Fòbal Flavio Firmo Il Venerdì sera, una volta al mese perché i soldi

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Fòbal Flavio Firmo Il Venerdì sera, una volta al mese perché i soldi
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Il Venerdì sera, una volta al mese perché i soldi sono sempre pochi,
la mia droga si chiamava Bar Brasil. Ci potevano essere settimane che
stavo chino su un carburatore o giorni che non passavano mai in attesa
di clienti. Il solo pensiero del Bar Brasil bastava a dare un senso alla
mia vita.
Vincenzo mi aspettava nel parcheggio con il braccio appoggiato alla
sua vecchia Punto. Mi sono chiesto per anni perché non la cambiasse e
perché non sentisse il richiamo di un rombo nuovo, ma la risposta
stava dentro quelle quattro mura. Mi fece cenno con un dito e mise il
cellulare nella tasca dei pantaloni. Parcheggiai e lasciai il telefono nel
portaoggetti.
Il Bar Brasil non è uno dei soliti bar dove si entra e ci si ubriaca
guardando la partita, non c'è neppure la televisione. A volte il padrone
si asciuga la pelata con lo stesso straccio che usa per pulire i bicchieri.
La vita non è solo pulirsi la pelata, pulire i bicchieri o guardare le
partite.
Una volta al mese, quando le finanze me lo permettono, vado al Bar
Brasil. Qualcuno pensa che venti euro per un piatto di riso e fagioli
siano una cifra spropositata. Ci mettono anche due medie e per altri
dieci euro ti scoli anche due mojoto. Al Bar Brasil non ci andiamo per
mangiare o per bere.
Conosco Vincenzo da quando tentavo di passare la scuola superiore.
Lui stava due banchi dietro il mio e distraeva il mio compagno di
banco mentre io gli rubavo la merenda. Siamo stati sempre una bella
squadra, senza tante pretese e con un piano semplice.
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Quel Venerdì, come altri, il nostro piano prevedeva il solito piano.
Riso e fagioli, due medie e due mojito. Sono sempre stato una persona
semplice e il mio amico Vincenzo è il ritratto della semplicità
Entrammo come una squadra. Marcilene ci venne incontro con il
suo sorriso e ci strinse la mano. Mi baciò sulle guance e abbracciò il
mio compare. Adoro la pelle nera, l'ho sempre amata fin dai tempi
dell'Istituto Tecnico. Vincenzo mi ricorda che siamo dei gentiluomini e
mi toglie le mani dal sedere della mulatta. La ragazza non è una che
pesa molto i gesti delle persone, Saluta con i baci e ci indica un tavolo
libero a ridosso del muro.
Il televisore trasmette un video di musica brasiliana. Appena si
entra nel locale tutto sembra fumoso e confuso, ma dopo un paio di
birre ci si inizia a orientare.
«Venerdì è sempre festa.»
Vincenzo si guarda intorno e con lo sguardo cerca la sua cameriera
prediletta. Non la trova e chiama con l'indice alzato la figlia del
titolare. La ragazza si avvicina al nostro tavolo, appoggia il taccuino e
si sporge. Il seno fatica a trattenersi nel corpino luccicante e il mio
compare fissa imbambolato la linea nera che scende quasi fino
all'ombelico.
«Due da mangiare e due medie,» ordino assaggiando gli occhi della
ragazza che ruotano verso le mie labbra. Al Bar Brasil si ha sempre
l'impressione di essere al centro dell'attenzione. La meraviglia di quelle
ragazze è che ti fanno sentire l'uomo più romantico e virile
dell'universo. Guardo Vincenzo che fissa il sedere della nera mentre si
allontana e mi gratto il naso come a sparare una delle mie massime.
«Io, nella prossima vita, voglio usare i primi anni per truffare la
gente e fare più soldi possibili. Poi dai trenta ai cinquanta voglio
andare in Brasile e sperperare tutto il denaro in donne. Cazzo me ne
frega di portarmi i soldi nella tomba, per una come quella io starei a
stecco per vent'anni pur di goderla per sei mesi.»
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Vincenzo salutò il proprietario del bar e tolse il cellulare dalla tasca,
controllò i messaggi e le chiamate perse prima di spegnerlo. Maristela,
Isadora, Maeva, tutti nomi che ho sempre fatto fatica a ricordare. Nel
nostro linguaggio in codice sono identificate come le ragazze del
Brasil.
La cameriera si avvicinò con due ciotole di riso e fagioli e le
appoggiò sul tavolo. Vincenzo si era sempre professato un cultore del
sedere, ma davanti al seno esplosivo della ragazza sembrò ipnotizzato.
«Da dove vieni?»
La ragazza era nuova. Probabilmente avevo saltato un mese, ma
non ricordavo di averla mai vista prima. Vincenzo andava al Brasil
anche senza di me, poteva permetterselo e io non ne ero mai stato
geloso. Lei scrollo i riccioli neri e si dipinse un sorriso sincero.
«Vengo dal Senegal. Adesso abito qui vicino, ma ho vissuto più
tanto in Francia. Grenoble, Nizza e Parigi. Bella Italia, bello tutto, ma
Parigi.»
Vincenzo si pulì le labbra con il dorso della mano e mise il boccale
a fianco del piatto di riso. Chiesi una seconda media e presi le mani
della ragazza.
«Parigi è sempre Parigi.»
Non ero mai stato in Francia, al massimo in Liguria per il militare.
Vincenzo mi aveva insegnato che con quelle ragazze dovevi sempre
fare la figura dell'uomo di mondo. Dovevi bluffare, la vita è un
continuo bluff.
La ragazza mi strinse le mani e guardò verso il bancone alle sue
spalle. Il titolare stava asciugando un bicchiere e guardava verso
l'ingresso.
«Parigi è la vita. Quì è bello e tutti gli italiani sono gentili e carini.
Parigi è sempre festa.»
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Si allontanò portandosi le posate ancora sul vassoio. Vincenzo fece
un fischio e la ragazza tornò scusandosi. Mangiammo riso e fagioli
senza togliere gli occhi dal sedere delle cameriere. Come una buona
squadra ci dividevamo anche le preferenze. Vincenzo impazziva per la
nuova senegalese dal culo stresso, io ero seguivo i passi morbidi di
Eloisa.
Per chi non è mai stato al Bar Brasil parlare di Eloisa è come
scrivere poesie in un alfabeto senza le vocali. Si nasce, ci trascina
l'esistenza e si muore, ma se non si conosce Eloisa si ha sprecato il
proprio tempo. Da quando passo al bar, saranno un paio d'anni, lei ha
sempre avuto ventidue anni.
«Lui dice che si deve appoggiare la mano in terra e muovere tutto il
sedere.»
Arriva alle mie spalle senza farsi annunciare. Mi volto e quasi
vorrei baciarla. Si siede al posto libero alla mia destra e accavalla le
gambe. La cavigliera luccica sulla pelle nera, le scarpe rosse le danno
un tocco di eleganza che quasi stona con il suo odore selvatico. Mi
appoggia la mano sul polso e mi chiede se ne voglio ancora. Non ho
mai capito con quale talento riesco a rispondere in automatico alle
domande.
Tracannai il secondo mojito dopo che riso e fagioli furono
tranquillamente sepolti nel mio stomaco. Vincenzo guardò il display
del cellulare e strinse le spalle.
«Quando sono con te ha la piena fiducia. Sarà che hai la faccia da
brava persona. Le donne certe volte sono veramente delle sempliciotte.
Ti conoscesse come ti conosco io.»
Mille volte sono stato il suo alibi. Sarà la faccia da brava persona,
che poi come può uno avercela non saprei. Si nasce bravi o cattivi. Io
sono semplicemente uno stronzo come tanti.
«Ti è piaciuto il mojito.»
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Eloisa mi arrivò alle spalle e mi sussurrò all'orecchio ancora il teso
di quella canzone brasiliana.
«Lui dice che si deve appoggiare la mano in terra e muovere tutto il
sedere.»
Ho capito, ma vorrei vedere come faresti con la mano a terra a
muovere il tuo bel sederino. Eloisa sembra avere un senso senso e
appoggia la mano sul mio ginocchio. Si stira il miniabito a fuori e
inizia a muoversi come un serpente. Alza le natiche e gonfia i polpacci.
Andrei a rapinare la mia banca nudo per molto meno.
Quando cambiò la canzone sembrò delusa e mi chiese nuovamente
se gli era piaciuto il mojito. Vincenzo indicò la senegalese dietro al
banco e i due bicchieri tra le mani del barista.
«Il primo lo ha fatto lei, questo io con le mie mani. Io dico che sono
più brava di lei. Noi brasiliane siamo più brave, vedi come sono
brava.»
Ero leggermente sbronzo. Potevo guidare da Brescia a Milano
senza sbagliare strada, ma se mi avesse fermato la Polizia mi
avrebbero ritirato la patente. Elorisa mi fissava con le labbra arricciate,
la mano sul mio polso e il seno che cercava di entrarmi nel cervello.
La sparai grossa.
«Amore. Tu vuoi che ti dica la verità o una bugia per farti felice?»
La ragazza appoggiò la testa sulla mia spalla e sospirò.
«La verità è che il tuo mojito è buono, ma se mi trovassi da solo su
un'isola deserta e avessi a disposizione un solo mojito, ecco, mi
porterei il suo. Tu sei l'amore della mia vita, ma il suo mojito è più
buono.»
Eloise mi baciò sulla guancia e si lasciò annusare dietro alle
orecchie. Si alzò e incrociò le braccia. In quel momento poteva anche
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prendermi e gettarmi di peso in mezzo all'oceano che avrei ringraziato
le divinità del mondo per la mia misera vita.
«Grazie, grazie che sei sincero.»
Andò verso il bancone e discusse con la ragazza senegalese.
Indicarono il nostro tavolo a più riprese. Prima Eloise con il pollice e
poi la barista con l'indice. Discussero e risero.
«Che vuoi farci, non sono capace di mentire.»
Vincenzo giocherellò con la cannuccia e spostò una foglia di menta.
Aspirò facendo rumore e guardò verso il bancone.
«Sei veramente un pezzo di merda.»
Cosa dovevo fare? Risi e incrociai le dita davanti al bicchiere.
«I romani dicevano “divide et impera” o una cosa del genere. Non
ho la minima possibilità di portarmi a letto una delle due, ma vederle
che discutono su quale sia il mojito migliore mi fa sentire il Re del
ballo. Dimmi pure che sono un pezzo di merda, ma la vita è quello che
è. Almeno un po' di divertimento.»
Vincenzo alzò il palmo e lo battei con il mio. Mi sentivo carico e
potente. La delusione del pomeriggio a Milano era del tutto svanita.
Quel borioso allenatore poteva anche avere vinto una partita vent'anni
prima, ma io me ne stavo con la testa leggera a guardare il culo alto e
duro di Eloise. Questione di punti di vista.
Una mano mi pesò sulla spalla, guardai le dita pelose e mi voltai
tenendo il boccale come un pugno. L'uomo mi sorrideva e scuoteva il
capo.
«Sandro, sei proprio tu? Sono Stefano. Stefano Pelosi. La squadra
di calcio.»
Calvo con la barba fitta e nera. Il fisico era ancora secco e sotto la
camicia a fiori si scorgeva un corpo in forma. Tolse la mano dalla mia
spalla e attese.
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«Ah, ciao. Stavo proprio ricordando al mio amico la nostra
stagione. Sei nuovo del bar? Perché io ci vengo spesso e non ti avevo
mai visto. Non che sia molto attento ai maschi che girano, ma ci si
conosce un po' tutti.»
L'amico rimase in piedi, guardò verso la porta del locale e fissò la
sedia vuota alla mia destra. Gli feci cenno di sedersi.
«Moglie in vacanza? Dai che siamo tra uomini, non c'è bisogno che
spieghi nulla.»
Si accomodò e rimase con le gambe parallele, le mani sulle
ginocchia giocherellavano con la fede al dito. Presi un pezzo di pane e
diedi una bella pulita al piatto.
«Tu giocavi da libero? Si, adesso ricordo. Quella volta che ha
sbagliato due rigori e l'allenatore ti ha tolto la fascia di capitano. A me
non succedeva mai di sbagliare un rigore, era già bello se giocavo.»
Stefano si rilassò e incrociò le caviglie. Cercò lo sguardo di una
delle ragazze e fece cenno di portargli una birra. Fissò il mio piatto
lucido e indicò un punto sulla mia guancia.
«Però la finale l'hai fatta. Uno dei nostri stava male e hai iniziato da
titolare.»
Mi asciugai dal sugo con il tovagliolo di carta e lo passai sulla
fronte. La memoria stava tornando a piccoli pezzi. Stefano sembrava
aver memorizzato ogni istante di quella stagione, mentre io cercavo di
andare oltre il ricordo di un campo in terra battuta. Una nuova
informazione risorse dal buio del mio cervello.
«Quello che giocava a centrocampo, faccio una fatica a ricordarmi i
nomi. Alto, magro, sempre con i calzettoni abbassati. Che poi
l'allenatore lo insultava di brutto e lui se li tirava sotto il ginocchio fino
a quando ricadevano sulle caviglie.»
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Stefano annuì e lasciò che la nuova cameriera posasse la birra sul
tavolo. Alzò il boccale e brindammo. Vincenzo continuava a fissare
l'estasi nera che sfilava in miniabito davanti ai suoi occhi, ma con
l'automatismo dell'abitudine si unì al brindisi.
«Sai che ho ritrovato Franceschetti, uno che giocava con loro e
sono andato nella sede del Milan.»
Scolai la metà del secondo mojito e mi asciugai con il dorso della
mano. Un benefico torpore mi stava assalendo. L'istinto mi portava
verso il terzo bicchiere della serata. Potevo reggerlo, ma preferivo
tenerlo per quando le ragazze avrebbero iniziato a muovere il culo a
ritmo di samba.
«Un po' mi sono girate le palle. Quello continuava a dire che è stato
un caso, che non è vero che hanno sofferto e tutta una serie di
stronzate. La verità è che noi eravamo una grande squadra. Avevamo la
grinta, la voglia e non avevamo paura di nulla. Possono anche
prenderci per un gruppo di improvvisati, ma abbiamo messo in fila le
giovanili di tutta Italia e se siamo arrivati a tanto così dalla vittoria.»
Stefano si grattò la barba e non sembrava aver molte parole. Girava
attorno alla birra senza provare a finirla, non fosse per la camicia a
fuori e i pantaloni con la riga avrei detto che si trovasse in difficoltà
economica. Non sopportavo il silenzio e lo interrogai.
«Ma tu cosa fai nella vita? Io faccio il meccanico, tu non sembri
uno che viene al Brasil spesso, ti sei fatto una posizione?»
L'amico lanciò uno sguardo alle gambe della senegalese che
attraversarono il locale. Strinse le labbra e prese il boccale fissando il
fondo.
«Che vuoi che ti dica, insegno alle medie. Educazione tecnica, che
è come dire che vado a scaldare la cattedra. I ragazzi si oggi sono più
svegli di noi, di fanno le canne e non posso neanche dirgli qualcosa. Il
problema è che la mia laurea non è proprio del tutto valida in Italia.»
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Un professore. Non c'era nulla di più noioso dei racconti di chi
lavorava nella scuola. Tutti i racconti del lavoro sono di una palla
mortale. Anche quando parlo di motori e automobili mi rendo conto
che gli occhi di chi mi ascolta si appesantiscono.
«Insomma, sono quelle prese su internet e non capisco come mai
non mi hanno ancora sbattuto fuori dalla scuola. Ho un paio di cause in
ballo, cioè a dire il vero l'università on line che mi ha dato il titolo.
Potevo farne una ufficiale, ma ho sempre fatto fatica a seguire i corsi e
così ho pagato una cinquantina di rate e mi sono portato a casa la mia
bella laurea.»
Risi e diedi una gomitata al mio compare. Anche Vincenzo aveva
provato a comprarsi una laurea, ma quando aveva visto il listino prezzi
era rimasto con la sua maturità tecnica.
«Si, ma tanto un lavoro è solo per portare i soldi a casa. Sposato?»
Stefano estrasse il portafogli e mi mostrò la foto di una donna e di
due ragazzine. La passai a Vincenzo che borbottò qualcosa di
indecifrabile.
«Da dieci anni e con due figlie. Ora sono tutte in montagna dai
nonni e io ho approfittato della serata per svagarmi. Mi ha parlato di
questo posto uno dei miei colleghi, ma non avrei mai pensato di
trovare una cosa del genere.»
Ripose il portafogli in tasca e mi puntò l'indice. Dalla sua
espressione era curioso di sapere che ne avevo fatto della mia vita. Mi
ero già presentato come un fedele del Brasil e questo dovrebbe dire
tutto di un uomo. Mescolai il fondo del mojito e con la cannuccia
strizzai le foglie di menta.
«Sai cosa mi ha dato veramente fastidio? Che quel piccolo
sbruffone non ci abbia concesso l'onore delle armi. Cosa gli costava,
sono passati anni e quelli hanno tutti fatto fortuna. Noi siamo rimasti la
feccia di sempre, non ho più visto gli altri, ma suppongo che nessuno
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sia diventato un campione. Franceschetti lavora nello staff e non mi ha
considerato neanche di striscio, l'allenatore è ancora nel giro e chissà
quanti di quella squadra fanno parte del sistema. Cosa gli costa dirci
che siamo stati bravi, che per una sola stagione siamo stati la squadra
più bella del mondo.»
Il mio vecchio compagno di squadra, il libero che sbagliò due rigori
e venne degradato sul campo, sospirò e alzò lo sguardo del bicchiere.
«Magari se avessimo vinto non saremmo qui. Però il solo fatto che
nessuno ci ha contattato dopo quella finale dovrebbe darti da pensare.
Io ho giocato ancora qualche anno in provincia, ma non sono mai
arrivato neppure in C. Ero in contatto con un paio di ragazzi e hanno
fatto più o meno tutti la stessa trafila. Forse Marelli, quello che giocava
terzino, è riuscito a farsi la C.»
Marelli me lo ricordavo, ma era uno dei meno dotati della squadra.
Ci passammo il numero di telefono. Vincenzo mi diede una gomitata al
fianco e indicò un punto dietro al bancone. Eloisa si era alzata la
maglietta e mostrava il seno alla senegalese. La nera si legò i riccioli
con un nastro in pelle e avvicinò le labbra all'orecchio dell'amica.
Eloisa rise e si ricompose. La musica aumentò di volume. Le ragazze
urlarono e gli uomini si misero comodi.
Scolai le ultime lacrime di mojito e incrociai le braccia sul tavolo.
Vincenzo sbadigliò forte e mi voltai per vedere l'espressione di
Stefano. La sua sedia era vuota, stava uscendo dal locale con il
cellulare attaccato all'orecchio. Lo lasciai andare sicuro che non
sarebbe più rientrato al Brasil.
Eloisa entrò in scena con il miniabito rosso e iniziò a muoversi a
ritmo di musica. La senegalese le si affiancò a iniziò a ballare con le
mani alzate. Presi due foglie di menta dal bicchiere e me le strofinai
sulla fronte.
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