numero 4 anno VII – 28 gennaio 2015

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GIULIANO PISAPIA: L’OBBLIGO DI RICANDIDARSI
Luca Beltrami Gadola
Giuliano Pisapia non può sottrarsi al
suo secondo mandato. Ne capisco
perfettamente le incertezze ma forse, prima di decidere dovrebbe fare
come re Abdallah II di Giordania
che anni fa, travestito da taxista, un
pomeriggio, andò in giro per Amman stuzzicando i passeggeri per
sentire le loro opinioni più genuine e
non mediate dalla corte. Capì cosa
la gente pensasse di lui. Enrico V,
come ci dice Shakespeare, prima
della battaglia di Azincourt andò travestito tra le sue truppe per sondarne gli umori e sapere se poteva
contare sulla loro fedeltà. Due sondaggi diversi: il popolo e le truppe.
Per Pisapia sono due dati indispensabili per capire che aria tira in città
e su chi può contare in politica,
sgomberando il campo dal timore
reverenziale degli uni e la cortigiana
piaggeria degli altri.
Anche se l’esito non fosse esaltante
- opinione pubblica poco favorevole
e partiti divisi e scarsamente leali Giuliano Pisapia non può sottrarsi:
sarà una corsa in salita con il pericolo soprattutto alla spalle ma deve
esser fatta.
Rinunciare al secondo mandato sarebbe letto in molti modi, tutti poco
gradevoli: timore di una sconfitta,
ammissione di propri errori, sensazione di inadeguatezza rispetto alle
promesse fatte, poco rispetto per
l’elettorato che l’ha votato e per chi
l’ha sostenuto; non osare giocare il
secondo tempo della partita che in
realtà è quello della possibile vittoria
di questa compagine politica.
Di quest’ultimo aspetto vorrei parlare. Il secondo mandato, per legge
l’ultimo, è il più incisivo, il più libero,
il più sciolto dagli obblighi di ricercare sostegno politico, non solo ma
per Pisapia quello che gli consentirebbe di guardare di più al futuro
della città: il famoso progetto.
Onestà intellettuale vuole che si riconosca a Sindaco e Giunta la fatica fatta sino a ora per rimettere in
sesto la barca e tappare le falle della gestione di Letizia Moratti, destreggiandosi tra gli scippi finanziari
del Governo senza troppo gravare
sui cittadini. Forse questo tempo
non è ancora finito. Quello che si
poteva fare in questo clima si è fatto, in particolare mettendo in campo
tutte le opportunità non finanziarie in
mano
alla
Giunta
come
l’assegnazione di edifici comunali
per attività assistenziali, sociali e di
incentivo all’innovazione. Alcune
auspicabili rotture con il passato
morattiano non erano praticabili,
vedi il caso Expo, o politicamente
impercorribili vista la maggioranza,
come avere una mano più ferma
sulla vicenda M4. Le vicende non
sono ancora concluse e sul dopo
Expo la partita è ancora tutta da
giocare.
Probabilmente un anonimo sondaggio in città farebbe emergere con
franchezza le critiche per come si
sono fatte fin qui le cose e per quelle non fatte: le cosiddette promesse
mancate. D’altra parte, anche senza
sondaggi, i molti comitati che si oppongono alle iniziative comunali so-
no la spia di un disagio crescente
legato in particolar modo alla cosiddetta partecipazione: “la grande
promessa mancata”. Ne abbiamo
parlato troppe volte per ribadire ora
quello che sulla partecipazione si
dovrebbe sapere e non si vuol sapere: la fatica di capire e imparare.
Il peggio, in questa fine di mandato,
sarebbe attribuire il nascere dei comitati del “no” a una sorta di “perversione” sociale alimentata e resa
possibile dalle oscure forze dei social network e ritenere, di conseguenza, che questi comitati nemmeno siano degni di reale ascolto.
La
ricorsomania
non
è
un’invenzione della società civile ma
un comportamento mutuato dalla
politica che ne è maestra, strategia
resa possibile da un apparato legislativo esondante, confuso, contradditorio e di incerta interpretazione (al quale non si vuol mettere
mano) e che spesso condanna la
politica, indebolita, a commettere
errori formali e a pagali cari. Che poi
la società civile ci vada a nozze è
inevitabile soprattutto nei casi per i
quali le ragioni della politica non sono né chiare né esplicitate, avvolte
in una nebbia che sembra sempre
nascondere fini oscuri e dove le
scelte contraddicono il più elementare buonsenso.
Non vedo dunque alternative per il
sindaco Pisapia, salvo motivi personali per i quali la privacy “deve” essere
assolutamente
rispettosa:
"l'obbligo di ricandidarsi".
LA RICETTA JUNKER SPIEGATA AL SINDACO METROPOLITANO
Giuseppe Longhi
La Rappresentanza in Italia della
Commissione Europea - Ufficio di
Milano, ha ritenuto di chiarire, attraverso l'inserzione “Investimenti, il
piano operativo entro metà 2015”
(Corriere della sera, 14 gennaio),
che il piano Junker per finanziare la
crescita dell'UE non consiste in
un'erogazione di sovvenzioni per
315 miliardi in tre anni, ma di un piano per attrarre investimenti per
quell'importo, grazie alla garanzia di
un apposito Fondo (Fondo europeo
per gli investimenti strategici - FEIS)
finanziato con 16 miliardi di euro
provenienti dal bilancio UE e 5 miliardi provenienti dalla BEI. Così,
con una garanzia di 21 miliardi si
dovrebbe, secondo Junker, generare un effetto moltiplicatore di 15 voln.4 VII 28 gennaio 2015
te e raggiungere i 315 miliardi. Una
“renzata” è stata definita da molti
commentatori, ma da prendere molto seriamente.
Essa segna la fine dell'epoca dei
progetti finanziati a fondo perduto
dall'UE e conferma il modello operativo della “tripla elica”, secondo il
quale, in un nodo di Moebius, quindi
senza soluzioni di continuità, corrono in modo collaborativo pubblica
amministrazione (specie quella locale), imprenditori, ricerca. Il motore
della tripla elica è dunque una pubblica amministrazione il cui ruolo
non è spendere passivamente la
ricchezza prelevata ai cittadini ma
moltiplicarla di ben 15 volte, in virtù
della propria managerialità! Una ve-
ra e propria rivoluzione nella storia
del nostro Stato.
Junker immagina un'Europa in cui
abbonda cultura creativa sui fronti
delle amministrazioni, dell'imprenditorialità, della cultura; soggetti la cui
leadership dovrebbe essere così
forte da attrarre verso destinazioni
produttive una quota significativa
dell'enorme massa di ricchezza oggi
monopolizzata dalla speculazione
finanziaria internazionale. La visione
è completata dal ruolo strategico
dell'UE, che consisterebbe nel fornire prevalentemente supporto organizzativo e gestionale e non risorse
di finanziamento.
Quindi l'efficacia del Fondo europeo
per gli investimenti strategici è condizionata dalla capacità della nostra
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pubblica amministrazione, la quale
dovrebbe avere leadership creativa
e abilità di facilitatrice, per gestire in
modo resiliente i progetti. Ma questo
deve fare i conti con il parere UE del
2.6.2014 “Raccomandazione del
Consiglio sul programma nazionale
di riforma 2014” il quale richiama
l'attenzione su alcuni fattori strutturali di svantaggio del nostro paese:
- mancanza di coordinamento e inefficiente ripartizione fra i vari livelli
di governo;
- inadeguatezza della capacità amministrativa e mancanza di trasparenza, di valutazione e di controllo
della qualità nella gestione dei fondi
UE;
- pesante incidenza della corruzione
sul sistema produttivo e sulla fiducia
nella politica e nelle istituzioni;
- spesa sociale destinata in gran
parte agli anziani e poco orientata
all'attivazione, che di conseguenza
non riesce a contenere i rischi di
esclusione sociale e di povertà, aggravati dalla situazione del mercato
del lavoro che è ulteriormente peggiorata nel 2013, con un tasso di
disoccupazione salito al 12,2% e di
disoccupazione giovanile al 40%.
Le cose non sembrano migliorare
sul fronte degli imprenditori e della
politica industriale. Mariana Mazzucato in “L'abisso della disuguaglianza” (La Repubblica, 31.12.2014) ricorda come l'industria si sia finanziarizzata, concentrandosi esageratamente sull'accumulo di liquidità e
su misure che rafforzano nel breve
termine il titolo azionario, invece di
puntare su quelle tipologie di spesa
che garantiscono crescita nel lungo
periodo, come gli investimenti in ricerca, sviluppo e formazione del
capitale umano. Nel contempo la
Mazzucato confuta la tesi del governo italiano, secondo il quale l'impedimento alla crescita in Italia risiede nel livello di retribuzione dei
lavoratori, per cui la soluzione sarebbe la drastica riduzione del costo
del lavoro. La realtà è che l'aumento
del costo del lavoro è il risultato del
calo di produttività dovuto alla carenza di investimenti pubblici e pri-
vati in tutte le aree suscettibili di incrementare capitale umano e innovazione.
Alla luce di questa situazione di debolezza sia della pubblica amministrazione sia delle imprese come
può l'Italia soddisfare i requisiti per
accedere al futuro Fondo europeo
per gli investimenti strategici e riprendere la via dello sviluppo? A
questo quesito rispondono le succitate Raccomandazioni del Consiglio, che indicano nella riqualificazione delle risorse umane il fattore
strategico per rendere efficace il
percorso delle riforme attraverso:
l'efficienza della pubblica amministrazione, il potenziamento delle misure anticorruzione, il miglioramento
della qualità dell'insegnamento e
dell'investimento in capitale umano
a tutti i livelli di istruzione.
Per far progredire l'efficienza della
pubblica amministrazione, l'UE indica la necessità di precisare le competenze a tutti i livelli di governo e di
un'azione risoluta di miglioramento
della capacità di amministrazione,
della trasparenza, della valutazione
del controllo di qualità a livello regionale, specialmente nelle regioni
del Mezzogiorno, per garantire una
migliore gestione dei fondi UE. Secondo la filosofia di Junker si dovrebbe aggiungere la capacità di
lavorare in modo collaborativo, secondo la logica della piattaforma per
attrarre investimenti dall'esterno;
quindi addio alla separatezza fra
ministeri e fra assessorati, oltre che
fra enti centrali e locali ai diversi livelli. Per il potenziamento delle misure anticorruzione, la raccomandazione è di rivedere l'istituto della
prescrizione e di rafforzare i poteri
dell'autorità nazionale anticorruzione.
Ma lo sforzo più importante riguarda
la riqualificazione del sapere, attraverso la crescita del capitale umano, grazie a migliori prospettive di
sviluppo professionale, all'aumento
delle attività di integrazione fra istruzione ed esperienze pratiche, a
finanziamenti alle università più cor-
relati ai risultati della ricerca e
dell'insegnamento, per colmare il
ritardo nella capacità di innovazione.
Questo radicale miglioramento del
capitale umano è condizionato
quindi dalla volontà di avviare il settore della pubblica amministrazione
e dell'istruzione lungo il percorso
dell'industriosità per attrarre risorse,
una rivoluzione culturale per soggetti educati al culto della rendita e della difesa passiva del proprio ruolo.
Secondo Junker all'amministrazione
industriosa spetta l'onere di dirigere
la piattaforma collaborativa della
tripla elica con imprese e ricerca,
sostanzialmente per migliorare l'efficacia di Europa 2020, grazie alla
rivalutazione della capacità di
leadership degli enti locali nei processi di innovazione. Si apre così
un'importante prospettiva per il sindaco metropolitano dell'area milanese (una delle più importanti aree
metropolitane europee, quindi fondamentale per lo sviluppo sia dell'Italia che dell'UE): guidare il processo di sostanziale rinnovo del rapporto fra amministratori, cittadini, imprese, in sinergia con il programma
di sviluppo delle metropoli europee,
che prevede le seguenti priorità:
- agenda digitale: contributo alla
realizzazione di un mercato unico
del digitale connesso;
- energia resiliente: intenso sfruttamento delle risorse rinnovabili per
contrastare i cambiamenti climatici,
con applicazione particolarmente
intensa all'edilizia;
- difesa della base industriale e coinvolgimento dei giovani per la promozione di un'economia sociale di
mercato;
- generalizzazione del bilancio integrato, con valutazione della sostenibilità sia per quanto riguarda l'impiego delle risorse, sia l'impatto sulle risorse umane.
In fondo la 'renzata' di Junker è povera di risorse monetarie ma è ricca
di stimoli per indispensabili innovazioni organizzative per uno sviluppo
metropolitano e nazionale basato
sulla capacità di attrarre risorse.
LA CARENZA DI VISIONE 0 DELLA MIOPIA DEL PALAZZO
Roberto Biscardini*
Lo scorso anno non ho votato il bilancio 2014 di Palazzo Marino nella
speranza che qualcosa cambiasse
e che la giunta con uno scatto di
orgoglio si decidesse a fare ciò che
dopo tre anni e mezzo non era ancora riuscita a mettere in cantiere.
Ma anche perché si aprisse tra
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giunta, consiglio, forze politiche e
città, uno spazio di confronto e di
partecipazione assolutamente salutare che non c’è stato. Quattro questioni poste allora ancora oggi sul
tappeto.
Nonostante le migliori intenzioni la
giunta non è riuscita ad affrontare il
tema di una diversa organizzazione
della macchina comunale. La politica delle grandi scelte (che per merito dell’assessore Maran ha dato finalmente il via ai lavori della M4), è
ancora ferma al palo. Il potenziamento del nodo ferroviario di Milano
(Secondo Passante compreso), la
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definizione di un efficace piano dei
trasporti che sappia affrontare la
crescente domanda di mobilità alla
grande scala, l’accordo di programma con RFI sulla valorizzazione o meno degli scali ferroviari, il
piano parcheggi e un efficace piano
straordinario di investimenti per il
fabbisogno casa e per la riqualificazione delle periferie, sono ancora da
affrontare.
Infine, ci sono volute alcune tremende esondazioni per avviare con
Regione e Governo le opere di sistemazione del Seveso a nord di
Niguarda, ma nulla si dice delle opere che necessitano a sud, anche
in connessione con il progetto di riapertura della Martesana. Sul terreno delle entrate, avremmo potuto
portare nelle casse comunali risorse
fresche per nuovi interventi e servizi, attraverso una efficace azione di
contrasto all’evasione fiscale, ma
purtroppo anche su questo terreno
rischiamo di aver perso una grande
occasione.
A questo punto, si può fare in poco
tempo ciò che non si fatto finora?
Riusciamo a dare una risposta a chi
invoca anche in queste ore il bisogno di una visione strategica che
finora è sostanzialmente mancata?
Si dice che in politica si può, basta
volere. Ma a condizione di uscire da
quella visione minimalista del buon
governo e delle brave persone (che
per la politica dovrebbe essere il
minimo sindacale e non il massimo),
evitando di essere “afflitti da piccolezze” per rilanciare da Milano
l’Italia migliore.
Primo. Su Expo e sul ruolo di Milano
che ospita il più importante evento
della storia recente, c’è da domandarsi come mai si è così fragili. E
sul dopo Expo ancora peggio. Cosa
vuole la nostra città? La più grande
questione urbanistica di Milano
sembra nelle mani delle cosiddette
“manifestazioni di interessi”, dei
bandi andati deserti, dei pseudo incarichi alle università o di chi verrà.
Perché non confrontarsi con i progetti “degli altri”, con la cultura e i
saperi in modo largo? Perche non
aprire un confronto con la città alla
luce del sole? Perché non confrontarsi con la politica ben sapendo
che alla fine spetterà al consiglio
comunale tirare le somme.
Secondo. Occorre recuperare una
visione sulla grandi questioni alla
grande scala, quella regionale prima
di tutte, da cui ci si è tenuti troppo
lontano. Può Milano non dire la sua
sulla politica dei trasporti regionali,
sulle politiche ambientali, o sulle
prospettive della sanità lombarda,
senza difendere il proprio straordinario sistema ospedaliero pubblico?
Continuiamo a rimanere inerti davanti al loro progressivo impoverimento a favore degli interessi della
sanità privata? Perché?
Terzo. Occorre un salto di qualità
sul tema della qualità urbana (che
non si risolve con pur meritevoli interventi di arredo) e sulla qualità
delle nostre periferie (che una volta
non erano tali) che possono crescere strutturalmente non in densità,
ma come straordinari momenti di
“mescolanza sociale e funzionale”,
luoghi di lavoro, di cultura, di integrazione e di servizi urbani.
Quarto. È arrivata la “città metropolitana”, a detta di molti una grande
opportunità per un salto di qualità
rispetto alla vecchia Provincia, per il
rilancio della nostra economia, produttrice di nuovi progetti per rafforzare la competitività e irrobustire il
sistema delle imprese. Ma senza
un’idea forza di Milano non sarà così. Eppure nemmeno un consiglio
comunale è stato convocato sul merito di questa nuova opportunità. Milano avrebbe già potuto intervenire
con il suo peso per cambiare il quadro di riferimento di una legge istitutiva folle e scritta male, avrebbe già
potuto trovare alleanze istituzionali
ed economiche, avrebbe dovuto già
creare le condizioni perché nel 2016
ci siano elezioni a suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano per superare l’obbrobrio
delle elezioni di secondo grado. Avrebbe potuto mettersi alla testa di
un progetto che a tutt’oggi non c’è.
Non l’ha fatto. Perché?
Infine. Occorre recuperare una visione istituzionale, alta e forte. Cultura di governo, capacità di indirizzo
e di decisione in tempi ragionevolmente brevi. Idee chiare per innovare il governo della città, per rispondere a bisogni crescenti, anche sulle grandi cose. Un programma politico che sta dalla parte dei milanesi
che soffrono di più (ceti medi compresi) e di quelli che vedono aumentata la forbice delle diseguaglianze.
Nella consapevolezza che la somma di tante piccoli interventi, non fa
una politica generale. Una politica
che sappia parlare anche a coloro
che sono critici o persino delusi, e ai
quali non basterà dire “che si sono
incontrate molte difficoltà”, né basterà accontentarli con un po’ di demagogia. Una politica che sappia recuperare, anche nei pochi mesi che
rimangono, il senso vero della partecipazione allargata e popolare della vittoria del 2011, che non è la vittoria di un sindaco, ma di un idea di
cambiamento e di una comunità larga.
È in questo quadro di problemi che
si colloca il dibattito ormai aperto sul
dopo Pisapia uno.
AREE IN ATTESA: L’URBANISTICA DEI CAPANNONI
Francesco Gastaldi
La presenza di un ricco tessuto di
piccole e medie imprese non costituisce solo uno degli aspetti più noti
della struttura economica e sociale
dell’Italia centro-settentrionale, ma
anche una delle immagini dominanti
del paesaggio urbano. Chi percorre
le linee pedemontane alpina e appenninica, oppure la costa adriatica
o ancora la pianura toscana incontra una sequenza quasi ininterrotta
di edifici destinati ad attività produttive e artigianali, definiti nel linguaggio comune come “capannoni”. In
realtà si tratta di spazi più complessi, in molti dei quali prende forma
quel particolare modello economico
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e sociale che gli economisti hanno
chiamato “distretto industriale”: un
insieme di piccole e medie imprese
strutturate attorno a una filiera produttiva.
Il modello di sviluppo basato sui distretti si è realizzato troppo spesso
senza una progettualità sul versante
urbanistico - architettonico. A livello
locale l’industrializzazione diffusa
(avvenuta spesso nella sua fase iniziale, in deroga o in assenza di
strumenti urbanistici) è stata tollerata e favorita poiché limitava i problemi che i governi locali dovevano
affrontare.
A partire dai primi anni Novanta, e
più recentemente con la crisi economica degli ultimi anni, questi sistemi produttivi hanno però subito
processi di parziale dismissione o
rilocalizzazione. Nessuno avrebbe
potuto immaginare che le “aree traino” del dinamismo economico del
paese, soprattutto nell’export, potessero avviarsi verso una spirale di
crescente debolezza. Anche le imprese che hanno incrementato le
proprie attività, quando non hanno
scelto la strada di trasferire la produzione all’estero, si sono spesso
spostate all’interno di nuove aree
industriali di più recente realizzazio-
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ne, in lotti di maggiori dimensioni,
meglio serviti dal punto di vista logistico.
La crisi ha fatto emergere una nuova domanda di governo del territorio, non più legata a una fase espansiva, bensì al problema della
dimissione dei “capannoni” (molti
dei quali da tempo sotto-utilizzati o
in alcuni casi realizzati e mai concretamente utilizzati), delle possibili
destinazioni d’uso, della limitazione
della crescita edilizia e, più in generale, della transizione verso nuovi
modelli di sviluppo, lasciando molti
amministratori locali del tutto impreparati.
Sarebbe opportuno chiedersi quanto gli “attori della pianificazione” recepiscano effettivamente la crisi,
cioè se è in corso un processo di
apprendimento / innovazione vero e
proprio. Gli strumenti urbanistici generali esistenti sono stati concepiti e
approvati generalmente in epoca
pre-crisi, quando erano ancora pesantemente influenzati da logiche di
sviluppo che si supponevano illimitate, specie per alcuni settori di atti-
vità economica. Queste previsioni in
pochi anni si sono rivelate vecchie e
superate dalle nuove dinamiche dovute alla crisi, e oggi sono difficili da
riformulare in un quadro che si caratterizza per incertezza, indeterminazione, scarsa progettualità e debole fiducia nel futuro.
L’illusoria speranza della crisi come
fenomeno transitorio, con il passare
degli anni, si va via via rarefacendo.
Nel frattempo si assiste a ulteriori
dismissioni di aree industriali a causa di chiusure, delocalizzazioni,
riorganizzazioni aziendali, e si è aperta una nuova fase di dismissioni
di aree produttive molto diversa dalle precedenti. Per il mercato dei capannoni spesso è difficile l’incontro
fra domanda e offerta: ogni azienda
e ogni imprenditore ambirebbero ad
avere spazi fatti su misura per loro,
ma la bassa qualità territoriale degli
insediamenti
produttivi
sparsi,
l’assenza di servizi, i tempi della
mobilità sono elementi ormai “strutturali” in cui oggi si inserisce il fattore crisi.
La riqualificazione, o il riuso, dei
contenitori abbandonati li vede trasformati (talvolta) in luoghi di intrattenimento (es. discoteche, palestre,
sale prove musicali), spazi creativi o
semplicemente depositi, magazzini,
sedi di attività nel campo dei servizi.
Le aree artigianali si trasformano,
oltre che in aree a destinazione
commerciale, grazie alla disponibilità di spazi per parcheggio, più raramente in luoghi del terziario. In
tutti i casi elencati si assiste generalmente a spostamento di funzioni
dai centri urbani verso le aree esterne per cercare di sfruttare i
prezzi più convenienti degli affitti e
la maggior quantità di spazio disponibile. Le interminabili distese di edifici e capannoni industriali di medio piccola taglia, oggi popolati da cartelli con scritto “affittasi” o “vendesi”,
sono spesso incapaci di rispondere
alle nuove esigenze delle imprese.
È così che, non solo gli edifici, ma
anche le aree esterne e circostanti i
capannoni o perfino le aree di interi
sistemi produttivi si avviano a progressivo degrado.
MILANO 2011: “I PROSSIMI CINQUE ANNI SARANNO QUELLI DELLA DEMOCRAZIA
PARTECIPATIVA …” [G. Pisapia]
Giuseppe Natale*
Così recitava, nel 2011, il Programma del candidato Sindaco Giuliano Pisapia, a pag.4: “ I prossimi
cinque anni saranno quelli della
democrazia
partecipativa,
una
scommessa positiva sulla volontà e
capacità di cambiamento, un atto di
fiducia nei confronti dei cittadini.” Vi
si affermava categoricamente: “ la
partecipazione deve essere uno
strumento reale per decidere e governare, dal bilancio partecipato
alle scelte di insediamento, di infrastrutture, ecc.”. Si individuavano
strumenti e spazi di intervento e
partecipazione: lo “Sportello dei Diritti in tutte le zone e in ogni quartiere, per raccogliere segnalazioni dei
cittadini su condizioni di strade,
scuole, parchi e giardini …”; e “un
sistema di controllo permanente
svolto da cittadini e utenti dei singoli
servizi su qualità, efficacia e rendimento, attuando la legge che prevede un ruolo specifico delle associazioni dei consumatori”.
Quanto di quel programma si è realizzato?
L’amministrazione Pisapia ha cercato di andare incontro ai cittadini,
almeno quelli più informati e impegnati, che hanno provato a partecipare con impegno, anche ritico ma
comunque propositivo? La distanza
tra cittadini e amministratori si è ac-
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corciata oppure si è ulteriormente
allungata? Insomma, tra Politica e
Società civile, non solo a livello generale e nazionale, ma soprattutto
locale, i rapporti sono migliorati o
peggiorati?
Le risposte alle domande precedenti, purtroppo di segno negativo, sono tutte dentro l’articolo di fondo del
direttore di ArcipelagoMilano del 7
gennaio scorso. Partendo dall’affermazione che “partecipazione è affrontare insieme un problema condiviso in quanto problema e cercarne insieme la soluzione”, si constata con amarezza che a Milano in
questi tre anni e mezzo si è registrata una “mancanza reale di partecipazione”; e tale mancanza “è un
danno inferto al processo di identificazione sociale che dovrebbe legare governati a governanti“. L’articolo
di Beltrami Gadola ci stimola a fare,
da questa ottica, un bilancio del
rapporto tra cittadini e amministrazione Pisapia, in modo laico libero
indipendente. Bilancio che né la
politica né i mass media provano a
fare.
Diventa facile prevedere che il distacco tra governanti e governati
aumenterà ancora. A meno che i
“governati” (almeno la parte più
consapevole di essi) non riescano a
dimostrare di potere diventare essi
stessi cittadini governanti, promuovendo istanze e proposte di interesse comune e generale attraverso strumenti (purtroppo ce ne sono
pochi) di democrazia partecipativa
e diretta. Di strumenti e spazi di
partecipazione attiva al governo del
bene comune a disposizione dei
cittadini si ha tanto bisogno. Soprattutto da quando è stata introdotta
l’elezione diretta del sindaco attraverso un sistema elettorale, maggioritario e premiale, che riduce la
rappresentanza reale e plurale, accentra il potere esecutivo in modo
monocratico, sminuisce il potere
legislativo ed emargina gli organi
consiliari. Si sta invece mettendo in
discussione il principio della divisione dei poteri e limitando drasticamente l’efficacia degli organi di controllo e di garanzia.
Perché l’analisi diventi concreta,
cercherò ora di dimostrare che le
impegnative dichiarazioni del programma di Pisapia e della sua coalizione sono rimaste sulla carta. Né
lo sportello dei diritti né un sistema
di controllo permanente sono stati
realizzati. I Comitati per Pisapia,
strumenti di supporto elettorale, trasformati poi in Comitati per Milano,
non sono riusciti – meglio non è
stato consentito loro – di poter
svolgere il ruolo di veicoli di parte-
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cipazione dei cittadini e di controllo
democratico degli atti dell’amministrazione. Nonostante la buona fede e l’impegno di molti militanti che
ancora credono nella “rivoluzione
arancione“, si stanno esaurendo le
ultime energie partecipative. I Comitati per Milano attraversano una
crisi irreversibile.
Sul bilancio partecipato, un Comitato di cittadini denominato Audit Debito Pubblico, era riuscito - nonostante ostacoli politico-burocratici ad esaminare in modo critico le voci
del bilancio e aveva avanzato alcune proposte (audit sul debito del
Comune di Milano, messa in discussione del patto di stabilità , revisione dei costi per Expo, rimodulazione delle imposte comunali a
tutela dei redditi bassi). Inascoltato,
nonostante qualche presidio a Palazzo Marino. Purtroppo quei cittadini non ce l’hanno fatta e forse
hanno mollato: si spera di no!
Sono tanti i Comitati che si battono
per risolvere problemi gravi che riguardano i quartieri, l’assetto idrogeologico del territorio, l’ambiente, i
diritti sociali (casa , istruzione, salute, spazi culturali e di aggregazione,
ecc.), la speculazione edilizia, il
verde, la mobilità e il trasporto pubblico, le opere devastanti e dispendiose collegate con l’Expo. Questa
cittadinanza attiva non è presa in
considerazione. Senza voce.
Avviso ai naviganti e ai … manovratori: aumenta in modo esponenziale
il numero degli elettori di Pisapia
che giudicano la sua amministrazione una fotocopia di quelle di centro destra. Amministrazioni, entrambe, accomunate dal pensiero
unico del dio mercato, della compatibilità e dell’austerità, dell’uso della
città e del territorio funzionale ai
grandi interessi della finanza e della
rendita, delle grandi e dispendiose
opere inquinate da corruzione e
criminalità organizzata. Il programma elettorale svolge la funzione
dello specchietto per le allodole .
Buone intenzioni e tanta ipocrisia.
Altre due questioni: M4 e Città Metropolitana. Ha ragione Beltrami
Gadola quando afferma in modo
categorico che “la vicenda della
M4” è il paradigma della “mancanza
totale di partecipazione”. L’amministrazione non risponde ai rilievi critici di esperti del settore e non si
preoccupa neanche delle riserve e
perplessità interne alla sua stessa
maggioranza. Ignora l’appello del
Forum Civico metropolitano con cui
si chiede di non realizzare la M4
per le ragioni di sostenibilità economico – finanziario e ambientale,
nonché per una ragione intrinseca
in quanto opera ancora una volta
milanocentrica, avulsa dal contesto
di area vasta mentre si sta costruendo proprio la Città Metropoli-
tana (cfr. l’articolo di Ugo Targetti
su ArcipelagoMilano del 14 gennaio). L’obiettivo dell’appello è anche
quello della partecipazione propositiva finalizzata ad elaborare dal
basso e con competenza una proposta di piano strategico di livello
metropolitano e policentrico della
mobilità e del trasporto pubblico.
All’amministrazione Pisapia, come
a quelle precedenti, manca una visione strategica che superi i confini
amministrativi di Milano; esca dalla
tinozza monocentrica; imposti una
politica di area metropolitana; e realizzi il superamento del comune unico e l’articolazione in più comuni
del capoluogo dentro un sistema
equilibrato di città dell’area metropolitana. Sempre su ArcipelagoMilano del 7 gennaio scorso, Valentino Ballabio propone di uscire
dall’autoreferenzialità e dall’impasse politico-istituzionali dando la parola ai cittadini metropolitani tramite
un referendum d’indirizzo centrato
sui quesiti relativi al superamento
del centralismo e del gigantismo di
Milano e della polverizzazione dei
piccoli comuni. Il Forum Civico Metropolitano condivide la proposta e
intende mobilitarsi, con altri soggetti
disponibili, per promuovere il referendum.
*Forum Civico Metropolitano
FAMIGLIE E MINORI IMMIGRATI, LA SFIDA DELLA CITTÀ COSMOPOLITA
Chiara Lainati*
Il tema del futuro cosmopolita della
città chiama in causa in modo insistente le nostre politiche pubbliche.
Nell’ultimo anno è successo spesso
in chiave emergenziale (accoglienza
di profughi siriani ed eritrei) se non
apocalittica dopo i tragici fatti di Parigi (in particolare nei confronti dei
cittadini di religione musulmana, essendo anche appena uscito il bando
del Comune sui luoghi di culto), oppure avveniristica con EXPO 2015.
Si scorda facilmente la quotidianità
che la città vive ormai da tempo nei
quartieri, nelle scuole, nei posti di
lavoro, dove da anni convivono
donne, uomini, famiglie e minori
immigrati appena arrivati o insediati
da tempo, se non addirittura nati in
Italia. Dove da anni i servizi territoriali e le organizzazioni della società
civile hanno attivato processi per
favorire l’accesso ai diritti e al senso
del bene comune e della convivenza. Non senza fatica, perché la città
stessa è anche un sistema di luoghi
dell’esclusione ma è da questa con-
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vivenza quotidiana che dipende il
futuro della nostra città cosmopolita.
D’altra parte il Comune di Milano ha
vissuto alterni periodi storici, solo
negli ultimi anni sembra aver avviato un maggior dialogo con il territorio su questi temi, non senza difficoltà e indecisioni. E sicuramente la
debolezza delle politiche regionali e
nazionali grava su queste dinamiche.
A Milano i cittadini stranieri sono
264.238, rappresentano ormai quasi
il 20% della nostra popolazione residente e di questi ben un quinto
sono minori e la metà donne. Il 40%
della popolazione è costituito da
coppie e famiglie (Comune di Milano – Settore Statistica 2012). Spesso la tentazione è di catalogarle sotto un’unica etichetta, come “straniere”. La realtà è molto più complessa. Basta guardare ai loro figli: non
ci sono solo i nati in Italia e i neoarrivati ma anche quelli che sono arrivati in fasi diverse della loro vita
(pre-adolescenti o adolescenti) o
anche quelli che vivono migrazioni
pendolari tra Italia e paesi di origine.
La dimensione transnazionale delle
esperienze è quindi molto forte.
Una parte importante di queste famiglie si è ricostituita attraverso il
ricongiungimento familiare (L.40 /
98). Milano è la terza provincia in
Italia interessata dal fenomeno (e la
città di Milano ne accoglie all’incirca
la metà) e sebbene negli ultimi anni
questo abbia conosciuto una lieve
flessione dovuta alla crisi (i rientri al
paese di origine sono in crescita),
tuttavia i ricongiungimenti sono ancora rilevanti. A settembre 2014 a
livello provinciale erano in corso
43.000 domande per ricongiungimenti di familiari residenti all’estero
(coniugi o figli) con oltre 28.000 nullaosta rilasciati (Min. Interni - dipartimento per le libertà civili e immigrazione).
Decidere e intraprendere un ricongiungimento significa non solo affrontare un iter amministrativo ma
anche un percorso complesso
dell'esistenza che coinvolge la struttura familiare, dapprima provata dal-
6
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la distanza del genitore che parte
per primo e poi impegnata nella ricomposizione delle relazioni affettive e educative genitore-figlio. Non
sono disponibili dati specifici ma
l’esperienza dei servizi del territorio
ha osservato che in genere il ricongiungimento può avvenire anche
dopo lunghi periodi di lontananza,
circa 6-7 anni. I minori sono l’anello
allo stesso tempo debole e forte di
questo processo.
Da una parte incontrano forti criticità, perché di frequente non vengono
coinvolti nel progetto dai genitori
stessi e si ritrovano a vivere dopo
molti anni in un nuovo contesto
senza essere sempre preparati.
Spesso limitati da una “logica di integrazione al ribasso” che ha caratterizzato la prima generazione, incontrano difficoltà a stare nel nuovo
sistema scolastico - formativo con
conseguenti fatiche nella carriera
scolastica e sociale. Dall’altra sono
anche il futuro della nostra città, con
appartenenze fluide non irrigidite da
logiche sedentarie o etnico - nazionali e quindi aperte a sincretismi e
forme di partecipazione alla vita sociale e scolastica che alimentano
nuove cittadinanze giovanili.
Negli ultimi anni il Comune di Milano
e molti soggetti del territorio si sono
impegnati in progetti di sistema (fi-
nanziati da L. 285/97 o dal Fondo
Europeo per l’Integrazione) per accompagnare le politiche a individuare linee strategiche intersettoriali per
favorire percorsi d’integrazione tra
territorio, famiglie e scuola e sostenere così in modo più efficace i progetti d’integrazione dei minori stranieri. Il Centro per famiglie immigrate di Soleterre ONLUS dal 2008 partecipa a questo percorso proponendo un servizio integrato realizzato
nell’ambito di una cornice transnazionale, grazie alla collaborazione
con staff insediati in alcuni importanti paesi di origine (Marocco, Ucraina e El Salvador) e all’utilizzo di
Skype.
In questo modo i minori e le loro
famiglie vengono accompagnati a
comunicare anche a distanza nelle
diverse fasi di decisione e realizzazione del ricongiungimento (sia dal
punto di vista delle procedure che
dal punto di vista del percorso
d’inserimento nel nuovo territorio)
favorendo un progetto familiare più
condiviso. Nel fare questo il servizio
offre alle famiglie un orientamento
integrato ai principali diritti e relativi
servizi (scuola, lavoro salute), prevenendo la frammentazione tipica
delle risposte settorializzate del nostro sistema di welfare. In questo
modo si intende favorire una mag-
giore consapevolezza e competenza informativa delle famiglie immigrate favorendone l’autonomia.
*Soleterre ONLUS
nota:
Questo
articolo
si
basa
sull’esperienza che Soleterre ONLUS dal
2008 ha intrapreso sul territorio milanese
con il suo Centro per famiglie e cittadini
immigrati. Soleterre è un’organizzazione
umanitaria che realizza progetti e attività
a favore di soggetti in condizione di vulnerabilità. Interviene con strategie di pace e adotta metodologie di partenariato e
di co-sviluppo. Per fare questo crede nel
lavoro con i cittadini migranti attivandoli
non solo come beneficiari ma anche come attori degli interventi di sviluppo socio-economico in Italia e nei paesi di origine. I progetti e i servizi attivi a Milano
sono nati grazie a un percorso partecipativo intrapreso con le donne, le famiglie,
le comunità e le associazioni immigrate
e alla collaborazione con le equipe e i
partner di Soleterre operanti in alcuni
importanti paesi d’origine: Ucraina, Marocco e El Salvador. Negli ultimi anni
Soleterre ONLUS si è radicata sul territorio collaborando con diversi partner territoriali e istituzionali. In tempi recenti ha
avviato importanti progetti di sistema. A
Milano, in partnership con il Comune e
altre organizzazioni del Terzo Settore ha
coordinato il progetto “Siamo qui. Minori
migranti dal ricongiungimento a percorsi
integrati di cittadinanza sul territorio”
(2012/FEI/PROG-103292).
FUNERALI LAICI: SPAZI IN CITTÀ
Paola Bocci
Secondo una recente indagine DOXA commissionata dall’UAAR, Unione Nazionale degli Atei e Agnostici Razionalisti, l’Italia resta un
Paese fondamentalmente religioso
e di fede cattolica, dove più del 75%
della popolazione si dichiara credente, la somma di atei e non credenti è intorno al 15%, gli ‘agnostici’
rappresentano circa il 4%, quelli che
non definiscono con chiarezza la
propria areligiosità il 5%. All’interno
di quel 75% , ufficialmente un 5%
professa altre religioni, ma resta un
dato difficile da quantificare con esattezza, per la difficoltà ad avere
un campione rappresentativo di intervistati che fa riferimento alle tante
comunità straniere.
Negli ultimi anni nel nostro paese è
cresciuta l’attenzione verso i valori
laici e contemporaneamente, soprattutto nelle grandi città, si è accentuato l’aspetto multiculturale della società. Questo anche a Milano,
dove la convivenza e interazione tra
culture diverse necessariamente
coinvolge la sfera rituale. La nostra
comunità, che per storia e prassi ha
interpretato i propri riti e le proprie
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tradizioni come riferimenti privilegiati
e consolidati, sta cambiando ed è
compito di un’istituzione che vuole
essere aperta e attenta ai cambiamenti che attraversano la sua comunità, accogliere nuovi valori e introdurre pratiche che danno spazio
anche a nuove sensibilità e culture.
Non fanno eccezione le cerimonie
funebri: la commemorazione, la celebrazione del distacco tra chi resta
e chi non c’è più è un rito di importanza centrale in tutte le culture,
un’opportunità, per una piccola o
grande comunità, di riconoscersi, di
avere un momento di socialità e vicinanza stretta per condividere ricordi e affetti. Un rito non necessariamente legato a un credo o a una
fede religiosa, o alla fede cattolica.
Sono stata in questi mesi sollecitata
da molti nostri concittadini, perché i
desideri di avere per sé e per i propri cari cerimonie e riti di natura laica abbiano risposte pratiche di facile attuazione e luoghi belli e accessibili espressamente dedicate.
Un funerale laico non richiede permessi particolari o requisiti speciali,
il suo svolgimento è previsto dalla
normativa nazionale, che dispone
che nel territorio comunale ci siano
sale civiche a questo scopo specificatamente attrezzate; non sempre
però la norma ha trova applicazione
e per queste cerimonie vengono utilizzate sale private di onoranze funebri, sale d’albergo o la casa stessa dei familiari. Si chiamano “Sale
del Commiato” o “Sale della memoria”, e spesso per praticità e comodità, sono in prossimità di aree cimiteriali dove si effettua la cremazione.
Firenze è stato il primo capoluogo,
già dal 2008, a scegliere e destinare
spazi civici alternativi in città per lo
svolgimento dei funerali laici, coinvolgendo le zone di decentramento
e mettendo a disposizione sale attrezzate, disponibili a chiunque ne
richiedesse l’utilizzo a questi scopi,
con diritto di precedenza agli abitanti del quartiere.
Milano ha celebrato addii ai suoi cittadini illustri con camere ardenti allestite in luoghi pubblici non religiosi
a loro cari (penso a Franca Rame al
Piccolo di via Rovello, ma non è stata la sola), ma questa opportunità
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risulta ancora complessa e difficile
per un cittadino qualsiasi. La strada
più semplice è delegare la ricerca
dello spazio alle imprese che si occupano della sepoltura stessa, ricerca che si esaurisce il più delle
volte tra la grande sala del cimitero
di Lambrate, distante e non facilmente raggiungibile se non con
mezzi propri, e le sale private nelle
sedi delle aziende funebri.
La nostra città è ricca di luoghi belli
e accoglienti, adatti ad accogliere
una piccola o grande comunità che
voglia raccogliersi intorno al ricordo
e all’affetto per chi non c’è più, che
voglia condividere momenti anche
di serenità, e perché no, allegria e
non solo di tristezza, che la vicinanza ad un cimitero può rendere meno
sentiti.
Luoghi caldi e accoglienti, luoghi di
città, di prossimità, più di uno, di dimensioni diverse, perché una piccola comunità non si senta spersa e
una grande non si senta stretta. Alcune sedi dei CAM, di competenza
dei consigli di zona, in città potrebbero essere i luoghi ideali per il
commiato, come l’ex chiesa sconsacrata degli Angioli in Corso Garibaldi, o come altri luoghi storici cittadini come Villa Litta, la Palazzina
Liberty, e molti altri, luoghi conosciuti, riconoscibili e amati.
Credo che per questa Amministrazione dedicare uno o più spazi di
sua proprietà, dichiararne la disponibilità ad accogliere queste cerimonie di prassi, accogliendo i desideri di molti cittadini che vogliono
salutare laicamente i propri cari, sia
un segno importante di rispetto delle
pari opportunità di tutti i suoi cittadini, qualunque sia la loro cultura,
qualunque sia il loro credo. e apprezzo che l'assessore D'Alfonso
che ha la competenza ai servizi civici abbia fatto sua questa sollecitazione e dimostrato sensibilità alla
proposta e disponibilità a individuare risposte.
Un altro passo avanti nel riconoscimento di tutte le sfumature che abitano la nostra comunità di cittadini,
un incoraggiamento e accompagnamento del percorso nel dialogo
tra le diversità, altrettanto importante come il riconoscimento della necessità di luoghi di culto dignitosi
per tutte le religioni.
IL QUARTIERE ISOLA A MILANO: UN NUOVO PARADIGMA URBANISTICO SOCIALE?
Mario Ricci e Nicola Rovere
Il dibattito architettonico e urbanistico sulla città di Milano si è focalizzato, da qualche anno a questa parte,
e non solo su questo giornale, sui
grandi interventi di rigenerazione
urbana che l’hanno ri-portata, almeno dal punto di vista della promozione, a competere con le altre
grandi capitali europee. Progetti e
realizzazioni che hanno segnato il
passaggio per la nostra città, da una
“etica della produzione”, a una “estetica del consumo”, in cui le retoriche dell’architettura contemporanea - pensiamo solo all’alleanza
stretta tra verde e high-tech - sembrano acquietare emotivamente le
ansie suscitate, in particolar modo,
dall’estendersi sempre più pervasivo del paesaggio dello sprawl e dalle sue dinamiche speculative, spesso sommerse o ai limiti della legalità. Una polarità che ha spesso distolto l'attenzione dalle ricadute che
tali nuovi innesti producono sul tessuto edilizio tradizionale, ma anche
e soprattutto sul tessuto socioculturale, in particolar modo se ben
consolidato e caratterizzato.
Il quartiere Isola-Garibaldi è da questo punto di vista esemplare. Due
modelli di città collidono oggi in
quest’area di Milano: da una parte
la città storica con le sue stratificazione morfologiche e culturali,
dall’altra la metropoli globale con le
sue retoriche non solo iconografiche. La rigenerazione urbana che
sta avvenendo a Porta Nuova sul
sedime delle vecchie infrastrutture
ferroviarie e sui suoi bordi, rappresenta insieme a City Life, l’emblema
per Milano del nuovo approccio
market oriented: un ring di grattacie-
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li e edifici pubblici che delimitano un
nuovo parco urbano (una delle aree
pedonali pubbliche più grandi di Milano) che diviene lo specchio
dell’edonismo estetico operato dalle
nuove figure di developers, portatori
di moderni criteri economico finanziari. Un’operazione immobiliare un’enclave isolata e uniformata dal
valore iconico di ogni edificio - più
che un organico frammento di città,
che, come si sa, è stata aspramente
criticata da una parte e a-criticamente osannato dall’altra.
A nord dell’area di questi grandi interventi il quartiere Isola rappresenta un ultimo frammento della città
storica prima dell’indifferenziato paesaggio metropolitano. Il quartiere
deve la produzione di località alla
sua isolatezza fisica dalla città a
causa della costruzione della linea
ferroviaria, che costituiva una barriera fisica a sud rispetto al resto del
tessuto edilizio. All’Isola c’è poco
traffico, non vi è folla, e i bar sono
veri punti d’incontro, come nei paesi
di provincia: vi si trovano associazioni culturali, atelier artistici e artigianali e librerie; vi si trova una pluralità sociale ricca ed eterogenea
assente in altre zone della città.
Anche dal punto di vista della morfologia urbana e dell’architettura
l’Isola mostra alcuni caratteri distintivi: un tessuto mediamente denso
in cui si trovano alcuni palazzi Liberty, case di ringhiera e cortili, edifici razionalisti (Lingeri-Terragni),
nodi monumentali in cui si fondono
edifici religiosi, pezzi di archeologia
industriale, spazi verdi, distribuiti tra
piazze, piazzette, e piccoli parchigiardino. Il timore più grande per gli
isolani è quello per un processo di
gentrification innescato dai nuovi
interventi, che inesorabilmente possa snaturare l’identità e l’unicità della zona, favorendo l’arrivo di un
nuovo tipo di residenti abbienti e
trendy, con il rischio di annacquare
le tradizioni proletarie e industriali
dell’Isola. Preoccupazione che ha
contribuito e rafforzato ulteriormente
il collante identitario del quartiere e
ha prodotto una sorta di resistenza
attenta e critica alle trasformazioni
in corso.
Formatasi storicamente sul bordo di
profonde trasformazioni urbane,
l’Isola ha mostrato attraverso la sua
genesi storica, e mostra oggi, eccezionali doti di adattamento alla modificazione. Questa capacità di un
sistema complesso di adattarsi agli
eventi traumatici e alla modificazione delle circostanze, che non è da
intendersi come aspirazione conservatrice, viene identificata oggi
dalla parola “resilienza”. La resilienza è un modo di resistere senza innalzare barriere, un modo di vincere
attraverso il principio taoista della
cedevolezza, come vediamo in alcune tecniche di lotta orientale: adattandosi immediatamente alla
“forma” del combattimento, e utilizzando a proprio vantaggio “tutte le
forze che si vengono a creare in un
ravvicinato campo di sinergie fulminee fra due avversari”.
Così succede che oggi attraversando il quartiere ci si trova immersi in
un clima da comunità locale molto
accentuato, ma nello stesso tempo
respiriamo un’aria da metropoli globale. Si ha cioè l’impressione - immaginiamo quando gli ultimi edifici
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saranno completati, e il parco sarà
un giardino fiorito - che questi due
modelli insediativi possano coesistere generando occasioni e stimoli
reciproci. Sarà la forza resiliente del
quartiere Isola a interpretare e a
mediare gli influssi di un diverso
modo di vedere e di vivere tutto orientato all’emotività del consumo,
arricchendosi di ulteriori differenze,
o il vecchio tessuto connettivo fatto
di relazioni sociali e culturali diversificate, oltre che di rapporti spaziotemporali, sarà assorbito, snaturato
e omologato dalla forza pervasiva
dei nuovi modelli e desideri, creati
da un mercato che non è detto possa durare nella sua attuale esuberanza globale?
PIÙ CORAGGIO: “AREA C” COSÌ COM’È È INEFFICACE
Marco Percoco*
La riduzione di inquinamento e congestione è un obiettivo ormai comune a tutti i governi, nazionali e locali.
Tra gli innumerevoli strumenti ipotizzati e/o sperimentati, il road pricing è certamente quello che ha suscitato maggiore attenzione nei policy makers. Il pedaggio per entrare
nel centro di Londra è solo il caso
più celebre di road pricing, sebbene
altri casi (alcuni solo degli esperimenti) sono rintracciabili in Norvegia, a Stoccolma, Hong Kong.
Anche Milano, nel 2008, ha introdotto il cosiddetto Ecopass, ovvero una
tassa da pagarsi all’ingresso del
centro storico. L'Ecopass era in vigore dalle 7,30 alle 19,30 nell'area
di 8,2 kmq (rispetto ai 181 kmq totali) della città detta “Cerchia dei Bastioni”. Ad essa si poteva accedere
attraverso 43 varchi di cui 7 riservati
al trasporto pubblico. L'ingresso era
gratuito per le vetture meno inquinanti come le automobili a benzina
Euro 3 e 4 e i veicoli diesel Euro 4 e
5 con filtro antiparticolato (ed Euro 4
senza filtro antiparticolato fino al 1
giugno 2010), per tutti i veicoli elettrici e ibridi, per i motocicli e per tutti
i veicoli dei disabili, taxi, noleggi con
conducente, bus, veicoli di pubblico
servizio o appartenenti a enti pubblici.
L’Ecopass venne sostituito nel gennaio 2012 dall’Area C, una struttura
tariffaria che ha standardizzato la
tassa e ha ulteriormente ristretto la
fruibilità dell’area per i veicoli più
inquinanti. È invalsa l’idea per cui
l’Ecopass fosse un intervento volto
alla riduzione dell’inquinamento,
mentre Area C avrebbe l’obiettivo di
ridurre la congestione. Non è chiara
la ragione per cui vi sia questa distinzione, nel momento in cui la tassa o il divieto cui si è soggetti sub
Area C è funzione della tipologia e,
dunque, del livello atteso di inqui-
nanti prodotti dal motore montato
sul veicolo, e non funzione
dell’ingombro, ovvero della causa
generante il costo esterno da congestione.
Complice la crescente discussione
politica in vista delle elezioni comunali, si sono riaccesi i riflettori
dell’opinione pubblica sull’efficacia
di Area C. Le notizie recenti che abbiamo a disposizione non sono confortanti, visto che ci segnalano traffico in aumento nel centro cittadino.
È bene, però, rimettere ordine nel
dibattito, magari attingendo da alcuni sani principi scientifici che in questo caso potrebbero evitarci di incappare in errori di valutazione invero grossolani.
Sia nei periodici rapporti dell’AMAT,
che nelle dichiarazioni degli assessori alla mobilità che si sono succeduti dal 2008, che negli articoli di
giornale, si riportano statistiche molto (troppo) semplici in cui si comparano i flussi di traffico nel tempo,
dimenticando che essi sono dovuti a
molti altri fattori (climatici, economici, sociali, etc), cui reagiscono istantaneamente. La non considerazione
di queste variabili, ovvero l’utilizzo di
semplici confronti nel tempo come
strumento di valutazione, comporta
necessariamente una stima distorta
dell’effetto di Area C.
La ricerca a oggi pubblicata su riviste internazionali dei trasporti e che
utilizza metodi statistici che tengono
conto di molti altri fattori ci offre due
risultati
incontrovertibili:
a)
l’inefficacia di Area C (come pure di
Ecopass) nel ridurre strutturalmente
la concentrazione di qualsiasi inquinante; b) l’inefficacia di Area C da
un lato nel ridurre strutturalmente il
numero di veicoli circolanti a causa
in particolare di un incremento
nell’uso di motocicli (+21%) molto
inquinanti all’internodi Area C e
dall’altra di aumentare il traffico nelle strade a ridosso dell’area medesima,tassata (ovvero, la tassa ha
deviato il traffico).
Data questa evidenza empirica, è
difficile sostenere la non necessità
di un’estensione della zona soggetta a road pricing. Inoltre, l’esperienza di Londra pure ci insegna che
è necessario prevedere anche
un’estesa “Low Emission Zone”, ovvero un’area in cui è interdetta la
circolazione a veicoli a impatto ambientale anche medio. Car sharing,
bike sharing, “Zone 30” sono interventi la cui utilità non va oltre la
semplice dimostrazione, da cui non
possiamo ragionevolmente attenderci grandi risultati.
Milano è ancora una delle città più
inquinate e la più congestionata
d’Europa ed è forse giunta l’ora di
implementare misure più radicali,
per la salute e il benessere dei milanesi stessi. Una vastissima ZTL
sul modello della “Low Emission
Zone” londinese e un road pricing
calibrato sull’effettivo costo ambientale imposto dalle diverse tipologie
di veicoli e sull’elasticità dei flussi di
traffico al costo del trasporto sarebbero due scelte coraggiose e probabilmente efficaci.
Infine, un pensiero accademico, ma
con delle forti implicazioni pratiche.
Milano non dispone di un modello di
simulazione della sua economia integrato con il sistema dei trasporti,
come quello di Londra o di Parigi. In
tali condizioni è davvero difficile, se
non impossibile, immaginare gli effetti di politiche di traffico e il rischio
di ragionare seguendo sensazioni
personali è davvero troppo alto.
*Università Bocconi
EXPO: SICUREZZA DOPO I FATTI DI PARIGI, ATTENTI AI TAGLI
Ilaria Li Vigni
La serie di attentati avvenuti a Parigi
nel corso delle scorse settimane
hanno messo in allerta il resto
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dell’Europa, compreso il nostro paese che, fino a qualche anno fa, non
sembrava particolarmente nel miri-
no di eventuali azioni terroristiche: i
gruppi armati hanno dimostrato di
poter “tenere in scacco” una grande
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capitale europea per ore, addirittura
per giorni, dimostrando un’enorme
carica criminale e, soprattutto,
un’organizzazione nascosta ma certamente efficace e pericolosa.
La città di Roma e il Vaticano, sono
state dichiarate come primo obiettivo sensibile ma anche Milano è uno
dei possibili scenari per un atto terroristico, considerata la simbolicità
della nostra città, sia da un punto di
vista commerciale sia da un punto
di vista culturale. Tali aspetti sono
indubbiamente accresciuti dal fatto
che il 1° maggio di quest’anno la
nostra città sarà ospite della rassegna internazionale Expo 2015 e
l’evento porterà a Milano un afflusso
di milioni di visitatori prolungato per
sei mesi di durata dell’evento. Il luogo ideale, insomma, sembrerebbe,
per eventualmente colpire e sviluppare un attentato contro la nostra
nazione.
Su questo problema si è pronunciato, negli ultimi giorni sull’onda degli
ultimi eventi, anche Giuseppe Sala,
il commissario unico dell’Esposizione Universale, affermando che
Expo “potrebbe essere un bersaglio
ideale per il terrorismo”, ma chiarendo che molto si è fatto e altrettanto si farà per scongiurare tale
ipotesi, lavorando sulla sicurezza
sia per quanto riguarda la prevenzione (aspetto fondamentale), sia
per quanto concerne la repressione
nella quotidianità. E’ attiva da mesi
una task force sulla sicurezza che
vede lavorare congiuntamente il
Comune, la Prefettura e i vertici di
tutte le forze dell’ordine.
L’attenzione, naturalmente, sarà
puntata sul milione di metri quadrati
a Rho - Pero dove si svolgerà
l’evento e saranno collocati gli stand
dei paesi partecipanti, zona che dovrebbe essere protetta da quasi
quattrocento componenti delle forze
dell’ordine, tra semplici agenti e
graduati. Ma il piano per la sicurezza di Expo è stato immaginato come
uno schema a cerchi concentrici,
sempre più larghi per non lasciare
vuoti di tutela in aree anche non limitrofe ai luoghi dell’esposizione,
ma egualmente a rischio sia simbolico sia effettivo per eventuali atti di
terrorismo.
Infatti, l’area espositiva sarà soltanto il “primo livello” della barriera di
controllo delle forze dell’ordine: dalla vigilanza su padiglioni e visitatori
si passerà a un controllo capillare in
tutti i quartieri della città, anche
quelli più periferici. È così che, a
regime, dovrebbe arrivare a Milano
un “esercito” di circa 2500 rinforzi,
tra agenti della Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza. È grazie a loro che, attorno al grande evento, complessivamente dovrebbero lavorare 2.800 uomini che si occuperanno esclusivamente della sicurezza di Expo.
Sono gli occhi che sorveglieranno la
città chiamata a salire sul palcoscenico internazionale e cercheranno di
tutelare gli ospiti e i cittadini, soprattutto in un momento come quello
che stiamo vivendo in cui la tensione internazionale è molto forte per il
fenomeno del terrorismo.
L’operazione coinvolgerà tutte le
forze dell’ordine e, nei prossimi mesi, dovrà essere concretizzata, passando dalla teoria alla pratica, tutelando la straordinarietà dell’esposizione universale, ma non dimenticando in alcun modo le esigenze di
sicurezza “quotidiana” che una
grande città come Milano sempre
necessita. Insomma, più uomini, più
mezzi, più strutture necessarie a
questo appuntamento di estrema
importanza per la nostra città.
E più fondi per riuscire a tradurre in
realtà quelle stime che disegnano la
rete di protezione da stendere sulla
città: il piano prevede 126 milioni di
euro per rinforzi, attrezzature, logistica, da recuperare nell’ambito di
competenza di vari dicasteri.
Ci auguriamo che, davvero, tali risorse vengano interamente stanziate per assicurare a Milano un effettivo controllo sia preventivo sia repressivo, tutelando la sicurezza
dell’evento e dei cittadini e trasformando l’Esposizione Universale di
quest’anno in un positivo biglietto da
visita, nazionale e internazionale,
per il nostro paese e per la nostra
città.
Scrive Edoardo Croci a proposito di rottamazione edilizia
Con la consueta profondità di pensiero, Giuseppe Bonomi affronta in
modo innovativo e allo stesso tempo concreto il tema della rottamazione degli edifici, tenendo presenti
la necessità di evitare consumo di
suolo, di abbellire la città e di generare risorse.
Voglio solo ricordare che sul tema i
milanesi si sono espressi a favore
nell'ambito del quarto dei 5 referendum portati avanti da Milanosimuove (www.milanosimuove.it) e approvati nel 2011 dove si chiede: "la
concessione di incentivi per la demolizione e ricostruzione (“rottamazione”) degli edifici a maggiore inef-
ficienza energetica e privi di valore
storico e architettonico attraverso
premi volumetrici?”.
Con la sua proposta Bonomi sostanzia in un percorso articolato e
fattibile quella richiesta. Un suggerimento prezioso che l'amministrazione comunale farebbe bene a
considerare seriamente.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Die Soldaten
Con l’opera di Bernd Alois Zimmermann, in scena in questi giorni alla
Scala, comincia la vera stagione di
n. 4 VII - 28 gennaio 2015
Pereira; “Die Soldaten” è infatti il
primo dei sette famosi spettacoli
che il nostro nuovo Sovrintendente
ha venduto con la sua mano sinistra
(quella di Sovrintendente a Salisburgo, quando era ancora in cari-
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ca) a quella destra (cioè del già designato Sovrintendente a Milano)
mettendo a repentaglio la sua carriera e la nostra stagione Expo. Bisogna però dire che non tutto il male vien per nuocere visto che l’opera
pare sia molto affascinante e
l’impatto sul pubblico considerevolmente positivo. Anche chi – come
me – non l’ha ancora vista, è già
preso dall’evento e si è messo a
studiarlo.
Die Soldaten è il capolavoro di un
musicista tedesco dalla vita tormentata, ma è anche l’unica opera sua
che, insieme a un “Requiem per un
giovane poeta” e a un “Concerto per
violoncello e orchestra en forme de
pas de trois”, viene oggi rappresentata con un minimo di regolarità:
Zimmermann nasce vicino a Colonia nel 1918 e vive molto male la
giovinezza fra nazismo e guerra
(viene arruolato nella Wehrmacht
ma presto congedato per una malattia della pelle), ha trent’anni quando
frequenta i Corsi estivi di Darmstadt
ma soffre di problemi sempre più
gravi alla vista e soprattutto soffre di
una depressione cronica che lo porterà a buttarsi dalla finestra, sempre
nei pressi di Colonia, ad appena
cinquantadue anni.
Se la vita del musicista è tragica,
non è da meno quella dell’autore del
testo, lo scrittore e commediografo
Jakob Lenz (1751-1792), che fu allievo di Immanuel Kant ed amico di
Goethe (con il quale però litiga clamorosamente per un problema di
attribuzione di alcune sue opere);
rappresentante importante dello
“Sturm und Drang”, all’inizio della
carriera ha un discreto successo ma
poi avrà la vita segnata da una gra-
ve malattia mentale che lo porterà
dapprima a girovagare senza senso
fra i Vosgi, poi a farsi curare fra la
Svizzera e la Lettonia (il paese di
origine) ed infine a morire a Mosca,
solo e senza mezzi di sostentamento. Con “Die Soldaten” Lenz rompe
la regola della “unità di tempo, di
luogo e di azione” della commedia,
contribuendo non poco al rinnovamento del teatro europeo.
Se a questa singolare accoppiata di
biografie aggiungiamo l’atmosfera
del teatro musicale tedesco della
prima metà del novecento, dominata dal cupo espressionismo della
Lulù e del Wozzeck di Alban Berg,
non possiamo meravigliarci che Die
Soldaten sia un drammone intriso di
pessimismo e di desolazione,
un’opera di denuncia della miseria
morale, della crudeltà e della corruzione che guerra e vita militare impongono all’umanità; ancor più è
una fortissima protesta contro ogni
genere di sopraffazione.
L’azione è ambientata nelle Fiandre
francesi in un’epoca indefinita – “ieri, oggi e domani” – e la vicenda è
ormai nota: la protagonista Maria
cede alle profferte amorose di un
nobile potente e, attratta dal sogno
dell’ascesa sociale, tradisce una
precedente promessa di matrimonio. Quando il prepotente la lascia,
comincia l’ineluttabile declino che la
porta a diventare la «puttana dei
soldati» e - dopo un fallito tentativo
di recupero - a perdere ogni forma
di dignità fino a mendicare per strada, irriconoscibile persino al proprio
padre.
Ciò che rende il capolavoro di Zimmermann tanto difficile da rappresentare è la quantità di artisti e di
strumenti ch’esso richiede: 25 cantanti solisti, un’orchestra di 112 elementi - fra cui ben 15 percussionisti - che non riescono a star tutti “in
buca” ma devono dilagare fra palchi
e sale-prova ed essere riprodotti
con altoparlanti collocati nel soffitto
e infine, come non bastasse, un
complesso “Jazz Combo” di 4 elementi collocato nella barcaccia
stampa! Uno sforzo produttivo straordinario per cui si comprende come mai l’opera costituisca una rarità
e un evento culturale di grande rilevanza.
Scritta a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, e andata in scena per
la prima volta a Colonia nel 1965, la
si è vista abbastanza raramente
nell'ambito dell'avanguardia (unica
volta in Italia, a Firenze, negli anni
‘70), poi è apparsa a Stoccarda nel
1988, a New York nel 1991, a Dresda nel 1995, ad Amsterdam negli
anni 2000, alla Biennale della Ruhr
nel 2006, a Monaco di Baviera nel
2010, al Festival di Salisburgo
nell’agosto del 2012 (nell’allestimento che ora è arrivato alla Scala)
e infine a Zurigo nel 2013, e pare
che sempre e ovunque abbia ottenuto grande consenso di pubblico.
Rispetto alla versione di Salisburgo
ha dovuto subire qualche adattamento, per le diverse dimensioni dei
due palcoscenici, ma ha conservato
lo stesso direttore Ingo Metzmacher, lo stesso regista Alvis Hermanis (un lettone concittadino di Lenz)
e in gran parte gli stessi cantanti; la
vera novità consiste dunque nel
passaggio dai Wienerphilharmoniker all’Orchestra del Teatro alla
Scala. Vi saprò dire la prossima settimana!
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Quando arte e senso civico si fondono
Una mostra e a seguire un’asta negli spazi del MUBA, due i famosi
street artist coinvolti, due le giovanissime volontarie che hanno dato
vita al progetto con un obiettivo:
quello di sensibilizzare ed educare i
milanesi, giovani e meno giovani, ad
aprire gli occhi su ciò che accade di
notte per le strade della loro stessa
città. Un progetto decisamente ambizioso che porta dal 20 gennaio al
5 febbraio negli spazi della Rotonda
della Besana una selezione di opere
di Flycat e OZMO in una mostra il
cui allestimento prende vita tra vecchi copertoni e sacchi di iuta, a sot-
n. 4 VII - 28 gennaio 2015
tolineare quanto in strada possano
esserci interessantissime realtà celate e tutte da scoprire. In comune
hanno questo il CISOM (Corpo Italiano di Soccorso dell'Ordine di Malta) e gli street artist, non solo di vedere là dove altri non vedono ma di
cercare di rendere quel là un luogo
meno triste.
Jean Blanchaert, critico d’arte e gallerista, commenta nel catalogo che
accompagna la mostra «Così cantava Giorgio Gaber nel ’62 in una
bellissima canzone “Le strade di
notte diventano più grandi ed anche
un poco più tristi, è perché non c’è
in giro nessuno …”. Ma 43 anni dopo, nel 2015, nelle strade, di notte,
c’è in giro qualcuno e le strade diventano meno tristi».
Giorgia Baruffaldi Preis e Giulia Solaro del Borgo, le due volontarie che
hanno ideato il progetto, raccontano
con entusiasmo a chi visita gli spazi
all’interno del Museo dei Bambini
che Rise Up! La città che non dorme non è solo una mostra finalizzata a raccogliere fondi, è un atto volto
a porre luce sul lavoro che il CISOM
compie nella città sensibilizzando
soprattutto i più giovani. È in questo
senso che è stato scelto il Museo
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dei Bambini come spazio che ospita
la mostra, non solo contenitore ma
ripetitore del messaggio educativo e
facilitatore nella diffusione di esso.
Durante la mostra sono stati organizzati infatti, con il supporto del dipartimento educativo del museo,
otto laboratori che coinvolgono altrettante scuole medie e istituti superiori della città dove Flycat spie-
gherà ai ragazzi l’importanza di esprimersi in modo corretto mediando tra creatività e rispetto delle infrastrutture cittadine.
A conclusione del progetto giovedì 5
febbraio ci sarà un doppio appuntamento: alle 18.00 OZMO eseguirà
un live painting sul tema della carità,
mentre alle 20.00 Clarice Pecori Giraldi, Senior Director, Private Sales
di Christie's Europa, batterà all’asta
i lavori che i due street artist coinvolti hanno donato per la causa.
Rise Up! La città che non dorme
20 gennaio - 5 febbraio 2015 MUBA
- Museo dei Bambini Via Enrico Besana, 12 Milano Ingresso gratuito
Etty Hillesum maestra di vita
Inaugurata nel dicembre 2014 in
occasione del centenario della nascita (1914 - 2014) la mostra "Etty
Hillesum maestra di vita. Da Amsterdam ad Auschwitz", ospitata negli spazi delle ex cisterne della Fabbrica del Vapore, è stata ora prorogata fino al 31 gennaio. Milano rende così omaggio a Etty Hillesum,
giovane donna ebrea di grande profondità intellettuale e ricerca spirituale, vissuta in Olanda e morta ad
Auschwitz nel 1943, che ci ha lasciato nei Diari e nelle Lettere la testimonianza di un pensiero controcorrente e anticipatore, per molti
versi, di riflessioni attuali ancora oggi.
Realizzata in collaborazione con il
Comune di Milano, la Casa delle
Donne, la Casa della Cultura, la
mostra è un tuffo emozionale nella
vita dell’autrice, che permette a chi
già l’ha conosciuta leggendo i suoi
testi, di rincontrarla guardandola
negli occhi. Ma consente anche, a
chi non si è mai avvicinato a un suo
testo, di scoprire una donna che conosceva bene le parole e l’animo
umano, e che era capace di declinare le prime usandole per scandagliare a fondo il secondo.
La mostra è fatta di brani e foto,
provenienti dall’archivio del Museo
della Storia Ebraica di Amsterdam,
che ritraggono Etty, S. (cui, finalmente, si riesce così a dare un volto), la famiglia di lei e gli amici più
cari; pochi i testi curatoriali: quasi
come a voler lasciare il visitatore
solo nell’incontro con questa donna
straordinaria. Profonde e intense,
quasi quanto la stessa mostra, le
parole dei visitatori che si leggono
nei quaderni di commento la mostra: molti salutano Etty e spesso la
ringraziano per le riflessioni, spesso
per i consigli e in molti per aver esternato dolori condivisi che da soli
non sarebbero riusciti a far uscire.
"Nei diari e nelle lettere, tradotti in
Italia da Adelphi, Etty Hillesum te-
stimonia una capacità di introspezione e di osservazione della realtà
fuori del comune e ci parla con un
profondo accento di verità, senza
ricorrere a ricette miracolistiche o
palliative, in nome di un indistruttibile e gioioso amore per la vita.
I brani selezionati per la mostra
“Etty Hillesum maestra di vita” mirano a scuotere il visitatore alla stregua di “colpi di martello” – secondo
un’espressione adottata dalla stessa Hillesum – che minano certezze
consolidate e luoghi comuni, costringendolo a rovistare nelle viscere del proprio io alla ricerca di verità
scomode o sottaciute." Pier Giorgio
Carizzoni – Curatore della mostra
Etty Hillesum. Cuore pensante
della vita - La Fabbrica del Vapore /
Spazio ex Cisterne, via Procaccini 4
Tutti i giorni dalle ore 14 alle ore
19.30 (martedì 27 gennaio dalle ore
14 alle 22) Biglietto: 3 euro
Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso
di avvicinamento e scoperta del
processo di produzione di ciò che
mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni
accompagnano il visitatore dalla
scoperta dei cibo, dall’origine
quando è seme fino alle reazioni
chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o
exhibit interattivi.
La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del
Museo di Storia Naturale Milano,
rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica
promosso dal Comune di Milano
sul tema di Expo 2015. “Nutrire il
Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti
iniziative del programma di “Expo
in Città”.
n. 4 VII - 28 gennaio 2015
Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e famiglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine
di barattoli mostrano, portando, in
alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle
più importanti banche dei semi
italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti
dove mele, agrumi, riso, caffè e
cacao non avranno più segreti: tra
giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile
e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili
le nozioni più scientifiche a un
pubblico differenziato, senza per
questo incorrere nel rischio di
semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di
tante ricette vi siano principi di
chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della
mostra illustra come funzionano
alcuni degli elettrodomestici più
comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate
che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che
per meglio conservarli andrebbero
avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai
problemi di chi cucina (cosa fare
se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala
I sensi. Non solo gusto ovvero
niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare
giocano un ruolo determinante, al
punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se
non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il
2015.
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Food. La scienza dai semi al
piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì,
Mercoledì, Venerdì, Sabato e
Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì
9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
Mostre e buoni propositi per il 2015
Il nuovo anno inizia sempre con i
migliori propositi, soprattutto in ambito sportivo e culturale: quest’anno
andrò almeno una volta al mese a
vedere una mostra, saranno almeno
due le sere la settimana dove correre. Sull’aspetto sportivo non possiamo aiutarvi, ma per quanto riguarda le mostre vi segnaliamo ciò
che accadrà a Milano nei prossimi
mesi. Alcune delle proposte sono
più indirizzate a Expo e al tema
dell’alimentazione, altre invece più
votate a mostrare il meglio dell’italianità a chi per l’occasione visiterà
Milano.
A Palazzo Reale faranno da padroni
due grandissimi artisti, simbolo del
genio italiano: Leonardo (dal 14
aprile) e Giotto (dal 2 settembre
2015 al 10 gennaio 2016). La prima
è presentata come la più grande
mostra su Leonardo mai ideata in
Italia, non celebrativa ma trasversale, a cavallo tra arte e scienza mentre la seconda ripercorre lo straordinario lavoro dell’artista fiorentino. Il
grande polo espositivo ospiterà mol-
to altro: Natura, mito e paesaggio
dalla Magna Grecia a Pompei (21
luglio 2015 al 10 gennaio 2016),
mostra dedicata a raccontare il paesaggio nel mondo classico, indagando come nei secoli sia cambiato
e evoluto il rapporto dell'uomo con
la natura che lo circonda; Arte lombarda dai Visconti agli Sforza
(marzo – giugno 215) mostra che
intende celebrare una delle pagine
più gloriose della storia della città di
Milano che sotto le due famiglie si
affermò come una delle città più importanti d'Europa.
La prima grande retrospettiva dedicata a Medardo Rosso (marzo giugno) verrà allestita nelle sale ottocentesche della GAM di Palestro
mentre Palazzo della Ragione ospiterà da marzo a settembre Italia
inside out, una raccolta di immagini
che presentano al pubblico il lavoro
collettivo di quei fotografi che, in
momenti diversi, e con sensibilità
individuale, hanno colto gli aspetti
principali della vita del nostro Paese.
Se cibo e alimentazione sono i temi
attorni ai quali si sviluppa Expo
2015, non mancano di certo mostre
che li celebrino: attesissima è infatti
Arts & Foods, unica Area tematica
di Expo realizzata in città e allestita
negli spazi interni ed esterni della
Triennale di Milano dal 9 aprile fino
al 1 novembre. La grande mostra
(7000 mq) metterà a fuoco la pluralità di linguaggi visuali e plastici, oggettuali e ambientali che dal 1851,
anno della prima Expo a Londra,
fino a oggi hanno ruotato intorno al
cibo, alla nutrizione e al convivio.
Inoltre farà tappa a Milano dal 28
aprile al 6 settembre la mostra Il
Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e
Bronzino, ospitata prima al Palazzo
del Quirinale (fino al 15 aprile) e che
concluderà il proprio percorso a Firenze dal 16 settembre al 15 febbraio.
La proposta è vastissima e in continua crescita, non resta che segnarsi
le preferenze in agenda e non abbandonare i buoni propositi.
L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca
Se un pomeriggio d’inverno un
viaggiatore avesse voglia di scoprire
Milano attraverso uno dei luoghi
simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi
all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello
spazio è la personale di Céline
Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano.
L’esposizione ha un titolo che non
passa inosservato:
bau bau.
L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche
un omaggio al significato della parola in lingua tedesca, costruzione, e
all’esperienza della scuola del Bauhaus.
Effettivamente, superate le difficoltà
iniziali di approccio all’apparente
incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela
ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video
e scritti.
L’artista ha una formazione relativa
all’architettura e alla cultura visuale,
e ha riflettuto a lungo sulle “strutture
di sostegno”, ovvero su ciò che
supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che
relazionale.
L’amicizia diventa per l’artista una
dimensione di lavoro e una forma
d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia
sono condensati nel libro The
company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque
può accomodarsi e leggerlo, e chi
vuole può anche salire sul tavolo
per osservare dall’alto la visuale
all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta
appositamente dalla Condorelli in
occasione della mostra.
Un altro tema forte è infatti il dialogo
con gli spazi dell’Hangar. La mostra
è stata pensata in relazione alle
precedenti esposizioni (il pannello di
legno all’ingresso è lo stesso della
mostra precedente di Gusmão e
Paiva, e Céline vi ha posto una ven-
tola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la
scoperta delle opere; i video in onda
su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione
con lo stabilimento Pirelli di Settimo
Torinese.
Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installazioni che
diventano sedute su cui i visitatori
possono accomodarsi e colloquiare,
tende dorate mosse dal vento: bau
bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici,
stupore negli appassionati. Giulia
Grassini
Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano
fino al 10 maggio 2015 – da giovedì
a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso
gratuito
Nel Blu di Klein e Fontana al Museo del Novecento
Uno straordinario racconto di un
dopoguerra animato da artisti, colle-
n. 4 VII - 28 gennaio 2015
zionisti, intellettuali e mercanti è lo
scenario che si immagina faccia da
sfondo alla relazione di amicizia tra
Yves Klein e Lucio Fontana raccon-
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tata nella mostra in corso al Museo
del Novecento e che immergono chi
vi è coinvolto con stimoli visivi e
suggestioni intellettuali.
Due città, Milano e Parigi, e due artisti, distanti per età anagrafica, provenienza, formazione e stile ma con
in comune la ricerca artistica che si
articola verso nuove dimensioni
spaziali e concettuali. Ripercorrendo
il tradizionale allestimento cronologico del Museo ci si accosta progressivamente al rapporto tra i due:
più questo si fa intenso e più aumenta la densità di opere che si incontrano dei due artisti. L’apice del
sodalizio si raggiunge quando si
spalanca la vetrata sopra piazza del
Duomo con la Struttura al neon di
Lucio Fontana sul soffitto e la distesa blu di Pigment Pur di Klein. Un
dialogo straordinario all’interno del
quale il visitatore non può che sen-
tirsi coinvolto ed estasiato ammiratore.
Cinque sono gli anni cui la mostra è
dedicata: dal 1957, anno in cui Yves
Klein espone per la prima volta a
Milano alla Galleria Apollinaire una
serie di monocromi blu, al 1962, anno della morte dello stesso Klein.
L’inaugurazione della mostra in Brera è l’occasione in cui i due artisti si
incontrano per la prima volta e Fontana è tra i primi acquirenti di un
monocromo dell’artista francese,
diventando poi uno dei suoi più importanti collezionisti in Italia.
Nell’esposizione sono documentati
cinque anni di lettere, incontri, viaggi e condivisione di due artisti che
hanno segnato profondamente, ognuno a modo proprio, la storia
dell’arte novecentesca. L’affinità intellettuale e artistica emerge laddove le aperture spaziali di Fontana
(fisiche e concettuali) trovano corrispondenza nel procedere di Klein
dal monocromo al vuoto. Entrambi
perseguono uno spazio immateriale,
cosmico o spirituale, che forse appartiene a un’altra realtà.
Una mostra da non perdere “Yves
Klein Lucio Fontana, Milano Parigi
1957-1962”, che per la ricerca storico-artistica e le scelte curatoriali
non appaga solo la fame conoscitiva del visitatore, ma soprattutto fa sì
che venga immerso in un mondo blu
splendente che offre un profondo
godimento emozionale.
Klein Fontana. Milano Parigi
1957-1962 Museo del Novecento
piazza Duomo fino al 15 marzo
2015 lunedì 14.30 – 19.30 martedì,
mercoledì, venerdì e domenica 9.30
– 19.30 giovedì e sabato 9.30 –
22.30 Biglietti :10/8/5 euro
Tra Leonardo e Milano prosegue felicemente il sodalizio
Se in una pigra domenica sera emerge nel milanese un’incontenibile
voglia di visitare una mostra, quali
sono le proposte della città? Intorno
alle 19.30 non molte in realtà: Palazzo Reale così come i grandi musei del centro sono già in procinto di
chiudere. Una però attira l’attenzione, sarà per la posizione così
centrale o forse proprio per il fatto
che è ancora aperta.
Quella dedicata al genio di Leonardo Da Vinci, affacciata sulla Galleria
Vittorio Emanuele, è una mostra in
continua espansione che periodicamente si arricchisce di nuovi elementi frutto delle ricerche dal Centro
Studi Leonardo3, ideatore e organizzatore della mostra nonché
gruppo attento di studiosi. Se Leonardo produsse durante la sua vita
un’infinità di disegni e schizzi, L3 si
pone come obiettivo quello di studiare a fondo la produzione del genio tostano e renderla fruibile a tutte
le tipologie di pubblico con linguaggi
comprensibile e divulgativi offrendo
un momento ludico di intrattenimento educativo, adatto sia per bambini
che per adulti.
Quasi 500 mq ricchi di modelli tridimensionali e pannelli multimediali
che permettono realmente di scoprire le molteplici sfaccettature del
pensiero e dell’operato leonardesco:
macchine volanti o articolati strumenti musicali possono essere
smontate e rimontate; riproduzioni
del Codice Atlantico e di altri manoscritti sono tutte da sfogliare, ingrandire e leggere; ci sono giochi di
ruolo a schermo nei quali i visitatori
vestono i panni dello stesso Da Vinci. La produzione artistica non è dimenticata, anzi: un’intera sala è dedicata ai più famosi capolavori
dell’artista con un grande pannello e
due touchscreen dedicati al restauro
digitale dell’Ultima cena, alla Gioconda e a due autoritratti dell’autore.
Inaugurata nel marzo 2013, prorogata prima fino a febbraio 2014 e
ancora fino al 31 ottobre 2015, la
mostra ha superato le 250 mila visite imponendosi come centro attrattivo per turisti e cittadini. Un buon risultato, ma forse basso considerando l’alta qualità della mostra e la
posizione decisamente strategica. Il
successo di pubblico sarebbe stato
migliore (forse) con un maggiore
rilievo dato dalla stampa e dei social
network, e da un costo del biglietto
più calmierato. Ma c’è ancora tempo, e l’occasione giusta è alle porte:
non perdiamola e anzi, dimostriamo
che anche a Milano ci sono centri di
ricerca capaci di produrre mostre
interessanti senza necessariamente
creare allestimenti costosi ed esporre opere o modelli originali.
Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo
1 marzo 2013 - 31 ottobre 2015
Piazza della Scala, Ingresso Galleria Vittorio Emanuele II Aperta tutti i
giorni, dalle 10:00 alle 23:00 compresi festivi Biglietti: 12/10/9 euro
Il “re delle Alpi” conquista anche Palazzo della Ragione
Quella al Palazzo della Ragione non
è solo una mostra di fotografia sui
grandi spazi, come riporta il titolo, è
un’ode alle avventure e alle montagne di Walter Bonatti. 97 gli scatti
presentati in quella che si sta imponendo sempre di più come una sede espositiva di valore della città di
Milano.
Ma alle grandi fotografie del mondo,
alle riproduzioni audio e video si affiancano alcuni degli oggetti che
hanno da sempre accompagnato
n. 4 VII - 28 gennaio 2015
Bonatti: gli scarponi di cuoio oramai
consunti, la Ferrania Condoretta,
una piccola macchina fotografica
che usò sul Petit Dru, e la macchina
per scrivere: una Serio, modello Everest-K2, che gli venne regalata
dalla stessa azienda produttrice
perché raccontasse la vera storia di
ciò che successe sul K2 nel 1954.
È forse grazie a quel dono che Bonatti prese ad affiancare all’alpinismo e all’esplorazione delle vette
anche la narrazione. Acuto e attento
osservatore del mondo, Bonatti attraverso i suoi reportage darà voce
a realtà lontane appassionando i
lettori delle più grandi riviste italiane,
prima tra tutte Epoca.
Un uomo decisamente in controtendenza rispetto al contesto nel quale
viveva: nell’Italia post-bellica del
boom economico Bonatti sceglie
l’allontanamento dalla realtà per andare a scoprire mondi nuovi e inesplorati. Mai lo sfiora il pensiero di
rimanere, anzi torna sempre a casa
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per raccontare il suo vissuto: da
ciascun viaggio porta con sé racconti, riflessioni e tante, tantissime
immagini per far sognare chi non
riesce a partire con lui.
Le immagini in mostra raccontano
dei grandi viaggi, della sua capacità
di errare solo e della sua grande
ammirazione per la potenza della
natura. Emerge anche una certa
consapevolezza di sé: durante i suoi
viaggi Bonatti escogita una serie di
tecniche con fili e radiocomandi che
gli consentono di essere non solo
parte delle proprie fotografie, ma
romantico protagonista, quasi ultimo
e affascinante esploratore del mondo.Una mostra che coinvolge il visitatore mescolando avventura, fotografia e giornalismo, giungendo a
delineare il profilo di un grande uo-
mo che ha contribuito a fare la storia del Novecento.
Walter Bonatti. Fotografie dai
grandi spazi Palazzo della Ragione
Milano fino all'8 marzo 2015 - Orari
Tutti i giorni: 9.30 - 20.30 // Giovedì
e sabato: 9.30 - 22.30 La biglietteria
chiude un’ora prima dell’orario di
chiusura Lunedì chiuso Ingresso 10
euro
Marc Chagall porta la leggerezza a Palazzo Reale
Non si può essere a Milano
nell’autunno 2014 e non aver visitato la grande retrospettiva dedicata a
Marc Chagall, tale è stato il battage
pubblicitario che ha tappezzato
l’intera città. Non solo, ma Chagall è
anche uno di quegli artisti che rimangono nei ricordi anni dopo la
fine degli studi, che sembra facile
capire e apprezzare e per i quali si è
più predisposti a mettersi in fila per
andarne a vedere una grande mostra. Su questa scia è stato pensato
il percorso che ha condotto
all’ideazione della mostra, che
prende proprio le mosse dalla domanda “Chi è stato Marc Chagall? E
cosa rappresenta oggi?”
L’esposizione, a Palazzo Reale fino
al 1 febbraio, accompagna il visitatore in una graduale avvicinamento
all’artista; attraverso 15 sale e 220
opere si scopre l’artista affiancando
l’esperienza artistica alla sua crescita anagrafica. Uomo attento e profondamente sensibile al mondo che
lo circonda, Chagall, è figlio ed erede di tre culture con le quali si è
confrontato e che nel suo lavoro ritornano spesso: la tradizione ebraica dalla quale eredita figure ricorrenti, come l’ebreo errante, e immagini cariche di simbologie; quella
russa, sua terra natia dei bianchi
paesaggi e delle chiese con le cupole a cipolla, e quella francese delle avanguardie artistiche, incontrata
più volte durante i suoi soggiorni.
Queste eredità si manifestano in
maniera eterogenea e armonica in
uno stile che rimarrà nella storia per
essere solo suo: colori pieni di forma e sostanza, animali e uomini
coprotagonisti in una sinergia magica, l’atmosfera quasi onirica e
l’amore assoluto che ritorna in ogni
coppia raffigurata, quello tra Marc e
Bella Chagall e che intride di felicità
e leggerezza ogni altro oggetto raffigurato intorno a loro. Persino il secondo conflitto mondiale e poi la
morte dell’amata Belle paiono non
appesantire il suo lavoro, quanto
invece lo conducono a una maggiore profondità e pregnanza di significato.
L’immediato godimento della mostra, che potrebbe essere ostacolata dalla lunghezza e dal corpus così
importante di opere, è dato anche
dalla capacità didattica della audioguida e dei pannelli di mediare tra il
pensiero e il valore pittorico dell’artista e l’occhio poco allenato del visitatore. I supporti presenti in mostra contestualizzano in maniera
chiara il periodo e i lavori del pittore,
offrendo tal volta una descrizione,
tal volta un approfondimento nelle
voci della curatrice Claudia Zevi o
dell’erede dell’artista, Meret Meyer.
La mostra racconta anche la poliedricità dell’artista: attraverso i costumi, i decori e le grandi scenografie che l’artista ha realizzato per il
Teatro Ebraico Kamerny di Mosca
emerge lo Chagall sostenitore entusiasta e attivo protagonista in ambito culturale della Rivoluzione d’ottobre; nelle illustrazioni per le Favole di La Fontaine e nelle incisioni
per Ma vie (la sua autobiografia) si
incontra un altro Chagall ancora,
che non teme in nessun modo il
mettersi alla prova con qualcosa di
nuovo e diverso.
Uomo e artista che si fondono in
una personalità quasi magica che al
termine della percorso espositivo
non si può non apprezzare e che
sancisce, ancora una volta, il ruolo
dell’artista nella storia dell’arte moderna.
Marc Chagall. Una retrospettiva
1908 - 1985 - fino al 1 febbraio 2015
Palazzo Reale, piazza del Duomo
Milano - da lunedì 26 gennaio apertura straordinaria fino alle h
24 (ultimo ingresso h 22.30)
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
Gianrico Carofiglio
La regola dell’equilibrio
Einaudi Editore, Torino, 2014
pp. 280, euro 19,00
Gianrico Carofiglio è un autore che
non ha bisogno di presentazioni. Le
sue opere sono sempre in cima alle
classifiche. E per uno scalatore come lui, conquistare le vette dell’editoria italiana e internazionale, e rimanerci, è stata una grande vittoria.
Ci chiediamo quale possa essere il
suo segreto. Innegabile la passione,
n. 4 VII - 28 gennaio 2015
la determinazione e, soprattutto, la
costanza, ma c’è molto di più. Non
sarò certo io a svelarvi l’arcano, però un sistema c’è, ed è quello di
leggere i suoi libri. Nella continua
ricerca dell’equilibrio, sempre in bilico sul bordo di un burrone o sulla
cresta di un’onda, Gianrico affronta
temi forti, utilizzando personaggi,
che un poco gli somigliano.
“Era forse il dieci aprile.” Ecco,
l’incipit dell’ultimo romanzo, che vede protagonista l’avvocato Guido
Guerrieri, eroe mai tramontato dei
primi successi dello scrittore. Questa volta Guerrieri è alle prese con
un caso difficile. A bussare alla por-
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ta del suo studio, situato nel centro
di Bari, è un ex compagno di liceo e
poi di università. Pierluigi Larocca
non è solo un amico, non è una
persona qualunque. È un uomo intelligente, dotato, che a soli ventiquattro anni è diventato giudice e
ora è nel pieno di una folgorante
carriera. Larocca si rivolge a Guerrieri perché lo difenda dall’accusa di
corruzione, la peggiore cosa che
possa capitare a un magistrato. Nelle indagini, l’avvocato è aiutato da
un amico poliziotto, Carmelo Tancredi, e da una investigatrice privata, Annapaola, che viaggia con una
mazza da baseball nel borsone.
Di fronte ai primi risultati, Guerrieri è
in crisi. Diviso tra due valori in cui lui
crede fermamente: l’amicizia e la
morale. Nemmeno prendere a pugni
il sacco da boxe, appeso nel soggiorno di casa, riesce a distrarlo dal
problema che dovrà affrontare. Neanche fare l’amore con Annapaola,
“che da tanto tempo non mi era piaciuto così”. Ci vuole coraggio ad affrontare questo caso, lo stesso coraggio che dimostra di avere
l’autore, ex magistrato, a mettere in
luce il fango di un ambiente in cui
per anni ha lavorato.
Larocca è un giudice che vive nel
mondo delle sue menzogne e delle
sue giustificazioni. Bellissima la citazione dai Fratelli Karamazov: “Chi
mente a se stesso e presta ascolto
alle proprie menzogne arriva al pun-
to di non distinguere più la verità, né
in se stesso, né intorno a sé.” Anche se Carofiglio cerca di alleggerisce il dramma della corruzione del
potere giudiziario, introducendo
scene ironiche e di vita quotidiana, il
lettore si troverà nella stessa fogna
in cui molti magistrati vivono, con la
piena consapevolezza che certe cose succedono. E succedono davvero.
Un libro che non si riesce a chiudere nemmeno a notte fonda. Si va
avanti finché giunge l’alba, e si arriva all’ultima pagina. Solo allora si
respira aria fresca, “sembrava una
mattina di quando ero ragazzo”.
Cristina Bellon
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected]
Avanim | Pietre per la memoria
Da martedì 27 gennaio 2015, Giorno della Memoria in ricordo delle
vittime dell'Olocausto, è in scena al
Teatro Studio Melato Avanim ovvero Pietre della compagnia teatrale
israeliana
ORTO-DA
Theatre
Group.
Lo spettacolo, in scena fino al 1
febbraio, trae ispirazione dal monumento di Nathan Rapoport in
memoria delle vittime della Shoah e
dei resistenti del Ghetto di Varsavia
posto nel 1948 all’ingresso del
Ghetto.
Nel corso della Seconda Guerra
Mondiale, quando le armate naziste
si abbatterono come un uragano
sull’Europa, Adolf Hitler inviò un
corpo speciale tedesco in Svezia,
per individuare ed estrarre uno speciale tipo di granito con il quale
scolpire un monumento celebrativo
del Terzo Reich. Al termine della
guerra, dopo la disfatta nazista, le
pietre furono abbandonate. Nel
1946, lo scultore ebreo Nathan Rapoport decise di scolpire una statua
che onorasse la memoria dei ribelli
del Ghetto di Varsavia e si mise in
cerca del granito più adatto allo
scopo. Dopo lunghe ricerche, le pietre furono ritrovate, in Svezia: era
come se stessero aspettando. Le
stesse pietre che avrebbero dovuto
rappresentare la grandezza del Terzo Reich sono oggi il simbolo dell’atroce stermino degli Ebrei in Europa.
Queste sono le uniche parole di Avanim: tutto il resto è raccontato dai
corpi, inizialmente immobili come le
pietre del titolo, che lentamente si
animano e prendono vita sul palcoscenico. Truccati in modo da rappresentare le figure del monumento
di Rapoport, gli attori intraprendono
un viaggio intimo nelle coscienze e
nel tempo, nelle menti e nelle memorie, nel presente e nella storia.
Un percorso poetico e pieno di ironia, nel quale la comicità gioca con
il dolore agrodolce del ricordo. Avanim mostra come l’immaginazione e
la poesia possano cogliere la bellezza e la speranza anche dal lato
più oscuro del genere umano e gli
orrendi simboli dell’Olocausto possano dar vita ad uno spettacolo ri-
goroso, colorato, a volte sconcertante. Un omaggio, nel 70° anniversario dell’abbattimento dei cancelli
di Auschwitz, a una pagina dolorosa
della storia attraverso la delicata
fantasia degli Orto-Da.
Nato nel 1996 da sei mimi attori,
specializzati nel teatro di strada, il
gruppo ORTO-DA mutua i proprio
nome da “Orto”, radice di ortodosso,
e “Da” come Dada. In ebraico il nome rimanda ad altri due concetti:
“Or” ovvero luce, “Toda” che vuol
dire grazie. In queste radici etimologiche risiede la chiave del lavoro
della compagnia: la loro ricerca mira
ad armonizzare le radici culturali del
teatro di tradizione con l’esplorazione di nuovi territori teatrali. Il
gruppo porta in scena una fusione
post moderna di mimica e clownerie
con un tocco “dark”, danza e visual
art, creando uno stile unico, non privo di ironia, che raggiunge il pubblico oltrepassando qualsiasi barriera
linguistica e culturale
(Ufficio stampa Piccolo Teatro)
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
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Corri, ragazzo, corri
di Pepe Danquart [Germania Francia, 2013, 108']
conAndrzej e Kamil Tkacz; Elisabeth Duda, Rainer Bock
In occasione della giornata della
Memoria, il 26, 27 e 28 gennaio,
uscirà nelle sale Corri, ragazzo, corn. 4 VII - 28 gennaio 2015
ri di Pepe Danquart, già premio Oscar nel 1994 per il cortometraggio
Black Rider in cui affrontava con
ironia i temi del razzismo e
dell’indifferenza. La storia è tratta
dall’omonimo libro di Uri Orlev, edito
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in Italia da Salani, in cui si raccontano le vicissitudini di Srulik, bimbo
polacco di origine ebraica, che, fuggito dal ghetto di Varsavia, riesce a
sopravvivere alla guerra, alla Gestapo, alla fame, al freddo dei terribili inverni di occupazione tedesca.
Bravissimi i due attori Andrzej e
Kamil Tkacz, gemelli, che interpretano il protagonista.
Il film, molto toccante emotivamente, mette in scena un’umanità povera, meschina, eroica talvolta, spesso arrogante, ma anche pavida e
generosa, e ancora piena di speranza o disperata. Noi umani, insomma.
Il piccolo fuggiasco ha ricevuto dal
padre un’esortazione: Devi sopravvivere. E per farlo, Srulik deve dimenticare: Dimentica il tuo nome,
dimentica me e tua madre, nascondi
a tutti chi sei, ma non dimenticare
mai che sei ebreo. Il film insiste sulla relazione dimenticanza/memoria.
E forse proprio per questo, Corri,
ragazzo, corri merita di essere visto.
Non è casuale che il regista sia tedesco: in Germania si è coltivata la
memoria, e con essa anche la consapevolezza delle colpe collettive, di
cosa è stato il nazismo, la guerra, lo
sterminio di ebrei, oppositori politici,
rom, omosessuali, comunisti ..., c’è
stato uno sforzo comune di elaborare qual che era stato, nella volontà
che non debba accadere mai più.
In Italia questa rielaborazione dei
fatti avvenuti, delle leggi razziali,
non c’è stata, non collettivamente
almeno e il mito degli “Italiani brava
gente” si è fatto forte dei lavori di
autorevoli studiosi, De Felice in primis. E di responsabilità collettive
non si parla. Ma coltivare la memoria di quel che è stato, dovrebbe so-
prattutto servire a vedere quel che è
adesso.
Dall’altra sponda del Mediterraneo,
arrivano oggi in Italia tanti giovanissimi, tanti Srulik, che cercano di sopravvivere alla guerra, o che partono nella speranza di poter aiutare le
famiglie. Giovanissimi in balia di se
stessi, della propria capacità di saper dimenticare e ricordare, di saper
sopravvivere. Non sappiamo quanti
sono, eppure vivono nelle nostre
stesse città. Non possono studiare e
noi non ce ne curiamo.
Lo Stato fa poco per loro, ma la
domanda che un film come Corri,
ragazzo, corri dovrebbe suscitare in
ciascuno di noi è: cosa faccio io?
Cosa potrei fare? Un film che ci può
aiutare a riflettere a quale tipo di
umanità scegliamo di appartenere.
Tootsie
IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
IL CIELO SOPRA MILANO
http://blog.urbanfile.org/2015/01/27/fotografia-le-foto-strabilianti-di-fabio-polosa/
MILANO ZONA 6 secondo [ Gabriele ]
Gabriele Rabaiotti LA ZONA 6 SARÀ MUNICIPALITÀ
http://youtu.be/gBenLruc8S8
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