Terrore a New Dehli, 55 morti

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Terrore a New Dehli, 55 morti
quotidiano comunista - anno XXXV n. 262
D O M E N I C A
3 0
O T T O B R E
euro 1,10
con Le Monde Diplomatique 1 euro in più
in Sicilia con L’Isola Possibile 1 euro in più
2 0 0 5
Foto Ap
Parole
in guerra
GABRIELE POLO
ha fatto solo per senso di
responsabilità. Così si
comportano i grandi statisti. Anche se di solito
dicono di farlo per il bene dei loro
governati: spesso mentono, ma almeno cercano una scusa. Invece
Silvio Berlusconi ha deciso di appoggiare - politicamente e poi militarmente - la guerra in Iraq pensando al bene del suo leader di riferimento, George W. Bush. Non
ci fossero di mezzo morti, anche
italiani, e una precipitazione nella
paura internazionale, ci sarebbe
da ridere.
Ma forse non è nemmeno la
sudditanza verso l’amico americano la chiave di lettura del comportamento del nostro presidente
del consiglio. Forse il problema è
la sua leggerezza. Quella con cui
ha mandato i soldati italiani in
Iraq è pari alle dichiarazioni da
pentito di ieri: perché nessuno è
così sciocco da credere che esse
siano vere, sono solo lo schermo
politico con cui cerca di ridurre il
danno del suo operato. Pacche
sulla spalle, barzellette, parole in
libertà sono un tutt’uno: lo stile di
un guitto. Anche qui, se non ci
fossero in gioco vite umane, ce la
potremmo cavare con una risata.
Il guaio è che quella leggerezza
ci ricade addosso ogni giorno.
Chissà come la valuteranno le
truppe scelte spedite a Nassirya?
O i parenti dei morti nell’attentato contro la caserma italiana di
quella città? O i sequestrati e chi è
impazzito per poterli liberare? Per
non parlare dei parenti e degli
amici di Nicola Calipari. La leggerezza di parole pronunciate solo
per contenere una caduta di consenso politico diventano terribilmente pesanti, si trasformano in
un insulto oltraggioso.
Intanto la guerra dilaga, in tutte le sue forme. Per allontanarla
dal loro territorio gli Stati uniti
l’hanno ben piantata nel cuore del
Medio Oriente, credendo di circoscriverla in un pezzo di deserto
dove i morti contano poco perché
lontani da noi. Invece ha tracimato a est e a ovest: partendo dalla
«base» irachena, passando per la
consueta Palestina, è arrivata a
Madrid e a Londra, ha varcato i
confini dell’Indo, trasformando
ovunque conflitti diversi tra loro
in un unico combattimento. Non
cesserà fino a quando il cosidetto
Occidente metterà in discussione
se stesso, e saprà condividere con
il resto del mondo quei valori di
libertà di cui ha riempito le proprie costituzioni tradite.
Non basterà un cambio di governo in Italia, né la benvenuta
crisi dei neocon americani e un
nuovo inquilino alla Casa Bianca.
Servirà una revisione più profonda, l’individuazione di un senso
del limite alla potenza e al consumo che oggi dettano le politiche
dei ricchi. Altrimenti continueremo ad ascoltare parole in libertà
cui non segue mai un fatto coerente. E nessuno potrà più essere
creduto.
L’
Balle spaziali
«Io la guerra non la volevo». Parola di Silvio Berlusconi che
«confessa» di aver fatto di tutto per convincere Bush a non
invadere l’Iraq. Di fronte al crollo di consensi, «il presidente pacifista» è l’ultima trovata del Cavaliere
SICILIA
Anche negli Usa il disastro iracheno manda in crisi i vertici
politici. Bufera sulla Casa bianca dopo l’incriminazione del
braccio destro di Cheney per le false prove sulle armi di distruzione di massa. Il presidente è «rattristato»
A PAGINA 3
ROMA
MASSACRO DEL CIRCEO
Unione nel caos primarie Senza casa in corteo
«Ghira è morto nel ‘94»
Borsellino: «Io, la novità» Diecimila contro gli sfratti Era latitante da trent’anni
Regionali, la Margherita lancia il suo candidato per le
primarie dell’Unione: l’ex di Forza Italia Latteri. Ds in
mezzo al guado. Intervista a Rita Borsellino: con me
l’antimafia per costruire
A PAGINA 7
Caro affitti, speculazione e sfratti. La lotta per la casa ha
un nuovo beniamino: il presidente del municipio X di
Roma (Cinecittà) che requisisce gli alloggi sfitti. E un
nuovo avversario: il sindaco di Bologna
A PAGINA 8
Terrore a New Dehli, 55 morti
smarriti per capire che cosa fosse successo ai
loro congiunti scomparsi. Il primo ministro indiano, Manmohan Singh, ha parlato di un «atto
di terrorismo». La polizia di Dehli indaga sui
gruppi estremisti islamici. Immediata è stata la
condanna del governo pakistano, a sottolineare
il nuovo clima di distensione tra i due Paesi. Il
governo di New Delhi ha invitato la popolazione a mantenere la calma, mentre venivano raf-
CONTRORDINE
ENERGIA
I record del magico Giulio
A Rimini convegno mondiale
sull’esaurimento dei combustibili
fossili, tra fonti alternative
e ritorno al nucleare
PICCIONI A PAGINA 4
EUROPA
Wto alla prova
Gli Stati uniti minacciano
di far saltare i negoziati
con l'Unione europea
MERLO E PIANTA A PAGINA 10
Il signor ministro del disastro economico Giulio Tremonti aveva occupato la
sua scrivania al ministero
dell’economia nel 2001 con
un’aria burbanzosa e scanzonata. Fece notare che
aveva la scrivania di Quintino Sella (me’ cojoni!), mostrò alle compiacenti telecamere un grafico da cui risultava che il governo
uscente gli aveva lasciato
un buco spaventoso, e si
accinse subito al suo lavoro
di stregone dei numeri.
Qualcosa nella magica pozione non ha funzionato,
nemmeno le alchimie con-
ALESSANDRO ROBECCHI
tabili, le entrate una-tantum, i condoni. E quanto
agli immobili pubblici messi in vendita, si sa che qui
nessuno è fesso, e davanti
ai cartelli «vendesi» gli italiani hanno fatto marameo.
Le roboanti previsioni
sul miracolo italiano venivano ritoccate ogni giorno.
La stima del prodotto interno lordo calava a vista
d’occhio, praticamente minuto per minuto, ritoccata
di mezzo punto, di un punto, di un punto e mezzo. Gli
italiani prima di uscire di
casa guardavano le previsioni del tempo e la nuova
stima del pil, tanto per sapere ogni mattina di quanto erano più poveri grazie
alla nuova banda del buco,
e di quanto si era sbagliato
Tremonti. Come finì è noto, con le orecchie sempre
più basse e l’aria sempre
più afflitta, il Tremonti dovette andarsene, sfiduciato
da Gianfranco Fini in vena
di antagonismo. Meno di
due mesi fa, lo stesso Gianfranco Fini – questa volta
in vena di dadaismo – ac-
forzate le misure di sicurezza anche nei centri
commerciali di Bombay, capitale economica
dell’India. La prima bomba è esplosa alle 17:40
ora locale, le 14:10 in Italia, nel quartiere di Paharganj, non distante dalla stazione centrale,
una zona molto frequentata da turisti. Pochi
minuti dopo le altre due detonazioni nel mercato di Sarojini Nagar e a Govindpuri, ambedue
nella zona sud della città.
A PAGINA 2
Pier Paolo Pasolini
coglie a braccia aperte il
ministro Tremonti, che
torna alla scrivania di
Quintino Sella sfrattando il
reggente Siniscalco. Ed è
subito record: una manovra finanziaria, poi una
manovra correttiva, poi
un’altra manovra correttiva. In pratica tre leggi finanziarie in due settimane.
Per la seconda volta, accorata denuncia: è tornato e
ha trovato un buco enorme
– roba da portare i libri in
tribunale – questa volta lasciato non dai comunisti,
ma da Siniscalco.
SEGUE A PAGINA 7
30 anni dopo la morte.
Le foto rare e i testi
da riscoprire del poeta
che, solo, riusciva
a vedere la bellezza
e gli orrori dell’Italia
in trasformazione
2 NOVEMBRE
CON il manifesto
MERCOLEDÌ
SPED. IN ABB. POST. - 45% ART. 2 COMMA 20/BL. 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158
Tre bombe al plastico hanno fatto strage in diversi mercati di New Delhi, gremiti di famiglie
che facevano acquisti per prepararsi alle più
importanti ricorrenze indù e musulmana dell’anno. Almeno 55 morti e centinaia i feriti.
Corpi carbonizzati, sangue, vetri in frantumi e
rottami fumanti sui luoghi della strage, dove i
soccorritori si adoperavano per comporre cadaveri e aiutare i feriti. I superstiti si aggiravano
IL MANIFESTO
Petrolio fino
a quando?
La polizia annuncia la fine della caccia al neofascista
Andrea Ghira condannato con Izzo e Guido per il
massacro del Circeo nel ’75. Donatella Colasanti, che
si salvò: «Non ci credo, è un depistaggio» A PAGINA 9
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
FRONTE ORIENTALE
2
Linea di confine
Funzionari pakistani ed indiani hanno
avviato colloqui per l’apertura della
Linea di controllo che divide in due il
Kashmir per facilitare il passaggio
degli aiuti verso le zone terremotate
India, strage al mercato
Nuovo attacco terroristico a New Delhi. Tre bombe esplodono fanno decine di morti
U
MARINA FORTI
INVIATA A NEW DELHI
na carneficina. Tre forti esplosioni,
a pochi minuti una dall’altra, hanno seminato
morte e panico nella capitale indiana New
Delhi ieri pomeriggio, gettando l’India in un
clima di emergenza - in un momento già
complicato da vari disastri naturali e dalle faticose relazioni con il vicino Pakistan devastato dal terremoto del Kashmir. Il bilancio
delle esplosioni è pesante, e non definitivo: ieri sera la polizia aveva recuperato 48 corpi;
un’ottantina di persone erano ricoverate negli
ospedali della città, di cui almeno 40 con ferite critiche, in molti casi mutilati. Scene terribili, tra rottamni e brandelli di corpi umani.
Un attacco ben organizzato, in zone popolari e affollate. La prima esplosione è stata alle
17, 38 nella zona di Paharganj, a nord del centro, meno di 50 metri dalla stazione centrale
nella vecchia Delhi, nota ai turisti aquattrinati per gli alberghi popolari e gli accoglienti
tea-shops. Poi, intorno alle 18, nel mercato di
Sarojini Nagar, e pochi minuti dopo in un autobus a Govinpuri, quartieri nella parte meridionale di New Delhi. In breve è stato il panico, calca, caos. La polizia ha subito dichiarato
l’«allarme rosso», chiesto ai mercati di chiudere e ai cittadini di non scendere in strada,
soprattutto evitare zone affollate.
Troppo presto per attribuire responsabilità, presto anche le modalità precise dei tre attentati; ieri sera dal ministero dell’interno filtrava solo che l’esplosivo usato sarebbe Rdx, e
che la polizia ha fermato 10 persone per interrogarle. E’ chiaro però che si tratta di un’unica operazione coordinata, e che l’obiettivo
erano normali cittadini. L’India è alla vigilia
di due importanti festività: il 1 novembre è la
festa hindu di Divali, mentre il 4 o 5 novembre i musulmani celebrano Eid el Fitr, la fine
del mese di Ramadan: entrambe le comunità
celebrano con regali e banchetti, così che questi sono giorni di acquisti - tanto più un sabato pomeriggio. E i tre luoghi scelti dagli attentatori sono frequentati da persone di ogni casta o fede, in questo paese multireligioso e
multiculturale.
Nei primissimi commenti dunque né gli
investigatori né i dirigenti del governo indiano azzardano attribuzioni di responsabilità. Il
primo ministro Manmohan Singh, che era
appena atterrato a Kolkata (Calcutta) quando
si è avuta notizia degli attentati, ha deprecato
il «cinico attacco contro innocenti cittadini»
e ha lanciato un appello a tutte le comunità a
mantenere la calma: «L’India non cederà al
terrorismo», ha detto. Appelli simili ha lanciato la chief minister (capo del governo locale) di New Delhi, l’energica signora Sheila Dixit: «Chiedo alla cittadinanza di non farsi
prendere dal panico». Sonia Gandhi, presidente del partito del Congresso e capo della
maggioranza di centrosinistra che governa
l’India: «Il terrorismo è una minaccia che
dobbiamo combattere tutti insieme, tutto il
mondo».
L’India dunque è in clima d’emergenza. Ieri sera si è riunito un gabinetto di crisi, con il
primo ministro Singh rientrato precipitosamente da Calcutta. Altre città indiane sono in
stato d’allerta, e in particolare Mumbai (Bombay), che ha conosciuto simili atti di terrorismo in passato: l’ultimo due anni fa. Pochi
hanno azzardato commenti, a parte le condanne venute anche dal governo del Pakistan,
e dalla All Party Hurriyet Conferenze, «conferenza per la libertà» che riunisce partiti e for-
ze sociali indipendentiste del Kashmir, lo stato montagnoso diviso tra India e Pakistan da
una frontiera provvisoria risultato di una
guerra – e devastato dal sisma dell’8 ottobre.
Diverse ipotesi sono plausibili: la prima,
esterna, rimanda ai gruppi armati islamici
che combattono una guerra sporca proprio in
Kashmir. Qui molti hanno rammentato l’attacco suicida al parlamento di New Delhi nel
dicembre del 2001, attribuito a Lashkar e-Taiba e a Hizb-ul Mojaheddin, organizzazioni
«jihadi» nate in Pakistan, che operano nel
Kashmir indiano e hanno le retrovie nel territorio sotto controllo pakistano. Sono due dei
gruppi messi fuorilegge in Pakistan nel 2002,
direttori mariuccia ciotta
gabriele polo
grafici, antonella gesualdo
videoimp.tiziana ferri
dir. editoriale francesco paternò
capored. tommaso di francesco
roberto zanini
politica, micaela bongi
società massimo giannetti
economia, antonio sciotto
mondo, angela pascucci
cultura, benedetto vecchi
visioni arianna di genova
consiglio d’amministrazione
presidente valentino parlato
amm.delegato emanuele bevilacqua
consiglieri:
astrit dakli,angela pascucci,
bruno perini.
dir. amm. guglielmo di zenzo
dir. tecnico claudio albertini
MA. FO.
Ne parlano tutti come del miglior
ospedale da campo della zona, e in
ogni caso il primo allestito a Muzaffarabad, capitale del Kashmir sotto amministrazione pakistana. Non è il lusso, certo: ma in questa città di circa
400mila abitanti, disastrata dal terremoto dell’8 ottobre e affollata da profughi scesi dalle valli circostanti, l’accampamento della Jamaat ud Dawa è
un punto di riferimento. Due container attrezzati a sale operatorie, una
farmacia che pare ben fornita, una
tenda-sala medicazioni, ampie tende
militari come corsie. Mosche e fango
sono ovunque, ma non ci sono molte
alternative a Muzaffarabad, nella provincia montagnosa chiamata Azad
(«libero») Jammu e Kashmir, che non
fa parte formale del Pakistan ma ne è
una provincia di fatto. Il dottor Naeem
Mughal, chirurgo ortopedico, è di qui
e lavorava all’ospedale crollato con il
terremoto. Ora dirige il lavoro di qualche decina di medici e infermieri volontari venuti da tutto il Pakistan - e
non solo, da una sala operatoria vedo
uscire due giovani medici indonesiani.
«Bisogna ammetterlo, stanno facendo un lavoro impressionante», fa
notare Tariq Naqash, giornalista conosciuto in questa regione: è il corrispondente di Dawn, un importante quotidiano pakistano, e membro della
Commissione per i diritti umani in Pakistan. Nel caos dei primissimi giorni,
quando le strade erano invase da frane
e macerie, mancavano elettricità e telecomunicazioni, e l’intera amministrazione locale era sotto shock, in una
città come Muzaffarabad molti hanno
visto prima la solidarietà spontanea
dei pakistani dei soccorsi organizzati.
E nella disordinata corsa alla solidarietà, alcuni gruppi islamici si sono fatti
avanti per primi, e in modo organizzato ed efficiente, riconosce Naqash:
«Sono stati i primi a pensare alle barche per raggiungere località isolate o
traghettare le persone rimaste bloccate dal lago artificiale formato da una
frana, prima che arrivasse l’esercito».
Così ora sulla sponda sinistra del
Neelum, opposta al centro di Muzaffarabad punteggiato di macerie, ecco le
tendopoli della fondazione Al Khidmat, braccio assistenziale della Jamaat e-Islami, il più antico partito
fondamentalista del subcontinente in-
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il manifesto coop editrice a r.l.
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ma ancora attivi sotto altri nomi. Lashak eTaiba, attraverso l’organizzazione parente (e
non illegale) Jamaat ud Dawa, oggi è tra le organizzazioni islamiche impegnate nei soccorsi nelle zone terremotate del Kashmir pakistano, in modo efficente e molto visibile (come raccontiamo in questa pagina).
Una responsabilità di questi o altri gruppi
«jihadi» sarebbe un motivo di grave crisi tra
India e Pakistan, che dopo il 2001 avevano
sfiorato la guerra – ma nel 2004 hanno avviato un processo di dialogo. Ma per ora nessuno
si sbilancia. Proprio ieri una delegazione del
governo indiano era nella capitale pakistana
Islamabad per discutere degli annunciati (ma
non realizzati) varchi da aprire lungo la supermilitarizzata frontiera di fatto in Kashmir,
in modo da permettere alle famiglie terremotate di riunirsi: e iIeri sera sia New Delhi, sia
Islamabad hanno badato bene a non fare collegamenti tra i colloqui e gli attentati nella capitale indiana.
Poi resta l’ipotesi interna, indiana, il «mondo sotterraneo» di personaggi come il Dawood Ibrahim riconosciuto responsabile degli
attentati di Bombay nel 2005, da lunghi anni
latitante, simbolo di collegamenti misteriosi
tra mafia, traffico d’armi e islamismo armato.
Ma ieri sera una Delhi sotto shock preferiva
non fare ancora ipotesi.
Kashmir, soccorsi
in nome dell’islam
In alto, la scena New
Delhi dopo gli attentati di ieri.
In basso, soccorsi ai
terremotati del Kashmir (foto ap)
diano (oggi fa parte della coalizione di
partiti religiosi che occupa un terzo
dei seggi nel parlamento del Pakistan
e dà il suo appoggio esterno al governo
del presidente Parvez Musharraf). E
poi le tende della Jamaat ud Dawa, parente della Lashkar e Taiba, uno dei
più noti gruppi islamici «militanti»
(nel senso di armati) che hanno base
in territorio sotto controllo pakistano
e alimentano la guerriglia anti-indiana
in Kashmir: i cosiddetti jihadi. «Questo è solo uno dei nostri campi», dice
Haji Javed ul Hassan, un signore dal-
Solidarietà estremista I gruppi
radicali pakistani guidano le operazioni di aiuto
nelle zone devastate dal terremoto. E, supplendo
alla latitanza dello stato, guadagnano consensi
690 amministrazione, 310 archivio,
475 politica, 520 mondo, 540 culture,
545 talpalibri, 550 visioni, 588 società,
586 economia
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l’imponente barba brizzolata e il copricapo pashtoon della frontiera afghana,
presidente delle operazioni di soccorso
della Jamaat ud Dawa nel distretto di
Muzaffarabad. In questo accampamento di tende militari sono ospitate
50 famiglie, circa 700 persone, più
qualche centinaio che si presenta per il
riparo notturno.
Accanto alla tendopoli c’è il campoospedale in cui mi trovo. Altri campi
sono a Bagh (altra cittadina del Kashmir pakistano colpita dal sisma) e a
abbonamenti postali per l’Italia
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Sede legale, Direz. Generale e
Operativa:
Balakot, ad appena 50 chilometri da
qui ma in territorio pakistano. «Ora in
queste tre città stiamo organizzando
villaggi più stabili, un centinaio di tende ciascuno, scuola, moschea: noi forniremo cibo e servizi». I volontari vengono da tutto il Pakistan, aggiunge, inclusi circa 400 studenti della rete di
madrasah (scuole coraniche) della Jamaat ud Dawa. Quali in particolare? Il
signore col barbone cita quella di Muridke, il paesetto alle porte di Lahore,
in Punjab, dove è nata Lashkar e-Taiba e tuttora risiedono i suoi leader – e
poi quelle di Karachi giù sulla costa,
Peshawar (la capitale della Provincia
della frontiera di Nordovest dove la
coalizione di partiti religiosi ha il governo locale)... E tutto questo – tende,
ospedale da campo, convogli di aiuti –
si regge solo sulle donazioni private
«raccolte in Pakistan e tra i pakistani
espatriati», dice orgoglioso il signor ul
Hassan.
La presenza di questi soccorritori
crea qualche imbarazzo al governo pakistano: il presidente Musharraf si è
sentito in dovere di dichiarare più volte alle tv occidentali che «gruppi illegali non saranno ammessi a unirsi ai
soccorsi». In Pakistan Lashkar e Taiba
è fuori legge dal gennaio del 2002, un
mese dopo essere stata accusata di
aver organizzato un attacco al parlamento indiano a New Delhi, episodio
che aveva portato India e Pakistan sull’orlo della guerra. Da allora più volte il
presidente pakistano Parvez Musharraf ha reiterato decreti che mettono
fuori legge ormai 11 gruppi «jihadi»: i
quali però restano attivi, e in modo
neppure troppo sotterraneo, con altri
nomi. Non è un segreto che in territorio sotto controllo pakistano le organizzazioni jihadi hanno ancora campi
di addestramento e retrovie. Inoltre,
diversi mojaheddin fatti prigionieri in
Afghanistan nell’ultimo anno hanno
detto aver ricevuto addestramento in
campi sulle montagne di Mansehra,
50 chilometri da qui ma in Pakistan a
tutti gli effetti, zona ora terremotata.
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ed. locale euro 124 a modulo,
pubblicità finanziaria, redazionale, legale
S U D - E S T
Deraglia treno,
più di cento morti
E’ di oltre cento il numero compelssivo dei
morti accertati in seguito alla sciagura
ferroviaria avvenuta ieri nello stato sudorientale indiano dell’Andhra Pradesh, dove
un treno passeggeri è deragliato nei pressi
della località di Velugonda, a una trentina di
chilometri dalla capitale statale Hyderabad.
Dalle trenta alle quaranta persone sono
inoltre disperse, e si teme che siano state
trascinate vie dalle acque in piena,
fuoriuscite da un vicino bacino idrico a causa
delle eccezionali precipitazioni dei giorni
scorsi, la cui pressione ha provocato il crollo
di un piccolo ponte, all’origine del sinistro. Si
tratta di cifre che, sommate, corrispondono
sostanzialmente al bilancio ipotizzato già
poco dopo la tragedia da fonti governative.
Più di un centinaio anche i feriti ricoverati
negli ospedali della zona; ulteriori 1.100
persone circa, tra quanti si trovavano sul
convoglio, hanno invece poi potuto
proseguire il viaggio. L’India è attraversata
da una delle più estese reti ferroviarie del
mondo: circa 110.000 chilometri di binari,
su cui viaggiano ogni giorno 14.000 treni,
molti dei quali obsoleti. Nonostante
l’introduzione di molti sistemi di controllo
elettronico, la maggior parte della
segnaletica sulla rete ferroviaria è ancora
azionata dalle persone, per cui gran parte
degli incidenti avvengono per errori umani.
Jamaat ud Dawa, reincarnazione di
Lashkar e-Taiba, non è illegale ma è
sulla «watch list» del governo, una lista di sorveglianza, ha precisato il presidente Musharraf. Così pure Al-Rasheed Trust, fondazione umanitaria a
più riprese accusata di incanalare fondi verso organizzazioni combattenti o
al-Qaeda, senza che la cosa fosse mai
davvero provata. Sono le sigle citate
dal presidente Musharraf l’altro giorno
in un’intervista al britannico Financial
Times: «Li abbiamo ammoniti, se vediamo che si imbarcano in qualsiasi
attività diversa dall’assistenza li bandiremo dalle zone terremotate». Ha però
ammesso che hanno riempito un vuoto: «Stanno facendo un buon lavoro,
non possiamo cacciarli».
«Organizzazioni bandite e screditate stanno riguadagnando legittimità
attraverso il lavoro di assistenza», si
indigna in un editoriale Najam Sethi,
direttore del quotidiano Daily Times.
Come distinguere, del resto, tra assistenza e propaganda? «Non sono mica
tutti guerriglieri», nota Tariq Naqash:
«Sono ingegneri, medici, gente dedicata, anche se certo hanno tutti la barba», il segno di un islam ultraortodosso. «Loro sono della scuola wahabi,
ma qui curano senza distinzioni. E’ ovvio che questo lavoro assistenziale
avrà un impatto futuro: stanno facendo un’ottima impressione».
Prima del terremoto questi gruppi
non erano così visibili in Kashmir,
spiega il giornalista. Erano più discreti:
Jamaat ud Dawa aveva una rete di
moschee e scuole diretta proprio da
Haji ul Hassan, pakistano trasferito in
Kashmir. Altri gruppi combattenti, come Hizb-ul Mojaheddin, erano presenti nei campi di sfollati della «linea
di controllo», la frontiera di fatto con
lo stato di Jammu e Kashmir sotto sovranità indiana: ondate di sfollati
giunti dal 1990, quando la ribellione
separatista è sfociata in una guerra
strisciante. Ora, con i soccorsi ai terremotati, i jihadi mostrano un’altra faccia.
euro 310 a modulo, ed. locale euro 150
finestra di prima pagina euro 3.600
formato mm 78x89
formato pag. intera mm. 323x511
posizione di rigore: più 20%,
formato doppia pag: mm. 664x511
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28-11-2001
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domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
GUERRA
Accanto, l’arrivo a Nassiriya di un battaglione dell’esercito italiano. A destra George
Bush e Silvio
Berlusconi.
Foto Ap
3
Superata quota 2010
Dopo avere toccato, martedì, la soglia delle 2000
perdite, il numero dei militari americani morti in
Iraq e nella guerra contro il terrorismo continua
ad aumentare: secondo i computi dei media, il
totale delle perdite è già superiore a 2010.
Show pacifista
a palazzo Chigi
N
«
ANDREA COLOMBO
ROMA
on sono mai stato convinto che
la guerra fosse il sistema migliore per rendere
democratico un paese e farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa». Parole che ogni pacifista condividerebbe. Parole, o almeno concetti, che molti, negli ultimi anni, hanno probabilmente adoperato per spiegare il loro rifiuto
della guerra irachena e della politica estera del
governo Berlusconi. Parole che adesso, ineffabile, ripete proprio lui, il premier italiano, il principale alleato di Bush nell’Europa continentale,
il capo di un governo che in Iraq ha inviato i
suoi soldati anche a costo di arrivare a una crisi
rovinosa con i principali partner europei.
E non si ferma qui il cavaliere. Intervistato
da Rula Jebreal per la puntata di Omnibus che
andrà in onda lunedì prossimo sul La 7 concede rivelazioni a dir poco sconcertanti. «Ho tentato a più riprese di convincere il presidente
americano a non fare la guerra. Ho tentato di
trovare altre vie anche attraverso un’attività
congiunta con Gheddafi. Non ci siamo riusciti
e c’è stata l’operazione militare, un’operazione
I R A Q
Strage a Baquba
Uccisi 3 marines
Un’automba è esplosa ieri
pomeriggio in un mercato di
Huwaider, un villaggio vicino a
Baquba, circa sessanta
chilometri a nord di Baghdad.
Almeno 21 persone sono morte e
altrettante sono rimaste ferite
nell’attentato avvenuto poco
prima della fine del digiuno di
ramadan. Secondo la polizia il
mezzo utilizzato per compiere la
strage era un furgone aperto
fatto esplodere nella strada
principale della cittadina, dove si
affacciano la moschea e il
mercato. E tre soldati americani
sono stati uccisi e quattro sono
rimasti feriti in due distinti
attacchi a Baghdad e a nord della
capitale irachena. Secondo
quanto riferito in un comunicato
dall’esercito statunitense, due
militari sono morti nell’esplosione
di un ordigno al passaggio della
loro pattuglia a sud di Baghdad.
Poco prima, l’esercito aveva
annunciato la morte di un
soldato, morto in seguito alle
ferite riportate nell’esplosione di
una mina a sud-ovest di Baji, 300
chilometri a nord della capitale.
Nello stesso attacco erano
rimasti feriti altri quattro militari.
Sale così a 2010 il numero di
caduti statunitensi dall’inizio del
conflitto, nel marzo 2003. Le
vittime civili irachene sono, a
seconda delle stime, tra 30.000
e 100.000.
Berlusconi: «Ero contro la guerra in Iraq. Ho tentato
invano di convincere Bush e Blair a non attaccare»
che io ritenevo si dovesse evitare».
Non una volta, negli ultimi anni, Silvio Berlusconi ha permesso a questi sentimenti e a
queste opinioni di trapelare. Non nella miriade
di dichiarazioni con cui ha bombardato gli italiani. Non nelle sue apparizioni televisive. Soprattutto non in parlamento, dove, al contrario,
ha sempre difeso strenuamente le ragioni degli
americani, la missione pacifica e civilizzatrice
avviata da Bush e nella quale ha lui, Berlusconi,
ha impegnato il suo paese.
Quanto agli imperscrutabili motivi che lo
hanno spinto a non dar seguito a tanto lodevoli
giudizi, a non assumere la stessa posizione presa dalla Francia, dalla Germania e dalla Spagna
di Zapatero, quelli restano misteriosi. Berlusconi sorvola sul particolare. Non spiega, non illustra. Passa invece a rivendicare una sostanziale
identità tra il suo governo e quello laburista di
Tony Blair. «Blair non è il leader dell’Ulivo
mondiale. Non c’è nulla nella sua politica e nella mia che sia in contrasto». Sarà pure propa-
ganda rivolta agli elettori moderati che apprezzano il nipotino laburista di Margaret Thatcher, ma per una volta è purtroppo precisa,
per nulla esagerata.
A conti fatti, si direbbe che la sola differenza
tra il capo della sinistra inglese e quello della
destra italiana è che il primo ha voluto a ogni
costo, con Bush, l’impresa irachena, mentre il
secondo ha fatto il possibile per impedirla, sia
pur modestamente, senza dirlo a nessuno, con
discrezione da gran signore.
La trovata del capo lascia palesemnte sbalordito Gianfranco Fini, che si affanna nel cercare un impossibile recupero. Perché tanto stupore?, sembra dire: «Non è la prima volta che
Berlusconi ricorda che cercammo fino all’ultimo di indurre Bush e Blair a non attaccare l’Iraq». E comunque, puntualizza subito dopo:
«Gli italiani non hanno partecipato alla guerra,
le truppe sono state inviate quando la comunità internazionale si pose il problema di come
sconfiggere il terrorismo e aiutare le autorità
irachene a ritrovare libertà e democrazia. Bisogna assumersi le proprie responsabilità».
Le frettolose precisazioni di Fini si spiegano
facilmente. Va da sé che un’opposizione quasi
divertita passi all’attacco e inchiodi il premier
alle sue vistose contraddizioni: «Che succede?
Finalmente Berlusconi si è accorto che è una
guerra sbagliata? Allora lo dica...», se la ride
Prodi. Da Atene Bertinotti duetta con Lafontaine. «Il paradiso si rallegra per un peccato di cui
ci si pente», ironizza il leader tedesco. «Ma non
nel perdurare del peccato», infierisce il segretario del Prc.
In effetti il tentativo di Fini di attenuare l’impatto delle dichiarazioni del premier difficilmente centrerà l’obiettivo. Ma è altrettanto difficile pensare che quella di Berlusconi sia stata
solo goffaggine. E’ assai più probabile che il premier, a pochi metri dalle elezioni, tenti un difficile recupero d’immagine, prensendo di petto,
con l’abituale e a modo suo ammirevole faccia
di bronzo, una delle sue scelte più criticate dagli elettori. Ed è anche possibile che, per lo stesso motivo, il premier italiano si stia preparando
a una qualche mossa a sorpresa nel colloquio
di lunedì prossimo con Bush, a Washington.
Cia-gate, Bush sceglie il silenzio
Nel suo discorso del sabato, il presidente non fa accenni all’incriminazione di Lewis Libby
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Lavorate come se niente fosse e state
alla larga da Lewis Libby. La consegna
ai funzionari della Casa bianca è stata
data da Andrew Card, il capo dello
staff di George Bush, già nel pomeriggio di venerdì, dopo che lo special prosecutor Patrick Fitzgerald aveva incriminato il cosiddetto «alter ego» del vice presidente Dick Cheney. Sicuramente il mite Card non intendeva che
quella consegna dovesse valere anche
per Bush in persona, ma questo è esattamente ciò che è accaduto. Tutti si
aspettavano che ieri mattina, nel suo
consueto messaggio radiofonico del
sabato, dal presidente sarebbe venuta
una «risposta» un po’ più articolata di
quella generica di venerdì sera, e invece lui non ha fatto il minimo accenno
a ciò che era accaduto. Ha parlato della guerra in Iraq, della «pietra miliare»
costituita dal voto sulla nuova costituzione, dei «grandi progressi» fatti e
della necessità di «mantenere la rotta».
Quanto al fatto che nel frattempo la
cifra simbolica di duemila soldati americani morti che lo aveva «colto» l’altro
giorno proprio durante un discorso simile, ieri era già arrivata a 2010, il presidente ne ha parlato solo per ripetere
la sua teoria che un cultore dell’umor
nero tempo fa ha definito tempo fa
«della moltiplicazione dei morti». Il
Joseph Wilson e la moglie (ap)
fatto cioè che bisogna continuare a fare «sacrifici» affinché i morti in Iraq
non abbiano perso invano la loro vita.
Per il resto nulla. Il terremoto dell’altro
ieri non c’è mai stato.
Se questa è la strategia che lo
«scampato» Karl Rove gli ha suggerito,
non sembra vincente. Non c’era naturalmente il solito sondaggio a dire se la
«linea del silenzio» avesse funzionato
o no, ma ieri non si trovava in giro nessuno che non si dicesse «deluso» dal
fatto che Bush avesse fatto finta di nulla. E a proposito di Rove, sul fatto che
lui sia rimasto immune da quella che
tutti chiamano la «prima fase» del lavoro di Fitzgerald cominciano già le
indiscrezioni. Secondo una di esse, che
il Washington Post dice di avere avuto
da ben tre fonti diverse, il «cervello di
Bush» ha evitato l’incriminazione, almeno per ora, grazie alle ulteriori informazioni che avrebbe fornito allo
special prosecutor durante febbrili negoziati dell’ultima ora. Il che vuol dire
che ora Fitzgerald dispone di altro materiale su cui lavorare. E questo è proprio lo scenario peggiore per Bush, che
rischia di ritrovarsi «tallonato» dagli
sviluppi dell’inchiesta in corso per
chissà quanto tempo ancora.
Uno di questi sviluppi, oltre tutto, è
stato già fissato, per così dire, dall’incriminazione di Libby, che ovviamente
deve sfociare in un processo. Che farà,
l’alter ego di Cheney, con la prospettiva
di trenta anni di prigione? Cercherà di
patteggiare per non finire in cella? E
che cosa offrirà in cambio? Quali cose
potrebbe mai raccontare? Queste domande sono probabilmente destinate
a tormentare, nel prossimo futuro,
Cheney e lo stesso Bush. Oltre tutto
proprio venerdì pomeriggio, dopo che
Fitzgerald aveva concluso la sua lunga
conferenza stampa-requisitoria, qualcuno (che poi lo ha raccontato al New
York Times) lo ha visto davanti allo
studio di James Sharp, cioè l’avvocato
personale del presidente. Né Sharp né
Fitzgerald, com’è suo costume, hanno
voluto dare spiegazioni, ma l’idea è che
ci siano in corso dei negoziati riguardanti il coinvolgimento del presidente
nell’inchiesta. Bush su questa storia è
stato interrogato l’anno scorso. Non si
sa cosa gli sia stato chiesto e cosa ab-
bia risposto, ma si sa che non era sotto
giuramento, e infatti quell’incontro fu
tecnicamente definito «intervista».
Anche Cheney ne ebbe a suo tempo
una, ma quando Fitzgerald decise di
vederlo ancora, l’intervista era stata
trasformata in «interrogatorio». Oggi
la differenza fra le due condizioni è
chiara. La prima volta Cheney disse di
non avere idea di chi fosse Valerie Plame Wilson, l’agente della Cia di cui è
stata svelata l’attività. La seconda volta, sotto giuramento, ammise di averlo
saputo e che a dirglielo era stato lo
stesso boss della Valerie, l’allora capo
della Cia George Tenet.
Insomma le premesse per un lungo
«tormentone» capace di scuotere giorno dopo giorno la vita della Casa bianca ci sono tutte. L’unica consolazione
(forse) per Cheney e Bush sta nel nome
del giudice federale del District of Columbia, dove si trova Washington, che
dovrà istruire il processo a Lewis Libby. Si chiama Reggie Walton e non è
un precisamente un «prevenuto» nei
confronti dell’amministrazione. A nominarlo è stato infatti proprio George
Bush, basandosi sul fatto che aveva lavorato con suo padre (come assistente
di Walter Bennett, l’allora «zar» della
lotta alla droga) e prima ancora era
stato messo da Ronald Reagan a capo
di un’altra sezione dello stesso tribunale. «La mia filosofia è di essere equo
con entrambe le parti in causa», ha
detto.
FALSO DOSSIER
Accuse al Sismi
Palazzo Chigi
nega ma non basta
ROMA
Toni sempre più accesi sul versante
italiano del Niger-gate. Repubblica insiste nelle accuse al governo Berlusconi
e al direttore del Sismi, Nicolò Pollari,
in relazione al falso dossier sul tentativo di Saddam Hussein di comprare
uranio nigerino per dotarsi dell’arma
atomica, usato da Bush per giustificare
la guerra. Nuovi argomenti vengono
dal New York Times, secondo il quale
l’Fbi non ha affatto chiuso le indagini
sulla «manipolazione». E ora tutto
ruota attorno a un incontro del 15 ottobre 2002 tra Pollari e Stephen Hadley, allora vice di Condoleezza Rice
che era consigliere per la sicurezza nazionale: il direttore del Sismi, davanti a
numerosi funzionari avrebbe confermato a Hadley, a voce, il contenuto del
«papocchio» sull’uranio nigerino, confezionato da loschi personaggi più o
meno legati al Sismi e da un funzionario dell’ambasciata del Niger a Roma.
Da Palazzo Chigi un’altra smentita,
la quinta in due anni. L’incontro, «programmato e protocollarmente gestito
dalla Cia è avvenuto tra l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, e il direttore del Sismi,
Nicolò Pollari, alla presenza di una delegazione italiana e di una delegazione
Usa della quale faceva parte anche Hadley». Secondo la nota vennero trattate «problematiche di scenario internazionale e di cooperazione tra intelligence dei due Paesi e non vi è stato alcun riferimento, diretto o indiretto, a
problematiche concernenti la questione Iraq-Niger». «I reiterati tentativi di
accreditare una versione diversa - si
legge ancora nel comunicato - sono,
conclamatamente falsi e offrono uno
spunto interpretativo delle parole del
portavoce del National security council, Frederick Joones, il quale interloquendo con i giornalisti di un quotidiano italiano ha testualmente affermato: ‘Ciò che è stato fatto delle mie
dichiarazioni è un modo disonesto e
scorretto di fare giornalismo’».
Al di là delle responsabilità, tutt’altro che accertate, del generale Pollari, il
governo italiano non ha ancora spiegato perché non smentì pubblicamente il
falso dossier sull’uranio nigerino, e non
solo la sua paternità, fin dal discorso in
cui Bush lo utilizzò per giustificare
l’aggressione all’Iraq. E l’opposizione
sta a guardare anziché costringere Berlusconi a chiarire. Pollari, per quanto
gli compete, sarà ascoltato su sua richiesta il 3 novembre dal Comitato
parlamentare di controllo sui servizi.
Il refusenik britannico ribalta le accuse sul premier Blair
LONDRA Processo al medico della Raf che s’è rifiutato di servire in Iraq: sono innocente, illegale è rovesciare un governo con le armi
NICOLA SCEVOLA
LONDRA
La corte marziale dell’esercito di Sua Maestà ha
aperto il processo contro il primo ufficiale delle forze armate britanniche che rischia la prigione per essersi rifiutato di combattere in Iraq. Davanti ai giudici militari, questa settimana il medico della Royal
Air Force, capitano Malcolm Kendall-Smith, si è dichiarato innocente, ribadendo la sua opposizione a
servire in una guerra che ritiene «manifestamente
illegale». Lungi dall’essere un obiettore di coscienza
che ripudia l’intervento armato su basi morali, Kendall-Smith è un veterano pluridecorato che ha già
partecipato ad altre campagne in Afghanistan e in
Iraq.
Ciò che ha spinto il capitano a disobbedire all’ordine di andare alla conquista della Mesopotamia, infatti, non è l’uso della forza in generale, ma
l’illegittimità dell’ordine specifico di invadere un
paese per cambiarne il governo. Dopo aver attentamente studiato il parere legale espresso dal mini-
stro della giustizia britannica Lord Goldsmith - il
quale metteva in dubbio la legalità dell’intervento Kendall-Smith si è convinto di avere le carte in regola per disobbedire. «Il mio cliente si è dichiarato
innocente sulla base del fatto che la guerra è manifestamente illegale», spiega al manifesto Justin Hugheston-Roberts, l’avvocato che difende il capitano
della Raf. Espresso alla vigilia dell’invasione e inizialmente tenuto segreto agli stessi ministri del governo, l’autorevole parere del guardasigilli britannico è stato reso noto solo durante la campagna elettorale del maggio scorso.
Dopo che alcune parti del parere sono trapelate
sulla stampa britannica, il primo ministro Tony
Blair si è trovato in pratica costretto a pubblicare il
documento. In questo, Lord Goldsmith avvertiva
esplicitamente l’inquilino di Downing street che la
sostituzione forzata del regime di Saddam Hussein
non era uno scopo da potersi considerare legale secondo le legislazione internazionale. Per rimanere
nel solco della legge, la missione avrebbe dovuto,
infatti, limitarsi a togliere al tiranno di Baghdad
quelle famose armi di distruzione di massa che non
ha in realtà mai posseduto. Oltre ad affermare che
la dottrina dell’intervento preventivo «non esiste o
non è riconosciuta dall’ordinamento internazionale», nel documento Lord Goldsmith avvertiva senza
mezzi termini che «il cambio di regime non può essere l’obiettivo di un’azione miliare». Quel che è accaduto successivamente in Iraq la dice lunga sul tipo di considerazione in cui Blair tiene l’opinione del
suo esperto di giustizia. Oggi, quello stesso parere
ignorato due anni fa, potrebbe tornare ad imbarazzare il governo e a servire per evitare la galera al primo ufficiale «refusenik» dell’esercito britannico.
Gi altri soldati in passato si sono rifiutati di
combattere in Iraq, ma erano tutti riservisti non
operativi. Kendall-Smith, invece, è il primo fra i militari in servizio attivo a prendere una simile decisione. Al momento del suo rifiuto, nel giugno scorso, il medico trentasettenne lavorava nella base dell’aeronautica di Kinloss. Da allora è stato sospeso,
ma continua a vivere all’interno della sua caserma.
«Justin è di ottimo umore e trascorre il suo tempo
leggendo e preparandosi per affrontare la causa»,
assicura il suo legale. Il processo si è aperto in un
clima di crescente disagio da parte dei militari verso la campagna in Iraq. L’impossibilità di stabilire
una data certa per il rientro delle truppe e l’aumento degli attentati da parte della resistenza irachena
contro i soldati britannici in un settore – quello
meridionale - rimasto relativamente calmo per lungo tempo, aggiungono incertezze alla missione e
contribuiscono a fiaccare il morale delle forze armate.
Per evitare quindi di creare un altro martire a
favore degli oppositori della guerra, i giudici militari potrebbero cercare di chiudere in sordina il processo a Kendell-Smith, evitando una condanna al
carcere. L’udienza preliminare che si è tenuta questa settimana all’interno della base militare di Bulford Camp nel Wiltshire è stata celebrata a porte
chiuse, ma, a partire da marzo, le sedute diventeranno pubbliche, dando così la possibilità al movimento contro la guerra di sfruttare il caso per riaprire il dibattito sull’illegalità dell’intervento.
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
ENERGIA
4
Petrolio facile, addio
Un convegno mondiale a Rimini, organizzato
dal Centro Pio Manzù, decreta la fine dell’era
del greggio a basso prezzo. L’unica incertezza:
il «picco» della produzione è già in atto o si
verificherà tra qualche anno?
L’orizzonte
limitato
del petrolio
ove diavolo andremo a finire, tutti noi? Il paradiso è fatto di business as usual, consumi crescenti, aumento della produzione di combustibili fossili ed emissione di gas serra in
quantità devastanti. L’inferno, al contrario, ha il volto della carenza di energia, che si porta dietro la decrescita
economica, la crisi, le guerre per il controllo delle riserve, la disoccupazione
di massa e la fame.
Punti di vista opposti, incompatibili, ma, al dunque, in qualche misura
catastroficamente sovrapponibili. Che
si sono trovati per la prima volta riuniti intorno allo stesso tavolo – in Italia,
almeno – al convegno mondiale in
corso a Rimini, promosso dal Centro
Pio Manzù. Questa è la novità principale. Fin qui, infatti, nel dibattito italia-
Geologi contro economisti e ingegneri al convegno sulle priorità energetiche
globali da sottoporre alle scelte dei «decisori politici». Ma il futuro è grigio
no aveva vissuto una sola posizione: il
petrolio non mancherà mai, o almeno
non per i prossimi 40 anni. Quella opposta aveva trovato spazio solo in ristretti circoli scientifici e su pochi giornali (il manifesto, più recentemente Liberazione, qualche articolo sparso). Il
tabù è stato rotto. Ora si può – si deve
– prendere in seria considerazione l’ipotesi, calcolabile, che i combustibili
fossili stiano arrivando molto vicini al
«picco» della loro produzione. Che
non significa «fine», ma solo «massimo della produzione possibile». Ed è la
situazione che sembra in atto sui mercati petroliferi, dove –ormai da mesi –
«la produzione non riesce più a tener
dietro alla domanda». Facendo così salire il prezzo del greggio alle stelle.
Hermann Franssen, presidente dell’International Energy Associates, ex
economista capo della Iea (Ocse), ha
fatto da mediatore tra le previsioni opposte di Colin Campbell – geologo, per
40 anni al lavoro con Texaco, Bp,
Amoco, Fina, ora responsabile dell’Association for the Study of the Peak Oil
(Aspo) – e altri esperti di assoluto valore, come Marcello Colitti, per cui invece «è solo questione di prezzo e di investimenti». La posta in gioco è orientare le scelte dei «decisori politici»: le
immense risorse finanziarie che possono essere investite per soddisfare il crescente bisogno di energia, come vanno
investite? Esponenti di entrambe le
tendenze – a riprova del fatto che la
divisione non corrisponde a quella po-
litica fra destra e sinistra) hanno rispolverato l’opzione nucleare. Anche
perché le «fonti rinnovabili» sono un
po’ da tutti considerate belle, ma ancora «troppo costose» e comunque «con
un rendimento troppo basso» perché
possano sostituire fossili o nucleare. Su
tutta la discussione, però, pesa l’inconoscibilità del dato fondamentale:
quanto petrolio è rimasto sottoterra? E
in che proporzione è con la quantità
che abbiamo già consumato? Paesi
produttori e compagnie petrolifere, sul
punto, custodiscono i dati come un segreto militare. Anche se ora, dice Campbell, alcune delle prime, cominciano a
rilasciare «dati veri». Per niente allegri.
Ma non è stato affrontato solo l’aspetto« fisico». anche economia e fi-
«Speculazione, non scarsità»
Il punto di vista di un dirigente storico di Eni e Agip
FR. PI.
Marcello Colitti ha i tratti del grande vecchio un po’ alla
Einstein: abbigliamento «fuori ordinanza», cappello a
larghe tese, un papillon multicolore e un’innata comunicativa che lo rende immediatamente simpatico. Ha
lavorato all’Eni dal 1956, è stato presidente dell’Enichem e vicepresidente dell’Agip. E’ uno dei consulenti
più ascoltati nel settore del petrolio. I recenti turbamenti del mercato, secondo lui, dipendono dal «ruolo centrale assunto dai mercati finanziari» anche nel settore
energetico; organismi che sono solo «alla ricerca dell’utile immediato e che stanno prendendo il ruolo che prima era dello stato». Fino alla follia degli analisti che
considerano «virtuose» le società che «con i profitti fatti ricomprano le proprie azioni per sostenerne i corsi,
invece di procedere con nuovi investimenti produttivi».
In tal modo, dice, «il denaro non va a salari e investimenti, ma al risparmio finanziario»; così «la produzione e la domanda ristagnano». Nei mercati «emergenti», ricorda, sono finiti «310 miliardi di dollari»; ma
per «il 75% sono stati investiti in azioni». La speculazione finanziaria, insomma, ha gonfiato i corsi del mercato
petrolifero, considerato «prima poco redditizio», creando il paradosso per cui le società che meno investono
nella produzione accumulano ritorni e profitti altissimi.
E’ «una situazione che nessuno controlla più, nemmeno gli Usa». E fa degli esempi chiarissimi. «La British
Petroleum ha nominato un amministratore delegato
che viene dai telefoni. Non sa nulla di petrolio, è evidente, ma decisamente sa molto di mercati finanziari».
Tuttavia non vede problemi «fisici» sul mercato, né
accetta l’idea che si stia in prossimità di un «picco» della produzione petrolifera. «E’ solo questione di prezzo e
di investimenti», perché «la produzione è vicina alla capacità massima», specie se si guarda «alla fase della raffinazione». Ma su questo versante numerosi altri mutamenti si sono verificati nel corso degli ultimi 30 anni. I
u l t i m e
AA.VV. “GE2001”
per avere tutte le informazioni sui cd,
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consultate musica.ilmanifesto.it
CAMPBELL
Compilation nata da un progetto di Supportolegale, sostiene finanziariamente la segreteria del Genoa Legal Forum.
Il progetto è stato reso possibile grazie alla disponibilità di
SUBSONICA, ASSALTI FRONTALI, ONDEBETA, MEGANOIDI, PUNKREAS, MEG, CLUB DOGO, PENTOLE&COMPUTER, BANDABARDO’, TETES DE BOIS, 24 GRANA, PSEUDOFONIA, RISERVA MOAC, FOLKABBESTIA, ELIO E LE
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Melbookstore. Per informazioni su altri punti vendita e per acquistare con carta di credito
La produzione è ormai vicina al suo limite massimo
FR. PI.
In alto, Colin
Campbell.
Il disegno
è opera
di Pulika
Colin Campbell, geologo irlandese da sempre nel settore
petrolifero, ha la pazienza di chi crede senza mediazione «nei fatti» ed è abituato da anni a veder sbeffeggiate
le proprie previsioni dagli economisti e «dagli ingegneri
petroliferi». Salvo poi prendersi grandi soddisfazioni,
come quando un altro professore, nella sala del Teatro
Novelli, si alza per ricordare che «nel 1996 lei disse che
nel 2005 il prezzo del greggio sarebbe arrivato tra i 70 e i
100 dollari». Come sappiamo, è arrivato a 71 un mese fa.
Non è l’unica, e ricorda quando, da
giovane «esploratore» per conto della
Bp, trovò una promettente area all’interno della Colombia; la compagnia
preferì investire per cercare il greggio
in zone più vicine al mare a ai porti,
senza trovarne. 25 anni dopo, un’altra
società scavò dove lui aveva detto, con
grande successo. E’ per questo che la
mette giù dura: «i re ascolteranno
adesso i navigatori (gli scienziati, ndr)
o ancora i monaci (ingegneri ed economisti che ‘hanno fede’ nell’inesauribilità a medio termine del petrolio, ndr)?». Così come
quando, alla fine del Medioevo, si discuteva ancora se la
terra fosse piatta o tonda.
Se la prende con gli economisti, incapaci a suo giudizio di accettare o concepire la «finitezza» delle risorse
non riproducibili; cita Adelman, che avrebbe scritto «i
minerali sono inesauribili». Nel tentativo di spiegare gli
alti prezzi del greggio, per esempio, «il geologo dice che
sono stati violati dei limiti fisici», mentre «l’economista
dice una volta che mancano gli investimenti, un’altra
che c’è la guerra, un’altra ancora che è colpa degli uragani». Riassume il tutto in un concetto: «è una diatriba
tra dottori e guaritori. Da chi vi fareste curare?».
I suoi dati sono impietosi. Le «stime sulle riserve»
fornite dai paesi produttori sono «gonfiate» a partire
dalla metà degli anni ’80, con improvvisi aumenti non
corroborati da nessuna scoperta di nuovi giacimenti di
grandi dimensioni. La «fede» nelle capacità taumaturgiche delle «nuove tecniche di estrazione» è immotivata, perché «tecniche più efficienti aumentano la produzione entro una certa quantità di tempo, e quindi esauriscono più velocemente i giacimenti». La «fede» in «altri 40 anni di petrolio» è dovuta a un calcolo elementare
che le compagnie propongono al pubblico: dividono le
«riserve stimate» (gonfiate) per il consumo annuo attuale. Un doppio errore, perché con la crescita economica aumentano anche i consumi di greggio; e perché
nessun giacimento può mai essere sfruttato «fino all’ultima goccia». Buona parte rimane irrangiungibile, sotto
terra. Invita a guardare ai tassi di scoperta di nuovi giacimenti: il «picco», qui, c’è stato alla fine degli anni ’60;
da allora se ne scopre sempre meno. Dall’inizio degli anni ’80 la quantità dei consumi è superiore a quella delle
scoperte.
E’ il fondatore e coordinatore dell’Aspo, l’associazione che studia il «picco» della produzione petrolifera, e
quindi è obbligato a rispondere alla domanda che un
po’ tutti gli fanno: «quando ci sarà il picco?». La risposta non piacerà a nessuno: «quest’anno». Come se ne
esce, se ha ragione? «Si tratta di una condizione senza
precedenti», perché «davanti al declino di una risorsa
per la prima volta non ne abbiamo una migliore a disposizione». Per questo propone una serie di misure
chiamate «Il protocollo di Rimini», secondo cui bisognerebbe tagliare le importazioni di greggio al tasso del
2,6% l’anno, convincere i produttori ad accettare verifiche scientifiche sulle proprie riserve, investire in altre
fonti energetiche (anche lui cita il nucleare). Altrimenti
«rischiamo di prendere anche noi posto nella serie delle
specie fossili per eccesso di adattamento all’era del petrolio». Pure ironico, l’irlandese.
n o v i t à
euro 8,00
euro 8,00
l e
paesi del Golfo prima «investivano all’estero» (chi ricorda i «petrodollari»?), mentre ora tendono a investire soprattutto nel proprio territorio. Un esempio, ancora, è
l’Arabia Saudita, passata negli ultimi 30 anni da 7 a 22
milioni di abitanti; e che ha quadruplicato l’utilizzo in
loco del petrolio (da mezzo a due milioni di barili al
giorno, mbg) senza aumentare davvero la produzione
totale (intorno ai 10 mbg).
Ma il problema, per Colitti, prima ancora che finanziario «è politico»: «chi governa cosa?». Annuisce con
forza quando Franssen ricorda che «se
il barile resta intorno ai 70 dollari, il
deficit Usa di parte corrente salirà presto a un trilione di dollari». Una cifra
«insostenibile, perché gli Usa sono un
acquirente sul lungo termine, e a lungo
andare uno degli equilibri che tengono
in piedi questa situazione verrà a cadere». Ancora più insostenibile è quel
prezzo per i «paesi emergenti»: come
reagiranno quando vedranno che non
possono più sperare di raggiungere,
causa il prezzo dell’energia, il nostro
standard di vita?
Ed è un problema politico anche
stabilire con certezza «quanto petrolio c’è ancora». Per
lui, infatti, esiste soltanto «la difficoltà di fare una mappatura precisa, perché i governi non accettano di far fare verifiche indipendenti sulle proprie riserve»; ma «non
c’è un problema di scarsezza». E quando, su nostra domanda, si arriva a soppesare il valore delle «sabbie petrolifere», anche qui trova conferma alla sua tesi: «è una
risorsa lenta, ma reale; estrarla è solo questione di prezzo». Ottimista irriducibile, Colitti prende in giro tutte le
previsioni: «perché, lei sa quand’è che morirà?». Ma qui
non stiamo parlando delle sorti di un individuo, ma di
quantificare la dimensione di una risorsa fisica. Di limiti, insomma, relativamente indifferenti alla politica.
Usa ha raggiunto il suo picco, nel 1970,
abbiamo avuto come reazione la fine
degli accordi di Bretton Woods e del
gold standard. Cioè la fine dello stato di
diritto nella finanza internazionale». E’
caduto allora «il ponte tra oro e dollaro», e «dai vincoli della trasparenza si è
passati all’opacità», all’«arbitrio» giocato su «regole e regolucce aggiustabili
a seconda delle necessità». In questo
quadro sregolato, la «fine del petrolio a
basso costo» viene vista come l’esito di
una scommessa nel gioco d’azzardo:
«è andata male, ora bisogna raddoppiare». E allora via con le «delocalizzazioni». Ma, si chiede Sanders e tutti
noi con lui: se il prezzo del petrolio crescerà in modo inarrestabile, a che
prezzo dovremo riportarci a casa le
merci prodotte altrove? Ed è solo una
delle tante variabili dell’equazione
energetica che pesa sulle prospettive
dell’economia globale.
«Il picco si sta verificando ora»
euro 8,00
COLITTI
nanza hanno avuto il loro palcoscenico, soprattutto in veste di imputati. In
primo luogo, per il peso della «speculazione»; ma soprattutto per la noncuranza della teoria economica nei confronti dei «limiti» fisici di un pianeta
che tutto è fuori che «infinito». Per un
economista il gioco tra domanda e offerta si risolve sempre con la produzione «ottimale» di una merce, specie
quando la domanda «tira». Per un fisico, o un geologo – e comunque nella
realtà – la domanda può «tirare»
quanto gli pare; se una fonte naturale
«non riproducibile» finisce, non c’è
nulla che possa rigenerarla.
Un vero capolavoro di critica dell’economia Usa – il baricentro di quella
globale – è venuto inaspettatamente
dal banchiere e ricercatore Chris Sanders, originario di Dallas. «C’è un’ampia esperienza sull’esaurimento del petrolio. Quando la produzione interna
euro 8,00
D
FRANCESCO PICCIONI
INVIATO A RIMINI
MAURIZIO CARBONE “MADRE TERRA”
ACUSTIMANTICO “DISCO NUMERO 4”
ARDECORE “ARDECORE”
Un racconto fatto di relazioni e luoghi, di saperi e memorie, trasmesso attraverso tamburi,
voci, corde e flauti. Un viaggio circolare dentro
e attorno nostra madre: la Terra. In questo
album, che attraversa diverse culture musicali, Maurizio Carbone incontra e ospita musicisti come Dom Um Romao, Garrison Fewell,
Marcello Colasurdo, Marzuk Mejri e altri
Il quarto album degli Acustimantico presenta 11 brani selezionati dal loro nutrito repertorio ed eseguiti
dal vivo. Nei loro suoni confluiscono insieme musica
d-autore, jazz, pop, folk arrangiati ed interpretati con
personale classe, un-originalit’ che sa essere ancor
pitù ravolgente quando è su palco. Una rivelazione
per molti, una conferma per chi li segue da tempo.
Ospiti del cd Andrea Satta (Têtes de Bois) e Piero
Brega.
Ardecore sono il cantante folk blues Giampaolo Felici insieme al leader degli statunitensi Karate Geoff Farina e
la band romana Zu. Le diverse esperienze musicali si
sublimano nella canzone
romana, i famosi stornelli
con i loro racconti di amori e coltelli, malavita e romanticismo. Fedeli alle originali, queste versioni non disdegnano un approccio noir, figlio di Nick Cave e Tom Waits.
telefonare ai numeri: 06/68719687 - 68719622 e-mail: [email protected]
Per ricevere i cd aggiungere al prezzo 2,00 euro di spese postali (fino a tre cd) e versare l’importo
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specificando la causale. Distributore per i negozi di dischi Goodfellas tel. 06/2148651 - 2170013
domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
MONDO
5
«Usa complici dei jihadisti»
I
STEFANO CHIARINI
l governo siriano, alla vigilia della
riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che lunedì discuterà la mozione per l’adozione di sanzioni contro
la Siria - accusata da Washington di
non voler collaborare con la commissione di inchiesta sull’uccisione dell’ex
premier libanese Rafiq Hariri e di permettere l’afflusso verso l’Iraq di combattenti e capitali - ha dato vita ad una
sua inchiesta giudiziaria sulla strage
del giorno San Valentino, e accusato il
governo Usa di non aver voluto «sigillare» il confine con l’Iraq ai combattenti Jihadisti.
L’accusa, assai grave, di aver dato la
priorità ad un «cambio di regime» a
Damasco rispetto ad una «exit strategy» dall’Iraq che potrebbe salvare tante
vite americane e irachene, è stata rivolta all’Amministrazione Bush dall’ambasciatore siriano a Washington, Imad
Mustapha, in una lettera indirizzata ad
un gruppo di membri del Congresso
ed in particolare alla deputata Sue Kelly. Nella missiva - fatta filtrare alla
stampa da alcuni settori minoritari del
Dipartimento di stato contrari ad aprire un altro fronte in Siria mentre ancora si combatte in Iraq - l’ambasciatore
sostiene che ormai da un anno Damasco starebbe cercando di collaborare
con gli Usa nel campo della «sicurezza» ma senza aver avuto alcuna risposta da Washington. Eppure il governo
siriano si sarebbe dato da fare non poco in questo senso. Basti pensare che i
cittadini di paesi arabi arrestati o
espulsi dalla Siria mentre cercavano di
entrare in Iraq illegalmente sarebbero
oltre 1500, per non parlare degli arresti
dei mujaheddin siriani prima della loro
partenza per l’Iraq o al momento del
loro ritorno, e persino di quelli dei loro
parenti. L’ambasciatore ricorda poi come siano stati gli Usa e non Damasco
a rifiutare ogni collaborazione per
«chiudere ai terroristi» il confine siroiracheno. Damasco avrebbe spostato
nella zona orientale, verso l’Iraq oltre
10.000 soldati, costruito barriere di
sabbia e filo spinato, chiuso i passaggi
illegali e messo in funzione 540 postazioni ma la lunghezza - dalla Turchia
sino alla Giordania per oltre 376 miglia
- e il carattere assai artificiale della linea di separazione tra i due paesi - con
le stesse popolazioni e tribù di qua e di
là - renderebbero impossibile un controllo del confine senza una collaborazione tra le truppe siriane da una parte
e quelle americane e irachene dall’altra. Eppure Washington di collaborare
con la Siria non vuole neppure sentir
parlare tanto che lo stesso capo del
Pentagono, Donald Rumsfeld, avrebbe
Un soldato siriano a guardia del confine con l’Iraq (foto ap)
La Siria accusa gli Usa
di non voler sigillare
il confine
siro-iracheno per
destabilizzare l’intera
area e rovesciare il
governo di Damasco.
«Abbiamo fermato
1500 presunti
jihadisti per l’Iraq»
vietato espressamente la partecipazione di una delegazione siriana al recente incontro ad Amman - dedicato proprio al controllo dei confini - dei paesi
confinanti con l’Iraq. La mancanza di
comunicazione tra le due parti sarebbe
tale che durante una recente offensiva
Usa contro il centro iracheno di al
Qaim, a pochi chilometri dalla Siria, i
marines americani, non sapendo come
comunicare la chiusura del confine ai
siriani, hanno inventato una specie di
catapulta con la quale sono riusciti a
far arrivare il messaggio dall’altra parte
e a fermare l’afflusso di merci e passeg-
geri verso l’Iraq. La mancanza di comunicazione, sommatasi alla politica
dell’Amministrazione, avrebbero inoltre provocato duri scontri a fuoco a cavallo del confine tra marines e truppe
siriane, oltre 100, con una ventina di
vittime. L’ambasciatore Imad Mustapha nella sua lettera ricorda poi come
gli Usa da una parte accusino il suo
paese di chiudere gli occhi sui «finanziamenti» alla resistenza irachena ma
dall’altra non intendono fornire alla Siria alcuna informazione in merito né
alcun strumento informatico per modernizzare il sistema bancario del paese. Si è creata così una situazione paradossale nella quale Washington vuole
introdurre nuove sanzioni contro la Siria mentre Damasco, il mese prossimo,
ospiterà un vertice internazionale sulla
«Lotta al riciclaggio e al finanziamento
del terrorismo» organizzato in collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale. La lettera ai membri del Congresso si conclude con un appello: «Quando sentite
l’Amministrazione sostenere di avere
«prove credibili» che la Siria sta facendo questo o quello ricordate che «prove credibili» di quel tipo vennero usate
per giustificare un’altra guerra contro
un altro paese arabo. Speriamo non
commettiate lo stesso errore anche
con la Siria».
Un raccolto amaro per i contadini palestinesi
Il muro e le chiusure israeliane mettono in crisi la produzione di olive, vanto dell’agricoltura dei Territori
MICHELE GIORGIO
GERUSALEMME
I villaggi della Cisgiordania sono piccoli paradisi per i palestinesi. Verde, ossigeno e silenzio
rotto solo dai suoni della natura. Un’atmosfera
ben diversa dal caos delle città, dove i servizi
pubblici sono carenti, spesso inesistenti, e le case crescono l’una sopra l’altra per mancanza di
spazio. Da tre settimane è cominciata la raccolta delle olive e a Qaffin, ad ovest di Ramallah e
Nablus, come negli altri villaggi agricoli si vivono i giorni più importanti ed esaltanti dell’anno. Le famiglie si recano negli uliveti e fino a
sera vivono tra gli alberi. Gli adulti raggiungono
i campi alle prime luci del giorno, bambini e
ragazzi al ritorno dalla scuola. È un periodo di
forte socializzazione e le pause si trasformano
in momenti di festa in cui gli anziani, tra i cori
dei più giovani, intonano canti della tradizione
contadina tramandati di padre in figlio.
«È più giusto dire che era il momento più
bello dell’anno, adesso la raccolta delle olive si
sta trasformando in un incubo per tante famiglie non solo qui a Qaffin ma in tutta la Cisgiordania», commenta con amarezza Ibrahim Qatanneh, proprietario con i suoi fratelli di alcune
decine di ettari di terra a due chilometri dal villaggio. Il muro israeliano che si allunga come
un serpente tra le campagne palestinesi e le minacce dei coloni stanno mandando in rovina
centinaia di famiglie che per decenni hanno
vissuto dei frutti della loro terra. «Fino a qualche tempo fa non potevamo lamentarci, si viveva bene - racconta Qatanneh - eravamo impegnati tutto l’anno nelle coltivazioni, riservando
però un trattamento speciale alla raccolta delle
Un pacifista israeliano aiuta una palestinese nella raccolta delle olive in Cisgiordania (foto ap)
olive e alla produzione dell’olio che da queste
parti è eccezionale. Non eravamo ricchi ma
non ci mancava nulla e i nostri figli sapevano di
avere un lavoro già pronto per loro anche se
tanti giovani di Qaffin ora sognano di lavorare
con i computer o di aprire un negozio in citta».
Qatanneh, 58 anni, ha passato la vita nei campi
e conosce i suoi alberi uno ad uno. «Ora invece
non riesco più ad andare nella mia terra e a
coltivarla, non possono più curare gli alberi.
L’esercito israeliano me lo impedisce», aggiunge camminando a passi lenti mentre nelle viuzze di Qaffin riecheggiano le grida di gioia di
bambini che rincorrono un pallone. Gli oliveti
di Qatanneh si trovano ad ovest del muro e
rientrano in quelle migliaia di ettari di terra
confiscati dagli israeliani «temporaneamente
per motivi di sicurezza». I contadini palestinesi
sanno che non le riavranno mai più. «Mi hanno concesso un permesso di 15 giorni per raccogliere le olive ma al mattino spesso trovo i
soldati a sbarrarmi la strada perché i coloni
(israeliani) non vogliono che ci avviciniamo ai
loro insediamenti», riferisce l’agricoltore palestinese. L’esercito si definisce «neutrale» ma
ogni volta che sorge una disputa ad averla vinta
sono sempre i coloni ebrei che occupano illegalmente la terra palestinese mentre i contadini vengono allontanati. A Qaffin e in altri villaggi a rischio sono giunti nelle settimane passate
giovani volontari dell’International solidarity
movement e di altre associazioni che, con la loro presenza, cercano di impedire abusi e violenze a danno dei civili palestinesi. Così tra mi-
nacce dei coloni, indifferenza dell’esercito occupante e il muro che avanza, l’antica produzione
di olive e di olio d’oliva muore lentamente, portando con sé l’intera agricoltura palestinese
della quale rappresenta il 25% del prodotto annuo. Gli alberi di olivo in Cisgiordania sono oltre 12 milioni (80% degli alberi da frutto) e coprono il 40% dell’intera area coltivata palestinese. Nelle annate buone (massi) la produzione
supera le 35mila tonnellate, in quelle cattive
(shelatoneh) si attesta intorno alle 5mila.
Il surplus è costante da quando è cominciata
l’Intifada, poiché la chiusura dei Territori e l’isolamento dei centri abitati hanno limitato
l’accesso del prodotto al mercato israeliano e
alle esportazioni (meno 52%). «I costi inoltre si
sono alzati - spiega Qatanneh - perché i trasporti sono difficili, c’è meno disponibilità di
manodopera a causa dei blocchi dell’esercito
israeliano che riducono gli spostamenti degli
operai stagionali». Produrre un litro d’olio di
oliva costa il 22% in più rispetto al 2000, a danno ulteriore delle esportazioni verso l’Unione
europea e i paesi arabi. Secondo dati dei centri
palestinesi per i diritti umani, dal 2000 a oggi
l’agricoltura ha visto svanire - a causa delle restrizioni ai movimenti della confisca delle terre
e dei pozzi d’acqua e la distruzione di decine di
migliaia di alberi e coltivazioni varie - circa 1,6
miliardi di dollari. Perdite alle quali si aggiungono gli allevamenti distrutti o chiusi. Il contributo dell’agricoltura al Pil palestinese è perciò
sceso dal 13,7% del 1994 al 9% del 2003. «Dietro
queste cifre c’e’ l’impoverimento dei contadini
che come me - dice Qatanneh - hanno perduto
quasi tutto a causa dell’occupazione israeliana
e oggi possono solo cercare di sopravvivere».
IRAQ/COSTITUZIONE
La farsa referendaria e la realtà dell’occupazione
Il referendum sulla bozza di costituzione è stato presentato a livello internazionale come un grande esercizio di
democrazia. Ogni iracheno avrebbe
potuto votare liberamente per il si, per
il no o piuttosto astenersi. Nessuna
pressione, nessun ordine, nessuna interferenza, nessuna intimidazione di
sorta. Come se il nostro paese non fosse sotto una brutale occupazione militare.
La realtà è ben diversa. Tanto per
cominciare la stragrande maggioranza
degli iracheni non sapeva (e non sa ancora) di quale bozza di costituzione
era stata chiamato ad approvare. Sono
stati spesi 5 milioni di dollari per stampare milioni di copie della bozza ma
queste in alcune regioni sono arrivate
a poche ore dal voto, in altre non sono
mai arrivate o non sono state distribuite. Nel quartiere di Baghdad dove
vivo con la mia famiglia nessuno ne ha
vista neanche una copia. In alcuni casi
sono circolate delle versioni diverse tra
loro. Per quanto riguarda i contenuti
gli interrogativi e gli argomenti di dibattito non mancavano certo: innazitutto quelli sulla sua legalità in quanto
si tratta di una legge fondamentale approvata sotto occupazione militare, e
poi la assai sospetta fretta con la quale
ci è stata imposta, i contenuti del
preambolo con una interpretazione
da Baghdad, SABAH ALI*
tutta etnico-confessionale della storia
del paese, l’introduzione di un federalismo estremo, l’identità dell’Iraq, la legge islamica, le lingue ufficiali del paese,
il processo di debaathizzazione, i riferimenti religiosi e il ruolo delle tradizioni, i diritti delle donne (soprattutto), il
confessionalismo... etc. Il cittadino medio, impegnato ogni giorno, letteralmente, tra raid, bombe e sparatorie, a
sopravvivere, non è stato però per nulla né coinvolto, né informato, e tutti
nel paese si sono posti la domanda:
Perché mai bisognava cambiare oggi la
costituzione in questa situazione
drammatica e a guerra in corso? L’unica risposta è stata una professione di
fede secondo la quale la nuova costituzione avrebbe potuto pacificare l’Iraq.
Stando ai fatti non sembra proprio che
si vada in quella direzione. Nelle settimane che hanno preceduto il voto gli
americani sono stati molto occupati.
Basta ricordare i massacri di Tal Afar,
Al Qaim e Haditha ridotte a città fantasma totalmente ignorati dai media
così occupati a coprire il finto dibattito
sulla costituzione da non poter prestare attenzione alle vere tragedie umane
in corso in quelle province. O forse
quei massacri di cittadini innocenti
fanno parte del processo di democra-
tizzazione dell’Iraq?
Votare in un paese in guerra è pura
follia. Il quindici ottobre è stato imposto su tutto il paese un rigido coprifuoco. La vita si è fermata. La gente poteva recarsi al voto solamente a piedi e
nelle zone rurali si trattava di fare anche 30 chilometri. Nella provincia di
Anbar 70 seggi non sono stati neppure
aperti. In un quartiere di Baghdad, qui
vicino, due signore che non erano in
grado di arrivare al seggio a piedi hanno chiesto ad un vicino di accompagnarle. La Guardia Nazionale Irachena
ha sparato alla macchina e i tre elettori
sono morti sul colpo. In un altro quartiere di Baghdad gli elettori sono andati molte volte al seggio più vicino per
chiedere di votare ma gli è stato risposto che le urne non erano arrivate e
che sarebbe stato meglio tornare alle
14. Così hanno fatto, ma solo per verificare che il seggio era stato chiuso e la
porta sprangata.
In secondo luogo le operazioni di
voto erano prive di qualsiasi trasparenza dal momento che l’intero processo,
almeno nei quartieri dove mi sono recato - ma lo stesso è successo nelle zone del sud e in quelle del nord - era
sotto il controllo di uno dei partiti al
governo. Questi, nel tentativo di strap-
pare un’approvazione della Carta, hanno più volte annunciato, e scritto su
grandi striscioni e cartelli appesi davanti ai seggi, che l’ayatollah sciita al
Sistani avrebbe dichiarato di votare si
alla costituzione ma non era vero. Nessuna forma di propaganda a favore del
no è stata permessa per le strade dove
cartelli e striscioni erano tutti per il si.
Un testimone oculare ha inoltre sostenuto che alla fine della giornata di voto
nel suo seggio di Baghdad c’erano 100
«No» e 200 «Si» ma il risultato non sarebbe piaciuto ad uno degli ispettori, e
quest’ultimo avrebbe dato disposizione agli scrutatori di aggiungere altri
100 «Si». E lo stesso sarebbe successo
ovunque. Un altro ha testimoniato come ogni potenziale voto per il no venisse accolto con ingiurie e minacce da
parte degli scrutatori. Tragedia e farsa
anche per quanto riguarda i risultati
del voto: Tre province avrebbero respinto la costituzione con oltre i due
terzi dei voti - Salah Addiin e Anbar
(94-95%), and Mosul (80%-100%) - e
questo avrebbe dovuto significare una
bocciatura della Carta. Invece la Commissione ha annunciato che a Mosul i
«no» non erano arrivati alla necessaria
soglia del 75%. Bush e Rice subito dopo il voto avevano predetto che il «si»
avrebbe vinto. E il «si» ha vinto.
*giornalista iracheno
I N D O N E S I A
Decapitate tre
alunne cristiane
Orrore a Poso, nella tormentata provincia indonesiana di Sulawesi Centrale, interessata dalla violenza settaria che vede protagonisti musulmani
e cristiani. Il portavoce della polizia
provinciale, Rais Adam, ha dato notizia della decapitazione di tre studentesse cristiane che si pensa siano state
assassinate mentre si recavano a
scuola. Le teste di due vittime sono
state abbandonate vicino a una stazione di polizia. La testa della terza
studentessa è stata trovata vicino a
una chiesa cristiana. A quanto racconta l’agenzia Reuters, le ragazze,
tutte sedicenni, sono state aggredite
mentre, in uniforme marrone, si recavano a scuola. Secondo la ricostruzione fornita da un funzionario di polizia
di Poso, due individui a bordo di una
moto, armati di machete, «hanno
sgozzato e tagliato la testa» alle studentesse. Una compagna delle vittime
che è riuscita a fuggire ha raccontato
che i killer indossavano il casco e erano dotati di radio ricetrasmittente. La
ragazza scampata alla morte aveva
dei tagli al viso ed è stata medicata in
ospedale.
K A B U L
Uccisi un marine
e un soldato Uk
Un parà statunitense e un soldato britannico sono stati uccisi ieri in Afghanistan, dove negli scontri armati di
questa settimana sono state ammazzate 21 persone. I combattimenti nel
sud e nell’est del paese sono stati i più
sanguinosi da alcuni mesi, a conferma
dell’instabilità del paese che fu dei taleban dove gli Usa pretendono di aver
esportato la «democrazia» con le armi. Il soldato britannico è stato ucciso
in un attacco a Mazar-i-Sharif, nel
nord dell’Afghanistan, il militare statunitense è caduto nella provincia di
Khost.
Z A N Z I B A R
L’isola al voto,
nonostante il lutto
Si svolgeranno regolarmente oggi le
elezioni generali nell’arcipelago semiautonomo di Zanzibar: lo ha confermato la commissione elettorale di
Zanzibar (Zec). Per l’intera giornata
di venerdì non era stato chiaro se il
lutto politico per la morte per malattia di Jumbe Rajab Jumbe, candidato
alla vicepresidenza del partito di opposizione Chadema, che ha causato il
rinvio a dicembre del voto a livello nazionale, dovesse essere valido anche
per Zanzibar. La Commissione elettorale della Tanzania ha deciso di spostare l’appuntamento con le urne al
18 dicembre, per dare tempo al partito d’opposizione di avviare una nuova
campagna elettorale. Zanzibar però
ha una legge elettorale diversa rispetto al resto del paese.
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
6
I
POLITICA
LUCA FAZIO
l giochino e adesso a chi tocca?
ha portato sfiga ai centri sociali
bolognesi, il fatto è che se lo aspettavano. Adesso, scherzano, con il giochino la smetteranno, anche perché
ormai il sindaco Cofferati sembra
aver esaurito tutti gli obiettivi. Rosario Picciolo, del centro sociale Livello
57, alla fine se la cava con una battuta che deve far riflettere, e non solo
perché a Bologna se lo augurano in
molti: «Speriamo che vinca Prodi, così se lo porta a Roma e almeno soffrono tutti gli italiani».
L’idea che Sergio Cofferati stia studiando come ministro degli Interni
non è peregrina, tanto più che a Bologna ormai non lo sopporta più nessuno, tranne quelli che rispondono ai
sondaggi e gli danno sempre ragione
all’80%. «La gente è con me», dice
sempre l’ex sindacalista della Cgil, «il
più grande abbaglio della mia vita»,
come si fustigano oggi alcuni militanti che pochi anni fa si sarebbero
fatti trascinare dappertutto.
Perché attaccare i centri sociali?
Intanto Cofferati, anche se celentaneggia con il rock per fare il simpatico e cita Springsteen, i «giovani» non
li ha mai sopportati, tranne quelli
spenti allevati come polletti nelle
batterie del partito. Lo ha già dimostrato a Bologna, borbottando come
un bacchettone contro la street parade dello scorso giugno e le bottiglie di
birra lasciate per terra (roba che ormai sbadiglierebbe anche un amministratore della giunta Gentilini).
Adesso, con linguaggio garbato (perlomeno non ha parlato di sgomberi)
Cofferati ha mandato a dire ai centri
sociali «abbiamo fatto una proposta
e i tempi possono consentire, se c’è
una volontà comune, una sistemazione condivisa, una soluzione». Il
problema, con una ventina d’anni di
ritardo rispetto alla contrastata e ricca storia dei centri sociali italiani, sarebbe la «necessità di una diversa dislocazione per rispetto verso i cittadini residenti».
E chi può non convenire con tanta
saggezza? Il fatto è che anche nel capitolo centri sociali Bologna è una
città che viaggia sul velluto. Tre centri hanno già sottoscritto una convenzione con il comune, con l’ex sindaco Guazzaloca, uno che almeno
Cofferati punta
al centro sociale
Dopo i lavavetri e i rumeni che vivono nelle baracche, il sindaco di
Bologna vuole mettere in riga anche i centri sociali. Il Livello 57,
accusato di morosità, respinge le accuse: «Non ci piegheremo a
nessun diktat». I Verdi cercano di ricucire, il Prc sta con i ragazzi
Sergio Cofferati (foto Ap). In basso Enrico Boselli (foto Paolo Tre)
non si è mai sognato di chiamare la
polizia per manganellare i ragazzi:
sono Tpo, Livello 57 e Link. Altri due
centri invece sono occupati: Ex Mercato 24 e Vag 61. Dopo i lavavetri, sarebbero questi gli altri «fastidi» per
Bologna. Sotto tiro c’è anche lo storico Livello 57 cui il comune, per bocca
dell’assessore all’urbanistica diessino
Virginio Merola, ha minacciato di revocare la convenzione. Il centro sociale, oltre alla sua sede «naturale» in
città, da due anni utilizza uno spazio
nell’area industriale di via Battirame.
E gli industriali vicini protestano.
L’assessore Merola - finalmente un
riflettore acceso anche per lui - allora
ha fatto sapere che se il centro sociale non accetterà una nuova sede «sarà avvisata la magistratura». Toni
che ormai nemmeno la giunta di Milano, di fatto amministrata da un
post fascista come De Corato, si sognerebbe di usare contro il centro sociale Leoncavallo, che è sotto sfratto
ma sta cercando una spalla nella
giunta della Provincia di Milano, amministrata dal diessino Filippo Penati, una specie di Cofferati in sedicesimo ma meno determinato a imporre
la sua legalità prendendosela sempre
con i più deboli.
I centri sociali adesso che faranno? Il 2 novembre (sempre che li facciano entrare) terranno un’assemblea aperta nel palazzo comunale,
per spiegare «quali sono i veri problemi di Bologna» in concomitanza
con la presentazione dell’ormai celebre editto sulla «legalità» che Cofferati ha annunciato per mettere in riga i recalcitranti della sua giunta (Prc
e Verdi, i diessini ufficialmente non
possono dissociarsi). Poi, il prossimo
10 dicembre, le ragazze e i ragazzi
sfileranno per le vie del centro con
una Cannabis Parade per «Bologna
città aperta». Ecco a chi toccherà!
Una bella campagna contro «la droga» per Cofferati potrebbe essere
davvero troppo allettante: e chi lo
fermerebbe più?
ROCK
La legalità di Bruce e quella del Cinese
ncontentabile il Cinese. Non gli basta il
supporto di un Lucio Dalla passato da
Piazza Grande a Cella angusta. Vuole arruolare anche Bruce Springsteen. «La legalità è rock», assicura il sindaco melomane,
sfidando il buon senso 40 anni di incisioni.
Quindi esprime il suo sincero entusiasmo per i
testi del succitato Bruce.
Non è il primo a tentare di appropriarsi di
Springsteen. Lo fece anche Ronald Reagan,
nell’84, anno di elezioni presidenziali nonché
del trionfo discografico di Born in the Usa. Un
americano vero quel Bruce, uno che incarnava
il miglior spirito degli states. «Non so quali delle mie canzoni abbia ascoltato Reagan», replicò
polemico Springsteen, e la risposta potrebbe essere girata al paladino della legalità bolognese.
I
A. CO.
Già che ci si trovava, Bruce consigliò al presidente di consultare il testo di una delle sue canzoni, tanto per chiarirsi le idee: «Si vede che
Reagan non ha mai sentito Johnny 99».
Quella canzone di Springsteen, come moltissime altre, deve essere effettivamente sfuggita
anche a Cofferati. Condannato a 99 anni di prigione per rapina e omicidio da un giudice chiamato «l’infame John Brown», Johnny dice:
«Avevo debiti che nessun uomo onesto potrebbe pagare. La banca aveva la mia ipoteca e stavano per portarmi via la casa. Non dico che
questo mi renda innocente, ma sono state molte cose a mettermi la pistola in mano».
La ha scritta lo stesso autore che popolava le
sue prime canzoni di piccoli criminali metropolitani, e certo non suggerendo di sbatterli in
galera, quello che adesso parla in continuazione degli immigrati che arrivano negli states
(come a Bologna) spinti dalla disperazione, finiscono per portare cocaina avanti e indietro
come in Balboa Park, accettano lavori micidiali
e magari ci rimettono la pelle come in Sinaloa
Cowboys, e c’è persino il caso che turbino la panoramica dei bravi cittadini abbienti con le loro baracche.
Può piacere o non piacere Bruce Springsteen, ma tutto si potrà dire tranne che abbia
qualcosa a che spartire con questo Cofferati,
sindaco e sceriffo. Che nelle sue canzoni, figurerebbe casomai in vesti simili a quelle del giudice di Johnny 99.
Il professore esclude che la revisione chiesta da Boselli possa trovar posto nel programma
COSIMO ROSSI
La proposta di
superare il
concordato fa
tremare l’Unione. Ds
e Margherita
all’attacco per paura
delle gerarchie
ecclesiastiche
«Quello del Concordato è un tema che
non è e non sarà all’ordine del giorno
del programma dell’Unione». Parola di
Romano Prodi. Per la delusione di Enrico Boselli e dei radicali, che ne perorano un «superamento». E per la soddisfazione di quasi tutto il resto del
centrosinistra: dai clericali più incalliti,
secondo cui nulla si può obiettare all’invadenza del potere della chiesa, ai
laici più rammolliti - Ds in prima fila -,
secondo cui nulla si può affermare che
possa allontanare i consensi cattolici.
Tanto che Boselli in realtà ha scoperto un nervo ben più significativo
del tema del concordato e della revisione che ne propone: il tema della cittadinanza di un pensiero politico nell’Unione, e quindi della fondazione laica
di uno schieramento politico. Argomento tanto più stringente quanto la
nuova legge elettorale sarà su base
proporzionale. Ma che non sarebbe
stato dissimile neanche sotto l’ombrello maggioritario, né lo sarà se mai ci
sarà un partito democratico: qualche
che sia il contenitore comune, raccoglierà sempre al suo interno una pluralità irriducibile. E’ in realtà nella negazione di questo aspetto che si è infranta la proposta di Boselli.
Non sono perciò le scontate rimostranze centriste, a dare da pensare.
Paradossalmente, anzi, i più fervidi avversari dell’alleanza con i Radicali, l’Udeur di Clemente Mastella, giudicano
«inaccettabile» la revisione, ma chiedono di guardare a «ciò che unisce»
per tenere insieme la coalizione, senza
quindi abbandonarsi ad anatemi. Ovvio anche che per il mariniano Beppe
Fioroni la revisione del concordato sia
«una follia» che non produce consensi.
Già più preoccupante che un prodiano
come Franco Monaco constati i «seri
problemi» procurati dal «connubio»
Sdi-Radicali «all’asse culturale e politico dell’Unione». Discostarsi «da derive
alla Zapatero» è la parola d’ordine della Margherita. Tanto che il quotidiano
Europa accusa Boselli di voler «fare il
mangiapreti con la benedizione».
L’intransigenza della Margherita rispetto a un governo di ispirazione laica
come quello spagnolo da ancor più da
pensare se si assomma all’atteggiamento dei Ds, che con la Margherita
sono in procinto di realizzare la lista
unitaria. Pochi giorni fa è stato promosso un appello di parlamentari dell’Unione in difesa della legge 194 (che
regola l’aborto): tre decine e decine, solo tre le firme di esponenti della Margherita. C’erano invece tantissimi nomi Ds. E tuttavia i Ds non solo ritengono «del tutto sbagliato porre in modo
unilaterale la questione di un superamento del Concordato in un programma di governo, perché è un tema che
non c’è», ad avviso di Vannino Chiti
non si può nemmeno «agire in modo
unilaterale». Nel senso che servirebbe
un accordo bipartisan, dato che «l’idea
di una revisione non può essere l’impostazione di una sola parte politica».
Messe una di seguito all’altra, le repliche di Ds e Margherita a Boselli fanno spirare nell’Unione una certa aria di
centralismo democratico. Anche se è
vero - come rileva il leader del Pdci Oliviero Diliberto - che non c’era «bisogno di questo ulteriore tema per creare
zizzania dentro l’Unione». Così come è
vero che si tratta si una impennata di
naturale elettoralista. I cui contenuti
sono perfettamente «condivisibili» dal
leader del Prc Fausto Bertinotti, che
tuttavia non segue Boselli fino a invocarli nell’agenda di governo. «Non mi
pare proponibile», rileva anche i verde
Paolo Cento chiedendo invece di concentrarsi sul «primato della scuola
pubblica e l’autonomia del Parlamento
nel legiferare in materie come i Pacs».
Ma come nell’Unione c’è chi si fa interprete delle istanze vanticane (prima
e più che cristiane), allo stesso modo
c’è chi non rinuncia alla propria identità laica. Al congresso che porterà all’alleanza con lo Sdi, il segretario radicale
Daniele Capezzone ha perciò affermato che «sul superamento del regime
concordatario il nuovo soggetto dovrà
muoversi con chiarezza, con la semplicità evangelica del sì sì, no no». Ne
avrà almeno il diritto...
Fazio indulgente con la politica di Tremonti
Il governatore promuove l’Italia: «Si può crescere». L’Unione chiede invece la verità sui conti pubblici
PAOLO ANDRUCCIOLI
Discorso controllato quello del governatore
della Banca d’Italia Antonio Fazio durante la
Giornata mondiale del risparmio organizzata a
Roma dall’Acri, l’associazione tra le Casse di risparmio. Fazio non ha fatto nessun riferimento alle polemiche che lo hanno coinvolto e ha
preferito puntare su un excursus sulla situazione economica internazionale, scommettendo
perfino sulla possibilità di una ripresa dell’Italia.
Il governatore ha anche parlato della necessità di chiudere presto la partita del trasferimento del Tfr ai fondi pensione. Un discorso
che è stato ripreso da tutti i relatori della Giornata del risparmio, durante la quale hanno
parlato, oltre a Fazio, anche il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, il presidente dell’Abi,
Maurizio Sella e il viceministro dell’economia,
Mario Baldassarri, che si è speso in un intervento molto impegnato sulle radici economi-
ADRIANA ZARRI
n’amica mia (e del manifesto) mi ha aiutata
nella ricerca degli errori-orrori lessicali. Al
luogo di «posto» o «collocato»,
ecco un orrendo «posizionato». E
via via «microfonato», «audizionato» e simili. Dio mio ho inoltre
collezionato altre perle: «debordato», «assegnisti», «borsisti»
nonché un misterioso «concorsuali» che spero qualcuno, più informato di me, mi dica che significa.
E, tanto per rifarci la bocca e
anche variare un po’ la collezione,
segnaliamo una volta tanto qualche cosa di bello. Si tratta del nome di un paese, giunto alla notorietà per merito (o per colpa) di
un incidente ferroviario. Il nome bellissimo - è «Acquaviva delle
fonti»; ed io invidio un po’ quei
fortunati che possono datare la
corrispondenza da Acquaviva delle fonti e non, come me, dal nome
del mio comune, un po’ ridicolo.
U
Blasfemia
Prodi: «Il concordato non si tocca»
Enrico Boselli
Parabole
che del risparmio e sul rapporto tra finanza ed ra discutendo all’interno della maggioranza di
governo. C’è già l’accordo - ha spiegato Baldaseconomia reale.
Intanto continuano gli scontri e le polemi- sarri - sul concedere aiuti alla scuola privata,
che. L’Unione (ieri Letta e altri) chiede la verità un aiuto che con la finanziaria di quest’anno
sui conti pubblici, mentre tra mercoledì e gio- dovrebbe valere tra i 100 e i 120 milioni di euro.
vedì si riunirà di nuovo il vertice della Casa del- Sugli interventi diretti a favore della famiglia,
le libertà. All’ordine del giorno della
riunione - che non si prennuncia per
nulla facile - c’è la finanziaria per il
2006 e in particolare le scelte drastiche Oltre a Fazio, anche Baldassarri e Maroni
sulle risorse. Il punto caldo riguarderà
il cosiddetto «pacchetto famiglia», ov- rilanciano la riforma dei fondi pensione,
vero quella serie di misure pensate per mentre i senatori si regalano la legge mancia
sostenere i nuclei familiari.
Il problema però è molto semplice: non ci come appunto il bonus bebè da 1000 euro, si
sono i soldi per accontentare tutti. Così ieri da sta cercando l’accordo. L’unica cosa certa è che
due fonti diverse è stata confermata la notizia c’è un miliardo di euro a disposizione per tutti
della prosecuzione dello scontro sulla questio- gli interventi a favore della famiglia.
Anche Guido Crosetto, deputato di Forza
ne del bonus per i figli e in generale su tutte le
risorse da destinare alla famiglia. Il vicemini- Italia, ammette che «non c’è ancora l’accordo
stro dell’economia, Mario Baldassari, ha am- nella maggioranza. Si tratterà di fare delle scelmesso infatti che sul «bonus bebè» si sta anco- te, che non potranno non avere anche un forte
Tutti d’accordo sul Tfr
impatto politico. Appena è stato ridimensionato il fondo per la famiglia (da cui sono stati
«tagliati» 140 milioni da spostare al Fus, il fondo per la cultura e lo spettacolo), c’è stata una
vera sollevazione dall’Udc. Ora la polemica
sembra si sia un po’ appianata, ma non è escluso che ci possa essere un nuovo round al momento di tagliare altre risorse alla famiglia, tema su cui anche Alleanza nazionale è molto
sensibile.Sempre ieri Crosetto ha elencato una
serie di provvedimenti che comunque vadano
le cose dovrebbero avere una certa priorità.
Anche lui, come Baldassarri, mette gli aiuti alle
scuole private al primo posto, seguiti subito
dopo dagli sconti sui libri di testo e le agevolazioni per l’acquisto della prima casa da parte di
giovani coppie. Intanto i partiti dell’Unione
continuano a criticare la gestione dei conti
pubblici e gli effetti negativi di questa politica.
Ieri il responsabile del lavoro dei Ds, Cesare
Damiano, ha detto che la finanziaria rischia di
far saltare 100 mila posti di lavoro.
Si può esser credenti o non credenti, di Cristo si può ritenere che
sia figlio di Dio o solo «figlio dell’uomo» (denominazione che lui
stesso soleva attribuirsi, senza
porla in contrasto con la prima).
Ma che si tratti di una vittima innocente, morto perdonando, dall’alto della croce, i suoi nemici ed
aguzzini, questo è un fatto consegnato alla storia che non può esser messo in dubbio. E quelle sue
ultime parole: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che
fanno» sono un esempio di bontà
che non occorre esser credenti per
apprezzare. E il pseudocredente
Berlusconi, che indirizza quelle
stesse parole ai suoi avversari politici, è un segno indubbio di rozzezza e di insensibilità ai confini
della blasfemia.
Nemmeno un non credente,
con un minimo di rispetto e di gusto, oserebbe appropriarsi di quelle sacre parole per fini spudoratamente politici. Ma l’«unto del Signore» non esita ad usarle, forse
perché si ritiene appena il secondo dopo Dio o addirittura il primo, pari a lui.
La ministra
Di fronte ad oltre centomila persone, scese in piazza per contestare la sua azione politica, una persona di buon senso farebbe cento
passi indietro e andrebbe a casa.
Invece la Moratti fa cento passi
avanti e va a Milano per candidarsi alla guida della città, quale futuro sindaco. Una buona notizia
per gli studenti che han dovuto
sorbirsela per anni a capo della
pubblica istruzione. Una notizia
pessima per Milano che, se il suo
progetto dovesse andare in porto,
dovrebbe sorbirsela, per altri anni
(non so quanti) a capo dell’amministrazione pubblica: un primo
cittadino con tutte le cattive qualità per figurare degnamente come ultimo.
Contabilità
Un prete contabile e monello si è
preso la briga di annotare quante
volte compaiono alcuni termini
chiave nel documento finale del
Consiglio permanente della Cei
del 27 settembre scorso. Ed ha
scoperto che la parola «Cristo»
compare appena cinque volte:
quantità assai modesta. «Gesù»
compare ancora meno: una volta
soltanto e non direttamente ma in
una citazione. «Vangelo» non
compare per nulla. In compenso il
termine «vescovo» ricorre ben diciassette volte. Una statistica interessante che dimostra come, per
il Vaticano, la chiesa sembri contare di più del suo fondatore Gesù
Cristo, posto che Cristo abbia fondato la chiesa, così come noi la
conosciamo, e non invece una comunità di fede e di fedeli (non necessariamente vescovi) abbastanza diversa.
domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
POLITICA
7
«Io, dilettante che può cambiare»
Rita Borsellino spiega la sua candidatura
alle primarie siciliane. «Un’esperienza
diversa, nata dentro la società, può
riuscire dove i professionisti della
politica falliscono. Al primo posto
l’antimafia per costruire risposte nuove.
Don Ciotti? Mi ha incoraggiata»
L
ANDREA FABOZZI
a Margherita ha finalmente trovato un
candidato, l’ex Dc e Forza Italia Ferdinando Latteri. Cosa pensa del suo primo sfidante
ufficiale per le primarie dell’Unione in Sicilia?
«E’ una scelta della Margherita, non voglio
commentare».
Complimenti signora Borsellino, ha appena
iniziato e già sa parlare come una politica navigata...
(Risata) «Mi fa piacere, spero torni utile perché sinceramente questa cosa mi mette tanto
entusiasmo ma anche tanta paura, anche se
so che non sarò sola ad affrontarla nel caso
incredibile dovesse realizzarsi».
«Questa cosa» è la decisione di Rita Borsellino di candidarsi alle primarie con le quali
l’Unione sceglierà lo sfidante di Totò Cuffaro
alle regionali siciliane. Decisione irrevocabile
perché «devo rispettare le tantissime persone
che mi hanno investito di questo compito».
Rita Borsellino abita ancora a Palermo in
quella via d’Amelio che il 19 luglio ‘92 Cosa
nostra ridusse a zona di guerra per uccidere
suo fratello Paolo e cinque agenti di scorta.
Lavora nella farmacia di famiglia «da quattro
generazioni» ma «con molte assenze» perché
è sempre in giro per le iniziative di Libera, l’associazione delle associazioni antimafia di cui è
presidente onoraria. «Sono nata all’impegno
politico dopo quello che mi è successo», ammette lei con garbo e con ancora dolore. Ora
però tenta un salto davvero grosso. Cosa ne
pensa don Luigi Ciotti, l’inventore di Libera?
«Naturalmente ne ho subito parlato con lui, la
mia storia è talmente legata alla sua che era
inevitabile. Le parole che mi ha detto preferisco tenerle per me, ma mi ha incoraggiata».
Dicono: la persona non si discute, ma governare la regione Sicilia è una cosa troppo difficile
per una non professionista.
Lo vedo bene che è difficile, infatti è stata governata proprio male in questi anni. Allora visto che non ci riescono i politici di professione, chissà che da un’esperienza diversa, nata
insieme alla società e che quindi può sentire e
capire meglio le domande e le disperazioni
della gente comune, non nasca qualcosa di
buono. Con fiducia e entusiasmo credo che
possiamo fare tante cose buone.
Però con lei ci sono soprattutto i partiti, praticamente tutti i piccoli partiti dell’Unione. Come
ha fatto a metterli d’accordo?
Dai partiti ricevo tanti incoraggiamenti e tanti
consigli, cosa che mi fa piacere perché vuol dire che mi hanno adottato. Invece non mi fa
piacere che la mia venga presentata come la
candidatura dei partiti minori, dei piccoli, dei
cespugli e via con i nomignoli, sembra quasi
una cosa negativa. L’idea è venuta dalla società civile e i partiti l’hanno ripresa. Che tutti
insieme abbiano deciso subito di assumere
questa decisione è importantissimo perché, lo
dico un po’ scherzando, i minori di solito sono
quelli che litigano tra loro, invece stavolta c’è
stata una risposta immediata e unitaria.
Qual è l’esperienza che una non professionista può mettere nella partita delle regionali?
Io ho scelto di stare insieme alla gente e di vivere il mio impegno in mezzo alla gente. In
questi anni il progetto di Libera che era nato
dalla rabbia, dalla esasperazione e dalla voglia
di cambiare è molto cresciuto. Siamo arrivati
addirittura a creare dei posti di lavoro che è
una cosa bellissima. Certo non ne abbiamo
creati centomila o un milione, quanti ne servirebbero, ma è il segno che lavorando nella legalità e mettendocela tutta avvengono anche i
miracoli perché quella che sembrava una cosa
assolutamente impossibile è stata realizzata.
Parla delle cooperative che lavorano con i
beni sequestrati alla mafia?
Sì, sono un sogno che si è realizzato. E che ha
successo grazie a un modo nuovo di rapportarsi con la realtà e i bisogni della gente per
cercare delle soluzioni, anche diverse da quelle
che finora sono state cercate. E’ un sogno che
non a caso stanno cercando di cancellare con
il disegno di legge che prevede la possibilità di
revisione senza limiti di tempo dei provvedimenti di assegnazione dei beni confiscati. In
fin dei conti si tratta di questo, togliere le basi
a tutto quello che abbiamo realizzato.
Ma il suo programma di governo regionale si
ferma all’antimafia?
Certamente no. Ma adesso ci tengo a insistere
sul fatto che l’antimafia in Sicilia è necessariamente l’inizio di tutto. Perché i mali della Sicilia derivano dalla mafia o sono aggravati dalla
mafia o finiscono con il riprodurre mafia.
Quindi la mafia è sempre lì. Non volerci fare i
conti è l’errore più grave che è stato fatto in
questi anni. Detto questo, voglio ricordare che
io non ho fatto solo l’antimafia «contro», ma
soprattutto «per». Non solo contrasto ma
moltissima proposta. Sono abituata a lavorare
lo, è che c’è stata una maturazione importante
della società civile. Così quest’uomo, la cui vita
ora è distrutta perché vorranno ucciderlo a
tutti i costi, è riuscito a fare il passo più difficile.
Altra coincidenza temporale: ancora un deputato regionale dell’Udc finisce sotto inchiesta
per concorso esterno in associazione mafiosa.
Non creda che questa cosa mi faccia piacere. Il
fatto che ci siano ancora e sempre politici che
vengono implicati in queste inchieste è già
gravissimo. Il giudizio morale dev’essere anche più forte di quello della magistratura.
Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a
maturare dentro di me la possibilità di fare
quello che sto facendo. Non è accettabile che
la politica continui a presentarsi come una cosa sporca e un affare privato.
in gruppo e a costruire, la nostra storia dimostra che quando ci si mettono le capacità e la
volontà i risultati arrivano.
Esattamente nelle ore in cui lei annunciava
la sua decisione, si scopriva il progetto di Cosa
nostra di attentare di nuovo alla vita di un giudice. Cosa le viene in mente?
Conosco bene il gip di Caltanissetta Ottavio
Sferlazza e voglio mandargli un abbraccio e
tutta la mia stima e simpatia. Questa notizia
dimostra due cose. La prima è che non è vero
che la mafia non ha più intenzione di uccidere. La seconda, visto che l’attentato è stato
sventato perché la persona che era stata costretta a diventare un killer dalla mafia ha
ascoltato la sua coscienza e si è rifiutato di far-
Un’ultima domanda: ma la famiglia Borsellino non era di destra?
Palermo, 1992. Un lenzuolo contro la mafia (foto agenzia Contrasto). In alto Rita Borsellino
(Si arrabbia) Ma smettiamola con questa storia. Ho sentito il deputato regionale Granata
(An) prima dire che la figura di Paolo non può
essere considerata di parte e poi sostenere che
era un uomo di destra. Come si permette di
etichettare una persona che non ha mai accettato etichette nella sua vita? Noi familiari abbiamo sempre contrastato questo tentativo.
Che però rispunta sempre quando si tratta di
strumentalizzare la storia di mio fratello.
Sicilia, per l’Unione è caos primarie
La Margherita lancia l’ex forzista Latteri. Con malumore dei suoi. Ds spiazzati, Prodi tace imbarazzato
PATRIZIA ABBATE
PALERMO
Nel 2000 Ferdinando Latteri era il «nemico
da battere» per il centrosinistra siciliano. E
aveva dato un gran dispiacere a Enzo Bianco,
strappando la poltrona di rettore a Catania al
suo fedelissimo Enrico Rizzarelli, poche settimane prima che Scapagnini conquistasse il
comune e consolidasse l’onda lunga della destra. Cinque anni dopo è lui l’asso che la Margherita butta sul tavolo dell’Unione siciliana,
candidandolo alle primarie contro Rita Borsellino. Una giocata a sorpresa, che ha irritato
non poco gli alleati diessini e che starebbe
provocando un terremoto anche tra gli stessi
Dl, molti dei quali ieri hanno saputo la notizia esattamente come tutti: dai tg locali.
«Ho deciso di accettare, aderendo all’invito del partito che mi è stato rivolto da Francesco Rutelli e Franco Marini», ha comunicato lo stesso Latteri ieri mattina alle agenzie di
stampa. Dunque una decisione esclusivamente romana? Può darsi. Ma di certo una
scelta abbastanza indecifrabile, e per certi
versi «suicida», perché Latteri non potrebbe
essere più diverso dalla Borsellino e più simile a Totò Cuffaro. Col quale condivide il passato democristiano e la professione di medico che lui però esercita davvero, in una posizione che gli ha dato grande potere: il posto
di primario in chirurgia d’urgenza al Cannizzaro di Catania e di rettore dell’università – è
stato riconfermato nel 2003 – sono la base
della sua forza politica. Alimentata negli anni
da un bacino di consensi che lo ha portato
due volte in parlamento con la Dc, e che Latteri è riuscito a mantenere in Forza Italia e
poi dalla parte opposta, nella Margherita, dov’è approdato nel 2004 alla vigilia delle Europee, ottenendo in cambio un posto da capolista che non gli è valso però l’elezione (pur
avendo rastrellato oltre 150 mila voti).
La Margherita ha continuato a puntare
moltissimo su Latteri in questi mesi, offrendogli la presidenza regionale della Fed e – ieri
– anche un posto nella direzione nazionale,
insieme al biglietto per le primarie che ha però tutta l’aria di una «polpetta avvelenata».
«La sua candidatura è un motivo in più
per votare la Borsellino», ha detto ieri Antonio Di Pietro, sintetizzando quello che nell’i-
sola pensano in tanti. L’ex pm era a Palermo
per omaggiare il primo presidente della regione Sicilia Giuseppe Alessi, che compiva
cento anni e attorno al quale si sono raccolti
in tanti, compreso Romano Prodi. Il leader
dell’Unione non si è voluto schierare: «Borsellino o Latteri? Mi auguro solo che chiunque vinca, si decida subito dopo di andare
tutti insieme verso il successo alle elezioni regionali», ha tagliato corto. Mentre accanto a
lui il diessino Ayala firmava la petizione a sostegno della presidente onoraria di Libera.
Non sarà semplice però arrivare a una
consultazione «serena» come auspica Prodi.
Perché il nome di Latteri e le modalità con
cui è stato tirato fuori hanno creato tensioni
fortissime nella coalizione. I più spiazzati sono ovviamente i diessini, che nei giorni scorsi
avevano preso tempo e cercato di individuare insieme alla Margherita un «Prodi siciliano» che potesse accontentare tutti, e ora si
ritrovano a dover esprimere un proprio candidato in fretta, perché in moltissimi nel partito storcono il muso dinanzi a Latteri, mentre sta crescendo il fronte di chi pensa che a
questo punto la scelta migliore sia stare a si-
nistra con Rita Borsellino. L’irritazione della
Quercia è espressa da Lillo Speciale, capogruppo all’Ars: «Avrei preferito che queste
scelte si facessero nelle sedi opportune, e cioè
in un vertice di tutti i partiti della coalizione,
piuttosto che dando annunci attraverso la
stampa...», ha dichiarato. «Anche noi abbiamo delle proposte e le comunicheremo ai nostri alleati dell’Unione», è stato invece il commento stringato del segretario regionale Ds
Angelo Capodicasa. Che non ha ritenuto di
anticipare la riunione di direzione fissata per
giovedì, nonostante il marasma. Se ne dispiace il segretario siciliano di Rifondazione Rosario Rappa, «in un partito strutturato si dovrebbe immediatamente convocare la segreteria e assumere delle decisioni...», dice. Ma il
punto è che questo nome ancora non c’è, e lo
sgambetto della Margherita ha reso ancor
più difficile trovarlo. Chi contrapporre al moderato Latteri così simile all’avversario Cuffaro? La risposta più ovvia sarebbe Fava, ma
ora, con la Borsellino in campo, l’ipotesi diventa improbabile. A meno di un altro colpo
di scena e di una staffetta in extremis tra i
due. C’è chi comincia a crederci.
ROBECCHI/DALLA PRIMA
Insomma, teniamoci stretto
Tremonti, perché ogni volta
che si allontana dalla scrivania, qualcuno ne approfitta,
entra di nascosto e fa un buco
nei conti pubblici, poi se ne
va, arriva il povero Tremonti e
trova il buco. Attenti, dunque:
se passate nei dintorni del ministero dell’economia fate il
giro largo e cambiate marciapiede, perché potreste essere
accusati di aver fatto un buco
nei conti dello Stato mentre
Tremonti era in pausa pranzo.
Come in tutti i romanzi
gialli che si rispettino, bisogna
seguire bene la trama. Ha un
alibi Tremonti? Certo che sì:
mentre Siniscalco, subdolo e
maligno, gli faceva un altro
buco nel bilancio, lui era vicepresidente del Consiglio, una
posizione da cui notoriamente non si sa nulla dei conti del
Paese, anche se si votano tutti
i provvedimenti. Il suo capo,
nel frattempo, l’ometto del
miracolo italiano, si sbracciava per dire che siamo tutti ricchi, altroché, ci mancherebbe,
guarda qui che sciccheria. E
nel tempo libero, mentre i
suoi creativi dell’economia
confezionavano due manovre
correttive in dieci giorni (record del mondo) si dilettava a
stilare liste di comici sgraditi.
Grande statista.
Inutile dire che tutti gli
economisti, gli analisti e i politici dell’opposizione che avevano paventato una manovra
correttiva sono stati sbertucciati per mesi, offesi, derisi,
descritti come Cassandre e disfattisti, gente che semina sfiga. Dopodiché di manovre
correttive ne hanno fatte due.
Per fortuna il ministro Tremonti ha assicurato l’altro ieri
che questa manovra correttiva è l’ultima e non ce ne saranno altre, bontà sua. Anzi,
forse dormirà sulla scrivania
di Quintino Sella, in modo da
evitare che qualcuno entri di
notte a fare un altro buco nei
conti. Comunque allegri, non
c’è da preoccuparsi, in un modo o nell’altro sono saltati
fuori cinque miliardi. Un po’
di soldi si fregano alle ferrovie,
per la gioia degli utenti che
ora insieme a zecche, pulci e
topi, potranno viaggiare anche con animali più esotici, tipo tarantole o coguari. Qualche soldo per la scuola privata
si trova sempre, senza contare l’Ici della Chiesa, che tanto
ce la rimettono i comuni. Ecco in sintesi, quattro anni di
politica economica, una tragedia a sfondo comico di ambientazione liberista, dove l’unico che fa i soldi con le sue
aziende è il presidente del
Consiglio. Quando, un giorno
di metà aprile, i liberisti del
centrosinistra arriveranno alla stanza dove sta la scrivania
di Quintino Sella, chiameranno le telecamere per dire a
tutti che lì c’è un buco spaventoso, mostreranno il cadavere dei conti pubblici e attenderanno i risultati dell’autopsia, mettendo bene in
chiaro che urgono sacrifici.
Tremonti si allontanerà alla
spicciolata, fischiettando per
non farsi notare, magari travestito da italiano neo-povero, per confondersi con la
maggioranza dei cittadini della Repubblica accorsi a festeggiare.
(alessandro robecchi)
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
8
SOCIETÀ
Roma, in 10 mila
contro gli sfratti
I
ANGELO MASTRANDREA
ROMA
nevitabilmente la star del corteo
dei senza casa è lui, il presidente di un
municipio grande quanto una città di
medie dimensioni, qual è quello romano di Centocelle, che requisisce gli alloggi sfitti per darli agli sfrattati. Non
accadeva dai tempi del sindaco La Pira, Firenze anni ‘60, che un politico affermasse senza mezzi termini il principio che il diritto ad avere un tetto sotto
cui abitare viene prima di quello alla
proprietà. Non era comunista come
Sandro Medici ma democristiano, non
era laico ma è stato addirittura beatificato. Eppure la piazza li accomuna in
nome della medesima sensibilità verso
i bisognosi. Viceversa, nel mirino c’è il
governo Berlusconi, e quando gli oltre
diecimila senza casa passano davanti
al ministero dell’Economia partono
cori «vergogna, vergogna» contro il
ministro Tremonti. Sulla manifestazione aleggia anche il fantasma del sindaco di Bologna che sgombera le case occupate, gli immigrati e ora vuole chiudere anche i centri sociali. E infatti
quando il corteo entra a piazza del Popolo si sente urlare al megafono: «Questo corteo è anche una risposta a Cofferati: prima i diritti fondamentali come quello alla casa e poi la legalità».
E’ un lungo elenco di sigle dietro le
quali si nascondono migliaia di facce e
corpi, il serpentone che si snoda da
Porta Pia in direzione di piazza del Popolo in un pomeriggio primaverile e
una città svuotata dal ponte di Ognissanti. Erano anni che non si vedeva
una manifestazione dei movimenti di
lotta per la casa così partecipata, ed è
ovvio che si svolga in una città come
Roma che è anche la capitale dell’emergenza abitativa con i suoi 43 mila
sfratti, il caro affitti e la speculazione
immobiliare. Ed è proprio per questo
che la manifestazione riesce a coalizzare insieme squatter e «cartolarizzati» che abitano case di proprietà di enti pubblici in dismissione, studenti
universitari fuorisede e immigrati, questi ultimi in gran numero. Tutti insieme in nome del precariato, abitativo e
di lavoro, e dunque di vita. «Ma santità, lei lo sa che il Vaticano ci sfratta?»,
chiedono gli abitanti delle case di enti
legati alla chiesa che improvvisamente
si sono visti intimare lo sfratto o triplicare gli affitti. Gli spezzoni più ampi
sono quelli di Action, che apre il corteo
con uno striscione «stop alle speculazioni edilizie e ai suoi complici», del
Coordinamento cittadino di lotta per
la casa che dietro lo striscione «reddito
e case per tutti» sfila con gli analoghi
movimenti di Firenze e di Palermo e
qualche centro sociale, e poi dell’Unione inquilini, che porta in piazza famiglie arrivate da tutta Italia. E ancora,
oltre allo spezzone degli studenti della
Sapienza occupata con tanto di camioncino e dj, i precari dell’Atesia, il
sindacato di base Rdb e gli skinhead
Scendono in piazza
i movimenti di lotta per
la casa. Che appoggiano
e applaudono la
battaglia di Sandro
Medici e chiedono di
requisire gli alloggi sfitti.
Centrosinistra assente
della Rash.
«Il nostro coordinamento è nato
quattro anni fa quando abbiamo occupato per quattro mesi la cattedrale di
Palermo», racconta Elisabetta, una ragazza del centro sociale palermitano
Ex carcere. Toni Pellicani, un altro dei
150 arrivati dal capoluogo siculo, racconta di una famiglia che da oltre dieci
mesi vive in un’auto parcheggiata davanti al teatro Civico e di come «siamo
riusciti a far assegnare a famiglie bisognose un centinaio di alloggi confiscati
alla mafia».
Si fa notare invece la totale assenza
delle forze politiche del centrosinistra,
fatta eccezione per Rifondazione comunista e per il consigliere regionale
dei Verdi Peppe Mariani. «Mi spiace
che non ci siano state altre adesioni.
Quella di oggi (ieri, ndr) non è una
piattaforma di un’area minoritaria, ma
si tratta di una iniziativa che andrebbe
raccolta dall’Unione», dice Pietro Folena del Prc, che propone il blocco delle
cartolarizzazioni e degli sfratti e di
«mettere in moto un piano casa per alloggi pubblici, tenendo presente che
nell’ultimo anno in Italia ne sono stati
realizzati 1.500 e a Londra 30 mila».
Inoltre, «bisogna puntare al canone
concordato, tassare la grande rendita
immobiliare e abolire l’Ici per la prima
casa».
Diversi cartelli chiedono la requisizione degli alloggi sfitti, più di 100 mila
a sentire il consigliere comunale disobbediente Nunzio D’Erme. Sandro Medici va avanti e indietro nel corteo, ci
sono anche le famiglie che ha sistemato negli alloggi per la cui requisizione è
indagato per abuso d’ufficio. Ma l’inchiesta della magistratura non lo intimorisce: «Nonostante le polemiche
l’ordinanza non è stata bloccata, dunque rimane valida». Certo, il prefetto
Un’immagine del corteo per la casa di ieri a Roma (foto Attilio Cristini). In basso, la signora Rita Andreoli (foto Maila Iacovelli)
decidere uno sgombero con la forza,
ma Achille Serra è stato il primo a sostenere che quello della casa è Roma è
un problema sociale e non di ordine
pubblico, dunque ben difficilmente interverrà. Walter Veltroni non è d’accordo con la politica delle requisizioni,
confida Medici, anche perché il comune di Roma si considera all’avanguardia per quanto riguarda le risposte all’emergenza abitativa. Ma comunque
non si è schierato contro, e l’unico passo ufficiale comune provincia e regione
lo hanno fatto chiedendo al governo la
moratoria per un anno degli sfratti.
«Il problema della casa è grave e
drammatico. La risposta del
governo è inadeguata e si vedono
ora i nodi sociali aperti dalla
politica delle cartolarizzazioni. La
Regione ha previsto un
finanziamento straordinario in
bilancio per la casa, ma serve un
piano per l’edilizia residenziale
pubblica». Così il consigliere
regionale del Prc Luigi Nieri.
Anna e Franco, cacciati dal Vaticano
«Abbiamo ristrutturato le case della Chiesa ma adesso ci danno il benservito»
LUCA DOMENICHINI
ROMA
Franco Lattughi è uno dei tanti casi di sfratto
voluti dal Vaticano per realizzare un maggior
incasso. Rialzando i canoni d’affitto e cedendo
le case a nuovi – e più ricchi – locatari. Lattughi abita a Roma e Propaganda Fide, il potente
ministero della Chiesa cattolica proprietario
della sua casa, gli ha fatto sapere che o libera
l’appartamento o sarà costretto a pagare un
nuovo canone: 2.100 euro al mese, «spese
escluse». E tra queste non sono certo contemplate quelle che Lattughi – un pensionato di 63
anni – e sua moglie hanno sostenuto dieci anni
Dal Cupolone alla strada.
La Propaganda Fide, il «ministero
degli esteri» della Chiesa, alza i canoni
d’affitto e manda via i vecchi inquilini
fa, quando nel ‘95 sono entrati nell’abitazione.
«L’appartamento era disastrato – spiega Franco, ex dipendente Alitalia – e il ministero della
Chiesa cattolica non riusciva a rivenderlo. Mi
sono offerto, con mia moglie, di mettere insieme i ‘pezzi’ (porte, finestre, sistema di riscaldamento, tutta la pavimentazione) a spese mie.
Ci abbiamo lasciato 200 milioni: la nostra intera liquidazione». La casa, un bell’appartamento
all’Esquilino, in una zona centrale che è diventata multietnica con l’arrivo dei migranti, è stata attrezzata «alla moda». Con un soppalco
(condonato) per la camera, infissi nuovi e ter-
mosifoni funzionantia, ora l’appartamento vale
di più. La famiglia Lattughi paga 600 euro al
mese, sin dai tempi del primo contratto a equo
canone. Non abbastanza per Propaganda Fide,
però, che ha mandato a chiamare Franco per
ridiscutere l’affitto. «Prima – osserva Lattughi
– mi hanno inviato una lettera, dicendo che bisognava passare a un canone più alto». Poi il
suo avvocato glia vrebbe consigliato di non fidarsi («verba volant, mi ha ricordato»): meglio
chiedere un’altra carta con la cifra nuova messa
per iscritto. Ma la seconda lettera non è mai
arrivata.
In compenso è arrivata una telefonata che
convocava Lattughi al ministero degli esteri
della chiesa cattolica, cioè - di nuovo - al Propaganda Fide. «Mi hanno chiesto di pagare 2100
euro al mese per l’affitto». Il vento evidentemente deve essere cambiato - come gli è stato
detto - e a tirare, oggi, è sempre di più il mercato. «Ma i miei investimenti, i soldi spesi per la
ristrutturazione?» «Ve li siete goduti in dieci
anni di affitto», gli hanno risposto. Con 1500
euro al mese di pensione, però, adesso è difficile
cambiare. «Ho offerto loro 850 euro al mese, il
30 per cento in più. Pagare oltre, non posso».
Una storia come tante. Perché dietro Campo
de’ fiori, la piazza dove c’è la statua dell’eretico
Giordano Bruno – sguardo fisso a terra, il capo
incappucciato e un libro in mano –, si trova anche l’appartamento di Anna Lavista, una casalinga che vive in via del Gonfalone con il padre
pensionato e il figlio studente. La casa è di proprietà del Capitolo di san Pietro in Vaticano.
Sorge dopo i palazzi antichi con i muri rossi del
Dipartimento nazionale antimafia, le scuole
medie Virgilio e la chiesa del Gonfalone le cui
pareti confinano con la casa dei Lavista. Anna
ha affittato il locale nel ‘93, quando ha venduto
un ristorantino a Pescara e con i soldi ricavati
ha costruito la sua nuova casa romana «aggiustando i ballatoi delle scale, il tetto, l’impianto
elettrico e idrico, e mettendo un bagno vero
perché prima c’era solo la turca. In un rione
centrale come il Ponte, pagavo all’inizio 420
mila lire di equo canone; ma prima ho speso
anche 150 milioni di tasca mia per rifare l’abitazione». Il Capitolo del Vaticano che le ha affittato l’appartamento, le avrebbe rilasciato una
carta intestata, con il timbro della Santa sede.
«Faccia la casa più bella possibile - c’è scritto
nel documento - e vedrà che se la godrà per
sempre». «Tre anni e quattro mesi dopo, nel
‘96, ho invece ricevuto l’ordine di sfratto».
Ma l’odissea di Anna non è finita. La storia
della gestione di questi palazzi antichi, in un
rione centrale e «aristocratico» per tradizione,
finisce nel 2000 anche sui giornali. L’amministrazione del capitolo passa così all’asta la proprietà della casa di Anna. Anche per i nuovi padroni, lo sfratto dei Lavista è confermato. «Pago 320 euro al mese di affitto, una cifra inferiore al prezzo di mercato. Chiedo da nove anni al
Vaticano di passare a un canone più alto e aggiornato – racconta l’inquilina – ma non mi
hanno mai risposto. E’ un muro di gomma: l’ultima volta che ho parlato con gli avvocati della
Santa sede è stato due mesi fa, e mi hanno detto che l’ordine di sfratto non è cambiato. Sostengo spese da dieci anni, non mi riconoscono
i documenti fatti e adesso ho finito tutti i soldi
della vendita del ristorante: non so che fare».
INTERVENTO
Le domande che pone il movimento studentesco
La giornata del 25 ottobre 2005 segnerà in profondità questa stagione sociale e politica. Non solo perché ha preso
forma e visibilità un nuovo soggetto
sociale e politico – ne ha scritto su Il
Manifesto, in modo assai convincente,
Loris Campetti. Ma anche perché in
qualche modo si apre già un conflitto
col futuro possibile governo: ha come
oggetto non solo le destre (il ddl Moratti), ma le politiche liberali e aziendalistiche (la legge Zecchino) che le sinistre hanno prodotto nelle università e
nella formazione.
Interroga prima di tutto noi, parlamentari «radicali», naturalmente simpatizzanti di questa causa, che hanno
cercato di evitare che a causa dell’irresponsabilità del ministro Pisanu e dei
comportamenti delle forze dell’ordine,
questa giornata finisse in un dramma.
Interroga chi ha fatto la spola tra la
piazza e il Parlamento. Interroga l’Unione e il suo leader. Per quello che mi
riguarda, attraversando il corteo, passando per i vicoli e i tafferugli, davanti
Montecitorio e alla Sapienza, mi sono
sentito addosso alcuni interrogativi. Il
primo è il senso di quel «Don’t touch
my brain» con cui gli studenti bolognesi partecipavano al corteo. E’ la presa di coscienza, l’autoriconoscimento,
la rivendicazione di soggettività del
«Case popolari,
serve un piano»
PIETRO FOLENA *
cervello, del pensiero, della conoscenza
e della sua libera trasmissione nell’epoca in cui si vuole brevettare tutto. C’è
qualcosa che abbiamo già visto nei decenni precedenti, ma mai espresso in
modo così vitale, legato alla propria
esistenza. C’è una critica radicale a
un’idea di sviluppo, di lavoro, di civiltà
che si è retta attorno alla convinzione
che la privatizzazione della vita, dei beni comuni, di ogni attività economica,
sociale e culturale fosse il motore del
pianeta.
Il pensiero altermondialista - che su
questo punto ha prodotto elaborazioni
importanti - dai forum sociali si sposta
ai luoghi di produzione del sapere. I
paradigmi novecenteschi – anche a sinistra - sembrano travolti da questa
domanda di libertà e di autodeterminazione. La politica istituzionale può
incontrare la radicalità di queste domande solo se si pone il problema della conoscenza come bene comune,
non privatizzabile, che si può scambiare liberamente e gratuitamente, motore di un’idea alternativa di economia e
di società.
Il secondo interrogativo l’ho letto
nello striscione con cui si è svolta, il 26
ottobre, la conferenza stampa del mo-
vimento. «Contro il governo della
guerra alla cultura». Di «genocidio
culturale» parlavano cartelli e slogan
della manifestazione. Si tratta di termini polemicamente ispirati alla nuova
retorica bellicista di questi anni – dalla
guerra al terrorismo a quella leghista
contro i clandestini, dalla guerra alle
prostitute a quella in salsa felsinea ai
lavavetri -, adattati e trasportati nel
mondo della conoscenza, laddove si rischia la nuova selezione di classe, tra
ricchi e poveri, la nuova omogeneizzazione ideologica da parte del mercato e
dei consumi, la nuova precarizzazione
di massa come condizione moderna di
subalternità e di schiavitù.
C’è un nesso tra condizione studentesca, legge 30 e lavoro in affitto, precarizzazione universitaria e blocco degli
ordini professionali verso i giovani. E’
l’altra faccia della soggettività operaia
esplosa a Melfi e in altre lotte che
muovono dalla vita – dall’oppressione
nella fabbrica, all’esproprio di altre parti della propria esistenza, dalle condizioni pietose dei treni per i pendolari e
dei trasporti pubblici al costo insopportabile degli affitti -; che muovono
dalla nuova domanda di democrazia e
di rappresentanza sindacale che viene
dai metalmeccanici (anche nel Congresso Cgil); che partono nel pubblico
impiego che scopre la propria funzione
di soggetto sociale dei beni comuni.
Non si apre ora il bisogno di un incontro tra queste soggettività? Non
hanno – attorno alla liberazione della
vita, alla propria dignità e al diritto alla
conoscenza- interessi e obiettivi comuni? «Il nostro tempo è adesso e cominciamo ora».
Il terzo interrogativo è qui, nel forte
e irriducibile proclama di autonomia
di questo movimento. Ha vinto il 25,
malgrado le violenze e le cariche: ha
circondato il Parlamento. «Gli studenti
assediano il Parlamento», hanno scritto i grandi giornali. Che quindi si pone
il problema del potere e della politica.
E’ tuttavia un movimento privo di
avanguardie ideologizzate. L’unica, forse, per le sue pratiche attive, è l’area
della disobbedienza. Martedì ha fatto
fronte a provocazioni e azioni politiche
di settori delle forze dell’ordine manovrati dalla destra. Poteva finire molto
peggio. Ma poiché questo è un movimento che dura, e poiché Genova è
nella memoria di tutti – e giustizia non
è stata fatta -, dovremo tutti essere nei
prossimi giorni consapevoli e attenti.
* parlamentare indipendente del Prc
LA STORIA
«Io, pensionata,
salvata grazie
alla casa requisita»
A. MAS.
ROMA
«Pensi che sono venuta con 400 di
diabete alla manifestazione. Ma dovevo esserci». Si appoggia a un bastone per camminare, la signora Rita Andreoli. Ma non vuole mancare
al corteo perché sa che anche per lei,
nonostante l’invalidità parziale e un
marito ammalato di Parkinson, il
diritto alla casa non è affatto scontato. 64 anni, è una inquilina un po’
particolare. E’ infatti una delle persone per le quali il
presidente del X
Municipio romano
Sandro Medici ha
requisito un alloggio
sfitto e abbandonato dai proprietari.
Una misura d’emergenza che ha scatenato le polemiche
della destra.
«Mi ha salvato, grazie a lui non
mi trovo per strada. Perché lo trattano così male? Sta aiutando persone come me che ne hanno bisogno».
La signora Andreoli è stata sbattuta
fuori dalla casa in cui viveva in affitto, «200 euro al mese più 100 di condominio», il 30 settembre scorso.
Ora vive in 40 metri quadri con il
marito settantaseienne e malato,
più una figlia ragazza madre con tre
nipoti. «E’ poco, ma almeno abbiamo un tetto sulla testa. Con la sola
pensione di mio marito non possiamo permetterci un affitto». Allora
bisogna arrangiarsi. «Quando siamo
entrati le mura erano del colore della sua maglietta (nera, ndr) e c’era la
muffa, l’abbiamo ripulita tutta e resa vivibile. Per 23 giorni siamo stati
con le candele perché non c’era l’impianto elettrico. Ora andrebbe cambiato il bagno ma ci accontentiamo». Nell’Italia del 2005, nella sua
capitale, esistono ancora realtà come queste.
domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
SOCIETÀ
COSTANTINO COSSU
OLBIA
«Abbiamo in casa una bomba atomica. Secondo cosa succede, non ci saranno più né sardi né
corsi». Così Nadine Niveggioni, deputata all’assemblea regionale di Ajaccio, ha riassunto i
motivi della partecipazione del Partito nazionalista corso alla manifestazione contro la Base
della Maddalena che si è tenuta ieri a Palau, il
porto dal quale ci s’imbarca per raggiungere l’isola che ospita i sommergibili da guerra della
marina militare Usa. Insieme ai corsi anche i
militanti del Partito sardo d’azione, l’altra organizzazione promotrice della protesta.
Da Palau sono partite barche e gommoni
che hanno raggiunto lo specchio di mare davanti alla base di Santo Stefano. «Simbolicamente _ racconta il leader di Indipendentzia
9
La Maddalena, corteo anti-Usa
Repubrica de Sardigna, Gavino Sale _ abbiamo
issato le bandiere italiana, statunitense e quella
sarda con i quattro mori. Davanti alla base
americana abbiamo ammainato la bandiera a
stelle e strisce per rappresentare visivamente
l’auspicio di una chiusura della struttura militare». «Dalla Maddalena _ dice il segretario del
Partito sardo d’azione, Giacomo Sanna _ gli
americani devono andare via. E’ gravissimo che
alla richiesta di una chiusura che viene dall’opinione pubblica sarda e dalla giunta regionale,
l’amministrazione Bush abbia risposto un mese fa annunciando un progetto, già finanziato
dal Congresso, che punta a triplicare la struttu-
ra militare di Santo Stefano». «Non è la prima
volta _ aggiunge il segretario del Partito nazionalista corso Fabienne Alfonsi _ che sardi e
corsi hanno fatto fronte comune. E’ successo
nel decennio passato quando, insieme, siamo
riusciti a bloccare il transito delle petroliere nelle Bocche di Bonifacio. Succede oggi di fronte
ad un gravissimo pericolo com’è quello rappresentato dalla presenza di sommergibili atomici
alla Maddalena».
I rappresentanti del Partito sardo d’azione e
del Partito nazionalista corso hanno incontrato
il presidente della provincia della Gallura, Pietrina Murrighile. Il consiglio provinciale ha vo-
tato all’unanimità un ordine del giorno che
chiede la chiusura della base americana. Altrettanto ha fatto il consiglio della provincia di Sassari. E tra una settimana si mobiliterà l’intero
movimento pacifista sardo. Domenica 6 novembre, per il quarto anno consecutivo, si svolgerà la marcia organizzata dalla Tavola sarda
per la pace: venti chilometri a piedi da Gesturi
e Laconi (due piccoli centri in provincia di Cagliari) per chiedere che gli americani vadano
via dalla Maddalena, che i poligoni Nato di
Quirra e di Capo Teulada siano chiusi e che si
faccia chiarezza sull’uso, durante le esercitazioni in Sardegna, di armi all’uranio impoverito.
La polizia: «Ghira è morto»
L’estremista nero sarebbe sepolto dal 1994 a Melilla, enclave spagnola in Marocco
U
C. L.
ROMA
na tomba imbiancata con
la calce e sopra una croce con una targa su cui spiccano un nome e una data: Massimo Testa De Andreas,
11-04-1994. Andrea Ghira, uno dei tre
neofascisti massacratori del Circeo sarebbe sepolto lì, in quella tomba situata nel piccolo cimitero di Melilla, enclave spagnola in territorio marocchino conosciuta soprattutto per i tentativi compiuti ogni notte da centinaia
di immigrati per scavalcare la sua frontiera ed entrare in Europa. Ricercato
dalle polizie di tutto il mondo in realtà
Ghira sarebbe morto da undici anni,
dopo aver passato un lungo periodo
della sua vita proprio a Melilla dove all’inizio degli anni 80 si sarebbe arruolato nella legione straniera spagnola sotto il falso nome di Massimo Testa De
Andreas e dove avrebbe raggiunto il
grado di caporalmaggiore. Espulso nel
1993 per uso di sostanze stupefacenti,
Testa/Ghira sarebbe morto l’anno successivo per overdose, come spiega la
polizia spagnola che dopo aver confrontato le impronte di Testa con quelle di Ghira ha confermato ieri che sono
uguali.
Ad annunciare la morte di «faccia
d’angelo», l’unico a non aver fatto
neanche un giorno di carcere per l’omicidio di Rosaria Lopez e il tentato
omicidio di Donatella Colasanti, è stato ieri il capo della squadra mobile romana Alberto Intini e presto dalla procura partirà una richiesta di rogatoria
internazionale indirizzata alle autorità
spagnole in cui si chiede di poter effettuare il test del Dna sui resti del corpo
indicato come quello del neofascista.
E’ stato un cugino di Andrea Ghira
a indirizzare gli inquirenti verso Melilla. L’uomo avrebbe parlato al termine
delle perquisizioni che solo tre giorni
fa i carabinieri dei Ros, insieme agli
agenti della squadra mobile e del Dac,
il dipartimento anticrimine guidato
dal prefetto Nicola Cavaliere, hanno
eseguito in nove appartamenti di familiari e amici dell’estremista nero. «Andrea è morto da tempo, lo trovate sepolto a Mellilla». E con l’indicazione
anche una serie di documenti e fotografie utili alle indagini. Trovata la
tomba, e verificata quindi l’autenticità
dell’indicazione, da Roma sono partite
alla volta dell’enclave spagnola le impronte digitali di Ghira per un primo
riconoscimento risultato positivo. Un
passo importante, ma che gli investigatori si guardano bene dal considerare definitivo. «Solo quando avremo i risultati del test del Dna, potremo dire
con certezza che si tratta di Ghira, e
solo allora potremo dire che il fascicolo
è chiuso», spiegava in serata un investigatore. Una prudenza dovuta. La
Spagna è uno di quei paesi in cui in
passato ha operato una rete di protezione per neofascisti in fuga molto attiva. Un’organizzazione di questo tipo,
con sede a Barcellona, era stata messa
in pedi ad esempio da un estremista di
nome Guerin-Serac aiutato dall’italiano Stefano Delle Chiaie. Organizzazione smobilitata ufficialmente con la caduta del franchismo, ma che potrebbe
aver continuato la sua attività di sostegno anche in clandestinità. Per loro
fornire falsa generalità, ma anche attribuire impronte digitali di un latitante
a un corpo senza nome, non sarebbe
stata un’impresa difficile.
Da mesi gli inquirenti sospettavano
che Ghira potesse essere morto. A
maggio i carabinieri dei Ros avevano
intercettato una telefonata in cui alcuni familiari avrebbero lasciato intendere che Ghira fosse morto. E una telefonata dello stesso tono era stata intercettata in seguito anche dalla polizia.
Informazioni che, per gli inquirenti,
avrebbero potuto essere benissimo dei
tentativi di depistaggio, considerate
La tomba di Ghira a
Melilla (foto Ap). A sinistra Ghira negli anni
’70 e la ricostruzione
delle sue sembianze
nel ‘95. Sotto il ritrovamento di Rosaria
Lopez e Donatella Colasanti a Roma
anche le volte in cui, nel recente passato, Ghira sarebbe stato visto (e addirittura fotografato) a passeggio per le
strade di Roma. Ma, soprattutto, se
Ghira fosse stato davvero morto, chi
avrebbe avvisato undici anni fa la famiglia del decesso e perché questa non
lo avrebbe reso noto? Tanto più che di
lui si tornò a parlare con insistenza
nella primavera scorsa, quando Angelo
Izzo uccise due donne durante un permesso di libera uscita dal carcere. Tutte domande che adesso i pm Italo Ormanni e Giuseppe De Falco, i due magistrati titolari delle indagini, rivolgeranno nei prossimi giorni ai genitori e
agli altri parenti dell’estremista nero.
Chi, invece, non crede proprio che
Ghira sia morto sono le sue vittime. Ieri sia Donatella Colasanti che la sorella
di Rosaria Lopez, Letizia, si sono dette
sicure di trovarsi di fronte a un depistaggio: «Come mai il consolato spagnolo nel ‘94 non avvisò il consolato
spagnolo della morte di questo ragazzo, Massimo Testa? Perché non hanno
mai cercato i parenti? Dietro c’è sicuramente qualcosa», ha detto Letizia
Lopez. «Ghira si trova a Roma, città
aperta per tutti, anche per lui».
E U R I S P E S
’Ndrangheta,
affari da capo giro
Ammonta a quasi 36 miliardi di euro il giro d’affari della ‘ndrangheta
stimato dall’Eurispes nel 2004. Reggio Calabria anche nel 2005 è in cima alla graduatoria sul rischio di
permeabilità mafiosa, mentre alla
provincia di Crotone va il primato
omicidi per ’ndrangheta. A Vibo Valentia, invece, il più basso livello di
fiducia nelle istituzioni. «Dopo l’omicidio del vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, Francesco Fortugno - ha detto il presidente Eurispes, Gian Maria Fara - è
emersa, in modo inequivocabile la
dichiarazione di guerra delle ‘ndrine
alle istituzioni. Mai come in questo
momento, è fondamentale non abbandonare i calabresi a se stessi».
F O R T U G N O
Comune di Locri
parte civile
Il comune di Locri si costituirà parte
civile nel processo contro mandanti
ed esecutori del delitto di Francesco
Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria. La decisione è stata assunta dalla giunta
municipale su proposta del sindaco,
Carmine Barbaro, e dell’assessore al
contenzioso, Maria Antonietta
Lamberti.
B R E S C I A
Cade parapendio,
due morti
Stavano effettuando l’esame per il
brevetto per portare il parapendio
biposto, i due uomini, un istruttore
e un allievo, che hanno perso la vita
ieri a Brescia. Alcuni testimoni hanno visto la semi ala della vela chiudersi e il parapendio avvitarsi per
4-5 volte da un’altezza di circa
150-200 metri. I soccorsi non sono
valsi a nulla.
Anni Settanta, il neofascismo come stile di vita
IL GRUPPO Soldi, violenza, macchine di lusso e superomismo: gli ideali dei tre massacratori del Circeo
ANDREA COLOMBO
Non è che tutti i fascisti fossero uguali, nella
Roma degli anni ‘70. C’erano quelli che, come
Teodoro Bontempo, miravano a mantenere un
rapporto forte con i ceti popolari dai quali provenivano e che facevano le fortune elettorali
del Msi nella capitale. Andrea Ghira, classe
1953, figlio di un costruttore edile, decisamente no. Come gli altri due massacratori del Circeo, Gianni Guido e Angelo Izzo, era un «pariolino», definizione che connotava allora non
solo gli abitanti del noto quartiere-bene romano, ma tutti i ragazzi di estrema destra prove-
nienti dall’alta e medio-alta borghesia.
Frequentavano le scuole private cattoliche,
o i licei classici come il «Mameli», appunto ai
Parioli, o il «Giulio Cesare», una roccaforte di
estrema destra. La villa al Circeo era quasi
d’ordinanza. In quella della famiglia Ghira, due
piani giardino, box, vista panoramica sull’isola
di Ponza, furono torturate per 36 ore, il 30 settembre 1975, le diciassettenni Rosaria Lopez e
Donatella Colasanti. Uccisa la prima, salva solo
perché creduta morta la seconda.
Più che come militanza politica i tre interpretavano il neofascismo come uno stile di vita: soldi, macchine di lusso, superomismo
d’accatto e violenza. Un terrorista di destra
che ha conosciuto e frequentato Izzo in carcere ricorda una surreale discussione: «Diceva di
essere stato uno stupratore perché era fascista.
Io gli ripetevo: ‘Ma che c’entra? Se sei stupratore sei stupratore, il fascismo non c’entra niente’».
Gli stupri, per il gruppetto in questione, erano uno svago quasi quotidiano, stando alle testimonianze di Angelo Izzo. Vittime, di solito,
amiche e compagne di scuola. Ragazze provenienti dal loro stesso ambiente e che, pertanto,
non si potevano ammazzare senza troppi problemi come le due proletarie Rosaria Lopez e
Donatella Colasanti.
In virtùù della notevole stazza fisica Ghira
eccelleva nelle botte di fronte alle scuole, ma la
militanza politica attiva si limitava a questo. Si
dichiarava nazista, ammirava Evola, teneva in
camera i manifesti di Hitler, ma non aveva
tempo da perdere con robaccia noiosa come le
riunioni di partito o i volantinaggi. Sognava di
diventare un grande criminale. Girava sempre
con la pistola in tasca. Si faceva chiamare Jacques Berenguer, come il boss marsigliese in
quegli anni figura dominante della malavita
romana. Si dava da fare con il furto di motociclette e la ricettazione, poi qualche rapina: arrestato nel ‘73 per rapina aggravata e violazione di domicilio, condannato a 5 anni.
Secondo Izzo le attività criminose del gruppetto andavano in realtà molto oltre, inclusi
alcuni omicidi. Ma del «pentito del Circeo» c’è
poco da fidarsi. Pur di accreditarsi come pentito autorevole si è accollato omicidi mai dimostrati. Ha distribuito accuse a destra e a manca, quasi sempre smentito dalle successive indagini (tra l’altro addossò proprio a Ghira l’uccisione di Giorgiana Masi, nel maggio ‘77). Ha
parlato di una misteriosa organizzazione, le
«Uova di drago», di cui avrebbero fatto parte
anche i suoi complici nel delitto del Circeo, che
probabilmente non è mai esistita.
Criminale, ma con protezioni e coperture
da ragazzo di buona famiglia, Andrea Ghira. I
complici furono arrestati nella notte del primo
ottobre 1975, poche ore dopo il ritrovamento
di Donatella Colasanti nel bagagliaio della 127
di Gianni Guido, dove i torturatori la avevano
lasciata credendola morta. Ghira invece sfugge
alla cattura ma non va lontano: almeno in un
primo periodo si nasconde tra Roma e il Circeo. Dieci giorni dopo l’arresto dei complici, gli
scrive una lettera eloquente firmata «Berenguer-Ghira»: «Vi assicuro che quella bastarda
la faccio fuori. Per voi non c’è pericolo: a fine
1976 uscirete tutti per libertà provvisoria. Non
vi preoccupate per la mia latitanza, ho circa 13
milioni di lire, forse andrò via da Roma». Esagera quando cerca di tranquillizzare gli arrestati, non quando si mostra sicuro di farcela.
Guido e Izzo saranno processati e condannati
prima della fine del ‘76, il 30 giugno, e condannati all’ergastolo. Lui invece scompare. C’è chi
lo vede in Kenya, chi in Argentina, chi sostiene
che torni frequentemente a Roma. I documenti mostrati ieri da Federica Sciarelli a Chi l’ha
visto? dimostrerebbero che si era arruolato nel
Tercio, la Legione straniera spagnola sin dal
’76.
Ieri la madre si è scagliata contro alcuni
giornalisti: «Non valete nulla. Cosa volete adesso? Santificarlo?». Il suo dolore merita ogni rispetto. Ma santificare Andrea Ghira, o anche
solo concedergli qualche attenuante, proprio
non è possibile.
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
10
EUROPA
UN DIKTAT INTOLLERABILE PER LA UE
L’imposizione americana sui dazi
agricoli riunifica i 25 sul rifiuto francese
QuelverticeWto
chegliUsa
nonamanopiù
A
ANNA MARIA MERLO
PARIGI
lla vigilia del nuovo incontro di
domani alla Wto (Organizzazione mondiale
del commercio), l’intransigenza degli Stati
uniti (seguiti da Australia e Canada) sembra
essere riuscita a compiere un miracolo: attenuare le divergenze, che si erano ormai trasformate in scontro diretto, tra la Francia e
il commissario al commercio dell’Unione
europea, il britannico Peter Mandelson, che
negozia a nome dei 25 nel Doha Round (ma
poi l’eventuale accordo dovrà essere accettato all’unanimità dai paesi dell’Unione).
Peter Mandelson ha fatto venerdì una nuova offerta alla Wto sull’agricolatura, «l’ultima, al limite del socialmente tollerabile», ha
ammesso il super-commissario. Parigi, che
aveva minacciato il veto al Consiglio della
Ue - un gesto definito «una bomba atomica» a Bruxelles - non parla più di ricorrere
all’arma estrema, ma aspetta «chiarimenti»
dalla Commissione per esprimersi, mentre
lo stesso Mandelson ormai ammette a mezza voce di avere «dubbi» sulla reale volontà
degli Usa di concludere un accordo alla
Wto, che si riunisce a livello ministeriale dei
148 paesi membri dal 13 al 18 dicembre a
Hong Kong. Difatti, all’ultima proposta di
Mandelson, gli Usa hanno risposto di essere
«delusi» e di volere di più.
La pietra dello scandalo è l’agricoltura.
S P U N T O
Felice
immunità
Gli Usa - appoggiati dai principali paesi
commerciali del mondo in via di industrializzazione - considerano l’accordo sull’agricoltura come una premessa indispensabile
per passare agli altri settori della trattativa
internazionale, l’industria e i servizi. L’idea è
di cedere sull’agricoltura, per ottenere di più
sui servizi. E l’Unione europea è messa sul
banco degli accusati, a causa della Pac, che
assorbe il 40% del bilancio comunitario.
La Francia, prima potenza agricola europea, seconda nel mondo (dopo gli Usa), non
intende cedere. Il presidente Chirac, al vertice straordinario di Hampton Court, ha fissato le «linee rosse» oltre le quali Parigi non
intende andare e ha accusato esplicitamente Mandelson di essere «andato oltre il
mandato» che gli era stato dato dal Consiglio europeo e di aver ceduto troppo. L’ultima proposta di Mandelson, venerdì, va addirittura al di là di quella fatta in precedenza che aveva provocato la minaccia di veto
francese: continua a proporre una riduzione
del 70% delle sovvenzioni interne alla produzione agricola, vi aggiunge la soppressione a termine delle sovvenzioni alle esportazioni, e un calo dei diritti doganali che gravano sulle importazioni di prodotti extracomunitari. Il punto più controverso tra Parigi
e Mandelson è l’ultimo.
La diminuzione degli aiuti diretti agli
agricoltori, infatti, è una questione relativa,
perché, con la riforma della Pac del 2003,
Merci e commerci in rotta per la Cina
La scena è cambiata. Al summit del Wto a Hong Kong il Sud si presenta diviso, India e Brasile cedono agli Usa
MARIO PIANTA
eo-nazionalismo economico contro neo-liberismo
commerciale? E’ questa la
prima impressione che si
può avere del rinnovato scontro tra
Stati uniti, Unione europea, grandi
paesi del Sud del mondo e piccoli paesi
poveri. A poche settimane dalla sesta
conferenza ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio di
Hong Kong dal 13 al 18 dicembre, lo
scambio di proposte, controproposte e
accuse si fa più intenso, e intreccia i
quattro grandi temi oggetto di trattative: l’agricoltura, i prodotti industriali, i
servizi, le questioni della proprietà intellettuale e degli investimenti.
Nelle ultime settimane l’affondo
Usa sulla riduzione dei dazi all’importazione di prodotti agricoli ha messo
in difficoltà l’Europa, che ha replicato
con un’«offerta finale» del commissario al Commercio Mandelson, in cui si
propongono i tagli ai dazi Ue che hanno fatto infuriare la Francia, chiedendo
in cambio maggior accesso ai mercati
industriali e dei servizi nel Sud.
L’offensiva degli Stati uniti trova il
consenso di grandi paesi del Sud, come India e Brasile, cooptati quest’anno
N
CARLA CASALINI
ossiamo tirare un sospiro di
sollievo, noi europei, da Bruxelles la Commissione Ue comunica di essere «finalmente» in possesso dei piani di tutti i 25
Stati «per far fronte all’influenza aviaria». Certo, la sicurezza non è mai
troppa, si pensa «a ulteriori interventi», premette Markos Kyprianou, commissario alla Salute e Protezione dei
consumatori, perciò va aumentata «la
produzione» delle industrie farmaceutiche - dunque sarà un sollievo anche
per l’affranto pil dell’Unione. Ma niente panico: «sarebbe assurdo paventare
in Europa effetti simili all’epidemia di
Spagnola» - che a inizio secolo uccise
da 40 a 100 milioni di persone - giacché «siamo in una situazione migliore
di altri continenti».
Stacchiamoci un attimo dallo sconcerto di vedere le vite umane tradotte
in «consumatori» da proteggere, e felicitiamoci invece nella conferma che le
«nostre» vite valgono comunque molto di più di quelle di chi si trovi ad abitare «altri continenti».
In caso di una eventuale pandemia,
dunque, potremmo rinchiuderci come
in una fortezza, salvi, lasciando fuori,
in balia degli eventi tutti gli «altri». Mike Davis ricordava il meeting dell’Organizzazione mondiale della sanità,
dove Thailandia e Sudafrica chiedevano di produrre nel sud del mondo vaccini e farmaci adeguati, e «Francia e
Usa hanno unito le forze per proteggere il monopolio della Roche». Non ci
sarà alcun «vaccino mondiale» contro
l’influenza aviaria, perché la Ue, dove si
concentra il massimo della produzione
farmaceutica, non consente.
In caso di disastro, i continenti
«sfortunati», possono dunque lasciar
crepare in pace i propri abitanti. Sembra quasi tradotta alla lettera quella
sindrome immunitarista dell’Occidente, paranoia e difesa contro l’«altro» ,
che Roberto Esposito esemplificava dalle epidemie alle guerre dell’Impero con una avvertenza inquietante: l’accanimento immunitario «uccide il corpo» individuale e sociale che lo pratica,
l’unica via di salvezza essendo «l’esposizione all’altro».
Manifestazioni contro il Wto e contro la guerra a Seattle e a Roma (foto Ap)
questi ribassi hanno già avuto luogo e, inoltre, le novità che entreranno in vigore dal 1°
gennaio 2006 introducono lo sganciamento
fra aiuti e quantità prodotte (quindi sono
sovvenzioni che non rientrano nel campo di
intervento della Wto, perché non vengono
considerate perturbatrici del mercato). Invece, al cuore della polemica ci sono le condizioni di ingresso dei prodotti agricoli sul
mercato europeo. In Francia è stata fatta
un’analisi dettagliata sul ribasso delle tariffe
doganali proposto da Mandelson (nell’ultima proposta parla di una forbice tra il 35 e
60% in meno, cioè una media di ribasso del
46% - dieci punti in più della prima stesura).
«Su pomodori, pollame, carne bovina,
zucchero, burro, avremo prezzi internazionali più bassi di quelli comunitari: è una rimessa in causa del principio della preferenza comunitaria», dicono i francesi, che sta
alla base stessa della Pac (e la Pac resta una
delle poche politiche comunitarie esistenti).
Mandelson non ha nessun mandato per rimettere in causa l’esistenza stessa della Pac,
insitono a Parigi. I sindacati agricoli aggiungono un dato: «Lasceremo al mercato il
compito di decidere, ma di fronte ai prezzi
praticati nel resto del mondo non ce la facciamo. Vivremo la stessa cosa che è successa nel tessile, moltiplicata per due o tre»,
cioè, «nessuno ci farà credere che l’Europa
continuerà a fare dell’agroalimentare o dell’agro-industria, senza materia prima locale:
i paesi produttori di materia prima la tasformeranno loro stessi ».
Gli europei hanno, tra l’altro, subito una
sconfitta all’Omc giovedì scoso: nell’annosa
«guerra della banana», la Ue ha perso contro nove paesi produttori dell’America latina, che contestavano diritti doganali troppo
alti per le loro banane (di cui la produzione
è in forte crescita, perché avevano puntato
su un aumento dei consumi nell’est europeo
dopo il crollo del muro di Berlino, che non è
avvenuto). L’Omc non solo obbliga la Ue ad
abbassare i diritti doganali sulle «banana
dollar», ma ha anche rifiutato l’esenzione
accordata a 775mila tonnellate di banane
dei paesi Acp (Africa, caraibi, pacifico) nell’ambito della Convenzione di Lomé.
P
Dopo Seattle e Cancun
Bush, forte di lucrosi
accordi bilaterali,
prepara un trucco
per il prossimo
vertice mondiale
del commercio.
L’Africa è sola
nella regia del vertice Wto dopo avere,
come leader del G20 (il gruppo di venti
paesi del Sud), resistito a lungo alle
pressioni Usa e Ue, portando al fallimento il precedente vertice di due anni fa a Cancun.
Cancun è lontana
Ma è una proposta truccata: non tocca
i grandi sussidi all’export, l’anima di
un’agricoltura Usa malata di gigantismo, e non interviene sul caso del cotone, dove i piccoli produttori dell’Africa occidentale sono messi in ginocchio
dalla concorrenza americana. E in fondo gli Usa, che hanno privilegiato in
questi anni gli accordi bilaterali, potrebbero non puntare a un accordo a
tutti i costi, con le inevitabili concessioni, anche per le difficoltà che Bush
avrebbe di fronte al Congresso che gli
dovrà rinnovare entro il 2006 il supermandato per i negoziati commerciali.
Ma le divisioni sono ora visibili anche nel Sud, dopo l’inattesa unità che a
Cancun aveva riportato in primo piano lo scontro d’interessi tra ricchi e poveri del pianeta. I governi dei tre maggiori paesi - India, Brasile, Cina - hanno ora interesse a un esito positivo del
vertice Wto, anche se solo di facciata.
La Cina, paese ospitante, stella na-
scente dell’export mondiale, vuole sia
un successo diplomatico, sia concreti
vantaggi per le proprie merci, e non teme liberalizzazioni in nuovi campi dopo aver mostrato di saper trattare da
pari a pari con le multinazionali occidentali. Al Brasile, con Lula in evidenti
difficoltà politiche, elezioni nel 2006, e
un’economia in ripresa, servono nuovi
sbocchi di mercato, cercati sia nel rafforzamento regionale del Mercosur l’accordo con altri paesi latinoamericani - sia con uno sfondamento sui mercati mondiali. E l’India è segnata dalle
spinte modernizzatrici che hanno visto crescere rapidamente i settori del
software, dell’elettronica, dei servizi attraverso subforniture ai grandi produttori anglosassoni, in un contesto di liberalizzazione degli scambi.
In tutti e tre questi paesi si sta accentuando il conflitto interno tra gli
interessi dei contadini, delle comunità
locali e dei piccoli produttori nazionali,
le prime vittime di una liberalizzazione
degli scambi, e quelli della parte «globalizzata» della propria economia - l’agricoltura capace di esportare, le nuove
industrie, i settori dell’informazione e
comunicazione - che sta espandendo i
propri mercati negli altri paesi del Sud.
Se questo scontro è destinato a segna-
re per lungo tempo la politica di questi
paesi, ci sono pochi dubbi che a Hong
Kong finirà per prevalere la posizione
negoziale dei «globalizzatori».
Ben diversa è la posizione dei paesi
africani, schiacciati in questi anni dal
crollo dei prezzi dei prodotti di base
che restano al centro del loro export,
timorosi di perdere, in una liberalizzazione generalizzata, i pochi spazi del
mercato Ue aperti loro dagli accordi
preferenziali Acp, e assediati dalle
spinte a liberalizzare i mercati interni
di beni industriali, servizi finanziari, infrastrutture come acqua ed energia.
Per loro, i vantaggi delle liberalizzazioni sono davvero difficili da scoprire.
Se la partita negoziale si presenta
sempre più intricata, la deriva verso
Hong Kong tende ad appiattirsi sugli
aspetti più immediati dell’accesso ai
mercati - e quindi sulla riduzione dei
dazi e delle tariffe doganali - mentre finiscono in secondo piano le considerazioni sugli effetti ambientali e sociali di
produzioni e commerci.
Meglio nessun accordo
«A Hong Kong si profila uno scambio
tra l’accesso ai mercati agricoli del
Nord del mondo per i prodotti dei paesi in via di sviluppo e l’apertura dei
mercati del Sud ai prodotti industriali
e ai servizi, in particolare finanziari, distributivi e delle telecomunicazioni»,
spiega Antonio Tricarico, responsabile
della Campagna per la Riforma della
Banca mondiale, che segue da vicino i
negoziati del Wto. «Con un tale accordo a perdere saranno i paesi più poveri, gli stessi africani che hanno fatto
fallire i vertici di Seattle e Cancun.
Dobbiamo spiegare che quello tra difese protezionistiche e liberalizzazioni
generalizzate è un falso dilemma. Le
regole del commercio vanno reinserite
in una visione più ampia dello sviluppo e delle politiche per una crescita
che tuteli i diritti sociali e dei lavoratori, e sostenibile sul piano ambientale».
E’ questa la prospettiva indicata nel
documento «Invertiamo la rotta a
Hong Kong. Dal libero mercato verso
regole certe e diritti per tutti », presentato dal cartello di associazioni che
promuove l’osservatorio sul commercio
internazionale
Tradewatch
(www.tradewatch.it). Come a Seattle e
a Cancun, nessun accordo è meglio di
un cattivo accordo che pensi solo a
merci e commerci.
domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
C H I P &S A L S A
11
Scienza micro a Wall Street
O
FRANCO CARLINI
gni anno più ricco, più nazionale e più internazionale. Così il Festival della Scienza di Genova, attualmente in corso (www.festivalscienza.it). Ne ha già detto il manifesto del 27 ottobre, ma almeno due
questioni, a festa avviata, si impongono. L’una, altamente positiva, è la
straordinaria voglia di raccontare la
scienza che anima da singoli docenti e
istituti scolastici, laboratori di ricerca,
università. All’apparenza l’Italia, in ritardo rispetto a altri paesi europei,
sembra vivere un felice momento di
passione culturale per i temi scientifici.
Molte di queste esperienze, alcune
artigianali (nel senso migliore del termine), sono venute a Genova, incontrandosi con una tradizione che attorno nel suo Dipartimento di Fisica vive
da sempre. Queste attività le chiamano
“divulgazione”, ma tale non è perché
non c’è un volgo ignorante da alfabetizzare e perché le idee da far circolare
non sono verità fissate una volta per
tutte, ma questioni aperte, di cui importa far capire la problematicità. Tra
l’altro, rispetto a una moda recente,
sembra che il ricorso alle simulazioni
al computer sia fortunatamente in declino: troppo facile fare cadere i gravi
su di un monitor o sperimentare con i
bit. Facile e poco istruttivo.
Molto meglio la “fisicità”, appunto,
dei banchi di laboratorio, delle provette, dei becker e della faticosa materia.
Con enorme piacere ritroviamo dunque in questo festival gli apparecchi di
misura, e fatti su misura da quello che
negli anni ‘70 era il “genio del legno” di
noi laureandi in fisica: il falegname
Marigo, nel cui laboratorio scendevamo con le richieste più strane che lui
realizzava con le migliori funzionalità,
ma anche con un gusto estetico e un
piacere della materia tipici di chi aveva
imparato facendo botti e ruote di carro, in Veneto.
Questa è la faccia micro del festival,
disseminata per la città. Non è spettacolare, ma ne è forse l’aspetto più interessante che potrebbe essere ulteriormente e programmaticamente potenziato nelle edizioni a venire. Poi c’è la
faccia della saggistica, degli incontri e
delle conferenze. Dove noi giornalisti
corriamo dietro al alcune star con
qualche ingenuità. Leggiamo per
esempio sul Corriere della Sera che «il
biologo molecolare Craig Venter ha
decifrato il linguaggio del nostro corpo:
per primo ha disegnato la mappa del
genoma umano». Nel programma del
festival egli viene definito come «il padre del genoma umano, lo scienziato
spregiudicato che ha rivoluzionato la
ricerca medico-biologica ridisegnando
il codice genetico dell’uomo e per questo duramente attaccato». Quanta approssimazione in queste frasi, e quali
errori fattuali. Craig Venter era un
tempo un ricercatore pubblico che
operava presso i National Institutes of
Health. In quel ruolo cominciò a mappare e sequenziare pezzi di Dna umano fin dai primi anni ‘90.
La data fatidica è il 20 giugno 1991,
quando lo stesso Venter depositò presso il Patent Office americano un dossier di 400 pagine; era la domanda di
brevetto per 347 geni umani, di cui
chiedeva ogni diritto futuro. In realtà
nemmeno di geni si trattava, ma solo
di frammenti (in termine tecnico
Expressed Sequence Tags) di cui ignorava del tutto funzione e ruolo, ed erano il frutto delle prime macchine di sequenziazione automatica che facevano
più presto e in maniera massiccia
quello che fino allora era compito dei
tecnici di laboratorio: estrarre il Dna
dalle cellule e farlo migrare su dei gel
per rivelarne analiticamente la struttura.Fu scandalo, e giusto scandalo, almeno tra i ricercatori più seri. Il coscopritore della struttura a doppia elica
del Dna, il premio Nobel James Watson dichiarò nell’occasione: «Appena
l’ho sentito sono caduto dalla seggiola
... con l’avvento delle macchine automatiche anche una scimmia potrebbe
fare quello che il gruppo di Venter fa.
Quello che importa è interpretare la
sequenza. Se questi bit sparsi di informazione fossero brevettati, rimarrei
inorridito». Invece lo sono stati, e in
abbondanza: alla fine del 2000 erano
stati attribuiti più di 25 mila brevetti
relativi al DNA, che comprendevano
frammenti purificati e clonati di gene,
geni completi, sequenze di regolazione,
metodi diagnostici e altre invenzioni.
L’altra data è il giugno dell’anno 2000:
Venter si era buttato a sequenziale il
genoma umano con la sua azienda privata, la Celera Genomics.
A un certo punto annunziò al mondo che aveva finito il progetto, comple-
Tante le suggestioni all’edizione 2005 del Festival della scienza di Genova. Anche quest’anno una
panoramica dalle esperienze più «artigianali» a quelle più globali. Lo strano equilibrio tra la ricerca
astratta e la fisicità dei laboratori. Ma la vera novità è il nuovo concetto di divulgazione scientifica
POLEMICHE
E-Democracy
alla bolognese
F. C.
egalità è un bel valore e
Sergio Cofferati ha ragione nel sostenerlo.
Detta semplicemente è
il modo con cui le società moderne fanno fronte a una possibile giungla in cui interessi
contrastanti si combattono in
base alla legge del più forte.
Sostenne Hobbes, il filosofo,
che «l’artefice di società grandi
e durature non era la benevolenza che gli uomini nutrivano
nei confronti degli altri, ma la
paura che nutrivano gli uni degli altri». Si delega dunque allo
stato il monopolio del fare le
norme e di farle rispettare. In
questo modo i cittadini si possono sentire più tranquilli, non
dovendo temere i più aggressivi e violenti.
Nel pensiero politico moderno questa attribuzione della
violenza a un’istituzione si accompagna a un altro aspetto
decisivo della legalità: il cittadino deve anche essere protetto dall’eventuale strapotere
delle stato, che esso sia retto
da un sovrano o da una democrazia. Perciò,
mentre si deleCofferati
ga, insieme si
ha sbagliato.
deve poter controllare. E’ per
Non doveva
questo che i poimpedire
liziotti americani hanno un dil’ingresso nella stintivo con un
sala del
numero
di
identificazione,
consiglio
per poter essere
comunale
chiamati a rispondere personalmente degli abusi (cosa che
non avverrà per il poliziotto col
volto coperto e il casco che a
Roma nei giorni scorsi ha preso a calci una studentessa).
E’ per questo che i luoghi del
potere devono essere aperti:
pubblici devono essere i processi e altrettanto il parlamento e i consigli comunali. Dunque chi impedisca ai cittadini
di accedere alla sala consiliare
per assistere al dibattito commette una illegalità e dovrebbe
essere sanzionato. Il presidente
del tribunale o dell’assemblea
potrà sempre far sgomberare
l’aula se i cittadini disturbano,
ma non può e non deve impedire preventivamente l’accesso.
Questo invece è quanto è successo a Bologna senza che alcuno dei tutori della legalità
avesse nulla da obiettare.
E’ stata una caduta pesante
per un sindaco che sul rispetto
della formalità sta costruendo
la sua gestione seria, rigorosa,
senza favoritismi, il che ingenera il dubbio che le norme le
applichi con discrezionalità
politica anziché con il dovuto e
totale agnosticismo. La legge
non conosce eccezioni, ha ragione Cofferati a sostenerlo,
L
ma questo dovrebbe valere anche per lui. Nello stesso tempo
la democrazia ha bisogno di essere continuamente rinnovata
e potenziata. L’anno scorso per
esempio la città di Bologna è
stata premiata a Vienna dal
progetto Eurocities per le sue
iniziative nel campo della cosiddetta eDemocracy, la democrazia arricchita dal tecnologie
digitali di dialogo e comunicazione. Il premio è andato a
Iperbole, la storica rete civica
del comune, la quale tuttavia
sembra aver perso molto dello
smalto iniziale: informa molto
e bene, ma poco dialoga, questa la sensazione.
Eppure nell’idea di democrazia con la “e” davanti c’è
un’idea importante, anche a
prescindere dalle tecnologie,
quella che la democrazia non
sia il voto ogni tot anni, ma invece un processo continuo. I
cittadini in questa visione non
hanno solo il diritto di premiare o punire gli amministratori
con il loro voto. Hanno anche
quello di sapere cosa essi fanno
giorno per giorno (/diritto all’informazione completa e
tempestiva) e infine e soprattutto quello di poter dire la loro anche quando le decisioni
sono in fase istruttoria. E’ un
problema di democrazia ma
anche di efficienza: è più facile
infatti che i singoli gruppi e
cittadini conoscano i problemi
meglio degli amministratori e
dunque se vengono chiamati a
dire la loro la soluzione che
verrà scelta potrà ragionevolmente essere più efficace ed efficiente. Il che non vuol dire
che gli amministratori debbano adeguarsi agli eventuali interessi egoistici di singoli gruppi.
Anni fa a Bologna ci fu una
quasi rivolta dei titolari delle
bancarelle di piazza dell’otto
agosto (in centro, di fronte alla
Montagnola) contro il parcheggio sotterraneo che lì si
voleva costruire; lamentavano
la perdita di incassi durante i
lavori e andarono persino al
Costanzo show in massa. Per
fortuna il comune tenne duro
in nome dell’interesse generale
e oggi lì sotto c’è un ottimo posteggio multipiano che serve
tutto il centro: in 10 minuti si
arriva ovunque. Quel posteggio
allora osteggiato è un efficiente
strumento per garantire gli accessi lasciando il centro libero
dalle auto. Eppure la nuova
amministrazione ha deciso che
al sabato il divieto non vale più
e nemmeno sotto Natale. Qualcuno che non siano i commercianti è stato consultato? Si è
fatto un sondaggio digitale o
cartaceo con qualcuno che non
fosse l’Ascom? Non risulta, e
allora quel premio alla partecipazione elettronica non sembra poi così meritato.
Illustrazione tratta da World Graphic Design Now
tando la mappa. I grafici di Wall Street
sono lì a ricordarci che immediatamente dopo l’annuncio le azioni arrivarono a 245 dollari, da 10 che valevano pochi giorni prima. Ma fu breve
gloria ed era comunque una semibugia, per di più doppia: nella storia del
progetto genoma c’è infatti un eroe nascosto, come lo definì il New York Times (Nicholas Wade, «Reading the
book of life: grad student becomes gene effort’s unlikely hero». 13 febbraio
2001.) E’ Jim Kent, dell’università di
California a Santa Cruz, che fu in realtà il primo a mettere in fila i 400 mila
frammenti di geni. Kent finì il suo lavoro il 22 giugno del 2000, mentre il
gruppo rivale di Craig Venter avrebbe
completato l’opera solo tre giorni dopo. Kent lavorava per il consorzio pubblico inglese e americano Human Genome Project, in esplicita contrapposizione con l’approccio di Venter e a differenza di questo businessman della ricerca, i loro risultati vennero resi accessibile via internet fin dal 7 luglio
2000. Nel febbraio seguente Clinton e
Blair dichiararono ufficialmente finito
il progetto, sedando le polemiche, ma
in seguito emerse con chiarezza che il
gruppo della Celera aveva abbondantemente attinto ai risultati del consorzio
pubblico, che scrupolosamente venivano “pubblicati” passo per passo. E’ così
che si fa la ricerca scientifica, non privatizzandola per fama personale e
guadagni di borsa.
Quello della proprietà delle idee è il
tema cruciale di questi anni. Di recente Kyle Jensen and Fiona Murray del
Massachusetts Institute of Technology
hanno esplorato i database dei brevetti
e hanno riportato questo risultato
sconvolgente: circa il 20 per cento del
genoma umano (ovvero 4.382 geni su
23.688 noti) sono stati brevettati e la
metà circa di tali brevetti è in mano ad
aziende private (Intellectual Property
Landscape of the Human Genome.
Science, vol 310, 14 October 2005, pag.
239). Di questo pessimo risultato di cui
egli è stato “pioniere” a Venter andrebbe chiesta ragione (e scuse).
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
12
C
hi non ha presente quelle ragazze
dal seno prosperoso che dopo essersi appartate nei boschi per fare sesso si ritrovano con il fidanzato sbudellato e un mostruoso maniaco armato di
motosega seriamente intenzionato a fare
scempio del loro appetitoso corpicino? Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di quelle
incaute ragazze che costituiscono un ingrediente base di certi sanguinolenti film senza
troppe pretese. Ebbene, quelle ragazze non
devono trarre in inganno. Il romanzo dell’orrore non è un genere letterario così popolare
e dozzinale come potrebbe sembrare. Quantomeno non lo è sempre stato. Il romanzo
dell’orrore ha nobili e ambiziose origini; origini a tal punto intrecciate alla nascita del romanzo tout court da farne il cuore della narrativa così come ancora oggi la conosciamo.
Letteratura gotica e forma romanzesca si
sono affacciate sulla scena più o meno simultaneamente nell’Inghilterra di fine Settecento.
Anche volendo ignorare il fattore comunque
rilevante del livello generale di istruzione, nella ormai lontana epoca dei lumi e della fede
assoluta nella ragione i libri non erano affatto
roba alla portata di tutti. Per la stragrande
maggioranza della popolazione, l’acquisto di
un romanzo di Ann Radcliffe o Matthew Gregory Lewis, gli Stephen King di allora, rappresentava un’impresa quasi impossibile sul piano finanziario. Il costo medio di un volume si
aggirava intorno ai tre scellini ovvero quel che
riuscivano a mettersi in tasca operai e domestici in una settimana di duro lavoro. Spesso,
poi, le opere di narrativa constavano di tre tomi se non più, il che li rendeva inavvicinabili
perfino ad artigiani e piccoli commercianti i
quali avrebbero dovuto fare mesi e mesi di
economie se mai avessero voluto diventare
proprietari di un romanzo completo.
I sentimenti cercano riscatto
Ma i prezzi proibitivi non costituivano l’unico
limite. La complessa prosa con cui si esprimevano gli autori gotici presupponeva conoscenze molto superiori alla semplice alfabetizzazione. I romanzi di allora contenevano
come niente fosse allusioni e riferimenti alla
cultura classica e a Shakespeare. Pure il Frankenstein di Mary Shelley, sebbene più accessibile e pubblicato in epoca leggermente più
tarda, è un testo la cui piena comprensione è
tutt’altro che immediata. Ovviamente esistevano notevoli differenze tra le esotiche storie
di castelli infestati da fantasmi e i romanzi di
ambientazione più realistica, differenze che
dovevano certamente avere il loro peso visto
che il tempo ha finito con il trasformare il
racconto dell’orrore in un genere minore. Ciò
nonostante, queste differenze si relativizzano
alquanto se soltanto si guarda al sentimentalismo di cui nessuna opera romanzesca, nemmeno la più alta, può dirsi del tutto scevra.
Forse è soltanto un’ipotesi ancora da dimostrare, ma molte cose fanno pensare che il romanzo sia nato e si sia affermato come una
sorta di compensazione per ciò che scienza e
rivoluzione industriale andavano sottraendo
all’animo umano. Quello di fine Settecento
era un mondo nuovo dove i sentimenti cominciavano a essere sacrificati sugli altari del
progresso e della ragione. Ma proprio per
questo, proprio perché mortificati e compressi, sentimenti e emozioni si fecero ancor più
evidenti e necessitarono di essere affermati e
descritti. Sentimenti ed emozioni chiesero dignità e risarcimento, reclamarono un loro
spazio, un luogo organizzato sì con raziocinio
e pragmatismo – come si conveniva al mutato segno dei tempi – ma dove, comunque,
fosse loro riconosciuto un valore irrinunciabile in quanto strumento di conoscenza, un
luogo dove magari fosse anche possibile trovare una qualche armonia con i ben più algidi
strumenti del nuovo mondo.
Questo anelito non si è affatto estinto e ancora oggi, per un verso o per l’altro, il cosiddetto «mainstream» di ambientazione realistica può essere considerato alla stregua di un
romanzo sentimentale, e dunque di genere. Il
che implica un’altra considerazione: ovvero
che, per un verso o per l’altro, qualsiasi forma
romanzesca presuppone la letteratura di genere e in una certa misura inevitabilmente vi
tende. Non è dunque così assurdo affermare
che tutti i romanzi sono, ciascuno a suo modo, romanzi dell’orrore. Ma l’orrore non è soltanto il capostipite di ogni genere, dal poliziesco al fantascientifico. È molto di più. Perché
CULTURA
Nel cuore
di ogni romanzo
un palpito di orrore
è in sentimenti di orrore e di angoscia che
piomba l’animo umano ogni qualvolta viene
messo alla prova da pulsioni ed emozioni che
trascendono l’assunto per cui la ragione è la
strada maestra di giustizia e verità. Alla resa
dei conti l’orrore è dunque il cuore tenebroso
che batte nell’intimo di tutta la letteratura di
stampo romanzesco; un cuore che può rivelarsi estremamente rivelatore, per dirla con
un celebre racconto di Edgar Alla Poe.
Non è certamente un caso, se i protagonisti dei romanzi più riusciti di Stephen King
sono perlopiù scrittori. Anzi, a ben guardare
non sono nemmeno loro i veri protagonisti,
bensì il puro atto di scrivere. Perché il protagonista di Shining si scopra in tutta la sua follia omicida deve scrivere un romanzo. Ed è
sempre per via dei suoi romanzi se lo scrittore di Misery si ritrova prigioniero di un incubo, ovvero di una lettrice letteralmente pazza
di lui. Similmente, è meno che mai un caso il
fatto che un romanzo indiscutibilmente
«mainstream» di recente pubblicazione sia al
contempo una sinistra caricatura del suo autore e un implicito tributo all’opera di Stephen King.
In Lunar Park (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia, pp. 332, 18) Breat Easton Ellis sollecita l’ingranaggio più oliato e consolidato della forma romanzesca – l’ambientazione realistica – fino al punto di farlo implodere. Qui non si tratta più di uno scrittore che
racconta di un verosimile scrittore qualunque; qui lo scrittore di successo Breat Easton
Ellis ha eletto quale protagonista del suo nuovo romanzo nientemeno che «lo scrittore di
successo Breat Easton Ellis» in persona. Le
coincidenze tra lo scrittore e il suo doppio rasentano la specularità assoluta. L’Ellis personaggio è l’autore degli stessi romanzi dell’Ellis
reale, come altrettanto reali sono le sue frequentazioni – l’amico rivale Jay McInerney,
l’agente Binky Urban, l’editor Gary Fisketjon.
Anche alcuni importanti lati privati sono fedelmente rappresentati, a cominciare dai
conflitti con il padre cui il romanzo è dedica-
UN FANTASTICO DEBUTTO
Trentanove anni, figlio di un regista cinematografico di avanguardia, Mark Z.
Danielewski ha studiato letteratura inglese a Yale e letteratura latina a Berkeley.
Ha poi frequentato una scuola di cinematografia a Los Angeles. Negli anni
seguenti ha viaggiato per l’Europa portandosi dietro la Bibbia di Re Giacomo e le
tragedie di Shakespeare. Casa di foglie, pubblicato negli Stati Uniti nel 2000, gli
è costato dieci anni di lavoro ed è stato salutato da Breat Easton Ellis come un
«debutto fenomenale», un incrocio tra Pynchon, Ballard, King e Foster Wallace.
«Non mi considero uno scrittore dell’orrore» – ha dichiarato Danielewski. –
«Credo, tuttavia, che qualunque autore si confronti con grandi questioni possa
essere definito uno scrittore dell’orrore. Melville, Hawthorne, Dickinson. Lo
stesso Nietzsche... e non sono nomi che faccio per mettermi sul loro stesso
piano. Dico soltanto che quando gli scrittori affrontano temi profondi, finiscono
sempre per svelare qualcosa di terrificante». Ancora a proposito di orrore, la
sorella di Danielewski è leader di un gruppo rock dal nome fin troppo esplicito:
«Poe». Nell’ultimo album della band sono diversi i brani ispirati a Casa di foglie.
TOMMASO PINCIO
Non c’è narrativa
senza fantasmi,
siano essi creature
soprannaturali o esseri dotati
di consistenza reale.
Ultimi titoli nel segno
dell’orrore, Lunar Park
di Bret Easton Ellis,
e Casa di foglie
di Mark Danielewski.
A proposito,
buona Halloween
to. Il lettore si troverebbe dunque di fronte a
una confessione dell’autore non fosse per il
fatto che in Lunar Park Ellis si descrive sposato a una stella del cinema e padre di famiglia,
due dettagli nient’affatto marginali che però
non corrispondono al vero: elementi fittizi
che costituiscono le premesse per un deragliamento nell’irrealtà. Dopo una festa di Halloween, in casa Ellis iniziano infatti a verificarsi strani e terrificanti fenomeni che volgono il romanzo in un tripudio di citazioni cinematografiche, in una storia dell’orrore che
scimmiotta i cliché più tipici del genere. Quella che in un primo momento sembrava essere
una confessione si rivela così la verità ridotta
a teatrino. Qual è lo scopo di un meccanismo
così perverso? Se questo fosse un romanzo
dell’orrore come tanti altri, si potrebbe pensare che l’autore abbia semplicemente esaltato
un espediente fondamentale del genere: parti-
re da un forte dato di realtà per rendere verosimile l’irruzione nel quotidiano di eventi poco o nulla credibili. Ma siccome questo è un
romanzo dell’orrore firmato Breat Easton Ellis è ancor più lecito concludere che la compenetrazione di verità e invenzione serve, in
effetti, a mettere in piedi una sofisticata sciarada. Quale delle due, quindi? Ebbene, né l’una né l’altra. O meglio, entrambe le due ipotesi sono valide purché una non escluda l’altra.
Se Ellis riempie il suo romanzo di creature
rubate all’immaginario orrorifico più popolare è per dare consistenza narrativa ai fantasmi che lo tormentano nella vita reale; in particolare ai fantasmi del padre e a quello del
romanzo che lo ha reso famoso. Padre e romanzo sono però strettamente connessi perché Patrick Bateman, il folle omicida di American Psycho, è stato modellato sul carattere
Robert Martin Ellis, il padre dello scrittore.
Alla resa dei conti, il fantasma è dunque uno
soltanto: il passato con cui Ellis non ha fatto i
conti se non per le vie traverse della finzione e
che ora bussa alla porta per vendicarsi, trasformando angosce e tormenti dello scrittore
nella caricatura di un film dell’orrore. In Lunar Park Ellis ribalta le fondamenta su cui era
edificata la letteratura gotica degli inizi, stravolgendo in maniera quasi impercettibile la
regola in base alla quale l’irruzione soprannaturale nel reale serve a ridare voce a sentimenti ed emozioni oppressi da un raziocino
imperante. Ellis sa bene che nel nostro tempo
l’industria dell’intrattenimento ci ha chiuso
in una gabbia di sentimenti ed emozioni sempre più preconfezionati; sa che sono proprio
quelle creature della finzione nate per regalarci rigeneranti evasioni e catarsi a renderci
sempre più prigionieri di un patetico simulacro di noi stessi; sa che oggi non sono più le
nostre case a essere minacciate da un’infestazione di fantasmi ma che siamo noi a infestare le loro, un po’ come avviene in quel film
straordinario che è The Others di Alejandro
Amenàbar. Un po’ come avviene anche in Lunar Park, dove il fantasma del vero Breat Ea-
ston Ellis irrompe nell’edificio romanzesco
seminando inquietudine, facendo scricchiolare sinistramente i capisaldi della storia di finzione ad ambientazione realistica. Con questo libro, a oggi il suo più audace e rischioso,
Ellis non si è limitato a dipingere un ritratto
impietoso di ciò che di irrisolto c’è nel suo
passato; è tornato pure alle gotiche origini del
romanzo, dimostrando che ogni romanzo è,
per un verso o per l’altro, un racconto dell’orrore.
Un percorso simile è quello seguito da
Mark Danielewski nella sua prova d’esordio,
frutto di dieci anni di lavoro. Non è difficile
capire perché la critica statunitense abbia definito Casa di foglie (Mondadori, traduzione
di Anzelmo, Brugnatelli e Strazzeri, pp. 814,
22) «il più importante romanzo sperimentale
del nuovo millennio». Nella sua più che considerevole mole trovano infatti posto l’utilizzo
alternato di una mezza dozzina di caratteri
tipografici diversi, quattrocentocinquanta note, svariate liste, citazioni di ogni sorta da
Omero a Stanley Kubrick, una bibliografia, tre
appendici, alcune illustrazioni, un indice e
molto altro ancora. Un simile mastodontico
impianto sarebbe più che sufficiente per richiamare alla mente David Foster Wallace e
dintorni, ma costituisce soltanto una faccia
del labirinto. L’altra è data da una fitta trama
di scatole di cinesi nella quale perdersi è quasi
inevitabile.
Quel che racconta «Casa di foglie»
Riassumendo, abbiamo un giovanotto di nome Johnny Truant che lavora in un negozio di
tatuaggi a Los Angeles. Costui trova un voluminoso manoscritto nell’appartamento di un
certo Zampanò, un vecchio cieco morto da
poco. Incuriosito, decide di portarselo a casa e
nel leggerlo scopre che si tratta di una densa
dissertazione critica su un film documentario
nel quale il fotoreporter Will Navidson racconta la raccapricciante storia di ciò che è accaduto a lui e alla sua famiglia dopo il trasferimento in una casa in Virginia. Il testo di
Zampanò si rivela oltremodo confusionario,
del resto si tratta pur sempre di un cieco che
scrive di un film, una incongruenza assoluta.
Ciò nonostante Johnny ne rimane prima irretito, poi letteralmente ossessionato. Le sue
notti cominciano a popolarsi di incubi tremendi, mentre di giorno non riesce più a
uscire di casa. L’intera sua esistenza inizia a
sfuggirgli di mano portandolo sull’orlo di un
baratro; tutto per via di questo manoscritto
che racconta del documentario, che a sua volta racconta della casa in Virginia: apparentemente è un edificio come tanti altri ma a un
esame più attento mostra stranezze di non
poco conto. Tanto per dirne una, l’interno
della casa è molto più grande di quanto l’esterno lascerebbe supporre. Sempre all’interno, poi, ci sono porte di cui non si ha traccia
all’esterno, ma soprattutto c’è una sala di inusitate dimensioni con al centro una scala a
spirale che sembra scendere in uno scantinato senza fondo e che il fotoreporter decide di
esplorare con una troupe. L’impresa assume
presto i contorni della classica ricerca del Minotauro ma con una particolarità: mostro e
labirinto sono la stessa cosa. Date le premesse
è quantomeno fatale che gli esploratori finiscano per perdersi nei meandri di un’architettura di orrori in continua espansione.
Sempre riassumendo, tutto ciò è però soltanto l’inizio. L’esplorazione della casa è a sua
volta un contenitore di storie che riguardano
la problematica relazione del fotoreporter con
sua moglie Karen e, più in generale, con i profondi e mutevoli abissi della psiche femminile, con quel pozzo ancestrale che è «la ragazza delle ragazze», la mamma. L’intrico e la
complessità dei vari piani narrativi sono tali
che il lettore rischia di trovarsi nella stessa situazione dei personaggi del romanzo, irrimediabilmente smarrito. Il romanzo Casa di foglie somiglia infatti terribilmente alla casa di
foglie di cui racconta: anch’esso è un corpo
vivo che seduce e minaccia al contempo, un
buco nero che prima ti accoglie e poi ti fagocita.
Dei fantasmi non si può fare a meno
È attorno a due ingredienti fin troppo triti – il
ritrovamento di un manoscritto e la casa stregata – che Mark Danielewski ha costruito il
suo edificio letterario dove la distinzione tra
scrittura e lettura, tra l’atto di inventare storie
e quello di crederci, viene ridotta al minimo
se non addirittura ribaltata. Il confine tra il
mondo interno al romanzo e quello esterno è
labile, costituito da una sorta di specchio magnetico che riflette soltanto il lato mostruoso
delle cose e delle persone, reali o fittizie che
siano. Analogamente al Lunar Park di Ellis, la
Casa di foglie di Danielewski riporta la forma
romanzesca alle sue origini più oscure e paurose, al suo cuore rivelatore, ai fantasmi che
infestato la fantasie degli scrittori e dei loro
lettori. Fantasmi che a volte possono essere i
nostri padri e altre volte le nostre madri, ma
che fantasmi comunque sono e rimangono.
Perché sono proprio loro, i fantasmi, l’ingrediente di cui ogni romanzo non può fare assolutamente a meno. Perché alla resa dei conti, per un verso o per l’altro, qualunque cosa
racconti e comunque la racconti, ogni romanzo è e sempre rimarrà un romanzo dell’orrore.
domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
CULTURA
La vita che scorre
in un clic
«Perdre la tête», le fotografie di François-Marie Banier in mostra a Villa
Medici fino al 9 gennaio. Ritratti di artisti e scrittori famosi, di donne
e uomini senza un nome, segni misteriosi di esistenze che si sfiorano
L
ARIANNA DI GENOVA
ui non cerca niente. Quando va in giro lo
fa senza una precisa mèta. Semplicemente, cammina, si guarda intorno e alla fine scatta.
Succede però che spesso torni sui medesimi luoghi, ripercorrendo le stesse vie, quasi ci fosse una
calamita a guidare i suoi passi. E in questi flashback del ritorno incrocia la varia umanità che popola la città. Pompieri, prostitute, ragazzi sbruffoni, preti, corpi freak,
amanti, esseri solitari dalla mente «perduta». In scena va allora il mondo degli
inclassificabili, gli invisibili, individui che
si trovano ai margini delle grandi metropoli e che vivono una loro forma di libertà
paradossale, sia essa nel disagio psichico
o nella vita raminga di chi è senza tetto né
affetti.
François Marie Banier, scrittore (a ventidue anni ha pubblicato il suo primo romanzo La Résidences secondaires e poi
nel 1985 Balthazar, fils de famille) oltre
che fotografo internazionale, alterna nelle
sue immagini due tipologie differenti di
«eroi»: le icone della strada - clochard, anziani,
rapper, animali, ragazzini in maschera - e quelle
del mondo del cinema, meta-corpi già passati al
setaccio dal grande schermo. Nella sua bella mostra appena inauguratasi a Villa Medici dal titolo
Perdre la tête, a cura di Martin d’Orgeval (visitabile fino al 9 gennaio 2006) sfilano i due universi
paralleli, con un fil rouge che tutto intreccia, l’espressività del volto, l’intensità del gesto, del sorriso, della smorfia. Può capitare così che a una assorta Jacqueline Picasso e a una dark Silvana
Mangano immersa nella penombra di se stessa, si
accosti - nell’allestimento di un percorso espositivo - l’anonima esistenza di una vecchietta che
fruga nei cassonetti, mantenendo intatta l’eleganza del suo portamento antico. Oppure che il
silenzio eloquente di un Michelangelo Antonioni,
seduto al tavolo con sua moglie, si intersechi per
François-Marie
Banier, Jardin des
Tuileries, Parigi
giugno 2005; a sinistra, rue de l’Abbaye,
Parigi 1 aprile 2005,
sotto, Avenue Klèber,
Parigi maggio 2005
Notizie dal vortice Dada
Al Centre Pompidou una mostra con oltre millecinquecento pezzi
ANNA MARIA MERLO
All’inizio c’era il caos. Un caos
reale, la guerra del 14-18 contro la
quale nacque un movimento intellettuale e artistico simultaneamente a Zurigo e a New York, ma
che subito oltrepassò le frontiere,
per dilagare a Parigi, Barcellona,
Berlino, Hannover e Colonia. Il
movimento Dada fu avviato durante il massacro della Somme nel
’16, prima delle ammutinazioni
del ‘17 e in contemporanea alla rivoluzione d’ottobre, su una base
di anti-patriottismo che lo avrebbe fatto diventare il bersaglio di
tutti i nazionalisti, per poi lasciare
all’inizio degli anni ‘20 spazio ad
altri movimenti più strutturati, a
cominciare dal surrealismo. Lasciò una eredità che si fa sentire
ancora oggi passando per i situazionisti e arrivando fino ai punk,
anche se per il momento sembrano prevalere i suoi aspetti più superficiali: «dadaista», infatti, è diventato un termine diffuso per definire generi diversi di eccentricità.
Ma forse non è un caso se la crisi attuale spinge a tornare a quelle
che furono le origini di una banda
che aveva fatto del gesto gratuito
il simbolo della rivolta contro la
macelleria della guerra in corso.
«Diffidate di Dada», diceva Tristan Tzara, fondatore della rivista
dove nel ‘18 venne pubblicato il
Manifesto del movimento che
«dubita di tutto». «Non riconosciamo nessuna teoria» – scriveva. «Ne abbiamo abbastanza delle
accademie cubiste e futuriste: laboratori di idee formali. Si fa arte
per guadagnere dei soldi e per accarezzare il gentile borghese?».
Marcel Duchamps, rispondendo a una sollecitazione di Tzara
che lo invitava a partecipare a una
mostra, affermava: «non ho nulla
da esporre – la parola esporre assomiglia alla parola sposare».
Alla grande mostra dedicata a
«Dada» che il Centre Pompidou
ha allestito fino al 9 gennaio (la
prima dal ‘68) c’è invece molto da
vedere: 1576 pezzi tra manoscritti,
disegni, collage, riviste, fotogrammi, oggetti, pitture, lettere, opuscoli, manifesti, film, caricaturte,
ritagli di stampa, esposti inseguendo il tentativo di contestualizzare e evocare le grandi tappe
del movimento, dalla mostra di
Max Ernst a Parigi nel ‘21 al Saint
Pareil, a quella di Picabia a Barcellona nel ‘22 passando per la Dada
Messe di Berlino del ‘20, a cui partecipò anche Otto Dix.
Più di mille sono le opere dei
circa cinquanta artisti rappresentati – tra loro Tzara, Louis Ara-
gon, Man Ray, Max Ernst, Marcel
Duchamps, Jean Arp, Francis Picabia, Paul Eluard, Sophie Taueber-Arp – e l’organizzazione espositiva è talmente razionale da rispettare paradossalmente il caos
originale: un grande rettangolo diviso in cinquanta piccoli quadrati,
delle stanzette esigue da cui si può
uscire e entrare per costruirsi un
percorso personale, senza obblighi e senza troppe spiegazioni,
tanto che si ha l’impressione di
dovere già conoscere il movimento per potersi orientare.
L’attenzione per il Dada invade
in questo periodo tutta Parigi, le
cui vetrine espongono, tra l’altro,
la riedizione di Dada à Paris di
Michel Sanouillet (ed. Cnrs), Dada, histore d’une subversion di
Henri Béhar e Michel Carassou
(Fayard), Dada en verve (ed. Ho-
ray), Dada libertin et libertaire, di
Giovanni Lista (ed. L’insolite).
Dice la leggenda che fu Tristan
Tzara a trovare, mettendo a caso
un tagliacarte nel dizionario, la
parola dada: un caso fortunato,
che ben corrispondeva agli intenti
di un movimento internazionale e
internazionalista. Dada, infatti,
non vuole dire nulla e al tempo
stesso ha molti significati: in francese «cavallino di legno», in tedesco «va, arrivederci, alla prossima», in rumeno «sì, veramente, ha
ragione, è così, ce ne occuparemo» come rivendicava, del resto,
il manifesto di Hugo Ball che lui
stesso lesse al cabaret Voltaire di
Zurigo il 14 luglio del ‘16. Tra le
mire del movimento Dada c’era,
tra l’altro, quella di disorganizzare
le lingue per costruire una Dadalingua estranea anche a se stessa,
una lingua nuova e al tempo stesso capace di rispondere alla violenza afasica della guerra in corso,
condita dai discorsi nazionalistici
e identitari. Un simile meccanismo di destrutturazione veniva
proposto nel linguaggio visivo, a
partire da oggetti di recupero, o
banali, in coincidenza con lo
smantellamento della impalcatura che aveva portato alla guerra:
«Si pretende che l’arte sia orientata verso un ideale – scrive Raoul
Hausmann nel ‘20 – ma in verità
ha sempre servito i fini delle classi
dirigenti e contribuito, non senza
condiscendenza, a ricorprire con i
veli della bellezza le loro concezioni della proprietà e i loro metodi di sfruttamento».
Anche la rottura del gruppo avvenne, non a caso, in una occasione simbolica: nel ‘21 venne montato il falso processo a Barrès, l’accademico patriota nazionalista e
anti-dreyfusardo presente in aula
sotto forma di manichino. André
Breton si autonominò presidente
del tribunale, ma la messa in scena non piacque a Picabia né venne
condivisa da Tzara, che scrisse:
«non ho nessuna fiducia nella giustizia, anche se questa giustizia è
fatta da Dada».
avventura con il rugoso pensiero dell’artista
Louise Bourgeois, o la allegra pipì in strada del
fanciullo africano.
«Quando fotografo, mi servo della luce interiore dell’altro - spiega Banier - per questo di rado
lavoro in studio, con luci artificiali. Preferisco
inoltre che l’altro non sappia delle mia presenza
se non all’ultimo secondo: avviene uno scambio,
spesso attraverso lo sguardo. Bambino, gobbo,
credente, vecchio sanno che quello che portano
in giro è l’espressione di migliaia di lotte, di sentimenti, di reazioni alla vita, al tempo che fu il loro,
e che una linea contiene tutto questo».
Il punto di fuga della composizione delle fotografie di Banier è sempre nel volto: con una prospettiva rinascimentale «corretta» dal primo piano del cinema degli albori, che colloca al centro
dell’inquadratura il «fuoco», il
soggetto protagonista, gli esseri
umani vengono indagati nella loro
emotività. Lo stile è nel sentimento, in quell’anima in faccia che
tutti sbandierano in un quotidiano che altrimenti, senza l’occhio
del reporter, annacquerebbe e annegherebbe la preziosa unicità di
ognuno.
Il «perdere la testa» del titolo,
allora, finisce per significare il rischio dell’arte, lo spavento dell’impatto con un mondo totale,
quel miscuglio di esistenze che si
collocano sulla strada, pianeti
aperti, ignoti, fuori dai binari precostituiti, dalle regole sociali. Il ritratto è per Banier un atto quasi
estremo, «osceno» nel suo svelare
la carnalità delle persone. La calda
atmosfera del quadretto famigliare di Emir Kusturica (Normandia,
dicembre1992), con più generazioni radunate intorno all’obiettivo
finisce per creare un cortocircuito
con la serie di scatti Quai François Mitterand, Paris (2004) e la solitudine allucinata della signora
che uno dopo l’altro si toglie gli indumenti per
sdraiarsi al sole, tenendosi accanto la sua intera
esistenza in un paio di buste di plastica.
Intanto, in un intenso bianco e nero, Claude
Lévi-Strauss fa capolino, pupille dilatate dall’intelligenza, volto proteso verso l’altro. Tutti i personaggi famosi scelti per il libro edito da Gallimard (che è anche il catalogo della mostra di Villa Medici) hanno in comune, dice Banier, «una
certa aria di riflessione nello sguardo che si spinge oltre il cliché dell’artista». Gli altri, gli emarginati e i vecchi sconosciuti «posseggono una certa
musicalità. Che sia essa sincera o beffarda, mi rimane famigliare». Sono divagazioni, hanno nel
corpo un segno anti-convenzionale simile al fluire dei sogni.
13
D I V I N O
Ratzinger
senza Cina
FILIPPO GENTILONI
a Cina fra le principali attenzioni del Vaticano
nonché fra le prime preoccupazioni del nuovo
papa. Lo ha confermato il sinodo dei vescovi:
Benedetto XVI ha rinnovato, nella conclusione,
il rammarico per l’assenza dei quattro rappresentanti
cinesi. «Con viva pena abbiamo sentito la mancanza
dei loro rappresentanti. Voglio assicurare tutti i presuli
cinesi che siamo vicini con la preghiera a loro e ai loro
sacerdoti e fedeli». Il contenzioso fra Roma e Pechino,
dunque non è chiuso, anche se negli ultimi anni ha subito notevoli oscillazioni. I cattolici cinesi non sono pochi: circa 10 milioni, divisi in parti più o meno eguali fra
quelli obbedienti a Roma e la chiesa «patriottica». Uno
scisma strisciante e silenzioso: Roma, già con Giovanni
Paolo II, è stata attenta a mantenere lo scisma un po’
sotto tono. I contatti fra le due chiese non sono mai
mancati: fra i quattro vescovi invitati al recente sinodo,
ben tre fanno parte della chiesa patriottica.
Il principale nodo del contendere è la pretesa di Pechino che non vuole assolutamente ingerenze straniere
nella vita interna, anche religiosa, dei cinesi. Perciò la
nomina dei vescovi prescinde totalmente da Roma, anche se poi il Vaticano spesso ha ratificato le nomine
fatte da Pechino. Nel contenzioso, poi, non si deve dimenticare il riconoscimento ufficiale di Taiwan da parte del Vaticano, riconoscimento che, ovviamente, offende Pechino. Negli ultimi mesi, sembra che il Vaticano
stia rinnovando gli sforzi per arrivare a un accomodamento. Svariati i motivi: da una parte l’importanza della Cina nel quadro geopolitico mondiale, sia per il numero dei suoi abitanti, sia per il crescente influsso politico ed economico, in un mondo sempre più globalizzato. Una situazione dalla quale il cattolicesimo non
vuole certamente essere estraniato. Si aggiunga la novità di Benedetto XVI: sarebbe importante che i primi
passi del pontificato fossero accompagnati da qualche
successo ecumenico, successo che non sembra probabile fra i cristiani (anche se con gli orientali esiste qualche possibilità, più che con i protestanti). Un accordo
con Pechino sarebbe notevole per l’immagine del papa
nel mondo.
L’accordo, comunque, non sembra facile, come è
stato confermato dalla proibizione imposta dal governo
ai vescovi cinesi invitati al sinodo. La loro assenza è stata pesante e significativa. Una risposta dura alle «avances» romane, proprio mentre tutto il mondo guarda alla Cina con grande interesse, in un insieme di ammirazione e di preoccupazione.
L
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
14
VISIONI
A TEATRO
«By Gorky» di Alvis Hermanis ha aperto il festival «Vie»
di Modena, raccontando un mondo occidentale che si è allungato
a est. Il cibo come un tavolo anatomico delle Ariette, il re consunto
dal potere di Delbono e l’appuntamento con Sosta Palmizi
BY GORKY
Una casa di vetro che allude alla realtà
A
GIANNI MANZELLA
lvis Hermanis si era rivelato un paio
d’anni fa sui palcoscenici europei
con un bellissimo Revidents, per noi il Revisore,
che ambientava la grottesca commedia di Gogol fra i fornelli di una sorta di trattoria familiare, di mensa di paese o di periferia, per raccontare così gli anni ‘70 della stagnazione brezhneviana, là nella lontana provincia del declinante
impero sovietico. Con un gusto quasi filologico
per il dettaglio d’epoca, la moda come la musica del periodo, l’immagine fisica stessa dei personaggi, un esercito di donnone dalle forme
esagerate, di omoni affannati dalle grandi pance posticce, laddove l’obesità valeva tanto da
manifestazione patologica quanto da manifestazione sociale dell’appartenenza all’apparato
dello stato. È invece Gorky la chiave scelta dall’artefice del Nuovo teatro di Riga per penetrare
nel presente di un mondo occidentale che si è
allargato a est fino ad arrivare agli Urali, in questo magnifico By Gorky che ha aperto il festival
Vie. E se là era l’olfatto il primo dei sensi coinvolti per lo spettatore, con l’odore di soffritto
che saliva dalla scena fin nelle ultime file del
teatro, qui tutto riconduce allo sguardo, all’atto
distante del vedere, come può sembrar ovvio
per parlare di una società che si definisce dell’immagine e però non a caso anche quello fra i
cinque sensi che meno comporta un coinvolgimento fisico, un contatto con l’altro, che può
lasciare ciascuno dentro la propria solitudine.
Ecco infatti sulla scena una struttura che
sembra alludere esplicitamente al reality show
televisivo. Una casa di vetro, che rende trasparente la vita dei suoi abitanti, un gruppo numeroso di giovani donne e uomini che vive una
ambigua quotidianità sotto l’occhio indiscreto
di una videocamera (a maneggiarla è l’autrice
della scenografia, Monika Pormale). Dietro le
pareti vetrate si intravede una suddivisione informale degli spazi, la cucina da un lato e di
fronte la zona giorno con divani e poltrone e il
televisore utilizzato solo per il karaoke di Knockin’ on heaven’s door o Don’t cry for me Argentina, più in fondo la palestra e il letto visibile
solo quando ripreso in video. Ma all’azione che
si svolge all’interno della casa è sottratto il sonoro, di quella vita ci giunge solo un attutito
rumore di fondo che si fonde col basso continuo di un tema musicale, accrescendo la sensazione di un nascosto spiare. A turno escono da
lì, da una porta che si apre di fronte, in esterno,
dov’è sistemata una panchina e qualche sedia.
Dialogano fra loro con le parole dell’autore dei
Bassifondi o con le proprie, raccontano le loro
ossessioni, trasformandosi essi stessi in personaggi giacché poi tutti si presentano con il proprio nome, a cominciare dal regista presente
anche in veste di interprete. In un continuo
gioco di sponda fra verità e finzione che, ci accorgiamo, è il tema di By Gorky.
Chi sono infatti quelli che ci si mostrano qui
esposti in una dubbia intimità? Attori certo,
come dicono le immagini riproposte delle prove dello spettacolo, l’esposizione del processo
creativo che apre nell’immobilità degli interpreti, indifferenti alla rivolta degli oggetti mossi da
sottili fili rossi. Ma attori che giocano un ruolo,
Un momento di «ByGorky» di Alvis Hermanis
Un campo di battaglia tra manichini e amazzoni
Non tutto è ugualmente apprezzabile nel
programma di questi dieci giorni a Vie (si chiude
stasera con Alva Noto e Ryuichi Sakamoto al
Comunale). La curiosità per l’accostamento
delle parole erotiche di Dennis Cooper e
Catherine Robbe-Grillet nella coreografia di
Gisèle Vienne Une belle enfant blonde scivola
nella noia di un bla bla non riscattato dalla
presenza in scena dell’anziana scrittrice tra
manichini di jeunes filles, né dalla statuaria
bellezza dell’interprete, troppo perfetta per
provocare fremiti. Ma si percepisce un disegno
nella manifestazione modenese. La scelta in
favore di una contemporaneità del linguaggio
che diventa anche generazionale, al di là
dell’omaggio ai due maestri Kentridge e
Kiarostami, presenti però solo con una
installazione visiva. Così come quella di
affiancare presenze internazionali non scontate
all’area italiana di quel che potremmo chiamare
teatro di creazione scenica, ormai generazioni
diverse, da artisti affermati quali Delbono e
Barberio Corsetti ai giovanissimi gruppi
Orthographe e Habillé d’eau in uscita appunto
dalla Biennale veneziana (ma l’oscuro
Ragazzocane delle ragazze romane rivela una
struttura drammaturgica da ripensare). Ecco
allora il Teatrino clandestino di Pietro Babina e
Fiorenza Menni con L’alba di un torturatore
fresco di debutto parigino e Teatro Valdoca
concludere la bella impresa di Paesaggio con
fratello rotto, mentre Motus prosegue nelle
tappe di studio del suo fassbinderiano Piccoli
episodi di fascismo quotidiano. Inevitabile poi
che l’interesse si rivolga ai lavori che vengono
da più lontano. Come Pour Penthésilée di Daria
Lippi, italiana che lavora in Normandia e recita in
francese le parole di Kleist, volgendo in prima
persona la vicenda della regina delle amazzoni
per una prova d’attrice che rivela nel corpo il
vero campo di battaglia. C’è guerra anche
dietro We are all Marlene Dietrich FOR della
coreografa e danzatrice finlandese Erna
Omarsdottir, in cui la collaborazione di Emil
Hrvatin porta un’eco di Jan Fabre ma che rivela
anche un talento compositivo reale. Sottotitolo,
performance per soldati in missione di pace. E i
dieci interpreti ballano e cantano per allietare le
truppe internazionali riprese sul fondale. Ci si
diverte, o almeno così sembra. Perché il
divertimento scivola in azioni sempre più crude
e l’Imagine di Lennon si rovescia in un mondo
senza più arte cinema musica sport. Provate a
immaginare. (g.man.)
una parte spesso letta da copione. E c’è poi ancora quell’altro gioco scenico che asseconda
evidentemente un altro copione scritto ma che
corrisponde al qui e ora dello spettacolo. Personaggi in cerca d’attore. C’è l’Attore, con la
maiuscola, che ha perduto la memoria. La bella
del gruppo che cambia ossessivamente la gonna. Quella che è vittima degli scherzi pesanti di
tutti. Il nano che è stato campione di sollevamento. E a confondere ancor di più le carte, c’è
pure la contrapposizione delle due immagini
filmate che vanno in parallelo sui due lati dello
schermo che sovrasta la struttura vetrata. Quelle delle prove, congelate nella memoria magnetica, che di tanto in tanto fanno ascoltare
squarci di confessioni degli attori. E quelle in
presa diretta che indugiano su particolari dei
corpi, amplificano i dettagli delle azioni. Dove
non succede nulla, come Cechov insegna. Non
c’è sviluppo o vicenda. Piuttosto un senso di attesa, uno struggimento per la vita che scorre fra
le dita. Chiacchierano. Ballano. Preparano da
mangiare. Si abbandonano a giochi infantili.
Praticano vigorosi massaggi in un crescendo
mahleriano. Allora ti accorgi che la verità del
teatro fa piazza pulita di qualsiasi illusoria reality, che la finzione che costruiscono è densa di
una verità irraggiungibile da un’illusione di
realtà. Perché questo gruppo di donne e uomini che ha oltrepassato la linea d’ombra della
maturità, e sta lì su quella soglia incerto sulla
direzione da prendere, lo conosciamo bene. Ci
siamo passati per queste feste allegre e tristi
che non vogliono finire, a notte, quando il tasso
alcolico ha liberato la mente e un po’ i corpi. La
voglia di appartarsi, di nascondersi, di farsi cercare. Il desiderio di abbracciare qualcuna/o. Di
ballare come un tempo. I pensieri che vogliono
uscire, e sembrano d’improvviso profondi. E
quando loro intonano Killing me softly, ormai
diventato il tema conduttore dello spettacolo,
davvero è troppo. La commozione rischia di
travolgerci. Uomo – che nome maestoso, dice
la scritta illuminata in rosso a lettere capitali
(in lettone, ma c’è la traduzione). Che intenzione ambiziosa, quella di Hermanis, di parlarci
dell’uomo. Ma se non di questo, cosa?
PATATBOEM/ENRICO V
IL CORTILE
Un esorcismo contro la guerra
Vent’anni con i sei di Sosta Palmizi
GIANFRANCO CAPITTA
CARPI
Un altro festival ricco e metropolitano, nel senso letterale che questo
Vie che si conclude oggi si è per
una settimana allungato da Modena a Vignola verso est, e verso nord
in direzione di Carpi. Così che
muovendosi sembrava di percorrere la megalopoli emiliana raccontata da Tondelli. Due le esperienze
forti nella capitale della maglieria
italiana. Una che dal teatro si allarga verso la vita quotidiana, perché
nel Centro anziani carpigiano i
belgi del gruppo Laika hanno trasformato un concerto nella preparazione del pranzo. Rimane sempre aperta la questione posta dalle
Ariette (senza arrivare a Brecht
per pudore) se mangiare a teatro,
anzi trasformare il cibo nella materia prima dello spettacolo, giovi
o nuoccia a quello che la scena
vorrebbe esprimere.
In questo Patatboem c’era però
da divertirsi, perché i sei ragazzi e
la ragazza cominciano suonando
le bottiglie e le caraffe prima di
portarle ai tavoli, ma da quel momento strumenti musicali, elettrodomestici e stoviglie gareggiano
per più di un’ora quasi come un
lungo aperitivo. Alla fine, tagliate
le verdure, stufata la carne, amalgamato il purè si mangia davvero,
sulle tavole sbilenche che evocano
Una scena da «Patatboem» delle Ariette
un’aula di anatomia. Qualcuno,
poco esterofilo, va a mangiarsi i
tortelli altrove. La gran parte del
pubblico apprezza, la comunicazione si è fatta molto ravvicinata,
il dessert gelato risulta buonissimo.
Un viaggio nella profondità dello spirito del teatro è invece quello
che ci mostra Pippo Delbono con
un suo antico spettacolo, che pochissimi però hanno visto, perché
risale a prima di Barboni. E’ rara
l’occasione quindi, ma è raro anche il fatto di vedere Delbono alle
prese con una drammaturgia che
nasce addirittura da Shakespeare.
Si tratta infatti dell’Enrico V, alle
prese con le sue contraddittorie
guerre contro la Francia. E come
nell’originale, lo spettacolo si apre
col funerale di Falstaff che del re è
stato compare e rivale. Qui il protagonista assoluto è lui, Enrico/
Delbono, consumato dal potere ma
violento come un leone, tanto crudele quanto fratello di altri infelici
re shakesperiani. Pochi gli attori
della sua compagnia abituale (Pepe Robledo e Gustavo Giacosa), e
una truppa di giovani allievi a impersonare gli opposti eserciti. Bardati nell’opacità scabra di lane pesanti, in eterno movimento guerresco e interiore, rosi dal comando e
dal modo di ingraziarselo, Delbono
e gli altri compiono una sorta di
esorcismo contro tutte le guerre, il
loro prezzo di sangue e l’insensatezza delle loro motivazioni. L’orrore non è sulla scena con loro, ma
nelle radici culturali e avide che ne
sono all’origine. Un affresco storico, «alla maniera di Pippo», che
colpisce come un cazzotto, e sembra già contenere le future visioni
liriche di altri spettacoli. Un tassello importante per capire un percorso teatrale basato sul rigore e
sulla generosità. Citato nel film
che Delbono sta ultimando, questo
Enrico V è stato invitato prossimamente al festival shakespeariano di
Stratford on Avon.
FRANCESCA PEDRONI
MODENA
Michele Abbondanza, Francesca Bertolli, Roberto Castello, Roberto Cocconi, Raffaella Giordano, Giorgio Rossi.
Sei nomi che insieme hanno dato una
scossa fondante alla danza italiana. Un
balzo indietro nella memoria di vent’anni ed eccoci là a rivedere quei sei
magnifici ventenni, freschi dall’avventura con Carolyn Carlson alla Fenice di
Venezia e già pronti a fare insieme
qualcosa di diverso, qualcosa abitato
da un guizzo italiano, impastato alla
voglia di raccontare se stessi con un
linguaggio del corpo impregnato di
terra, storie e tattilità quotidiane. Sei
paladini di un teatrodanza che lasciava
le rive simboliche del lirismo carlsoniano per esplorare un’altra umanità del
segno, più primigenia e artigiana. Si
scelsero un nome: Sosta Palmizi e il loro titolo d’esordio, Il Cortile, fu un piccolo miracolo di creatività, intelligenza
e capacità collettiva. Era il 1985. Oggi i
sei guidano esperienze indipendenti e
la Sosta Palmizi, trasformata in Associazione, continua ad essere attiva, gestita dai soli Rossi e Giordano. Ma un
compleanno è un’occasione da non
perdere non sfuggita a «Vie – Scena
Contemporanea Festival» che ha ospitato La Finestra sul Cortile – 1985-2005
Il Cortile vent’anni dopo -, una giornata
di incontri (tavola rotonda guidata da
Eugenia Casini Ropa e Andrea Nanni),
proiezioni e spettacoli con i sei della
Sosta. Un momento per fare un bilancio, ma anche per rivedere in video Il
Cortile del 1985: un pezzo della nostra
storia teatrale che continua a funzionare per intelligenza di montaggio,
ideazione collettiva, per la comunicazione di un’autenticità dello stare in
scena. Certo stringe un po’ il cuore valutare come la complicità creativa di
quegli anni Ottanta, i premi importanti ottenuti da Il Cortile, Ubu e altri, non
siano bastati a far sì che sulla Sosta
(come su altri artisti portanti della
danza italiana) ci sia stato un investimento pubblico davvero significativo.
Dopo vent’anni si è sempre in lotta. E
«Il Cortile» di Sosta Palmizi
la lotta è un luogo di intenzioni, speranze, progetti: come «la nascita di un
luogo di incontro dove insegnare, trasmettere, sviluppare la differenza nel
dialogo e magari creare di nuovo qualcosa tutti insieme. Sento che sarebbe
possibile» (Raffaella Giordano).
Corposa la maratona degli spettacoli firmati dai sei proposta al teatro delle
Passioni e allo Storchi dalle 19 alle 2 di
notte: un viaggio tra gli sposi stralunati
delle Stanze di Roberto Castello e Alessandra Moretti, l’intimità solistica di
Giordano (Tu non mi perderai mai), l’ironia grottesca di Giorgio Rossi (Alma), il montaggio memoriale in video
di Bertolli, le danze di coppia ballate
per strada di Cocconi (Le Mura), il gesto tragico e spezzato di Polis di
Abbondanza/Bertoni: una sorta di
omaggio a Kantor, Polis, che pur citando tra le righe Pina Bausch (Blaubart e
Sagra) e Josef Nadj (casa/cubo smontabile e bombetta), disegna con forza
un’umanità straziata. E il dolore, la
lontananza, il rimando a un luogo della memoria perduto appartengono anche a un altro titolo ospite del festival:
Last Landscape – autoritratto davanti
a un paesaggio: duo proprio di Josef
Nadj, ancora in scena stasera al teatro
delle Passioni. Lo interpreta l’autore
insieme al musicista Vladimir Tarasov
e ci rapisce per la poesia pittorica e
musicale di un racconto personale che
esce dal sé per consegnarci un ulteriore sguardo sull’uomo, stordito tra la
bellezza e la fatica di stare al mondo.
domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
VISIONI
S
15
NICOLA SCEVOLA
LONDRA
e «diversità culturale» è la parola chiave che contraddistingue il
London Film Festival, E il vento fa il
suo giro non poteva scegliere miglior
sede per fare il suo debutto. Questo
nuovo film italiano, una delle pochissime pellicole inedite ad essere lanciata
durante il festival che si svolge in questi giorni sulle rive Tamigi, è infatti un
film che parla di diversità – del rapporto tra culture differenti come occasione per misurare la capacità di accettazione dell’uomo. Fra una vasta
gamma di film e produzioni sperimentali da tutto il mondo, questa particolare pellicola italiana trova facilmente
una sua collocazione in un festival famoso per dare spazio a produzioni indipendenti e originali.
«La diversità è una delle caratteristiche fondamentali di questa manifestazione», conferma Sandra Hebron,
la direttrice artistica del festival che ha
personalmente scelto questo film diretto da Giorgio Diritti, regista bolognese al suo esordio nel lungometraggio. «Quest’anno abbiamo cercato di
selezionare film di un genere che chiamerei post 9/11. Ovvero pellicole che
vogliono stimolare la gente a pensare
al modo in cui vive e a farsi domande
sul mondo che ci circonda».
E se una riflessione sul valore delle
tradizioni antiche e sulle contraddizioni che queste possono generare nello
scontro con la realtà moderna può
stuzzicare la mente, allora E il vento fa
il suo giro rientra perfettamente nella
categoria prediletta dalla direttrice del
festival. Senza andare a cercare il diverso in luoghi remoti, Diritti rivolge lo
sguardo della sua cinepresa ad una
micro realtà italiana – quella di una
comunità montana delle valli occitane
piemontesi. Qui si parla ancora la lingua d’oc – saggiamente conservata nel
film con l’uso di sottotitoli – e si vive
un’esistenza sospesa tra passato e pre-
Al London Film Festival «E il vento fa il suo giro», opera prima di Giorgio Diritti sulle minoranze linguistiche occitane
Le divergenze
culturali d’Oc
Festival di Londra
Anteprima mondiale
di un film italiano
in concorso,
«E il vento fa il suo
giro», opera prima
di Giorgio Diritti,
girata in digitale
nelle valli piemontesi
di lingua occitana
sente, che accomuna queste valli delle
Alpi Cozie a quelle del midi francese.
L’antica cultura di questa comunità, il
cui idioma era citato già da Dante come la lingua poetica per eccellenza, sta
sparendo. I ritmi moderni, lo spopolamento delle montagne e l’abbandono
dei lavori tradizionali, rende il villaggio
occitano del film una specie in via d’estinzione.
Proprio queste sono le premesse
che dovrebbero rendere benvenuto un
forestiero – interpretato dallo scenografo francese Thierry Toscan, al suo
debutto come attore – che decide di
trasferirsi nel villaggio con la sua famiglia per riprendere un’attività dimenticata, allevando capre e producendo
formaggio. Ma dopo un inizio promettente, le diversità della famiglia «che
viene da fuori» si scontrano con la
mentalità dei valligiani in una spirale
senza ritorno. «Il rapporto con l’altro,
il diverso, è il punto centrale della narrativa del film», spiega Giorgio Diritti.
«Ed è l’occasione in cui poter misurare
la capacità dell’uomo di andare al di là
di questa diversità – giungendo alla
convivenza oppure al conflitto». Un
viaggio nei sentimenti e nelle pulsioni
della natura umana, quindi, che dà
ampi spunti di riflessione, ma anche
possibilità di raccontare una cultura
poco conosciuta – quella dei montanari occitani – attraverso le prospettive, a volte sagge a volte claustrofobiche, degli abitanti di queste valli.
Lo stesso titolo del film è tratto da
una frase che riprende un proverbio
popolare tipico di questi posti, citato
da uno dei personaggi: «Il vento fa il
suo giro e tutto prima o poi ritorna». Il
vecchio pastore che snocciola questa
filosofia spiccia lo dice in segno di
buon auspicio, per celebrare l’arrivo
del forestiero, intenzionato con i suoi
formaggi a far rinascere una delle antiche tradizioni della valle. Ma il limite
umano si manifesta anche di fronte alle più nobili intenzioni e, gradualmente, il nuovo arrivato si scontra con i
montanari in un crescendo di fraintendimenti ed attriti. La trama è semplice, priva di colpi di scena, ma la bellezza dei luoghi e l’originalità della cultura trattata fanno di questo film un
debutto interessante, frutto di uno
sforzo produttivo che ha visto la partecipazione attiva sia degli attori principali – tra cui Alessandra Agosti, Dario
Aghilante e Giovanni Foresti, tutti debuttanti – che dei membri della troupe. Attraverso le proprie prestazioni,
infatti, ognuno di loro è entrato in coproduzione, garantendosi una quota
del progetto finale. E se la tecnologia
digitale con cui è stato realizzato, purtroppo, non sempre rende giustizia alla bellezza dei panorami delle valli cuneensi dove è stato girato, ha il vantaggio, però, di abbassare notevolmente i costi di realizzazione. Grazie a
questa – e alla formula di compartecipazione – E il vento fa il suo giro è riuscito a vedere la luce con un budget
modesto. Ma nonostante ciò, ha fatto
un brillante esordio al festival londinese, dove si è aggiudicato ben due diverse nominations: una nella sezione opere prime e una per il premio della critica.
Voglio un parto post-datato, in un mondo così
Al festival del cinema di Tokyo «Tre anni incinta» di Miako Tadano, sul rifiuto di nascere nel Giappone d’oggi
PIO D’EMILIA
TOKYO
È diventato maggiorenne il Festival internazionale del cinema, ma non decolla. Ogni anno ce
n’è una. Migliorata l’organizzazione – dopo anni di code inutili e sale vuote i giornalisti hanno
capito che per vedere i film basta rivolgersi alle
produzioni - quest’anno c’è il problema «sicurezza». Sta per arrivare Bush e Tokyo approfitta d’ogni manifestazione per mettersi alla prova. Con la conseguenza che mentre negli aereoporti i vecchi metal detector fanno passare
monete e tagliaunghie, nel lussuoso complesso
di Roppongi Hills, dove l’anno scorso un bimbo
fu schiacciato da una porta scorrevole, non
passa nemmeno un plettro di chitarra. Manca
poco che bisogna denudarsi, per accedere alle
sale. Dei 15 film in gara – anche Tredici a tavola di Oldoini e Tre giorni di anarchia di Zagarrio – ha colpito l’inquietante Gerumanium no
Yoru (Il sussurro degli dei) di Tatsushi Omori,
dallo stupendo romanzo di Mangetsu Hanamura, vincitore due anni fa del prestigioso premio Akutagawa. Un inno alla profanazione che
solo l’esasperato laicismo del Giappone può
lanciare, seppur di tanto in tanto, visto il letar-
go in cui si richiudono per lunghi periodi le sue
menti più creative. Non è il caso di Miako Tadano, regista esordiente poco più che ventenne
di Tre anni incinta, già suo romanzo, un po’
scontato ma raccontato in modo inusuale, su
un essere che non vuole nascere ma restarsene
al sicuro nella pancia della madre. Lo fa per 3
anni, poi, quando «sente» che il marito/padre
comincia a comportarsi con senso di responsabilità, decide di nascere. E lo fa come un puledrino, già pronto a sgambettare. Nulla di eccezionale, se non che con la scusa del parto postdatato la regista offre uno spaccato niente
male del malessere giovanile. La sorella minore
di Fuyuko, protagonista della gravidanza impossibile, si innamora del ginecologo, uomo
dolce e apparentemente posato, che ha però il
vizio del travestimento. Al momento del parto,
che avviene in uno chalet di montagna, il dottore viene sorpreso allo specchio, mentre sta
truccandosi da donna per soddisfare le carenze
affettive della sorella: «con un uomo posso solo
scopare, e anche male – io ho bisogno di parlarti, e solo se ti travesti riesco a farlo». Solo a
Tokyo vi sono almeno 10.000 «cosupuray»
(dall’inglese «costume play») che la sera offrono ai clienti la possibilità di scegliere tra un
ampio guardaroba. Un modo come un altro
per affermare la propria personalità – o una
delle tante – senza suicidarsi, come fanno, al
ritmo di uno ogni 15’, oltre 35 mila persone
l’anno.
Nel frattempo, una delle pellicole più attese
(dai cinephiles) non trova ancora un cinema
disposto a ospitarla, Il sole del russo Sokurov,
ultimo atto della trilogia sui dittatori del ‘900.
La pellicola, in gara a Berlino, la prima nella
quale un attore giapponese (Issei Ogata) ha accettato di impersonare Hirohito, non offre dal
punto di vista della ricostruzione storica, spunti particolarmente rivoluzionari. Più che stabilire che l’attuale isolamento giapponese – provocato dall’incapacità dei governanti di chiudere i conti con la storia – è la conseguenza della
mancata incriminazione dell’imperatore da
parte degli Usa, il film regala alcune scene di
sottile ironia. Come quella in cui Hirohito, uscito dal colloquio con il generale MacArthur durante il quale percepisce di averla «sfangata», si
concede, non visto, un paio di saltelli di gioia.
«Quanto basta per provocare la distruzione di
un locale che avesse il coraggio di proiettare il
film – ci spiega Katsue Tomiyama, presidente
di Image Forum, la cordata di distributori indi-
Tre anni incinta, dell’esordiente scrittore Miako Tadano
pendenti che hanno acquistato i diritti – noi
non abbiamo nessun problema a assumerci il
rischio, ma la nostra sala ha 100 posti...forse
questo film, e i giapponesi, meritano di più».
Chissà se e quando i giapponesi saranno considerati abbastanza maturi da sopportare la vista
dell’imperatore che, umanamente, si mette a
saltellare quando apprende che anziché essere
impiccato, diventerà il simbolo della rinascita
di un popolo che aveva inviato al massacro.
Al Manzoni il concerto di Sentieri Selvaggi con in programma anche «Acts of Beauty»
Scopiazzare non fa granché bene, se
non si sanno trasformare i modelli in
qualcosa che sia un po’ più vivace, o
quantomeno sentito. Il gruppo Sentieri Selvaggi di Torino ha preso a
modello qualche anno fa quello di
Bang on a Can di Manhattan. Questi
presentano le loro musiche, ciascuno
la propria, ne raccontano l’occasione,
ma ci scivola magari qualcosa di un
po’ più pregnante. Se non c’è l’autore
del pezzo in esecuzione, Filippo del
Corno s’incarica per Sentieri Selvaggi
di fare altrettanto, ma riporta didascalicamente notiziole che ha appreso. Non ha né freschezza, né verità,
ma ogni volta solo un aneddoto.
È comunque un buon allievo di
Carlo Boccadoro, che dirige Sentieri
Selvaggi, il quale sulla falsariga, ma
molto «falsa», di Desert Plants di
Walter Zimmermann (un libro cult
che dava voce ai nuovi, nel 1976) ha
scritto Musica Coelestis, dai suoi dialoghi con chi, nel 1999, non era più
tanto nuovo. Zimmermann dà ai
musicisti che prende in considerazione lo spazio che questi gli danno,
qualche vola intervistandoli con la
freddezza di uno che vuole capire le
loro idee sull’arte, sul loro modo di
stare nella musica. Boccadoro fa la tare i motivi di pregio, tramite loro
spalla a coloro che seleziona, porge può giungere a opere d’arte che altriloro il passo e chiacchiera in modo menti non potrebbero ricevere. Quesalottiero. Per l’altro pensiamo a un sto fa di loro figure interessanti per la
Biagi, volendo indicare un modello politica di rinnovamento e ampliamento delle conoscenze musicali di
ben noto, per lui a un B. Vespa.
Oltre tutto, un po’ suonando le sue tutti.
Ci sono buoni interpreti e cattivi, e
musiche, un po’ conversando con lui,
il Boccadoro dev’essersi preso una ce e sono che essendo stati buoni, poi
gran cotta per Michael Nyman. Le diventan cattivi e che in tali si tracui conseguenze si sono avvertite sformano non tanto per la perdita di
consistenti nel concerto che Sentieri capacità esecutive, quanto perché si
Selvaggi ha dato al Manzoni di Bolo- rifugiano in quel territorio nemico
gna, con in programma anche Acts of Beauty che l’inProblemi di voce
glese scrisse nel 1944 per
commissione per commis- per gli interpreti sulla parte dedicata
sione del gruppo dall’ammiratore. Ammesso che si con- al compositore inglese, meglio
divida l’idea che il testo sia il concerto per piano «Bad Blood»
più importante di chi l’interpreta, anche in musica, è necessario della vita della musica che è il reperperò rendersi pure conto del fatto torio. Cristina Zavalloni, che ha quache, poiché questa è da ascoltare, lità notevoli per voce e scena, per ora
non bastando leggerla, seppur si sap- fa parte dei buoni interpreti: usa il fapia farlo; ci si dà conto allora facil- scino e l’appeal che appassiona il
mente dell’importanza e del ruolo pubblico per promuovere musiche
che in questo campo hanno gli inter- che, belle o brutte, non appartengono
alla cultura musicale ormai usata copreti.
Per la vita della musica sono im- me d’ameublement. Qui però ha troportanti sia perché le loro qualità so- vato un nemico come Nyman dev’esno quelle che fanno emergere quelle serlo della voce: il pianoforte e il videlle musiche, sia perché il pubblico brafono amplificati, soprattutto il
che sa, o è convinto di saperne valu- primo, portato secondo la scuola del
La serata
Serata
Pasolini
Casa della poesia nella sua se-
de di Baronissi (Salerno) organizza
un omaggio a Pier Paolo Pasolini
nella notte tra l’1 e il 2 novembre,
che vedrà reading di poeti (Jack Hirschman, Agneta Falk, Giancarlo Cavallo, Giacomo Trinci) accompagnati da musicisti (Renato Costarella,
Gaspare Di Lieto, Fabio Notari). A
partire dalle 19.30 saranno proiettati i film di Pasolini La ricotta, Che
cosa sono le nuvole?, Appunti per
un’Orestea Africana, un documentario Rai sull’incontro tra Pasolini ed
Ezra Pound, il film di Laura Betti La
ragione di un sogno sulla figura profetica di Pasolini. L’omaggio a Pasolini proseguirà nelle settimane successive (7, 17, 21, 28 novembre) con
la proiezione della «Trilogia dellavita» (Il Decamerone, I racconti di
Canterbury, Il fiore delle Mille e una
Notte) e di Salò o le 120 giornate di
Sodoma.
Gender Bender
Da domani al 6 novembre a Bolo-
gna la terza edizione di Gender Bender, festival internazionale (progetti
de Il Cassero, Gay Lesbian Center,
direzione di Daniele Del Pozzo) che
presenta i nuovi immaginari, legati
alle rappresentazioni del corpo e
delle identità di genere. Evento speciale, al Lumière, la saga filmica Cremaster di Matthew Barney, segue
una retrospettivca cinematografica
dedicata a Jean Cocteau (più convegno) e alla Gam, sezione arti visive,
mostra del danese Jesper Just che in
video indaga l’identità maschile.
Nella stessa sezione, due rari documenti: Lady (1984) e Patti Smith still
moving (1978), corti di Robert Mapplethorpe (c’è anche il film della
Bbc, regia di Sandy Daley dedicato a
lui). Per teatro-danza, Map Me della
belga Charlotte Vanden Eynde e due
spettacoli: Cinema Cielo di Danio
Manfredini e Psicosi delle 4:48 della
Compagnia Cane. Per il cinema,
John Waters con A Dirty Shame, Cachorro di Miguel Albadalejo, Mater
Natura di Massimo Andrei. Anteprima, Kinky Boots di Julian Jarrold.
Ancora corti con Fucking Different:
registe lesbiche raccontano l’amore.
Festival di Trieste
Boccadoro e Nyman, una vera passione
GIAMPIERO CANE
BOLOGNA
C A L I B R O 9
compositore a dominare il suono,
l’hanno massacrata, fin obbligandola
a urlare. Forse il Manzoni non sopporta l’amplificazione, forse il pezzo
era mal concertato; di fatto non si capiva una parola e la sua voce era per
lo più sommersa in un indecifrabile
pasticcio.
Quello di Nyman era però il pezzo
forte – tutta la seconda parte di un
concerto che nella prima aveva proposto musiche scioccherelle come
L’uomo armato di Del Corno (da una
melodia medievale ripescata spesso
da musicisti giocherelloni, non da ultimo da Giancarlo Trovesi), Sweet Air
di David Lang, uno dei Bang di cui
sopra, e Glamorama spies di Lorenzo
Ferrero, esercizio fallito sulla suspense. Un po’ meglio, come concerto per
pianoforte, Bad Blood di Boccadoro,
che almeno dà modo al solista, qui
spigliatissimo e pienamente a proprio agio, Andrea Rebaudengo, il metà, della massacrata Zavalloni.
La serata era di Musica Insieme,
dei suoi abbonati non dovevano essercene molti. Anche se viene voglia
di dire che questa volta gli assenti
avevano ragione, invece no, non lo
diciamo perché poi, in altre occasioni, saranno certamente lì a commuoversi retoricamente per qualche musica d’arredo.
I premi della XX edizione del Festival latinoamericano di Trieste
(22-30 ottobre) che ha presentato
150 titoli sono: miglior film Tatuado
di Eduardo Raspo (Argentina), premio speciale della giuria Araguaya
di Ronaldo Duque (Brasile). Il pubblico ha premiato l’esilarante La
suerte està echada di Sebastian Borenzstein, storia comica di mala sorte in un’Argentina già tartassata
dall’economia internazionale. Premio Unione latina aMiercoles de ceniza di Fernando Benitez (Messico).
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
16
SPORT
L’arte di combattere
contro se stessi
L
«
ANTONIETTA FERRARI
a settimana scorsa ho battuto un
dito sulla spalla di un tizio e siamo
stati messi in lista per un combattimento. Lui
doveva aver avuto una settimana tutta storta,
mi ha inchiodato le braccia dietro la testa e
mi ha sbattuto la faccia contro il pavimento
finchè i denti non mi hanno squarciato l’interno della guancia e un occhio mi si è gonfiato tanto che mi si è chiuso e si è messo a sanguinare e dopo che ho detto basta ho guardato giù e sul pavimento c’era un’impronta della
metà della mia faccia nel sangue.... Non c’è essere vivi come sei vivo al fight club» (da
Chuck Palahniuk Fight Club, Mondadori editore aprile 2003).
Il 29 maggio di quest’anno il Codacons ha
chiesto che venisse vietato ai minori di 14 anni uno spettacolo di wrestling che si doveva
tenere il 4 giugno a Roma e che avrebbe attirato migliaia di ragazzini da tutta Italia.L’associazione, segnalando diversi casi di incidenti gravissimi occorsi ai lottatori, esprimeva il
timore che si moltiplicassero quelli causati
dall’emulazione, come è accaduto in Valsugana dove un bimbo di 5 anni che è stato assalito da un compagno, o a Verona dove uno di
12 anni è caduto a terra tramortito dal un colpo di un amichetto.Malgrado ciò il boom del
wrestling, moltiplicato dalla tv, continua a far
proseliti come altre discipline «di moda» come il kickboxing. Proprio tenendo conto di
questi fenomeni può essere interessante lo
stage di aikido che si tiene a Milano (28-30
ottobre) presso l’associazione «A ke lei naa»
(via Imbonati 17) e che propone una visione
molto diversa. Ne parliamo con Giovanni Frova che sarà l’animatore dello stage (e che per
la Luni Editrice ha tradotto l’opera omnia di
Itsuo Tsuda).
Di che cosa si tratta e in che cosa l’aikido
differisce dalle altre arti marziali?
Ho praticato per più di 20 anni l’aikido che ha
presentato in Europa il maestro Itsuo Tsuda.
Oggi si pensa che l’aikido sia un’arte marziale
come le altre, ma a me aveva interessato proprio perché c’era una differenza, e questa differenza stava nel fatto che non si cercava di
proporre un’arte che sviluppasse la forza, la
capacità di combattere con gli altri, bensì una
pratica che potesse diventare uno strumento
di ricerca dentro di sé, che ci avvicininasse
man mano alla nostra verità interiore e che ci
permettesse di incontrare altre persone diverse da noi.
Com’è possibile scoprire la propria realtà interiore attraverso un’attività fisica che, per quel-
Uno stage di tre giorni sull’aikido portato a suo tempo
in Europa dal maestro giapponese Itsuo Tsuda. Un’arte
marziale tesa soprattutto a sviluppare la ricerca interiore
piuttosto che a potenziare la capacità di combattere
specie di «accordo» fra i partner a conferirle
un’apparente validità. A me l’efficacia non interessa, ma non per questo la mia pratica mi
sembra meno veritiera. Forse è una verità
d’altro tipo quella che cerco, e non la cerco da
solo ma «insieme» alla persona con cui pratico; è una verità più profonda che mi invita a
scavare dentro di me con tutta la sincerità di
cui sono capace. Non tento di mascherare,
con le mie conoscenze tecniche o la mia esperienza, la persona che sono, l’umanità che sono, qui, ora, in questo istante. Quindi le tecniche, le prese, gli attacchi sono solo lo strumento attraverso il quale può succedere qualcosa, il mezzo attraverso cui accedere al patrimonio umano che esiste in tutti noi. L’aspetto
più importante dell’aikido per me è proprio
l’incontro di umanità diverse, l’incontro di
due persone che altrimenti forse non riuscirebbero a dialogare.
Ma moltissime persone si avvicinano alla arti
marziali cercando un’efficacia, un mezzo per
reagire per esempio ad un’aggressione. Che
rapporto c’è fra questa esigenza e quello che
fate voi?
Credo che in situazioni di emergenza, quando
corriamo un pericolo, quando si viene aggrediti da qualcuno, quello che fa sì che riusciamo a liberarci, a trarci d’impaccio, a salvarci
la vita, penso che difficilmente sia qualcosa
che si possa ricondurre a una tecnica appresa.
È piuttosto un istinto, un istinto di sopravvivenza, un desiderio di vita, una vitalità... e anche una decisione interiore. In una situazione
pericolosa, una persona decisa, sveglia e fisicamente presente saprà come muoversi molto meglio di una cintura nera incapace però
di agire spontaneamente. Si tratta quindi di
risvegliare l’istinto assopito.
Perché Tsuda chiamava l’aikido «via della
spoliazione»?
Un momento dell’esecuzione di un «kata» dell’aikido
lo che appare, richiama lo scenario delle arti
marziali: ci sono prese, attacchi, immobilizzazioni?
Diciamo che quando uno cerca dentro di sé
può fare un percorso strettamente intellettuale o cercare un risveglio della sensibilità, un
contatto con il proprio corpo, con quello che
sentiamo. L’aikido è un modo di risvegliare
questa sensibilità. È quindi qualcosa di estremamente concreto, non un percorso astratto.
Lei parla di «contatto» ma oggi si sente parlare soprattutto di «full contact», il «contatto»
che viene proposto in realtà è un «impatto», uno
scontro.
Effettivamente in un’arte di combattimento si
privilegia l’aspetto dell’«efficacia» e di «potenziamento» per potersi imporre sugli altri.
È una logica comune non solo al mondo delle
arti marziali ma a tutta questa società in cui
per farsi spazio, per poter sopravvivere, per
poter dire «io esisto», c’è bisogno di imporsi
sugli altri, di dimostrare di essere più forti, più
capaci, più colti: in ogni ambito c’è sempre un
«più» che emerge. La logica prevalente è quella dello scontro, del confronto, ma perché ci
sia un reale incontro fra le persone bisogna
fare un passo indietro, in qualche maniera
mettere a tacere l’«Io» che siamo per poter
ascoltare l’altro: in questo senso anche il movimento cambia, più che colpire, accoglie. C’è
un’attenzione portata alla persona che abbiamo di fronte, al suo ritmo, alla sua respirazione.L’aikido è un’arte della respirazione e attraverso la respirazione ci si puo’ incontrare,
unire e poi anche separare. Attraverso la scoperta del diverso da noi, possiamo scoprire
anche una pienezza che altrimenti non sentiamo più, sentirci partecipi di una realtà
molto più grande di noi.
Nell’aikido ci sono delle forme, dei «kata».
Come è possibile trovare la «fusione» di cui lei
sta parlando attraverso dei «kata»?
In ogni arte giapponese il «kata» è la base, sia
la forma che la struttura. Anche nell’aikido ci
sono delle forme, delle regole. È però interessante sapere che le forme si possono superare,
che non sono fini a se stesse. Nel mondo dei
marzialisti è piuttosto comune il discorso che
sostiene che un’arte marziale, per essere considerata «vera» o sincera, dev’essere anche efficace e verificabile in un contesto di combattimento. Se c’è troppa intesa o armonia tra i
praticanti facilmente essa viene bollata come
«finta» e inefficace, come se fosse solo una
Un’idea molto diffusa è quella che per vivere
meglio, per sentirci meglio nella propria pelle,
abbiamo bisogno di accrescerci, di diventare
più ricchi, avere un maggior bagaglio di conoscenze ecc. Tsuda al contrario proponeva un
cammino di spoliazione nel senso che prendendo coscienza del fatto che siamo già fin
troppo carichi di tutto, di nozioni, di conoscenze, di idee ecc. ci accorgiamo che questo
carico, inutile al 99%, ci impedisce di sentirci
liberi. La sensazione di libertà infatti aumenta
man mano che abbandoniamo dei pesi, che
lasciamo la presa su tutta una serie di cose
che sostanzialmente restringono il campo
della nostra vita.
Delle difese?
Anche le difese, ma attenzione non tutte! Sin
da piccoli siamo obbligati a difenderci da aggressioni di ogni tipo e ci siamo creati delle
vere e proprie corazze. Era necessario per poter sopravvivere. Alcune di queste difese, però,
a un certo punto diventano inutili e se lasciamo agire la saggezza inconscia del nostro corpo pian piano esso si libera di ciò che non serve più. Vorrà anche dire che il nostro mondo
interiore è diventato più forte, che il nostro
corpo ha ritrovato una vitalità, un asse centrale e una fiducia che aveva smarrito.
Info: 338 6379242 oppure 02 29001396.
S E R I E A
Fermata la Juve
Il Milan vince 3-1
Anticipi della 10/a giornata di serie
A: Sampdoria-Inter 2-2 (Diana 6’ e
35’, per l’Inter Cambiasso e Cordoba
al 31’ e 40’); Milan-Juventus 3-1 (14’
Seedorf, 26’ Kaka’, 45’ Pirlo, 76’ Trezeguet per la Juve). Oggi si giocano:
Chievo-Empoli; Fiorentina-Cagliari;
Lecce-Messina; Livorno-Parma; Reggina-Lazio; Roma-Ascoli; TrevisoSiena; Udinese-Palermo (20.30).
Classifica: Juventus 27; Milan 25; Fiorentina e Inter 19; Palermo, Chievo,
Lazio e Livorno 15; Sampdoria 14;
Udinese e Empoli 13; Roma 12; Ascoli e Siena 11; Reggina e Parma 6; Messina e Treviso 5; Cagliari e Lecce 4.
S E R I E B
Risultati
e classifiche
13a giornata di Serie B: AlbinoleffeCatanzaro 0-0; Avellino-Mantova 0-0;
Bologna-Arezzo 1-1; Crotone-Pescara 0-0; Rimini-Bari 2-1; Ternana-Catania 0-0; Torino-Cesena 1-0; Triestina-Verona 0-3; Vicenza-Atalanta 3-3.
Domani alle 20.45 si giocheranno
Brescia-Modena e Cremonese-Piacenza.
Classifica: Mantova 31; Torino 25;
Modena 23; Atalanta 22; Verona,
Arezzo e Cesena 21; Brescia e Catania 20; Crotone e Triestina 19; Rimini
e Bologna 17; Piacenza 16; Pescara
15; Bari 14; Albinoleffe 13; Vicenza
12; Avellino 10; Catanzaro 8; Ternana
7; Cremonese 6.
T E N N I S
Schiavone
in finale
L’italiana Francesca Schiavone si è
qualificata per la finale del torneo
Wta di Hasselt (Belgio) superando
l’olandese Michaella Kraijcek in tre
set (4-6, 6-3, 7-5) e oggi affronterà la
belga Kim Clijsters (6-0, 6-1 con la
russa Dinara Safina).
Nel torneo Wta di Linz oggi finale
Schnyder (Svi)- Petrova (Rus).
Nel torneo Atp di San Pietroburgo finale Johansson (Sve)-Kiefer (Ger).
Nel torneo Atp di Basilea finale Baghdatis (Cipro)-Gonzalez (Cile).
Nel torneo Atp di Lione finale Monfils (Fra)-Roddick (Usa).
OLIMPIADI
Il governo vuole il «doping libero» per i Giochi invernali di Torino
l governo, su iniziativa del sottosegretario allo sport Pescante, ha
espresso l’intenzione di sospendere con un decreto, che duri almeno quanto le Olimpiadi invernali, la
penalizzazione dell’atleta assuntore di
sostanze dopanti. Nonostante la contrarietà del Parlamento è presumibile
che il Governo tornerà alla carica
quando Rogge, gran capo del Cio (Comitato Olimpico Internazionale) verrà
in visita a Berlusconi per rinnovare la
richiesta. Su questa legge che abbiamo
voluto noi ed è stata votata all’unanimità, è bene sgombrare il campo da
assunti tanto infondati quanto equivoci.
L’atleta che si sottopone a pratiche
dopanti non è assimilabile a un alcolista o a un tossicodipendente: non è
dalle sostanze che esso dipende ma
dalle necessità di prestazioni spettacolari a uso dei network televisivi, degli
sponsor e degli inserzionisti: è questo
sistema che rende necessario il doping
I
come additivo. Occorre evitare di presentare campioni dal ricco conto in
banca come vittime, deboli e ignare, di
questo sistema quando proprio il campione di sci Miller, dal ricco conto, ha
rivendicato la pratica dopante. Il risultato spettacolare e la logica prestazionale verrebbero così prima del diritto
alla salute e della lealtà nelle competizioni sportive. Rischiamo così di avere,
più che delle Olimpiadi, uno sport serializzato senza alcuna regola, una sorta di «Rollerball», come esempio per
milioni di giovani e amatori.
La legge non è un’icona né un tabù
intoccabile, tantomeno ha a che fare
con le logiche proibizioniste della Bossi-Fini ma, senza una modifica complessiva che consenta le indagini sul sistema del doping e sulle sue figurefunzioni, limitarsi oggi a depenalizzare
l’atleta significherebbe svuotare la legge di ogni efficacia nel contrastare il fenomeno «doping». Non solo non si
avrebbero a disposizione importanti
FIORELLO CORTIANA*
strumenti di indagine, ma cambierebbe pure l’autorità di riferimento, non
più il giudice penale, rendendo i processi interminabili e le sanzioni assolutamente più blande.
Se questa è l’intenzione del Governo, sarebbe un vero e proprio attentato alla salute di centinaia di atleti, nonché il favoreggiamento a un circuito
che, dai produttori, ai distributori e ai
somministratori di sostanze dopanti,
ha come protagonista la malavita organizzata internazionale, cosa evidenziata dai rapporti della magistratura e
dei Nas. Per fare un esempio i sequestri di specialità ad azione anabolizzante, dalle 23.637 confezioni del 2000
sono passati alle 988.955 del 2004, e dai
dati della Direzione NazionaleAntimafia, risulta che gli assuntori di sostanze
dopanti nel territorio nazionale ammonterebbero a 611.000 unità solo nel
2005.
C’è poi un aspetto specifico che riguarda la pratica sportiva e motoria in
sé, sia fatta individualmente che collettivamente. L’uso di sostanza dopanti,
delle scorciatoie per raggiungere il risultato con ogni mezzo, costituisce innanzitutto un inganno verso sé stessi.
L’illusione di una scorciatoia, per raggiungere un risultato, è un inganno nei
confronti della nostra volontà che risulterà svuotata di ogni effettiva capacità e anche nella relazione corpomente e nella relazione sociale con l’altro da sé sia compagno che avversario.
Ma il doping è anche un inganno
verso il nostro corpo, che pagherà i
prezzi delle prestazioni in modo dilazionato, nello spazio e nel tempo, e li
farà pagare anche a chi, come i figli,
non ha mai scelto la pratica dopante.
Per cui risulta ipocrita e non solo falsa
l’idea che «l’importante è sapersi gestire la sostanza». Infine, ma spesso è la
parte indispensabile delle nostre relazioni sportive, il doping è un inganno
verso i nostri competitori, verso le regole comunemente condivise, che consentono la pratica sportiva. Ho avuto
due incidenti gravi nella mia pratica
sportiva-motoria, ho investito tanto
tempo e tante energie per recuperare,
ciò è stato possibile grazie allo sviluppo della relazione consapevole tra la
mia mente e il mio corpo, tra me, i medici, i fisiatri, i tecnici, anche questo è
stato un risultato utile per me come
persona. Ricordo queste esperienze
non tanto in riferimento al mio universo personale, quanto per ricordarmi
come da fuori ho potuto apprezzare e
considerare l’importanza e la bellezza
del gesto e della relazione nella pratica
sportiva. La consapevolezza del singolo movimento, del passo, del colpo di
pedale, dentro un percorso. La consapevolezza di tutto questo in un gioco
di squadra, l’importanza e la necessità
degli avversari per praticare il gioco.
Pensiamoci: senza un attaccante avversario quali tiri parerebbe un portiere? Senza un oizuki, cosa potrebbe parare e chi e dove contrattaccare un karateka? Fare attività sportiva e motoria
in modo pulito non significa solo imparare a stare onestamente nella società, costituisce in sé una parte della nostra vita, del nostro essere società, del
nostro crescere, dell’accompagnare il
nostro corpo lungo le sue stagioni, attraverso le stagioni che si succedono.
Il mondo doping vuole un corpomacchina un propulsore nel quale immettere il propellente più opportuno
fuori da ogni consapevolezza. Il doping
fa male fisicamente, eticamente, quindi esistenzialmente, è bene saperlo per
rifiutarlo e per rifiutare quelle logiche
pseudo-sportive chelo richiedono come additivo necessario per risultati
prevedibili e replicabili nel tempo, che
rispondono forse ad altre crescite, sicuramente non a quella personale.
*Senatore dei Verdi-l’Unione
domenica 30 ottobre 2005
il manifesto
TELEVISIONI
INSOSTENIBILE
LEGENDA
CULT
LETALE
RIVOLTANTE
6.10
6.45
10.00
10.30
10.55
12.00
12.20
13.30
14.00
16.00
18.00
20.00
20.35
20.40
23.00
23.05
0.05
0.40
1.00
2.05
3.00
3.05
4.40
5.25
5.50
COSI’ COSI’
BELLO
MAGICO
T V
CLASSICO
D O M E N I C A
GUNG HO ARRIVANO I GIAPPONESI
DI RON HOWARD (USA 1986) LA7 17.55 (110’)
BLACK HAWK DOWN
DI RIDLEY SCOTT (USA 2002) RETE 4 21 (144’)
DOGMA
DI KEVIN SLITH (USA 1999) RETE 4 23.45 (120
Una fabbrica d’auto in crisi, tutta la città con l’incubo della disoccupazione quand’ecco che la rilevano i giapponesi che però rendono
massacranti i ritmi di lavoro. Michael Keaton è un operaio che salva la situazione. Il film assume un significato particolare per la
quantità di investimenti giapponesi nel cinema Usa giusto in quegli
anni. Con Gedde Watanabe e Mimi Rogers. Alcuni supereroi nelle
prime ore domenicali: Schwarzenegger in Last action hero (Canale
5, ore 9.50), un bambino a tu per tu con il suo eroe preferito e Batman e Robin (Italia 1, ore 14.35) con George
Clooneuy e Uma Thurman.
In prima visione tv il film di impianto militarista risolto da Ridley
Scott con una grande energia creativa, che ha valso a Pietro Scalia
l’Oscar al montaggio (la prima l’aveva vinta per JFK. E bisogna dire
che in questo film il ritmo è fondamentale. Il titolo del film si riferisce agli elicotteri impegnati nell’operazione del 3 ottobre 1993
quando un gruppo di specialisti del Delta Force ricevono l’ordine di
catturare i luogotenenti del generale Aidid a Mogadiscio, ma invece
di essere un’azione lampo si protrae per alcune ore, con
la perdita di due Black Hawk, gli elicotteri in dotazione.
Interprete principale Josh Hartnett.
Prima tv. L’opera del giovane fenomeno americano di Clerks è una
commedia cristologica alla Monthy Phyton, con Linda Fiorentino, ex
sexy-star, nei panni dell’ultima parente di Gesù. Andamento fumettistico, discussioni teologiche, Matt Damon e Ben Affleck (la bella
coppia di “Will Hunting” diretto da Gus Van Sant) angeli cacciati dal
paradiso e decisi a rientrarvi, anche a costo di demolire l’infallibilità dell’onnipotente, diavoli con le corna, spogliarelliste muse ispiratrici... Kevin Smith abbandona il minimalismo visivo di
Clerks, ma non la sua verbosità, e con un budget consistente si scatena in un filmone pop ad effetti speciali.
Purtroppo, l’humor britannico è difficile da imitare.
RAI1
6.05
SOPORIFERO
RAI2
6.00
6.05
6.20
6.35
6.40
6.45
Anima Good News
un programma di Gabriele
La Porta. Regia di Erina
Roman Mina
Strega per amore - Telefilm
Sabato, domenica &...
Conduce Corrado
Tedeschi, Sonia Grey
Linea Verde Orizzonti
Un programma di Nicola
Sisto
A sua immagine
Conduce Andrea Sarubbi.
Regia di Marco Brigliadori
Santa Messa
Recita dell’Angelus
Linea Verde in diretta dalla
natura
TG1
Domenica In... Tv
Conduce Mara Venier
Domenica In - L’arena
Conduce Luisa Corna,
Massimo Giletti
Domenica In - Ieri, oggi,
domani - Conduce Pippo
Baudo
TG1
Rai TG Sport Il bambino sull’acqua
TG1
Speciale TG1
Oltremoda
TG1 Notte
Cinematografo
Così è la mia vita...
Sottovoce
Che tempo fa
Presenze
Film di Rusty Lemorande
con J. Sand, Patsy Kensit
Overland 3
Videocomic
Che tempo fa
7.00
8.00
9.00
9.30
10.00
10.05
11.30
13.00
13.25
13.40
13.45
14.55
17.05
17.55
18.05
18.50
19.05
19.30
20.00
20.30
21.00
22.30
1.00
1.20
1.50
2.25
3.10
3.25
4.15
5.45
5.55
RAI3
Quarto potere
TG2 Si, viaggiare (R)
Il mare di notte
Avvocato per voi
L’editoriale della domenica
Mattina in famiglia
Conduce Tiberio Timperi
TG2 Mattina
TG2 Mattina
TG2 Mattina
TG2 Mattina L.I.S.
TG2 Mattina
L’anima dell’impero
Gli orizzonti inquieti del
petrolio tra apocalisse e
sostenibilità
Mezzogiorno - In Famiglia
TG2 Giorno
TG2 Motori
Meteo 2
Quelli che aspettano...
Quelli che il calcio...
Numero Uno: Speciale
TG2
TG2 Dossier
TG2 Eat Parade
Zorro - Telefilm
“Un ospite scomodo”
Domenica Sprint
Tom & Jerry
TG2 - 20.30
Sequenza esplosiva
con S. Young
La Domenica Sportiva
TG2
Sorgente di vita
L’isola dei famosi
Ricominciare 3
TG2 Costume e Società (R)
50 anni di successi
Net.t.un.o. - Network per
l’università ovunque
La Rai di ieri
Il paese di Alice
6.00
7.00
7.50
9.10
9.45
11.15
11.45
12.00
12.10
12.50
13.20
14.00
14.15
14.30
15.00
16.05
18.00
18.55
19.00
19.30
20.00
20.10
21.15
23.05
23.15
23.25
0.25
0.35
1.05
RETE4
Fuori orario
Aspettando ‘è domenica
papà’
è domenica papà
ScreenSaver
Un programma di Rossella
Abate, Mussi Bollini,
Federico Taddia, con la
collaborazione di Elena
Mora. Conduce Federico
Taddia. Regia di Emanuela
Pesando e Stefania
Vergnano
Timbuctu - Un mondo di
animali
TGR Europa
TGR RegionEuropa
Tg3 - Rai Sport Notizie
Telecamere Salute
Ideato e condotto da Anna
La Rosa. Regia di Fabrizio
Borelli
Okkupati
Passepartout
TG Regione - TG Regione
Meteo
TG3
In 1/2 h
Alle falde del Kilimangiaro
Un posto al sole
Per un pugno di libri
TG3 Meteo
TG3
TG Regione - TG Regione
Meteo
Blob
Che tempo che fa
Report
TG3
TG Regione
Parla con me
TG3
Telecamere
Appuntamento al cinema
6.00
6.55
7.10
7.20
8.20
9.30
10.00
11.00
11.30
11.40
12.20
13.30
14.00
15.30
18.30
18.55
19.35
21.00
23.45
2.10
2.30
4.25
5.45
LEGENDA
LETALE
RIVOLTANTE
6.45
7.00
7.30
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13.30
14.00
14.10
15.05
15.50
16.15
16.50
17.00
18.50
20.00
20.30
21.00
23.10
23.15
0.50
1.15
SOPORIFERO
CULT NETWORK
8.40 Un viaggio nel cinema americano - 10.00 E il
Vascello va... - 11.00 La mappa del mondo - 13.10
L’ospite - 13.30 Echoes from the street - 14.30 La
cienaga - 16.15 40.000 anni di sogni - 17.30 Boldini - 18.30 A.B.O.rdo delle arti - 19.00 Viaggio a
Kandahar - 20.40 Un viaggio nel cinema americano - 22.00 Nuovi schermi d’Africa - 23.00 Pieces
d’identites di Mweze Ngangura - 0.45 L’ospite 1.00 Schegge di utopia.
SKY CINEMA AUTORE
7.50 L’amore di Marja - 9.45 Hollywoodclick 10.20 Cine Lounge - 10.30 Actors - 12.10 Cine
Lounge - 12.20 Frida di Julie Taymor - 14.30 Cine
Lounge - 14.40 Zatoichi di Takeshi Kitano 16.40 Cine Lounge - 16.50 In my country di John
Boorman - 18.40 Cine Lounge - 18.50 Agata e la
tempesta di Silvio Soldini - 21.00 Sky Cine News
- 21.30 Te lo leggo negli occhi - 23.05 La sposa
turca - 1.15 Cara, insopportabile Tess.
COSI’ COSI’
BELLO
MAGICO
Astuta strategia di Raiuno per bissare gli ascolti di Rock politik con
un film intero di Benigni. dà vita al burattino di Collodi nello spirito
del testo originale. Inquietante e gioioso, è un palcoscenico fantastico per l’attore-regista premio Oscar, stralunato automa. Roberto
Benigni si è sottratto a un ipercinetico burattino tutto gag e ha scelto la via dell’e-stasi. Contro il naturalismo sensuale, emotivo e
mondano, il Pinocchio di Benigni sceglie il ritratto stilizzato, freddo,
la «rigidità» del burattino, la sua essenza. Questo Pinocchio è «fedele» al testo di Collodi non perché lo illustra
nei suoi «episodi», scritti a puntate da Carlo Lorenzini,
ma perché ci restituisce la sua aura, il ricordo fatato.
Settegiorni Parlamento
TG1 - CCISS Viaggiare
informati
UnoMattina
TG1
TG1 L.I.S. - Che tempo fa
TG1 - Che tempo fa
TG1
TG1 Flash
TG Parlamento
Dieci minuti di...programmi
dell’accesso
Appuntamento al cinema
Occhio alla spesa
Che tempo fa
TG1
La prova del cuoco
Conduce Antonella Clerici,
Beppe Bigazzi
TG1
TG1 Economia
L’ispettore Derrick
Telefilm
Il Commissario Rex
Telefilm
Festa italiana - Conduce
Caterina Balivo
La vita in diretta
Conduce Michele Cucuzza
TG Parlamento
TG1
L’eredità
TG1
Affari tuoi - Conduce Pupo
Pinocchio - Film di Roberto
Benigni con Kim Rossi
Stuart, Nicoletta Braschi,
Roberto Benigni
TG1
Porta a Porta
Conduce Bruno Vespa
TG1 Notte
Tg1 Turbo: (A seguire: Che
tempo fa)
RAI2
6.00
6.20
6.55
7.00
9.20
9.30
10.00
11.00
13.00
13.30
13.50
14.00
15.45
17.10
17.15
18.10
18.30
18.50
19.00
20.00
20.05
20.30
21.00
22.40
22.50
23.40
1.05
1.15
1.45
1.50
1.55
2.00
2.40
2.55
3.10
3.15
TG2 Medicina 33 (R)
L’isola dei famosi
Quasi le sette
Random ApriRai
Protestantesimo
TG2 Notizie
Piazza Grande
Conduce G. Magalli
TG2 Giorno
TG2 Costume e Società
TG2 Salute
L’Italia sul Due
Conduce Milo Infante,
Monica Leofreddi
Al posto tuo - Conduce
Lorena Bianchetti
TG2 Flash L.I.S.
Random
Rai TG Sport
TG2 - Meteo 2
10 minuti
L’isola dei famosi
Classici Warner
Tom & Jerry
TG2 - 20.30
Desperate Housewives
I segreti di Wisteria Lane
Telefilm
TG2
L’isola dei famosi
Stracult
TG Parlamento
Sorgente di vita
Ma le stelle stanno a
guardare? - Conduce
Alessandra Canale
Meteo 2
Appuntamento al cinema
Ricominciare 3
TG2 Salute
TG2 Costume e Società
L’arte dentro
Leggende d’Italia
SKY CINEMA 1
10.05 La locandina - 10.20 Cine Lounge - 10.30
Alex & Emmar - 12.05 Loading Extra - 12.20 Stà
zitto... non rompere - 13.50 Cine Lounge - 14.00
The missing - 16.20 Sky Cine News - 16.55 Appuntamento da sogno - 18.35 Loading Extra - 19.00
Secret Window - 20.40 La locandina - 21.00 Il
libro di Dio - 22.45 Cose da maschi - 0.30 Il club
delle promesse.
SKY CINEMA 3
10.05 Extralarge - 10.25 Cine Lounge - 10.35
Looney Tunes Back in Action - 12.20 Prima o poi
mi sposo - 14.05 Sky Cine News - 14.45 School of
rock - 16.40 Speciale Monica Bellucci - 17.30
Cani dell’altro mondo - 19.00 Cine Lounge - 19.10
Big Trouble - Una valigia piena di guai - 21.00 50
Volte il primo bacio - 22.50 Gothika - 0.35 Una
bionda esplosiva - Hot chick.
8.00
8.40
9.20
9.55
13.00
13.35
18.00
20.00
20.40
22.55
23.55
0.25
0.35
1.07
2.50
3.20
3.50
4.21
5.30
RITORNO AL FUTURO
DI ROBERT ZEMECKIS (USA 1984) ITALIA 1
(118’)
12.00
14.00
15.00
18.00
18.55
19.00
23.15
Gli appassionati di Doc e Marty McFly avranno visto tutta la serie
varie volte senza stancarsi mai a bordo della macchina del tempo.
Nel primo episodio per sfuggire ai terroristi si mette in funzione la
macchina e Marty arriva nel 1955 dove incontra i genitori ancora
ragazzi: il problema è farli innamorare, cosa non semplice visto che
la madre si interessa di più al vivace ragazzino piombato dal nulla
che al futuro marito. Nel secondo Marty arriva nel futuro
per correggere alcuni avvenimenti pericolosi per la sua
famiglia. Divertenteanche se visto più volte, interpretato
da Michael J, Fox, Christopher Lloyd, Thomas Wilson.
RAI3
6.00
8.05
8.15
9.15
9.30
10.15
12.00
12.25
12.35
13.10
14.00
14.50
15.00
15.10
15.15
15.45
16.15
16.25
16.35
17.00
17.50
18.00
19.00
19.30
20.00
20.10
20.30
21.00
23.05
23.10
23.20
23.40
0.35
0.45
6.00
6.10
6.30
6.40
6.50
7.05
7.10
7.50
8.45
9.50
10.50
11.30
11.40
13.30
14.00
15.00
16.00
16.45
18.55
19.29
19.35
20.10
21.00
23.00
1.00
1.25
2.15
2.20
3.00
4.20
11.30 Sky Calcio (R): Serie A: Reggina-Lazio 13.15 Sky Calcio: Highlights Serie A e B - 14.00
Sport Time - 14.30 Serie A 05/06 (R): MilanJuventus - 16.15 Serie A 05/06 (R): UdinesePalermo - 18.00 C’era una volta: Lazio-Inter
12/03/00 - 19.00 Sport Time - 19.30 Numeri 20.00 Mondo gol - 20.55 Premier League 05/06:
Manchester City-Aston Villa - 23.00 Fuori zona 0.00 Sport Time - 0.30 Bar Stadio.
8.40 Un viaggio nel cinema americano - 10.00
Nuovi schermi d’Africa - 11.00 Pieces d’identites 13.00 Schegge di utopia - 13.45 Jackson Browne Un californiano a L’Avana - 14.45 La Forza delle
Immagini - 17.50 Speciale Giornate dei Diritti
Umani - 19.00 Fuga dalla scuola media - 20.40 Un
viaggio nel cinema americano - 22.00 Vanessa
Beecroft - 22.30 Antistoria del fumetto italiano 23.00 Krampack - 0.45 Music portraits
SKY CINEMA AUTORE
8.30 Nuovo cinema paradiso - 10.40 Cine Lounge
- 10.50 I segreti del lago - 12.40 Cine Lounge 12.50 C’era una volta in Inghilterra - 14.40 Cine
Lounge - 14.50 Te lo leggo negli occhi - 16.20
Cine Lounge - 16.30 La sposa turca - 18.45 Cine
Lounge - 18.55 Cyclo - 21.00 Hollywoodclick 21.30 Uomini semplici - 23.25 Agata e la tempesta - 1.35 Under the Skin - A fior di pelle
LA7
ITALIA1
TG5 Prima Pagina
Traffico
Meteo 5
TG5 Mattina
Le frontiere dello spirito
Conduce Ravasi
Monsignor
Super partes
Tin Cup - Film di Ron
Shelton, con Kevin C
ostner, Renè Russo
e Don Johnson
TG5
Buona Domenica
Con Maurizio Costanzo,
Roberta Capua,
Claudio Lippi,
Luca Laurenti
e Paola Barale
Serie A - Il grande calcio
Con Paolo Bonolis
e Monica Vanali
TG5
Vacanze di natale 2000
Film di Carlo Vanzina
con Christian De Sica,
Massimo Boldi
Terra!
Nonsolomoda - è ...
Contemporaneamente
Corto 5
TG5 Notte
Questo mondo è
meraviglioso
Film di Woodbridge Strong
Van Dyke con Claudette
Colbert, J. Stewart
Shopping
By Night
Mork & Mindy
Telefilm
TG5 (R)
Highlander - Telefilm
TG5 (R)
20.00 Flash News
News
dall’Italia e dal
mondo
20.30 Hit list
Italia +
22.25 Flash News
News
dall’Italia e dal
mondo
22.30 Very Victoria
23.30 Mtv Live
0.00 Kenshin
0.30 Yo!
1.30 Superock
2.30 Into the
music
3.30 Insomnia
6.20
7.00
7.30
7.40
7.55
8.25
8.35
9.05
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12.25
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13.50
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18.30
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19.55
20.40
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1.45
2.10
3.45
6.00
7.00
9.05
Willy, il principe di Bel Air
Telefilm
Super partes
I due Masnadieri
Un tritone per amico
Casper
Tatino e Tatone
Tartarughe Ninja
Spiderman
La pantera rosa
Carmencita Sit-com
Campioni, il sogno
La partita: Rodengo
Saiano-Vodafone Cervia
Grand Prix
Studio Aperto
Guida al campionato
Le ultime dai campi
MediaShopping
Batman e Robin - Film di
Joel Schumacher con
Arnold Schwarzenegger,
George Clooney
Domenica Stadio
I Simpson
MediaShopping
Studio Aperto
The Closer - Telefilm
“Appuntamento
al buio”
La Talpa
Smallville - Telefilm
“Ultima lettera”
“Lucy”
ControCampo
Studio Sport
MediaShopping
Fuori campo
Shopping By Night
Halloween III - Il signore
della notte - Film di Tommy
Lee Wallace con Stacey
Nelkin, Tom Atkins
MegaSalviShow
9.35
11.30
12.30
12.45
13.00
14.00
16.00
17.55
20.00
21.00
22.50
23.20
0.15
0.30
1.05
2.55
TG La7
Omnibus Weekend
La famiglia Addams
Telefilm
La contessa Castiglione
Film di Flavio Calzavara
con Andrea Checchi, Doris
Duranti
Anni Luce (R)
TG La7
La settimana di Elkann
The Practice - Professione
avvocati - Telefilm
Alla conquista del West
Telefilm
Won Ton Ton, il cane che
salvò Hollywood
Film di Michael Winner
con Fernando Lamas, R.
Alda
Gung Ho - Film di Ron
Howard con Gedde
Watanabe, Michael
Keaton
TG La7
Crossing Jordan - Telefilm
“Il dono della vita”
“Qualcuno su cui
contare!” Con Jill
Hennessy, Miguel Ferrer,
Ken Howard, Steve
Valentine.
Sex and the city - Telefilm
L Word - Telefilm
TG La7
M.O.D.A.
Una donna: una storia vera
Film di Roger Donaldson
con Morgan Freeman,
Keith Szarabajka
CNN - News
Collegamneto in diretta
con la rete televisiva
americana
RADIOUNO
NOTIZIARI: 6, 7, 8, 10, 12, 13,
15, 16, 19, 22, 23, 2, 3, 4, 5
10.10 Diversi da chi? 10.15 Personaggi e interpreti - 10.37 Radiogames 10.52 I Nuovi Italiani 11.10 Oggi Duemila - 11.55
Oggiduemila - 12.40 GR
Regione - 13.24 Radio1
Sport - 13.30 Contemporanea - 13.45 Habitat magazine - 14.00 Domenica sport 14.50 Tutto il calcio minuto
per minuto - 18.30 Pallavolando - 19.21 Tutto Basket 20.03 Ascolta, si fa sera 20.23 GR1 Calcio - 23.33
Radioscrigno - 0.00 Rai il
Giornale della Mezzanotte.
RADIODUE
NOTIZIARI: 6.30, 7.30, 8.30,
10.30, 12.30, 13.30, 15.30,
17.30, 19.30, 20.30, 21.30
8.00 Ottovolante - Comici
sulla corda - 8.30 GR2 8.45 Clandestino - 10.00
Numero verde - 10.30 GR2 11.00 Vasco de Gama 12.30 GR2 - 12.48 GR Sport
- 13.00 Tutti i colori del
giallo - 13.30 GR2 - 13.38
Ottovolante - Comici sulla
corda - 14.30 Catersport 15.49 GR2 - 17.00 Strada
Facendo - 17.30 GR2 19.30 GR2 - 19.52 GR sport
- 20.00 Strada Facendo 21.17 GR2 - 22.35 Fans
Club - 0.00 Lupo solitario.
RADIOTRE
NOTIZIARI: 6.45, 8.45, 10.45,
13.45, 16.45, 18.45, 22.45
9.02 Il Terzo Anello Musica 9.30 Uomini e profeti 10.15 Il Terzo Anello Musica
- 10.50 Il Terzo Anello 11.50 I concerti del Quirinale di Radio3 - 13.10 Di tanti
palpiti - 14.00 Il Terzo Anello Musica - 15.00 Il Terzo
Anello - 15.45 Domenica in
Concerto - 18.00 La Grande
Radio - 18.45 GR3 - 19.02
Cinema alla radio - 20.16
Radio3 Suite - 20.30 Il Cartellone - 23.30 Siti terrestri,
marini e celesti - 0.00 Esercizi di memoria - 2.00 Notte
classica.
NIGHTMARE 3
DI CHUCK RUSSELL (USA 1987) 7 GOLD 23.10 (92’)
HALLOWEEN VENTI ANNI DOPO
DI STEVE MINER (USA 1998) RAIUNO 2.35 (85’)
Il mostro di Elm Street torna con la collaborazione alla sceneggiatura di Wes Craven, una garanzia: una epidemia di suicidi tra i giovani
si è abbattuta sulla città e si cerca di curare i superstiti con potenti
sedativi. Ma è proprio quello che i ragazzi temono, infatti nel sonno
sono in preda di spaventosi incubi. Con Patricia Arquette, Robert
Englund e la musica di Angelo Badalamenti. Altri horror classici sono: Dracula principe delle tenebre ((Sky classic, ore 21) e La mummia (Sky Classic, ore 22.35) entrambi di Terence Fisher
con Christopher Lee. Oltre a Frankenstein (Studio Universal, ore 1,15) di James Whale.
Vent’anni fa, la babysitter Jamie Lee Curtis combatteva la sua prima battaglia contro Michael Myers, il suo pseudo-fratellino di sangue (ma questo lo sapremo solo in Halloween II), l’ombra che non
vuole morire, che si rialza dopo ogni colpo mortale, che non muore
mai perché il male non può essere sconfitto. Vent’anni dopo, Jamie Lee Curtis è la preside di una scuola d’élite, ha una segretaria
di nome Janet Leigh (sua madre nella relatà) che guida una macchina vagamente hitchcockiana, e ha soprattutto un figlio
teen-ager che guarda Scream alla tv e diventa quindi il
bersaglio mobile di Michael. Ma intanto il mondo è terribilmente cambiato.
6.00
7.55
7.58
8.00
8.50
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11.25
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4.35
5.30
SKY CINEMA 1
7.10 Valentin - 8.35 Piovuto dal cielo - 10.20 Loading Extra - 10.35 Honey - 12.10 Il libro di Dio 13.50 Cine Lounge - 14.00 Shall we dance? 15.55 Loading Extra - 16.10 Cine Lounge - 16.20
Oceano di Fuoco - Hidalgo - 18.40 Cine Lounge 18.50 Duplex - Un appartamento per tre - 20.25
Extralarge - 21.00 Troy - 23.45 Piovuto dal cielo 1.30 The butterfly effect
SKY CINEMA 2
REPLICA SKY CINEMA 1 DIFFERITA 1 ORA
SKY CINEMA 3
8.50 Una hostess tra le nuvole - 10.30 Tu mi ami 12.20 Identità violate - 14.15 Cine Lounge 14.25 Un ciclone in casa - 16.50 From Justin to
Kelly - 18.40 Cine Lounge - 18.50 Paid in full 20.30 Extralarge - 20.50 Cine Lounge - 21.00 Brivido biondo - 22.35 Agents secrets - 0.30 Laws of
attraction - Matrimonio in appello
6.00
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News
Wake up
Pure morning
Into the music
MTV Europe
Music Awards
Room Raiders
TRL - Total
Request Live
School in
action
Yu Yu Hak
sho
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Peste e corna e gocce di
storia - Conduce Roberto
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Febbre d’amore
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Robert Harmon con Jean
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Appuntamento con la storia
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Vivere meglio
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Beautiful
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della cronaca
Conduce Benedetta Corbi,
Giuseppe Brindisi
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TG5
Striscia La Notizia
La voce della divergenza
Con Ezio Greggio,
Franco Neri
Distretto di polizia 5
Telefilm
Matrix
Conduce Enrico Mentana
TG5 Notte
Striscia La Notizia
La voce della divergenza
(Replica)
Con Ezio Greggio,
Franco Neri
Il Diario (Replica)
MediaShopping
Amici (R)
TG5
Mork & Mindy
Telefilm
Highlander
Telefilm
TG5 (R)
MTV
CULT NETWORK
Fuori Orario presenta il film di Rivette e a seguire il primo corto di
Straub. Quattro ragazze della scuola di teatro sono perseguitate da
un individuo che forse è un poliziotto, forse un millantatore. La vita
e il teatro si scambiano le parti. Nel cast Bulle Ogier, Ines de Medeiros,, Laurence Cote. Il corto di Jean Marie Straub è Machorka.Muff (1962), tratto da un racconto satirico antimilitarista di Einrich Boell, «Diario della capitale». Ricordiamo
l’appuntamento fisso di domani sera con le lezioni di Deleuze al Vincennes, undicesima parte.
RADIOUNODUETRE
Wake up
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Music Awards
Never before
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20
Scrubs,
medici ai
primi ferri
(Replica)
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Music Awards
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Rai Educational
TG3 - TG3 Meteo
Appuntamento al cinema
SKY SPORT 1
11.15 Basket (R): Serie A: Angelico Biella-Roseto
Basket - 13.00 Wrestling WWE: Raw - 14.00
Rugby (R): Heineken Cup: Benetton Treviso-Saracens - 15.45 Sky Volley (R) - 17.45 Basket (R):
Serie A: Climamio Bologna-Benetton Treviso 19.30 Wrestling WWE: Velocity - 20.25 Sky Volley
- 22.30 Rugby: Heineken Cup: Stade Francais-Leicester - 0.15 Icarus.
11.30
LA BANDE DES QUATRE (UNA RECITA A QUATTRO)
DI JACQUES RIVETTE (FRANCIA 1988) RAITRE 1.50
(155’)
L U N E D Ì
SKYTV
SKY SPORT 2
6.00
9.00
SKY CINEMA 2
REPLICA SKY CINEMA 1 DIFFERITA 1 ORA
T V
CLASSICO
PINOCCHIO
DI ROBERTO BENIGNI (ITALIA 2002) RAIUNO 21 (115’)
RAI1
6.00
6.30
6.00
7.55
MTV
SKY SPORT 1
10.30 Generazione 1X2 - 12.00 Campionato Italiano Primavera: Ascoli-Roma - 14.00 Sky Calcio
Show - 14.55 Serie A 2005/2006: Treviso-Siena 17.00 Sky Calcio Show - 18.30 Serie A
2005/2006: Sintesi di una partita - 19.30 Sport
Time - 20.25 Serie A 2005/2006: Udinese-Palermo - 23.15 Sport Time - 0.00 Sky Calcio: Highlights Serie A e B - 0.45 Serie A 2005/2006 (R):
Udinese-Palermo - 2.45 Sky Calcio.
SKY SPORT 2
10.00 Rugby (R): Heineken Cup: Benetton TrevisoSaracens - 11.55 Basket: Serie A: Climamio Bologna-Benetton Treviso - 13.45 Sky Volley (R) 15.30 Icarus - 16.00 Hockey Campionato Italiano
Serie A (R) - 18.00 Sky Volley - 20.30 Basket (R):
Serie A: Climamio Bologna-Benetton Treviso 22.15 Rugby (R): Heineken Cup: London WaspsStade Toulousain - 0.00 Boxe (R): Friday Nights
Fights: Julio vs Vilches, Anchondo vs Barrios.
INSOSTENIBILE
CANALE5
West Wing - Tutti gli uomini
del presidente - Telefilm
Il buongiorno di Media
Shopping
TG4 - Rassegna Stampa
Ellery Queen - Telefilm
Magnum P.I. - Telefilm
Vita da strega
S. Messa
Pianeta mare
TG4 (All’interno)
Pianeta mare
Melaverde
TG4
Ciao amici! - Film di Monty
Banks con Oliver Hardy,
Stan Laurel
La battaglia dei giganti
Film di Ken Annakin
con Henry Fonda, Robert
Shaw
Il ritorno di Colombo
Telefilm “Colonna sonora
con omicidio”
TG4
(All’interno)
Il ritorno di Colombo
Telefilm “Colonna sonora
con omicidio”
Black Hawk Down - Film di
Ridley Scott con Ewan
McGregor, Sam Shepard
Dogma - Film di K. Smith
con Ben Affleck, Matt
Damon
TG4 - Rassegna Stampa
Bus in viaggio - Film di
Spike Lee con Deandre
Bonds, Richard Belzer
Il mistero della piramide
Film di Charles Lamont
con Bud Abbott, Lou
Costello
TG4 - Rassegna Stampa
SKYTV
CULT
17
6.10
6.42
6.50
7.10
7.25
7.50
8.20
8.30
8.50
9.25
11.15
11.20
12.15
12.25
13.00
13.40
14.05
15.00
15.55
16.15
16.30
16.55
17.10
17.35
17.55
18.20
18.25
18.30
19.00
19.30
20.10
21.00
23.15
1.35
Willy, il principe di Bel Air
Telefilm
Belle pecorelle
Baby Looney Tunes
Il laboratorio di Dexter
Sabrina
Pollyanna
Picchiarello
Beethoven
I Robinson - Telefilm
Fantasmi alla riscossa
Film di P. Read Johnson
con Christopher Lloyd,
Tom Amandes
MediaShopping
Più forte ragazzi - Telefilm
Secondo voi
Studio Aperto
Studio Sport
Shaman King
I Simpson
Dawson’s creek - Telefilm
Campioni, il sogno
Siamo fatti così
Esplorando il corpo umano
Let’s & Go - Sulle ali
di un turbo
Sonic X
Mirmo
Spongebob
Rossana
Picchiarello
MediaShopping
Studio Aperto
La vita secondo Jim
Telefilm
La Talpa
Everwood - Telefilm
Mai dire lunedì
Ritorno al futuro - Film di
Robert Zemeckis con
Christopher Lloyd, Michael
J. Fox
Studio Sport
6.00
7.00
9.15
9.20
9.30
10.30
11.05
11.30
12.30
13.05
14.05
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18.00
19.00
20.00
20.35
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0.05
0.25
1.35
2.05
3.00
TG La7
Omnibus La7
Punto TG
Due minuti, un libro
L’ispettore Tibbs
Telefilm
Documentario
Dogs with Jobs
Commissario Scali
Telefilm
TG La7
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Atlantide - Storie di Uomini
e Di Mondi
Jag - Avvocati in divisa
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Star Trek - Enterprise
Telefilm
TG La7
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dal mondo
Otto e Mezzo
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Ritanna Armenni
Non è più tempo d’eroi
Film di Robert Aldrich
con Henry Fonda,
Michael Caine
Effetto reale
TG La7
Notizie dall’Italia e
dal mondo
25a ora - Il cinema
espanso
L’intervista (R)
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Telefilm
Otto e Mezzo (R)
Conduce Giuliano Ferrara,
Ritanna Armenni
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18.00 The MTV Rock
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22.30 Flash News
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23.00 MTV Europe
Music Awards
23.30 Wild Boyz
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15, 16, 19, 22, 23, 2, 3, 4, 5
10.08 Questione di Borsa 10.35 Il Baco del Millennio 11.46 Pronto salute - Come
vanno gli affari - 12.36 La
Radio ne parla - 13.33
Radiouno Musica Village Scienze - 14.07 Con parole
mie - 15.04 Ho perso il
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fa sera 21.12 Zona Cesarini
- Affari - 23.45 Uomini e
camion - 0.00 Rai il Giornale
della Mezzanotte .
RADIODUE
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10.30, 12.30, 13.30, 15.30
7.53 GR Sport - 8.00 Il ruggito del coniglio - 10.00 Il
Cammello di Radio2 - 11.30
Fabio e Fiamma - 12.10 Il
Nome della Rosa - 12.49 GR
Sport - 13.00 28 minuti 13.42 Il Cammello di Radio2
- 15.00 Il Cammello di
Radio2 - 16.30 Condor 17.00 610 (sei uno zero) 18.00 Caterpillar - 19.30
GR2 - 19.52 GR Sport 20.00 Alle 8 della sera 20.35 Dispenser - 21.00 Il
Cammello di Radio2 - 23.00
Il Cammello di Radio2 - 0.00
La Mezzanotte di Radio2
RADIOTRE
NOTIZIARI: 6.45, 8.45, 10.45,
13.45, 16.45, 18.45, 22.45
10.00 Radio3 Mondo -11.30
Radio3 Scienza - 12.00 Concerti del Mattino - 13.00 La
Barcaccia -14.00 Il Terzo
Anello Musica - 14.30 Il
Terzo Anello - 15.00 Fahrenheit - 16.00 Storyville 18.00 Il Terzo Anello -19.01
Cinema alla radio-Hollywood
Party - 19.53 Radio3 Suite 20.00 1805 da Trafalgar ad
Austerlitz - 20.30 Il Cartellone - 22.50 Rumori fuori
scena - 23.30 Il Terzo Anello
- 0.00 Il Terzo Anello. Battiti
- 1.30 Il Terzo Anello. Ad
alta voce
il manifesto
domenica 30 ottobre 2005
INCHIESTA
18
Gli intrecci con la politica neutralizzano l’azione di contrasto. 2° puntata
D
MANFRED
elle 60.000 intercettazioni utilizzate dalla procura di Catanzaro
per gli arresti e gli avvisi del novembre 2004,
qualcuna è trapelata in questi giorni. Attilio
Bolzoni, per esempio (Repubblica del 25 ottobre) ha estrapolato diversi passaggi interessanti, tutti concentrati tra il maggio e il
settembre 2002. Quelle riguardanti Paolo
Romeo (registrate nel suo studio-quartier
generale) invocano la rimozione del prefetto
Sottile e del suo vice, Rizzo, e manifestano
l’avversione sia al questore Maddalena (allora in carica) sia a quello in arrivo; quelle riguardanti il sottosegretario della giustizia
Giuseppe Valentino (pure provenienti dallo
studio di Romeo) ribadiscono la pericolosità
del questore entrante Tonino De Luca, identificato come un «altro uomo di De Gennaro»; e quelle riguardanti lo stesso viceprefetto Rizzo (in un dialogo con l’onnipresente
Romeo) coprono di insulti Marco Minniti
per aver mandato il maggiore De Donno (segretario particolare dell’attuale capo del Sisde Mario Mori) addirittura «in Cile» e il colonnello Fazio «a dirigere una scuola di pupazzi vestiti da carabinieri». Per la cronaca:
il prefetto Sottile è stato successivamente
trasferito da Reggio a Trieste; mentre De Luca (ex capo della Criminalpol di Palermo e
dirigente della sezione omicidi negli anni di
Boris Giuliano) non è mai stato designato a
Reggio.
Un colloquio esemplare
Ma le intercettazioni decisive - tornando alla dorsale della nostra ricostruzione - sono
altre, e cioè quelle riguardanti proprio le intenzioni aggressive nei confronti dei magistrati. Esemplare è un lungo colloquio tra il
giornalista Gangemi e Romeo (siamo nel
febbraio 2001), con le cimici piazzate stavolta nell’abitazione e nell’ufficio del direttore,
controllato anche sul cellulare. Gangemi attacca infatti con perentorietà il pm Salvatore Boemi («Perché ora incomincio io con
Boemi... lo ammazzo!») e poi, tra le risate di
Romeo, estende il proposito a Vincenzo Macrì («tu parti con Macrì, e ne facciamo due
assieme»). Qui si rende necessario un secondo flashback.
Quello di Salvatore Boemi, infatti, è uno
dei nomi che costantemente ritornano in
tutti i tentativi più rigorosi di diradare gli
addensamenti di nubi (leggi: le coperture)
sulla costellazione della ‘ndrangheta. In
un’intervista dell’aprile 2001 lo vediamo risalire, per esempio, alla vicenda dei cinque
giovani «anarchici reggini» morti alle 23.25
del 26 settembre ‘70 in uno scontro con un
autotreno sulla strada tra Ferentino e Frosinone. Dopo aver indagato per conto proprio
sulla matrice terroristica nera del «deragliamento» del treno per Gioia Tauro (22 luglio
’70), i ragazzi erano entrati in possesso di
documenti importanti, e li stavano portando a Roma. Solo più tardi si sarebbe scoperto che i due camionisti erano dipendenti
della ditta di proprietà del golpista Junio Valerio Borghese, principale sospettato tra i
possibili mandanti dell’attentato al treno
(vedi «Poteri segreti e criminalità» di Mario
Guarino, già citato nella prima puntata di
quest’inchiesta). Connettendo i due fatti,
Boemi parla di «strage organizzata per coprirne un’altra», e arriva a una conclusione
amara e disillusa: «L’unica speranza è che,
trent’anni dopo, chi sa decida di parlare. Ma,
onestamente, non ci credo». Ed è un disincanto fondato, dal momento che Boemi (vedi i verbali del 23-24 febbraio e del 3 marzo
‘95) è tra gli estensori dell’elenco degli affiliati a «Cosa Nuova» - impressionante radiografia della rete di cosche vecchie ed emergenti - e alla massoneria calabrese, comprendente nomi di politici influenti di varia
provenienza: i socialisti Gabriele Piermartini
e Totò Torchia, l’ex comunista Ettore Loizzo, il segretario particolare dell’allora presidente del consiglio Forlani, Mario Semprini,
e il notaio Pietro Marrapodi, ex Dc e Grande
Oratore delle logge reggine. Proprio Marrapodi è il protagonista tragico di una delle indagini più perturbanti condotte da Boemi.
PIANETA LAVORO
Nuova ‘ndrangheta,
orizzonti globali
Tutte le tappe, gli omicidi,
complicità e pressioni sulla
magistratura che portano
all’omicidio Fortugno.
Partendo dai legami
con la destra eversiva:
ricordate l’attentato al treno
per Giorgia Tauro nel ‘70,
Junio Valerio Borghese,
i cinque ragazzi anarchici
morti non per caso in quello
stesso anno? Dalla Calabria
la ’ndrangheta si espande
in tutto il mondo
Scosso da una crisi di coscienza e uscito dalla Loggia Logoteta, Marrapodi comincia infatti a vuotare il sacco e a fare i nomi di
quelli che «decidono segretamente i destini
della gente», in Calabria e non solo. Boemi
lo mette così a confronto con il pentito Giacomo Ubaldo Lauro e con il procacciatore
d’armi D’Agostino, cavandone un quadro
dettagliato dei rapporti tra’ndrangheta, P2,
Sisde e istituzioni colluse. Preoccupato di
aver detto troppo, Marrapodi si rivolge (vedi
intercettazione telefonica del 15 febbraio
‘94) a Vincenzo Nardi, uno dei tre ispettori
inviati dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi a verificare l’attività di
Mani pulite. Due anni dopo, stremato e serrato in casa, decide di incontrare Mario
Guarino per consegnarli copia dei documenti depositati a suo tempo a Nardi (è il giornalista stesso a raccontarlo nel suo libro sulla ‘ndrangheta); ma l’incontro non avverrà,
perché Marrapodi verrà trovato morto nella
sua abitazione il 28 maggio ‘96, con il caso
archiviato come «suicidio per impiccagione» e i documenti e i floppy - probabilmente
non tutti, come insinua opportunamente
Guarino - sequestrati dalla procura reggina.
Qui sopra, un posto di controllo dei carabinieri parà del Tuscania
a Reggio Calabria. Foto Cristiano Laruffa.
Nella foto grande in alto, uno degli innumerevoli omici firmati dalla
‘ndranghetaa Reggio Calabria.Foto Franco Origlia
VITTORIO LONGHI
Ancora sindacalisti e militanti di sinistra uccisi, ancora
nelle Filippine. Solo questa settimana sono stati
assassinati il segretario degli zuccherieri di Tarlac,
Ricardo Ramos, il capo del partito Bayan muna della
città di Angeles, Francisco Rivera, e l’attivista del
gruppo politico Anakpawis, Jesus Lombo, nella città di
Ragay. È difficile stabilire un collegamento diretto tra gli
omicidi, ma si tratta sempre di militanti sindacali o di
oppositori al governo di Gloria Macapagal Arroyo. Sono
tutti attivisti in lotta contro gli abusi dell’esercito e lo
sfruttamento di braccianti e contadini da parte dei
latifondisti, protetti dagli stessi militari. Ramos, ad
esempio, il giorno prima di essere freddato con due
colpi di pistola alla testa, era riuscito a fare imporre
dalle autorità di Tarlac alla Central azucarera il
pagamento degli arretrati del 2004 per 370 operai e
aveva fatto reintegrare 33 licenziati perché iscritti al
sindacato. Questa settimana avrebbe cominciato a
discutere con la direzione del rinnovo del contratto per
Non è sorprendente, allora, che Boemi sia
l’oggetto dei propositi liquidatori di Gangemi e Romeo; in fondo, gli stessi propositi
erano stati accarezzati con maggiore concretezza da altri prima (da un boss del calibro di Pasquale Condello, come rivelato dal
pentito Lombardo) e lo sarebbero stati dopo,
con un attentato a Boemi programmato per
l’ottobre 2001 sull’autostrada A3 tra Palmi e
Gioia Tauro, il commando configurato in otto killer armati di kalashnikov. Non a caso,
Boemi aveva da tempo trasferito la famiglia
in una località «segreta» ubicata lungo quel
tratto. Per fortuna, il problema trova una soluzione velata di softness grazie all’intervento dello Stato: da una parte il ministero degli
Interni decide la riduzione delle scorte al
gruppo della Dda (provvedimento simile a
quello adottato, e poi ritratto, per la Boccassini, Colombo e il pool di Milano); dall’altro
il ministero di Grazia e Giustizia (nella figura di Roberto Castelli) respinge la richiesta
di proroga dell’incarico da parte di Boemi
dopo gli otto anni canonici (in una prospettiva, ovvia, di completamento del lavoro) e
anzi lo rimuove per «incompatibilità ambientale» con il procuratore distrettuale Antonio Catanese. La giustificazione - per nulla
convincente - si appoggia sul fatto che l’inchiesta ministeriale volta a cogliere tali incompatibilità è stata avviata in precedenza
dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Piero Fassino. Resta comunque che una Dda
dal bilancio estremamente concreto fino al
2001 (1000 procedimenti penali per reati
contro la pubblica amministrazione; 25 rinvii a giudizio per malasanità; 57 indagati
nell’ambito dell’assegnazione degli appalti;
30 ergastoli e 500 anni complessivi di reclusione inflitti nella fase 3 dell’«Operazione
Olimpia») viene sottoposta a un inspiegabile
break.
E’ qualcosa più di un’impressione che sia
in atto uno scontro decisivo tra politica e
magistratura per molti aspetti simile a quello in atto da Tangentopoli in poi a Milano,
dal quale dipenderanno le sorti non solo delle indagini sull’omicidio Fortugno, ma della
possibilità di continuare a colpire efficacemente la ‘ndrangheta a livello locale e (trans)nazionale. Lo si evince tornando ancora
alle intercettazioni precedenti il provvedimento del novembre 2004, in particolare a
quelle che coinvolgono il vicepresidente della Commissione antimafia Angela Napoli
An), soggetta - come il suo compagno di
partito Valentino - alle sollecitazioni di Gangemi riguardo a ispezioni e provvedimenti
da prendere sulle procure calabresi, Reggio
in testa. Ora: come mai l’esito dell’ispezione
ordinata dal ministro Castelli alla procura di
Catanzaro si è tradotto in un’esortazione al
Csm di trasferimento dei procuratori Lombardi e Spagnuolo - che abbiamo visto attivi
nel provvedimento del 9 novembre - con
motivazione (di nuovo) di «incompatibilità
ambientale» e di intromissione «in procedimenti antimafia che non avrebbero dovuto
o potuto trattare»? C’è qualche allusione all’interessamento indebito verso i rapporti
tra Gangemi e Romeo da una parte e Valentino e la Napoli all’altra? E come mai nell’agosto scorso un altro senatore di An, Giuseppe Bucciero, ha chiesto a Castelli la testa
dell’altro procuratore di Catanzaro già citato, Luigi De Magistris? Questo solo per il
«regolamento di conti» da parte di An. Ma il
campo di tensione è più vasto. Perché - riprendiamo di nuovo Bolzoni da Repubblica nella procura di Reggio sono saltati undici
pm in sette anni (tra i quali uomini decisivi
come Giuseppe Verzera, Roberto Pennisi,
Alberto Cisterna) e il procuratore Giovanni
Antonino Marletta denuncia un turnover incessante dei magistrati più giovani, smaniosi di andarsene dalla Calabria? E soprattutto, perché il procuratore capo Antonio Catanese continua a negare l’evidenza di contrasti e disagi interni alla procura e a trincerarsi in un marmoreo isolamento?
Con buona pace di Pisanu
Se questa tensione non verrà risolta, il futuro della ‘ndrangheta - con buona pace dell’intraprendenza del ministro Pisanu e del
nuovo capo dell’antimafia Pietro Grasso - rischia di non venire contrastato con la necessaria durezza. E questo proprio in un momento - come accennato in apertura - di
crescente espansione trans-nazionale degli
affari e dei relativi introiti. La nuova ‘ndrangheta, infatti - è bene ribadirlo - non si limita a riciclare il denaro sporco in centri commerciali come i «Due mari» nell’area di Lamezia Terme («espropriato» con l’assassinio
del primo proprietario), o in villaggi turistici
come quelli del litorale ionico, monitorati da
«guardiani» organici alle cosche, responsabili di assegnare i lavori a ditte amiche e di
riscuotere il «pizzo» sugli affitti delle case.
La nuova ‘ndrangheta - passata dalla dimensione «pastorale» a quella «imprenditoriale» anche mandando i figli dei boss nelle migliori università italiane ed estere - ha rinsaldato legami con Cosa nostra e la Camorra
(in molti casi ribaltando il rapporto da gregario a dominante) e si è ramificata in tutti i
continenti, colonizzando aree del Canada,
dell’Australia e dell’Africa. Per contrastarla,
si dovranno effettuare molte operazioni come la «Igres», in pieno corso proprio nel
momento della rimozione di Boemi. Prendendo il nome da quello di uno dei boss implicati nell’indagine, ma letto a rovescio
(Sergi), tale operazione ha impiegato per tre
anni, a partire dal 2000, forze massicce: 24
agenti della polizia giudiziaria solo per le intercettazioni telefoniche (con 500 utenze
controllate) e molti altri sparpagliati in sette
paesi, tra cui Colombia e Namibia. Alla fine,
ha portato all’identificazione di un traffico
di 4000 chili di droga colombiana destinata
ai mercati italiano, europei e americani, e all’arresto di 50 persone solo sul territorio italiano.
Al contrario, se operazioni come questa
dovessero diradarsi o infiacchirsi, si può dire
con fondatezza che, in tempi di tentazioni
neoprotezionistiche, il solo settore davvero
globalizzato della nostra economia possa rischiare di diventare quello della varie criminalità organizzate, ‘ndrangheta in testa. (2/
fine. La prima puntata è stata pubblicata il
28 ottobre).
ERRATA CORRIGE
Nella prima puntata di questo articolo i nomi dei pubblici ministeri Giuseppe Verzera e
Roberto Pennisi apparivano alterati. Ce ne
scusiamo con gli interessati e con i lettori.
Filippine, la strage dei sindacalisti
i prossimi due anni. L’anno scorso Ramos aveva anche
organizzato i ripetuti e prolungati scioperi dei
braccianti all’Hacienda Luisita, sempre nella regione di
Luzon, dove da tempo tentava di ottenere condizioni
migliori e salari dignitosi.
A novembre 14 lavoratori sono stati uccisi e 200
feriti durante la manifestazione contro la decisione
dell’Hacienda, in mano alle famiglie dei proprietari
terrieri Cojuangco e dell’ex presidente filippina Corazon
Aquino, di licenziare centinaia di persone senza
preavviso né liquidazione. I reparti antisommossa della
polizia hanno chiamato l’esercito per disperdere il
corteo, visto che l’azione era stata dichiarata illegale
dalla ministra del lavoro Patricia Tomas. «Anche oggi,
torniamo ad accusare i Cojuangco e gli Aquino per
questo ennesimo atto criminale, sono loro sono quelli
che guadagneranno di più dalla morte di Ramos»,
hanno dichiarato i rappresentanti degli alimentaristi e
dei braccianti insieme ai dirigenti della sinistra.
Secondo Satur Ocampo, presidente nazionale del Bayan
muna, «c’è un’ovvia relazione tra questi omicidi e gli
altri 18 avvenuti dall’inizio di settembre a Luzon».
Inoltre, «l’esercito continua a usare il pretesto della
repressione sui ribelli comunisti del Nuovo fronte
popolare, per giustificare ogni genere di violenza contro
la sinistra democratica», aggiunge. Non è un caso,
infatti, che nella regione tutte le operazioni in cui è
intervenuto l’esercito, negli ultimi mesi, siano state
guidate dal generale Jovito Palparan, noto in tutto il
paese come il «macellaio dei comunisti». Da più parti
se ne chiede l’allontanamento ora e si chiede al governo
di investigare seriamente su questa vera e propria
strage (compreso l’omicidio del sindacalista della
Nestlé, Diosdado Fortuna, un mese fa), in cui la
responsabilità del generale è palese.
La presidente Arroyo, tra scandali finanziari e
accuse di brogli elettorali e di repressione, ha sempre
più bisogno di riacquistare credibilità, perciò in questi
giorni si è affrettata a promettere «indagini rapide,
imparziali e approfondite». I corpi speciali dell’esercito
che presidiavano l’Hacienda Luisita venerdì sono stati
richiamati e la polizia avrebbe già individuato,
rapidissima, due soldati visti intorno alla casa di Ramos
poco prima dell’omicidio. Intanto, davanti alle caserme
non si fermano i picchetti delle associazioni in difesa
dei diritti umani che esigono la corte marziale per il
generale e le dimissioni immediate della presidente:
«Dobbiamo fermare la macchina assassina ArroyoPalparan», dicono. Dietro il governo e l’esercito, però,
continuano a esserci i grandi proprietari terrieri. Sono
loro a gestire davvero il potere nella regione di Luzon e
a ricorrere ai gruppi militari e paramilitari per
contenere le proteste, soprattutto ora che si sta
ridiscutendo di riforma agraria. Avviata dalla ex
presidente Aquino, nel 1987, la riforma prometteva una
ridistribuzione equa delle terre, ma finora ha portato
solo a una migliore spartizione tra le vecchie famiglie.