa in più. Un contributo può esserci o non esserci. Invece oggi, da un
po’ di tempo, abbiamo rifiutato questa formula che riduce le donne ad un’appendice o
un supporto. Il fatto che lo dica anche quella signora mi fa pensare che è proprio così:
loro si sono sentite ferite di essere considerate delle componenti non essenziali, che appunto danno un contributo e basta.
Dove sono dunque le donne nelle Resistenze europee? È più facile dire dove non sono.
Le donne sono dappertutto: nel combattimento, nella logistica, nelle azioni di salvataggio, nelle manifestazioni pubbliche, negli scioperi. Dov’è che non sono? Non sono
nei posti di grande potere e di grande prestigio. Si potrebbe dire “di grande/medio”:
casomai, sono in piccoli posti di potere. Non parlo di potere in senso negativo, intendiamoci, ma solo nel senso del luogo dove si decide: lì le donne non ci sono. Il che è significativo perché io non attribuisco alla dirigenza partigiana una perversa volontà misogina, non era così. Era invece un’arretratezza non solo italiana - anche se l’Italia si distingueva in questo - che faceva sì che non si comprendesse l’importanza delle possibilità che una donna in ruoli di decisione poteva aprire.
Una delle cose importanti che voglio aggiungere è che con la seconda guerra mondiale la presenza delle donne - non solo delle partigiane, ma delle donne in generale - all’esterno della casa, anche soltanto per andare a fare borsa nera, a cercare dei viveri, a
chiedere notizie dei parenti, fa sì che quello stereotipo vecchio e rigido che vede le donne identificate con il privato - la casa, la domesticità, la famiglia - e gli uomini con la politica e con le armi viene pesantemente incrinato. Naturalmente anche per il fatto che le
donne portano le armi. Non sono la maggioranza le donne che usano le armi, ci sono
donne che rifiutano di portarle, come Lidia Menapace per esempio; però ce ne sono e
combattono come i maschi, probabilmente anzi meglio, perché quando una si sente il
nuovo arrivato che ha delle cose da dimostrare - cosa che io spero non capiti più alle
giovani, ma a quelle della mia età è successo in tante situazioni - può essere anche molto più brava di un uomo, e ce ne sono state tra le partigiane combattenti.
Questa frattura dello stereotipo sul piano materiale è vistosa. Si diceva che le donne
avrebbero dovuto essere identificate con la casa, ma in realtà le strade dell’Europa sono piene di donne, spesso coi bambini al seguito, cariche di bagagli, ecc. Partigiane, non
partigiane. Spesso le partigiane sono mischiate alle altre. Una caratteristica delle donne
- e questa solo delle donne - è che spesso la partigiana combattente fa anche parte dei
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Gruppi di difesa della donna, che erano organizzazioni tendenzialmente unitarie, il più
possibile unitarie, che lavoravano nella società civile. C’erano persone che un po’ stavano in banda e un po’ si preoccupavano di organizzare le azioni dei Gruppi, e non solo dei Gruppi: spesso le donne si mettevano insieme non tanto per ideologia politica
quanto per rabbia, per tutto quello che si può provare durante una guerra come quella, che era una guerra contro i civili. Quindi c’è un misto molto interessante tra azione
organizzata, quella dei Gruppi di difesa e dei CLN, e azione che non voglio definire
“spontanea”, perché non lo era, era piuttosto un’azione “concertata in altri modi”: per
esempio tra amiche, tra parenti, tra colleghe, tra operaie che lavoravano nella stessa
fabbrica. Sono forme di organizzazione estremamente importanti, che però non hanno
l’imprimatur della politica. Su questo tornerò più avanti anche per spiegare perché di
donne si è parlato abbastanza poco.
Quindi le donne sono ovunque, fanno irruzione nella sfera pubblica, ma la cosa singolare è che la divisione tra maschi identificati con la sfera pubblica e donne identificate
con la sfera privata nell’opinione comune regge ancora. Gli esempi non sono soltanto
italiani. Il fatto che ci siano giovani donne che portano le armi è uno scandalo, una stranezza, una stravaganza, qualcosa che quasi tramortisce le persone.
Vi faccio due esempi. Nuto Revelli racconta di un soldato italiano che in Russia ad un
certo punto vede arrivare un carro armato della Resistenza russa, che aveva anche mezzi pesanti. I soldati sono delle donne con delle grosse trecce bionde. Lui resta tramortito e pensa: “Ma cosa fanno queste signorine...?” e quelle signorine che guidavano il carro armato lo fanno prigioniero.
Quest’altra è una storia piemontese sulla quale molte donne hanno riso, dopo. Correva
voce tra i tedeschi che in una certa valle del cuneese ci fosse una comandante partigiana straordinariamente bella, straordinariamente feroce e con gli occhi di ghiaccio, che
si chiamava Giovanna. Questa voce ha circolato per un bel po’. Nessuno l’ha smentita
perché non si smentisce una menzogna. Difatti era una menzogna: non esisteva nessuna partigiana Giovanna. Esisteva un comandante che si chiamava Giovana di cognome,
ma l’immaginario maschile era talmente sconvolto all’idea della donna-guerriera, del
mito della guerriera, che Giovana era diventato Giovanna, Giovanna era diventata un
capo, una donna bellissima, pericolosissima, un’icona, sostanzialmente, anche per il nemico. Quindi l’ostinazione a non vedere il rivolgimento delle cose era davvero diffusa,
se si creavano questi strani contorcimenti mentali.
Bisogna dire che anche i partigiani non erano immuni da questa ideologia e che questo
è uno dei casi in cui a volte la base è più indietro della dirigenza. Io nella mia esperienza
politica - e questo lo dico anche per farmi un po’ conoscere - sono cresciuta pensando
che la base avesse quasi sempre ragione e che fosse sempre più avanzata delle dirigenze. Ci sono invece dei casi, in particolare nella Resistenza sul tema delle donne, in cui
non è così. La base è fatta di ragazzi che, tra l’altro, sono cresciuti in epoca fascista. È
tremenda, a volte, la base, tant’è che ci sono dei comandanti partigiani, citati da
Claudio Pavone, che scrivono circolari dicendo: “Basta. Le donne sono uguali a noi.
Smettetela con questi atteggiamenti”. C’è un conflitto, perché non è facile accettare che
una giovane donna venga nella tua sfera, in quella che tu ritieni la tua.
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Quindi anche sul fatto di prendere le armi si aprono contraddizioni non piccole e bisogna essere donne particolarmente decise per ottenere di portarle, di usarle o, addirittura, di comandare una brigata.
Ce n’era una nell’Ossola, nell’alto Piemonte, che si chiamava Elsa ed era di famiglia antifascista: molto bella, molto “assertiva”, come si dice oggi, molto decisa. Elsa si presenta alla banda partigiana e dice: “Io sono qua per combattere, non sono qua per lavarvi i calzini, non sono qua per farvi da mangiare. Se volete queste cose, fatevele da
voi. Io sono qua per sparare. Se non sparo, buongiorno e buonasera, me ne vado”. A
questo punto, considerato anche il piglio di questa ragazza, Elsa viene accettata e dimostra di essere particolarmente brava, direi quasi feroce data la situazione di allora:
tant’è che la sua squadra, che era una volante, si chiama “Elsinki” dal suo nome di battaglia che era Elsinki, da Elsa.
Quindi, come vedete, c’è tutto un pullulare di spinte molto diverse: esistono stereotipi,
esistono spinte a superarli ed esistono inerzie enormi, che coinvolgono anche persone
che ci sono care e che sono care alle partigiane. Però le cose sono andate così. Possiamo
dire francamente che in quest’ambito la dirigenza ha tentato di muoversi nel senso giusto, ma io penso che non l’abbia fatto con molta decisione, e del resto la base in
Piemonte era particolare, in Emilia forse la situazione era più facile. In Piemonte è quella che è, una base maschilista, formatasi in un’ideologia machista, e quindi pensa che le
donne non debbano portare le armi, debbano servire per i lavori logistici o, addirittura, per cucinare, rammendare, cucire...: questi tipi di lavori.
Una cosa che mi sta a cuore dirvi, però, è che quasi tutte le donne - partigiane, non partigiane, donne cosiddette comuni, donne di classe popolare, donne di estrazione borghese - si rendono perfettamente conto che questo stereotipo che identifica le donne
con il privato esiste e regge ancora, a dispetto della situazione, e se ne servono.
Ci sono moltissime storie - vere, vissute, raccontate - di donne che passano i posti di
blocco giocando il ruolo femminile fino in fondo. Se sono giovani, fanno la ragazzina
svanita, che ridacchia, che magari fa un po’ il filo al giovane tedesco e gli offre una sigaretta, un pezzo di pane.... Fa quella che casca dalle nuvole, sostanzialmente. Oppure,
se è un po’ più grande, magari fa la mamma che deve tornare a casa di fretta e quindi:
“Non fatemi perdere tempo, ho il bambino a casa...”. Il bambino può esserci o non esserci, però è il lasciapassare. E così in molti altri modi, per esempio con i documenti nascosti sotto un corredino da neonato nella valigia. Si spera che quelli del posto di blocco aprano, vedano gli indumenti da neonato e non continuino a rovistare. Oppure con
i documenti nascosti nella fasciatura del neonato. Quindi le donne usano spesso questa
tensione tra sfera politica e materiale e sfera dei simboli della cultura e la usano anche
i partigiani maschi, i capi, che spesso mandano le donne e le ragazzine a fare un trasporto di armi, o di documenti delicati, perché pensano che siano meno sospettabili.
Bisogna anche dire che non sempre è così. Le donne lo sperano, sono molte che sperano di passare attraverso i posti di blocco esibendo i simboli della femminilità: ma non
tutte passano. Questo va detto con molta forza, altrimenti non si vede l’aspetto drammatico della situazione: nove passavano, tre non passavano. I militari volevano vedere
cosa c’era sotto il corredino, le mettevano in un angolo e le perquisivano: potevi essere
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la più brava attrice, ma quando questo avveniva c’era poco da fare. L’importante però
è questo uso intelligente e spregiudicato dello stereotipo che identifica le donne con la
casa e la domesticità. E questo viene in parte capito dai partigiani all’epoca, ma poi viene dimenticato.
Io vorrei però parlarvi piuttosto della resistenza non armata, non perché quella armata
non sia importante, anzi oggi è importante parlarne per una serie di motivi, ma perché
le donne sono più lì, più presenti in quest’altra forma di resistenza, che usa anziché le
armi il coraggio morale, la furbizia, l’abilità, la capacità di manipolare le persone, come
nei casi che vi dicevo, facendosi passare per quello che non si è.
Voi avete visto con la lotta di Carrara un caso classico di donne che fanno barriera contro un comando che avrebbe distrutto completamente il tessuto della città e che riescono ad averla vinta: sono in parte donne dei Gruppi di difesa, in parte donne che si mettono insieme a questo scopo. Questo è uno dei casi più tipici di uso della forza d’urto
non armata. Non è detto che sia non violenta, spesso le armi non ci sono solo perché le
donne non le hanno materialmente, o non le saprebbero usare. Sono soprattutto le donne a fare barriera e questa è una vecchissima tradizione. Nell’Inghilterra sei-settecentesca, quando c’erano tumulti contadini, o andavano davanti le donne, o andavano davanti uomini vestiti da donna. Sempre con quell’illusione che le donne destino meno
sospetto, che siano colpite meno duramente.
Comunque questo di Carrara è proprio un caso classico di resistenza non armata, gestita dalle donne, vinta dalle donne, che si oppongono ad un comando strapotente. Dal
punto di vista militare è chiaro che non avrebbero potuto assolutamente vincere, il che
dimostra che spesso le lotte non violente hanno più successo di quelle violente, con le
armi. È una cosa difficile da far entrare nella testa delle persone, ma è così.
Le donne poi sono molto presenti nel lavoro di salvataggio: parlo degli ebrei, ma anche
dei disertori, dei prigionieri alleati usciti dai campi di concentramento dopo l’8 settembre, dei tantissimi sbandati, decine di migliaia, che sono sul territorio nazionale dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943. Qui le donne sono proprio tante. La storiografia non
se n’è accorta, soltanto un grande autore di memorialistica come Luigi Meneghello, nel
suo bellissimo libro I piccoli maestri, racconta di come le donne nascondevano materialmente i soldati: dietro le proprie gonne, lui dice. Li prendevano sottobraccio e li portavano a casa, li vestivano con vestiti borghesi, cercavano di salvare, come scrive
Meneghello, un esercito che non era stato capace di salvarsi da solo.
In Italia questo fenomeno vede le donne in prima linea anche per un altro motivo, perché l’Italia, come sapete, usciva da venti anni di regime. I partiti erano inesistenti, ridotti a niente, non avevano nessun radicamento, per cui le uniche sedi di aggregazione, per usare una brutta espressione attuale, erano i reticoli amicali, parentali, di colleganza, di cui vi dicevo prima. Sono strutture non riconosciute come politiche, ma che
funzionano, in cui ti fidi di far nascondere quel certo soldato prigioniero presso la tua
amica, tua sorella, la tua compagna di fabbrica. Sono stati questi reticoli che hanno salvato il massimo delle vite, non c’erano altre strutture. In Italia questi reticoli erano particolarmente forti, anche perché si trattava di un Paese ancora parzialmente rurale, se
pure meno di quanto avrebbe voluto il fascismo; e nella società rurale le donne hanno
dei ruoli importanti in questi reticoli informali, sono strutture in cui le donne contano:
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ad esempio c’è la maestra che conosce i genitori dei suoi allievi. Di qui un grande ruolo loro, ma anche una scarsa visibilità, proprio perché, essendo poca l’attenzione rivolta alle donne e molta quella rivolta alla politica intesa nel senso tradizionale dei partiti, si usava in questi casi il termine “spontaneità” perché non si sapeva quale altro usare, mentre invece dietro c’era una forma di organizzazione interessante di cui io vi do
un solo esempio. Si tratta di una torinese che io ho amato molto e che ora non c’è più:
un’operaia anziana comunista di cuore, anche se non iscritta al partito, la quale, quando ha visto quanti sbandati giravano per Torino in quell’epoca, immediatamente ha capito che le cose non si risolvevano dando un paio di pantaloni a qualcuno, ma ci voleva qualcosa di organizzato. Non è andata da un partito, che non c’era, non è andata da
nessuna parte. Si è messa a girare per il suo quartiere, il quartiere operaio di Borgo S.
Paolo, e ha contattato gli amici, i conoscenti, quelli di cui si fidava, è andata anche dalle suore, perché c’era un istituto di suore lì vicino. Così ha raccattato una grande quantità di indumenti civili, li ha messi nella propria cantina ed ha cominciato col passaparola a rivestire in borghese una quantità ragguardevole di soldati sbandati, che uscivano da questa cantina vestiti certo non elegantemente, ma da borghesi. Persino le scarpe le tingeva di nero, perché le scarpe militari si riconoscono subito e sono il punto debole di ogni travestimento. Qui c’è dunque un’organizzazione sofisticata e però, se tu
cerchi soltanto certi criteri - il partito, la riunione di partito, la decisione del partito, i
comitati centrali -, non la vedi. Infatti non è stata vista. Di questa vera e propria manager dell’8 settembre si è venuto a sapere soltanto perché sua figlia - e sia benedetta la
memoria familiare - ha conservato questa storia come una cosa importante della sua famiglia, ed è stata ben felice che poi sia arrivata lì una storica, che le diceva che era importante anche dal punto di vista politico. Ci sono molte storie analoghe, ma questa mi
ha colpito perché non si può chiamare “spontanea”, come se fosse un’esplosione improvvisa, l’azione di questa signora che se ne va passin passetto dai suoi conoscenti, poi
dalle suore, poi dal prete e si mette nella cantina una riserva di vestiti: non è certo la
spontaneità intesa come moto istantaneo, è un’organizzazione. Una grande autrice,
Hannah Arendt, diceva “una forma di concertazione”, cioè il mettersi d’accordo e agire collettivamente.
Vedete che ci sono già due esempi, i salvataggi dopo l’8 settembre e la rivolta delle donne di Carrara, che mostrano l’importanza che questo tipo di azioni aveva per la popolazione civile, per la tutela della comunità. In fondo le donne di Carrara fanno un intervento di tipo pubblico con la loro lotta, e questa è una caratteristica di quasi tutte le
azioni di donne; cioè le loro azioni possono essere fatte per fini personali, per la famiglia per esempio, ma al tempo stesso hanno sempre un significato che riguarda la tutela materiale e simbolica delle comunità. Anche nei casi in cui ci sono assalti ai forni, o
assalti ai treni carichi di combustibile, può darsi che ognuna vada lì per prendere il suo
pezzetto di pane, di farina, ecc., ma tutte insieme sono una forza d’urto che i fascisti e
i tedeschi non riescono a controllare, anche perché non siamo in Polonia dove c’è la politica dello sterminio. Siamo in un Paese dove non si può, soprattutto in una città, andare al di là di un certo limite, anche perché ci sono i partigiani che potrebbero fare delle ritorsioni. Non si spara in una città contro le donne; lo si fa a S. Anna di Stazzema, a
Marzabotto, nelle campagne.
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Questo è dunque un modo con cui la comunità si autodifende. Allo stesso modo, una
cosa che fanno molti gruppi di donne è quella di organizzare i funerali dei morti, dei
partigiani, delle vittime dei fascisti. Io credo che non ci sia niente di più umiliante per
il senso di sé di una comunità di non potere rendere onore a chi è morto. È una cosa che
devasta. In questo senso penso che il discorso di Galli Della Loggia sulla morte della
patria abbia una base reale. Che i tuoi morti siano lì appesi, stiano tre giorni appesi, è
una cosa terribile. Il fatto che appena possono le donne dei Gruppi, con l’aiuto di altre,
si preoccupino di organizzare i funerali, magari con un garofano rosso, è un modo
straordinario di dare coraggio alla collettività. E non per caso i tedeschi non vogliono,
lo proibiscono, perché sanno benissimo che per vincere non basta vincere militarmente. Il nazismo per vincere deve schiacciare una società; non deve solo sfruttarla, ma deve proprio contagiarla con la sua ideologia: col razzismo, col maschilismo, l’anti-ebraismo, tante altre cose di cui adesso non possiamo metterci a discutere. Di qui una pressione sulla società che, se non si va a considerare anche la vita quotidiana, non si vede.
Uno degli aspetti più interessanti delle resistenze non armate - e questo è tipico
nell’Europa del nord molto più che da noi - è il fatto che, quando si fanno i governi collaborazionisti nei vari Paesi, uno dei primi obiettivi dei nazisti e dei collaborazionisti è
di creare nuovi sindacati, sindacati nazificati. Per esempio il sindacato degli insegnanti, dei medici, dei farmacisti o, addirittura, associazioni sportive nazificate. E si fa un
battage pesantissimo su questo, si rende l’iscrizione obbligatoria.
Tuttavia queste sono società di secolare democrazia e hanno risorse interne notevoli e
un senso civico molto alto. Per esempio, in Norvegia gli insegnanti si rifiutano di iscriversi al sindacato nazificato e addirittura gli sportivi rifiutano di aderire all’associazione nazificata. Col risultato che per tutta la durata dell’occupazione non c’è una sola gara sportiva in Norvegia, il che, francamente, io penso abbia aperto gli occhi ai giovani
molto più dei proclami politici, perché vuol dire che non siamo in una situazione normale, mentre l’obiettivo dei nazisti era: “La normalità è questa dove noi comandiamo.
Normali sono i nostri criteri di decisione sul valore delle persone”. Anche in Belgio i
medici si rifiutano. In realtà queste associazioni vengono create, ma non possono funzionare perché non hanno organi decisionali, non hanno iscritti.
In Italia succede meno proprio perché è un Paese dove il senso civico è tradizionalmente più debole, per ragioni storiche, non parlo di carattere nazionale; tuttavia queste sono interruzioni dell’ingranaggio nazista che, tra l’altro, servono a quella forma di
resistenza molto importante che consiste nell’abbassare il morale del nemico. Ecco
quindi una cosa che, se fosse fatta da un esercito, verrebbe chiamata guerra psicologica: e se n’è fatta di guerra psicologica, soprattutto nella seconda guerra mondiale, pensate ai manifestini, ai film... È stata una guerra combattuta anche su quel piano lì, in
modo molto intelligente, molto sofisticato, anche dai nazisti.
Però la guerra psicologica la può fare chiunque. È guerra psicologica, per esempio, rifiutare i rapporti col nemico. In Danimarca, quando i tedeschi cominciano a cercare di
arrestare gli ebrei, improvvisamente i danesi, che sono bilingui, non capiscono più il tedesco. Le donne danesi non gli rispondono più, per cui il soldato occupante è ricacciato nella sua qualità di membro ostile con cui la gente non parla. Esiste un bellissimo romanzo uscito tanti anni fa, Il silenzio del mare di Vercors, che è tutto centrato sul fatto che
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una famiglia francese è obbligata a dare ospitalità a un ufficiale nazista e non gli parla
mai. Gli dà la stanza più bella, gli fa da mangiare, tutto, ma mai gli parla. Gli parlerà
all’ultimo momento, soltanto dopo che lui, messo in terribile crisi dal silenzio ostile di
questa famiglia, sceglie di andare al fronte e di non restare nelle retrovie ad opprimere
i francesi.
Questa è un’altra possibilità che può avere chiunque: rifiutarsi di parlare con una persona, trattarla con estrema freddezza, la tecnica “della spalla fredda” la chiamavano i
danesi. Non ci sarà nessuna spalla su cui un soldato tedesco potrà piangere in
Danimarca. Tutte cose che può fare chiunque. Anzi io credo, tornando alla situazione
attuale, che molte cose si possano fare anche oggi. Penso a Irving e ai neo-nazisti e a
una cosa che tutti possono fare, io per esempio la faccio: se uno è un negazionista, nella mia casa gli nego la cittadinanza. Non parlo con te, finché tu non cambierai idea: sei
libero di dire tutto quello che vuoi, però non a casa mia, non in mia presenza. Sono tutte forme di azione che ci fanno vedere come la società non sia affatto passiva, sia innervata, abbia un sacco di capacità e di risorse autonome.
Per chiudere, come mai tutte queste cose non sono state studiate, se non molto tardi?
Qui bisogna fare una dura critica, più che ai partigiani, agli storici e anche alle storiche.
I partigiani vivevano la presenza delle donne come un conflitto di cui vi ho fatto qualche esempio, perché la ragazza di cui vi ho parlato prima, Elsa Oliva, era veramente
una creatura bellissima e temibile, era durissima con i suoi compagni e faceva rigare
dritto tutti. Quindi questa presenza delle donne creava molte contraddizioni - nel cui
merito non posso entrare per ragioni di tempo - anche sul piano della promiscuità, per
esempio.
Gli storici hanno fatto propri i valori della Resistenza, che erano valori legati alla politica intesa in senso tradizionale, e alle armi intese come unica forma in cui si potevano
vincere i nazisti, contribuire alla vittoria. Hanno praticamente eliminato gli aspetti problematici ed hanno ripetuto per decenni il discorso della partecipazione: le donne hanno dato un contributo importante, punto e basta. Cioè le donne sono state viste e citate come una massa indistinta, tutte uguali, di tutte le età, di tutte le classi, di tutti i tipi,
e usate per dimostrare come la Resistenza era radicata. A me sembra un atteggiamento
piuttosto autolesionista, piuttosto cieco, piuttosto ottuso.
Vorrei segnalare un momento di svolta che è intorno al 1976, quando due donne, Anna
Maria Bruzzone e Rachele Farina, cominciano ad intervistare le partigiane, e vengono
fuori delle storie di vita. Il loro libro La Resistenza taciuta, che bisogna assolutamente
leggere (l’ha ripubblicato Bollati Boringhieri nel 2003), porta alla luce moltissime cose.
Per esempio la storia di Elsa Oliva, ma anche una certa critica delle donne verso i loro
compagni, anche alcuni elementi di revanche nelle più decise. Questo ha rappresentato
una svolta, però hanno dovuto farlo donne con donne. Se aspettavamo che uno storico
se ne accorgesse.... Adesso tutto è cambiato, anzi c’è molta attenzione, però c’è voluto
un circolo virtuoso. In quel caso donne storiche e donne partigiane; in altri casi donne
storiche e donne deportate; più avanti c’è stato anche l’intervento di donne delle istituzioni, le storiche sono aumentate…. Però, vedete, è un lavoro che non sembra mai finito, perché spessissimo si ritrova il discorso sul contributo delle donne e non invece sulla loro presenza a pieno titolo. Se andate a vedere le decorazioni, c’è una sproporzione
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ridicola tra uomini e donne. Se andate a vedere gli organici della Resistenza, vedete che
le donne sono poche, anche perché non le registravano. Se un uomo cucinava per i partigiani, era un cuoco partigiano; se una donna cucinava era una cuoca. Quindi c’è una
discrezionalità, una non-corrispondenza non più rimediabile, purtroppo.
In Francia è successo che una signora, che aveva nascosto a proprio rischio degli aviatori alleati, ha fatto causa allo Stato e ha ricevuto un riconoscimento. Ha fatto benissimo, ma sono cose simboliche e a livello di massa non è più possibile un recupero complessivo. Si può però rendere onore a queste donne, scrivendo libri, facendo cose come
l’iniziativa di oggi, perché hanno molto da insegnare. A volte anche loro hanno imparato da noi, questo è vero: una mia amica partigiana mi diceva: “Ma sai che mi hai insegnato delle cose...” ed io ovviamente ero gonfia e tronfia di orgoglio, di fronte a queste parole. Allora lei, per farmi vedere come eravamo in sintonia, mi raccontava delle
storie di donne che non avevano usate le armi. Però è un lavoro mai finito. La mia impressione è che, come si smette di essere vigili, immediatamente salta fuori lo storico,
magari un po’ anziano o anche giovane - ci sono anche i giovani stupidi, non è una particolarità dell’età -, che continua a dimenticarsi che discutere, come si fa sui quotidiani,
se i partigiani erano 150 mila o 80 mila o 10 mila è una cosa ridicola. Visto che la
Resistenza è stata fatta in larga parte attraverso azioni non armate, ma ugualmente rischiose, che senso ha cercare di contare i partigiani? Io la trovo una cosa assolutamente sciocca, e spero di riuscire a scriverlo abbastanza presto: voglio dirlo su un giornale,
non su un libro. Sui libri l’ho scritto centomila volte, ma i libri notoriamente non sono
molto letti. Vedo ottime persone che si scannano per sostenere: “erano un’infima minoranza”, “no, erano una minoranza consistente”. Ma per favore…! C’erano scioperi a
cui partecipavano mille persone, quelle dove sono? Dove li mettiamo quelli che si sono schierati, hanno rischiato e sono finiti in campo di concentramento? Poi c’è tutto il
problema della resistenza nei lager che neanche comincio a raccontare, perché ci tengo
talmente che non mi fermerei più. Quindi bisogna sempre essere attenti, in particolare
sui giornali, dove non per colpa dei giornalisti, ma per la struttura del quotidiano, queste cose sono dette abbastanza di corsa. La cosa buffa è vedere signori in età e brave
persone intelligenti che si scannano, oppure gentilmente divergono, su elementi come
la quantità numerica dei partigiani.
Ancora, e qui chiudo davvero, c’è un modo di giudicare la partecipazione alla sconfitta del nazismo che si basa sempre e soltanto sui morti che ogni Paese ha avuto nelle battaglie e nei movimenti di resistenza. Naturalmente bisogna rendere onore ai morti: la
Russia ha avuto molti morti, e anche gli Stati Uniti. Mi chiedo però perché non si usa,
per definire la parte che un Paese ha avuto nella sconfitta di Hitler, piuttosto la quantità di vite risparmiate, la quantità di vite sottratte a Hitler. Per esempio la Danimarca,
su cui io ogni volta scrivo, non ha avuto una resistenza armata consistente, ma ha salvato il 90% dei suoi ebrei. Quindi, se consideriamo soltanto il criterio delle armi, dei
morti, la Danimarca non è un Paese eminente nella lotta contro il nazismo. Se consideriamo invece il criterio del salvare le vite, cioè del sangue risparmiato, non di quello
versato, la Danimarca, come diceva Hannah Arendt, è il Paese più ammirevole dello
schieramento antinazista nella seconda guerra mondiale. Devo dire che l’ha scritto lei
nel ’62-’63 e poi l’hanno scritto in molti, ma è dura farlo passare, perché ancora adesso
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domina questa idea che, se si spara, si è più bravi, si è più resistenti. Si può però continuare a dire che a volte si ottengono più cose non sparando e usando sistemi non violenti, che usando sistemi violenti. Non mi sogno neanche, non mi permetterei mai di
delegittimare la lotta armata che c’è stata in Europa in quegli anni: parlo in generale
delle componenti con cui ci si può opporre alla tirannide, che non sono certo soltanto
le armi.
Alessandra Peretti
Io ringrazio a nome di tutti anche perché mi sembra, tra l’altro, che ci siano stati tantissimi spunti di riflessione in questo intervento di Anna Bravo. Vorrei però, prima di
congedarci, sollecitare un ulteriore approfondimento. A me interessava molto quell’inizio che poi, inevitabilmente, essendo il problema di fatto molto ampio, è stato messo
da parte. Intendo il discorso del rapporto tra la donna e le armi, che è molto complicato ed è anche, al di là di qualsiasi uso pubblico della storia, comunque un discorso di
stretta attualità. Capisco che i tempi ormai sono ridotti al minimo, ma se potessi dirci
qualcosa almeno della problematicità di questo tema...
Anna Bravo
Ho solo paura, di fronte ad una cosa così complicata, di non riuscire a fare un discorso
coerente. Quello che posso dire è come tutto questo fosse problematico per le donne di
allora, tranne che per alcune, e per l’opinione pubblica di allora. A me fa spavento vedere come diventi ovvio e apparentemente naturale oggi per le donne usare le armi, ma
come nello stesso tempo rimangano alcuni stereotipi vecchi e ancora vivi.
Penso alla prima guerra del Golfo. Nella prima guerra del Golfo le donne non erano in
prima linea, ma guidavano gli aerei, e se non erano in prima linea era solo per ragioni
politiche, non che non ci volessero andare. Poi gli iracheni hanno catturato una giovane pilota che si chiamava Melissa Nealy. Immediatamente è venuta fuori la questione:
“La stupreranno o non la stupreranno?”.
Erano passati 50 anni e il problema era esattamente lo stesso che si sono trovate di fronte le deportate, le poche che sono tornate dai lager nazisti. La domanda che le persone
magari non avevano il coraggio di formulare era: “Vi hanno violentate o no, le SS?”.
Questo creando disastri psichici e vere e proprio furie in alcune, perché non era stato
così, innanzi tutto per motivi legislativi: c’erano delle sanzioni molto dure contro la violenza sulle deportate. Era peccato di razza: non si va con un’ebrea o un’assimilata all’ebrea come una politica. Ma vedete com’è radicato questo cortocircuito tra prigionia
femminile e stupro, che poi invece spesso riguarda anche i maschi: però loro si difendono negandolo. Invece su questa ragazza, Melissa Nealy, immediatamente è venuto
fuori il discorso: “L’avranno stuprata.” E così, anche adesso, ogni volta che c’è una donna catturata, questo è l’arrière pensée, l’interrogativo, lo si formuli esplicitamente o no.
Lo dico per farvi vedere che comunque la donna in prima linea è problematica, un corpo femminile in prima linea è problematico. Intanto perché è un corpo meno militarizzabile, proprio come corpo, al di là delle ideologie. È un corpo che mestrua ed è un corpo che può rimanere incinto. Queste sono due cose che con la struttura militare non dico che siano incompatibili, ma costituiscono un problema, proprio per i rapporti tra sol-
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dati e soldate. Una delle cose che aveva colpito sfavorevolmente gli americani era che
dalla prima guerra del Golfo alcune donne erano tornate incinte. Meno male, direi io:
pur rischiando la vita, almeno avevano avuto, si spera, un momento o un’occasione di
rallegrarsi. Però il corpo femminile è davvero meno militarizzabile. Intanto perché è
più debole fisicamente. Io questo lo rivendico come un privilegio: io sono più debole di
un uomo e quindi posso anche permettermi, se proprio è il caso, di dare uno schiaffo
ad un negazionista, tanto non gli faccio quasi niente. Io credo che sia un nostro privilegio, una chance: più di tanto, con le nostre sole mani, a meno di non essere una vigorosissima ragazza di 18 anni - e ce ne sono, buon per loro - una donna non riesce a far del
male. È comunque un corpo che non può esercitare la stessa forza materiale e c’è sempre una componente di forza materiale nella guerra, non è che si fa tutto soltanto con
le tecniche automatiche. E poi ha in sé delle componenti non irreggimentabili: l’esercito non può fare come facevano nei lager che davano la pillola alle donne e impedivano
loro di avere le mestruazioni.
Il corpo femminile deve essere quanto meno un ingombro, deve essere qualcosa che disturba. Io almeno spero che sia così e che continui ad esserlo.
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LE ARGENTINE
Partecipano all’incontro (2 marzo 2006):
Rosa Dello Sbarba, Assessora alla Pubblica Istruzione della Provincia di Pisa
Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia
Virginia Del Re, Associazione Casa della donna di Pisa
Daniela Padoan, autrice de “Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo”
Virginia Del Re
Porto oggi i saluti della Casa della donna di Pisa, scusandomi per l’assenza della settimana scorsa. Prima di tutto un grande ringraziamento ad Alessandra Peretti che ha
pensato questa iniziativa straordinariamente nuova. Penso che, specialmente in Italia,
di Resistenza si parli spesso, ma la Resistenza delle donne come fatto specifico non è alla ribalta come il fenomeno generale, che conosciamo storicamente con tutte le sue gloriose benemerenze. Quello che trovo particolarmente nuovo ed affascinante è l’idea che
queste resistenze femminili non siano resistenze classiche, storicamente inquadrate, ma
prendano le forme che spesso la vita delle donne prende, cioè si adattino ad una realtà
non di primo piano, non immediatamente restituibile agli schemi militari, di guerra, di
armamenti e altre cose simili. Quindi il problema che si pone è come resistono le donne, sotto quali forme resistono.
Infatti le madri argentine, di cui sentiremo parlare oggi, hanno “inventato” una forma
che è tipica delle donne: si sono armate della loro maternità e della loro caparbietà. Così
pure le bosniache hanno trovato altre forme calate nel concreto delle circostanze. E, per
le iraniane, lì addirittura è una storia che si sta facendo, è un qualcosa che non si può
ancora dire. C’è una storia della resistenza delle iraniane? Non credo.
Mi fermo qui. Mi fa piacere che ci sia stata questa idea veramente intelligente e affascinante, anche per vedere come la storia si fa in forme non canoniche.
Alessandra Peretti
A nome del Centro per la didattica della Storia, ringrazio tutte le intervenute a questo
secondo incontro dedicato appunto alla resistenza delle donne argentine.
Il programma del pomeriggio è questo: dopo una mia breve presentazione del tema di
oggi, vedremo la prima parte di un’intervista ad una delle madri di Plaza de Mayo, fatta dalla nostra relatrice che è Daniela Padoan, autrice di un bel libro che vi consiglio,
intitolato Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo. Dopodiché Daniela ci parlerà appunto delle madri e del suo incontro con loro. Alla fine, dopo l’eventuale dibattito, sarà possibile assistere alla seconda parte dell’intervista, purché non sia troppo tardi.
Comincerei dal fatto che nell’appuntamento di oggi, come in quello della volta prossima, che sarà appunto con le bosniache, parliamo di due grandi tragedie dei nostri tempi. Quelle che si possono definire, senza esagerare, le due più infami carneficine del
mondo occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale. 30.000 desaparecidos in
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Argentina, 8/10.000 massacrati solamente nell’enclave di Srebrenica, come vedremo. E
quindi Argentina e Bosnia ci rimandano entrambe immagini di morte, di riesumazione
dei cadaveri, di fosse comuni.
Per noi italiani Argentina e Bosnia sono state poi nello stesso modo, io credo, molto lontane e molto vicine. Molto lontane perché si può ben dire che di queste due tragedie noi
non ci siamo accorti, o non abbiamo voluto accorgercene nel momento in cui avvenivano, come se si trattasse di cose di un altro mondo. Che la Bosnia sia invece molto vicina, da un punto di vista geografico, è evidente: si arriva in Bosnia con la stessa rapidità
con cui si arriva in Germania. Per l’Argentina è diverso, perché è vero che l’Argentina
è geograficamente dall’altra parte del mondo; eppure l’Argentina è anche la nostra seconda casa. Dobbiamo ricordarci che la popolazione argentina è per il 40% composta da
emigranti italiani, da figli di emigranti, da discendenti di emigranti italiani.
Daniela Padoan, nelle prime pagine del suo libro, racconta che nel mondo latino-americano si dice che i Messicani discendono dagli Aztechi, i Peruviani dagli Incas e gli
Argentini dalle navi, in quanto provengono appunto dalle navi delle emigrazioni europee, a diverse riprese: questa è la loro storia. Che ci sia tanta parte di casa nostra
nell’Argentina così lontana è dimostrato anche dal fatto che sono di origine italiana sei
su nove membri delle tre giunte militari che hanno massacrato l’Argentina tra il ’76 e
l’83. Ci sono nomi che sono noti: il generale Galtieri, l’ammiraglio Massera, sono tutti
nomi italiani.
Una domanda che io continuo a pormi tutte le volte che penso all’Argentina - e non solo io, naturalmente - è: perché non l’abbiamo saputo? Perché non abbiamo voluto saperlo? O perché l’abbiamo saputo e non abbiamo voluto pensarci davvero?
Alla prima di queste domande - “perché non l’abbiamo saputo?” -, prima ancora che
nel libro di Daniela Padoan, io ho trovato delle risposte nelle memorie così dimesse e
così drammatiche di Enrico Calamai, che è stato console italiano in Argentina dal ’72 al
’77. Si può dire che è un Perlasca dei nostri tempi, anche se non mi risulta che nessuna
istituzione italiana gli abbia mai reso omaggio. Calamai fu console italiano negli anni
della dittatura, dopo una prima drammatica esperienza nel Cile di Pinochet, e, prima
di essere allontanato da Buenos Aires dal ministero degli Esteri che non gli rinnovò l’incarico, salvò molti italo-argentini. Anche se non si possono fare i conti esatti, almeno
100 italo-argentini dichiarano di dovergli la vita, persone a cui lui procurò passaporti,
biglietti d’aereo, che nascose negli scantinati del consolato, facendo quello che lui dichiara essere stato il suo dovere istituzionale, cioè tutelare dei concittadini all’estero. Fu
l’unico diplomatico italiano a farlo.
Dalle sue memorie si ricava dunque la spiegazione del perché non l’abbiamo saputo.
Certo a causa dei caratteri tipici del terrorismo di stato argentino, di cui parleremo fra
poco, ma anche per le complicità gravissime che il mondo diplomatico, economico, politico italiano ha avuto con le giunte militari dell’epoca. Molti nel nostro Paese erano interessati a che non si raccogliesse, come ci dirà Daniela Padoan, il grido di aiuto delle
madri. La stessa stampa fu in gran parte silenziosa, e sempre Calamai ci parla dell’unico giornalista che si batté fin all’inizio perché si sapesse quello che succedeva, il corrispondente del Corriere della Sera, che fu costretto nel giro di un anno a lasciare
l’Argentina e riparare in Brasile, minacciato dagli squadroni della morte e non soste-
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nuto dal suo giornale, che era allora diretto da un uomo della P2. La P2, immagino che
voi lo sappiate, non solo era strapotente in quegli anni in Italia, ma era con Licio Gelli
energicamente al fianco del regime militare e rappresentava di fatto il vero filone diplomatico tra l’Italia e l’Argentina. L’ammiraglio Massera, che ho citato prima, era un
affiliato della P2.
Questo può spiegare perché non l’abbiamo saputo. Però io sono anche convinta che
non l’abbiamo voluto sapere, né pensarci davvero. Lo devo credere se ricordo quello
che è stato l’atteggiamento mio e di tante persone come me, che pure erano scese in
piazza ai tempi del golpe cileno, che avevano manifestato contro la repressione di
Pinochet e che per l’Argentina non hanno fatto niente di simile. Ci possono essere tanti motivi per questo e, se si finisce con l’indagare nello psicologico, si corrono dei rischi.
Però penso che questa specie di rimozione sia dovuta al fatto che, a differenza di cinque anni prima, avevamo allora i nostri problemi. In particolare la sinistra aveva problemi gravissimi: se vi ricordate c’era il terrorismo, il caso Moro, la fine di una militanza combattiva che naufragava nel privato e nella droga, per alcuni. Non abbiamo voluto sapere dell’Argentina, forse, anche perché rifuggiamo dalle enormità, perché le
enormità ci costringono in qualche modo a ripensare ed a fare i conti, a ridimensionare le nostre private e pubbliche lamentele. Nella tragedia argentina ci sono state enormità spaventose, non solamente per quanto riguarda il numero dei desaparecidos. Ne
vorrei ricordare solo due che sono ormai patrimonio comune, anche e soprattutto perché costituiscono la trama di due film di Marco Bechis, colui che ha avuto il merito di
proporre all’attenzione del vasto pubblico quelle vicende. I film - li avete certo presenti - sono Garage Olimpo e Figli.
La prima enormità è quella dei voli della morte. Non solo tanti giovani sono stati sequestrati, torturati e tenuti nascosti mentre le madri giravano da un commissariato all’altro, da un carcere all’altro, nel tentativo di trovarli; ma poi queste stesse persone venivano caricate su aerei e scaricate vive in mare aperto. Chi ha visto Garage Olimpo credo che non potrà mai dimenticare l’immagine finale con quel grande aereo che vola sull’oceano, il rombo di motori così normale e il portellone posteriore che si apre per rovesciare il suo carico di morte.
L’altra enormità, che costituisce la trama di Figli, è invece la sparizione dei bambini,
cioè quella specie di strage degli innocenti alla rovescia per cui gli stessi torturatori e
uccisori si appropriavano dei neonati e dei bambini di chi veniva torturato e ucciso. È
stato calcolato che ben 500 bambini siano spariti in questo modo, bambini dei quali le
nonne di Plaza de Mayo - a cui per altro mi sembra che nelle loro interviste le madri
non risparmino critiche – continuano a ricercare le tracce. Pare che finora ne abbiano ritrovati 75.
Tutto questo fa sì che, quando si parla dell’Argentina, io senta anche una grande amarezza, amarezza per noi che non ci siamo stati, dopo tanta mobilitazione per il Cile, dopo tanta emozione per le immagini dell’assalto alla Moneda, dello stadio-lager di
Santiago, delle ambasciate prese d’assalto. Amarezza per gli esponenti del PCI del compromesso storico che, dopo aver sostenuto il console Calamai durante le prime iniziative, quando è rientrato in Italia hanno chiuso l’ultima porta rimasta aperta al dramma
argentino, rifiutandogli un ulteriore aiuto ai “suoi guerriglieri”, come li ha chiamati un
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funzionario di Botteghe Oscure a cui Calamai si era rivolto. “Ne abbiamo già troppi in
Italia” si è sentito rispondere. Questo è il motivo per cui questo tema di oggi mi è particolarmente caro. È doveroso accennare a tutto questo anche se, come vedremo,
dell’Argentina Daniela Padoan ci parlerà con tutta la forza e la positività che viene
espressa dalla resistenza delle madri. Finora ho parlato infatti del versante tragico di
questa vicenda e, rispetto a questo versante tragico, la cosa che colpisce e che ha dell’incredibile è la forza di una resistenza che è in apparenza particolarmente fragile, perché è la resistenza degli inermi, degli isolati, di quelle persone che sono particolarmente ricattabili, proprio dalla paura di fare del male ai propri figli. Che questa debolezza
si trasformi nella forza che traspare da questo libro è veramente una cosa incredibile.
Per concludere rapidamente, voglio ancora darvi alcuni elementi schematici della situazione argentina dell’epoca. Nel ’55 cade con un golpe militare la dittatura di Perón,
che aveva governato per più di dieci anni, i peronisti vengono messi fuori legge e Perón
esiliato. Inizia un periodo di instabilità in cui si alternano per circa un ventennio presidenti liberamente eletti, successi elettorali peronisti e colpi di stato militari. Negli anni
’60 si sviluppano poi i movimenti di guerriglia, non solo la guerriglia “di sinistra” guevarista o marxista, a seconda dell’epoca, ma anche la guerriglia peronista, perché Perón
chiama i suoi seguaci alla lotta armata; in una situazione di crescente tensione sociale
anche per le scelte economiche sbagliate, che avrebbero portato progressivamente
l’Argentina al baratro in cui si è trovata con la bancarotta istituzionale del 2001. A causa di tale situazione sociale, in effetti, c’è stato un grosso movimento di solidarietà con
la popolazione sempre più povera, sempre più emarginata, con questa parte della società abbandonata a se stessa. I desaparecidos di cui parleremo erano per i 2/3 giovani
tra i 20 e i 30 anni, in genere figli della borghesia argentina, che andavano nelle bidonvilles a fare attività di volontariato, come infermieri, insegnanti, medici, sindacalisti. Il
ritorno al potere di Perón nel ’73 non cambiò le cose, anzi accentuò la corruzione, il disordine, la violenza e la paura dell’esercito che intanto, fin dagli anni ’60, era stato a lezione di contro-guerriglia nei centri organizzati dal Pentagono e aveva reclamato per sé
un ruolo di garante sovracostituzionale contro il pericolo comunista.
Tutto questo, dopo la morte di Perón e la successione di sua moglie Isabelita, porta ad
una situazione di tensione, attentati e violenze, commesse sia dalla guerriglia che dagli
squadroni della morte – su cui io non mi soffermo, naturalmente - che fa sì che in
Argentina, nei mesi che precedono il marzo ’76, che è la data del golpe, ci sia una diffusa attesa di un colpo di stato alla cilena e che gli stessi militari golpisti si presentino come restauratori dell’ordine. Gli ambienti diplomatici e politici - lo stesso Calamai ne
parla - sapevano cosa si preparava. I militari convocarono il corpo diplomatico per avvertirlo che non ci sarebbero dovute essere le ambasciate occupate dai profughi, come
a Santiago, e l’ambasciatore italiano si allineò rapidamente, perché la prima cosa che fece fu di mettere nell’ambasciata le doppie porte, come quelle delle banche, per ostacolare l’accesso. Difatti non ci furono profughi nelle ambasciate a Buenos Aires. Ci fu
quella repressione clandestina e violenta, senza pietà, che diffuse il terrore nel Paese, attuando un progetto politico di sterminio degli oppositori che non ha eguali. Una parte
della popolazione sicuramente fu connivente e complice, alimentando l’idea largamente diffusa che la dittatura di Videla fosse una dittatura moderata, che non avesse nien-
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te a che fare con quello che era successo in Cile: e questo spiega anche l’isolamento in
cui le madri furono tenute. Io ho trovato nel libro di Daniela un’espressione terribile,
che mi ha fatto ricordare quello che successe nella Germania nazista negli anni ’30.
Quando qualcuno spariva, l’atteggiamento dei vicini si manifestava nella frase: “Por algo serà”. Per qualcosa sarà. Qualcosa avrà pure commesso.
Il ’77 e il ’78 furono anni terribili di repressione da questo punto di vista. Il ’78 fu anche
l’anno dei campionati mondiali di calcio: l’Argentina era sotto gli occhi del mondo,
moltissimi sportivi andarono in Argentina a seguire le partite, la Nazionale argentina
vinse il mondiale. E tutto questo avveniva mentre nei “garage Olimpo” della città si
torturavano le persone.
Le cose andarono avanti fino all’82, fin quando la spedizione suicida nelle Malvinas
provocò l’intervento militare del governo della Thatcher, che sconfiggendo la scelta nazionalista argentina provocò l’implosione della stessa giunta militare. Seguirono libere
elezioni con la vittoria di Alfonsín e la lenta ripresa democratica, anche se le madri dicono che non c’è democrazia laddove non c’è punizione dei colpevoli, non c’è democrazia laddove i bambini sono costretti a prostituirsi per mangiare o muoiono di fame
per le strade.
Questo è il quadro, presentato inevitabilmente in modo molto sommario, che fa da
sfondo a quello che vi dirà Daniela Padoan, dopo aver presentato il video con la prima
parte della intervista che lei ha fatto.
Daniela Padoan
Solo due parole, per spiegare quello che vedrete adesso, un’intervista che ho fatto ad
Hebe de Bonafini, la presidente delle madri di Plaza de Mayo. È un documentario che
abbiamo girato nel 1999, ma che non è mai andato in onda ed è quindi montato abbastanza artigianalmente. Inoltre non potevamo permetterci un doppiaggio e le madri,
tutte le volte che in Italia vanno ad incontrare qualcuno, chiedono di essere tradotte da
un gruppo di italo-argentini - che non sono stati desaparecidos per miracolo e sono andati poi esuli - perché dicono che nel loro linguaggio ci sono sfumature che un semplice traduttore non capisce e loro vogliono che siano rese esattamente. Per questo motivo non vi stupite che ci sia una voce maschile a doppiare Hebe.
Il contesto è leggermente diverso da quello attuale, perché nel ’99 era ancora al potere
Menem e Menem fa parte di quella serie di presidenti che le madri dicono fintamente
democratici, perché non solo non hanno fatto i conti con quello che è accaduto in
Argentina durante la dittatura, ma addirittura hanno protetto e garantito l’impunità
dei colpevoli. Tant’è che Menem, finendo l’opera di Alfonsín che aveva già fatto due
leggi, di cui parleremo dopo, a tutela dei colpevoli, emanò un indulto. In questo modo
i gerarchi del regime di cui vi parlava Alessandra hanno passato la vita in lussuose ville con piscine, dove potevano di fatto ricevere chiunque e talvolta anche andarsene in
giro per Buenos Aires.
Hebe all’inizio del governo di Menem era stata intervistata da Gianni Minà ed era stata l’unica volta che la si era vista in televisione, che si era parlato in televisione delle
madri. In quella circostanza Hebe si era dimostrata, com’è in realtà, piuttosto spiccia e
aveva parlato con la radicalità alla quale sono arrivate le madri, partendo dalla loro im-
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mediatezza di donne semplici, casalinghe, poco istruite, che escono dalle cucine cercando i figli e imparano man mano cos’è la politica, ma anche che la cosa necessaria è
dire il vero e scegliere le parole per dirlo.
Hebe, in questa intervista di Minà, aveva chiamato il governo Menem “una pozzanghera di acqua fetida” e aveva detto che Menem era un trafficante d’armi. Tre anni dopo Menem è stato effettivamente condannato per traffico d’armi, perché aveva dato armi alla Croazia e all’Ecuador. Tuttavia il governo Menem denunciò la RAI e Minà per
questa dichiarazione di Hebe. Lo stesso accadde per il fatto che Hebe aveva parlato del
coinvolgimento del Nunzio apostolico e delle alte gerarchie ecclesiastiche col regime
militare, pur dicendo che in Argentina invece tutta una parte di Chiesa terzomondista
e di sacerdoti che lavoravano nei barrios erano stati vicini ai loro figli, addirittura erano
stati loro stessi sequestrati e torturati. Però anche lì ci fu una denuncia da parte del
Vaticano.
Per questo motivo, quando io feci la mia intervista a Hebe alla fine del governo di
Menem e provai a chiedere il materiale di copertura - si chiamano così le immagini che
vedete sovrapposte all’intervista -, in particolare quando chiesi la cassetta famosa di
Minà, non riuscii ad avere quasi nulla. La cassetta di Minà era stata secretata, non in
modo formale, naturalmente, così come questo documentario non si può dire che non
sia andato in onda per una vera censura. Ci si trova nelle sabbie mobili, non si hanno
risposte e poi le cose appunto non si fanno.
Abbiamo cercato comunque di finire l’intervista e questo che vedrete è il risultato.
Almeno potrete sentire in modo molto immediato la voce di Hebe. Quello che dice è
tuttora assolutamente attuale, salvo il fatto che intanto è stato eletto Kirchner e sembra
che in Argentina si stia andando verso una possibilità di democrazia vera e anche di fare i conti con 30 anni in cui la giustizia non è esistita.
Intervista a Hebe de Bonafini (dal video “La piazza delle madri dal fazzoletto bianco”, regia di
Dario Barezzi, prima parte)
D. Qual era la situazione politica in Argentina, prima del golpe?
R. Prima del golpe militare c’era un governo populista-nazionalista che perseguitava
tutti gli oppositori. I nostri figli erano oppositori politici, rivoluzionari, e non erano
d’accordo con quello che succedeva, con il piano economico di quel governo, con la
persecuzione ideologica, politica, sociale di tutti i giovani, le donne e gli uomini che
avevano deciso di trasformare il paese in qualcosa di migliore, non così perverso.
C’erano assassinii e tanta morte nelle strade già col governo di Maria Estela Martinez
de Perón, che era la donna di Perón, e che ha cominciato la distruzione del paese.
D. Voi sapevate che cosa facevano i vostri figli?
R. I miei figli hanno cominciato a fare politica da molto giovani, a domandarsi perché
siamo qui, in questo mondo, cosa facciamo, perché viviamo, come dobbiamo lottare. Ci
hanno insegnato che cos’è la solidarietà, hanno cominciato a fare politica seria da molto giovani, con analisi molto profonde della realtà del paese. Allora hanno deciso di
unirsi ad altri giovani per formare gruppi politici rivoluzionari, per opporsi e affrontare la realtà perversa e sinistra che gli è toccato vivere in quell’epoca. E man mano che
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sono avanzati i governi repressivi, loro hanno avuto più impegno e responsabilità.
Facevano il loro lavoro politico, alcuni dentro l’università, altri in forma di guerriglia,
altri in quartieri marginali, rendendo consapevole la gente, dando coscienza politica,
per non lasciarsi opprimere, per non lasciarsi perseguitare, reprimere. Loro avevano
molto chiaro che cosa stava succedendo e che cosa sarebbe successo e ci dicevano:
“Mamma, succedono cose molto gravi qui nel paese. I militari hanno molta forza e gli
Stati Uniti stanno mettendo la prepotenza”. Noi non ci credevamo. Non capivamo
niente. Li ascoltavamo. Ma man mano abbiamo capito che loro avevano ragione.
D. Quali sono state le prime avvisaglie che vi hanno fatto capire ciò che stava accadendo?
R. I primi fatti che mi hanno colpito sono stati quando ho visto che all’angolo della mia
casa suonavano il campanello, usciva una donna incinta e facevano un’esecuzione sommaria lì, senza domandare chi era. E l’hanno lasciata lì, buttata per la strada, circondata di poliziotti, morta. Davanti a questi crimini orrendi uno si impressiona, ma quando
è molto ignorante non analizza. Noi sapevamo chi lo aveva fatto, ma non perché. E quel
perché lo abbiamo capito dopo tanti anni. Dopo c’è stato l’assassinio di tre giovani che
stavano arrivando in moto. Li inseguiva la polizia, e li hanno uccisi in un angolo e li
hanno lasciati lì tutto il tempo. Uno si impressiona, si terrorizza, però non analizza.
Non analizza perché e come sta succedendo questo. Questo è molto triste, è molto doloroso, ma ci è successo, mi è successo.
D. Che cosa è successo nelle vostre case il giorno del golpe?
R. Il giorno del colpo di stato ci siamo svegliati con quel comunicato terrificante. Mio
marito diceva: “Non andiamo a lavorare, che cosa succederà?”. Però i miei figli, e anche i loro amici che arrivavano sempre a casa, sembrava che avessero toccato un vespaio. Andavano, venivano, facevano telefonate, e quello stesso giorno sono cominciati i sequestri; ma loro non ci dicevano quello che stava succedendo con i loro compagni, ma ci dicevano che cos’era il colpo di stato, che era lo stesso che era successo in
Cile, e che ci sarebbero state molte più persecuzioni. Tuttavia il giorno del golpe si vedeva che la gente era contenta che erano arrivati i militari, e noi non capivamo come
mai la gente poteva festeggiare questi assassini al potere, ma non sapevamo nemmeno
noi che cosa erano capaci di fare. Noi non sapevamo che cosa sarebbe successo, quell’orrore, non sapevamo che i militari erano repressori, che dipendevano dagli Stati
Uniti. Sapevamo qualche cosa, ma non con una comprensione esatta. Era un giorno
amaro, dove uno vedeva le due differenze: quelli che erano d’accordo con i militari e
gli altri, che erano spaventati.
D. Quando ha cominciato a esservi chiaro che il golpe cileno, e poi quello argentino,
facevano parte di una strategia che riguardava l’intera America Latina?
R. Quando è successa quella cosa in Cile, per me il Cile era così lontano. Mio figlio diceva: “Guarda”. Loro avevano tanta illusione con quel governo socialista, gli aveva dato una speranza molto forte. Era così vicino. Ma in tutto il Sud America c’erano problemi. C’era il tema della Bolivia, c’erano già altri segnali molto gravi; la verità è che i
miei figli capivano, mi portavano cose da leggere, ma io pensavo: “No, non può essere”. Anche perché non si vuole capire, non si vuole vedere. Credo che fosse anche questo. Man mano non è che si è capito, ma lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle.
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D. Il golpe era stato preparato già da tempo?
R. I militari dell’America Latina e gli uomini che erano al governo di Isabel Perón sono
stati preparati dagli Stati Uniti con molto preavviso. Il capo della polizia, dopo, è diventato il ministro degli Interni della dittatura, dunque aveva le liste di tutti i compagni, di tutti i giovani che facevano militanza politica attiva. C’era il capo militare dell’esercito, il generale Videla, che poi fu il presidente della giunta militare. Poi c’era
Martinez de Hoz, che aveva già un ruolo preciso allora, e poi fu il ministro dell’economia della dittatura che portò al disastro. Noi non abbiamo capito che rapporto c’era tra
un piano economico così spaventoso, dove tanta gente sarebbe diventata ricca e milioni e milioni così poveri, e la scomparsa dei nostri figli. Ma poi abbiamo capito che per
applicare questo piano era necessario far scomparire tre generazioni.
D. Qual era più esattamente la situazione economica in Argentina prima del golpe?
R. Ci sono stati tanti cambiamenti bruschi, la svalutazione, col denaro che non valeva
più niente. I sindacati avevano soltanto una organizzazione peronista, quindi erano
parte del colpo di stato. Loro segnalavano i compagni. Le multinazionali davano molto denaro, non solo ai sindacati ma anche ai politici. Questo lo abbiamo imparato dopo, non allora. Lo abbiamo visto dopo. Lo abbiamo sofferto dopo. Perché uno non sa di
politica. Io leggevo il giornale, leggevo la cronaca, ma mio figlio mi diceva: “Leggi la
politica nazionale, la politica internazionale, e dopo se vuoi il resto”. Ma era molto difficile capire.
D. I militari non hanno preso il potere da soli. Quali sono state le connivenze, sia interne che esterne?
R. L’opposizione politica al peronismo, cioè a quel nazionalismo fascista, era rappresentata dai radicali. Ma i radicali erano molto vicini ai militari, sono andati a bussare
alla porta dei militari perché venissero a salvare la patria. Durante il governo peronista
si erano formate le Tre A: Alleanza Anticomunista Argentina. Tutti i giovani che erano comunisti o socialisti venivano assassinati, perseguitati, emarginati dal lavoro. Allora i radicali hanno chiesto ai militari di venire a salvare la patria. Era molto utile per loro continuare a reprimere i giovani rivoluzionari che facevano attività politica in fabbrica e
nelle università. Nelle università erano molto combattivi. E lì man mano è cominciata
questa cosa terribile della complicità dei politici e anche della complicità della Chiesa,
una complicità molto grande che ha sostenuto il colpo di stato e che sostiene tuttora l’idea militarista.
D. Quali sono state le responsabilità degli Stati Uniti?
R. Gli Stati Uniti hanno preparato i militari nella scuola di Panama, nella scuola de Las
Americas, hanno insegnato le torture più allucinanti, le maniere più nazi. Hanno dato
armi, tutte quelle che sono state usate per uccidere i nostri figli. Hanno dato molti soldi. C’è un debito estero che non si può pagare nemmeno adesso, eppure gli Stati Uniti
non fanno pagare gli interessi. Hanno inviato tutte le macchine Falcon, della fabbrica
Ford: cento, mille di queste macchine Ford Falcon circolavano per il paese a sequestrare i nostri figli. Gli Stati Uniti avevano degli ambasciatori che ci hanno fatto credere che
ci avrebbero aiutato e noi siamo andate molte volte a denunciare all’ambasciata degli
Stati Uniti quanto avveniva: e abbiamo capito che proprio lì c’erano i nostri nemici. Ma
fino a che non ce ne siamo rese conto è passato molto tempo; fino a che non abbiamo
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imparato che gli Stati Uniti avevano una grande responsabilità, e hanno una grande responsabilità adesso di quello che succede, anche in altri paesi del mondo. Questo lo abbiamo imparato dopo un po’ di tempo. Quando uno è in casa, cucinando, lavando, attendendo ai suoi figli, o lavora in fabbrica, non ha tempo di pensarci e questi governi
nazionalisti-fascisti come il peronismo vogliono sempre che i popoli non siano preparati ed educati. A loro serve avere un popolo ignorante per poterlo convincere, per poterlo reprimere.
D. Quello che gli Stati Uniti hanno fatto in Argentina rientrava nella più complessa
Operazione Condor?
R. Dell’Operazione Condor abbiamo saputo in una riunione dell’Organizzazione degli
Stati Americani in Bolivia. Siamo andate lì nel 1979, perché andavamo dappertutto, non
perché capivamo cos’era. Era un posto dove si poteva denunciare e siamo andate.
Quando siamo arrivate, ci siamo trovate con una deputata paraguaiana che ci ha detto:
“Madres, io ho una persona molto seria che mi dice che c’è un intercambio di prigionieri
tra i nostri paesi. Qualcosa che si chiama Operazione Condor”. Noi non capivamo. Ci
ha dato delle lettere. Noi abbiamo letto, le abbiamo analizzate insieme a lei, abbiamo
capito che era una cosa molto importante e insieme - donne paraguaiane e madres - abbiamo fatto una denuncia dell’Operazione Condor. Era bellissimo perché la stessa
Organizzazione era responsabile di questa cosa; però, con l’ignoranza delle madres, abbiamo denunciato lo stesso. Una denuncia che non è stata ascoltata. E poi abbiamo cominciato a investigare e abbiamo capito che c’era uno scambio di prigionieri cileni in
Argentina, consegnati da Videla a Pinochet, o viceversa, da Pinochet a Videla. Oggi noi
madres nel nostro archivio abbiamo le lettere dell’ambasciatore nordamericano in
Argentina a Kissinger, in cui domandava: “Che cosa facciamo adesso?”. E Kissinger rispondeva: “Va’ avanti”.
Alla prima riunione dell’Operazione Condor, che si è fatta in Cile, c’erano tutti i capi
della polizia di Paraguay, Cile, Argentina, Uruguay. In quel momento tutti i capi della
polizia erano militari, e hanno deciso di infiltrarsi anche dentro l’ambasciata, per capire quando arrivavano i rifugiati e per poterli sequestrare dentro l’ambasciata e fare lo
scambio con altri paesi. Abbiamo tanta documentazione anche della consegna dei prigionieri della dittatura paraguaiana; a questo signor Acosta, la Tigre Acosta, che era un
capo della Marina, hanno dato due giovani, una donna e un uomo argentini, che sono
stati portati via aereo fino a Buenos Aires e poi assassinati nella Scuola della Meccanica
della Marina. Lo stesso è successo con una compagna nostra, che era paraguaiana ed
era fuggita dalla dittatura paraguaiana: è stata sequestrata nel 1977 e consegnata al governo del Paraguay, ma noi abbiamo capito questo molti anni dopo, non in quel momento.
D. È vero che dopo la risposta di Kissinger all’ambasciatore americano, nel giro di
pochi giorni scomparvero novemila persone?
R. Quando Kissinger disse: “Va’ avanti” all’ambasciatore americano in Argentina, in
quindici giorni furono sequestrate novemila persone in diversi posti del paese.
Sappiamo che queste cifre non sono accettate dai governi. I governi credono che siano
meno: noi sappiamo che ci sono più di trentamila scomparsi, ma anche solo uno scomparso ci deve preoccupare. Non è una questione di quantità. Novemila, diecimila sono
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comunque troppi. La responsabilità degli Stati Uniti in questo, nella morte, nella distruzione, nella tortura in America Latina, è feroce. Continua a essere feroce.
D. Che cosa pensa delle ammissioni e persino delle scuse che sono state fatte ultimamente da rappresentanti degli Stati Uniti, tra cui Carter?
R. Il governo di Carter ha una grande responsabilità, ma adesso a Carter hanno dato
un’immagine di difensore dei diritti umani. Noi abbiamo avuto l’opportunità di dirgli
quello che è in realtà nel 1994, in una riunione dell’ONU, quando è venuto da noi a parlarci di diritti umani: lui che ha inviato le armi, che ha permesso la tortura, la morte, la
scomparsa. Carter ha una grande responsabilità, e in definitiva l’hanno tutti gli Stati
Uniti, un grande impero coi suoi deputati, senatori, presidenti. Non è una sola persona
che è responsabile, ci sono tanti responsabili. È da tanti anni che gli Stati Uniti vogliono prendere possesso di tutta l’America Latina. Di tutto il mondo, in realtà, non solo
del nostro paese, perché c’è tanta ricchezza, c’è tanta terra. Ma noi dobbiamo lottare
contro di loro.
D. Prima parlava della Chiesa: quali sono state le responsabilità della Chiesa?
R. La responsabilità della Chiesa fu totale, perché il Nunzio apostolico inviato nell’epoca della dittatura era un grande amico dei militari. La Chiesa garantiva direttamente che si torturava cristianamente, si assassinava cristianamente. Fino a sette ore di tortura non era peccato. E l’assassinato era buttato nel fiume o in mare con una iniezione
che lo addormentava: questa era una maniera cristiana di uccidere, perché erano addormentati. I sacerdoti erano cappellani dell’esercito, della marina, della polizia.
Prendevano uno stipendio di giudice istruttorio. Usavano armi, usavano stivali e pistola. Erano sacerdoti armati. Tutta l’altra parte della Chiesa del Terzo mondo fu perseguitata, perché stava insieme con i nostri figli. Ci furono anche religiosi assassinati,
insieme a qualche vescovo che lottava per difendere i poveri. La Chiesa fu partecipe diretta delle decisioni della dittatura, e noi madres abbiamo fatto una denuncia molto forte contro il Nunzio Pio Laghi, senza risposta. Ma noi ci aspettiamo che molta gente capisca che la Chiesa non può essere partecipe dell’orrore, della dittatura e del genocidio,
perché diventa una Chiesa genocida.
D. In Argentina dopo il golpe iniziò il terrore. Vi furono più di trecento campi di concentramento e trentamila desaparecidos. Ci può spiegare che cosa accadde?
R. In Argentina dei campi di concentramento all’inizio tutti sapevano, ma nessuno vedeva dove erano. Dove sono? Nei commissariati? Sembrava una bugia, perché non era
possibile che davanti ai commissariati ci fosse l’albero di Natale, e dentro ci fossero tante persone torturate. Man mano ci siamo convertite in investigatori privati e abbiamo
capito che i campi di concentramento nascevano nelle case, in grandi capannoni, nei
commissariati, in alberghi e presso le multinazionali, che prestavano i loro capannoni e
i loro camion per sequestrare e torturare e massacrare i nostri figli. Le multinazionali
hanno molta responsabilità nei sequestri, perché i nostri figli si opponevano alla loro
politica. Le multinazionali pagano ancora oggi i politici per fargli tenere la bocca chiusa. Sono complici di quello che è successo. Trentamila scomparsi sembrano... è quasi
una città. Quindicimila esecuzioni sommarie. 8.900 prigionieri politici, nelle carceri sinistre. Più di un milione e mezzo di uomini e donne in esilio. Un paese rovinato, schiacciato, sottomesso, terrorizzato.
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D. È stato allora che voi madri avete cominciato, dapprima individualmente, a fare
un’azione politica?
R. Noi madri, quando ci scompare un figlio... non si capisce niente, ma si capisce che ci
sono altre storie simili. Ma uno ha sempre pensato: “A me non succederà”. E allora esce
fuori e dove va? Dove ci hanno insegnato le famiglie: dai giudici, la giustizia. Come,
non c’è giustizia? Allora si va dal prete, dall’amico, dal politico: e tutte le porte sono
chiuse. E allora un giorno una madre ha detto: “Basta. Noi stiamo pregando, basta, andiamo in piazza. Facciamo una lettera a Videla, che ci dica dove sono i nostri figli”. E
così nel ’77 in 14 donne, poi 33, siamo andate per la prima volta in piazza, ma per le nostre storie personali, come una cosa individuale; ma man mano abbiamo capito che la
lotta individuale non aveva senso, che lottare solo per il proprio figlio non faceva crescere niente. Man mano abbiamo chiamato altre madres, convocandole in piazza, per
dare più peso a questa lettera, e così eravamo diventate un gruppo grande. Allora la polizia è venuta e ci ha detto: “C’è stato di assedio, non potete stare qui”. Ci ha picchiato
e ha detto: “Camminate”. E così è iniziata questa marcia che ha 22 anni. Camminando,
marciando, in un grido soffocato di richiesta di giustizia. Certo che all’inizio volevamo
trovare i nostri figli. Abbiamo cercato disperatamente, tormentosamente, dappertutto.
Carceri, commissariati, posti dove c’era l’esercito. Ci ingannavano sempre. Ci dicevano: “Nel tal posto è arrivato un camion carico di persone strane. Saranno desaparecidos”,
e lì correvamo. Ma quando arrivavamo alla porta di quella casa ci dicevano: “Non c’è
niente”. Nessuno sapeva niente. I giudici sono stati grandi complici della dittatura e c’è
stato un uomo che ha preso in giro le madres, che diceva di non sapere niente e che gli
scomparsi non c’erano, mentre era un grande servitore della dittatura.
D. All’inizio eravate casalinghe.
R. All’inizio era molto difficile uscire fuori di casa, era molto difficile spiegare alla famiglia perché eravamo fuori tutto il giorno; ma poi la famiglia ha cominciato a capire
che la lotta, la ricerca era la cosa più importante. Noi continuiamo a essere donne di casa, donne che si occupano dei propri figli, delle proprie mamme. Io ho una mamma di
novant’anni. Ma essenzialmente abbiamo messo la nostra vita al servizio della nostra
lotta. Abbiamo scelto questa lotta, di non stare zitte, di non stare ferme. Uno diventa
migliore quando lotta. Io mi sento più sana, più sicura che non abbandonerò mai i miei
simili; e finché ci sarà una sola madre, un solo giovane, un solo amico, un solo compagno che li nominerà, un solo programma TV che li ricorderà, un solo film, una sola radio, una sola lettera, i nostri figli non moriranno. Non permetteremo che i nostri figli
muoiano. I nostri figli vivono con noi.
D. Lei ha perso due figli.
R. Io non ho perso i miei figli, perché li porto dentro di me. Sono incinta per sempre di
loro. I miei figli li hanno portati via, li hanno sequestrati, hanno voluto farli scomparire, ma non ci sono riusciti. Hanno voluto buttarli in mare, ma non ci sono riusciti.
Perché ci siamo noi, a chiamare per loro, a urlare, e ci sono i loro compagni, i figli dei
nostri figli, i loro genitori, i loro fratelli. Io non li ho persi. Li ritrovo tutti i giorni. Al
mattino presto, quando mi alzo e guardo la loro fotografia con le loro facce bellissime,
e lascio che loro mi guardino, solo per un attimo, così mi posso ricordare di quel “ciao
mamma” detto al mattino presto. E poi è molto difficile perché quello che si dimentica
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per primo è la voce. A volte mi sforzo di ricordare la loro voce, ma uno si dimentica del
timbro della voce. E voglio immaginarli adesso, ma non ci riesco, anche se una cosa non
potrò mai immaginarmi: quella di vedere i miei figli come un cadavere, perché un rivoluzionario non è mai un cadavere.
D. Voi non avete mai accettato il discorso della riesumazione dei cadaveri, né quello
del risarcimento.
R. Per questo che ho appena detto, noi madres non accettiamo la morte dei nostri figli.
E non accettiamo la riesumazione dei cadaveri. È una cosa sinistra. I nostri figli hanno
lottato per la vita e sono vita pura, e anche noi lottiamo per la vita contro la morte e non
accettiamo il risarcimento economico che ci vogliono dare per i morti. Nessuno dà un
risarcimento per un vivo. Il governo vuole dare 250.000 dollari per ogni scomparso. È
ripugnante che la vita valga denaro, la vita vale vita e a quella dei nostri figli non permetteremo mai che nessuno metta prezzo. Nessuno metterà prezzo alla loro vita. La loro vita è troppo forte e troppo grande. Hanno donato tutta la propria vita al loro popolo, come ha detto Marcos: “Diamo la vita perché altri vivano, perché altri sognino”.
Come possiamo prendere soldi per quella vita? Non c’è denaro, non ci sono soldi che
paghino quella vita, né la loro né quella di nessun altro essere umano. Così noi madres
possiamo andare a testa alta e dire alla gente: “Signori, noi continueremo a lottare in
questo mondo perverso, perché la vita non ha prezzo e può essere spesa solo al servizio di un altro. Noi abbiamo imparato questo dai nostri figli, la vita vale quando uno la
mette al servizio di un altro, quando la dà a un altro, così l’altro può vivere, e la dà con
generosità, senza aspettarsi niente. Non ci interessa un monumento per i nostri figli.
Loro non hanno scelto di essere eroi e martiri. Amavano la vita e per questo l’hanno donata”.
D. Tutti i giovedì avete cominciato ad andare in Plaza de Mayo. Come hanno reagito
le autorità?
R. All’inizio era molto difficile perché eravamo molto sole e ci arrestavano tutti i giovedì; e al commissariato ci mettevano in cella, a volte con un morto. Ma noi decidemmo che quando arrestavano una di noi ci saremmo fatte arrestare tutte. Andare in piazza durante la dittatura era molto duro. Abbiamo madres desaparecidas, hanno sequestrato tre delle nostre migliori madres. Molte volte siamo state dentro anche per quindici
giorni. Niente ci ha fermato, né chiuso la bocca. Abbiamo deciso di non abbandonare
mai questa piazza. La piazza: è molto difficile spiegare che cosa si sente quando si arriva qui. Io ho bisogno di un paio di minuti per l’incontro che ho con i miei figli. Sono
loro che ci danno la forza per continuare, lì. Credo che sia un vero miracolo, la resurrezione che c’è in piazza. Dove loro ci accompagnano, dove questo fazzoletto ci dà forza,
dove quando una si mette questo fazzoletto si sente più alta, più forte, più convinta.
D. Può raccontare la volta che vi hanno puntato le armi addosso e voi avete gridato
“fuoco!”?
R. Un giorno arrivò un personaggio dagli Stati Uniti e noi abbiamo pensato: “Questo ci
aiuterà”. Siamo andate in piazza, al mattino, perché lui arrivava al mattino. Allora ci
hanno detto: “Andate via” e noi abbiamo risposto: “No, rimaniamo qua”. Questo era il
delegato dei diritti umani degli Stati Uniti, che poi è stato ambasciatore in Argentina e
adesso è presidente di una delle multinazionali più grandi. Figuratevi voi come i gio-
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chi fossero già fatti. E quel giorno per mandarci via hanno messo un camion dell’esercito, sono scesi di corsa, noi ci siamo prese forte sottobraccio. Loro hanno detto:
“Puntare”. E noi abbiamo detto: “Fuoco”. Tutti i giornalisti hanno chiesto: “Chi sono
questi gruppi di donne che hanno gridato “fuoco” a chi li puntava?”. Noi madres abbiamo deciso di dare la vita per i nostri figli. Nel momento in cui uno partorisce un figlio gli dà la vita, credo che tutte le donne quando partoriscono dicano: “Se succede
qualcosa, voglio che viva lui, non io”. In quel momento è quello che noi pensiamo: la
vita per loro. E noi non abbiamo paura dei militari, perché la vita di noi vale per questo, perché l’abbiamo donata, per questa lotta.
D. Vi chiamavano le pazze.
R. È vero, ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse offensivo. Certo, ci
mettevano dentro tutti i giovedì e noi ritornavamo, e loro ci dicevano: “Eccole lì, le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano”. Ma noi pensiamo che siamo pazze d’amore, pazze
di ritrovare i nostri figli, e perché no? Un po’ di pazzia è importante per lottare; e così
come facciamo sempre, abbiamo ribaltato il significato dell’insulto di questi assassini e
a noi non ci offende che ci diano delle pazze. Per fare quello che facciamo dobbiamo essere un po’ pazze. La follia è molto importante. Alle volte i pazzi e i bambini sono gli
unici che dicono la verità.
Fine della prima parte dell’intervista
Daniela Padoan
Anch’io, ogni volta che rivedo queste immagini, continuo a stupirmi di come delle persone che hanno vissuto un’esperienza così atroce di dolore possano apparire tanto serene. Per esempio Hebe, che avete visto, ha perso nel giro di un anno e mezzo prima il
figlio maggiore, poi il figlio minore, infine la moglie del figlio maggiore che viveva in
casa con lei, ed è rimasta con una bambina che allora aveva 12 anni. A quel punto ha
cominciato a cercare ovunque, ma non pensava che i figli fossero morti.
Le madri dicono di aver accettato fin dall’inizio questo insulto di “pazze”, che veniva
dato a loro in Argentina non solo dai militari, ma anche dalle persone che assistevano
a ciò che accadeva facendo finta di nulla, perfino dai tifosi di calcio che più tardi, durante i campionati del mondo, riempivano gli stadi e volevano metterle a tacere perché
rovinavano l’enorme festa organizzata da un Paese dove la democrazia, seppur “vigilata”, come dicevano loro, aveva arginato il comunismo, perché questo era lo spettro. E
questo è un discorso sul quale magari si può tornare.
Queste donne cominciano singolarmente a vedere che i figli non tornano a casa.
Avevano imparato a capire che facevano politica in qualche modo, ma non avevano le
idee molto chiare di cosa questo significasse. Raccontano molto spesso che i figli facevano riunioni in casa, andavano magari a fare volontariato nelle bidonvilles, nei quartieri dove già una miseria terribile cominciava a dilagare a quei tempi. Soltanto una minoranza di questi giovani ha fatto parte delle formazioni di guerriglia, che erano nate
in un Paese dove i golpe si susseguivano uno dopo l’altro, un Paese dove già esisteva
un’associazione di fatto completamente interna al governo, ma non ufficiale, segreta,
che si chiamava Tripla A, Alleanza Anticomunista Argentina, che andava in giro fucilan-
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do e sequestrando per la strada, facendo sparire quelli che venivano considerati oppositori.
In questa situazione, alcuni hanno scelto forme di resistenza armata, una minima parte. Altri hanno cercato forme di resistenza che passavano attraverso varie attività, quelle della Chiesa del Terzo mondo per esempio, del volontariato medico; alcuni semplicemente erano studenti che lavoravano nel movimento studentesco delle scuole medie
superiori e delle università.
Prima, mentre dicevate che questa iniziativa è all’interno di un progetto didattico che
si rivolge a studenti e insegnanti, mi veniva in mente che in Argentina proprio gli studenti e gli insegnanti sono stati tra i principali nemici del potere, anche prima del golpe del ‘76, perché la sola idea di cultura, la sola idea di insegnamento era considerata di
per sé sovversiva. In particolare lo studio delle materie umanistiche lo era. Sono stati
letteralmente sterminati sociologi, psicologi, psicanalisti, soprattutto i lacaniani, gente
di teatro, attori, sospetti in quanto tali, al di là di qualunque attività potessero in quel
momento esercitare.
Quindi le madri si trovano in un Paese dove, senza capire bene come e perché, i figli
scompaiono e nessuno dice loro, però, né che i figli sono stati arrestati, né che sono stati uccisi. Era stato pianificato fin dall’inizio che, a differenza di quello che aveva fatto
Pinochet in Cile, in Argentina non si sarebbero dovuti vedere gli stadi pieni di prigionieri e il mondo non avrebbe dovuto gridare allo scandalo.
Questa categoria dello scomparso, del desaparecido, non è venuta fuori poco per volta in
modo casuale, è stata scientemente pensata da militari che per altro avevano alle spalle una formazione molto specifica. Lo stesso Perón era andato in Italia e in Germania
durante il nazifascismo a imparare, a vedere coi propri occhi sul campo i meccanismi
della repressione totalitaria, ed aveva teorizzato queste forme di controllo del potere.
Ma poi, in Argentina, dopo le ondate di immigrati ebrei che scappavano dai pogrom e
dalle persecuzioni, è arrivata un’altra ondata, alla fine della guerra, che era quella dei
gerarchi nazisti che scappavano dai processi in Europa. In Argentina ci sono stati
Mengele, Eichmann, Priebke, a Bariloche. I gerarchi argentini erano impregnati di ideologia nazifascista. Ci sono state molte testimonianze, di prigionieri che sono riusciti a
salvarsi, che durante il golpe il saluto era “Heil Hitler”, che c’erano le svastiche dipinte sui muri delle prigioni, che insomma tutti i riferimenti erano al nazismo. È un Paese
dove viene pianificata una sorta di genocidio, anche se il termine “genocidio” ha un’etimologia che richiama la volontà di estirpare un intero popolo; qui si tratta piuttosto
della volontà di estirpare una categoria di persone considerate nemiche, in quanto
ideologicamente portatrici di un progetto diverso.
Questi ragazzi, anche quelli che, come vi dicevo, facevano cose assolutamente innocue,
hanno cominciato ad essere considerati un “cancro della società”. Venivano portati via
non da militari in divisa, ma quasi sempre da individui in borghese che, appunto come
diceva Hebe, entravano nelle case nel cuore della notte e portavano via le persone a
bordo di macchine senza targa, oppure le prendevano a scuola, sul posto di lavoro, in
mezzo all’indifferenza sempre più grande della gente. Questa è una cosa molto inquietante perché evidentemente, quando un regime riesce ad individuare una categoria di
persone e a farle cessare di esistere in quanto individui, ma a definirle in quanto cate-
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goria - è quello che è stato fatto per gli ebrei – una minaccia per la società, un cancro,
un nemico interno da estirpare, chi sta attorno a queste persone diventa potenzialmente nemico o sospetto e gli altri cercano di prendere le distanze, perché non vogliono essere in nessun modo coinvolti.
Così queste madri non solo vedono sparire i figli, ma cominciano a vedere da parte degli stessi parenti, dei vicini di casa, dei colleghi di lavoro dei padri sguardi sospetti, atteggiamenti strani, che rivelano che, in virtù della scomparsa del figlio o della figlia, anche loro non fanno più parte del mondo nel quale erano vissute fino al momento prima.
A questo punto, in un Paese dove la gente si era abituata alla proibizione di ogni tipo
di manifestazione e di protesta, al divieto di prendere la parola in pubblico, al divieto
degli assembramenti - quando si voleva fare una festa di compleanno con più di cinque
persone, dice Hebe, bisognava chiedere il permesso - loro sono state le uniche a non
abituarsi. Le madri hanno continuato ad apparecchiare la tavola con un posto vuoto,
dicendo: “Mio figlio o mia figlia tornerà”, rendendosi conto giorno dopo giorno che
non tornavano. Allora hanno cominciato a chiedere informazioni alle persone delle
quali si fidavano: erano state educate a fidarsi dei giudici, dei politici, dei sacerdoti, e
via via hanno cominciato a vedere che - Hebe usa molto spesso questa immagine - “le
porte si chiudevano in faccia”. Gli avvocati avevano paura di fare gli habeas corpus perché si era capito che a volte venivano presi e scomparivano anche loro. Frequente è stata per tutte l’esperienza di andare nelle parrocchie dove i figli erano cresciuti e di chiedere al prete di essere aiutate. Ma il prete chiedeva loro i nomi delle persone che avevano incontrato nelle loro ricerche e, se le madri facevano i nomi degli amici dei figli,
nei giorni successivi questi nomi corrispondevano ad altri desaparecidos. Poco per volta
hanno cominciato a rendersi conto che c’era un’omertà, che c’era una complicità e comunque una paura così forte, così pervasiva, che attanagliava tutto il Paese.
D’altronde c’erano dei manifesti sui muri con degli indici accusatori che si rivolgevano
ai genitori e dicevano: “Tu sai, in questo momento, cosa sta facendo tuo figlio?”, “come
hai cresciuto tuo figlio?”. Una sorta di colpevolizzazione collettiva per il fatto di aver
messo al mondo e cresciuto una persona che faceva una qualche forma di attività sociale e politica.
Durante la dittatura l’ossessione anticomunista è diventata tale che, per fare un esempio, ci sono stati roghi di libri e tra i libri bruciati c’erano anche Il rosso e il nero di
Stendhal e i saggi sul cubismo perché la parola “Cuba” era impronunciabile. È grottesco e paradossale, ma si è arrivati a questo punto.
Quando le madri hanno cominciato a vedere che nessuno dava loro retta, hanno deciso di incontrarsi tra di loro e di andare in piazza. In piazza, per l’appunto, era vietato
stare, la polizia ha cominciato a picchiarle, ma all’inizio loro non pensavano assolutamente di fare quella che poi è diventata la “marcia del giovedì”. La marcia è nata semplicemente perché loro stavano in piedi, parlando tra di loro, e la polizia, picchiandole,
diceva che era vietato stare ferme in piazza e che marciassero. Quindi, sotto i colpi dei
manganelli, hanno cominciato a camminare una vicina all’altra e a capire, però, che lì
in piazza dovevano tornare, perché era l’unico posto dove potevano sperare in qualche
modo di avere strumenti per trovare i figli.
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Poco per volta hanno capito - ma è stato un processo lungo, di almeno tre anni - che i
figli non sarebbero tornati. Ad un certo punto soprattutto Amnesty International ha cominciato a parlare di torturati e di morti nei campi. Nessuno sapeva in Argentina dei
campi. Nel giro di tre anni si è cominciato a capire che, in luoghi assolutamente impensabili (garage, officine, piccole aziende, alberghi, luoghi dell’esercito) c’erano, come
diceva prima Alessandra, tanti “garage Olimpo”, anche molto grandi, come per esempio il Centro della Meccanica della Marina, l’ESMA, che era incaricato dell’eliminazione dei montoneros, i guerriglieri peronisti.
All’ESMA il problema a un certo punto è stato l’eliminazione dei corpi: perché, se nessuno doveva sapere, cosa si doveva fare di queste persone torturate e uccise? Questo ricorda in qualche modo la soluzione finale dei nazisti, senza voler sovrapporre le cose
perché, naturalmente, non è possibile né corretto farlo. Hanno cominciato a buttarli nei
fiumi, nel mare, ma i corpi riaffioravano e la gente cominciava a dire: “Chi sono queste
persone che si trovano sulle rive?”. Così hanno inventato che li drogavano con una iniezione di pentotal, li portavano a bordo di aerei che volavano in mare aperto, veniva loro messo un blocco di cemento ai piedi e venivano gettati ancora vivi, di fatto - tramortiti dal pentotal ma ancora vivi - in mare. C’erano perfino dei cappellani militari su
questi voli.
Dire queste cose io credo che sia necessario, non solo per fare un discorso storico, pure
importante, ma perché occorre vedere in una situazione estrema, com’è stata quella
dell’Argentina, come i poteri riescano a coalizzarsi e, in un certo senso, a supportarsi
l’uno con l’altro senza che nulla appaia. Per poteri non intendo soltanto il potere militare, non intendo soltanto i militari americani che hanno addestrato alla contro-guerriglia e anche alla tortura, o i militari francesi che si erano addestrati durante la controguerriglia in Algeria. (Qui faccio una parentesi. Una cosa anche paradossale, ma estremamente interessante: i militari argentini utilizzavano per addestrare i loro soldati il
film La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, che aveva voluto piuttosto denunciare
quello che faceva la Francia).
Insomma dietro a questi poteri militari evidenti c’erano quelli potentissimi degli affari,
i poteri economici. Perché questo poi alla fine, al di là dei discorsi strettamente etici, è
ciò che muove le cose, ciò che occorre imparare. Hebe lo dice sempre: “Noi non capivamo allora che i nostri figli sono spariti perché si attuasse un piano economico, e perché quel piano economico si potesse attuare era necessario che i nostri figli sparissero”.
Le democrazie, anche quelle europee, in particolare quella italiana, hanno fatto grandi
affari con la dittatura argentina. In Argentina c’erano stabilimenti della Fiat, della
Dalmine, della Technit, c’erano molte industrie italiane. Addirittura ci sono testimonianze che dicono che all’interno dei cancelli di alcune c’erano piccoli campi dove venivano tenuti gli attivisti e i sindacalisti e consegnati ai militari. Talvolta venivano torturati già all’interno dei cancelli.
Alessandra prima diceva: “Perché noi non abbiamo percepito questa tragedia che si stava svolgendo, mentre solo tre anni prima eravamo in piazza per il golpe in Cile, per l’uccisione di Allende?”. Probabilmente i motivi sono molti e compositi ed è interessante
anche capirli, proprio per il discorso che cercavo di fare prima, di come il potere si struttura secondo complicità più o meno palesi, più o meno ampie, ma che a noi serve ca-
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pire per riconoscerle anche quando capitano in misure minime.
In Italia c’era allora la P2 di Licio Gelli, che stava effettivamente diffondendosi spaventosamente, aveva assunto i gangli dell’informazione, aveva fatto la scalata del Corriere
della Sera, e il Corriere e tutta la Rizzoli erano presenti in Argentina dove facevano lauti
affari. La Rizzoli possedeva la quasi totalità del mercato di libri e giornali in Argentina.
Naturalmente il Corriere ad un certo punto smise di dare notizie su quello che accadeva perché lo stesso Massera, uno dei triumviri del golpe in quanto comandante della
Marina - i tre capi della Giunta erano i tre comandanti militari di Esercito, Aviazione e
Marina -, aveva ottenuto la nomina di ammiraglio sponsorizzato da Licio Gelli. Bene,
Massera diventa ammiraglio della Marina, entra a far parte del golpe e pochi giorni dopo si aprono le filiali del Banco Ambrosiano in Argentina.
I nostri diplomatici in Argentina, per esempio l’ambasciatore, che si chiamava Carrara,
erano noti perché andavano a cavallo con Videla e partecipavano alle feste dei vertici
della dittatura. Quando i tanti italo-argentini che cercavano di scappare chiesero aiuto
all’ambasciatore, Carrara fece mettere una blindatura e poi ancora una transennatura
di fronte all’ambasciata, di modo che nessuno potesse entrare. Ben presto tutti impararono che andare all’ambasciata italiana significava di fatto consegnarsi ai militari.
L’unico soccorso reale venne dal console Calamai, che per altro fu richiamato in Italia
un anno dopo, promosso ambasciatore e mandato in Nepal. Lui salvò effettivamente
molte persone, ma fu l’unico, insieme al giornalista Giangiacomo Foà, che ebbe con
grande coraggio la capacità di scrivere delle cronache veritiere, ma poi dovette scappare in Brasile perché stavano per farlo fuori.
In Italia, per altro, anche la sinistra non è stata molto attenta all’Argentina perché, come dice Calamai, il PCI aveva delle direttive precise dall’Unione Sovietica, che in quel
momento aveva deciso di appoggiare la dittatura perché aveva bisogno del grano argentino, che scambiava con armi e materiale nucleare. D’altra parte in Italia si stava allora sotto il tiro delle Brigate Rosse e i dirigenti comunisti avevano appunto il terrore
di parole come “guerrigliero” o “sovversivo”. E questa è una cosa con cui forse, prima
o poi, bisognerà fare i conti.
Le madri ebbero la capacità di indicare tutto questo con grande chiarezza. Ora dicono
che, partendo dai fornelli e dalle pentole, hanno fatto una scuola di vita andando a bussare a tante porte e subendo disillusioni e ferite profondissime: ma è come se avessero
tolto la maschera al potere. A me, alla fine, questo interessava ed è il motivo per cui da
tempo lavoro su questa vicenda, perché è come se loro avessero conosciuto la maschera del potere nella sua forma più estrema, che è quella del potere di togliere la vita, e
adesso fossero capaci di declinarlo e riconoscerlo anche nelle sfumature e di avere sempre una risposta a partire dalla loro idea che la relazione con le persone, con l’altro - non
l’Altro maiuscolo, l’altro che ti sta attorno - è centrale e deve fondarsi sul loro essere
madri. Sul fatto appunto di controbattere al potere di dare la morte, nell’inermità totale, dicendo: “Io ho il potere di dare vita. Io una volta ho dato vita e, per quanto tu sia
potente, questa vita non hai il potere di togliermela”. È una posizione estrema perché è
evidente a loro, ed è stato evidente fin da molto presto, che i loro figli sono stati ammazzati; ma loro sono 30 anni che dicono: “No, non ce li avete ammazzati”, nell’idea di
una sorta di maternità che non può cessare. Loro dicono: “Noi siamo sempre incinte dei
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nostri figli”, ma al tempo stesso anche: “Noi siamo state partorite dai nostri figli, perché assumere la loro lotta ci ha dato una nuova lettura del mondo”.
E così continuano sempre con le loro marce, tutti i giovedì, anzi dicono: “Anche quando dovremo andare con la sedia a rotelle ci andremo”. Una volta all’anno facevano
quella che chiamavano “la marcia della resistenza”, cioè stavano 24 ore di fila in piazza: durante la dittatura questo aveva un significato enorme, perché era la testimonianza di un coraggio di resistenza estremo. Adesso hanno tutte tra gli 80 e i 90 anni, qualcuna anche di più, e non fanno più la marcia di 24 ore, ma ogni giovedì tutte quelle che
riescono vanno in piazza.
Alessandra Peretti
Volevo chiederti di approfondire alcune cose. Intanto mi ha molto colpito nel tuo libro
il capitolo in cui si parla dei padri e del rapporto diverso che, senza voler generalizzare, i padri hanno avuto rispetto a questa tragedia: anche questo mi sembra un elemento significativo. Rispetto poi alla valutazione se le madri hanno vinto o se hanno perso
la loro lotta - che sono certamente termini molto difficili da usare - francamente una cosa di cui sono convinta è la necessità di riconoscere che si realizza comunque una sconfitta nel momento in cui un terrore di questo tipo invade un Paese. I militari, per far
trionfare il loro progetto, dovevano eliminare tre generazioni: e tre generazioni sono
state eliminate. Da questo non si può prescindere. Questo è da un lato, certamente, anche la misura di che cosa ha significato e di cosa è stato l’impegno delle madri; però è
vero che, rispetto alla vivacità e all’impegno sociale e al movimento, al di là di tutte le
contraddizioni, dei giovani argentini degli anni ’60 e ’70, la situazione oggi è ben diversa, anche se si stanno aprendo prospettive positive. Questo lo terrei presente rispetto al giudizio su chi ha vinto e chi ha perso.
Certo è che nelle cose che dicono le madri c’è in questo caso, come in tanti altri, una
specie di visione paradossale di quanto è successo. Per esempio, un’altra questione su
cui mi piacerebbe che dicessi qualcosa di più è il tema della memoria dei morti, che c’è
anche nell’intervista. Li vogliamo ricordare vivi, dicono le madri, non vogliamo le riesumazioni: questo, tra l’altro, è in forte contrasto con tutta una certa celebrazione della
memoria delle stragi che è invece presente nella nostra società. Se pensiamo alla giornata della memoria e alla memoria della Shoà, a cui noi attribuiamo per altro tanta importanza per le giovani generazioni, è tutto un altro modo di ricordare. Tra l’altro,
Daniela si è occupata anche di questo tema, perché ha raccolto in un altro suo libro le
testimonianze delle deportate. Allora la rivendicazione di una memoria che sia solo ricordo di come erano i figli da vivi e non del fatto che sono morti, anche questa mi sembra una cosa difficile da capire e che fa percepire che c’è qualcosa che sfugge alla ragione.
(Ci sono alcune domande senza microfono che non vengono registrate, sulla dislocazione dei
campi di concentramento, sulle divisioni all’interno del movimento delle madri, sulla rimozione di quanto successo da parte della società argentina e in Italia, anche in relazione alle diversità tra la situazione cilena e quella argentina)
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Daniela Padoan
A proposito dei padri Hebe dice sempre: “Non è che i padri non abbiano sofferto come
noi”. Anzi dice addirittura che in Argentina ci sono stati studi, nel corso degli anni, che
dimostrano che c’è stata una mortalità altissima tra gli uomini che avevano avuto i figli
scomparsi, per problemi cardiaci o tumorali. Il fatto di aver tenuto tutto dentro, di non
aver trovato vie per esprimere il dolore e il desiderio di far qualcosa di sensato, in qualche modo li ha fatti implodere. Le madri dicono che gli uomini non sono riusciti a fare
quello che hanno fatto le donne perché erano troppo legati alle strutture e articolazioni
della politica che conosciamo: i partiti, i sindacati, le associazioni e via dicendo. Per cui
cercavano tra di loro di mettersi d’accordo, ma alla fine c’era sempre una frattura, provocata dalla diversa appartenenza e identità politica. È anche successa una cosa piuttosto buffa perché, ad un certo punto, quando già le madri erano abbastanza strutturate
come associazione e avevano la loro prima piccolissima sede, i padri hanno chiesto di
farne parte anche loro, e loro, per contro, hanno detto: “No. Noi siamo nate come madri e continuiamo la nostra politica come madri; però, se volete, vi lasciamo una stanzina”. Allora i padri hanno cominciato a riunirsi, a formulare delle idee, e l’unico progetto che ne è venuto fuori è stata l’idea di una partita tra due squadre: diritti umani contro non so chi altri. Ed Hebe gli ha detto: “Ma siete pazzi? E se vincono gli altri?”.
Insomma li prendevano in giro. Ma Hebe dice che sono stati importantissimi perché
hanno avuto la grande capacità di continuare a lavorare, anche se avevano subito pure
loro un rovesciamento delle condizioni di vita. In una famiglia dove era l’uomo che lavorava – si tratta di una cosa molto pratica – era indispensabile che il padre continuasse a mantenere la famiglia, continuasse a occuparsi degli altri figli che rimanevano,
mentre la madre andava in giro a cercare i figli desaparecidos e a bussare alle varie porte.
Poi, poco per volta, non con la decisione: “Adesso mi iscrivo a un’associazione o ad un
partito”, ma in modo naturale, la cosa si è sviluppata ed è diventata evidente da sola:
le madri avevano un impegno e a quell’impegno non avrebbero rinunciato per nulla al
mondo. A quel punto i mariti hanno dovuto capire che o la famiglia esplodeva - ed in
molte circostanze è esplosa, ci sono stati anche molti divorzi – oppure, d’improvviso e
nonostante una vita ormai assestata e un’educazione per cui mai avrebbero pensato di
mettersi a fare questo, loro dovevano preoccuparsi di cuocere il cibo per gli altri figli o
le pappe per i nipotini, perché tanti erano quelli che erano rimasti coi bimbi dei figli desaparecidos da crescere.
Insomma gli uomini hanno accettato tutto questo e hanno accettato anche di accompagnare le madri in piazza, di stare dietro gli alberi, di stare intorno a vedere che a loro
non succedesse niente, riconoscendo questa loro forza anche simbolica in quanto madri e però proteggendole e sostenendole come potevano.
Le madri dicono che il movimento è fondamentalmente loro, in quanto sono riuscite come madri a capire più a fondo i figli in quello che facevano, e che il continuare a dar vita ai figli, come loro lo hanno interpretato, significa continuare a dar vita all’idea che
questi figli avevano e ai progetti che volevano realizzare. Dicono che i padri non li hanno capiti nello stesso modo: alcuni padri si sono distanziati dalle scelte dei figli, e comunque hanno seguito una strada razionale di incontro con questi figli che non c’erano più. Invece loro dicono: “Li abbiamo cercati fisicamente, poi abbiamo capito che non
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aveva più senso cercare dove fossero, e abbiamo cominciato a cercare di capire chi fossero”. Volevano imparare quello che i figli avevano imparato.
C’è una questione aperta con Linea Fundadora, il movimento che si è staccato dalle madri. È successo che a un certo punto, dato che la giunta aveva avuto il colpo di genio
della scomparsa, dei desaparecidos, questi fantasmi hanno cominciato ad aleggiare sulle
democrazie che sono venute dopo la dittatura. Quello che doveva essere la garanzia
dell’impunità dei colpevoli, perché se non c’è il corpo non c’è il reato e quindi non c’è
punizione, è diventato una sorta di boomerang, perché c’è una legge internazionale che
dice che il reato di scomparsa non va mai in prescrizione. Finché non viene fuori il corpo, virtualmente il responsabile può sempre essere indagato e processato.
Quindi quando Alfonsín è andato al governo nell’83, dopo la caduta della giunta militare in seguito alla spedizione contro le Malvinas, hanno cominciato a dire alle madri:
“Firmate una dichiarazione di morte”. Facevano leva anche sul fatto che non doveva
essere semplice stare tutti quegli anni in una sospensione che ti nega l’elaborazione del
lutto, che non lascia mai che qualcosa si allenti: perché da una parte tu sai benissimo
che tuo figlio non c’è più, ma dall’altra devi continuare a stare in quell’incertezza in cui
neghi la morte. Però, quando hanno cominciato a dire: “Firmate, vi diamo anche un risarcimento economico perché ne avete diritto e il governo ha fatto una legge su questo”, all’inizio le madri hanno detto tutte di no. Poco per volta poi il governo ha cercato di far riavere i resti dei desaparecidos e sono iniziate delle cose terribilmente macabre,
perché arrivavano a casa, alle madri, delle cassette con delle ossa e l’avviso: “Qui dentro c’è suo figlio o sua figlia”. Alcune madri lo hanno accettato, perché volevano avere
un luogo dove poter seppellire e andare a ricordare il figlio, invece altre hanno detto
no. Dopo sette anni in cui negavano la morte e dicevano che i figli vivevano nelle loro
idee, queste hanno detto: “Adesso vivono nelle loro idee, un rivoluzionario non è mai
un cadavere”. E hanno deciso che mai avrebbero accettato i resti, che mai avrebbero accettato il risarcimento - che via via Alfonsín e i governi successivi fino a Menem hanno
reso sempre più cospicuo - perché in questo modo avrebbero dovuto firmare un documento dove c’era scritto che il figlio era morto: neanche assassinato, morto, verosimilmente il giorno tale. Questo loro l’hanno rifiutato e si è creata una spaccatura terribile,
perché hanno avuto un’enorme discussione tra loro e alcune hanno deciso che il risarcimento lo avrebbero preso.
Su questo io penso che non si possa dare un giudizio negativo perché, di fronte ad una
cosa così enorme, nessuno sa come ci si deve comportare. C’erano per esempio delle
madri che avevano la famiglia da mantenere, che magari avevano nipoti piccoli; altre
che erano di estrazione sociale anche alto-borghese e avevano mariti avvocati, magistrati, politici, che a un certo punto si sono trovati coinvolti coi nuovi governi e hanno
cominciato a dire che non aveva più senso che le madri scendessero in piazza coi loro
fazzoletti: “La dittatura è finita, i processi si cominciano a fare, la ricomposizione del
Paese si sta attuando. Basta. Si tratta di elaborare la storia passata”. Ne è scaturita una
scissione che ha provocato l’uscita di una parte minoritaria di madri, che si è chiamata
Linea Fundadora; mentre le altre si sono continuate a chiamare madres de Plaza de Mayo.
Sono loro quelle che tutti i giovedì vanno in piazza, quelle che non hanno accettato il
risarcimento, quelle che non hanno voluto la restituzione dei corpi: effettivamente, se
voi andate a Buenos Aires, le altre non le vedete.
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Un’altra piccola differenza che viene sempre fuori - forse è bene chiarirlo - è quella con
le nonne. Le nonne sono quelle che avevano avuto delle figlie desaparecidas, alle quali
erano stati portati via i bambini al momento del parto, per essere poi adottati dai gerarchi o dagli amici dei gerarchi della dittatura. Queste donne hanno fatto una ricerca
strenua dei nipoti, hanno cercato di riaverli, in alcuni casi ci sono anche riuscite. Questo
le ha portate, secondo le madri, alla scelta di chiedere giustizia in modo singolo; le madri invece dicono: “Noi non vogliamo processi ai singoli. Non ci interessa chiedere che
venga processata una persona perché ha portato via un bambino. A noi interessa che
venga fuori la verità, il giudizio politico e la memoria storica”. Su questo non sono state d’accordo invece le nonne, che hanno continuato ad andare avanti individualmente,
sui singoli casi. Adesso le madri sono ancora più contrarie, perché questi ragazzi hanno ormai 30 anni e le nonne continuano a cercarli e hanno proposto che, per legge, si
faccia obbligatoriamente il test del DNA, anche a chi non vuole assolutamente sapere
di essere figlio di una desaparecida, perché è stato cresciuto da genitori che ha imparato
a considerare i suoi e che in qualche modo ama. Le madri dicono che non si può fare
un’ulteriore violenza a persone che già hanno subito una violenza gravissima. Però
queste sono cose delicate, sono scelte individuali di fronte a situazioni estreme.
Per quanto riguarda le ragioni della rimozione che c’è stata in Italia su questi avvenimenti, io credo che sia stato fondamentale il fatto che noi siamo abituati alle immagini,
a ciò che è rappresentabile, a ciò che in qualche modo è visibile. Se ci si trova in una situazione in cui a priori si è decisa la non rappresentabilità di ciò che accade, resta molto più difficile portarlo alla luce. Credo che il Cile, fondamentalmente, sia stato quello
che è stato anche per noi per quelle immagini degli stadi, quelle immagini della
Moneda...
Alessandra Peretti
Mi sembrava molto interessante anche la domanda sulla rimozione in Argentina, non
solo in Italia. Mi ha molto colpito questo atteggiamento della società argentina rispetto
a quanto avveniva, che mi richiama una serie di cose che sono state dette a suo tempo,
delle complicità della gente comune col nazismo. A me sembra che questa cosa sia molto intrigante, perché mette da un lato in luce la fragilità di una società che viene terrorizzata e che quindi è disposta comunque a girare gli occhi dall’altra parte; però dall’altro lato mette in luce anche una situazione argentina molto complicata. Io cerco di
ricordarmela con gli occhi di allora e alcuni episodi avevano molto a che fare con il terrorismo. C’erano personaggi più o meno autorevoli, il capo della Fiat di Cordoba ad
esempio, che venivano sequestrati e uccisi.... Da un lato la Tripla A, dall’altro anche una
guerra aperta nella regione di Tucumán creavano una sensazione di instabilità e insicurezza, che spinse senz’altro molti a considerare la dittatura di Videla come il male minore, con quell’errore di prospettiva che si diceva prima, per cui non si prevedeva magari quello che sarebbe successo veramente. È molto difficile parlare a posteriori senza
rischiare di dire cose che sono sbagliate, ma tutte le volte che si crea questa contraddizione terribile tra il bisogno d’ordine e di vita normale e le tensioni sociali interne di un
Paese, c’è una parte della popolazione che in buona fede si schiera dalla parte dell’ordine. Questo io ho avuto la sensazione che sia accaduto in Argentina.
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Daniela Padoan
Io vorrei legare questo discorso alla domanda che mi è stata fatta prima sulla dislocazione dei campi. In Argentina c’è stata, prima del golpe, la guerriglia nel Tucumán, un
focolaio di guerriglia rurale al quale hanno partecipato in realtà poche persone, che è
stato distrutto. Ci sono stati episodi molto contenuti di lotta armata nel Paese. C’era
piuttosto una resistenza nelle grandi città, nelle scuole, nei sindacati, nelle fabbriche,
tutta politica.
La repressione si è scatenata sicuramente in tutto il Paese e c’erano questi campi di
concentramento ovunque, non solo a Buenos Aires. L’Argentina è immensa, con grandi spazi vuoti, e Buenos Aires è una città gigantesca. A Buenos Aires c’erano moltissimi campi e questo dell’ESMA, dal quale partivano i voli della morte, è molto impressionante perché c’è un grande parco - io ci sono stata per girare il documentario -: vi
entravano e uscivano le Ford Falcon e si vede dove, c’era un luogo particolare che era
il circolo degli ufficiali, dove c’era la struttura che chiamavano la Capucha, dove venivano messi i prigioneri coi cappucci in testa per le torture. Proprio di fronte, nel senso che basta attraversare il viale, c’è una fila di case molto belle, di fine ‘800, di media
borghesia ricca, con i gerani alle finestre; e quando sono uscita col responsabile
dell’ESMA, per un attimo mi sono guardata intorno stupita e mi sono chiesta: “Ma
c’erano già allora? Queste strade, queste case, queste macchine che passavano...?”. E
lui mi ha detto: “Immagino cosa sta pensando. Lo penso anche io tutti i giorni che esco
di qui”.
Era impossibile che le persone non sapessero. Ma il problema è che tu sei così attanagliato dal terrore, perché noi siamo qui, uno di noi dice una cosa e il giorno dopo non
c’è più. Non ne sappiamo nulla, però sappiamo che non c’è più. Poco per volta si sta
non solo attenti a non dire più quella cosa, ma anche a tenere lontano chi potrebbe dire quella cosa. Questo crea una complicità col potere, un’omertà terribile, da cui nasce
il discorso della rimozione. La rimozione è anche conseguenza di un altro atteggiamento perverso, e molto intelligente dal suo punto di vista, della giunta, che ha cercato di estendere il più possibile le complicità. Per esempio, i militari che volavano
dall’ESMA nei voli della morte non erano sempre gli stessi: venivano presi in tutto il
Paese a rotazione, perché tutti si sporcassero le mani, così loro dicevano. E tutti fossero
tenuti al silenzio, perché erano colpevoli.
Il secondo figlio di Hebe è stato rapito e sequestrato da un cugino che faceva parte di
una squadra. Lo si è saputo dopo quattro o cinque anni. Hebe mi ha detto che, fino a
sei mesi fa, quando è morta la sua mamma, lei continuava ad andarla a trovare a La
Plata, che è una città vicina a Buenos Aires, e stava male perché in casa sua c’era questo signore, che era il figlio della sorella, e la mamma di Hebe non voleva ammettere le
sue responsabilità. Hebe se lo ritrovava a bere il mate, la cosa che loro bevono, e dev’essere stato terrificante. Non ne hanno mai parlato, ovviamente, perché come si fa a parlare di una cosa così?
Quando tu hai insegnanti che hanno denunciato degli studenti, quando hai un caporeparto che ha denunciato dei sindacalisti o degli operai, quando tutto è stato così sottile
e pervasivo che le persone, pur potendo provare a dirsi che non erano colpevoli perché
non hanno agito direttamente, in realtà non ci riescono fino in fondo, è come quando
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durante il nazismo e il fascismo si denunciavano gli ebrei. La gente non ha inventato le
camere a gas, non le ha azionate, ma ha fatto in modo che un anello scattasse, che una
deportazione avvenisse... Il discorso che fanno spesso i sopravvissuti della Shoà mette
in causa fino ai responsabili dei passaggi a livello: dicono che, se tutti questi treni della deportazione non avessero potuto andare sui binari d’Europa fino in quei luoghi, forse sarebbe cambiata qualche cosa.
Quindi più una società è coinvolta e più il livello di coscienza, di rifiuto della soglia che
ti fanno attraversare è basso, più probabilmente ti trovi di fronte a qualcosa che non
puoi far altro che rimuovere per lungo tempo: fino a che ritorna fuori poderosamente
come sta succedendo adesso.
Un’ultima cosa, brevissima, la volevo dire a proposito del tema della memoria, molto
interessante. Effettivamente, le madri hanno un modo non retorico di pensare alla memoria, proprio perché pensano che i figli continuino a vivere in quello che loro fanno,
e dicono che la memoria è viva: anzi, con queste immagini di maternità che usano sempre, loro parlano di “memoria fertile”. Dicono: “La memoria dei musei, dei mausolei,
dei monumenti è memoria statica; la memoria che rimette in circolo quello che i nostri
figli volevano è memoria fertile”. Per esempio: i figli lottavano nei barrios, nelle bidonvilles, perché non ci fossero bambini di strada; adesso le madri hanno vinto due premi
importanti, hanno avuto in Italia del denaro e questo denaro lo stanno usando per una
scuola per bambini di strada. Dicono: “Questo è il modo in cui noi facciamo la memoria, questa è la nostra memoria”.
Alessandra Peretti
Trovo che si tratti comunque di persone straordinarie, come si vede anche nel libro di
Daniela in cui dicono delle cose veramente fantastiche. Vi voglio leggere solamente un
episodio che è anche divertente, ma che fa capire come sono queste donne. Parla Hebe,
come al solito, e racconta che andò al carcere di La Plata, nel periodo in cui cercava di
sapere dov’erano stati portati i figli:
“un militare mi si parò davanti alla porta, cosa vuole? ho un figlio scomparso gli dico, e
so che qui ci sono trecento persone. Come si chiama? mi fa lui. Glielo dico, e mi risponde
che lì non c’è. Senti, gli faccio, se tu avessi la testa così buona da ricordarti il nome di tutti
quelli che sono prigionieri qui dentro, non ti lascerebbero di guardia alla porta. Mi ha fissato
con un odio incredibile e mi ha detto, se anche tuo figlio fosse qui, tu non entreresti”.
Una persona in questo stato che si precipita a cercare il figlio davanti al carcere ed è capace di una battuta così, è una persona straordinaria. Loro dicono: “Noi eravamo donne di cucina, è l’occasione che ci ha fatto diventare quelle che siamo”. Questo sicuramente è vero, ma c’è dell’altro. Hebe ha questa grinta che avete vista anche voi, ma ce
ne sono altre che dicono cose altrettanto forti. Veramente penso che sia una cosa affascinante conoscerle.
L’ora è tarda, ma immagino che molte di voi vorranno vedere la seconda parte dell’intervista.
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Seconda parte dell’intervista a Hebe de Bonafini
D. Il mundial è stato utilizzato come copertura da parte del regime?
R. Il mundial, che fu nel ’78, come tutti i mondiali di calcio nei paesi del terzo mondo fu
usato per coprire l’orrore. Il mundial alla dittatura servì per far sapere al mondo che andava tutto bene, che non c’erano scomparsi, anche se prima e durante il mundial ci fu
una quantità enorme di sequestri. Ma il mondiale servì anche per farci conoscere dal
mondo. La TV è un potente mezzo e gli olandesi, siccome era giovedì, invece di riprendere l’inaugurazione del mondiale vennero in piazza a filmare la marcia delle madres. E fu la prima volta che l’immagine delle madres girò il mondo, così il mondo poteva conoscerci, poteva sapere che c’era un gruppo di donne che urlava disperatamente
in piazza: “Noi vogliamo i nostri figli, ci dicano dove sono”. Così quel mondiale che
avevano preparato per mostrare al mondo che in Argentina non succedeva niente è servito anche per farci conoscere dal mondo. E c’era anche il lavoro di tutti gli esiliati in
Europa a dimostrare che cosa succedeva realmente in Argentina. Non era vero che andava tutto bene e che la dittatura era così buona, pulita, come tante persone pensavano. C’erano tanti paesi che vendevano armi al governo militare, lo approvavano e appoggiavano e facevano silenzio su quello che succedeva, perché gli serviva e perché c’erano contratti commerciali in mezzo.
D. All’inizio, quando cercavate i vostri figli, avete chiesto aiuto alla Chiesa, mi pare
in particolare a monsignor Grasselli.
R. Ovviamente, quando succedeva tutto questo, ognuno andava a vedere un sacerdote
amico. Nella chiesa Stella Maris, che è la chiesa della Scuola della Marina, c’era un sacerdote che si chiamava Grasselli, che apparentemente sapeva dov’erano gli scomparsi: allora noi siamo andate lì e lui, invece di dirci che cosa succedeva, ci estorceva informazioni. Era informatore diretto della dittatura e della Marina. Noi lo abbiamo denunciato, ma tuttora continua ad essere in libertà, perché è appoggiato dalla Chiesa. Tuttora
la Chiesa non ha voluto condannare tanti sacerdoti che hanno partecipato direttamente, e anche monsignor Grasselli. Per entrare lì ci facevano una perquisizione. Era una
cosa impressionante, noi non ce ne rendevamo conto per la frenesia di trovare i nostri
figli. Un giorno Grasselli ha detto a una madre che suo figlio era morto sotto tortura.
Allora noi abbiamo scritto una lettera al papa chiedendo come mai sapesse questa cosa. Il papa non ci ha mai risposto, e neanche Grasselli. E oggi monsignor Grasselli è il
confessore della scuola di Nostra Signora della Misericordia, una scuola di élite molto
grande di Buenos Aires, dove fa anche il professore. Ecco cosa fa questo assassino, questo torturatore perverso, tuttora sostenuto dalla Chiesa.
D. Nonostante il dolore per la scomparsa di ciascun singolo figlio, a un certo punto
avete teorizzato la socializzazione della maternità.
R. Come si possa sopportare questa cosa terribile che è la scomparsa di un figlio non si
può certo spiegare. Non me lo spiego nemmeno io. Noi madres non ce lo spieghiamo
ancora. Col tempo abbiamo cominciato a vedere che prima sparivano i nostri compagni, dopo c’erano madri che morivano, famiglie che non volevano denunciare la scomparsa del proprio figlio. Allora abbiamo deciso di socializzare la maternità, farci madri
di tutti: lasciare la foto del figlio, il nome del figlio in casa, e non portarlo né sul fazzo-
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letto né sul petto. Volevamo che tutti quelli che non avevano familiari che li rivendicassero fossero rivendicati da noi; così man mano, lentamente, non tutte allo stesso
tempo, siamo diventate madri dei trentamila. Abbracciando la loro causa, che era la
causa della libertà, della vita del loro popolo, abbiamo alzato la nostra bandiera. I nostri figli non li hanno portati via perché erano medici o avvocati o lavoratori o studenti. Li hanno portati via perché erano rivoluzionari. Allora noi siamo madri di tutti, rivendichiamo tutti, amiamo tutti, difendiamo tutti.
D. Che rapporto c’è nella vostra lotta tra azione legale e azione politica?
R. Noi madres non abbiamo abbandonato la legalità o la lotta legale o la giustizia.
Succede che l’azione legale deve essere accompagnata da un impegno politico, che la
denuncia legale deve avere molto più di politico che di giuridico. Noi non sapevamo
che è un habeas corpus, o Amnesty, o l’ONU. Quando abbiamo visto cosa succedeva e abbiamo cominciato a denunciarlo, abbiamo capito che non serve a niente. Che l’ONU arriva sempre tardi a tutto. La sola denuncia scritta non serve. E da allora abbiamo più fiducia nella mobilitazione, negli incontri, nelle assemblee, nella forza che uno mette nella denuncia e combiniamo il legale con il politico. Il politico c’entra con la scelta che noi
abbiamo fatto di non abbandonare un solo giovedì la piazza. Da 22 anni noi tutti i giovedì marciamo in piazza e tutte le denunce che facciamo nel mondo c’entrano con la
politica, e con quello che succede adesso, non solo quello che è successo prima: noi
uniamo tutto. Non è facile, ma si può.
D. Non accettare di dichiarare morti i vostri figli comporta anche una forma di lotta
giuridica?
R. La scomparsa forzata di persone è un delitto permanente, un delitto di lesa umanità
che non va in prescrizione, invece il crimine sì. Così noi madres non accettiamo la morte dei nostri figli, per poterli cercare sempre, mentre i governi sono molto interessati a
farci accettare la morte dei nostri figli. Se accettiamo il crimine, c’è la scadenza dei termini.
D. Quali appoggi avete avuto dai governi internazionali?
R. I governi internazionali all’epoca della dittatura sono stati molto complici. Noi abbiamo avuto la fortuna di venire in Italia nel ’78 ed essere ricevute da Sandro Pertini,
un uomo incredibile, intelligente, che amava la libertà, e fu l’unico presidente in quel
momento che ripudiò la dittatura militare e appoggiò la lotta delle madres. Molte volte
ancora lo abbiamo visto fino a che lui è morto, e sempre ci ha ricevuto. Ma molti altri
governi, anche se ci ricevevano, avevano un po’ di complicità con la dittatura. Abbiamo
ricevuto sempre aiuto dai popoli, però. I popoli sono stati capaci di aiutarci, come le
donne olandesi che sono state le prime e che hanno formato un gruppo di solidarietà,
e poi tutti i gruppi di appoggio che ci sono in tutto il mondo. Oggi abbiamo venti gruppi di appoggio in tutto il mondo, che sono quelli che organizzano i nostri viaggi, le nostre interviste, e che ci danno forza per andare avanti. In ogni paese ci sono migliaia di
persone che ci aiutano. Siamo seguite da molti popoli che hanno sofferto prima di noi
guerre, torture, persecuzioni, e che hanno capito rapidamente la nostra lotta e continuano ancora oggi ad appoggiarci. È molto importante, indispensabile, perché noi madres ci sosteniamo con la solidarietà in tutti i sensi, politicamente, economicamente, eticamente.
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D. Prima ha detto che all’inizio avete affrontato la dittatura pensando di non fare politica. Quando avete capito che si trattava di una forte azione politica?
R. All’inizio dicevamo: “Noi non facciamo politica, non vogliamo saperne”, ma non sapevamo che affrontare la dittatura era fare politica. Prima non volevamo riconoscere
questa cosa, perché era così sporca la politica, e poi invece ci siamo convinte che la politica non è sporca. Sono gli uomini che corrompono la politica. E abbiamo cominciato
a riconoscere che stavamo facendo politica con etica, con amore, con sentimento, senza
volere niente per noi, ma tutto per gli altri. Sono passati parecchi anni e adesso siamo
sempre più convinte che siamo un’organizzazione politica: senza partito, ma molto politica.
D. Prima diceva che avete ripreso l’azione politica dei vostri figli. In che modo?
R. Noi abbiamo cominciato a conoscere l’azione politica dei nostri figli. Non posso parlare per tutte le madres, per ognuna è stato diverso, con più o meno partecipazione; però
quando ci mettevamo insieme a parlare, quando parliamo ancora oggi, tutte diciamo lo
stesso, tutte siamo passate per le stesse cose. Come non ce ne siamo rese conto prima?
Prima non abbiamo visto questo e quello, e ora ricostruiamo l’amore per la politica dei
nostri figli e sentiamo che anche noi stiamo facendo una strada rivoluzionaria, senza
essercelo proposto, senza leggere libri. La gente pensa che noi abbiamo letto il marxismo, il trotzkismo, il maoismo; no no, noi non sappiamo niente di tutto questo.
Abbiamo letto altre cose, più semplici, magari leggiamo nel libro della vita, per la strada, con la gente, con i nostri compagni, e interpretiamo la lotta dei nostri figli partendo
dalle cose piccole, non dalle cose filosofiche. Per questo noi alziamo le loro stesse bandiere. Per questo noi li amiamo così tanto. Li amiamo come figli e come compagni.
Quello che ci è successo è unico nel mondo: essere compagne nella lotta dei propri figli rivoluzionari quando loro non ci sono più. È difficile, però è molto bello... Quando
hanno portato via i miei figli mi sono sentita vecchia di mille anni, ma adesso mi sembra di avere vent’anni meno di quella volta lì; non so perché, ma mi succede questo, e
credo che sia la lezione del nostro cammino. Penso che sia questo.
D. Nel vostro cammino politico siete diventate internazionaliste?
R. È un’altra cosa che abbiamo fatto senza renderci conto. Noi non abbiamo mai voluto il nazionalismo perché alle volte somiglia troppo al fascismo. È molto pericoloso.
Uno ama il suo popolo, la sua gente, ma io vorrei che non ci fossero le frontiere: di qua
è mio, di là è tuo. E per la prima volta siamo andate a Cuba e per la prima volta abbiamo sentito la forza di quel popolo, e poi siamo andate in tutti i paesi dove c’era conflitto. Siamo state in Palestina, in Perù quando hanno occupato l’ambasciata giapponese, siamo state in Cile, in Ecuador, in Bolivia, in Paraguay, in Venezuela, nei Paesi
Baschi, in quasi tutti i posti dove ci sono conflitti. Nelle Asturie siamo scese nelle miniere per vedere come vivevano i minatori. Questo è l’internazionalismo delle madres,
questa comprensione. Adesso siamo state a Belgrado, a fare gli scudi umani sul ponte.
Noi abbiamo capito che c’è da mettere il corpo e così siamo diventate internazionaliste,
mettendo il nostro corpo, percorrendo il mondo, accompagnando, aiutando. Siamo state con il movimento dei Sem Terra del Brasile, un movimento bellissimo, incredibile, libero, forte. Siamo state assieme a Marcos nella selva, in quella selva che ha tanto mistero, tanto dolore e tanta morte, ed è tanto dimenticata. Abbiamo conosciuto un uomo
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fantastico, realista, che ama quello che fa, che si sente solo. Molte volte si sente solo. E
siamo state con i comandanti zapatisti, abbiamo partecipato agli incontri che hanno fatto. Diventare internazionaliste ci ha fatto imparare tante cose, perché uno impara sempre, a tutte le ore, a tutti i momenti, per vedere che cosa possiamo fare, che cosa in più
possiamo fare. Quando siamo arrivate in un carcere della Bolivia in mezzo alle montagne, dove le madri non possono vedere i detenuti, dove buttano il mangiare per un buco, come se fossero animali, abbiamo visto che i repressori e i governi si somigliano tanto. Fujimori e Menem, Menem e Fujimori. Sono fatti della stessa pasta. C’è il capitalismo degli Stati Uniti che li appoggia e li sostiene, perché gli serve. Nel mio paese stanno costruendo più carceri che scuole. Hanno fatto una quantità enorme di carceri, vuol
dire che vogliono arrestarci tutti. Vuol dire che vogliono farci diventare sempre più
ignoranti, perché non ci sono progetti per l’educazione, ma miliardi per fare carceri.
Allora è molto facile capire che cosa vogliono fare con noi. Per questo c’è da lottare tutti i giorni, perché il nemico non si riposa.
D. Qual è il suo giudizio sull’attuale democrazia argentina?
R. I governi si chiamano democratici perché il mondo si è abituato che democrazia è
votare. C’è il parlamento, c’è democrazia. Il parlamento argentino è una pozzanghera
di acqua fetida, e il governo Menem è un governo di mafiosi che gestiscono il gioco, la
prostituzione, che trafficano armi e che sono sottomessi agli Stati Uniti, al Fondo
Monetario Internazionale. C’è da capire che la democrazia è quando tutti abbiamo lavoro e libertà, casa, salute e educazione. La democrazia non è solo votare, almeno nel
nostro paese, perché i governi assomigliano tanto alle dittature; allora quando uno vota gli dà la possibilità di rubare per quattro anni ancora, di truffare per quattro anni ancora, di dire bugie per quattro anni ancora. Scegliere in realtà non è votare, perché noi
dobbiamo votare un candidato che non abbiamo scelto, almeno così succede da noi. Un
giorno vedi una faccia sul muro: “Vota il tale”. Ma chi è questo qua? Io non l’ho mai visto. E poco dopo è in una lista elettorale e già devo andarlo a votare. E perché? Io non
lo voglio. Non so chi è. La gente è molto confusa. Democrazia non è votare. Democrazia
sono tante cose insieme, ma soprattutto è libertà. È non vedere migliaia di bambini che
vivono, mangiano e muoiono nelle strade di Buenos Aires, e prima questo non succedeva. Questa piaga della droga è imposta dagli stessi Stati Uniti, che è il paese che più
traffica droga, perché vuole che i giovani non abbiano progetti, quegli stessi giovani che
la società emargina, che la società espelle dal sistema. La sola cosa che gli danno è birra da bere e droga. Un giovane drogato non sarà mai un rivoluzionario, non disturberà
mai. Allora gli serve tanto che la droga si spanda, aumenti, la mettono alla portata di
tutti. Nel mio paese, i bambini si drogano perché hanno fame e quando consumano
droga la fame passa. Noi siamo molto addolorate per questo e non sappiamo cosa fare.
Cosa possiamo fare con così tanti bambini, espulsi dal sistema, obbligati a prostituirsi?
Poco tempo fa un uomo di una provincia molto povera ha parlato in piazza. Aveva cinquant’anni, pareva che ne avesse novanta, era senza lavoro e piangendo ci ha detto:
“Sapete, madres, nelle nostre case quelli che portano il denaro sono i bambini, perché si
devono prostituire, vendere i loro corpi per portare da mangiare a casa, perché la mia
donna e io abbiamo più di quarant’anni e non riusciamo a trovare lavoro”. Uno deve
vergognarsi di questa cosa quando la ascolta, perché dall’altra parte ascolta i miliardi
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che si spendono per le guerre, per i missili, per le armi, per comprare un giocatore di
calcio. È terribile, è un mondo molto perverso.
D. Che significato hanno avuto le leggi del “Punto finale” e dell’“Obbedienza dovuta”?
R. Durante la dittatura ovviamente non c’era giustizia, governavano i dittatori. Ma dopo nemmeno, perché c’è stata una complicità tra dirigenza politica e dittatura, e anche
se il governo di Alfonsín, il primo governo democratico, promise di condannare
(Jaroslavsky, un uomo del governo, disse queste parole: “Le condanne saranno così forti che sembreranno vendette”), nonostante questo non ci sono state condanne, perché
gli stessi radicali hanno fatto due leggi: dell’Obbedienza dovuta e del Punto finale.
Obbedienza dovuta significa che colui che aveva ricevuto l’ordine di ammazzare, torturare, rubare, fucilare, violentare, siccome aveva ricevuto un ordine non doveva andare in carcere. E il Punto finale era chiudere con tutti i processi, non si può più condannare nessuno.
Mentre tutti chiedevano che venissero condannati gli assassini, una giudice molto amica di Massera, dell’assassino Massera, disse: “Cominciamo a fare un processo per il sequestro dei bambini”. Sono stati presentati degli esposti e alcuni militari sono agli arresti domiciliari per il sequestro di tre bambini, quando in realtà hanno distrutto tre generazioni. Migliaia di famiglie sono rimaste abbandonate a se stesse dopo il sequestro
dei figli: abbandonate non economicamente, ma dal punto di vista affettivo. Siamo stati privati di questo piccolo progetto di vita che avevamo con i figli, la nostra famiglia.
E loro hanno distrutto tutto questo.
D. Il regime argentino ha approntato un potente apparato di repressione: prima parlava di più di trecento campi di concentramento. Che cosa sono stati questi campi di
concentramento e in particolare l’ESMA?
R. I campi di concentramento in Argentina avevano diverse forme. C’erano campi di
concentramento in commissariato, quelli piccoli, di settanta, ottanta persone, e c’erano
i campi di concentramento dentro l’esercito, dentro la Marina. La Scuola di Meccanica
della Marina fu il campo di concentramento più grande. C’erano anche cinquemila persone in condizioni tremende. Li torturavano per giorni e giorni. Quando arrivavano
donne incinte i sequestratori prendevano i loro figli. Da lì uscivano i voli della morte.
Questa idea dei voli della morte fu un’idea della Marina Militare: prima l’esercito li gettava nel Rio de la Plata in un posto che si chiamava Punta dell’Indio, ma i corpi ricomparivano rapidamente. Poi hanno deciso di buttarli a mare, con i piedi in un blocco di
cemento a presa rapida.
I campi di concentramento in Argentina erano una cosa sconosciuta. Li conoscevamo
per il tema del nazismo, con gli ebrei, ma non pensavamo che venissero fatte ai nostri
figli le stesse torture. Noi non raccontiamo le torture che hanno subito i nostri figli perché sentiamo che così li torniamo a violare, è una cosa troppo intima. Posso dirvi che i
nazisti tedeschi e i nazisti argentini hanno fatto le stesse cose. Anzi, qualcuna di più raffinata, perché gli Stati Uniti hanno raffinato la forma delle torture. Quando noi madres
abbiamo cominciato a sentire non volevamo crederci. Addirittura portavano per divertimento dei giovani a delle feste della polizia, della marina, dell’esercito, dove erano
torturati, violentati. Erano così criminali, così torturatori. E questo fu la Scuola della
Meccanica della Marina.
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LE BOSNIACHE
Partecipano all’incontro (10 marzo 2006):
Andrea Pieroni, Presidente della Provincia di Pisa
Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia
Nadira Sehovic, giornalista, Sarajevo
Irfanka Pasagic, psichiatra, Srebrenica/Tuzla
Liliana Zufic, interprete, Bologna
Andrea Pieroni
Questa è la terza tappa di un percorso che l’Amministrazione, in particolar modo
l’Assessorato alla Pubblica Istruzione insieme al Centro per la didattica della Storia e
all’Associazione Casa della Donna, hanno programmato in un arco temporale che non
casualmente è caduto intorno all’8 marzo. L’intenzione è stata quella di ricordare e fare luce su storie che hanno interessato le donne, vicende storiche che sono ancora vicine e magari non hanno avuto talvolta la fortuna di essere trattate con la dovuta informazione, con gli spazi adeguati, come negli ultimi anni abbiamo fatto parlando della
Resistenza che si è sviluppata in Italia nel periodo fra il ’43 e il ’45. Quindi queste iniziative hanno acceso alcuni riflettori sul ruolo della donna in contesti storici particolarmente difficili, segnati anche da momenti di guerra civile, momenti drammatici in cui
ci sono stati eccidi. I riflettori si sono accesi sulla storia nostra, delle donne italiane, sulla storia delle donne argentine con le madri di Plaza de Mayo, e oggi affronteremo
un’altra storia, ancora più recente nel tempo, quella appunto della resistenza o comunque delle vicende delle donne bosniache.
Di queste vicende abbiamo qui due testimoni dirette, due protagoniste, la dottoressa
Irfanka Pasagic, psichiatra, nata a Srebrenica e che vive e opera a Tuzla, e la giornalista
di Sarajevo Nadira Sehovic. Le saluto e le ringrazio a nome dell’Amministrazione
Provinciale e di tutta la comunità pisana, per la loro disponibilità, per averci dato l’opportunità stasera di ascoltare una testimonianza dalla loro viva voce. Ricordo che la
dottoressa Pasagic è stata deportata nel corso delle varie ondate di pulizia etnica che si
sono tenute nell’ex Jugoslavia e poi, dopo varie traversie, è rientrata nella città bosniaca di Tuzla. Io, tra l’altro, proprio l’anno scorso in primavera sono stato a Tuzla perché
noi, come Amministrazione provinciale, abbiamo dei progetti di cooperazione con le
amministrazioni comunali di Tuzla e Smederevo, per l’attività di programmazione urbanistica e territoriale. Quindi abbiamo messo a disposizione dei tecnici, nell’ambito di
un progetto finanziato anche attraverso i fondi della cooperazione, e diamo una mano
agli uffici tecnici di pianificazione urbanistica di quelle realtà per programmare il territorio. Ce n’è bisogno dopo vicende così tragiche.
La dottoressa Pasagic opera appunto in questa città che ho avuto la possibilità di visitare poco meno di un anno fa ed è protagonista di progetti importantissimi dal punto
di vista umanitario, di solidarietà, che riguardano soprattutto i bambini, perché grazie
a lei è nato un progetto di adozione a distanza che in questi anni è riuscito a dare una
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famiglia ad oltre 800 bambini e bambine e a dare una casa a molti orfani. Molti di questi poi sono riusciti, sempre attraverso il suo impegno, a trovare anche un posto di lavoro. Questo è il segno di un impegno forte, di una motivazione convinta, segnata ovviamente da vicende tragiche, ma che ha trasformato il dolore e la sofferenza per aver
vissuto certe vicende in una spinta positiva in favore appunto dei bambini, che sono
poi le vittime più innocenti, ma anche le vittime principali dei conflitti e delle guerre
che purtroppo ancora insanguinano il nostro pianeta.
Quindi nuovamente torno a salutarle e le ringrazio per essere qua stasera a portare il
loro messaggio e la loro testimonianza.
Alessandra Peretti
Riprenderei dall’inizio, per dire che il titolo di questo ciclo di incontri - le resistenze delle donne, ne abbiamo parlato anche due settimane fa - va inteso in un senso più ampio
di quello originario, che abbiamo conosciuto innanzitutto come riferito alla Resistenza
italiana armata. Vogliamo alludere piuttosto ad un significato che si è imposto anche
dal punto di vista storiografico più di recente, che è quello di “resistenza civile”.
Quando si usa questo termine ci si riferisce soprattutto a quell’atteggiamento che, in situazioni di guerra o di oppressione, sa ricorrere al coraggio morale, all’inventiva, alla
capacità di creare rapporti, per soccorrere chi ne ha bisogno, per contrastare la violenza che spesso viene da più parti e che crea quelle distruzioni a cui certo non solo le donne, ma in particolare le donne cercano di porre riparo. Questo è avvenuto in epoche diverse in varie parti del mondo, e noi, quando abbiamo parlato della Resistenza italiana, il primo giorno, abbiamo messo l’accento non tanto sulla resistenza armata, quanto
su questo altro tipo di resistenza, a partire dalle immagini delle donne di Carrara che
seppero nel luglio del ’44 impedire l’evacuazione della città, marciando da Piazza delle Erbe fino al comando tedesco. Poi, la volta scorsa, abbiamo parlato delle madri dei
desaparecidos, come altra testimonianza forte di resistenza civile.
Oggi parliamo delle donne di Bosnia e delle loro diverse forme di resistenza all’interno di quella tragedia che negli anni ’90 ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa, con
la dissoluzione della Jugoslavia. Io non ho intenzione di rievocarne le tappe, sia perché
penso che siano largamente conosciute, sia perché questo ci porterebbe fuori strada e
anche fuori tempo. Ricordo solamente alcune date essenziali. Si cominciò con la dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia nel 1991, a cui rispose la secessione
dei serbi di Croazia e l’intervento dell’esercito serbo. Nel 1992 l’analoga dichiarazione
di indipendenza della Bosnia diede inizio a una catena ininterrotta di violenze e massacri che si concluse solo alla fine del 1995, con gli accordi di Dayton e la divisione del
paese in due parti, una serba e una musulmano-croata, di cui appare difficile e lunga la
normalizzazione.
La guerra di Bosnia, che è stata la più sanguinosa fra quelle che si sono sviluppate dalla dissoluzione della Jugoslavia, è risultata particolarmente drammatica proprio perché
quella regione era caratterizzata da una composizione multietnica, multireligiosa e
multiculturale di cui gli stessi bosniaci hanno un’appassionata nostalgia, quando ne
parlano a partire dalla situazione di oggi: nostalgia che emerge al di là di tutto quello
che di negativo si può dire sul mondo di allora. Proprio la passata tranquilla convi-
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venza tra culture diverse è quello che rende più doloroso il ricordo, anche se naturalmente la guerra ha lasciato strascichi ben più gravi dal punto di vista materiale.
Di tutti gli episodi terribili che hanno caratterizzato questa guerra, due mi sembra che
assumano una specie di valore simbolico e sono qui rappresentati dalle nostre ospiti.
Nadira Sehovic è stata per tre anni e mezzo sequestrata a Sarajevo, durante l’assedio di
cui si dice sempre - con una formula ormai abusata, ma non meno vera - che è stato il
più lungo assedio della storia moderna. Più di 3 anni, 1.350 giorni: l’assedio di
Leningrado, durante la seconda guerra mondiale, era stato molto più breve. Nadira ha
documentato l’assedio anche dal punto di vista professionale, nel senso che è collaboratrice dell’ANSA.
La resistenza delle donne all’interno di questa situazione è stata una resistenza che loro hanno condiviso senz’altro con gli uomini, ma che ha avuto anche degli aspetti specifici, di cui credo vi parlerà Nadira. Io voglio ricordare solamente che, al di là di una
resistenza civile che consisteva - oltre che nel soccorrere chi ne aveva bisogno – soprattutto nel procurarsi i mezzi per la sopravvivenza dei propri cari, c’è stata tra le donne
di Sarajevo una forma di resistenza più specificamente femminile, e cioè il continuare
a mettersi il rossetto o a vestirsi eleganti, anche quando si era costrette a trascinare i carretti con le taniche piene d’acqua su per le salite della città, o si faceva la fila per la spesa sotto le granate.
Questa attenzione alla difesa della propria dignità femminile sotto le bombe, che può
sembrare cosa minore, io l’ho trovata espressa anche in un libro di una scrittrice croata
che ha vissuto la guerra stando a Zagabria, quindi sicuramente in una situazione molto meno drammatica. Si chiama Slavenka Drakulic e mi è molto cara perché è stata la
prima che mi ha fatto capire che la guerra in Jugoslavia era una guerra in casa nostra.
È lei che coglie da un particolare in apparenza insignificante l’offuscamento delle coscienze che la guerra provoca, senza che nemmeno ce ne accorgiamo: “quando cominci a pensare del tutto innocentemente – dice - che un’amica profuga non abbia più bisogno di scarpe col tacco alto”. Certo, ci sono state degradazioni dei livelli di umanità
ben più gravi, ma la nostra precaria normalità si riconosce più facilmente in piccole cose come queste.
La seconda resistenza, di cui vi parlerà invece Irfanka Pasagic, è quella tragica delle
donne di Srebrenica che sono rimaste sole a migliaia, spesso coi figli piccoli, dopo il
massacro di 8.000 uomini: padri, figli e mariti. Costrette a fare i conti col dopo, con la
necessità di superare quei traumi terribili e di riprendere a vivere pur mantenendo la
difficile e precaria identità di profughe: perché, come sapete, le donne di Srebrenica vivono per la maggior parte altrove.
Di Irfanka Pasagic vi ha già parlato il presidente. Nata a Srebrenica, profuga a Tuzla dopo le prime deportazioni del 1992, Irfanka è rimasta lì a dirigere un centro, Tuzlanska
Amica, che lavora con le vittime della guerra e dei lager. Lei ci parlerà di una resistenza che, dopo i massacri, coinvolge anche i bambini, ormai cresciuti e diventati giovani
adulti, ed interi gruppi familiari sopravvissuti: gli oltre 250.000 profughi che vivono in
condizioni molto precarie nel distretto di Tuzla e Srebrenica. Ma Irfanka rappresenta
anche la resistenza di quelle donne che, come lei, hanno offerto alle vittime l’assistenza sanitaria, psichiatrica e materiale per permettere che questa sopravvivenza avvenis-
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se. L’anno scorso le è stato assegnato il Premio internazionale Alexander Langer per le
attività del centro: come diceva il presidente, una di queste, forse quella che ha avuto
maggiore eco da noi, è la promozione di adozioni a distanza. Dice, tra l’altro, la motivazione del Premio Langer: “Nella sua lunga esperienza con le donne e i bambini traumatizzati ha ascoltato centinaia di storie terribili, eppure non c’è mai rancore nelle sue
parole, neanche quando parla di chi occupò la sua casa. Ogni volta che qualcuno le
chiede della situazione in Bosnia, Irfanka risponde: ‘vieni a vedere’”.
È per noi, quindi, un grande onore che sia venuta lei a trovarci oggi .
Prima di cedere la parola alle nostre ospiti vorrei ricordare anche che la volta scorsa,
parlando del nostro rapporto con l’Argentina, avevo fatto un parallelo con la Bosnia.
Non solo perché i due paesi hanno in comune le terribili immagini delle fosse comuni
e della riesumazione di cadaveri, ma anche perché sono stati allo stesso tempo per noi
così lontani e così vicini. Ciò vale tanto di più per la Bosnia e per Sarajevo, che è a meno di un’ora di volo dall’Italia. Eppure, mentre volontari e corrispondenti hanno per
anni descritto quello che succedeva lì – e nonostante il grande impegno che c’è stato dal
punto di vista umanitario, per soccorrere le vittime - noi abbiamo continuato a considerarlo un altro mondo, se non addirittura qualcosa che non ci riguardava. Vorrei citare in proposito di nuovo Slavenka Drakulic: “Allo stupore subentra la rabbia, poi la rassegnazione di fronte al modo in cui l’Europa percepisce questa guerra: ‘conflitto etnico’, ‘antica eredità di odi e di massacri’. L’Occidente ci sta dicendo: ‘Voi non siete europei, neanche europei dell’est. Siete balcanici. Esseri mitologici pericolosi, selvaggi.
Uccidetevi tra voi, se vi piace. Noi non capiamo di che cosa si tratta, e comunque non
abbiamo un interesse politico preciso da proteggere’”.
Io non voglio insistere, come ho fatto l’altra volta a proposito dell’Argentina, sul senso
di colpa, che a posteriori può essere anche un comodo alibi. Non posso fare a meno
però di ricordare che la guerra in Jugoslavia ha ridato attualità a parole e cose come genocidio, campi di concentramento, stupri etnici, città bombardate. Ci ha portato a chiederci cosa avremmo fatto se avessimo saputo prima quello che succedeva ad
Auschwitz, se avessimo potuto vedere le immagini del ghetto di Varsavia o della rampa di Birkenau dalle nostre comode poltrone televisive. Purtroppo per quattro anni, a
parte la generosità umanitaria dei volontari, non abbiamo fatto niente.
Ora inviterei a parlare, per prima, Nadira Sehovic. Poi ci sarà un breve filmato che mi
sembra ci possa introdurre al tema delle donne di Srebrenica, e infine sentiremo Irfanka
Pasagic.
Nadira Sehovic
Il tema di oggi mi pone qualche difficoltà. La distinzione che Alessandra ha fatto all’inizio e che normalmente si fa, tra resistenza armata e resistenza civile, è un po’ difficile da applicare a Sarajevo, non perché chi resistette a Sarajevo - in primo luogo donne,
parliamo delle donne oggi, ma anche in generale - facesse qualcosa di particolare: è che
la situazione dell’assedio di Sarajevo era veramente fuori dal comune. Anche rispetto
alle guerre degli ultimi tempi e del secolo precedente, forse.
L’unica forma di vera resistenza civile, non soltanto delle donne, di tutta la città, si
esaurì nei primi due giorni di assedio. Le armi d’artiglieria furono disposte intorno al-
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la città. Per chi non lo sa devo precisare che Sarajevo è situata in una conca molto stretta, circondata completamente dalle montagne; e quindi chiudere questa città, che poi
non è nemmeno tanto grande - prima della guerra aveva poco più di 400mila abitanti,
arrivava a mezzo milione con tutti i dintorni - è stato estremamente facile. Inoltre,
quando sparavano sulla città, si è trattato più di un tiro a segno che di quello che la parola “assedio” potrebbe eventualmente far venire in mente.
Vi confesso - faccio una digressione - che, dopo l’assedio, quando sono andata per la
prima volta sulle colline intorno alla città, o semplicemente in periferia, e ho visto
quanto bene si vedeva a occhio nudo l’incrocio dove passavo tutti i giorni, mi sono spaventata per la prima volta davvero. Quando l’assedio è cominciato molta gente è uscita per le strade protestando, manifestando per la pace. Le manifestazioni sono durate
due giorni e una notte, i manifestanti sono entrati pure nel Parlamento, sono arrivati
anche dei gruppi da altre città della Bosnia: e non è servito a niente. Forse non a caso la
prima vittima, visto che parliamo di donne, è stata una donna: una ragazza di 23 anni,
una studentessa, neanche sarajevese, era di Dubrovnik, studiava medicina a Sarajevo.
Sui manifestanti hanno sparato i cecchini, ed è cominciata così, sono cominciati i bombardamenti.
Tutto quello che è arrivato dopo io non penso di poterlo chiamare né resistenza armata, né resistenza civile; credo comunque - questa è una delle poche convinzioni che ho
- che la città sia sopravvissuta, sia riuscita a sopravvivere mantenendo dei valori umani grazie soprattutto alle donne.
Vorrei raccontarvi brevemente la storia di un’amica che non c’è più. Si chiamava Fadila
e aveva 40 anni, era medico-dentista. Fino alla guerra lavorava a Zenica, che è a un’ora di autobus da Sarajevo. Viveva a Sarajevo con due figli, il marito e la suocera, e quando i serbi di Karadzic strinsero il cerchio attorno alla città, ovviamente non poté andare più a lavorare. Si diede volontaria alle nascenti Forze armate bosniache, che poi chiamarle “armate” è veramente un eufemismo perché di armi ce ne erano ben poche. In
ogni caso, l’ho incontrata diverse volte che attraversava più di mezza città sotto le bombe, per arrivare nel quartiere vecchio di Sarajevo, in collina, praticamente sulla linea del
fronte, sulla linea di difesa della città. Una volta, all’inizio del ’94, uscì pure sul monte
Igman, dove c’erano altre unità delle Forze armate governative, attraversando quindi
il tunnel costruito sotto la pista dell’aeroporto, che era sotto il controllo delle Nazioni
Unite e che era l’unico sbocco, l’unico respiro di Sarajevo. Però non era un tunnel: era
un cunicolo basso, pieno d’acqua, che era molto difficile da attraversare. Poi, all’uscita,
si entrava in una trincea solitamente piena di fango e di acqua, che veniva costantemente bombardata dalle colline intorno. Quindi seguiva un lunghissimo viaggio a piedi: e lei lo fece. E tornò indietro. In città camminava, andava dappertutto, sempre a piedi, e questo significava esporsi a maggiori pericoli, nonostante in tutta la città non ci
fosse un solo angolino in cui uno potesse veramente contare di essere protetto, di stare
riparato. Forse il caveau della Banca Centrale, quello magari era abbastanza sicuro, tutto il resto no.
Ovviamente camminare tanto e muoversi molto per le strade aumentava i rischi. In tutto questo è riuscita a restare illesa. Ma un giorno è tornata a casa, era il febbraio ’94,
stranamente era arrivata un po’ d’acqua e quindi si è affrettata a lavare i panni. L’ha fat-
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to, nonostante fosse molto stanca, ed era felice, era contenta di averlo fatto. Andava su
e giù dalla cucina al soggiorno e continuava a dire: “Che bello, ho fatto tutto. Adesso,
quando si asciuga, ... oddio, forse arriverà anche un po’ di luce, di elettricità, e quindi
potrò anche stirarli”. In quel momento, attraverso la finestra senza vetro, che non c’era
più, dal quartiere di Grbavica, di fronte, è arrivato un colpo di snajper, e lei è morta davanti alle sue due figlie.
Ora io non so se è una vittima civile o se è una vittima militare: certamente per me è caduta sul campo, per dirla con linguaggio militare, e sul campo forse più importante.
Perché gli uomini per la maggior parte erano stati chiamati alle armi - a quelle poche
che c’erano, di solito erano in tre a dividersi un fucile - in ogni caso erano alle armi.
Andavano sulla linea di difesa, stavano in trincea, molti sono morti, per carità... Però
quelle che davano la forza a tutti erano le donne, che riuscivano, con sforzi veramente
sovrumani, a mantenere almeno una parvenza di vita normale, per la famiglia e per la
comunità. Come fosse il vivere quotidiano a Sarajevo io non sono sicura di riuscire a
raccontarvelo. A ripensarci, anche a me non sembra possibile, non mi sembra neanche
vero di aver vissuto certe situazioni.
Mi ricordo che sui giornali, dappertutto, si scriveva che a Sarajevo non c’era acqua, non
c’era gas, non c’era luce. È brutto da leggere o da sentire. Non so quanti siano in grado
di immaginare che cosa voglia dire veramente. Non si tratta soltanto di fatica fisica; e
qualche generazione fa la gente magari non aveva l’acqua in casa, e soprattutto non l’elettricità o il gas, o l’aspirapolvere, o il frigorifero, ma si era adattata ad un certo modo
di vivere.
Nelle nostre case non c’erano stufe. I primi giorni, quando è mancata l’elettricità e il
gas, le donne si sono organizzate: nei grandi condomini, sui pianerottoli sono apparse
delle cucine a legna. Poi non è detto che bisogna bruciare solo legna, anche le scarpe
bruciano molto bene. Con una scarpa da uomo si può cuocere un bel pane, nel forno di
una cucina a legna. Non so come... non mi sembra vero che per tre anni e mezzo io per
prima ho mangiato il pane cotto sopra una scatola di biscotti Pavesi: ci tenevo prima i
fili e gli aghi per cucire. L’ho svuotata ed in quella scatola di latta accendevamo il fuoco, con dei ramoscelli, carta, pezzettini di moquette, di tutto, per cuocere un pane, piccolo ovviamente, che ci dividevamo in quattro, ed era quella la cena. Il modo di organizzarsi, le ricette che le donne inventavano sono una cosa straordinaria. Immaginate
la maionese fatta con la farina e l’acqua: ovviamente non c’entrava niente con la maionese, però si chiamava così. Era qualcosa di diverso, sembrava diverso perlomeno, un
po’ di suggestione aiutava pure. In più l’esercito, queste Forze armate di difesa, oltre a
non essere armate granché, non avevano equipaggiamento, non esistevano le caserme.
C’erano quelle dell’Esercito federale, ma erano costantemente bombardate e mezze distrutte. Quindi i soldati che stavano sulle linee del fronte, magari per 48 ore, poi tornavano per 48 ore a casa ed erano sempre, ovviamente, le donne che li accoglievano, che
lavavano le uniformi o i vestiti infangati in trincea, inoltre si occupavano dei figli e lavoravano. A tutto quello che in città funzionava, ci lavoravano soprattutto le donne.
Non so quanto possa descrivere questo terribile periodo a chiunque non l’ha visto. Una
volta mi è successo che mi hanno chiesto di parlarne, mi hanno chiesto come, per esempio, riuscivo a preparare da mangiare: come facevo un uovo al tegamino, la mattina,
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per preparare la colazione, o come riscaldavo il latte. Mi sono resa conto che effettivamente era molto difficile anche capire, oltre che per noi spiegare, perché quel concreto
problema non si era mai posto: non abbiamo visto, per tre anni e mezzo, né latte, né uova. Era questo il punto. Eppure, con tutto quello che è successo, con tutto quello che si
è vissuto - vi ricordo che a Sarajevo ci sono stati 12mila morti in quei tre anni e mezzo
di assedio e di bombardamenti, e tra questi 1.500 sono i bambini - a ripensarci (io l’ho
chiesto a molte amiche a Sarajevo) di tutto quel periodo la prima cosa che ci viene in
mente non sono le morti, neanche quando si tratta dei propri cari, non sono i bombardamenti, non è il freddo e ancora meno la fame. È quel terribile senso di umiliazione e
quell’averci voluto proprio far sentire non umani, non degni di una vita appena dignitosa. Ed è forse per questo che le donne cercavano di mostrare la propria resistenza anche provando a vestirsi in modo più o meno elegante, o a truccarsi. Non è solo questo,
ma il tentativo di mantenere quel minimo di dignità che ci volevano assolutamente
prendere. Credo che non ci siano riusciti, ecco.
Alessandra Peretti
Ora io farei una breve proiezione, così decantiamo anche un po’ di emozioni, e poi passiamo alle emozioni di Irfanka.
Do per scontato che tutti conoscano questo film perché ha avuto anche una diffusione
televisiva. È un film collettivo, composto da 11 brevi filmati di 11 minuti, di 11 registi
diversi, ciascuno dei quali ha rappresentato a modo suo l’11 settembre 2001, cioè il giorno delle Twin Towers. Vedremo il pezzetto dedicato alla Bosnia, che ha come protagoniste le donne di Srebrenica nel giorno dell’11 settembre 2001.
Proiezione dell’episodio Bosnia di Danis Tanovic, dal film 11 settembre 2001
Alessandra Peretti
Io non so quanto le nostre amiche bosniache abbiano ritrovato di reale in questo film
che, evidentemente, è un film, non un documentario. A me sembrava che fosse comunque suggestivo rispetto al tema che oggi volevamo affrontare. Adesso parlerà
Irfanka Pasagic. Ci farà da interprete Liliana Zufic, che lavora a Bologna da tanti anni,
collabora con l’associazione Tuzlanska Amica ed è soprattutto una grande amica di
Irfanka.
Irfanka Pasagic
Liliana odia tanto di essere definita un’interprete, ed io sinceramente non la ritengo
un’interprete, la ritengo un’aggiunta alla mia voce.
Devo dire che ho visto questo film per la prima volta e sono un po’ arrabbiata, ma vi
dirò dopo il perché.
Tutte le volte che ne parlo, io ricordo un mio pensiero veramente stupido, che ho avuto all’inizio di questa guerra. Prima della guerra vivevo una vita normale, però mi mancava sempre il tempo. Quando ho visto i primi profughi che venivano a Dubrovnik, ho
pensato: “Vedi, adesso loro sicuramente avranno tantissimo tempo da dedicare alla lettura, a fare delle cose.”. Forse sta proprio nella psiche della persona il rifiuto di accet-
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tare che la guerra, o l’essere profugo, porti in realtà moltissime cose brutte. Sebbene ci
possiamo rendere conto, man mano che il tempo passa e analizziamo le cose, che c’erano degli avvisi che potesse succedere una guerra, allora noi non ci credevamo. Io so
che ciascuno di voi ha un posto che ama, dal quale magari vede la TV; se qualcuno ve
lo prende, o si siede prima di voi, certo vi dispiace. Diventare profugo vuol dire perdere tutto: perdere il lavoro, perdere il tuo ambiente, e anche la sedia dove stavi seduto volentieri.
Io so che, dopo il primo esodo da Srebrenica, quando sono arrivata a Tuzla, mi sentivo
davvero perduta e la sensazione più brutta che si può avere in circostanze simili è quella dell’impotenza che si era impadronita di tutti i profughi. In situazioni di questo tipo
l’unica cosa che ci rimane, magari, è sedersi e piangere sul destino, oppure tirare fuori
il meglio di sé e cercare di fare qualcosa. Io, come una grande parte delle donne di Tuzla,
ho cercato di fare qualcosa. Noi tutte eravamo consapevoli che non potevamo fermare
la guerra, però potevamo almeno alleviare le conseguenze che aveva provocato.
All’inizio della guerra a Tuzla sono arrivate moltissime donne violentate e all’epoca io
ero l’unica donna psichiatra sul territorio di Tuzla, ero l’unica che aveva una formazione in psicoterapia. Allora ho organizzato un gruppo di mie colleghe: ero la formatrice e
anche la supervisor e abbiamo iniziato a lavorare nei campi profughi con queste donne.
Il lavoro era veramente duro perché, dato il nostro isolamento, avevamo pochissime conoscenze riguardo allo stress post-traumatico e pochissima esperienza in questo lavoro;
però le donne con le quali lavoravamo riconoscevano che quello che stavamo facendo
con loro era molto utile e venivano ai nostri incontri. Alcuni anni dopo che la guerra era
finita, ho raccontato questo nostro lavoro a un incontro di esperti europei e sono rimasta molto meravigliata di sapere che, praticamente, la nostra esperienza era una delle
poche di questo tipo, di lavoro psicoterapeutico durante la guerra. Sembrava veramente impossibile fare un lavoro di psicoterapeuta seguendo tutte le regole, nelle condizioni di fame e di disagio in cui si trovavano le profughe, con gente che non aveva un posto dove andare. Noi abbiamo dimostrato che lavorare anche in queste condizioni, anche durante la guerra, era possibile e questo nostro lavoro è stato pubblicato dalle psicologhe e psicoanaliste di Bologna in un libro, che si chiama Trauma di guerra.
Per quanto riguarda le donne bosniache, una famiglia tradizionale bosniaca era composta dal maschio, che lavorava e manteneva la famiglia, e dalla donna, che era quella
che si occupava della famiglia. Non esistevano in Bosnia, all’epoca, associazioni femminili, esisteva soltanto un’associazione di donne molto vicina al Partito - il Partito
Comunista - che si chiamava Fronte antifascista delle donne; però spesso quando qualcuno chiacchierava troppo, o parlava troppo, gli si diceva: “Ma tu sei come quelle del
Fronte antifascista delle donne”.
Per quanto riguarda le organizzazioni umanitarie, solo le organizzazioni di carità lavoravano. Posso dire che soltanto durante la guerra, quando le donne sono rimaste sole, senza alcun sostegno, ci siamo resi conto delle forza delle donne bosniache. Nella situazione in cui si trovava la Bosnia-Erzegovina all’epoca, penso che nessun tipo di movimento pacifista avrebbe avuto dei risultati, quando si sparava da tutte le parti e si
moriva dappertutto, e nessuno poteva uscire fuori dalle case. Però è veramente affascinante che le donne, nella situazione in cui si sono trovate, col cambio dei ruoli, siano
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diventate quelle che dovevano non soltanto occuparsi della famiglia, ma anche mantenerla, provvedere alla famiglia. E che siano riuscite ad adempiere questo ruolo, e quindi anche ad alleviare tutto il disastro che la guerra aveva portato con sé.
Tutte noi, almeno quelle che volevamo riflettere sulle cose, abbiamo comunque concluso che, anche se era molto difficile, dovevamo continuare a vivere insieme. In tutti i modi abbiamo cercato di mantenere le relazioni. E uno dei modi per mantenere anche durante la guerra le relazioni tra le donne dell’ex Jugoslavia, in particolare con le donne
del Kosovo e anche della Serbia, era il progetto Ponte di donne attraverso i confini, realizzato con l’aiuto delle donne di Bologna. Se poi pensiamo che il ‘93, quando è iniziato
questo progetto, era il periodo più sanguinoso della guerra, ci possiamo rendere conto
che è stato veramente molto coraggioso farlo.
Per quanto riguarda Srebrenica, la tragedia di Srebrenica non è successa nel ’95,
Srebrenica è successa nel ’92, o forse nel ’93 quando, grazie al generale Morillon,
Srebrenica è stata smilitarizzata e proclamata zona dell’ONU, zona protetta. Penso che
in realtà Srebrenica sia successa proprio nel ’93, perché chiunque voleva vedere come
era la vita in questa zona protetta, si poteva rendere conto che lì la vita era veramente
un orrore. Nel ’94 abbiamo tentato di fare qualcosa insieme agli italiani e agli svizzeri
con l’iniziativa Salviamo le zone protette, dove abbiamo in qualche modo previsto che poteva succedere quello che poi è successo. Penso che l’11 luglio fosse in realtà soltanto la
fine della tragedia di Srebrenica. Io all’epoca non ero a Srebrenica, però sono stata una
delle organizzatrici, di quelle che hanno praticamente accolto i profughi di Srebrenica:
e penso che chiunque abbia visto quelle colonne di donne e di bambini piccoli di certo
non se le dimenticherà mai.
All’inizio c’erano tantissimi suicidi, proprio all’aeroporto, davanti agli occhi dei soldati dell’Unprofor. All’epoca abbiamo fatto un’inchiesta, un test psicologico, dove si è dimostrato che più del 90% delle donne aveva i sintomi di una depressione grave, sintomi visibili, la sindrome dello stress post traumatico. Di tutte queste migliaia di donne
io non ne conosco una che non avesse perso uno, o due, o tre, o quattro membri della
propria famiglia. Era molto difficile ascoltare le loro storie. Io personalmente, per sei
mesi, non sono riuscita ad ascoltarle. Se mi dicevano che venivano da Srebrenica, ero
solo la psichiatra che dava le medicine. Comunque tuttora sono affascinata dalle donne che sono state ed erano rimaste a Srebrenica e di tutto quello che hanno fatto le donne, anche al giorno d’oggi.
La proposta dei nostri governi era che le salme di quelli che tuttora si trovavano nelle
fosse comuni venissero sepolte vicino a Kladanj. Penso che fosse un modo eccezionale
per far dimenticare Srebrenica; io dico sempre che Srebrenica non è un problema della
Bosnia-Erzegovina, Srebrenica è un problema dell’Europa, perché, che lo si voglia ammettere o no, la Bosnia-Erzegovina si trova in Europa. Grazie al grandissimo impegno
delle donne, alle moltissime manifestazioni, conferenze e meetings, e grazie all’Alto
Rappresentante della Bosnia, cioè il governatore Ashdown, nonostante una resistenza
eccezionale da parte dei serbi, il posto della sepoltura è stato scelto a Potociari, proprio
il luogo dove i maschi venivano divisi dalle donne. Lì sono stati sepolti i 2.000 cadaveri ritrovati e anche riconosciuti, identificati dalle fosse comuni. Pian piano sta crescendo il Centro commemorativo.
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Quello che sta succedendo lo vedo anche dallo scarso numero di persone qui presenti,
ma è la stessa cosa che sta succedendo in Bosnia: non si ha molta voglia di parlare di
quello che è successo. Le donne di Srebrenica in tutti i modi cercano di mantenere viva
la memoria e di continuare la ricerca dei loro cari. Io penso che l’unico modo per avviarci a un futuro più luminoso, più chiaro, sia conservare la memoria di quello che è
successo. Per quanto noi tentiamo, le vittime non possono dimenticare quello che è successo, perché vorrebbe dire permettere che lo stesso succeda magari un’altra volta.
All’inizio ho detto che ero un po’ arrabbiata vedendo questo film, perché una delle associazioni delle donne di Srebrenica si chiama Donne di Srebrenica, proprio come nel
film. È vero che ogni 11 del mese organizzano manifestazioni nella piazza di Tuzla, con
degli striscioni dove sono scritti i nomi dei loro cari che hanno perduti. Quindi mi ha
disturbato il fatto che nel film non fosse autentico nemmeno il luogo dove succedono
tutti gli 11 del mese queste manifestazioni. La parola chiave, lo slogan con cui le donne
vengono alle manifestazioni è: “La verità a noi, la punizione ai criminali”. Il motto è:
“Stiamo cercando i nostri dispersi”. La cosa che fa veramente male è che di circa 8.000
dispersi di Srebrenica, che poi è un elenco che è stato fatto dalla commissione dei serbi, soltanto 2.000 sono stati trovati e identificati. Nel Centro commemorativo di Tuzla si
trovano alcune migliaia di ossa non ancora identificate e tutti giorni si scoprono e si
aprono nuove fosse comuni. La cosa che stupisce di più è come tutte queste donne vadano da una fossa comune all’altra, cercando di ritrovare il proprio caro: la forza con la
quale continuano questa ricerca.
Alla fine di questo discorso sulla guerra in Bosnia-Erzegovina, vorrei dire quanto le
donne bosniache – e non soltanto loro, ma le donne di tutto il mondo - abbiano dimostrato di essere forti, di poter essere forti e coraggiose. Le prime persone arrivate in
Bosnia nel periodo in cui era veramente pericoloso sono state le donne. Le italiane,
Lalla, Cesarina e Raffaella, hanno vissuto con noi per mesi con grande coraggio, nonostante il pericolo e la paura. E mi ricordo sempre quello che diceva Piera Stefanini, appena si sentiva qualche rumore o anche il rumore della porta: forse qualcuno la conosce, ha lavorato alla radio. Era spaventatissima e al minimo rumore diceva sempre:
“Non è la bomba, non è la bomba, è la porta”.
Alessandra Peretti
Tutto questo dovrebbe servirci, oltre che a ricordare, a vincere la sensazione che spesso ci
prende che le tragedie di attualità si sostituiscano alle precedenti, e si finisca per non poterle seguire tutte. Però c’è questa attività dell’associazione di Irfanka, che mi sembra così benemerita e così concretamente materiale e avrebbe bisogno di essere conosciuta e sostenuta anche fuori dall’Emilia-Romagna e dalla Liguria, che sono le regioni più partecipi di queste iniziative. Irfanka ha tante amiche a Bologna, tanti amici a La Spezia. Ai tempi della guerra in Jugoslavia, Pisa è stata molto presente dal punto di vista dell’impegno
umanitario: dopo c’è la sensazione che le cose passino e invece, purtroppo, non passano.
Giovanna Zitiello
Negli anni della guerra alla Casa della Donna si era costituito un gruppo di donne in
nero ed era stato fatto anche un grosso lavoro di raccolta di fondi. C’erano stati anche
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vari incontri per mantenere i contatti. Io devo dire che la cosa che mi ha sempre colpito, parlando con le donne che venivano dalla Bosnia, ma anche dalla Croazia e dalla
Serbia, era questa quasi incapacità di capire, prima di tutto da parte loro, che cosa era
successo, come mai una comunità che era stata capace, in particolare quella bosniaca,
di tenere insieme tante differenze, ad un certo momento invece fosse entrata in un conflitto così terribile.
Io credo che sia vero che noi abbiamo sensi di colpa rispetto a quello che è successo nella ex Jugoslavia, come appartenenti all’Europa. L’Europa non ha avuto il ruolo che
avrebbe dovuto avere. È vero anche che le associazioni di donne che hanno cercato di
mantenere i rapporti, l’hanno fatto sull’onda del momento. È stato difficile mantenere
i rapporti anche dopo la fine della guerra. Mentre prima tenevamo rapporti di relazione, per esempio attraverso le donne in nero - ed è stato possibile anche raccogliere fondi nel momento in cui c’era la guerra, perché la televisione la vedevamo tutti - dopo invece è stato difficile, sia perché noi siamo associazioni costituite in gran parte da volontarie, cioè da lavoro di volontariato, sia perché ci manca questa dimensione internazionale delle relazioni tra donne. Ci sono alcune associazioni che ci lavorano in modo
specifico in Italia, tipo le donne in nero, con la costituzione dei Ponti tra donne di Paesi
diversi, che è stato un lavoro enorme che hanno fatto; ma nelle altre associazioni c’è meno attenzione, se non nei momenti davvero di emergenza.
Io sono contenta di questo incontro. Ringrazio Alessandra per il lavoro che ha fatto,
perché penso che sia importante riprendere delle relazioni con tanti luoghi. Ci sono regioni che sono state più sensibili e che hanno progetti di cooperazione nei Balcani; la
Toscana ne ha alcuni e io credo che sarebbe bene anche a Pisa poter allargare i progetti di cooperazione che ci sono tra l’altro già con Tuzla e con la Bosnia.
Come Casa della Donna siamo partner di due progetti con l’associazione A passi leggeri di Scutari, in Albania: uno di sostegno al centro anti-violenza e un altro europeo a cui
partecipa anche l’associazione SOS, che è un centro anti-violenza di Podgorica. È in
programma l’organizzazione di due conferenze che si terranno tra maggio e giugno a
Scutari e a Podgorica, sul ruolo delle donne sia a livello regionale, nella regione dei
Balcani, sia a livello internazionale, nell’Europa dei diritti. Penso che sia importante far
crescere le occasioni di incontro, di collaborazione, di scambio delle nostre esperienze,
di costruzione di relazioni. Credo che la pace si costruisca così.
Intervento non identificato
È stato interessante ascoltare oggi tutte voi perché ci avete riportato agli anni della
guerra, di un conflitto tra l’altro molto recente. Vorrei però anche invitarvi ad organizzare una nuova giornata, dove raccontare invece che cosa è la Bosnia e cosa sono tutti
i Paesi dell’ex Jugoslavia oggi, e quindi riportare un attimo l’attenzione sull’oggi e sul
post-conflitto, che credo sia un momento centrale di discussione per capire il futuro di
questo Paese.
Alessandra ha finito il suo intervento dicendo che non abbiamo fatto niente, io aggiungo che non stiamo facendo niente, politicamente, rispetto alla situazione dei Paesi
dell’ex Jugoslavia; del resto loro anni fa, durante il conflitto, non ci chiesero assistenza,
ci chiesero presenza, ci chiesero di appoggiarli politicamente contro la distruzione del
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loro Paese. Oggi ci chiedono la stessa cosa e forse sono anche stanchi di chiederla.
Loro non raccontano facilmente le loro storie, probabilmente sono anche stanchi di raccontarle. Le hanno raccontate talmente tante volte, ricevendo solo pietà nei casi più tristi, o comunque una leggera e momentanea attenzione. Quello che dico è di provare a
parlare oggi dell’oggi. Proviamo a capire cosa succede oggi in un Paese che non ha superato il conflitto; probabilmente con gli accordi di pace si è posto fine alla guerra armata, ma il conflitto civile c’è ancora, c’è un conflitto economico, c’è un Paese che politicamente non riesce a trovare una propria organizzazione, una propria stabilità.
Quindi c’è un problema reale dell’oggi, affrontiamolo.
L’esperienza delle donne è molto interessante. Io ho lavorato e continuo a lavorare in
una città del Kosovo settentrionale, Mitrovica, una città difficile, che ancora vive all’interno di un conflitto molto forte e spesso purtroppo anche armato, in un Paese che si
dice “pacificato”. Lì le esperienze delle donne che ho sentito, purtroppo, sono drammaticamente le stesse, di quella normalità che si è cercato durante il conflitto di mantenere e che si cerca oggi ancora di mantenere; ma soprattutto sono storie di emarginazione economica e sociale. In un Paese con un altissimo tasso di disoccupazione la donna difficilmente può trovare il suo ruolo nella società. Eppure queste donne il ruolo nella società l’hanno trovato, durante il conflitto e anche oggi, perché sono state il perno
della sussistenza economica della famiglia. Erano loro che uscivano dalle case e che cercavano il cibo, cercavano l’acqua. Questo è successo in Bosnia, in Kosovo, probabilmente in tantissimi Paesi martoriati dalle guerre.
Quindi la donna ha sempre avuto un ruolo centrale e soprattutto ha spesso tanto da dire. Però non trova i luoghi nei quali poter esprimere la propria esperienza, il proprio
bagaglio. Poi ci sono le organizzazioni di donne, che sono nate durante il conflitto e si
sono rafforzate dopo: tante sono anche morte con la fine degli aiuti, altre hanno resistito e continuano ad andare avanti. Anche queste continuano ad essere isolate. Quindi
l’invito è: attenzione a quello che succede oggi e cerchiamo di essere meno ipocriti dal
punto di vista politico.
Alessandra Peretti
Effettivamente il discorso su quello che succede oggi, come diceva la nostra amica, non
si può esaurire in un breve intervento adesso; però qualcosa, proprio perché la Bosnia
e l’intera ex Jugoslavia non sono più sotto la luce dei riflettori, forse voi potete dirlo a
noi che ne sappiamo così poco...
Nadira Sehovic
Io vorrei dire una cosa, sia ad Alessandra che alle altre. Si è detto più volte che l’Italia
o l’Europa non ha fatto niente: questo non è vero. Ha fatto male, ma ha fatto. Spesso
con il non fare o con il lasciar fare - che è ancora peggio - si è resa direttamente complice di numerosissime tragedie.
Oggi non è facile - secondo me non è possibile - capire le prospettive e la situazione attuale, almeno per quanto riguarda la Bosnia, senza conoscere il passato. Questo passato viene spesso in Europa relegato ai margini del discorso; come a dire: “non rivanghiamo, lasciamo perdere, bisogna guardare al futuro”.... Però vi ricordo che - a parte
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le responsabilità e il coinvolgimento diretto, perché l’Europa era coinvolta direttamente molto prima che scoppiasse un conflitto armato nell’ex Jugoslavia e ha le sue responsabilità per aver fatto o per non aver fatto - ancora oggi non può esserci alcuna pace vera nei cuori, negli animi, soprattutto delle vittime più grandi, come diceva Irfanka
prima. Le donne di Srebrenica non potranno mai dimenticare. Un po’ di pace ci potrà
essere soltanto quando sarà fatta giustizia. Quella assoluta sappiamo tutti che non è
possibile a questo mondo, però almeno i più importanti, i più efferati delitti dovrebbero essere puniti. Oggi la Bosnia chiede soprattutto che l’Europa si impegni almeno un
po’ per assicurare al Tribunale dell’Aja Karadzic e Mladic, se non altro.
Irfanka Pasagic
Io ringrazio per l’ultimo intervento, sinceramente, e se mi chiedete com’è la situazione
in Bosnia-Erzegovina vi dirò che è terribile, disastrosa. Sono molto felice di vedere qui
tra il pubblico i miei amici di Macondo 3, che sono solo una piccola parte delle persone che io posso chiamare “amici”, che vivono qui in Italia e che conoscono perfettamente la situazione in Bosnia. Quelli che vengono, vengono e vedono.
Abbiamo parlato di giustizia e realmente quello di cui ha maggiormente bisogno in
questo momento la Bosnia è la giustizia, la verità su quello che è successo. Si parla solo di Mladic e di Karadzic, mentre in Bosnia stanno girando migliaia di criminali ed è
molto pericoloso per i nostri bambini, per i nostri giovani crescere in una situazione come quella che si è creata e che c’è attualmente. A distanza di più di dieci anni dalla fine della guerra, nei dintorni di Tuzla ci sono ancora, all’incirca, 10 campi profughi in
funzione, con della gente dentro, e in questi campi nascono e vivono i bambini.
Abbiamo moltissimi bambini che vivono nelle più strette vicinanze di qualche fossa comune nella quale potrebbe trovarsi il padre o il fratello. Abbiamo migliaia di bambini
che frequentano le scuole dove sono successi i massacri. Penso che bambini che crescono in queste condizioni non possano avere un futuro luminoso.
Io ho una paziente che vive quasi porta a porta con la persona che ha ammazzato cinque membri della sua famiglia, con l’unica differenza che lei vive in una casa semidistrutta e lui si è costruito altre tre case.
Come preparare i bambini per il futuro? Possiamo dire a questi bambini: “Sì, lui ha ucciso, ma non importa...”? Vi dirò che ne ho parlato in un incontro con colleghi di diversi
Paesi. Prima abbiamo parlato della rivalsa: noi psichiatri sappiamo che la rivalsa, cioè
il volersi vendicare nella fantasia, è un processo normale nella guarigione. Ci siamo
messi d’accordo che sarebbe il caso di non permettere nessun tipo di vendetta o di rivalsa. All’indomani abbiamo parlato della giustizia e siamo arrivati alla conclusione
che la giustizia non esiste; e allora ho detto: “Ma io a questi bambini che cosa posso dire? Cosa posso fare con questi bambini? Se mi ritrovo davanti un bambino al quale è
stata bruciata la casa o ammazzati i membri della famiglia, cosa devo fare?”. Un mio
collega, uno psichiatra americano molto noto, mi ha detto che ci sono tante risposte ed
io gli ho chiesto di dirmene una. “Una può essere ‘questa è la vita’” mi ha risposto.
Alla fine pare che questa sia l’unica risposta esatta, ma io cosa vado a dire al genitore di
un bambino, a che cosa lo deve preparare, a diventare carnefice o a diventare vittima?
Che cosa deve fare? E quello di cui noi abbiamo assolutamente, veramente bisogno è
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proprio la giustizia. Noi ci rendiamo conto che non tutti i criminali di guerra possono finire nelle carceri, però almeno quelli che sono conosciuti si deve trovare un modo per
processarli. Io lo spero sinceramente, e certo non è ancora arrivato il momento perché la
commissione per la verità e la riconciliazione non sta lavorando. Io spero che inizi il suo
lavoro, che alcune cose possano essere risolte anche attraverso questa commissione; ma
per ora io ho veramente paura, perché penso che la situazione sia disastrosa, tragica.
L’idea che mi passava per la testa questo pomeriggio era che qui probabilmente ci sono molte donne che fanno parte di associazioni di donne. Io già da tanto sto riflettendo su un fatto che è successo e di cui non si parla, di cui si è smesso di parlare: si tratta di 70 ragazze che sono scomparse da un campo di concentramento, vicino a
Vlasenica, e nessuno sa dove sono finite queste ragazze, addirittura non se ne parla più.
Forse si potrebbe pensare a un’iniziativa che potesse fare pressione anche sul nostro governo, nel senso di spronarlo a vedere cosa sia successo con la scomparsa di tante ragazze giovani.
Un’altra cosa che non porterà sicuramente del bene al popolo bosniaco è l’isolamento
in cui si trova in questo momento la Bosnia. Prima della guerra noi potevamo andare
ovunque con il passaporto titino. Io credo che ora neanche il 5% dei giovani sia riuscito ad andare all’estero e che l’unica situazione che conoscono sia quella bosniaca. La cosa che amano di più è guardare le soap-opera spagnole: penso che non possano costruire il proprio futuro sulle soap-opera spagnole.
La terza cosa pericolosa per il nostro futuro è il fatto che un grande numero di bambini smette di andare a scuola, naturalmente a seguito delle condizioni sociali, quindi dell’impossibilità.
In Bosnia ci sono tantissimi problemi: io penso che le donne potrebbero impegnarsi forse un po’ di più, di nuovo un po’ di più per la Bosnia. In passato l’hanno fatto, hanno
lavorato molto bene, nell’ultimo periodo un po’ meno.
Alessandra Peretti
Io chiederei a Nadira, che me ne parlava ieri sera, di spiegare le difficoltà che oggi hanno i giovani ad uscire dalla Bosnia. Io non sapevo che ai tempi della Jugoslavia non
c’era problema e che adesso invece c’è, in seguito alle regole di Schengen, se ho ben
capito.
Nadira Sehovic
Sì, è una cosa che riguarda il trattato di Schengen, che prevede documenti tra i più fantasiosi, per ottenere un visto e visitare qualsiasi Paese dell’UE. Le assicurazioni che vengono chieste perché non capiti per caso che un bosniaco rimanga nell’Unione Europea
un giorno in più di quanto il visto prevede, sono talmente rigorose che fanno risultare
l’intera procedura molto umiliante. La gente in Bosnia spesso, quando ne parla, commenta con un’espressione che credo non faccia onore a nessuno: “Ci trattano come degli appestati”. Effettivamente è vero. Per poter venire in Italia, come in Francia o in
Germania, uno deve avere tutte le garanzie possibili e immaginabili da un cittadino
dell’UE, su tutto quello che riguarda la sua permanenza, l’eventuale malattia e quindi
l’assicurazione sanitaria, ecc.; ma per ottenere questo comunque deve dimostrare di la-
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vorare in Bosnia, e per questo si richiede il libretto di lavoro. Faccio questi esempi perché sono veramente illustrativi di quanto siano terribili queste procedure. Uno deve andare dal datore di lavoro e chiedere il libretto di lavoro, portarlo, poi deve dimostrare
di avere dei soldi con i quali viaggerà, deve aspettare chissà quanto, deve magari sostenere l’intervista in un’ambasciata; e qualche volta succede che il visto non lo ottiene,
ovviamente senza nessuna spiegazione. Lo prevede la convenzione sulle relazioni diplomatiche. Ma capitano anche dei paradossi. Per esempio ho visto diversi casi di giovani bosniaci che hanno ottenuto una borsa di studio in Italia - quindi vuol dire che si
tratta anche di ragazzi bravi, che studiano, che se la meritano, nessuno gliel’ha data a
caso - e poi non riescono ad ottenere il visto per venire a studiare.
(intervento senza microfono che chiede se per riparare alle violenze subite dalle donne bosniache
sia più necessario avere la verità o avere la giustizia: poter condividere con la comunità la convinzione che quel tale è un criminale e metterlo in prigione sono due cose diverse)
Irfanka Pasagic
Io sinceramente penso che queste due cose possano andare soltanto insieme, verità e
giustizia. Ma è anche vero che una delle cose peggiori per le donne vittime è la negazione di quello che è successo. Io ho avuto tanti casi di donne che stavano malissimo
quando veniva negato loro quello che era successo. Per esempio, una donna è venuta
da me piangendo, dicendo che deve dimostrare di avere avuto un figlio. Penso che per
il futuro e per un grande numero di vittime - può sembrare anche assurdo - sia molto
più importante la verità.
Nadira Sehovic
Voglio aggiungere che il negare il crimine è un fenomeno abbastanza diffuso. Per questo è importante la verità. Quando noi chiediamo la verità è perché, per fare proprio l’esempio più eclatante, il massacro di Srebrenica viene ancora negato, ne viene negata
proprio l’esistenza, che sia mai avvenuto, tra molti serbi di Bosnia, per non parlare di
quelli di Serbia, che sono ancora più numerosi.
L’offesa, l’oltraggio maggiore alle vittime è proprio quello di negarne l’esistenza, il
martirio. Una volta stabilita la verità e accettata e ammessa da tutti, poi non ci sarebbero problemi di fare anche giustizia. In ogni caso, giusto per informazione, la giustizia, come sappiamo, è sempre lenta, se mai c’è. In questo momento le procure bosniache stanno indagando per crimini di guerra 10.000 persone. Quindi, se mai ci sarà - e
qualcosa ci sarà, speriamo, in buona parte ci sarà - la giustizia è lunga da aspettare.
Intanto vorremmo la verità.
Irfanka Pasagic
Vorrei ancora dire che, quando ho detto che la verità e la giustizia devono andare insieme, forse pensavo proprio al caso della donna di cui vi ho parlato prima. Questa
donna conosce la verità, conosce assolutamente la verità, perché il suo vicino di casa è
addirittura orgoglioso di quello che ha fatto. Nel suo caso, la verità senza la giustizia
non serve a nulla.
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Carla Forti
Voi avete detto che una volta saputa la verità si può fare giustizia e inoltre che senza
giustizia non ci potrà essere futuro per la Bosnia. Però nello stesso tempo da tutti i vostri discorsi e da tutto quello che noi sappiamo si ricava che la giustizia non è possibile, perché dopo quello che è stato un orrore di massa non si possono, come la stessa dottoressa Pasagic ha detto, mettere in prigione decine di migliaia di persone: e, anche se
si mette in prigione il vicino assassino orrendo della sua paziente, tanti altri ce ne saranno in altre parti del Paese. È doloroso, però con la verità deve venire – ahimè, è l’unica soluzione - non la giustizia ma la riconciliazione. La psichiatra ha rammentato la
commissione verità e riconciliazione. Io so bene che è dura, ma quella, che è la via tentata da Mandela e da tanti altri paesi in cui sono successe cose altrettante orrende che
nel vostro, è l’unica via percorribile. Ed è strano che..., perdonatemi, ma a me sembra
che le donne dovrebbero essere le prime a rendersi conto di questo.
Alessandra nel suo discorso introduttivo ha detto una cosa che forse le due relatrici non
condividono. Ha detto che, oltre alle rovine materiali orrende, alle famiglie distrutte, rimane questa grande nostalgia di un passato in cui c’era un’identità multireligiosa, multietnica, multiculturale. Capisco dal discorso delle nostre relatrici che forse questa nostalgia non può essere da loro condivisa: potrà esserlo solo, appunto, se ci sarà verità e
riconciliazione. Capisco che è dolorosissimo, che mi si potrà dire: “Ma non ci stai tu lì,
non è tuo il vicino che ti ha sterminato la famiglia”, ma non vedo un’altra strada per il
futuro della Bosnia. Lo so che è facile parlare quando non si è coinvolti, me ne rendo
conto, ma dovevo dirlo.
Nadira Sehovic
Io devo risponderle invece che condivido in pieno la nostalgia di cui Alessandra stava
parlando, ma non è una nostalgia. Io vivo in Bosnia, sono orgogliosa di essere bosniaca e lo sono soprattutto perché quella caratteristica della Bosnia, la multiculturalità, la
multireligiosità, la tolleranza che noi abbiamo vissuto per secoli, è sopravvissuta, nonostante tutto quello di cui abbiamo parlato stasera e nonostante la necessità, ripeto,
che abbiamo di giustizia. È ovvio che sappiamo benissimo che non si possono punire
tutti i criminali, non avviene neanche per la criminalità comune: quanti ladri rubano
per tutta la vita e non vengono mai presi? Ma, almeno, se c’è un assassino che ha ucciso cinque figli della paziente di Irfanka, penso che non sia chiedere tanto che venga
processato per questo.
Il problema nostro quando chiediamo giustizia e verità, o solo verità, o solo giustizia, è
un altro, che in questi casi spesso succede che le autorità o le associazioni di veterani,
o la polizia, o il governo stesso, o un’amministrazione locale, ecc., sostengono quell’assassino dei cinque figli della signora. Quando non lo faranno più, anche se lui magari
non finirà mai in tribunale, allora la verità ci sarà, la giustizia ci sarà.
(intervento senza microfono sulla manipolazione dell’informazione e sulle diverse verità sostenute dalle varie comunità, serbi, croati e bosniaci)
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Irfanka Pasagic
Anche per noi è difficile conoscere e sapere qual è la verità in Bosnia-Erzegovina e dipende da quale telegiornale si sta guardando. Per quanto riguarda Srebrenica, io personalmente ho deciso di credere al Tribunale dell’Aja, perché ho una collaborazione con
loro e so quanto sono meticolosi nello studiare i casi. Io parlo molto raramente di serbi
o di musulmani, e a chiunque parlo di vittime; al contempo non penso che tutti i serbi
siano criminali, o viceversa.
Poco tempo fa ho partecipato ad una tavola rotonda con Carla Del Ponte, dove lei ha
esposto dei dati. Ci sono all’incirca 3.000 vittime tra i serbi, in tutto il territorio della
Bosnia dell’Est e durante tutta la guerra, e di queste 3.000 vittime la maggior parte sono soldati. Durante la tavola rotonda Carla Del Ponte ha parlato della manipolazione
dei media sulle masse, che è veramente un grosso problema in Bosnia-Erzegovina, ed ha
esposto un caso, il caso di Kravica. Se avete letto di Srebrenica, siete a conoscenza anche di questo caso di Kravica, dove i serbi denunciano un eccidio di civili serbi, il più
grande. Però nella relazione del Tribunale dell’Aja sta scritto che in realtà i morti erano
solo una quarantina, di cui si suppone che 12 potessero essere civili. In quel posto è stato costruito un monumento che è stato inaugurato il giorno dopo la commemorazione
di Srebrenica; però chiunque di voi passi di lì - perché deve passare da quel posto se va
a Srebrenica - noterà un grande edificio che tuttora è pieno dei buchi delle pallottole,
dove sono state uccise il 12 o il 13 luglio, quindi a due giorni dalla caduta di Srebrenica,
migliaia di persone deportate, proprio in quel luogo lì.
Io sinceramente consiglierei, a chiunque voglia conoscere in qualche modo la verità, di
leggere i documenti del Tribunale dell’Aja.
(vari interventi senza microfono sull’effettivo ruolo dei mass media nel fomentare la violenza,
anche in altri casi di eccidi come in Ruanda)
Irfanka Pasagic
Certo, io sono convinta che i mass media, anche per l’inizio della guerra in Bosnia, hanno avuto almeno il 50% di colpa, e confermo che anche in Serbia è stato così. Senza
l’aiuto dei mass media una guerra così sanguinosa sicuramente non si sarebbe svolta.
Era molto interessante vedere come le persone credevano alle cose assolutamente impossibili e incredibili nelle situazioni normali, se soltanto queste cose venivano dette
dalla rete TV o dai media che loro seguivano. È veramente una cosa eccezionale e penso che gli psichiatri potrebbero lavorare sulla questione di che cosa succede nella gente, in queste situazioni.
Mi viene in mente una mia amica assistente sociale, una persona veramente eccezionale, di nazionalità serba. Lei ha visto in una rete TV che a Tuzla, allo stadio, avevano fatto un campo di concentramento, eppure sapeva benissimo che non era vero; che nel fiume che attraversa Tuzla c’erano dei cadaveri, e in realtà il fiume è talmente basso che
neanche un topo ci può galleggiare; che nella Casa dello studente era situato un bordello, cosa non vera perché anch’io andavo lì. Poi ha creduto, annunciato dalla stessa
TV, che in Croazia fossero state uccise 7.000 persone, e sapete come? Ingoiando una pallottola che poi è esplosa. E lei ci ha creduto.
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In Bosnia-Erzegovina quindi è necessario regolarizzare i mass media e finalmente è stata creata la TV della Bosnia-Erzegovina, la quale sta tentando di dare un po’ di regole.
Naturalmente ha pochi spettatori, questa TV.
Liliana Zufic
Posso confermarlo anch’io, che vivevo a Belgrado all’epoca, prima di decidere di andare via: premetto che lavoravo con le donne in nero nel Centro contro la guerra. Alla
TV io non credevo assolutamente, perché lavorando nel Centro un minimo di informazioni giuste le avevamo anche a Belgrado, sebbene veramente minime. C’è stato un periodo in cui insistentemente si trasmettevano alla TV di sera in sera cose incredibili: per
esempio un servizio dove una madre piangeva sopra i cadaveri dei propri figli tagliati
a pezzettini, trovati in qualche posto della Croazia. E le intervistate avevano un’autenticità assoluta anche per me che sono una madre, veramente erano delle attrici perfette, eccezionali. Sono arrivata a dirmi: “Ma se queste madri piangono così, se la TV continua a riportare questa stessa notizia, forse qualcosa di vero ci sarà”. Invece non lo era.
Io ne ero consapevole, però mi rendevo conto che, se fossi rimasta lì, avrei finito per crederci anch’io.
Alla fine riescono a manipolarti e, credetemi, i mass media sono i primi responsabili, non
per il 50%, almeno per il 90%, non soltanto dal giorno in cui è iniziata la guerra, ma come minimo dall’87, per quello che è successo nei territori dell’ex Jugoslavia. Lo dico
sulla base di quello che ho vissuto in Serbia, perché la propaganda in Serbia era molto
forte, molto più forte che in Bosnia; fatto sta che la Bosnia non credeva che sarebbe successo quello che inizialmente era successo in Croazia.
E la TV è pericolosa anche qui. In conclusione vi posso soltanto dire che è molto rischioso pensare: “A noi non può succedere”. Lo stesso sbaglio l’abbiamo fatto noi. Io fino all’ultimo non ci credevo.
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LE IRANIANE
Partecipano all’incontro (16 marzo 2006):
Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia
Tatiana Boutourline, giornalista del Foglio
Virginia Del Re, Associazione Casa della donna di Pisa
Fariba Ferdosi, pittrice
Debora Mattiello, attrice
Alessandra Peretti
Questo è il nostro ultimo incontro e un po’ mi dispiace, perché i pomeriggi mi sono
sembrati interessanti e hanno avuto anche un’alta intensità emotiva, cosa che non guasta. Oggi concludiamo parlando della resistenza delle donne iraniane.
Volevo cominciare con una citazione che rimanda al primo dei nostri incontri, che è stato dedicato alla resistenza delle donne italiane. Chi c’era sa che è venuta a parlarne
Anna Bravo, una storica di Torino, che nell’introduzione di un famoso libro sulla
Resistenza al femminile, La Resistenza taciuta, fa questa affermazione: “Le donne sono
visibili in ogni punto della storia, purché si abbiano gli strumenti per vederle”.
Perché ho richiamato questa citazione? Perché vorrei applicarla, parlando oggi
dell’Iran, alla geografia invece che alla storia, e dire: “le donne sono visibili in ogni punto della geografia, purché si abbiano gli strumenti per vederle”. Anche se noi sappiamo
che le donne iraniane sono impegnate a difendere o a riconquistare gli spazi di libertà
e di autonomia che prima erano loro riconosciuti e che l’affermarsi del fondamentalismo islamico nel loro Paese rende sempre più difficili e precari, registriamo anche che
nella nostra informazione quotidiana le donne iraniane sono per lo più assenti. E tuttavia, quando ho cominciato a preparare questo incontro di oggi e ho fatto quello che
comunemente ormai si fa, se c’è da parlare di qualcosa, cioè sono andata su Google, mi
sono venute sotto gli occhi una quantità di immagini che smentivano quell’assenza,
confermando piuttosto l’affermazione di Anna Bravo: in genere mancano gli strumenti, ma per vederle basta avere quelli adatti.
In effetti sul web c’è una quantità di immagini di manifestazioni di donne iraniane veramente straordinaria, alcune le state vedendo passare alle mie spalle. Manifestazioni
di studentesse nel giugno dello scorso anno a Teheran, manifestazioni per l’8 marzo,
una settimana fa; tra l’altro la notizia - assolutamente ignorata dalla nostra stampa - che
quest’anno le manifestazioni per l’8 marzo sono state proibite dal governo. Invece, una
volta di più, alcune donne iraniane hanno voluto festeggiare l’8 marzo e la manifestazione è stata sciolta violentemente a bastonate.
Che cosa mi dicono queste immagini, che cosa ci dicono? Io ho ricordato durante il nostro primo incontro che, di questo mondo e della condizione delle donne iraniane, in
Italia si è venuto a sapere soprattutto attraverso il cinema. In particolare pensavo a quel
film terribile, claustrofobico, che era Il cerchio di Panahi.
Senza voler dare nessun valore simbolico a queste immagini - altrimenti Tatiana mi ri-
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prende, e vi spiegherà dopo perché - in realtà quello che mi ha colpito è che esse ci dicono che la resistenza delle donne iraniane è in gran parte, in un Paese giovane e istruito, resistenza delle studentesse, che sono oggi più del 63% della popolazione studentesca iraniana. Chi guardi queste foto non credo possa non essere colpito dalla vivacità
dei loro atteggiamenti e anche dall’eleganza con cui alcune di loro fanno scivolare sui
capelli quei foulard colorati che portano molte volte al posto del velo a cui sono obbligate. Io ne sono rimasta colpita anche e soprattutto pensando che molte di loro poi vengono punite con le 70 frustate regolamentari, che le loro manifestazioni appunto vengono sciolte violentemente, che a centinaia sono state arrestate negli ultimi anni per
aver trasgredito ai canoni dell’abbigliamento islamico. Quindi evidentemente non è
soltanto una questione estetica o di folklore.
Riprendendo quel tragico gioco del “così vicino, così lontano” che abbiamo usato le
volte scorse parlando dell’Argentina e della Bosnia - così vicine per certi aspetti, ma
lontane per altri - mi vien fatto di pensare che lo stesso si può dire dell’Iran. Così lontano, eppure così vicino. In qualche modo le studentesse iraniane siamo anche noi, che
quest’anno celebriamo il 60° anniversario del voto alle donne in Italia, e le donne iraniane il voto l’hanno avuto poco dopo, nel 1963, mentre il diritto al divorzio l’hanno
conquistato addirittura nel 1913. Come vedete, siamo abbastanza vicine nonostante
tutto.
Io su questo non ho molto altro da dire perché ne so troppo poco e desidero ascoltare
le nostre relatrici: volevo porre più che altro una questione sollevata dalla situazione
dell’Iran. Da un lato si ha la sensazione di un mondo in perenne e drammatica contraddizione, perché come in tanti altri Paesi, anche in Italia per certi aspetti, ci sono tanti Iran diversi: c’è una Teheran colta, ricca, occidentalizzata, c’è una Teheran dei quartieri popolari, c’è un Iran arcaico e profondo dei villaggi, in cui molte volte la popolazione e i mullah si trovano di fatto a rispecchiarsi l’uno nell’altro, perché condividono
un’idea del mondo che si potrebbe definire premoderna. Quindi tante situazioni diverse. Dall’altro, come appunto vi dirà meglio Tatiana, un regime religioso che ha trionfato con la rivoluzione del ’79 e che ha imposto un suo diritto di famiglia, in particolare,
ma anche una quantità di disparità sul piano giuridico che offendono le donne iraniane. Ci sono cose magari un po’ più folkloristiche, come la poligamia o il diritto al ripudio della moglie... Ma soprattutto ci sono le disparità relative all’affidamento dei figli,
al valore della testimonianza giudiziaria e dell’eredità, l´imposizione del velo e la segregazione dei sessi in molte sfere della vita. L’età minima per essere giudicati per un
reato è di 9 anni per le bambine e invece di 15 per i ragazzi.
Siccome le donne patiscono naturalmente di più per questo stato di cose, esse rappresentano anche spesso una spina nel fianco del regime. Di fatto sono le ragazze le più
ostinate oppositrici di questa stretta repressiva. Sono loro a rappresentare la maggioranza dei laureati iraniani; dunque il motore principale e – lo spero - inarrestabile del
cambiamento. Tra le donne che hanno fatto parlare delle iraniane c’è naturalmente
Shirin Ebadi, Premio Nobel 2003, che nel corso di una intervista dice una cosa che mi
sembra interessante e problematica: che le donne iraniane sono vittime e insieme portatrici, in quanto madri, di una cultura patriarcale tribale che non accetta la parità.
“Dobbiamo fare autocritica, dice, perché ogni uomo prepotente è stato cresciuto da una
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donna. La cultura patriarcale è come l’emofilia: alcune donne ne sono portatrici sane e
la trasmettono ai figli”.
Io ho posto quindi alcuni problemi. Ci parleranno di questa difficile realtà le nostre interlocutrici di oggi. Una è Tatiana Boutourline, una giornalista che abita a Roma, che ha
questo nome e questo cognome favolosi, che le vengono da una serie di incroci, se mi
è permesso, nel senso che è di padre russo, la cui famiglia ha lasciato la Russia dopo la
rivoluzione, e di madre iraniana, che ha lasciato l’Iran dopo la rivoluzione. Come mi ha
detto lei stessa poco fa, di questa sua complessa identità la parte che le pesa di più, nel
senso che è più sostanziosa per lei, è proprio quella iraniana.
L’altra relatrice, Virginia Del Re, che è una cara amica di tutte noi, la conoscete benissimo per la sua attività di insegnante e studiosa di lingua e letteratura inglese, per il suo
impegno a favore delle donne e anche per le sue doti di scrittrice, in quanto ha curato
quel libro sui Poeti sufi dell’età classica, attraverso cui ha rivelato anche alle sue amiche
che l’ignoravano la passione per il sufismo, la grande tradizione mistica islamica che ha
trovato espressione nella poesia persiana dall’XI al XV secolo. Il motivo per cui l’ho sollecitata a questo intervento, al di là di questo suo interesse specifico, è che, durante una
lettura comune del bel libro di Azar Nafisi Leggere Lolita a Teheran, sono venute fuori
una serie di notizie e di passioni biografiche che la legano ad un Iran lontano. Mi faceva piacere che ci parlasse anche di questo, oltre che di quella forma di resistenza culturale che è bene espressa nel libro in questione.
All’estrema sinistra di chi vi parla ci sono un’amica di Virginia, Fariba Ferdosi, che è
una pittrice iraniana anche lei trapiantata in Italia e che di questa resistenza culturale è
appunto un’interprete; e poi l’attrice Debora Mattiello, che ci leggerà alcuni passi del libro di Azar Nafisi.
Tatiana Boutourline
Prima vorrei presentarmi. Sono una giornalista, mi occupo principalmente di Medio
Oriente, Caucaso, India, Pakistan, ma soprattutto di Iran e, siccome questo incontro è
dedicato alle iraniane, devo assolutamente premettere che sono per metà iraniana e
quindi in un certo senso in questo discorso sono parte in causa. Non cerco e non pretendo di avere una distacco che non ho, vorrei solo raccontarvi un po’ la realtà del mio
Paese, per come la vivo come osservatrice molto coinvolta.
Prima di tutto vorrei cercare di darvi la sensazione di cosa voglia dire vivere in una teocrazia. Il mio Paese si definisce una repubblica islamica, ma è tutt’altro che una repubblica. In questo strano sistema ibrido, che ambisce ad essere una democrazia islamica,
gli aspetti repubblicani sono una farsa, mentre invece l’aspetto islamico informa tutta
la vita, sia pubblica che privata, dei cittadini. Per cui c’è un occhio pervasivo, una specie di Grande Fratello, che non solo limita la vita pubblica, la politica, l’accesso alla politica per tutti i cittadini, ma limita anche la vita privata, lo stesso immaginario delle
persone.
In questo Iran in cui un po’ tutti i cittadini sono cittadini di serie B, le donne non sono
cittadine di serie B, ma di serie C, D o anche Z, a seconda delle condizioni familiari e
anche dei luoghi in cui vivono, perché naturalmente una realtà urbana è molto diversa
da una realtà rurale. Mi preme sottolineare questo aspetto della teocrazia, perché mol-
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to spesso viene data del mio Paese un’immagine un po’ troppo rosea, per cui anche nei
servizi sui giornali si sottolinea spesso come ci sia una lenta emancipazione, come da
noi ci siano donne-pilota o le Olimpiadi femminili. Questi sono elementi che possono
colpire la fantasia di chi si crea tutta una serie di aspettative sul mondo islamico, ma
che non ritraggono per niente quella che è la realtà iraniana, in cui le donne sono vittime ogni giorno e, anche se si ritagliano degli spazi di libertà e lottano per questa libertà,
sono comunque vittime. E questo bisogna sottolinearlo, al di là degli aspetti che possono colpire la fantasia.
Prima di passare a descrivere le limitazioni a cui sono soggette le donne, vorrei partire
dalla mia esperienza personale e raccontarvi come sono tornata nel mio Paese, perché
la mia famiglia è lontana dall’Iran dal 1979, dalla rivoluzione, e per lunghi anni io non
vi ho messo piede, un po’ anch’io vittima di quella che è una sensazione, un vizio degli iraniani in esilio, cioè di ritenere una forma di resistenza anche lo stare lontani dal
proprio Paese. Siccome ormai sentiamo che questo Paese non ci rappresenta come cittadine e come donne, allora andarci è in un certo senso piegarsi ad un sopruso. Poi,
però, per tutta una serie di questioni di lavoro, sono tornata ed ho trovato un Paese pieno di contraddizioni, dove ci sono molte donne che resistono, e resistono in maniera
egregia. Ho conosciuto anche donne che vivono questa loro condizione in Iran in una
specie di esilio auto-imposto, per cui accade che escano a fare spese, giochino a carte,
stiano tra di loro, aspettino con impazienza che arrivino le riviste straniere. Ma poi si
sentono talmente emarginate dalla realtà che vivono in un mondo un po’ tutto loro, non
vivono la vita del Paese, vivono in una specie di bolla.
Queste donne hanno figlie che invece lavorano, si innamorano, sono cresciute nell’Iran
rivoluzionario e sono magari le ragazze che vedete con questi veli colorati, con questi
soprabiti attillati e impalpabili, donne che molto coraggiosamente sfidano le convenzioni, anche estetiche, del regime. Sono ragazze che provano a misurarsi, a spingere un
po’ più in là i limiti e spesso pagano, anche. C’è una distanza tra queste madri e queste
figlie, una cosa che si verifica spesso perché, in effetti, chi resta e cerca di adattarsi alla
realtà ha anche difficoltà a mettere il dito nella piaga e dire qual è il problema. Uno dei
nostri difetti è che siamo anche un popolo molto molto orgoglioso, per cui ci dà fastidio a volte ammettere quella che è la nostra condizione. Molto spesso si tende a presentare agli altri un aspetto di forza che in realtà non sempre ci appartiene.
Vorrei portarvi in questi caffè alla moda dove ci sono le ragazze vestite e truccate, che
pensano al futuro, che pensano magari di poter scappare e andare in Occidente, studiare in una buona università, o pensano di poter incontrare un ragazzo e di potersi innamorare. Dovete considerare che in Iran i rapporti tra uomo e donna sono molto difficili; sono difficili innanzitutto perché i contatti sono molto limitati, c’è la polizia morale ovunque, in qualunque momento come donna puoi essere fermata, aggredita, redarguita, non solo perché ti sfugge un ciuffo di capelli, ma perché magari stringi la mano a un ragazzo, o perché il tono della tua voce è troppo alto, o perché stai ascoltando
musica occidentale.... È tutto un reticolo continuo di cose che non devi fare, per cui a
tutti gli effetti sei una cittadina a metà.
Queste ragazze, come le ragazze di tutto il mondo, hanno grandi sogni e grandi ambizioni. Allora, quando si scontrano con la realtà di questo Paese e vogliono cominciare
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a lavorare, ad entrare in questa società, si accorgono anche loro, nonostante tutto, che
non sono cittadine e soggetti in quanto tali, ma hanno dei diritti residuali, cioè hanno i
diritti e solo quelli che, in questa specie di eguaglianza, la sharia non si porta via.
L’articolo 20 della Costituzione sancisce che uomini e donne sono uguali, però poi consente che tutti i diritti possano essere calpestati da disposizioni opposte della legge islamica. Questo è un punto che spesso non viene enfatizzato, perché poi ai livelli pratici
le donne sono nella società, lavorano e hanno molte opportunità: però, quando ci sono
in gioco i loro diritti, questi vengono continuamente calpestati proprio grazie a disposizioni legislative.
Per cui dimenticate un po’ questo folklore dei veli, dei colori... Certo, ci sono stati periodi in cui in Iran siamo stati peggio, come donne. C’è stato il primo periodo rivoluzionario che, se uno pensa alla rivoluzione francese, è equiparabile al periodo del
Terrore, dove non potevi camminare per strada senza aver paura di essere presa, picchiata, dove c’erano continuamente notizie di dissidenti in prigione, ecc. Perciò da questo punto di vista c’è un lieve miglioramento. Però la vita è dura perché spesso c’è non
solo la censura esterna dei comportamenti, ma anche una censura interna; per cui alla
fine non solo il regime si aspetta che tu abbia un’identità “islamicamente corretta”, ma
tu stessa, per sopravvivere, ne cerchi una. C’è un continuo gioco di specchi, per cui, rispetto alla società, sei una cittadina che si maschera quotidianamente, cercando di preservare un’immagine di osservanza di quelli che sono i dettami della repubblica islamica; e poi, internamente, hai una vita completamente diversa, una vita in cui comunque ti mascheri per cercare di sopravvivere. Inoltre, in questo meccanismo, si sommano tutti i retaggi di quella che è comunque una cultura patriarcale, anche se ci sono stati grandi cambiamenti. Pensate che ormai Teheran è una città di più di 12 milioni di abitanti, una città enorme, massiccia; e non solo a Teheran, ma anche nei piccoli centri la
vita non è più quella di un tempo. Però i retaggi della cultura patriarcale rimangono e
c’è questo strano innesto di modernità e di tradizione, a cui comunque la repubblica
islamica pensa di uniformare tutto - negando tutte le differenze e tutte le evoluzioni perché poi l’unica identità che viene concepita come identità forte e fondante è quella
islamica. È come se uno si sentisse italiano, ma anche europeo, ma anche cattolico, ma
anche ingegnere, e gli venisse detto: “No, tu sei solo cattolico, credente e tutta la tua vita e la tua identità si ferma lì.” Quindi niente di te importa, niente di te è significativo,
a parte quell’unico carattere. Questo è quello che vuol dire vivere lì.
La situazione negli anni è migliorata. Abbiamo avuto questo presidente Khatami che è
stato descritto come il presidente filosofo e che è stato molto amato dalle donne perché
aveva promesso di cambiare, più che altro di creare un clima culturale meno avverso.
Ha parlato tanto di dialogo tra le civiltà e di rivoluzione culturale, e sono state le donne la sua fortuna perché in Iran votano dal 1963. Non che ci siano elezioni regolari, ci
sono brogli massicci di cui, purtroppo, spesso la stampa internazionale non parla: ma
le donne votano e possono essere votate, possono entrare in Parlamento. Però non possono ambire a grandi incarichi, non possono ambire, ad esempio, ad essere presidente,
ad essere dirigenti politici, devono accontentarsi, devono limitarsi, sempre. A meno che
non appartengano ad una ristretta cerchia di donne del regime: le mogli, le nipoti, le
cugine, le figlie. Le famiglie iraniane sono sempre famiglie molto allargate e queste
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grandi famiglie di ayatollah, che sono la nuova casta al potere, sono piene di donne: e
loro un piccolo posto al sole se lo ritagliano, però mai al vertice.
Questo vuol dire che, sebbene ci siano degli spazi e a dispetto dei progressi di questa
liberalizzazione estetica, di questi colori - è vero: è meglio e più facile vivere in un Paese
in cui non c’è quel nero opprimente e dove comunque c’è qualche colore, ma non è il
colore che ti dà la libertà, la libertà è un’altra cosa - la realtà è che, in Iran, le cose cambiano costantemente da un giorno all’altro. Nell’ultimo periodo è uscita addirittura la
notizia che il nuovo presidente Ahmadinejad vorrebbe marciapiedi separati per uomini e per donne, per limitare il più possibile gli incontri: e quindi non si può mai sapere
come va a finire, da un momento all’altro le cose rischiano sempre di precipitare. Però,
pensando alla condizione della donna, bisogna partire dal fatto che in Iran una donna
vale la metà di un uomo. Questo vuol dire che in tribunale la sua testimonianza vale la
metà di quella di un uomo, e questo principio è difeso a spada tratta sulla base della
sharia, che sancisce che le donne non potrebbero valere quanto un uomo in un tribunale perché sono troppo emotive, sono irrazionali e dunque non affidabili.
A me è capitato di intervistare decine di ayatollah, di direttori di giornali, di uomini con
le più diverse cariche istituzionali, che viaggiano, leggono, possono parlare di filosofia
per ore; e in tutti questi incontri, alla fine delle interviste, chiedevo: “Ma davvero io sono così inferiore? Davvero sono così irrazionale? Perché in Europa le donne non sono
considerate altrettanto irrazionali e possono avere e vivere una condizione diversa?”.
Interrogati su questi punti, anche sui principi che loro stessi propugnavano, non avevano risposte: erano sempre gli stessi ritornelli, risposte imparate a memoria, per cui è
come sbattere contro un muro di gomma. Anche coloro che vengono definiti “riformisti”, che si autocelebrano e dicono di credere nella democrazia, poi, agli effetti pratici,
non oseranno mai contestare i diktat di quella che è l’oppressione femminile, perché
questa oppressione - di cui il velo è un po’ l’emblema - è proprio uno dei caratteri fondamentali, dei cardini di questo sistema.
Quindi, se voi siete una donna iraniana e volete divorziare, dovrete dimostrare che vostro marito vi picchia, che è un pericoloso delinquente, che ha problemi di droga, che
ha debiti; oppure ve lo potrete scordare. Potrete stare nei tribunali e cercare di perorare la vostra causa, ma il giudice vi dirà che dovete fare pace. E se avrete dei figli piccoli, dovrete rassegnarvi al fatto che, una volta che avranno compiuto il settimo anno
d’età, dovrete lasciarli ai vostri mariti. Prima la situazione era ancora peggiore: quando avevano due anni, i bambini maschi venivano separati dalle madri. Ora, alla fine di
una lunga battaglia, i figli maschi vengono tolti alle madri a sette anni e questa è stata
considerata, negli ultimi tempi, una delle grandi conquiste delle donne, soprattutto di
quelle del partito riformista. Quando dico “riformista” e “conservatore” prendete queste categorie molto in generale, perché in realtà queste distinzioni noi le applichiamo
per descrivere una situazione che non corrisponde al vero: sono tutte categorie un po’
prive di significato, per quella che è la realtà politica interna iraniana. Dovete pensare
che è un sistema in cui c’è una dialettica un po’ fasulla, come vi dicevo prima, dove ci
sono dei gruppi di potere, degli interessi, una cricca di religiosi, in questo momento anche dei militari che si spartiscono il potere: ma rimane sempre un sistema chiuso e avvitato in se stesso.
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Il fatto che ci sia stata in alcune leggi una parziale apertura è anche merito dell’alleanza che si è creata tra alcune donne. C’è sempre stata una forte dicotomia nel movimento femminile iraniano fra quelle che si considerano donne laiche e urbanizzate, della
classe media, che magari hanno fatto la rivoluzione e poi hanno combattuto anche per
rovesciarla, perché non si riconoscono in questo regime, e le donne invece più tradizionaliste, che vivono in realtà rurali e non solo cittadine, legate a tutto un sistema di
solidarietà islamica tradizionale. Invece si registra negli ultimi anni un’alleanza nel movimento, che un tempo era spaccato da questa divisione che, purtroppo, in Iran c’è molto spesso, tra i cosiddetti “noi e loro”: noi – che non ci riconosciamo nella rivoluzione,
nel suo sistema di valori - e loro – gli altri, quelli che ne fanno parte, quelli che sono al
vertice, che si spartiscono le poltrone, i soldi, le fondazioni religiose. Le donne sono le
principali artefici di questo avvicinamento, per cui, nonostante la diversa provenienza
ideologica, religiosa, il diverso credo, quando si confrontano con la realtà di quello che
vuol dire pensare ai figli, per esempio dover abbandonare un figlio piccolo, queste donne hanno cominciato a cercare le cose che le uniscono e non solo ciò che le separa. È un
movimento che si sta rafforzando e, come è stato detto prima, che ha futuro, perché il
63% nelle università sono donne. Le donne rappresentano solo il 30% della forza-lavoro, ma è un dato in crescita perché finiscono di studiare prima, entrano nel mondo del
lavoro prima e spesso sono più qualificate degli uomini. Inoltre hanno la capacità di
smussare, di pensare, di cercare di costruire un Iran diverso, dimenticando anche il passato, cercando di guardare più al futuro.
Tuttavia la situazione è molto dolorosa per la donna iraniana perché spesso la sua condizione viene descritta dai commentatori stranieri, che ricalcano i vecchi stereotipi degli orientalisti, come un dato culturale immutabile, come un costume, una cosa esotica
e straniera. Non è così. In Iran non solo le donne hanno cominciato a votare nel 1963,
come ho detto prima, ma il movimento per l’emancipazione femminile è cominciato all’inizio del ‘900 e ci sono state importantissime riviste e associazioni femminili. La prima donna-ambasciatrice, nel 1951, è stata una di quelle che ha lottato di più per costruire un Iran in cui le donne potessero avere diritto di parola. Nel 1968 il nuovo diritto di famiglia ha rivoluzionato completamente i costumi secolari, dando alla donna
un peso diverso nella società e aprendole tantissime porte. Negli anni ‘70 c’erano donne-giudice, c’erano donne-avvocato, c’erano donne che cercavano di farsi strada in tutti gli ambiti all’interno di una cultura comunque patriarcale, dove, adesso come 30 anni fa, quando tu vai lì si stupiscono che una donna lavori. Sembra che lavori solo per
passatempo, perché il tuo primo ruolo deve essere quello di moglie e di madre. Invece,
fin dagli inizi del ‘900 - ed è una cosa che grazie al cielo continua ancora oggi - le donne hanno lottato per cercare di affermare un’identità che non sia solo quella legata a tuo
padre, o a tuo marito, o alla tua famiglia: una tua identità in quanto soggetto. Infatti
molte donne che militano oggi nel movimento femminista rivendicano in Iran le esperienze degli inizi del ‘900, che è un paragone e un accostamento che viene vissuto molto male dalle cariche istituzionali dello Stato, perché riporta il discorso ad un passato
che la repubblica islamica non riconosce. In Iran per le istituzioni attuali tutto quello
che si richiama all’esperienza monarchica è considerato qualcosa di impossibile e di
scandaloso.
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Eppure le donne osano. Nella rivista femminile Zan, che vuol dire “donna”, fu una volta pubblicato un messaggio dell’ex imperatrice Farah Pahlavi e questa rivista fu chiusa. La giornalista che aveva pubblicato questo messaggio - che era uno scritto di augurio perché il 21 marzo si festeggia in Iran l’anno nuovo e per noi è il momento più importante dell’anno - l’aveva fatto scrivere per sottolineare il fatto che nella storia c’è un
processo di continuità: quindi dobbiamo acquisire e riconoscere anche le esperienze di
chi ci ha preceduto e non buttare via niente, anche se questo sistema nega la monarchia
e tutto quello che è avvenuto prima. Naturalmente il giornale è stato chiuso e la giornalista è stata arrestata. E questo accade quotidianamente a moltissime giornaliste iraniane, che sono numerosissime e sono anche tra le più abili e coraggiose: sono loro
quelle più spesso colpite dalla censura, quelle più spesso arrestate, quelle più spesso
fermate, offese, perché sono più deboli ed è molto facile per un uomo fermarle, aggredirle e ridurle al silenzio.
Quando l’ayatollah Khomeini arrivò al potere, si rivolse alle donne: aveva bisogno delle donne e le donne cavalcarono la rivoluzione e ne furono purtroppo anche cavalcate.
Nel senso che non sembrava all’inizio che la repubblica islamica - proprio per questa
definizione di “repubblica” - sarebbe stata una teocrazia; sembrava che in questa repubblica le donne avrebbero avuto più spazio, che questa repubblica le avrebbe aiutate a liberarsi del retaggio patriarcale familiare. Non andò così, naturalmente, anche se
delle donne non poterono disfarsi: per cui fu imposto il velo, fu abrogato il codice di famiglia, ritornarono le leggi islamiche. In realtà è sbagliato dire “ritornarono” perché,
sebbene in Iran ci fossero già state leggi islamiche che venivano applicate nei villaggi molto spesso dai mullah che fungevano da figura centrale del villaggio - tuttavia non
era un sistema codificato. Ebbene, tutte le conquiste furono buttate al vento e si arrivò
a un sistema che poneva la legge islamica al centro della vita: quindi si chiudeva con
tutto.
L’altra cosa interessante da notare è che però con la guerra ci fu bisogno di donne, perché gli uomini erano al fronte; per cui le donne arrivarono massicciamente, occuparono posti e si resero anche un po’ indispensabili. È per questo che adesso le donne in Iran
sono così visibili. Spesso la repubblica islamica si vanta del fatto che le donne in Iran
siano ovunque; ma le donne sono ovunque perché il regime ne ha avuto bisogno e
adesso continuano ad occupare i posti che si liberarono allora, in posizioni comunque
abbastanza di frontiera, difficili. Infatti rimangono sempre lì nel loro posto, tutti gli uomini fanno carriera e loro rimangono sempre lì: una sorta di riserva indiana permanente.
Un altro cambiamento che vorrei sottolineare riguarda l’esperienza delle donne iraniane in Parlamento. Quando agli inizi degli anni ’80 le donne entrarono in Parlamento,
entrarono solo donne che si riconoscevano nell’esperienza rivoluzionaria e quindi non
contestavano minimamente le leggi dello Stato. Anzi accettarono supinamente il fatto
che l’art. 20 della Costituzione dicesse che solo in maniera residuale, come dicevo prima, le donne erano uguali agli uomini. Quando fu scritta la Costituzione le donne non
fiatarono. Adesso le cose sono cambiate e le donne parlamentari organizzano manifestazioni, parlano con le altre donne di movimenti considerati illegittimi, illegali, con le
donne dissidenti. Quindi c’è un vero fermento e proprio le donne spesso sono in prima
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fila, a seconda dei diversi campi dai quali provengono. Ci sono giornaliste che parlano
delle donne che fanno le manifestazioni e c’è una sorta di circolo virtuoso di persone
che cercano di portare alla luce i problemi più gravi del regime.
Si parlava prima della manifestazione che c’è stata l’8 marzo. È stata una manifestazione attesa con grande emozione, perché date che qui da noi forse non assumono un significato profondo in Iran sono un momento di grande risveglio, in cui si sente di dover dimostrare qualcosa. Più di duemila donne si sono radunate, hanno cercato di raggiungere un parco, sono state inseguite, sono state picchiate con manganelli e con delle specie di bastoni elettrici importati per l’occasione dalla Cina. Molte sono finite all’ospedale, molte altre ancora sono state arrestate. Tra loro c’era una famosissima poetessa iraniana che si chiama Simin Behbahani, che da molti anni racconta la condizione
della donna in Iran, senza parlare direttamente del problema, cercando di creare una
suggestione per far sentire le cose, più che descriverle facendole vedere. Nessuno ha
avuto rispetto neppure per lei, che è una signora abbastanza in là con gli anni.
Questi sono momenti in cui il regime manifesta proprio la sua fragilità, perché non accetta neppure un gruppo di duemila donne che alzano cartelli, chiedendo solo più libertà, più diritti: rivendicazioni neanche tanto scandalose in Iran, nel senso che sono
cose che si sono già viste. Ci sono regolarmente manifestazioni femminili in Iran.
Purtroppo la stampa se ne accorge poco, spesso fanno più rumore le altre manifestazioni, quelle organizzate dal regime, dove vedete donne completamente vestite con il
chador nero di ordinanza. Ma tra le donne iraniane queste distinzioni nell’abbigliamento non sono poi così importanti. Non voglio dirvi che il velo non sia importante, ma oggi le cose sono cambiate anche in questo. Ossia, mentre un tempo mettere il chador nero integrale voleva dire appartenere comunque a famiglie importanti, clericali, quindi
essere negli organigrammi del regime, adesso gli organigrammi del regime si sono evoluti, vivono nella parte più ricca di Teheran, quella delle ambasciate, dei caffè alla moda, e molto spesso le mogli e le figlie di mullah vanno a giro con una specie di piccolo
soprabito, si coprono con un velo e magari sotto hanno i jeans leopardati, i tacchi, ecc.
Per cui queste distinzioni non hanno più senso. Anche ragazze considerate molto religiose, perché magari le vedete vestite tutte con un chador nero, sono invece legate a un
discorso di rivendicazione dei loro diritti, di emancipazione; molto più delle ragazze
truccate di tutto punto che pensano solo ad avere ciò che a loro manca, gli status symbol occidentali: per cui non bisogna troppo fossilizzarsi su queste categorie. Il velo è un
dramma per le donne iraniane perché è un’imposizione, come è un’imposizione il divieto alla propria libertà di espressione. Però per le donne iraniane è altrettante grave
essere considerate la metà di un uomo: questa è una cosa che incide molto di più sulla
vita personale perché, alla fine, al velo ci si abitua, al fatto di essere considerate niente,
o la metà di qualcun altro, non ci si abitua.
Per concludere, volevo dirvi di cercare a volte di guardare oltre, di pensare che, quando la televisione vi fa vedere queste immagini di donne come corvi neri, molto spesso
non è quella la realtà e, se la telecamera allargasse un pochino la sua inquadratura, vedreste altre donne. Se voi poteste vedere sotto i chador, vedreste tutt’altro, vedreste un
Paese pieno di contraddizioni, dove le donne sono proprio la punta di diamante di questa parte di mondo, di questa parte di Iran che insegue la libertà e la rivendica.
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Alessandra Peretti
Ringraziamo Tatiana perché credo che questo invito a guardare oltre le apparenze sia
sempre importante, in particolare quando ci troviamo a confrontarci con un mondo che
comunque, per certi aspetti, sentiamo diverso dal nostro.
Dopo il suo discorso, che mi sembra abbia ampiamente risposto alle domande relative
alle contraddizioni presenti nell’Iran di oggi, che avevo sollevato all’inizio, passo la parola a Virginia, che ci parlerà della resistenza delle donne iraniane così come l’ha voluta affrontare lei.
Virginia Del Re
Sono un po’ emozionata perché Tatiana mi ha riportato a vecchi ricordi. Il quadro da lei
fatto della situazione delle donne iraniane sconvolge e poco, forse, ne traspare di resistenza in senso tipico. Però nei tre seminari precedenti di questo interessante ciclo abbiamo visto come le resistenze delle donne siano in gran parte anomale, rispetto all’uso più convenzionale del termine resistenza, nel senso che le loro forme di resistenza o
di opposizione si adattano alle forme stesse della loro vita: le donne per lo più lottano
a mani non armate, come recitava il titolo di una mostra della Casa della Donna, l’associazione che qui rappresento. Dunque come madri, come mogli, come studentesse.
Neppure le resistenti iraniane di cui parlerò stasera sono combattenti regolari: si tratta
di scrittrici famose, come Azar Nafisi, di vignettiste note come Marjane Satrapi, di pittrici, disegnatrici, giornaliste, semplici lettrici. Le loro armi sono le forme d’arte in cui
esprimono la libertà dell’immaginazione e il coraggio di raccontare, l’ironia, il dolore e
la rabbia di fronte alla delusione bruciante di una rivoluzione cui molte avevano aderito con entusiasmo e che si è rivelata un’oppressione crudele, di fronte alla censura burocratica e cieca e alla coltre mortifera di regole e divieti cosiddetti religiosi, imposti su
ogni minimo aspetto della vita delle persone, e soprattutto delle donne. Del resto, lo
sappiamo bene, è tipico degli integralismi religiosi l’essere morbosamente ossessionati
dal bisogno - tutto maschile - di controllare il corpo femminile.
Stasera è qui con noi anche Fariba Ferdosi Milani, un’amica artista iraniana che ci mostrerà qualcosa del suo lavoro e ci parlerà della sua esperienza di giovane migrante dalla Persia all’Italia.
Desidero però spiegare prima la mia presenza qui. Il nostro gruppo di lettura pisano,
La luna, decise qualche tempo fa di leggere opere di scrittrici dei paesi del medio e del
vicino Oriente; e dopo qualche esperimento deludente ci imbattemmo nei lavori, ormai
notissimi in Occidente, di due iraniane: Persepolis, l’autobiografia in fumetti di Marjane
Satrapi, e Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafizi. È il racconto, a metà tra finzione e
realtà, del percorso di un gruppo di lettura a Teheran, tra il 1995 e il ’97, la cui stessa
esistenza rappresenta un vero e proprio esperimento eversivo.
Alessandra ha proposto a me di parlare del nostro incontro con queste resistenti anche
per via di un mio legame biografico e affettivo con l’Iran, legame che si costituì molti
anni fa, quando ero studentessa e ottenni dal governo dello Scià una borsa di studio per
due anni all’università di Teheran. Perdonatemi un breve tuffo nella “mia” Persia degli
anni sessanta e guardate queste due fotografie, scattate allora. Guardate questi vestitini: qualcuna di voi forse ricorderà vestitini simili, sopra le ginocchia, e le scarpe a pun-
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ta. C’era già la moda geometrica. Questa era la mia Persia, un Paese dove noi europee
stavamo magnificamente.
Le immagini dovrebbero essere eloquenti da sole. Azar Nafisi ne parla con collera e nostalgia quando pensa alle sue ragazze, come le chiama nel libro, e guarda le loro fotografie. In proposito scrive:
“Qualcuno di voi magari si starà chiedendo a cosa pensa Sanaz - è una delle studentesse di Azar, che è stata imprigionata, frustata e umiliata in tutti i modi - mentre cammina per le strade di Teheran, e fino a che punto quell’esperienza la condiziona. Con
ogni probabilità, tenta di estraniarsi il più possibile da quanto la circonda. Chissà, forse pensa al fratello, o al fidanzato lontano e a quando lo incontrerà in Turchia. Oppure
paragona la sua situazione a quella della madre alla sua età, e si domanda con rabbia
perché le donne della sua generazione potessero passeggiare liberamente, godere della
compagnia dell’altro sesso, arruolarsi in polizia, diventare piloti, vivere insomma in un
sistema tra i più avanzati al mondo riguardo alla condizione femminile. Forse si sente
umiliata dalle nuove leggi, dal fatto che dopo la rivoluzione l’età minima per sposarsi
sia stata abbassata da diciotto a nove anni, e che si sia reintrodotta la lapidazione per le
adultere e le prostitute”.
Nell’Iran di prima, sotto il regime Pahlavi, le donne parteciparono a una forma di resistenza di ordine, diciamo così, più tradizionale, che le vide unirsi in maniera paritaria
agli uomini nella lotta contro l’oppressione e la feroce repressione delle libertà civili,
dove non era la libertà femminile ad essere in gioco, ma il sistema di governo, la libertà
delle scelte politiche e sociali, i diritti dei poveri, l’uso e la distribuzione delle risorse
del paese. Molte iraniane adulte che vivono oggi in Europa o in America sono testimoni dirette e indirette di quella prima resistenza: studentesse che avevano studiato all’estero, figlie di famiglie più che benestanti o di intellettuali; donne le cui madri si erano
viste liberate, emancipate dall’occidentalizzazione – decisamente frettolosa — del
Paese sotto il primo e sotto il secondo Scià, e che avevano assaporato il frutto della politica. Il mio Iran appartiene a quell’epoca e i miei ricordi sono in realtà legati a una situazione di doppio privilegio: l’essere giovanissima e l’appartenere alla comunità europea ospite dell’Iran. Infatti, negli anni sessanta, ero molto giovane, vivevo e studiavo
con entusiasmo, e capivo pochissimo del mondo e di politica: sì, sentivo allusioni e cauti discorsi, ma solo dopo ho saputo della crudele Savak, la polizia segreta dello Scià,
strumento della repressione da parte del regime di tutto quanto era in odore di comunismo (o di opposizione tout court). Quello che la vita “normale” ci mostrava, nelle
grandi città, era libertà delle donne, mode europee, ricchezza e lusso, grande cordialità
e speciale simpatia per gli italiani, voglia di costruire e innovare; insieme a modi di vita tradizionali, a molta povertà, a un traffico infernale creato da automobili enormi e
scassatissime, soprattutto quelle dismesse dal mercato americano, rumorose e piene di
lustrini, lumini e fiori di plastica colorati. Ma l’atmosfera appariva in generale tutt’altro che cupa e, in quanto alla religione, si visitavano tranquillamente le moschee (quasi tutte), le chiese armene e cattoliche, i luoghi dei Parsi e naturalmente le spettacolari
testimonianze del grande passato remoto persiano.
All’università i pochi studenti stranieri come me (nel mio corso eravamo tre donne, una
francese e due italiane, e una decina di studenti dai quattro angoli del mondo) anda-
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vano senza alcun problema; e per le strade, giovane e vestita all’europea com’ero, il pericolo e il fastidio reale e costante erano le palpatine fugaci – cosa che accadeva ahimè
anche nel nostro sud - e qualche frase borbottata e del resto incomprensibile: un po’ di
buonsenso e la compagnia di un’amica o di un uomo erano protezione sufficienti. Se ripenso agli abiti estivi che indossavo allora, a Teheran, a Isfahan, a Shiraz, e li confronto con quanto succede oggi, mi vengono brividi di terrore retrospettivo. Ricordo peraltro molto chiaramente la sensazione di ostilità che veniva invece dalla gente anziana
del bazaar, specialmente dagli occhi neri brucianti delle vecchie donne avvolte nel chador; in città le giovani iraniane meno europeizzate usavano chador chiari, leggeri, e i volti erano ben visibili e di solito sorridenti, ma era noto che bazaar, moschee e campagne
erano luoghi terribilmente conservatori. Di integralismo all’epoca mi pare non si parlasse, sebbene ci fossero ricorrenti episodi di fanatismo: qualcuno in bicicletta gettava
acido cloridrico in faccia a qualche donna europea. Era un pericolo reale, ma di solito
molto circoscritto e subito represso.
L’integralismo religioso di stato sembrava lontano dall’apparire all’orizzonte. Ma
quando arrivò, nel 1979, le donne furono oggetto privilegiato delle sue attenzioni, della sua ansia di regolare, controllare e ingabbiare tutto, non solo i diritti elementari universali alla libertà di espressione, di culto o di non culto, ma in particolare i diritti delle donne in quanto tali, il loro status sociale e politico, e soprattutto, l’abbiamo detto, il
loro corpo. Per paradossale che possa apparire, forse opporsi a questo soffocamento è
una lotta più difficile e oscura, che, proprio perché non segue i modelli tradizionali quasi sempre tracciati dai maschi - è fatta di piccole invenzioni quotidiane, di sfide individuali o di piccoli gruppi, perfino di minime cose, come un colore proibito, un rossetto, una sigaretta in luogo vietato. Cose minime che possono costare un prezzo spropositato, la prigione, la fustigazione e altri orrori. Oppure la rivolta, la resistenza prendono la forma di difesa dell’immaginazione, della fantasia creativa, attraverso la scrittura, la lettura, il disegno, il canto.
Ricordo vividamente il viaggio che feci con due amiche italiane – tre donne sole! – da
Isfahan a Shiraz a Persepolis, viaggio meraviglioso, da cui tornammo perfettamente indenni e piene di immagini indimenticabili e di allegria.
A questo Iran appartenevano i genitori illuminati e affettuosi di Marjane Satrapi, che
decisero di mandarla in Francia ancora ragazzina pur di sottrarla all’oppressione, e la
stessa Azar Nafisi, che dice con struggimento:
“La principale differenza tra queste ragazze e quelle della mia generazione era che noi
sentivamo di aver perduto qualcosa, e ci lamentavamo del vuoto che si era creato nella nostra vita quando ci avevano rubato il passato, trasformandoci in esuli nel nostro
paese. Ma se non altro avevamo un passato da paragonare al presente; avevamo ricordi e immagini di ciò che ci era stato portato via. Le mie ragazze invece parlavano sempre di baci rubati, di film che non avevano mai visto e del vento che non avevano mai
sentito sulla pelle. I loro ricordi erano fatti di desideri irrealizzati, di cose che non avevano mai avuto. E questa mancanza, questo struggimento per le cose più normali, conferiva alle loro parole una luce malinconica, vicina alla poesia.”
Marjane Satrapi, la più giovane delle due artiste di cui ci siamo occupate, racconta nel
suo volume Persepolis, in splendide vignette, irriverenti e ironiche, dal segno rigorosa-
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mente in bianco e nero e straordinariamente efficace, la sua infanzia e la sua storia di
giovane esule iraniana. L’esilio è sempre presente in queste scrittrici e artiste: l’Iran perduto, la casa in cui non si può più stare sono la radice perenne e dolorosa della loro esistenza “altrove”.
Azar Nafisi lo spiega benissimo anche in un articolo apparso sabato 11 marzo su
Repubblica:
“Che fossi in Inghilterra o in America, comunque al centro della mia esistenza c’era
sempre l’idea del ritorno... Il mio Iran perduto s’imponeva in tutti momenti della mia
vita e arrivai perfino a trasferirmi per un semestre nel New Mexico solo perché laggiù
le montagne e le notti stellate mi ricordavano quelle della mia infanzia”.
Ma torniamo alla Luna e alla nostra lettura di Azar Nafisi.
La trama di Leggere Lolita a Teheran è semplice: qualche anno dopo la rivoluzione di
Khomeini, l’autrice dà finalmente le dimissioni dall’università di Teheran, dove insegnava letteratura anglo–americana, e decide di realizzare la sua fantasia ricorrente, “i
colori dei suoi sogni”: raccogliere un piccolo numero selezionato di studenti e leggere
con loro opere di letteratura. Si costituisce così un gruppo di lettura molto speciale. Io
vorrei farvi sentire attraverso la lettura di Debora il racconto di questo mettersi insieme del gruppo, che è molto importante perché rappresenta di per sé, con la sua esistenza, una forma di attività clandestina, eversiva, dove si coltiva niente di meno che
l’uso della critica libera, l’uso dell’immaginazione. Il delitto più grande del regime, dice Nafisi, è quello di aver ucciso l’immaginazione, il crimine più orrendo che questi regimi fanno è di schiacciare l’individuo e la sua fantasia. Ed è esercitando la fantasia e
l’immaginazione che queste donne fanno resistenza.
Debora Mattiello
“Nell’autunno del 1995, dopo aver dato le dimissioni dal mio ultimo incarico accademico, decisi di farmi un regalo e realizzare un sogno. Chiesi alle sette migliori studentesse che avevo di venire a casa mia il giovedì mattina per parlare di letteratura. Erano
tutte ragazze, dato che, per quanto si trattasse di innocui romanzi, insegnare ad una
classe mista in casa propria sarebbe stato troppo rischioso. Fra gli studenti maschi,
Nima fu l’unico a rivendicare con ostinazione i propri diritti, così acconsentii a passargli il materiale che assegnavo e, di tanto in tanto, a vederci da me per parlare dei libri
che stavamo leggendo.
Spesso mi divertivo a punzecchiare le mie studentesse e, citando Gli anni fulgenti di Miss
Brodie di Muriel Spark, domandavo: “Chi di voi mi tradirà?”. Essendo pessimista per
natura, ero certa che almeno una mi si sarebbe rivoltata contro. Nassrin una volta mi rispose con malizia: “Ma se è stata proprio lei a dirci che alla fine siamo sempre noi a tradire noi stessi, a diventare il Giuda del nostro stesso Cristo!”. Manna invece mi fece notare che io non ero affatto Miss Brodie e loro, be’, loro erano quello che erano. Mi rammentò inoltre una delle mie raccomandazioni: non sminuire mai, in nessuna circostanza, un’opera letteraria cercando di trasformarla in una copia della vita reale; ciò che cerchiamo nella letteratura non è la realtà, ma un’epifania della verità. Eppure, credo che
se dovessi disobbedire ai miei stessi ammonimenti e indicare il romanzo che meglio di
ogni altro riflette la nostra vita nella Repubblica islamica dell’Iran, non sceglierei Gli an-
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ni fulgenti di Miss Brodie, e nemmeno 1984; semmai Invito a una decapitazione di Nabokov
oppure, meglio ancora, Lolita.
Due anni dopo l’inizio del nostro seminario, l’ultima sera che ho trascorso a Teheran,
alcuni amici e studenti sono venuti a salutarmi e a darmi una mano con i bagagli. Dopo
aver sottratto alla casa i suoi oggetti e i suoi colori, risucchiati da otto valigie grigie come geni vagabondi dalle loro lampade, io e le mie studentesse ci siamo messe in posa
davanti alle pareti bianche e spoglie della sala da pranzo, per scattare un paio di foto.
Le ho davanti a me, adesso. Nella prima si vedono sette donne su uno sfondo bianco.
In conformità alle leggi del loro paese, indossano ampie vesti nere e veli, neri anch’essi, legati stretti intorno alla testa, che lasciano scoperti soltanto il volto e le mani. La seconda foto ritrae lo stesso gruppo di donne, nella stessa posizione, contro la stessa parete bianca. Stavolta, però, senza quei drappi scuri. Sprazzi di colore le distinguono l’una dall’altra. Ognuna è diversa per il colore e lo stile degli abiti, per il colore e la lunghezza dei capelli; e nemmeno le due che portano ancora il velo si confondono più.
[...]
Per circa due anni, quasi tutti i giovedì mattina, con il sole e con la pioggia, sono venute
a casa mia, e quasi ogni volta era difficile superare lo choc di vederle togliersi il velo e
la veste per diventare di botto a colori. Eppure, quando le mie studentesse entravano
in quella stanza, si levavano di dosso molto di più. Lentamente, ognuna di loro acquisiva una forma, un profilo, diventava il suo proprio, inimitabile sé. Quel piccolo mondo, quel soggiorno con la finestra che incorniciava i miei amati monti Elburz, diventò
il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una sorta di sberleffo alla realtà di volti
impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi.
Tema del seminario era il rapporto tra realtà e finzione letteraria. Leggevamo i classici
della letteratura persiana, per esempio alcuni racconti della nostra “signora delle storie”, Shahrazad, tratti dalle Mille e una notte, insieme ai classici dell’Occidente - Orgoglio
e pregiudizio, Madame Bovary, Daisy Miller, Il dicembre del professor Corde e, appunto,
Lolita. A ogni titolo che scrivo, un nuovo vortice di ricordi arriva a turbare la pace di
questo giorno d’autunno, in un’altra stanza, in un altro paese.
Qui e ora, nell’altro mondo che tanto spesso veniva evocato dalle nostre discussioni,
siedo e ripenso a me e alle mie studentesse, le mie ragazze, come le chiamavo, mentre
leggevamo Lolita in una stanza piena di un sole fasullo, a Teheran. E tuttavia, per rubare le parole a Humbert, il poeta-criminale di Lolita, ho bisogno che anche tu, lettore,
cerchi di pensare a noi, perché altrimenti non potremmo esistere davvero. Contro la tirannia del tempo e della politica, cerca di immaginarci come a volte neppure noi osavamo fare: nei momenti più riservati e intimi, nelle più straordinariamente normali circostanze della vita, mentre ascoltiamo un po’ di musica, ci innamoriamo, camminiamo
per strade ombrose, o leggiamo Lolita a Teheran. E prova a ripensare a noi dopo che
quelle cose ci sono state confiscate diventando una volta per tutte un piacere proibito.
Se oggi voglio scrivere di Nabokov, è per celebrare la nostra lettura di Nabokov a
Teheran, contro tutto e contro tutti. Dei suoi romanzi scelgo quello che ho insegnato per
ultimo, e che è legato a così tanti ricordi. È di Lolita che voglio scrivere, ma ormai mi
riesce impossibile farlo senza raccontare anche di Teheran”.
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Virginia Del Re
Il fatto che noi della Luna, a distanza di anni e di cultura, ci trovassimo di fronte a un
gruppo di lettura di sole donne, che la lettura come rifugio, come esercizio di libertà e
di critica, che il diritto al piacere della lettura fosse la chiave di volta del libro di Nafisi,
naturalmente richiamava assonanze e differenze, suscitava ricordi, riportava noi del
gruppo a riflettere su noi stesse come lettrici, su ciò che la lettura aveva rappresentato
per ciascuna di noi, con un senso di affinità e di solidarietà tutto speciale. Anche per
molte di noi la lettura aveva rappresentato nel corso degli anni un luogo mentale “tutto per noi”, una forma di evasione da realtà meno drammatiche, ma che non potevamo
sopportare.
Tuttavia è chiaro che il senso del gruppo di Azar Nafisi va molto oltre questo: è un
gruppo di resistenti dal primo istante in cui le ragazze arrivano nel soggiorno di Azar.
Non è solo il contenuto – la letteratura occidentale, immorale – ad essere eversivo, è soprattutto il trovarsi insieme, il gruppo che si affiata e si incanta nella lettura, nell’isola
inventata dalle storie narrate. Quell’intimità, quello svelarsi in senso letterale e metaforico, quello stare insieme e parlare di sé e leggere e discutere opere letterarie è una
sfida al regime, un’attività clandestina, una vera azione sovversiva contro la disperazione. Quando sento dei regimi totalitari, di ogni credo e colore, oltre al senso di ribellione per la violenza e gli abusi, mi assale un senso di noia profonda, di fastidio per la
monotona ripetitività di certi tratti comuni: il timore paranoico delle persone che si riuniscono, l’odio per il sapere e il pensare, per il piacere, per l’immaginazione (che per
Azar Nafisi è il grimaldello, la forma di insubordinazione più potente per rompere la
gabbia). I censori fanno fortuna con questi regimi: i roghi di libri sono emblematici, così come gli indici dei testi proibiti e le scomuniche medievali, o le fatwa attuali, che hanno esattamente lo stesso effetto, o le condanne di forme d’arte, perché “degenerata”,
corrotta e disfattista. Tutte cose ben note in Occidente, e che anche la repubblica islamica dell’Iran regolarmente ripete. Non se ne parla mai, ma la rivoluzione puritana
nell’Inghilterra del ‘600 ebbe molti caratteri in comune con i regimi islamisti attuali, nella tetra ossessione di voler controllare attraverso regole e divieti le menti e i corpi delle persone, e in primis delle donne, naturalmente. Furono chiusi i teatri, furono banditi,
proibiti ogni forma d’arte non religiosa, il divertimento e semplicemente il piacere.
L’allegria, la levità, il riso sono sovversivi, lo sanno tutti.
Così si arrivava, e si arriva, al ridicolo e al grottesco, naturalmente; scrive Azar Nafisi
nell’articolo apparso sabato scorso su Repubblica:
“In un adattamento russo dell’Amleto distribuito in Iran, Ofelia fu eliminata dalla maggioranza delle scene; nell’Otello di Sir Lawrence Olivier, la parte di Desdemona fu tagliata nella maggior parte del film, e anche il suicidio di Otello fu espunto perché, secondo i censori, avrebbe rattristato e demoralizzato le masse! In Iran le masse erano una
strana categoria, perché parevano soffrire di più assistendo alla morte di un personaggio immaginario sullo schermo che non subendo fustigazioni e lapidazioni di persona.
E, mentre a scuola le studentesse venivano rimproverate se ridevano apertamente o se
correvano in cortile, se avevano le stringhe delle scarpe colorate o se portavano braccialetti variopinti, nei cartoni animati dl Braccio di Ferro fu eliminata Olivia da quasi
tutte le scene perché la relazione fra i due personaggi era illecita”.
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Anche nel libro Nafisi ha dei momenti di un’ironia feroce, quando racconta per esempio la storia del censore cieco. Vuoi leggerla, Debora? È breve, ma dà un’idea delle cose contro cui combattono queste donne: oltre alle frustate, oltre alle continue persecuzione del Grande Fratello, oltre ai guardiani della moralità, oltre alla prigione per aver
riso troppo forte, c’è anche proprio tutto un mondo....
Debora Mattiello
“Il modo migliore per spiegare questo paradosso infernale è quello di ricorrere a un
aneddoto che dimostra come, a volte, la realtà superi anche la finzione più grottesca.
Fino al 1994, il responsabile della censura cinematografica in Iran era un cieco. O meglio, quasi cieco. Prima di quell’incarico si era occupato di censura teatrale. Una volta
uno dei miei amici drammaturghi lo aveva visto seduto in platea, con un paio di lenti
talmente spesse che gli occhi non si vedevano quasi: un assistente gli spiegava quanto
succedeva sul palcoscenico e prendeva nota delle parti che andavano tagliate.
Dopo il 1994, il censore passò ad occuparsi del nuovo canale televisivo. Là perfezionò
i suoi metodi e ordinò che gli autori gli fornissero i copioni registrandoli su una audiocassetta; non dovevano animarli in nessun modo. Il censore li giudicava basandosi su
quei nastri. Ancora più interessante, comunque, è il fatto che il suo successore, che non
era cieco - non fisicamente, almeno -, decise di adottare lo stesso sistema”.
Virginia Del Re
Penso che basti per darvi un’idea della insensatezza e del grottesco a cui si può arrivare con l’obbiettivo di controllare ad ogni costo tutto e tutti.
In Leggere Lolita a Teheran, il soggiorno della casa della professoressa si trasforma insieme nel rifugio segreto delle lettrici, che possono mostrare la loro vita reale per quello
che essa è, e nel rifugio incantato della fantasia; e i testi scelti dal gruppo sono espressioni, metafore di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere.
Ma quel soggiorno è anche il luogo in cui la lettura assume il valore di ripensamento
del mondo, della realtà e dei testi stessi. Le donne sono protagoniste: Nafisi non fa mai
proclami femministi (e parla del femminismo islamico come di un mito, cioè una bugia), ma dice molto chiaramente: “Esposi loro i temi che avremmo trattato; il più importante era come questi capolavori dell’immaginazione potessero aiutare noi donne a
sopravvivere in un contesto così opprimente. Non cercavamo formule, o risposte facili; speravamo invece di trovare un collegamento tra gli spazi aperti dei romanzi e quelli chiusi in cui eravamo confinate. Ricordo di aver letto alle ragazze l’affermazione di
Nabokov secondo cui ‘i lettori nascono liberi e liberi devono rimanere’”.
Ci sono alcune metafore chiave in Leggere Lolita a Teheran: non a caso il primo testo che
viene letto è Le mille e una notte. Immagino che tutte sappiate la storia della meravigliosa narratrice Shahrazad, che è rimasta l’esempio straordinario della donna che riesce ad
incantare e a mani non armate riesce a fermare la violenza.
Dice Nafisi: “Ad affascinarmi più di ogni altra cosa nella cornice delle Mille e una notte
erano i tre diversi tipi di donna che vi si trovavano descritti - tutte vittime del potere
assoluto e irragionevole di un re. Prima che entri in scena Shahrazad le donne si dividono in due categorie: quelle che tradiscono e poi vengono uccise (la regina), e quelle
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che vengono uccise prima che sia loro concessa la possibilità di tradire (le vergini). A
differenza di Shahrazad, queste ultime non hanno voce in capitolo, e sono per lo più
ignorate dai critici. Il loro silenzio, comunque, è significativo. Rinunciano alla verginità
e alla vita senza resistere né protestare. Non esistono veramente, perché le loro morti
anonime non lasciano traccia. L’infedeltà della regina non priva il re del suo potere assoluto; lo sbilancia soltanto. Tutti e due i tipi di donne - la regina e le vergini - subiscono in silenzio l’autorità del sovrano, agiscono all’interno dei suoi confini di potere e ne
accettano i soprusi. Shahrazad interrompe il ciclo di violenze, scegliendo di seguire regole diverse. Incentra il proprio mondo non sulla forza fisica, come il re, ma sulla fantasia e sulla riflessione. Questo le dà il coraggio di rischiare la vita, e la distingue dagli
altri personaggi della storia”.
Questa metafora è tanto trasparente quanto fondante per una scrittrice, mi sembra:
Shahrazad come simbolo, come archetipo della narratrice, della resistenza delle donne
attraverso l’incantesimo della parola. Le ragazze di Nafisi, come le lettrici della Luna,
non narrano, ma leggono, e leggendo reinventano le storie narrate.
La seconda metafora è la storia stessa di Lolita, la ragazzina “seduttrice”, col suo
amante Humbert, il professore maturo che ha fatto di lei un’ossessione erotica. La lettura che Azar Nafisi propone del romanzo di Nabokov non è la storia della “mania
amorosa” di un uomo che si illude – quasi moderno e alquanto squallido Pigmalione
- di ricreare in un essere giovane e del tutto banale il fantasma di un amore perduto;
bensì la storia dello stupro di una bambina dodicenne e della sua riduzione in schiavitù per due lunghi anni. Questa ragazzina, da come la descrive Nabokov, è quanto
di più banale, quanto di meno “Shahrazad” possiamo immaginare, quanto di più indifeso anche. Lolita non è colta, è sciocchina, è un po’ volgare, è seducente come lo
può essere un’adolescente che non si rende veramente conto del mondo circostante:
e, nonostante questo, Humbert inseguendo suoi propri fantasmi ne fa un’ossessione
d’amore.
Questa lettura del romanzo di Nabokov ci sorprese e lasciò perplesse alcune di noi lettrici pisane, se ricordo bene; ma io personalmente - con la consapevolezza del “dominio maschile” e della violenza in generale che ho oggi, e che non avevo affatto quando
lessi la prima volta il romanzo - la trovo molto convincente. Leggere Lolita in questa
chiave non è solo una modalità più “femminista”, in realtà rappresenta di per sé anche
la resistenza come esercizio di immaginazione e di libertà, come capacità di denunciare ed esporre al mondo il corpo nudo del tiranno, la sua stupidità crudele. La storia di
Lolita è di nuovo la storia della “verità disperata che si cela dietro la confisca di una vita di un individuo da parte di un altro”, cioè da parte di un tiranno onnipotente, ingiusto e spietato. Anche qui mi pare trasparente la metafora di un regime che rende
schiave e sottomette le donne, anzi che sottomette un’intera nazione: non sono solo le
donne dell’Iran, è una nazione, un intero popolo che viene chiamato a realizzare “il sogno di un altro”. Questa è un’altra immagine che usa Nafisi. Le donne di questo Iran,
ma anche gli uomini, improvvisamente diventano gli schiavi di un sogno altrui, di
qualcuno che li pensa in un altro universo, cui essi non appartengono e che si trovano
improvvisamente a dover realizzare, avendo avuto confiscata la vita, e confiscata l’immaginazione.
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Azar Nafisi collega spesso tutta questa situazione alla letteratura anche attraverso
un’altra opera di Nabokov di cui parla spesso, Invito a una decapitazione. Io ne ho ripreso qualche riga perché contiene un altro sommesso invito alla resistenza, alla libertà.
Un invito, cioè, alle donne a capire che cosa sta succedendo. Vi è descritta la scena spaventosa in cui il carceriere invita Cincinnatus, il condannato a morte che dovrebbe essere decapitato, a ballare: “I due escono danzando dalla cella e avanzano lungo il corridoio. Girato un angolo, incontrano una guardia: ‘Descrissero un cerchio intorno a lui
[alla guardia] per poi rientrare volteggiando nella cella’. [...] Il peggior crimine di un regime totalitario è costringere i cittadini, incluse le vittime, a diventare suoi complici.
Farti ballare con il tuo carceriere, così come farti partecipare alla tua esecuzione, è un
atto di estrema brutalità. Le mie studentesse lo vedevano succedere nei processi in televisione e lo sperimentavano in prima persona ogni volta che uscivano in strada vestite come altri dicevano loro di vestire. Non facevano parte della folla che assisteva alle esecuzioni, ma non avevano nemmeno la possibilità di protestare. L’unico modo per
spezzare il cerchio e smettere di ballare con il carceriere è tentare di conservare la propria individualità, ciò che sfugge ad ogni possibile descrizione eppure distingue ciascun essere umano dai suoi simili. È per questo che nel mondo dei carcerieri i rituali per quanto privi di senso - diventano così importanti”.
Vorrei concludere con le parole finali del libro:
“La mia fantasia ricorrente è che alla Carta dei Diritti dell’Uomo venga aggiunta la voce: diritto all’immaginazione. Ormai mi sono convinta che la vera democrazia non può
esistere senza la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri; bisogna
che il tuo mondo privato possa sempre comunicare col mondo di tutti. Altrimenti, come facciamo a sapere che siamo esistiti?”.
Per finire, Debora ci legge un altro breve brano, la parte sul corpo evanescente che si riferisce proprio alle donne.
Debora Mattiello
“Di lì a poco il governo approvò nuove norme che disciplinavano l’abbigliamento delle donne nei luoghi pubblici, costringendole a portare o il chador o la veste lunga e il
velo. L’esperienza aveva già insegnato che l’unica maniera per far osservare quelle regole era imporle con la forza. Così, malgrado le proteste che si levarono da più parti, le
nuove disposizioni entrarono in vigore prima nei luoghi di lavoro e più tardi nei negozi, e i proprietari furono diffidati dal servire clienti a capo scoperto. Le pene previste
per le infrazioni andavano da una semplice multa fino ad un massimo di settantasei
frustate e a un periodo di detenzione.
Mentre provo a colmare le lacune della memoria, mi accorgo di come la sensazione che
avvertivo allora sempre più forte, di precipitare nel vuoto o in un abisso, fosse legata a
due fatti pressoché concomitanti, la guerra e la perdita del mio lavoro. All’epoca non
me ne capacitavo, perché la routine quotidiana contribuiva a creare un’illusione di stabilità. Adesso che non potevo più pensare a me come a un’insegnante, una scrittrice,
che non potevo più indossare quello che volevo, né camminare per strada al mio pas-
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so, gridare se mi andava di farlo o dare una pacca sulla spalla a un collega maschio,
adesso che tutto ciò era diventato illegale, mi sentivo evanescente, artificiale, un personaggio immaginario, scaturito dalla matita di un disegnatore che una gomma qualsiasi sarebbe bastata a cancellare.
Quella sensazione di irrealtà mi portò a inventare nuovi giochi, che a ripensarci ora mi
sembrano più che altro tecniche di sopravvivenza. L’ossessione per il velo mi aveva indotto a comprare un’ampia veste nera che mi copriva fino alle caviglie, con lunghe maniche a kimono. Mi ero abituata a nascondere le mani nelle maniche, come se non le
avessi più. A poco a poco, arrivai a fingere che quando portavo la veste tutto il mio corpo si dissolvesse: restava solo la stoffa con la mia forma, che andava in giro guidata da
una forza invisibile.
Sono in grado di risalire con una certa precisione al momento esatto in cui cominciai a
sentirmi così: avvenne il giorno in cui accompagnai al ministero dell’Istruzione superiore un’amica che voleva convalidare il suo diploma. Fummo perquisite dalla testa ai
piedi; fra le molestie sessuali che ho subito in vita mia, quella è stata una delle peggiori. Una donna mi ordinò di alzare le mani, su e ancora più su, mentre cominciava a tastarmi scrupolosamente ogni parte del corpo. Mi fece notare che sembrava non portassi niente sotto la veste. Le risposi che ciò che portavo sotto la veste non era affar suo.
Mi porse un fazzoletto di carta e mi intimò di strofinarmelo sulle guance per togliermi
quella schifezza che mi ero messa in faccia. Le dissi che la mia faccia era pulita. Allora
prese il fazzoletto e me lo passò sulle guance, e siccome non ottenne i risultati sperati,
perché come le avevo detto non ero truccata, sfregò ancora più forte, tanto che sembrava volesse strapparmi via la pelle.
Il viso mi bruciava, e mi sentivo sporca; il mio corpo era come una maglietta sudata e
lercia, da buttar via. In quel momento mi venne l’idea del gioco, di far sparire il mio
corpo. Immaginai che le mani ruvide di quelle donna fossero uno strano tipo di raggi
X, che lasciavano intatta la superficie e rendevano invisibile l’interno. Quando finì di
perquisirmi mi sentivo leggera come l’aria, senza pelle, senza ossa. Per non rompere
l’incantesimo avrei dovuto astenermi da qualsiasi contatto con una superficie solida, e
soprattutto con gli essere umani: il trucco avrebbe funzionato soltanto finché fossi riuscita a non farmi notare dagli altri. Di quando in quando, ovviamente, avrei fatto riapparire una parte di me, magari per sfidare i rappresentanti dell’autorità lasciando intravedere una ciocca di capelli, oppure spalancando gli occhi per fissarli e metterli a disagio.
A volte, quasi senza accorgermene, ritiravo le mani nelle maniche e cominciavo a toccarmi le gambe e lo stomaco. Esistono? Esisto, io? Questa pancia, questa gamba, queste
mani? Purtroppo i guardiani della rivoluzione e gli altri garanti della nostra moralità
non guardavano il mondo con i miei stessi occhi. Loro vedevano mani, volti e rossetti;
dove io vedevo una specie di fantasma che fluttuava etereo e silenzioso lungo la strada loro individuavano ciuffi ribelli e calzette sovversive.
Nel frattempo continuavo a ripetere a me stessa e a tutti quelli che volevano starmi a
sentire che le persone come me, ormai, avevano smesso di esistere. E questa sensazione, che sconfinava nel patologico, non era soltanto mia; tanti altri sentivano di aver perso il loro posto nel mondo. Esagerando un po’, scrissi a un amico americano: ‘Vuoi sa-
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pere che cosa si prova a scoprirsi inesistenti? È come se tornassi in casa tua nelle vesti
di un fantasma che abbia un conto in sospeso. Pensaci: riconosci la struttura, ma adesso la porta è di metallo invece che di legno, le pareti sono state dipinte di un rosa pacchiano, e la tua poltrona preferita non c’è più. Il tuo studio è diventato il soggiorno, e
al posto dei tuoi adorati scaffali pieni di libri c’è un televisore nuovo. È sempre casa tua,
ma al tempo stesso non lo è più. Non conti più nulla per lei, per le pareti, le porte e i
pavimenti; e nessuno ti vede’.
Che cosa fa chi si scopre inesistente? A volte scappa, voglio dire fisicamente, e se ciò
non è possibile cerca di reagire, accetta le regole del gioco, cerca di mimetizzarsi con i
carcerieri. Oppure si rifugia nel proprio mondo interiore e, come Claire nell’Americano,
trasforma quell’angolino in un santuario: in sostanza, entra in clandestinità”.
Virginia Del Re
Adesso volevo presentarvi per un breve intervento Fariba Ferdosi, una pittrice iraniana che ha uno studio e vive a Firenze, di cui io ho visto una mostra che mi ha colpito
molto perché sembrava che mi riportasse a questi temi, a un modo diverso di fare resistenza, di opporsi alla violenza, di protestare contro la prepotenza. Fariba Ferdosi è venuta in Italia solo da qualche anno, ma parla l’italiano meravigliosamente e io sono piena di invidia per questa sua capacità linguistica. Ha portato anche qualche foto della
sua attività.
Fariba Ferdosi
Io comincerei dicendo che mi sento un po’ emozionata perché, dopo tanto tempo, finalmente riesco a sentire tante cose che avrei voluto sempre dire; però, anche se
Virginia mi fa i complimenti per la mia lingua, mi mancano ancora tante parole per poter dire le cose che ha detto, ad esempio, Tatiana. E confermo che è assolutamente così,
purtroppo è proprio così.
Da cinque anni sono qua e tante cose sono cambiate per me, anche perché finalmente
ho un punto di vista esterno che mi permette di fare un paragone. Questo non era possibile quando ero in Iran: allora cominciava ad esserci Internet, ma con delle difficoltà,
e non avevamo ancora i satelliti... Comunque penso che in futuro ci saranno due cose
che metteranno in crisi questo governo: la prima saranno le donne, come vi è stato spiegato, perché a un certo punto non si riesce a tenerle, ribellarsi fa parte anche della loro
natura. Così io penso. La seconda è la tecnologia stessa perché, se uno riesce a uscire da
un Paese così chiuso attraverso Internet, che pure è già controllatissimo, o i satelliti,
qualcosa riesce a vedere. E non è che la prima cosa che ti mette in crisi è il modo diverso di vestirsi: sono tante le cose che ti danno un punto di vista per farti capire che il
mondo non è solo quello.
Io ho vissuto in Iran gran parte degli otto anni di guerra fino alla fine, quando sono arrivate le bombe sopra Teheran; e c’era già questa grande crisi che poi è andata avanti
anche dopo la guerra. Una cosa un po’ diversa per me è che io ho vissuto sempre lì e
solo dopo ho potuto vedere come stanno le cose fuori. Invece Tatiana penso che abbia
visto prima come stanno le cose e poi ha visto l’interno del Paese. Una cosa che ho scoperto qui, che ho visto qui è questa: ci sono tante Faribe dentro di me. Prima non lo ve-
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devo. Noi quando facevamo le elementari sapevamo che c’erano delle spie fra noi bambine: e che cosa ascoltavano? Ascoltavano se mia mamma, quando viene un ospite, porta il velo o no, se mio babbo beve alcool o no. Dopo, crescendo, dovevano andare a dire se io ho un ragazzo, e dopo ancora se io mi occupo di politica, e così via. Alla fine
tutto questo ti fa avere tante identità. Per comportarti in un posto pubblico hai una maschera diversa da quella che hai con degli amici. Con i tuoi amici non è che ti fidi subito, passa del tempo, tanti esami, per capire se questa potrebbe essere un’amica a cui
posso dire ciò che penso, o no. Però la consapevolezza di queste differenze, di queste
diverse identità che convivono in te, per noi che facciamo parte della generazione dopo la guerra non è facile averla: o vieni fuori dal Paese e ti guardi con uno specchio diverso, o altrimenti ce l’hanno solo gli adulti, come mia mamma, come le mie zie, che
possono fare un paragone. Voglio dire che io sono uscita dall’Iran quando avevo 24 anni, ora ne ho 29: ho fatto Teheran-Firenze e non avevo visto prima nessun altro Paese,
anche perché ti impediscono di uscire. Pensano che è meglio che tu rimanga là; altrimenti, se appena hai una possibilità e vai via, è meglio che non torni perché comunque
chi pensa è meglio che non ci stia in Iran. Purtroppo io devo leggere Lolita a Teheran in
italiano, devo leggere Persepolis in italiano perché sono libri che non esistono nella mia
lingua. Questi sono i problemi che io devo continuamente affrontare per capire di più,
della mia storia e della storia del mio Paese. Da noi i libri cominciano col nome di Dio,
poi c’è la foto di Khomeini, poi la foto di Khamenei, poi comincia il testo ben censurato: ecco quello che ci danno.
Qui ho potuto vedere la situazione diversa del mondo occidentale e anche la responsabilità che ha l’Occidente, con i suoi strumenti tanto migliori dei nostri per poter pensare meglio, per poter decidere meglio. E qui io posso fare le mie critiche, per esempio alla guerra in Iraq che è assolutamente sbagliata: ovviamente l’Iraq è stato in guerra con
l’Iran per otto anni, non è che io ne vada fiera. Non penso mai che la guerra sia una soluzione, ho visto quanti giovani sono diventati nazionalisti con la guerra, e alla fine abbiamo avuto un Paese distrutto, a favore di questi fondamentalisti. Invece di fare queste guerre sarebbe meglio mandare là un paio di milioni di turisti, così vedreste che le
cose cambierebbero: perché sempre con gli scambi le cose cambiano, non esiste altro
modo.
Per fare l’artista non è che si decide: “Bene, domani comincio” e si diventa artista.
Secondo me tutto nasce da un’esigenza talmente forte di dire, di presentare delle cose,
che poi da lì si sviluppa un pensiero e anche il desiderio di approfondire. Io ho cominciato facendo qualcosa che ora cerco di farvi vedere. Sono nati per primi dei lavori con
donne che avevano diverse facce o diversi corpi, semplicemente sdoppiati, che però diventavano mostruosi. Richiamavano quella doppia identità di cui vi parlavo. Però dopo è successo che, siccome i media non hanno mai tempo di approfondire le cose e arrivano delle immagini che, quando le vedete, voi dite: “Ah! poverini, hanno il velo” quello che dice Tatiana: “Non guardate solo il velo” -, allora ho cominciato a mettere in
crisi questi lavori perché non volevo dire questo. Per me, che da quando sono nata dovevo portare il velo, il velo faceva parte di me, non è stato mai il velo il vero problema.
Il problema era il pensiero che mi costringeva a portare il velo.
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Così ho cominciato a fare delle metafore per poter parlare con una lingua un po’ simbolica. È una cosa che fa parte di noi: da noi si dice “parli della finestra per poter dire
qualcosa alla porta”, una metafora che si usa perché è sempre stato talmente censurato
il modo di parlare che tu comunque devi utilizzare delle metafore per poter dire tante
cose. Io però non vorrei fare un lavoro che presento solo a voi, che lo capite perché comincio ad utilizzare un linguaggio un po’ occidentalizzato e che vi dice qualcosa.
Vorrei parlare anche al mio popolo, vorrei entrare anche lì; non voglio vivere solo in
Occidente, perché alla fine diventa troppo facile criticare e criticare e non portare niente. Vorrei presentare questi lavori anche lì, perché anche così qualcosa cambia.
Da questo nasce il lavoro che ho chiamato Pecorato, la metafora della pecora armata che
ha un doppio significato. La pecora, che è un’immagine domestica, tutta buona e pacifica, diventa feroce e prende le armi: però sempre col dubbio che forse altri l’hanno armata. Da noi la pecora è un animale sacro ed è ancora in uso che, quando uno compra
una macchina o una casa, porta fortuna fare un bel sacrificio di pecora. D’altra parte
quando io dico: “Ah, vedi: quello lì si comporta come una pecora”, tutti capiamo cosa
vuol dire: è uno che va col gregge, che non ha un suo pensiero, che non è individualista. Io penso che faccia parte dell’essere umano aver sempre paura di pensare da sé.
Quindi io faccio una critica generale per dire che bisogna pensare, che non bisogna andare col gregge: insomma abbiamo tutti la possibilità di non essere pecora.
(Fariba illustra alcune sue composizioni)
Anche queste fanno parte del progetto Pecorato: le pecore formano immagini felici, decorative, però poi il male si scopre sempre, alla fine. È un lavoro per dire che pecore non
si nasce, lo si diventa.
Questi sono dei tappeti, che sembrano veramente tappeti veri, perché li ho stampati su
una superficie che ha una finta trama: infatti il titolo è Trama. Ma all’interno c’è scritto
“Allah” con le pallottole. Potrebbe avere tanti significati, ma volevo dire di non utilizzare la religione per la violenza; e poi il tappeto, il nodo, i tappeti persiani, come sappiamo....
Alessandra Peretti
Ringraziamo Fariba che ci ha fatto vedere cose così interessanti e sentire un’altra voce.
Ora aprirei il dibattito.
Intervento non identificato
Non avevo mai visto una pecora armata: molto originale. Lei si riferisce universalmente alle persone che diventano pecore o pensa specificamente al suo paese? Perché
dev’essere molto più difficile per voi, perché vi obbligano ad esserlo.
Fariba Ferdosi
Io volevo fare proprio questo: non riferirmi solo all’Iran, riferirmi a tutto il mondo.
Perché si può diventare sempre pecore, si può sempre perdere il senso individuale del
pensiero, dovunque. È vero però che è molto più difficile non esserlo da noi. In facciata devi essere pecora, ovviamente.
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Del resto, quando volevo usare le pecore vere, con le armi, e ne parlavo con il pastore,
il pastore la vedeva ovviamente a suo modo ed era tutto contento di avere finalmente
le pecore armate, così che potevano difendersi dai lupi. Era contentissimo. Infatti ognuno ha il suo modo di leggere le cose.
Alessandra Peretti
Un aspetto che a me interesserebbe capire un po’ di più, rispetto alla situazione iraniana, riguarda la resistenza interna, che ha da un lato le caratteristiche che illustrava
Virginia, dall’altro ha a che fare con la quotidianità, e col modo in cui le donne fanno i
conti con la quotidianità. Io leggevo stamattina in un articolo una cosa che non sapevo,
cioè che nei ristoranti di Teheran spesso la tavola è imbandita con tre bicchieri, per l’acqua, per la Coca-Cola e per la fanta; e una delle donne intervistate diceva però che in
situazioni in cui il controllo è minore lei si porta una bottiglia di vino da casa. Anche
questa è una forma di resistenza spicciola.
Però mi sembra che ci sia anche una relazione con la resistenza esterna: ci sono tantissimi iraniani che vivono fuori dal loro Paese, che esprimono anche loro nei modi che
gli sono più congeniali una forma di resistenza. Mi interessava capire che rapporto c’è
tra queste varie forme, perché il problema del rapporto tra chi rimane e chi va fuori
molto spesso è stato riscontrato in tante altre situazioni analoghe. Mi colpiva stamattina, in questa sommaria documentazione, vedere l’atteggiamento, per esempio, che
Shirin Ebadi aveva nei confronti di Azar Nafisi, un atteggiamento critico. “Lei in realtà
se n’è andata” diceva. Questo problema delle divisioni che si creano tra gli oppositori
a un regime, soprattutto in situazioni difficili, mi piacerebbe capirlo di più.
(intervento senza microfono che chiede a Fariba se possa o voglia tornare a Teheran)
Fariba Ferdosi
A livello di legalità per fortuna sì, posso tornare: e infatti sono tornata sempre, perché
io sono venuta in Italia non come asilo politico, ma con una domanda che ho fatto per
studiare, anche perché era l’unico modo di venire legalmente. Quanto al voler tornare
o no, con questa situazione ovviamente no. È vero che ci sono tutti i problemi di nostalgia, la famiglia e tutto il resto: non avevo 14 anni quando sono venuta via, ne avevo 24 e a quell’età sei matura, hai fatto la tua prima esperienza d’amore, hai tante cose
che lasci. Però, con la situazione di ora, c’è una lama che taglia tutta questa nostalgia,
perché o decidi di non vivere, di andare lì ed essere un essere vivente non-vivente, oppure rimani qua con tutti questi problemi. Io penso che in questo momento forse posso fare qualcosa di più fuori che dentro, perché dentro dovrei diventare un fantasma,
avere sempre paura: “ Oddio, quando mi scoprono?”, e poi non si sa dove finirei.
Virginia Del Re
Posso dire una cosa? Non da iraniana, non voglio essere presuntuosa, come straniera.
Stavo pensando a Nafisi, che se n’è andata. C’è un discorso da fare sulla lingua, per
quello che riguarda la denuncia, la conoscenza e la comunicazione delle cose. Scrivere
in lingua farsi vuol dire essere letti da poche persone: è il vecchio discorso che si fa per
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altri contesti letterari. Scrivere in inglese o in francese vuol dire fare una denuncia che
raggiunge milioni di persone di più. Non credo che sia un atto di vigliaccheria, credo
che sia una forma di resistenza anche quella, un’arma, diciamo. Perché servirsi di una
lingua che è praticamente, in questo momento, a disposizione di tutto il mondo, vuol
dire anche poter parlare, poter raccontare a tanti il famoso censore cieco.
Una delle cose che mi ha più colpito sentendo le amiche iraniane, leggendo le scrittrici, è questo continuo senso di esilio. L’esilio non è una cosa leggera, noi forse ce lo scordiamo, ed è vero che Azar Nafisi è andata via, ma vive da esule. Lei dice che si può fare resistenza restando - e suo marito ha fatto resistenza restando per un po’ -, però lei
ha deciso di andar via. Ma quando dice: “Io ho lasciato l’Iran, ma l’Iran non ha lasciato me”, alla fine del libro, c’è un profondo senso di malinconia e di nostalgia per questa patria perduta, che per gli iraniani è fortissimo. Io questo lo posso dire come amica
straniera di diverse persone. È un amore sconfinato, il loro, non è una patria qualsiasi,
è una cosa straordinaria. Quindi, secondo me, c’è anche questo di cui va tenuto conto,
perché non viene fuori se non se ne parla.
Alessandra Peretti
Io però volevo rettificare l’impressione. Io proponevo il problema non come giudizio su
chi va e chi resta, ma come problema di rapporti tra chi va e chi resta. Questo a me interessava capire, anche perché chi va, di fatto, ci andrà con tutta la nostalgia e il dolore, però per alcuni aspetti taglia con una realtà che da ora in poi guarderà dal di fuori;
forse Tatiana ha qualcosa da dire in proposito, perché mi parlava anche prima di questo suo rapporto.
Tatiana Boutourline
Rischiano di essere rapporti spesso molto conflittuali. Se penso alla mia piccola esperienza e all’esperienza della mia famiglia, parte della mia famiglia è all’estero, parte è
in Iran. Noi che per anni non siamo tornati, guardavamo con un senso di orrore all’Iran
in cui loro vivevano e abbiamo creato anche una certa distanza con chi è rimasto, anche se non tutti quelli che sono rimasti sono rimasti per scelta: alcuni sono rimasti pensando che le cose sarebbero cambiate e poi non sono cambiate. Sono diverse le motivazioni che hanno spinto alcune persone a restare ed altre ad andarsene. E comunque nel
frattempo sono passati quasi 30 anni, per cui è accaduto che alcuni iraniani sono finiti
negli USA, o in Francia, o in Inghilterra, e si sono creati lì un loro piccolo Iran. Questo
è accaduto soprattutto alle persone che avevano già una vita in Iran e sono andate via
a 40-50 anni. È stato difficile per loro rimettersi nel mondo del lavoro e si sono molto
ripiegati sul ricordo, per cui guardano la televisione e i film iraniani, sia vecchi film che
programmi iraniani sui canali satellitari, che non raccontano però la realtà attuale, ma
la realtà di 30 anni fa. Ci sono negozi iraniani, ci sono ristoranti iraniani, ci si riunisce
tra di noi e si parla di quel mondo come se niente in realtà fosse cambiato.
Naturalmente chi invece è in Iran vive la realtà, per quanto alcuni, come cercavo di raccontarvi, si rinchiudano quasi nelle loro case in una specie di esilio, perché non vogliono riconoscere la realtà, mentre tutto il mondo cambia. Loro magari vivono in una zo-
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na che un tempo era una zona meravigliosa, alla moda, con parchi, verde e giardini, e
adesso questa zona non è più così verde, perché hanno costruito accanto un palazzone
enorme dove ci stanno solo mullah; e dove prima uno poteva starsene nella sua piscina
a nuotare, adesso se nuota vengono e ti arrestano e ti portano via, oppure il vicino di
casa ti denuncia. Queste persone, anche se cercano di isolarsi dalla realtà circostante e
aspettano appunto che arrivino i giornali e le riviste straniere - che arrivano censurate,
però arrivano - perché hanno questa fame e questa sete culturale, comunque vivono
quella realtà e, per quanto tu non voglia essere influenzato da quello che ti circonda, lo
sei. Perciò anche chi assolutamente non vuole autocensurarsi o cambiare sente la pressione dell’esterno e diventa alla fine altro da sé; perché non puoi vivere per 30 anni in
una realtà altra senza cambiare: e questo succede sia per chi resta, sia per chi se n’è andato. Perché anche chi se n’è andato continua a sentire di appartenere ad un mondo che
non c’è più. Questo è vero soprattutto per chi appartiene alla generazione di chi era già
adulto quando c’è stata la rivoluzione. Per chi, come me, appartiene alla generazione
che è venuta dopo, ci sono altri problemi identitari, perché quando l’identità è molto
forte e tu senti di appartenere a un mondo altro, o ti ripieghi sui ricordi di cose che in
realtà non hai vissuto o vai a vedere. Se vai a vedere, purtroppo, non ritrovi le cose che
ti hanno raccontato e molto spesso vai a caccia di sensazioni che non trovi, trovi solo
l’orrore. Allora vai in questo orrore, spesso anche aiutata da categorie occidentali, e cerchi di capire.
Quindi è molto difficile e purtroppo la distanza spesso rimane. Persone come Azar
Nafisi, che comunque in Iran sono rimaste e hanno combattuto, quando alla fine scelgono di andarsene, di comunicare quella che è la nostra realtà, si trovano spesso in contrasto con altre persone che invece scelgono di restare, di combattere all’interno del regime, come Shirin Ebadi. Poi succede che c’è un dissidio tra chi dice: “Io con questo regime non voglio avere niente a che fare, perché anche solo avendoci a che fare mi sporco e non sono più me stessa, annullo la mia identità” e chi dice invece: “No, l’unico modo per cambiare questo regime e avere un impatto sulla realtà è lavorarci insieme”.
Sono tendenze entrambe presenti, che purtroppo non riescono spesso a conciliarsi, per
cui c’è una forte conflittualità.
Fariba Ferdosi
Hai spiegato benissimo. L’unica cosa importante che vorrei aggiungere è che purtroppo c’è una realtà molto amara e ci sono tanti, ma tanti, che vogliono uscire, però non
possono. Non è cosa da poco, perché io ho visto e vedo delle famiglie che si sono completamente distrutte, hanno venduto tutto, prendendo avvocati su avvocati, per poter
uscire dal Paese, però non hanno potuto: primo perché è il Paese stesso che lo impedisce, secondo perché non ci sono tanti Paesi così aperti da poter ricevere gli iraniani che
escono. Se uno esce dall’Iran deve avere un visto e ci sono Paesi che non te lo danno. E
poi se sei una donna devi avere anche il permesso del marito. Perciò c’è un conflitto
molto sottile: per noi che comunque siamo riusciti a uscire c’è molta amarezza quando
torniamo e vediamo le persone che hanno voluto tanto uscire e non ce l’hanno fatta.
Allora c’è veramente un rapporto molto difficile, non sai come comportarti e loro non
sanno come comportarsi. È molto forte il desiderio di uscire da questa vita così diffici-
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le: perché non ti senti te stessa, non ti accettano e non hai neanche la possibilità di andare via.
Tatiana Boutourline
Se posso solo aggiungere un’altra osservazione... Prima Fariba parlava della tecnologia,
di quanto la tecnologia sia importante. Per chi ha voglia di capire cos’è l’Iran di oggi,
più che leggere tante cose sui giornali, sui veli, sulle ragazze che si truccano e vanno in
giro, sarebbe utile leggere un po’ cosa scrivono su Internet quei ragazzi che proprio attraverso Internet riescono a comunicare, a mettere in relazione l’Iran di fuori e l’Iran
stesso, l’altro Iran e l’Iran reale. C’è una comunicazione grossissima che sta cambiando
tanto i codici comportamentali, le idee, è uno scambio continuo; con tanti filtri, però nonostante i filtri si trovano sempre nuovi modi, metafore, giochi di parole, linguaggi e
questo è un fenomeno abbastanza dirompente. Ci sono siti assolutamente non politici,
che trattano temi più leggeri, siti usati da ragazzi e ragazze per incontrarsi, che vengono regolarmente filtrati, ma ne vengono fuori sempre di nuovi. Per cui è vero che c’è
questa grossa dicotomia tra dentro e fuori, però è vero anche che c’è uno sforzo, una
voglia continua di parlarsi.
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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2006
presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.
Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa
Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300
Internet: http://www.pacinieditore.it