Dispensa Rossetti 28 aprile 2012 Danno Reddituale

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Dispensa Rossetti 28 aprile 2012 Danno Reddituale
Materiale didattico fornito dal dott. Marco Rossetti in occasione del Seminario
del 28 aprile 2012 dal titolo:
“ Le voci di danno e il loro computo nella materia contrattuale,
extracontrattuale e lavoristica. ”
Il danno patrimoniale da riduzione della capacità di guadagno
Scheda di inquadramento e criteri di calcolo
1. Nozione.
Una lesione della salute causata dall’altrui fatto illecito, oltre a produrre normalmente un danno
biologico, può produrre altresì un danno patrimoniale da riduzione della capacità di guadagno.
Occorre dunque tenere ben distinte, nel caso di lesione della salute, le perdita di tipo personale,
dalle perdita di tipo patrimoniale.
La perdita di tipo personale consiste normalmente nella soppressione o nella riduzione di tutte o di
parte delle funzioni esistenziali del soggetto leso, ed è un danno biologico (ex multis, Cass., 14-051997, n. 4236; Cass., 24-06-1997, n. 5635; Cass., 25-08-1997, n. 7977).
La perdita di tipo patrimoniale può consistere sia nelle erogazioni sostenute per elidere od attenuare
gli effetti dell'evento dannoso (ad esempio le spese di cura), sia nella contrazione (attuale
potenziale) dei redditi dell'infortunato, determinata dalle lesioni subite.
Sussiste quest’ultimo tipo di danno quando, dopo la lesione ed a causa di essa, la vittima non sia più
in grado di percepire il medesimo reddito di cui godeva prima del sinistro; ovvero - nel caso non
fosse percettore di reddito - non possa più aspirare ad ottenere quel livello reddituale che avrebbe
verosimilmente raggiunto in assenza della lesione (Cass. 29.10.2001 n. 13409, in Foro it. Rep.
2001, Danni civili, n. 188; Cass. 27.7.2001 n. 10289, in Foro it. Rep. 2001, Danni civili, n. 193).
Il modo in cui una lesione della salute può incidere sull’attività di lavoro della vittima può essere
triplice:
(a) perdita del reddito (attuale o futura);
(b) riduzione del reddito (attuale o futura);
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(c) maggiore stancabilità o minore efficienza nello svolgimento dell’attività lavorativa (c.d. danno
alla cenestesi lavorativa).
Ovviamente, i tre effetti possono anche cumularsi, ma essi restano concettualmente ben distinti.
Tuttavia soltanto i primi due tipi di danno costituiscono pregiudizi patrimoniali: il danno da
maggiore affaticamento (ripetesi, ove disgiunto da conseguenze patrimoniali certe o
ragionevolmente presumibili, come un anticipato pensionamento) costituisce un danno alla
persona, cioè un danno biologico. Di tale pregiudizio, pertanto, si dovrà tenere conto nella
personalizzazione del risarcimento del danno biologico (cfr. la scheda danno biologico), e non già
nella liquidazione del danno patrimoniale. Ha infatti osservato, al riguardo, Cass. 24.3.2004 n.
5840, che la risarcibilita' del danno patrimoniale sussiste soltanto qualora sia riscontrabile la
eliminazione o la riduzione della capacita' del danneggiato di produrre reddito, mentre il danno
da lesione della "cenestesi lavorativa", che consiste nella maggiore usura, fatica e difficolta'
incontrate nello svolgimento dell'attivita' lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle
opportunita'sul
reddito
della
persona offesa (c.d. perdita di chance), risolvendosi in una
compromissione biologica dell'essenza dell'individuo, va liquidato onnicomprensivamente come
danno alla salute. A tal fine il giudice, ove abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo
del valore differenziatodel punto di invalidita', ben puo' liquidare la componente costituita
dalpregiudizio della cenestesi lavorativa mediante un appesantimento del valoremonetario di
ciascun punto, restando invece non consentito il ricorso al pa-rametro del reddito percepito dal
soggetto leso; nello stesso senso, Trib. Roma 21.1.1997, in Riv. giur. circolaz. trasp. 1997, 134;
Trib. Roma 24.1.1998, ivi, 1998, 265).
1.1. Convenzioni terminologiche.
Poiché, come si è visto, gli effetti personali della lesione della salute vanno tenuti distinti dagli
effetti personali, questa distinzione concettuale deve essere appropriatamente rispecchiata da una
distinzione lessicale. E' dunque opportuno, con la migliore dottrina, utilizzare il lemma invalidità
(temporanea o permanente) per designare le conseguenze, comunque valutabili, di una
compromissione della essenza "biologica" dell'individuo: le conseguenze, cioè, di una
compromissione che limiti o precluda non questa o quella attività cui il danneggiato era dedito, ma
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che si riverberi in tutte le attività, di qualsiasi tipo, ivi compresa quella lavorativa, cui il danneggiato
era solito attendere prima dei sinistro, e ciò a prescindere da qualsiasi contrazione reddituale.
L'invalidità è dunque un danno di tipo biologico, misurabile in termini percentuali secondo un
baréme medico legale.
Con il lemma incapacità (temporanea o permanente) è invece opportuno designare i riflessi
patrimoniali derivanti dalla momentanea o definitiva impossibilità, per il soggetto leso, di svolgere
la propria attività lavorativa.
2. Accertamento.
2.1. L'incapacità temporanea di guadagno.
Si ha incapacità temporanea di guadagno quando la vittima di lesioni personali (fisiche o psichiche),
a causa di queste debba momentaneamente rinunciare all’attività produttiva del proprio reddito,
ovvero tollerarne una riduzione. Si tratta, in sostanza, del danno causato dalla forzosa assenza dal
lavoro, a sua volta causata dalla lesione della salute.
Perché possa ritenersi esistente il danno da incapacità temporanea, il danneggiato deve fornire la
prova di due nessi causali:
(a) tra le lesioni e l'impossibilità di svolgimento dell'attività lavorativa;
(b) tra la durata della malattia e la durata dell'assenza dal posto di lavoro.
Di norma, il danno da incapacità temporanea non sussiste per il lavoratore dipendente: infatti, nella
maggioranza delle ipotesi, questi godrà per il periodo di forzata assenza dal lavoro dei benefici
dell'assicurazione obbligatoria conto gli infortuni o, in mancanza, della tutela patrimoniale
accordatagli dall'art. 2110 cod. civ.. In questi casi - quando, cioè, il lavoratore continui a percepire
la propria retribuzione anche durante il periodo di inabilità temporanea - va esclusa l'esistenza
stessa di un danno risarcibile (Cass. 13.9.1996 n. 8260, in Riv. giur. circ. trasp. 1996, 773; Cass.
6.12.1995 n. 12569, in Arch. circolaz., 1996, 441; Cass. 6.12.1994 n. 10454, in Riv. giur. circ.
trasp. 1995, 572; Cass. 15.4.1993 n. 4475, Riv. giur. circ. trasp. 1993, 967; per la giurisprudenza di
merito, nello stesso senso, Trib. Firenze 10.5.1991, Arch. circolaz. 1991, 842; Trib. Lanciano
29.5.1991, PQM, 1991, 46; Trib. Bari 3.4.1990 in Arch. circolaz. 1990, 597).
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Tuttavia anche nelle ipotesi in cui il lavoratore continui a percepire la retribuzione durante il
periodo di inabilità, può comunque residuare un danno patrimoniale nelle seguenti ipotesi:
(a) quando l’assicurazione obbligatoria o volontaria contro gli infortuni sul lavoro non copra il
100% della retribuzione; in questo caso l'autore dell’illecito è tenuto a risarcire al danneggiato la
differenza tra la retribuzione che avrebbe normalmente percepito, e la minor somma percepita
dall’assicuratore a titolo di indennità giornaliera;
(b) quando l'assenza dal lavoro comporti la rinuncia ad utilità extraretributive aggiuntive, come ad
esempio tredicesima mensilità (Trib. Firenze 27.5.1968, in Arch. resp. civ. 1969, 139); i compensi
in natura (cfr. art. 30 co. Il d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124); i redditi aggiuntivi che trovano la propria
fonte in consuetudini locali, come le mance (Cass. 25.9.1990 n. 9702, in Arch. circolaz., 1991, 112;
Cass. 25.11.1980
n. 6247, inedita; Cass. 18.5.1976 n. 1775, in Giust. civ., 1976, I, 1268);
(c) quando il protrarsi della malattia determini il superamento del c.d. periodo di comporto, e la
conseguente risoluzione dei rapporto di lavoro. In quest’ultimo caso, il danno patrimoniale subito
dal lavoratore è pari alla capitalizzazione del reddito perduto, secondo quanto si dirà a proposito del
danno da incapacità permanente di guadagno.
Si badi che, di norma, rispetto al soggetto non percettore di reddito in atto (minore, disoccupato,
casalinga, pensionato, minorato) non è concepibile un danno da incapacità temporanea (Cass. 2307-1993, n. 8226, in Resp. civ., 1994, 54).
2.2. L'incapacità permanente di guadagno.
Si ha incapacità permanente di reddito (o di guadagno) allorché si verificano due condizioni:
(a) il soggetto danneggiato, una volta guarite le lesioni, non ha potuto recuperare interamente la
propria complessiva integrità psicofisica;
(b) la lesione della salute ha precluso o precluderà al danneggiato - secondo un giudizio di
ragionevole verosimiglianza - la possibilità di conservare i propri redditi da lavoro nella stessa
misura goduta prima dei sinistro; ovvero di acquisire in futuro ulteriori redditi od incrementi
reddituali (Cass. 25.8.2006 n. 18489; Cass. 29.4.2006 n. 10031; Cass. 23.1.2006 n. 1230; Cass.
29.10.2001 n. 13409, in Foro it. Rep. 2001, Danni civili, n. 188; Cass. 27.7.2001 n. 10289, in Foro
it. Rep. 2001, Danni civili, n. 193).
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Il presupposto della riduzione della capacità di guadagno (la quale è nozione giuridica) è la
riduzione della capacità di lavoro o capacità lavorativa (la quale è nozione medico legale).
La capacità di lavoro consiste nella possibilità individuale di dedicarsi ad una attività produttiva, e
costituisce il prodotto di un processo formativo al quale concorrono sia le caratteristiche personali
naturali dell'individuo, sia le influenze dell'ambiente sociali nel quale l'individuo si forma.
Naturalmente, per attività produttiva (o lavoro) deve intendersi il prodotto di qualsiasi
applicazione manuale od intellettuale, sottesa da precise cognizioni, che sia produttiva di beni o
servizi suscettibili di valutazione economica. Pertanto la riduzione della capacità di guadagno può
sussistere quand'anche il danneggiato svolgesse un'attività che - pur non costituendo svolgimento di
lavoro subordinato od esercizio di lavoro autonomo - era comunque suscettibile di valutazione
economica.
L'accertamento del danno causato dalla lesione della capacità produttiva richiede l'esame, da parte
dei giudice, di una serie di nessi causali:
a) tra fatto lesivo e lesioni;
b) tra lesioni e postumi;
c) tra postumi ed incapacità di lavoro;
d) tra incapacità di lavoro ed incapacità di guadagno.
Non basta, quindi, per avere diritto al risarcimento, dimostrare che dopo il sinistro il danneggiato ha
cessato l'attività lavorativa precedentemente svolta, oppure ha subito una riduzione dei redditi
precedentemente percepiti, perché tra lesione della salute e diminuzione della capacità di guadagno
non sussiste alcun rigido automatismo. Ne consegue che in presenza di una lesione della salute,
anche di non modesta entità, non può ritenersi ridotta in egual misura la capacità di produrre
reddito, ma il soggetto leso ha sempre l'onere di allegare e provare, anche mediante presunzioni, che
l'invalidità permanente abbia inciso sulla capacità di guadagno (Cass. 14.6.2007 n. 13953; Cass.
29.4.2006 n. 10031). E' necessario, altresì dimostrare, che sia l'assenza dal lavoro, sia la contrazione
del reddito, sono in rapporto di causa-effetto rispetto alla lesione della salute.
Ha stabilito, a questo riguardo, la S.C. che l'invalidità permanente (totale o parziale), mentre di per
sé concorre a dar luogo a danno biologico, non comporta necessariamente anche un danno
patrimoniale, a tal fine occorrendo che il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione
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fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell'attività lavorativa specifica e questa, a sua
volta, sulla capacità di guadagno, accerti se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui,
dopo e nonostante l'infortunio subìto, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue
attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di
reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. Solo se dall'esame di detti elementi risulti una riduzione
della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo (e non la causa di questo,
cioè la riduzione della capacità di lavoro specifica) è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante
(Cass. 18.9.2007 n. 19357; Cass. 23.1.2006 n. 1230; Cass. 20.1.2006 n. 1120; Cass. 25.5.2004 n.
10026; Cass. 26.2.2004 n. 3867; Cass. 21.6.1999 n. 6247, in Foro it. Rep. 1999, Danni civili, n.
218; Cass. 3.5.1999 n. 4385, in Foro it. Rep., 1999, Danni civili, n. 215; Cass. 28.4.1999 n. 4231, in
Resp. civ., 2000, 110; Cass., sez. III, 02-12-1998, n. 12241, Foro it. Rep. 1998, voce Danni civili, n.
102). Ne consegue che dall’accertata esistenza di una invalidità permanente non può farsi
discendere, in modo automatico, la presunzione dell’esistenza di un danno da lucro cessante, poiché
quest’ultimo deriva solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità di
lavoro e di guadagno (Cass. 18.4.2003 n. 6291).
Il relativo onere della prova è a carico dall'attore che chiede il risarcimento (Cass. 23.1.2006 n.
1230; Cass. 26.2.2004 n. 3867; Cass. 28.4.1999 n. 4235, in Foro it. Rep. 1999, Danni civili, n. 122),
e consiste nella dimostrazione che il soggetto leso svolgesse - o presumibilmente in futuro avrebbe
svolto - un'attività lavorativa produttiva di reddito, nonché nella dimostrazione della mancanza di
persistenza, dopo l'infortunio, di una capacitìà generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle
attitudini econdizioni personali ed ambientali dell'infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione
di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte (Cass. 18.4.2003 n. 6291).
La S.C. ha tuttavia in qualche caso attenuato il rigore di tali princìpi, ammettendo che la prova di
cui si è detto possa essere fornita anche per presunzioni, e che costituisca una presunzione in tal
senso la circotanza che il danno biologico abbia causato una invalidità non lieve. Secondo questo
orientamento, provata dalla vittima la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa è di una
certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità (cosiddette "micropermanenti",
le quali non producono danno patrimoniale ma costituiscono mere componenti del danno
biologico), è possibile presumersi che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua
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proiezione futura - non necessariamente in modo proporzionale - qualora la vittima già svolga
un'attività o presumibilmente la svolgerà. In quanto prova presuntiva essa potrà essere superata
dalla prova contraria che, nonostante la riduzione della capacità di lavoro specifico, non vi è stata
alcuna riduzione della capacità di guadagno e che, quindi, non è venuto a configurarsi in concreto
alcun danno patrimoniale (nella specie è stata cassata con rinvio la sentenza della corte di merito
che aveva escluso il danno patrimoniale per ridotta capacità lavorativa di un medico chirurgo, cui il
sinistro stradale aveva causato la riduzione di funzionalità della mano destra, sull'assunto che, pur
sollevato dall'attività in sala operatoria, continuasse a prestare servizio presso la corsia e
l'ambulatorio del reparto chirurgico: Cass. 25.1.2008 n. 1690).
2.3. L’accertamento del quantum di capacità reddituale perduta.
Il modo in cui va accertata e misurata l’esistenza di una riduzione della capacità di guadagno
costituisce uno degli aspetti più controversi del danno qui in esame.
L’accertamento dell’esistenza d’una riduzione della capacità di guadagno viene normalmente
demandato ad un consulente tecnico medico legale, al quale però vengono posti quesiti molto
differenziati. A seconda degli uffici giudiziari (o, talora, dai singoli magistrati) dai quali è stato
conferito l’incarico peritale, al medico legale può essere chiesto di volta in volta:
(a) di accertare la percentuale di incapacità lavorativa generica residuata alle lesioni;
(b) di accertare la percentuale di incapacità lavorativa specifica residuata alle lesioni;
(c) di accertare tutte e due le “incapacità” di cui sopra (si veda, al riguardo, l’analisi statistica
compiuta da Pagliari, Tipologia di quesiti in tema di danno a persona posti attualmente dai
tribunali italiani, in Bargagna e Busnelli (a cura di), Rapporto sullo stato della giurisprudenza in
tema di danno alla salute, Padova, 1996, 165).
La prassi che, comunque, sembra tralatiziamente prevalente dinanzi agli uffici giudiziari di merito è
quella consistente bel chiedere al consulente tecnico medico legale un valore percentuale, il quale
dovrebbe misurare il quantum di capacità reddituale (definita “capacità lavorativa specifica”)
perduta dal danneggiato.
Questa prassi è stata contestata sia da altra parte della giurisprudenza, sia da parte della dottrina
medica legale.
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La prima, ha osservato che non può essere demandato la medico legale l’accertamento del danno
patrimoniale, che è nozione squisitamente giuridica; l’ausiliario potrà unicamente precisare se i
postumi precludano o meno lo svolgimento del lavoro da parte della vittima (Trib. Roma
29.12.2002, Bellardoni c. Natellis, inedita; Trib. Roma 21.3.2002, De Nardi c. Lloyd, inedita; Trib.
Roma 8.3.1997, Torre c. SAI, inedita).
La seconda, ha rimarcato che una misura percentuale può prestarsi a misurare l’invalidità, che è in
generale pensabile come identica per soggetti della stessa età, dello stesso sesso e con identici
postumi, ma non l’incapacità, la quale è estremamente soggettiva, e varia a seconda del tipo di
lavoro svolto dalla vittima (Norelli, Spunti dottrinari in tema di riduzione della capacità lavorativa
specifica, in Danno emergente-lucro cessante, Pisa 1998, 23; Fallani, Accertamento della
incapacità lavorativa specifica, in Il danno alla persona: tutela civilistica e previdenziale a
confronto, Firenze 1998, 116).
2.4. La prova del danno da incapacità temporanea.
La prova del danno da incapacità temporanea va fornita dalla vittima.
Se si tratta di lavoratore dipendente, dovrà esibire le buste-paga dei periodo antecedente e di
quello successivo al sinistro, dimostrando lo scarto esistente tra le une e le altre.
E' consigliabile che la prova sia fornita depositando non solo la busta paga del mese precedente e di
quello successivo al sinistro, ma dimostrando altresì i redditi percepiti in un raggio di tempo più
ampio: almeno i sei mesi anteriori ed i sei mesi successivi al sinistro. In questo modo, infatti, si
evita il rischio di interpretare una riduzione ciclica o transeunte dello stipendio come un effetto
delle lesioni e dei postumi ad esse residuati.
Se il danneggiato è un lavoratore autonomo, l’assenza di una busta paga rende più difficile
l’accertamento del danno. In linea di massima, il pregiudizio in esame può essere dimostrato
attraverso la produzione in giudizio:
(a) nel caso di artigiani o commercianti, del libro giornale o del registro delle fatture tenuto ai fini
dell'IVA, e relativi ad un periodo sufficientemente ampio anteriore e posteriore al sinistro (almeno
sei mesi);
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(b) nel caso di liberi professionisti, del registro delle fatture: in questo caso però il periodo di
osservazione dovrà necessariamente essere più ampio, in quanto i compensi percepiti dai
professionisti di norma sono relativi a prestazioni che possono richiedere anche vari mesi di
esecuzione.
Nel caso dei liberi professionisti, si deve tenere conto dei fatto che per molti di essi l'incapacità
temporanea comporta di norma non una perdita, ma un semplice differimento degli impegni assunti
e quindi della percezione dei relativi compensi. Pertanto la documentata riduzione degli introiti nei
giorni immediatamente successivi al sinistro deve essere valutata attentamente, accertando altresì se
nei mesi successivi non vi sia stato un incremento superiore alla media dei redditi antesinistro: un
accertamento positivo in tal senso potrebbe infatti dimostrare che il professionista ha
semplicemente differito i propri impegni (appuntamenti, stipula di atti, colloqui coi cliente, ecc.) e
quindi non ha perduto il proprio reddito, ma ne ha differito la percezione.
2.5. La prova del danno da incapacità permanente.
Anche la prova del danno da riduzione della capacità di guadagno va fornita dalla vittima.
Tuttavia la giurisprudenza ammette, con grande larghezza, il ricorso alle presunzioni semplici ed ai
fatti notori, ed in particolare ritiene legittimo desumere l’esistenza del danno patrimoniale da
riduzione del reddito dall’entità delle lesioni.
Così, nel caso di micropermanenti, dal fatto noto che gli esiti sono di modesta entità, è possibile
risalire al fatto ignorato che il danno non ha avuto ripercussioni sulla capacità di guadagno, salvo
specifica prova in tal senso da parte del danneggiato (Cass. 1.6.2010 n. 13431; Cass. 18.9.2007 n.
19357; Cass. 25.9.1998 n. 9601, inedita; Cass. 15-10-1997 n. 10114, in Foro it. Rep., 1997, Danni
civili, 126; Cass. 20-1-1997 n. 535, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1997, 313; Cass. 4-3-1995 n. 2515,
in Foro it. Rep., 1995, Danni civili, 133), e ciò soprattutto quando la vittima svolga un lavoro
intellettuale e non manuale (Cass. 20.10.2005 n. 20317).
Viceversa, nel caso di lesioni con esiti di entità media o grave, dal fatto noto che gli esiti sono di
rilevante entità è possibile risalire (con presunzione semplice, ex art. 2727 c.c.) al fatto ignorato che
essi sicuramente incideranno sulla capacità di lavoro del danneggiato. In questo caso, però, le
indicazioni desumibili dalla giurisprudenza di legittimità sono assai più incerte: così ad esempio,
Cass. 25.1.2008 n. 1690 e Cass. 3-9-1998 n. 8769, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1999, 82, hanno
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ritenuto che una invalidità permanente superiore al 10% lasci presumere l’esistenza d’un danno
patrimoniale da riduzione del reddito, sia pure non proporzionale rispetto alla riduzione della
validità; Cass. 17.11.1999 n. 12757, in Riv. giur. circolaz. trasp., 2000, 387, invece, ha escluso che
una invalidità del 18% debba necessariamente comportare una riduzione della capacità di lavoro e
di guadagno; altre decisioni, come Cass. 10.10.2007 n. 21258 e Cass. 3.2.1999 n. 909, in Dir. ed
economia assicuraz., 2000, 1184, hanno ritenuto che dinanzi ad invalidità permanenti rispettivamente - del 30% e del 60% il danno da riduzione della capacità di guadagno “deve di
necessità presumersi”, anche in assenza di una specifica prova sul punto da parte della vittima.
La prova del danno da incapacità di lavoro permanente, sia per il lavoratore dipendente che per
quello autonomo, va fornita dimostrando che, dopo il sinistro ed a causa di esso, la retribuzione o il
reddito ha subito una decurtazione non transeunte (cfr. Cass. 10.3.1998 n. 2639, in Riv. giur. circ.
trasp., 1998, 485).
2.6. L'art. 137 cod. ass.
Una disciplina particolare, in merito alla prova del danno, è dettata dall'art. 137 cod. ass. (d. lg.
7.9.2005 n. 209), il quale costituisce la trasposizione nel nuovo testo unico in materia assicurativa
delp revigente art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857 (conv. nella l. 39/77).
Secondo tale norma, quando il danno da riduzione della capacità di reddito viene causato dalla
suddetta circolazione, il danneggiato può avvalersi di una disciplina privilegiata in punto di prova
del danno: per legge infatti si presume che il reddito effettivo da porre a base del calcolo risarcitorio
sia quello che risulta dalla denunce fiscali esibite in giudizio, e per l’esattezza:
(a) nel caso di lavoro dipendente, si computa il reddito di lavoro al momento del sinistro,
maggiorato dei redditi esenti e delle detrazioni di legge;
(b) nel caso di lavoro autonomo, si computa il reddito netto risultante più elevato tra quelli
dichiarati dal danneggiato ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche degli ultimi tre anni.
“In tutti gli altri casi - prosegue la norma, al comma terzo - il reddito che occorre considerare ai
fini del risarcimento non può comunque essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della
pensione sociale”.
L’art. 137 cod. ass. non impone un metodo particolare di liquidazione del danno patrimoniale, il
quale resta sempre quello della capitalizzazione, secondo quanto esposto in precedenza.
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Semplicemente, indica quale debba essere la base di calcolo per la capitalizzazione stessa,
indicandone due alternative: o il reddito del danneggiato, o il triplo della pensione sociale.
L’art. 137 cod. ass. pone vari ordini di problemi: (a) come la disciplina ivi dettata incida sull’onere
della prova; (b) quali siano gli “altri casi” nei quali la liquidazione può avvenire ponendo a base del
calcolo il triplo della pensione sociale; (c) quale debba esere la misura del reddito o della pensione
sociale da porre a base del calcolo.
(A) Onere della prova.
Il giudice di legittimità ha precisato che ai fini della liquidazione del danno patrimoniale, anche
quando il danneggiato produce in giudizio le dichiarazioni dei redditi, il giudice deve comunque
tener conto anche degli incrementi patrimoniali ritraibili con ragionevole certezza dal lavoro già
svolto, e non ancora introitati (e quindi non denunciati al fisco) per naturali vicende collegate al
particolare tipo di attività (Cass. 25.2.1994 n. 1936, Riv. giur. circ. trasp. 1994, 396; App. Trieste
4.2.1985 n. 44, Riv. giur. circ. trasp. 1986, 328).
Il danneggiato può scegliere di avvalersi anche di altri mezzi di prova (testimonianza, presunzione
semplice, esibizione di documenti diversi dalle dichiarazioni fiscali), ma tali prove non avranno
l'efficacia privilegiata di cui all'art. 137 cod. ass. .
Naturalmente, la presunzione di cui all'art. 137 cod. ass. è una presunzione juris tantum, e quindi
può essere superata sia dal danneggiato, sia dal danneggiante, il quale ha ovviamente interesse a
provare che i redditi percepiti dal danneggiato siano inferiori a quanto risulta dalle dichiarazioni
fiscali (Cass. 5.2.1991 n. 1094, Arc. giur. circ. sin. strad. 1991, 473).
(B) La liquidazione in base al triplo della pensione sociale.
L’espressione “in tutti gli altri casi il reddito che occorre considerare ai fini del risarcimento non
può comunque essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale” è stata
interpretata in due modi diversi dalla giurisprudenza.
Secondo un primo orientamento, l’incso “in tutti gli altri casi” ricmprende l’ipotesi in cui il
danneggiato, pur essendo percettore di reddito, ometta diprodurre le dichiarazioni fiscali, ovvero sia
percettore di un reddito inferiore al triplo della pensione sociale. Secondo questo orientamento,
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pertanto, il triplo della pensione sociale costituirebbe una sorta di soglia minima di risarcimento
(Trib. Palermo 22.11.1983 n. 2598, Riv. giur. circ. trasp. 1984, 704; App. Cagliari, 25-05-1994,
Riv. giur. sarda 1995, 354). L’orientamento in questione è stato avallato in qualche caso anche dalla
S.C., la quale ha ritenuto che una volta ritenuta provata l'attività lavorativa svolta dal danneggiato e
la compromissione della medesima (quindi l'an debeatur), in mancanza di una prova specifica del di
lui reddito, si può correttamente fare ricorso ai criteri di quantificazione del danno indicati dall'art. 4
della legge 26 febbraio 1977 n.39 (nella specie la S.C. ha confermato la decisione del giudice di
merito che, ritenendo provata l'attività di coltivatore diretto svolta dal danneggiato, ma non
conoscendone il reddito effettivo, ha supplito a tale carenza riferendosi a nozioni di comune
esperienza ed utilizzando il criterio del reddito presunto: Cass. 6.8.2007 n. 17179).
Secondo altro e maggioritario orientamento, per contro, la liquidazione del danno patirnmoniale in
base al triplo della pensione sociale è del tutto residuale, e si applica in due ipotesi soltanto:
(a) o nel caso in cui il danneggiato non sia titolare di alcun reddito di lavoro;
(b) oppure al caso in cui il danneggiato sia titolare di un reddito da lavoro negativo, ovvero con
caratteristiche tali (di esiguità, discontinuità o precarietà del lavoro, livello di mansioni inferiori alle
capacità professionali del lavoratore) da escludere che esso possa costituire la componente di base
del calcolo probabilistico delle possibilità di reddito futuro (Cass. 9.2.1998 n. 1324, in Foro it. Rep.
1998, voce Assicurazione (contratto), n. 13).
Pertanto se il danneggiato, pur essendo percettore di reddito, ometta sia di esibire le dichiarazioni
fiscali, sia di provare aliunde l'entità del reddito, andrà rigettata la domanda di risarcimento del
danno patrimoniale (cfr. Cass. 7.3.1994 n. 2203, Riv. giur. circ. trasp. 1994, 400; Cass. 10.6.1994 n.
5669, Riv. giur. circ. trasp. 1994, 824; Cass. 30.5.1995 n. 6074, Riv. giur. circ. trasp. 1996, 157;
Cass. 09-10-1996, n. 8817, Foro it. 1996, I, 3691; Trib. Cassino 21.6.1989 n. 491, Riv. giur. circ.
trasp. 1990, 57; Trib. Roma (ord.) 18.2.1996, Salemi c. Nuova Tirrena, inedita).
Questo orientamento è stato avallato anche dalla Corte costituzionale, la quale ha ritenuto conforme
a Costituzione l'art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, nella parte in cui consente al soggetto non
percettore di reddito di ottenere risarcimenti più elevati di quelli ottenibili dal soggetto che
percepisca un reddito inferiore al triplo della pensione sociale (Corte cost. 18.10.1995 n. 445, Riv.
giur. circ. trasp. 1996, 101).
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Quando la liquidazione del danno patrimoniale avviene in base al triplo della pensione sociale,
occorre:
(a) individuare la misura della pensione da utilizzare vigente al momento in cui si è verificato il
danno [vedi tabella] (Cass., sez. III, 03-11-1998, n. 10966, in Arch. circolaz., 1998, 1104);
(b) rivalutarla al momento della liquidazione (Cass. 21.7.2002 n. 11376) [per il cocnetto ed i
criteri di rivalutazione, vedi la scheda relativa].
Pertanto, se la perdita del reddito è differita ad un momento futuro, perché la vittima non era in età
lavorativa al momeno del sinistro, occorre distinguere:
(a) se la vittima ha raggiunto l’età lavorativa dopo il sinistro, ma prima della liquidazione, la
pensione sociale da porre a base del calcolo è quella vigente al momento del raggiungimento
dell’età lavorativa (Cass. 21.7.2002 n. 11376);
(b) se, per contro, al momento della liquidazione la vittima nn ha ancora raggunto l’età lavorativa, il
danno potrà essere liquidato in base alla pensione sociale vigente al momento della liquidazione, ma
il risultato andrà scontato al fine di tenere conto dell’anticipato pagamento.
(C) L’importo della “pensione sociale” o del reddito da porre a base del calcolo.
La “pensione sociale” di cui è menzione nell’art. 137 cod. ass., originariamente prevista dall’art. 26
l. 30.4.1969 n. 153 (“Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza
sociale”), a partire dal 1° gennaio 1996 è stata sostituita da un assegno di base non reversibile,
denominato «assegno sociale».
Pertanto, sebbene ancora oggi vengano erogate pensioni sociali a coloro che ne abbiano fatto
domanda entro il 1995, il riferimento al triplo della pensione sociale, contenuto nell’art. 137 cod.
ass., deve oggi intendersi al “triplo dell’assegno sociale” di cui al citato art. 3, comma 6, l. 335/95, e
successivi adeguamenti.
Per l'anno 2007 l'importo mensile dell'assegno sociale è di 389,36 euro mensili. Ne deriva che, per
lo stesso anno, l'importo annuo del suddetto assegno è di 5.061,68 euro (cioè 389,36 x 13).
E’ controverso se l’importo dell’assegno sociale da porre a base del calcolo per la liquidazione del
danno patrimoniale, ex art. 137 cod. ass., debba includere le cc.dd. “maggiorazioni sociali”, ovvero
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gli aumenti della pensione (e poi dell’assegno) previsti non già in via generale per tutti i titolari, ma
soltanto per quei titolari che soddisfino determinati requisiti (principalmente età avanzata e basso
reddito).
I principali di questi aumenti sono stati previsti:
(a) dall’art. 2, comma 2, l. 140/85, in misura pari a £ 975.000 annue;
(b) dall’art. 2 l. 544/88, in misura pari a £ 1.625.000 annue;
(c) dall’art. 70 l. 23.12.2000 n. 388, nella misura di € 12,92 mensili per i titolari con età inferiore a
settantacinque anni, e di € 20,66 mensili per i titolari con età pari o superiore a settantacinque anni;
(b) dall’art. 38, comma 1, lett. b, l. 28.12.2001 n. 448, il quale ha elevato la misura dell’assegno
sociale “fino a garantire un reddito proprio pari a 516,46 euro al mese per tredici mensilità”, ma
solo per gli ultrasettantenni che non possiedano redditi propri su base annua pari o superiori a
6.713,98 euro.
La Corte di cassazione, con riferimento allo specifico aumento previsto dall’art. 2, 2º comma, l. 15
aprile 1985 n. 140, ha ritenuto che di esso dovesse tenersi conto nel calcolo liquidatorio, sul
presupposto che tale aumento “è venuto ad aggiungersi alla pensione sociale, cooperando con essa
ad individuare il reddito minimo che deve essere assicurato al cittadino ultrasessantacinquenne”
(Cass., sez. III, 04-12-1992, n. 12916, in Foro it. Rep. 1992, Danni civili, n. 127; così pure Cass.,
sez. III, 01-06-2000, n. 7275, in Arch. circolaz., 2000, 659).
Il principio affermato dalla S.C., attesa la identità di ratio, appare estensibile anche alle altre ipotesi
di maggiorazioni sociali, indiate sub (b), (c) e (d) [vedi Tabella].
Ulteriori problemi sorgono quando la liquidazione debba avvenire, ai sensi dell’art. 137 cod. ass.,
ponendo a base del calcolo il reddito percepito dalla vittima antesinistro. Come si è visto, tale
reddito si determina:
(a) per il lavoro dipendente, sulla base del reddito più elevato degli ultimi tre anni, “maggiorato dei
redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge”;
(b) per il lavoro autonomo, sulla base del reddito netto più elevato tra quelli dichiarati a fini Irpef
negli ultimi tre anni.
Tale norma deve intendersi, secondo la S.C., nel senso che per “reddito da attività professionale”
dichiarato dal danneggiato ai fini dell'I.R.P.E.F., da prendere a base del calcolo, deve intendersi
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quello risultante dalla differenza tra il totale dei compensi conseguiti (al lordo delle ritenute
d'acconto) ed il totale dei costi inerenti all'esercizio professionale - analiticamente specificati o se
per legge consentito, forfettariamente conteggiati -. Da tale importo non devono essere detratti né le
ritenute d'imposta, né gli oneri che siano deducibili solo dal reddito complessivo (ex art. 10 del
d.P.R. 22.12.1986, n. 917) e non dalla determinazione delle singole voci di reddito (Cass. 9.11.2006
n. 23917).
3. Liquidazione. Danno passato e danno futuro.
Prima di esaminare i criteri di liquidazione del danno patrimoniale, è opportuno ricordare alcuni
principi generali che debbono presiedere alla liquidazione del danno, allorché si tratta di liquidare
danni futuri.
Come noto, l'art. 1223 c.c. stabilisce che, sia nel caso di inadempimento contrattuale, sia nel caso di
illecito aquiliano (in virtù dei richiamo contenuto nell'art. 2056 c.c.), il risarcimento del danno deve
comprendere così la perdita subita dal creditore, come il mancato guadagno". Le due categorie di
danno vengono tradizionalmente definite "danno emergente" e "lucro cessante".
Tuttavia esse non si identificano con la distinzione tra danni passati e danni futuri. Il danno
emergente si distingue dal lucro cessante perché il primo tipo di danno sottrae, distrugge o riduce
beni od utilità già esistenti nel patrimonio del danneggiato; il secondo tipo di danno invece lascia di
fatto inalterato il patrimonio dei debitore, ma gli impedisce di conseguire utilità che certamente
avrebbe conseguito in assenza dell'evento dannoso.
In materia di danno alla persona, un esempio di danno emergente è rappresentato dalle spese
mediche sostenute per curarsi; un esempio di lucro cessante è rappresentato invece dalla perdita dei
compensi causata dalla forzosa rinuncia allo svolgimento della propria attività lavorativa (nella
parte, ovviamente, in cui tale perdita non è assorbita da eventuali assicuratori sociali).
Il lucro cessante non è dunque un danno futuro: od almeno, futuro in questo tipo di danno è soltanto
l'incremento patrimoniale atteso dal danneggiato, se tale incremento viene riguardato con
riferimento al momento dei verificarsi dell'evento dannoso.
Analogamente, il danno emergente non è un danno passato, in quanto esso può prodursi anche nel
futuro: l'esempio classico è quello di chi, costretto a sottoporsi ad un intervento di artroprotesi in
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conseguenza delle lesioni subite per opera dell'altrui illecito, sa con certezza che ogni x anni dovrà
sostituire la protesi, sottoponendosi a nuovi interventi e sostenendo ulteriori spese.
Dunque il danno emergente ed il lucro cessante si distinguono per la natura dei beni che colpiscono
(rispettivamente, presenti o futuri); il danno presente e quello futuro si distinguono per il momento
in cui si verificano, individuato non con riferimento alla condotta illecita, ma con riferimento alla
liquidazione. E' presente, cioè, il danno già verificatosi al momento della aestimatio (sia essa
volontaria o giudiziale); è futuro il danno non ancora verificatosi in tale momento.
Si potrà dunque avere:
(-) un danno emergente passato (ad esempio, le spese mediche sostenute in conseguenza delle
lesioni alla persona);
(-) un danno emergente futuro (ad esempio, le spese mediche che con certezza dovranno essere
sostenute in futuro per cure, protesi, controlli resi necessari dalle lesioni alla persona);
(-) un lucro cessante passato (ad esempio, i redditi perduti per il periodo che va dal verificarsi
dell'evento dannoso al momento della liquidazione); (-) un lucro cessante futuro (ad esempio, i
redditi che saranno perduti in futuro, dopo la liquidazione del danno).
Questa tetrapartizione è rilevante a vari fini. Infatti:
a) la liquidazione dell'ulteriore danno da ritardo nell'adempimento, secondo quanto stabilito da
Cass. 17.2.1995 n. 1712, è dovuta solo per i danni passati (siano essi danno emergente o lucro
cessante), e non per quelli futuri;
b) la liquidazione di un danno che si produrrà nel futuro (sia esso danno emergente o lucro cessante)
deve scontare l'applicazione di un coefficiente di capitalizzazione anticipata, in quanto plus dato qui
cito dat (Cass. 23.1.2006 n. 1215); al contrario, la liquidazione di un danno passato deve essere di
norma attualizzata con un coefficiente di rivalutazione; - la liquidazione del lucro cessante, sia esso
passato o futuro, ove causato da atto illecito deve essere sempre compiuta con equo apprezzamento
delle circostanze dei caso (art. 2056 co. Il c.c.); tale equa valutazione non è invece utilizzabile nella
liquidazione del danno emergente, il quale - anche se futuro - andrà sempre liquidato juxta alligata
et probata, e cioè con rigorosa valutazione delle prove (salva, ovviamente, l'applicazione dell'art.
1226 c.c. ove ne ricorrano i presupposti).
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E' opportuno infine ricordare, per concludere sulla distinzione tra danno passato e danno futuro, che
per potere provvedere al risarcimento del danno futuro, ossia del danno non ancora verificatosi al
momento della liquidazione, è in ogni caso necessario che risulti provata o comunque incontestata
l'esistenza di un danno risarcibile, perché possa essere valutato dal giudice in via equitativa, non
essendo sufficiente la dimostrazione di un danno solo potenziale o possibile (Cass. 01-06-1993, n.
6109, in Foro it. Rep., 1993, Danni civili, n. 56).
4. La nozione di reddito.
Il reddito da assumere a base di calcolo per la liquidazione del danno da lesione della capacità di
lavoro deve essere il reddito da lavoro: quel reddito, cioè, per la cui produzione è necessaria la
capacità dei percettore. Non possono dunque entrare a far parte dei calcolo risarcitorio le rendite in
genere ed i proventi dei capitale.
In materia di danni causati da sinistri stradali, la misura del reddito è disciplinata dall'art. 4 I. 39177,
in base al quale il reddito si determina: (a) in caso di lavoro dipendente, sulla base del reddito
maggiorato dei redditi esenti e delle detrazioni di legge; (b) in caso di lavoro autonomo, sulla base
del reddito netto risultante più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini dell'imposta sul
reddito delle persone fisiche degli ultimi tre anni.
Si badi comunque che tali norme, di natura eccezionale perché incidenti sulla disciplina dell'onere
della prova, non sono applicabili al di fuori della materia dei risarcimento dei danni causati da
sinistri stradali.
A questo riguardo è opportuno segnalare che viene talora citato, in senso contrario, il decisum di
Cass. 3.6.1994 n. 5380, in Corr. giuridico 1994, 1360.
In realtà tale sentenza ha affermato un principio sensibilmente diverso: ha, sì, ammesso
l'applicabilità dell'art. 4 I. 39177 al di fuori della materia dei sinistri stradali, ma non con riferimento
alla disciplina dell'efficacia probatoria privilegiata da attribuire alle risultanze delle dichiarazioni
dei redditi, sibbene con riferimento al criterio da adottare per la liquidazione del danno (il triplo
della pensione sociale).
Deve comunque segnalarsi che la limitazione dei criteri di cui all'art. 137 cod. ass. ai soli casi di
danni causati da sinistri stradali porrebbe seri
problemi di costituzionalità della norma, sotto il profilo dei rispetto dei principio di uguaglianza.
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Problemi applicativi particolari possono sorgere per particolari componenti del reddito.
(A) Spese di produzione del reddito.
In passato il giudice di legittimità aveva affermato che il reddito posto a base dei calcolo dovrà
essere depurato delle spese di produzione del reddito (ad esempio, quelle di trasporto o di vestiario
da lavoro, ove non fornito dal datore di lavoro), in quanto queste rappresentano una uscita e non
entrata per il lavoratore (Cass. 28.10.1975 n. 3619, Arc. giur. circ. sin. strad. 1976, 387).
In prosieguo di tempo, se pure con riferimento alla materia dei sinistri stradali, il giudice di
legittimità ha mutato avviso, affermando al contrario che le spese per la produzione del reddito
rientrano tra le "detrazioni di legge" di cui parla l'art. 4 I. 39/77, e dunque vanno computate nel
reddito (Cass. 20.8.80 n. 4952, Resp. civ. prev. 1980, 741).
(B) Contributi previdenziali.
Nel reddito da considerare devono essere compresi anche i contributi previdenziali, in quanto il
cessato versamento di essi (ovvero un versamento di entità minore) compromette la posizione
previdenziale del danneggiato.
(C) Contributi assicurativi obbligatori.
Non devono, invece, essere considerati i contributi assicurativi INAIL: infatti la parte di
retribuzione destinata a contribuzione INAIL comunque non sarebbe stata goduta dal lavoratore;
mentre se il rapporto di lavoro cessa, cessa anche l'assicurazione contro gli infortuni.
(D) Imposte.
E' tuttora estremamente dibattuto se il reddito da assumere a base dei calcolo liquidatorio debba
essere quello al netto o quello al lordo delle imposte.
Il problema tuttavia è di agevole soluzione, sol che si ponga mente al dettato dell’art. 6, comma 2,
d.p.r. 22.12.1986 n. 917 ("Approvazione dei testo unico delle imposte sui redditi").
Questa norma dispone che "i proventi conseguiti in sostituzione di Redditi, anche per effetto di
cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguire, anche in forma assicurativa, a titolo di
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risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità
permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli costituiti o perduti. Gli
interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa
categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati" (d.p.r. 22.12.86 n.
917, art. 6).
Ne consegue che, se di norma, le imposte debbono essere ricomprese nel reddito da porre a base dei
calcolo risarcitorio, ciò non avviene nel caso di danno da invalidità permanente, per espressa
esenzione di legge.
Pertanto il reddito da porre a base del calcolo deve essere quello al netto delle imposte: altrimenti,
poiché il risarcimento è esente da prelievo fiscale, il danneggiato realizzerebbe un lucro maggiore di
quello che avrebbe conseguito se non avesse subito il danno (cfr., in tema di danni da morte, Cass.
21.11.1995 n. 12020, in Resp. civ., 1996, 639).
5. Perdita o riduzione temporanea del reddito (incapacità produttiva temporanea).
La liquidazione del danno da incapacità temporanea (totale o parziale) deve avvenire:
a) sommando e rivalutando i redditi (o la frazione di essi) perduti al momento della liquidazione;
b) sommando e scontando i redditi (o la frazione di essi) ancora non percepiti al momento della
liquidazione, ma che sarebbero stati acquisiti con certezza o con verosimile certezza.
La rivalutazione, preferibilmente, deve avvenire utilizzando l'indice dei costo della vita elaborato
mensilmente dall'ISTAT.
Lo sconto dei redditi futuri, ovviamente, deve essere compiuto quando è verosimile che l'incapacità
debba protrarsi per periodi superiori all'anno: in caso contrario, infatti, il maggior valore ricavabile
dal pagamento
anticipato non sarebbe apprezzabile.
Lo sconto del reddito futuro deve avvenire secondo la nota formula matematica
S
C r t
100
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Dove S è lo sconto, ovvero la somma da decurtare a causa dei pagamento attuale; C è il capitale
liquidato; r è il tasso percentuale di sconto (pari al tasso d'inflazione); t è il tempo.
Cosi, per fare un esempio, se la vittima ha perduto la possibilità di svolgere una prestazione d'opera
professionale, per la quale avrebbe incassato la somma di € 5.000 soltanto fra un anno, ipotizzando
un tasso d’inflazione dei 2%, lo sconto da applicare è:
S
5.000.000  2 
100
12
12  100.000
e dunque il debito dei danneggiante sarà di € 4.900.
Ovviamente, ove, l'anticipo sia inferiore all'anno, la lettera t nella formula che precede andrà
sostituita con la frazione di mesi che si intende calcolare (ad esempio, 3/12 per un ritardo di 3 mesi).
6. Perdita o riduzione definitiva del reddito (incapacità produttiva permanente).
La liquidazione del danno derivante da lesioni che hanno prodotto una permanente incapacità di
lavoro, totale o parziale, è operazione spesso assai complessa, che richiede la valutazione di
numerose variabili.
Essa presenta problemi peculiari a seconda che sia perduto l'intero reddito od una frazione di esso,
ed a seconda che il danneggiato possa o meno utilmente reimpiegare la propria capacità di lavoro.
(A) Perdita totale del reddito.
La liquidazione del danno patrimoniale consistente nella perdita del reddito può avvenire attraverso
la costituzione di una rendita. Questo sistema è tuttavia scarsissimamente applicato.
Il metodo più seguito è quello della liquidazione di una somma di denaro che rappresenta il valore
capitale di una rendita vitalizia. In applicazione di questo criterio, occorre attualizzare l'intero
reddito perduto dal danneggiato in base ad un coefficiente di capitalizzazione. Normalmente,
vengono adottati i coefficienti di capitalizzazione per la costituzione delle rendite vitalizie
immediate, di cui alla tabella allegata al r.d. 9.10.1922 n. 1403, che ha approvato le tariffe della
Cassa nazionale per le assicurazioni sociali.
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Si tenga tuttavia presente che il coefficiente di cui alla suddetta tabella è un coefficiente per la
costituzione di una rendita vitalizia, cioè di durata pari alla durata della residua vita futura.
Il soggetto danneggiato non avrebbe tuttavia percepito il reddito per tutta la durata della vita, ma
solo sino all'età pensionabile. Per tenere conto di questa circostanza, possono in teoria adottarsi due
sistemi:
(a) si può liquidare il capitale applicando il coefficiente di costituzione della rendita vitalizia,
applicando poi un abbattimento (normalmente il 10%) per tenere conto dello scarto tra vita fisica e
vita lavorativa (alcuni giudici di merito tuttavia omettono di applicare l'abbattimento per lo scarto
tra vita fisica e vita lavorativa, in considerazione dei fatto che la tabella allegata al r.d. 1403/22 è
stata costruita in base alle tavole di sopravvivenza della popolazione italiana calcolata in base ai
censimenti dei 1901 e del 1911, ed alle statistiche mortuarie dei biennio 1910-1912. Poiché da
allora la durata della vita media è sensibilmente cresciuta, il coefficiente indicato dalla tabella rende
oggi un capitale leggermente inferiore a quello che risulterebbe dall'applicazione di un coefficiente,
per cosi dire, aggiornato: in tal senso, Cass. 2.3.2004 n. 4186; Cass. 14.7.2003 n. 11007);
(b) oppure si può liquidare il capitale applicando un coefficiente per costituzione di una rendita
temporanea (normalmente al tasso dei 4,5%), cioè di una rendita di durata predefinita. In questo
caso la durata della rendita sarà pari all'età del danneggiato al momento della liquidazione meno
l'età massima pensionabile. La tabella di capitalizzazione temporanea è stata pubblicata da Gentile,
Tabelle di capitalizzazione per la liquidazione del danno alla persona, Milano 1950, 41.
Si badi che, in tutti e due i casi, la liquidazione del danno va effettuata sommando i redditi già
perduti dalla data dell’illecito alla data della liquidazione (e, se necessario, rivalutandoti); e
capitalizzando i redditi futuri prevedibilmente conseguibili, sulla base della vita futura residua
(Cass. 28-11-1988 n. 6403, in Foro it. Rep. 1988, Danni civili, n. 155; Cass. 18.11.1997 n. 11439,
Riv. giur. circ. trasp. 1997, 1998, 58).
L'età del danneggiato da prendere in considerazione per individuare il coefficiente di costituzione
sia della rendita vitalizia, sia di quella temporanea, deve essere quella del momento della
liquidazione, e non quella dei momento dei sinistro.
Le formule per la liquidazione di questo tipo di danno saranno dunque:
(-) ove si adotti il coefficiente di capitalizzazione vitalizia,
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D=R1, R2, R3… Rn + (R*k) - 10%
ove D è il danno da lucro cessante; R1, R2, R3… Rn, sono i redditi mensili maturati prima della
liquidazione, rivalutati in base all'indice ISTAT dei costo della vita relativo all'epoca della
maturazione; R è il reddito al momento del sinistro rivalutato al momento della liquidazione; k è il
coefficiente di capitalizzazione per le rendite vitalizie, desunto dall'allegato al r.d. 1403122;
(-) ove si adotti il coefficiente di capitalizzazione temporanea,
D=R1, R2, R3… Rn + (R*t)
ove t è il coefficiente di capitalizzazione per le rendite temporanee.
(B) Perdita parziale del reddito.
La liquidazione del danno da perdita parziale del reddito avviene con i medesimi criteri indicati in
precedenza. L'unica differenza consiste nel fatto che a base dei calcolo andrà posto non l'intero
reddito, ma quella frazione di esso che è andata perduta.
(C) Perdita totale o parziale del reddito, con possibilità di reimpiego.
Un caso particolare è costituito dall'ipotesi in cui il lavoratore, a causa della lesione, perda il proprio
lavoro ed il reddito che da esso si procurava, ma non perda la possibilità di impiegare
proficuamente aliunde le proprie capacità di lavoro.
Ricorrendo una simile fattispecie, il danno da perdita del reddito non può essere liquidato attraverso
la capitalizzazione di una rendita calcolata sulla presumibile vita futura del danneggiato. A meno
che questi non sia molto anziano, deve infatti presumersi sulla base dell'id quod plerumque accidit
(art. 115 c.p.c.) che la persona leso, entro un certo arco di tempo, potrà trovare una nuova
occupazione. Dunque in questi casi, per evitare
sovracompensazioni, è opportuno liquidare il danno da perdita del reddito capitalizzando il reddito
perduto in base ad un coefficiente di capitalizzazione temporanea, individuato in base al numero di
anni presumibilmente occorrenti al lavoratore per riconvertirsi e trovare un nuovo impiego
(preferibilmente, in numero non inferiore a 4-5).
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(D) Perdita presumibile del reddito futuro, in assenza di contrazioni reddituali in atto.
Problemi particolari sorgono in quei casi in cui non viene dimostrata una riduzione del reddito in
atto, ma è verosimile (ex art. 2727 c.c.) che tale riduzione si verificherà nel futuro.
In primo luogo, è opportuno ricordare a questo riguardo che il danno futuro va risarcito non soltanto
nelle ipotesi in cui esso si produrrà con assoluta certezza, ma anche quando possa ritenersi partendo dall'esame di situazioni già esistenti - che tale danno si produrrà secondo una ragionevole
e fondata previsione (Cass. 17-04-1996, n. 3629, Riv. giur. circ. trasp. 1996, 321; Cass. 16-091996, n. 8281, Foro it. Mass. 1996).
"Ragionevole e fondata previsione" vuol dire che il giudice deve esaminare gli elementi attuali (tipo
di lavoro, tipo di malattia, tipo di ripercussioni negative di questa su quello), i quali debbono essere
certi, e su essi fondare un giudizio prognostico di produzione dell'evento dannoso.
E' inammissibile pertanto il ricorso ad ogni "automatismo risarcitorio", ovvero a quelle motivazioni
entimematiche nelle quali si afferma che il danno futuro "si presume" sol che l'invalidità
permanente superi un certo grado percentuale.
Liquidando "automaticamente" il danno da incapacità di reddito quando il danno alla salute supera
un certo grado di invalidità si perviene ad una duplicazione risarcitoria, in quanto - come si è visto la maggiore difficoltà incontrata dal lavoratore nello svolgere le proprie mansioni, fermo restando il
reddito, costituisce un danno "biologico" e non patrimoniale. Lo strumento della presunzione (artt.
2727, 2729 c.c.) va pertanto maneggiato con estrema attenzione, al fine di evitare sia sovra- che
sottocompensazioni.
A questo riguardo è opportuno ricordare che, secondo la più recente giurisprudenza dei giudice di
legittimità, in materia di ripercussioni della lesione della salute sui redditi di lavoro, occorre
distinguere:
(a) in caso di macrolesioni, dalla natura sola del danno può desumersi ex art. 2727 c.c. una sicura
ripercussione sui redditi da lavoro. In questi casi può dunque affermarsi l'esistenza d'una
presunzione de facto di esistenza del danno patrimoniale, e sarà onere dei danneggiante vincerla,
dimostrando che in realtà il danneggiato no ha subito alcuna deminutio patrimonii;
(b) in caso di microlesioni (tradizionalmente, quelle che si concretano in un grado di invalidità
permanente inferiore al 10%), dalla natura del danno si può desumere una presunzione de facto
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opposta: e cioè che le lesioni non hanno avuto alcuna efficacia sui redditi dal lavoro del
danneggiato. In questo caso, sarà onere del danneggiato provare in modo rigoroso la contrazione del
reddito (Cass., 20-01-1997, n. 535, Riv. giur. circ. trasp. 1997, 313);
(c) nei casi residui, di lesioni di media entità, il ricorso alla presunzione semplice non sarà sempre
utilizzabile, ed occorrerà accertare caso per caso gli effetti che le lesioni ed i loro postumi hanno
avuto sul reddito del danneggiato.
Sulla liquidazione del danno da riduzione futura della capacità di reddito, quando non si registra in
atto una perdita patrimoniale, permangono tuttora disparità di vedute tra i giudici di merito.
Secondo un primo orientamento, la diminuzione della capacità di reddito può essere misurata
percentualmente, e tale determinazione percentuale va demandata ad un c.t.u. medico legale.
Ottenuta dal c.t.u. la quota percentuale di riduzione della capacità di reddito, basterà moltiplicare il
reddito documentato per tale percentuale.
A tale sistema sono state mosse alcune obiezioni.
In primo luogo, nel momento in cui si chiede al c.t.u. di determinare in gradi percentuali la
riduzione della capacità di guadagno, si chiede al medico legale di accertare qualcosa che travalica
lo specifico settore di competenza. Al medico legale può infatti chiedersi senz'altro in che modo la
prestazione lavorativa risulti o risulterà impedita o resa difficoltosa, ma non di misurare in termini
percentuali la perdita patrimoniale futura.
In secondo luogo, è la stessa medicina legale ad escludere che il medico possa misurare in termini
percentuali la riduzione della capacità di guadagno (cfr. supra, § 2 e ss.).
In terzo luogo, non esiste alcun baréme medico legale dal quale ricavare la riduzione di capacità
produttiva, né sarebbe possibile costruirlo, in quanto la riduzione di tale capacità è questione da
valutare caso per caso, sfuggente ad ogni generalizzazione.
Un sistema alternativo per liquidare il danno futuro da riduzione della capacità di guadagno, quando
non sia dimostrata in atto una riduzione del reddito, è quello di apprezzare percentualmente non la
riduzione della capacità produttiva, ma la riduzione del reddito. In base a questo sistema, dopo
avere domandato ed ottenuto dal c.t.u. una analitica descrizione dei modo in cui la lesione ha inciso
sul concreto svolgimento dell'attività lavorativa, occorre in primo luogo stabilire se sia verosimile
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che i postumi residuati alla lesione, con l'andar del tempo, possano causare una riduzione degli
introiti.
Si può citare a questo riguardo, come esempio di risposta affermativa, il caso dell'architetto che, a
causa di un trauma cranica, aveva progressivamente perduto la capacità di concentrazione. In atto, i
redditi dei professionista non avevano subito alcuna riduzione, in quanto essi erano legati a
prestazioni professionali ed incarichi assunti prima dei sinistro, e che venivano via via portati
regolarmente a termine. Il tipo di postumi residuati al sinistro lasciava tuttavia presumere, con
attendibile certezza, che il professionista avrebbe potuto in futuro disimpegnare un numero sempre
minore di incarichi.
Accertato dunque che i postumi residuati alla lesioni, anche se non hanno ridotto il reddito in atto,
lo ridurranno verosimilmente nel futuro, potrà
stimarsi in via equitativa l'aliquota di reddito che sarà perduta in futuro, e capitalizzarla secondo la
formula già descritta in precedenza, sub B).
6.1. Lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa.
Il coefficiente utilizzato per liquidare il danno nella forma della capitalizzazione è un coefficiente
per la costituzione di una rendita vitalizia, cioè di durata pari alla durata della residua vita futura. Il
soggetto danneggiato non avrebbe tuttavia percepito il reddito per tutta la durata della vita, ma solo
sino all'età pensionabile. Per tenere conto di questa circostanza, possono in teoria adottarsi due
sistemi:
(a) si può liquidare il capitale applicando il coefficiente di costituzione della rendita vitalizia,
applicando poi un abbattimento per tenere conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa
(Cass. 14.7.2003 n. 11007);
(b) oppure si può liquidare il capitale applicando un coefficiente per costituzione di una rendita
temporanea (normalmente al tasso dei 4,5%), cioè di una rendita di durata predefinita. In questo
caso la durata della rendita sarà pari all'età del danneggiato al momento della liquidazione, meno
l'età massima pensionabile.
Il primo sistema è quello più utilizzato, anche se esso presenta l’inconveniente di prestarsi a
disparità di trattamento, in quanto lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa non è uguale per tutti, ma
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dipende dall’età dell’infortunato e dal lavoro svolto. Lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa,
insomma, non è un dato certo, ma un dato relativo (nella maggior parte dei casi, variabile dal 10 al
35%), rimesso al prudente apprezzamento del giudice (Cass. 16.5.2003 n. 7629; Cass. 27-4-1995 n.
4642, RFI, 1995, Danni civili, 234), il quale nella determinazione di esso non potrà fare a meno
dell’apporto del medico legale.
Tuttavia lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa non può essere applicato quando per la costituzione
della rendita vitalizia viene utilizzato il coefficiente di cui alla tabella allegata al r.d. 1403/22, la
quale è stata calcolata in base alle tavole di sopravvivenza della popolazione italiana, desunta dai
censimenti dei 1901 e del 1911, ed alle statistiche mortuarie del biennio 1910-1912. Poiché da
allora la durata della vita media è sensibilmente cresciuta, il coefficiente indicato dalla suddetta
tabella rende oggi un capitale leggermente inferiore a quello che risulterebbe dall'applicazione di un
coefficiente, per così dire, aggiornato, e quindi può in via equitativa omettersi la riduzione per
scarto tra vita fisica e vita lavorativa (Cass. 2.3.2004 n. 4186; App. Roma 8-6-1990, in Nuovo dir.,
1991, 927).
La scelta di questo metodo è stata ritenuta dalla S.C. una valutazione di merito, e come tale
insindacabile in sede di legittimità (Cass. 1-7-1998 n. 6420, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili,
263; Cass. 4-9-90 n. 9118, in Foro it. Rep. 1990, Danni civili, 158; Cass. 8-11-80 n. 6006, in Arch.
circolaz., 1981, 201).
7. Il soggetto non lavoratore: disabili, minori, disoccupati, pensionati, casalinghe.
Si è già visto come il soggetto non lavoratore di norma non possa subire alcun danno da incapacità
temporanea di guadagno.
Anche il soggetto non percettore di reddito può invece subire un danno consistente nella
permanente riduzione - o soppressione della capacità di produrre reddito.
In questi casi il calcolo liquidatorio è particolarmente difficile, in quanto si tratta di stabilire, in
assenza di ogni parametro reddituale attuale di riferimento, in quale misura il reddito del
danneggiato potrà contrarsi nel futuro. Un utile criterio, in casi simili, viene fornito dall'art. 137
cod. ass., norma la quale - come si è visto - è stata ritenuta utilizzabile "come parametro", se non
proprio in applicazione analogica, anche ai casi di danni non causati da sinistri stradali (Cass.
3.6.1994 n. 5380, Corr. giuridico 1994, 1360).
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Pensionati e disabili.
Per il pensionato ed il minorato, di norma, si tratterà di stabilire se essi conservassero o meno al
momento dei sinistro (in considerazione dell'età o dei tipo di minorazione) una capacità lavorativa
residua, e - soprattutto -in quali ambiti lavorativi fosse spendibile tale capacità. Accertato ciò, il,
danno potrà essere liquidato - secondo i criteri visti in precedenza -ponendo a base dei calcolo il
presumibile reddito medio di un operaio, impiegato od artigiano addetto a quel particolare settore.
Si badi che, in mancanza di indicazioni specifiche addotte dal danneggiato, il "settore" di cui si fa
parola può avere una portata vastissima: coincidere, ad esempio, con tutti gli impieghi di concetto in
una azienda di medie dimensioni.
Minori.
La liquidazione del danno da riduzione della capacità di produrre reddito, patito da un minore, è
particolarmente difficile, in quanto tale danno va stimato in assenza di ogni parametro reddituale ed
attuale di riferimento. Ovviamente, la mancanza di criteri obiettivi per l'esatta quantificazione in
denaro del pregiudizio da risarcire non è causa di esclusione del diritto al risarcimento, in quanto il
giudice ha sempre il potere-dovere di ricorrere ad una stima equitativa, considerando tutte le
circostanze del caso concreto (Cass. 3.1.2005 n. 564; Cass. 26.3.1999 n. 2890; Cass. 15-4-1996 n.
3539; Cass. 4-9-1990 n. 9118).
Le circostanze del caso concreto da tenere presente sono - principalmente - l'età dell'infortunato, il
suo ambiente sociale e la sua vita di relazione (Cass. 15-4-1996 n. 3539, in Foro it. Rep., 1996,
Danni civili, 115). Si è affermato, in particolare, che il giudice deve tener conto non soltanto della
rilevanza quantitativa delle lesioni, in termini di percentuale di invalidità medicalmente accertata,
ma anche della loro natura e qualità - rispetto alle presumibili opportunità di lavoro che si
presenteranno al danneggiato, avuto riguardo alle sue peculiari tendenze ed attitudini -,
dell'orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata
attività redditizia, dell'educazione dallo stesso ricevuta dalla famiglia e della posizione sociale ed
economica di quest'ultima, nonché della situazione del mercato del lavoro e, infine, di ogni altra
circostanza oggettivamente o soggettivamente rilevante, ferma restando la possibilità per colui che è
chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare, in forza degli stessi anzidetti criteri, che il
minore non risentirà alcun danno dal quel particolare tipo di invalidità (Cass. 15.7.2008 n. 19445).
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Ciò non vuol dire, ovviamente, porre a base della aestimatio del danno il reddito dei genitori:
quest’ultimo può essere solo uno dei parametri da prendere in considerazione, ma l'elemento
fondamentale è costituito dalle vocazioni manifestate dal minore (tipo di studi, capacità,
meritevolezza, interessi), giacché solo in base a questi elementi è possibile stabilire verso quale area
lavorativa il minore si sarebbe presumibilmente indirizzato (Cass. 11.5.1989 n. 2150, in Giur. it.,
1989, I, 1, 1832). Di recente, tuttavia, la S.C. sembra avere rimeditato la possiblità di liquidare il
danno patrimoniale futuro patito da un minore in conseguenza di lesioni personali, facendo ricorso
reddito dei genitori: osservato, al riguardo, Cass. 2.10.2003 n. 14678 che il danno patrimoniale da
lucro cessante, per un soggetto privo di redditoe a cui siano residuati postumi permanenti in
conseguenza di un fatto ille-cito altrui, configura un danno futuro, da valutare con criteri
probabilistici, in via presuntiva, e con equo apprezzamento del caso concreto. Pertanto, se occorre
valutare il lucro cessante di un minore menomato permanentemente e non sia possibile prevedere
la sua futura attivita' lavorativa in base agli studi compiuti o alle sue inclinazioni, rapportati alla
posizione economico - sociale della famiglia, non sussiste nessun vizio logico-giuridico della
motivazione del giudice di merito che per valutare il reddito futuro di detto minore adotti come
parametro di riferimento quello di uno dei genitori, presumendo che il figlio eserciterà la
medesima professione del genitore (nello stesso senso, Cass. 30.9.2008 n. 24331; Cass. 15.7.2008
n. 19445).
Per la liquidazione concreta del danno in esame, i giudici di merito adottano due metodi diversi.
(A) Coloro i quali ritengono che la capacità di guadagno possa essere espressa in termini
percentuali (cfr. supra), fissano in via equitativa un reddito figurativo (ad esempio, il reddito
medio nazionale: così App. Milano 9.4.1984, in Riv. giur. circ. trasp., 1984, 531), e moltiplicano
tale reddito per il grado percentuale di incapacità, e quindi per un coefficiente di capitalizzazione
(secondo la formula vista supra). Per il reddito da porre a base del calcolo, tuttavia, altri giudici
hanno preferito fare ricorso al salario medio netto di un operaio generico (Trib. Palermo
30.11.1982, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1984, 96), ed altri ancora alla retribuzione media
ipotizzabile per la figura professionale verso cui il minore sia presumibilmente indirizzato, sulla
base degli studi compiuti (così App. Genova 22.2.1984, in Resp. civ. prev., 1984, 333). La S.C. ha
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inoltre ritenuto ammissibile, anche al di fuori delle ipotesi di danni causati dalla circolazione dei
veicoli, il ricorso triplo della pensione sociale, ex art. 4 d.I. 857/76 (Cass. 3.6.1994 n. 5380, in
Corriere giur., 1994, 1360).
(B) Coloro, invece, i quali ritengono non percentualizzabile la riduzione della capacità di lavoro,
liquidano il danno col metodo seguente:
(a) ipotizzando in via equitativa quale sarebbe potuto essere il reddito che il minore avrebbe
percepito, se avesse potuto portare a termine i propri studi e realizzare le proprie aspirazioni;
(b) ipotizzando il reddito che - sempre presuntivamente ed in via equitativa - il minore potrà
percepire, occupandosi in una attività consentitagli dai postumi;
(c) capitalizzando la differenza tra questi due redditi (Cass., sez. III, 16-02-2001, n. 2335, in Dir. e
giustizia, 2001, fasc. 8, 33; Trib. Roma 8.10.1996, Cressini c. Allianz, inedita).
Quale che sia il metodo seguito, quando si procede alla scelta del coefficiente di capitalizzazione
bisogna avere due ulteriori accortezze.
In primo luogo, occorre utilizzare il coefficiente di capitalizzazione relativo non all’età del
danneggiato al momento del sinistro, ma relativo alla presumibile età di inizio dell’attività
lavorativa. Infatti, poiché con la capitalizzazione si esprime il valore attuale di una rendita di durata
pari alla vita lavorativa del danneggiato, è chiaro che il dies a quo di tale rendita deve coincidere
con l’inizio dell’attività lavorativa del danneggiato, altrimenti con la capitalizzazione si risarcirebbe
il minore di un danno mai subito, e cioè della perdita dei redditi nel periodo tra la data del sinistro e
l’inizio dell’attività lavorativa.
In secondo luogo, il risultato ottenuto mediante il calcolo di capitalizzazione deve essere
ulteriormente ridotto attraverso un c.d. coefficiente di minorazione, vale a dire un coefficiente di
capitalizzazione anticipata. Questo coefficiente è necessario per tenere conto del fatto che, mentre
infatti la liquidazione avviene oggi, il danno si sarebbe manifestato soltanto quando il minore
avrebbe cominciato a lavorare, e quindi se non si applicasse il coefficiente di minorazione, il
danneggiato, questi lucrerebbe sin da subito gli interessi composti su una somma che sarebbe
materialmente entrata nel suo patrimonio soltanto fra alcuni anni (Cass. 23.1.2006 n. 1215).
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Così, per fare un esempio, si immagini il caso di un minore del quale si accerti che, per effetto della
menomazione, perderà per tutta la vita lavorativa una frazione di reddito pari ad € 1.000 all’anno. Si
immagini che il minore abbia 6 anni al momento del sinistro, che avrebbe cominciato a lavorare a
18 anni, e che lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa nel caso di specie sia del 20%.
La capitalizzazione del reddito perduto sarà dunque pari a 1.000 (reddito perduto) per 19,383
(coefficiente per la costituzione di una rendita vitalizia immediata, al tasso del 4,5%, relativo ad un
soggetto di 18 anni), il tutto ridotto del 20% (scarto tra vita fisica e vita lavorativa.
Il risultato della capitalizzazione è dunque pari a € 15.506, ma questo non è ancora il danno da
liquidare. Occorre infatti tenere conto che il reddito perduto sarebbe entrato nel patrimonio del
minore fra 12 anni, e per far ciò occorre moltiplicare il risultato della capitalizzazione per un
coefficiente per la capitalizzazione anticipata (o coefficiente di minorazione), relativo ad anni 12, al
tasso del 4,5% (0,589). Il danno da liquidare sarà quindi pari a € 9.133,03.
Il danno biologico patito da un minore può far sorgere il diritto al ristoro del danno patrimoniale
non solo in capo alla vittima, ma anche in capo ai suoi genitori: a questi infatti, nel caso il figlio
abbia riportato lesioni gravemente invalidanti sulla futura capacità lavorativa in conseguenza del
fatto illecito addebitabile ad un terzo, compete anche il risarcimento del danno patrimoniale futuro
qualora questo, sulla scorta di oggettivi e ragionevoli criteri rapportati alla circostanze del caso
concreto, si prospetti come effettivamente probabile sulla scorta di parametri di regolarità causale,
tenuto conto della condizione economica dei genitori, della loro età e di quella del minore
gravemente invalido, della prevedibile entità del reddito di costui, dovendosi escludere che sia
sufficiente la sola circostanza che la vittima delle lesioni avrebbe goduto di un reddito proprio
(3.4.2008 n. 8546).
Casalinga.
Qualche considerazione in più merita l'ipotesi della casalinga.
Il risarcimento del danno patrimoniale, subito dalla casalinga a causa di lesioni personali conseguite
all'altrui fatto illecito, ha trovato soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di merito. Alcuni
giudici hanno escluso in radice che la casalinga infortunata possa subire un danno patrimonialmente
valutabile, oltre il danno biologico (Trib. Cagliari 10.5.1983, Arc. giur. circ. sin. strad. 1984, 613;
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Trib. Roma 21.5.1987 n. 6132, inedita; Trib. Firenze 24.5.1990, Arc. giur. circ. sin. strad. 1991,
219; App. Milano 19.10.1993, Assicurazioni 1994, II, 2, 126).
Quest'ultima, sentenza, in particolare, ha osservato che i cosiddetti "lavori di casa" costituiscono
una consueta manifestazione vitale di ogni persona, e che deve pertanto trovare ristoro nell'ambito
dei risarcimento del danno biologico).
Altri giudici hanno ammesso la possibilità per la casalinga infortunata di ottenere il risarcimento del
danno patrimoniale, ma soltanto a certe condizioni: ad esempio, nel caso in cui i postumi residuati
alle lesioni condizionino negativamente le "chances" lavorative future (Trib. Crema 8.6.1989, in
Inf. prev. 1990, 632), oppure nel caso in cui tali postumi abbiano ridotto od impedito una attività
della danneggiata suscettibile di valutazione economica (Trib. Pisa 16.1.1985, Resp. civ. prev. 1985,
433).
Infine, vi sono di quelle pronunce le quali ritengono senz'altro il danno da lucro cessante subito
dalla casalinga, sulla base della considerazione che anche le attività domestiche sono
economicamente valutabili, ancorché non retribuite. In tale senso, si vedano Trib. Prato 31.5.1990,
Arc. giur. circ. sin. strad. 1990, 959; Trib. Ravenna 13.3.1990, Riv. giur. circ. trasp. 1991, 853;
Trib. Milano 16.7.1992, Resp. civ. prev. 1993, 348 (in quest'ultimo caso è stato riconosciuto al
marito ed al figlio di una casalinga, deceduta in seguito ad un sinistro stradale, il diritto al
risarcimento del danno patrimoniale consistente nella perdita delle attività domestiche svolte dalla
defunta); App. Venezia 13.5.1993, Riv. giur. circ. trasp. 1994, 638: Trib. Venezia 8.6.1994, Arc.
giur. circ. sin. strad. 637.
Analoghi contrasti hanno diviso la giurisprudenza di legittimità.
Secondo l’orientamento numericamente prevalente, chi svolge attivita' domestica, benche' non
percepisca reddito monetizzato, svolge tuttavia un'attivita' suscettibile di valutazione economica:
sicche' quello subito in conseguenza della riduzione della propria capacita' lavorativa, se provato,
va legittimamente inquadrato
nella categoria del danno patrimoniale. Il relativo diritto al
risarcimento spetta sia a chi svolge lavori domestici nell'ambito di un nucleo familiare (legittimo o
basato su una stabile convivenza), sia a chi li svolga in favore di se stesso, e trova fondamento sui
principi costituzionali di cui agli articoli 4, 36 e 37 della Costituzione (da ultimo, Cass.
20.10.2005 n. 20324).
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Secondo un diverso e recente orientamento, invece, la perduta possibilità di provvedere da sé alle
incombenze domestiche può sì costituire un danno patrimoniale risarcibile (non soltanto per la
casalinga, ma per gli individui di qualunque sesso o condizione), ma a condizione che: (a) i lavori
suddetti fossero svolti direttamente dalla vittima, e non demandati a terzi (come colf, lavandaie,
ecc.); (b) il danno in questione sia debitamente allegato e provato. In particolare, la perduta
possibilità di svolgere lavoro domestico costituisce di norma una ipotesi di danno emergente,
consistente nei maggiori costi che la vittima dovrà sostenere per affidare a terzi quelle incombenze
cui prima attendeva personalmente; solo eccezionalmente il pregiudizio in questione può
comportare anche un lucro cessante, come ad esempio nel caso in cui la cessazione delle attività
domestiche riduca gli introiti derivanti dalla partecipazione ad una impresa familiare (Cass.
3.3.2005 n. 4657).
Tra i due orientamenti, preferibile appare il secondo.
Non può esservi dubbio, in effetti, che il lavoro svolto dalla casalinga è suscettibile di valutazione
economica. Ove pertanto la casalinga sia impedita nello svolgimento di tale attività, le spetta una
somma di denaro a titolo di risarcimento del danno sia da incapacità temporanea, sia da incapacità
permanente. In questo senso si vedano App. Firenze, 20-12-1995, Toscana giur., 1996, 34; Trib.
Treviso, 11 -04-1996, Arc. giur. circ. sin. strad. 1996, 643).
Tuttavia, in materia di risarcimento del danno patrimoniale alla casalinga si annidano molti
equivoci.
Ad esempio, Trib. Treviso 13.11.95, in Riv. giur. circ. trasp. 1996,151, ha affermato che "in
materia di risarcimento del danno alla persona derivato dalla circolazione di veicoli a motore o di
natanti, il soggetto danneggiato che al momento del sinistro svolgesse l'attività di casalinga ha
diritto al risarcimento del danno da compromissione della genetica capacità lavorativa, da
liquidarsi secondo il criterio dettato dall'art. 4 I. 26 febbraio 1977 n. 39" (Trib. Treviso 13.11.95,
in Riv. giur. circ. trasp. 1996, 151).
Questa motivazione si fonda su una inammissibile conservazione in vita della nozione di incapacità
lavorativa generica, nozione ormai dei tutto inutile, come si è visto in precedenza. In questo modo,
si liquida alla casalinga una voce di danno negata a tutti gli altri lavoratori.
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Se è vero che il lavoro svolto da una casalinga costituisce "prestazione economicamente valutabile",
come affermato da Cass. 3.11.1995 n. 11453, Foro it. Mass. 1995, è altresì vero che anche per la
casalinga, come per ogni altro lavoratore, occorrerà distinguere: ove la lesione della salute non
abbia impedito, ma abbia reso più difficoltoso lo svolgimento della propria attività, il danno subito è
un danno personale e non patrimoniale, di tipo biologico, che andrà risarcito mediante adeguato
adattamento dei criterio di liquidazione del danno alla salute.
Ove, invece, la lesione abbia precluso (per sempre o per un certo periodo di tempo) l'attività di
casalinga, il danno subito è di tipo patrimoniale, e si identifica nel valore economico delle
prestazioni di una collaboratrice domestica: in questo senso si veda la limpida motivazione di Trib.
Venezia, 08-06-1994, Arc. giur. circ. sin. strad. 1995, 637, secondo cui "in materia di risarcimento
danni subiti a seguito di incidente stradale, l'invalidità cagionata ad una casalinga va risarcita a
titolo di inabilità permanente tramite l'appesantimento del valore a punto del danno biologico, e a
titolo di inabilità temporanea tramite il risarcimento di un danno rapportato alla retribuzione di
una collaboratrice domestica" (Trib. Venezia, 08-06-1994, Arc. giur. circ. sin. strad. 1995, 637).
In altri termini la casalinga può subire un danno patrimoniale quando, a causa delle lesioni, è
costretta od a rinunciare alla propria attività, perdendo le utilità materiali che da essa ritraeva,
ovvero - per godere di tali utilità - a pagare una collaboratrice domestica. Al di fuori di queste due
ipotesi, la maggiore difficoltà nello svolgimento delle attività domestiche può costituire soltanto
danno alla cenestesi lavorativa, della quale tenere conto nella liquidazione del danno alla salute.
Ove invece si consideri la maggiore afflittività incontrata dalla casalinga nello svolgimento delle
proprie attività come danno patrimoniale, no solo si fa rivivere l'obsoleta nozione di "incapacità
lavorativa generica", ma si dà la stura a vere e proprie duplicazioni risarcitorie: in una di queste
sembra essere incorsa la stessa Suprema Corte, allorché ha affermato che "la casalinga, pur non
percependo reddito monetizzato, svolge, cionondimeno, un'attività suscettibile di valutazione
economica, che non si esaurisce nell'espletamento delle sole faccende domestiche, ma si estende al
coordinamento, lato sensu, della vita familiare, cosi' che costituisce danno patrimoniale (come tale,
autonomamente risarcibile rispetto al danno biologico) quello che la predetta subisca in
conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa, e che sussiste anche nel caso in cui
ella sia solita affidare la parte materiale del proprio lavoro a persone estranee. Consistendo il
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danno de quo nella perdita di una situazione di vantaggio, e non rimanendo esso escluso neanche
dalla mancata sopportazione di spese sostitutive, legittimo risulta il riferimento, nel relativo
procedimento di liquidazione, al reddito di una collaboratrice familiare, con gli opportuni
adattamenti dettati dalla maggiore ampiezza dei compiti espletati dalla casalinga"' (Cass.
6.11.1997 n. 10923, Riv. giur. circ. trasp. 1998, 242).
Questa sentenza potrebbe sollevare dubbi sotto due diversi profili.
In primo luogo, va osservato che l'attività lavorativa normalmente erogata dalla casalinga può
essere svolta anche da chi casalinga non è: ovvero da normali lavoratori, singles, studenti, i quali
nelle ore lasciate libere dal lavoro si dedicano alle necessarie attività per la conduzione della vita
domestica. Anche costoro, pertanto, dovrebbero avere diritto - secondo il principio affermato nella
sentenza in epigrafe - al risarcimento del danno
patrimoniale consistente nella ridotta capacità di svolgere servizi domestici, ove tale riduzione
venga effettivamente dimostrata.
In secondo luogo, ciò che suscita più forti perplessità, nel caso di specie era stato dimostrato che la
casalinga non svolgeva alcuna attività domestica materiale, perché affidava tali incombenze ad una
collaboratrice familiare. La corte, nondimeno, ha ritenuto esistente il danno (si badi bene,
patrimoniale) nella misura in cui alla danneggiata era interdetta l'attività di "direzione e
coordinamento" delle attività domestiche.
In precedenza, era stata la stessa corte ad affermare che la casalinga svolge un'attività "produttiva di
reddito figurato": di conseguenza, se viene ridotta la sua capacità di produrre questo reddito
figurato, essa subisce un danno patrimoniale (Cass. 15-11-1996, n. 10015, Foro it. Mass. 1996).
Sembra dunque di cogliere un contrasto tra le due pronunce da ultimo citate. Si consideri infatti il
seguente movimento dialettico:
a) se la casalinga in tanto può subire un danno patrimoniale in conseguenza di lesioni alla persona,
in quanto sia lesa la sua capacità di produrre un reddito figurato;
b) se il reddito figurato prodotto dalla casalinga consiste nella utilità dei suo lavoro domestico;
c) ergo, deve concludersi che è l'attività materiale di conduzione della casa che è suscettibile di
valutazione economica (figurativa), non certo l'attività di "direzione e controllo" dell'operato della
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"colf'. Sarebbe infatti arduo ammettere che l'opera di vigilanza e direzione dell'operato della colf
costituisca una prestazione lavorativa suscettibile di valutazione economica.
8. Il risarcimento in forma di rendita.
Il risarcimento può essere liquidato in forma di rendita (art. 2057 c.c.) allorché ricorrano due
presupposti: il danno da liquidare sia un danno “alla persona”, ed abbia carattere di permanenza.
Pertanto la liquidazione in forma di rendita ben può essere utilizzata nel caso di lesione della salute
che abbia causato una riduzione (o addirittura la perdita) della capacità di produrre reddito. La
perdita del reddito futuro possiede infatti sia il carattere della personalità (si tratta di un danno che
tocca la persona, derivando da una compromissione della salute); sia il carattere della permanenza,
in quanto si tratta di un danno che si produce giorno per giorno, in ragione della durata della
presumibile vita lavorativa futura del danneggiato.
La deminutio patrimonii causata da una lesione della salute può consistere non soltanto in un lucro
cessante (come la perdita del reddito); ma anche in un danno emergente (come ad esempio nel
caso in cui il danneggiato debba sostenere periodicamente e permanentemente delle spese mediche).
Anche quest'ultimo tipo di danno deve ritenersi risarcibile sotto forma di rendita vitalizia. Esso
infatti possiede sia il requisito della personalità (nel senso sopra indicato, ovvero di danno causato
da una lesione della salute); sia quello della permanenza. L'esempio tipico è quello dell'invalido che
ha bisogno di assistenza infermieristica costante: le spese per tale assistenza potranno dunque essere
liquidate in forma di rendita (per la liquidazione in forma di rendita delle spese di assistenza
infermieristica si vedano Trib. Firenze 3.6.1950, in Resp. civ. prev., 1951, 367; Trib. Bologna
15.11.1994, Guidi c. Lloyd Adriatico, inedita; Trib. Torino 27.6.1994, Agostino c. Assitalia,
inedita).
Alla suddetta conclusione è stato tuttavia obiettato che essa si fonda su una interpretazione estensiva
dell'articolo 2057 cod. civ., in quanto le spese mediche o di assistenza da sostenersi periodicamente
non possono considerarsi un "danno personale", ma piuttosto un danno patrimoniale.
A tale eccezione si può comunque replicare che l’art. 2957 c.c. non parla di "danno alla salute", ma
parla genericamente di "danno alla persona": deve pertanto ritenersi che tale ampia formula ri---------------------------------------------------------------------------------------------------------AFG s.r.l. – Via Pasquale Rossi, 49 -87100 Cosenza – Tel/fax 0984408491
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comprenda qualsiasi tipo di danno che trovi fonte in una lesione dell'integrità psicofisica. Nella
formula della legge dovranno quindi rientrare il danno biologico alla persona; il danno patrimoniale
causato da una lesione della salute.
Tecnicamente, la costituzione di una rendita in favore del danneggiato può avvenire in vari modi:
(a) mediante alienazione di un cespite o cessione di un capitale, da parte del debitore;
(b) mediante acquisto di titoli del debito pubblico, di cui l’obbligato abbia la proprietà, ed il
danneggiato l’usufrutto;
(c) mediante stipulazione, in favore dei danneggiato, di una polizza sulla vita a premio unico (cfr.
art. 1882 c.c.).
I due ultimi sistemi appaiono preferibili per la loro maggiore praticità. Il giudice può infatti
ordinare al debitore di acquistare un capitale X in titoli del debito pubblico, nominativi ed
intestati - ad esempio - al cancelliere dell'ufficio giudiziario procedente, la cui rendita sia
destinata ex art. 1872 c.c. al danneggiato.
Scegliendo poi titoli a reddito fisso, il danneggiato avrebbe la migliore garanzia della solvibilità del
debitore, mentre quest'ultimo potrebbe - in caso di decesso del creditore o di avveramento della
condizione risolutiva della rendita - rivendere i titoli o lucrarne la rendita.
9. La compensatio lucri cum damno.
E’ principio generale del nostro ordinamento, desumibile dall’art. 1223 c.c. (ma si veda anche
l’art. 1910 c.c.), quello secondo cui il danno non può mai costituire una fonte di lucro per il
danneggiato. Per questo motivo, ove dall’atto illecito siano derivati congiuntamente sia un
danno, sia un incremento patrimoniale, quest’ultimo dovrà essere scomputato dalla
liquidazione definitiva (compensatio lucri cum damno).
Nelle ipotesi di danno patrimoniale da riduzione del reddito, causata da una lesione della salute,
l’applicabilità della compensatio lucri cum damno ha dato luogo a decisioni contrastanti.
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La Corte di cassazione ha negato la compensazione tra il risarcimento del danno da incapacità di
guadagno, e la pensione di inabilità civile erogata in conseguenza del sinistro (ex l. 30.3.1971 n.
118), sul presupposto che quest’ultima non ha finalità risarcitorie, e non è pertanto assimilabile al
primo (Cass. 18.11.1997 n. 11440, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1998, 73).
Al contrario, la compensazione è stata invece ammessa, sempre dalla Corte di legittimità, tra il
risarcimento del danno patrimoniale e la rendita vitalizia corrisposta dall’Inail (d.p.r. 30.6.1965
n. 1124, art. 85), osservando che il valore capitale della rendita dell'INAIL corrisponde a valore
patrimoniale già risarcito, non ulteriormente computabile a favore del danneggiato, onde evitare
duplicazione di risarcimento sia in favore del danneggiato che a carico del responsabile (Cass.
25.5.2004 n. 10035; Cass. 15-4-1998 n. 3806, in Arch. circolaz., 1998, 775).
Nello stesso senso, si veda anche Cass. 12.7.2000 n. 9228, in Arch. circolaz., 2000, 830, che ha
ammesso la compensatio tra risarcimento del danno e pensione di invalidità erogata al pubblico
impiegato dispensato dal servizio, nonché (Cass. 13.5.2004 n. 9094), la quale ha negato il cumulo
tra il risarcimento del danno biologico e la pensione privilegiata corrisposta ad un militare per
l’invalidità riportata a causa di servizio.
La necessità di detrarre la rendita Inail (capitalizzata) dal risarcimento del danno patrimoniale da
contrazione del reddito è condivisa anche da vari giudici di merito (Trib. Napoli 5-3-82, in Riv.
giur. circolaz. trasp., 1983, 99; Trib. Como 10-2-91, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1992, 485). Alcuni
di questi hanno avuto l’accortezza di rilevare come, ai fini dello scomputo, la capitalizzazione della
rendita Inail non può essere effettuata secondo i criteri recepiti dalle tariffe per la costituzione delle
rendite vitalizie immediate approvate con il r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403, poiché queste tariffe si
basano sull'interesse annuo del cinque per cento, non corrispondente né ai frutti civili attualmente
prodotti dal denaro, né al saggio degli interessi legali. La suddetta capitalizzazione, pertanto, deve
essere compiuta moltiplicando il rateo di rendita per un coefficiente di capitalizzazione che sia stato
“costruito” sulla base di un saggio corrispondente a quello degli interessi legali (Trib. Como 10-291, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1992, 485).
Altri giudici di merito, infine, hanno ritenuto ammissibile la compensatio (o meglio, hanno ritenuto
inesistente un danno risarcibile) tra danno emergente per spese di assistenza infermieristica, ed
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indennità di accompagnamento corrisposta ex art. 1 l. 11.2.1980 n. 18 (Trib. Roma (ord.) 23.12.96,
Ferrari c. Lloyd, inedita).
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