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Assessorato alla Pubblica Istruzione della Provincia di Pisa
Centro per la didattica della Storia
Verso l’Unità
Conferenze e laboratori didattici
organizzati con la collaborazione della Domus Mazziniana
Pisa, ottobre-novembre 2010
Quaderni del Centro per la didattica della Storia
Numero 17
Immagine in copertina:
G. Induno, La partenza dei coscritti nel 1866 (particolare, 1878). Milano, Museo del Risorgimento
I Quaderni già pubblicati:
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Persecuzioni e stermini nella seconda guerra mondiale (2002)
La politica razziale del fascismo (2002)
Dalla discriminazione allo sterminio (2002)
La Grande Guerra (2002)
Fuori dall’ombra. Sguardi sulla storia della donne (2003)
Il primo dopoguerra e il culto dei caduti (2003)
Lotte contadine e operaie nel Pisano nel secondo dopoguerra (2004)
L’arte di stare insieme. Percorsi didattici tra Pisa e il Mediterraneo (2004)
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola (2004)
Pisa: 1940-1946. Le ferite di una città (2005)
La popolazione civile, le istituzioni ecclesiastiche, il clero a Pisa durante la II guerra mondiale (2006)
Le resistenze delle donne (2006)
Il lungo dopoguerra. Pisa 1946-56 (2007)
Mio padre ci disse che non saremmo più tornate al “Galilei” (2008)
Dopo la bufera – Pisa negli anni della Costituente: eventi, memorie e interviste (2009)
Luigi Torelli, Prefetto dell’Unità (2011)
Il Quaderno raccoglie una parte delle relazioni e del materiale dei laboratori didattici del corso organizzato dal Centro
per la didattica della Storia e dalla Domus Mazziniana, con la collaborazione della Prefettura di Pisa, nell’ottobrenovembre del 2010 in occasione del 150° dell’Unità d’Italia.
Il corso è stato realizzato grazie ai contributi della Cassa di Risparmio di Lucca, Pisa e Livorno, dell’Associazione Mazziniana Italiana e del Lions Club di Pisa, Pisa Certosa, Pontedera, Pontedera Valdera, San Miniato, Volterra.
© Copyright 2011 by Provincia di Pisa
Provincia di Pisa – Centro per la didattica della storia
Complesso scolastico Concetto Marchesi, via Betti, 56124 Pisa
tel. 050/929968, 050/929963
http://osp.provincia.pisa.it/cds/index.asp
[email protected]
ISBN 978-88-6315-337-8
Realizzazione editoriale
Via A. Gherardesca
56121 Ospedaletto (Pisa)
Fotolito e Stampa
Industrie Grafiche Pacini
INDICE
Alessandra Peretti, Introduzione
p. 7
Alberto Mario Banti, Le idee di nazione p. 9
Michele Finelli, Generazioni e Risorgimento: 1820-1861 p. 13
Pietro Finelli, Conflitti e lotte politiche p. 21
Marco Manfredi, Circuiti comunicativi e politica nel Risorgimento
p. 29
Alessio Petrizzo, Risorgimento a dimensione-massa
p. 35
Gian Luca Fruci, Il lungo momento plebiscitario (1797-1870)
p. 43
Angelica Zazzeri, Risorgimento al femminile
p. 57
Appendice – Laboratori didattici
Beatrice Monroy, Le mille storie dei Mille
p. 67
Paola Raspadori, Fare gli Italiani
p. 73
Anna Maria Di Pascale, Penna e baionetta
p. 85
Rosa Pardi, La società dell’Ottocento attraverso i quadri del Museo civico Fattori di Livorno
p. 103
Orsetta Innocenti, Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli
p. 105
Introduzione
In collaborazione con la Domus Mazziniana, il Centro per la didattica della Storia ha avviato
all’inizio dell’anno scolastico 2010-11 un ambizioso progetto di supporto all’attività didattica in
previsione delle celebrazioni del 150enario dell’Unità d’Italia. Il progetto prevedeva una serie di lezioni sui temi più recentemente dibattuti della storiografia del Risorgimento (il discorso nazionale
e le sue modalità comunicative, la presenza femminile, la partecipazione popolare), cui si accompagnavano dei laboratori didattici intesi a offrire immagini, brani di film, documenti storici e letterari
con cui i docenti potessero elaborare un percorso storico nelle loro classi, secondo la metodologia
che ha sempre caratterizzato l’attività del Centro.
Un ulteriore elemento ambizioso del progetto era la sua dislocazione non solo nel comune capoluogo, ma anche negli altri poli scolastici della provincia di Pisa – Pontedera, San Miniato e Volterra – per venire incontro alle esigenze di situazioni che spesso lamentano di essere sacrificate al
centro maggiore. Tale sforzo si è dimostrato largamente improduttivo, per la scarsa partecipazione
che si è registrata localmente e che purtroppo ha reso l’iniziativa un’occasione mancata. Mi sono
persuasa di aver fatto nel complesso previsioni errate sulle esigenze delle scuole, in un momento
in cui si abbattevano sui docenti una riorganizzazione scolastica e una frammentazione degli impegni che li distoglievano inevitabilmente da ogni ulteriore e volontario carico di lavoro. Mi sento
comunque di essere grata a tutti coloro che, con eroica perseveranza, hanno frequentato il corso
dimostrando di continuare a credere nel valore dell’insegnamento della storia per la formazione
critica e civile dei giovani.
La sostanziale carenza di partecipazione è risultata particolarmente spiacevole per il fatto che, a
parere degli stessi intervenuti, lezioni e laboratori sono stati tutti di alto livello e hanno fornito
strumenti molto utili all’azione didattica. Nell’intento di non disperdere completamente il lavoro
fatto, anche con notevole impegno, dai relatori, mi sono proposta quindi di registrare almeno una
parte dell’attività. Ringrazio tutti coloro che si sono sobbarcati l’onere di fornirmi i testi scritti
dei loro interventi: il loro numero è ristretto rispetto ai contributi orali presentati a suo tempo,
ma la pubblicazione mi sembra comunque significativa, perché copre di fatto i temi principali su
cui avevamo voluto soffermare l’attenzione. Per quanto riguarda i laboratori, era stata messa su
CDRom una parte notevole dei materiali forniti, spesso presentati in Powerpoint: in appendice
all’attuale quaderno pubblico alcuni dei testi relativi che mi sono sembrati didatticamente utili,
nonostante la forma largamente incompleta. Ricordo anche che il laboratorio sui documenti
dell’Archivio di Stato di Pisa relativi al prefetto Luigi Torelli è stato ampliato e approfondito dagli
autori, Raffaello Campani e Giovanna Tanti, ed è stato pubblicato nel Quaderno n. 16. Mi spiace
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che, per le ristrettezze finanziarie in cui tutte le amministrazioni locali attualmente si dibattono,
non sia stato possibile presentare anche il materiale iconografico e sonoro allegato ai laboratori:
i brani di film scelti da Francesco Andreotti, le storie dei Mille raccontate da Beatrice Monroy, le
riproduzioni dei quadri del Museo Fattori di Livorno scelte da Rosa Pardi, le ricerche iconografiche
di Alessio Petrizzo e Gian Luca Fruci.
Ringrazio infine il dr. Flavio Ferdani della Prefettura di Pisa e le varie associazioni per i contributi
di diverso genere dati all’organizzazione del corso.
Pisa, luglio 2011
Alessandra Peretti
Direttrice del Centro per la didattica della Storia
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Alberto Mario Banti
Le idee di nazione
Non era facile sentirsi parte di una comunità nazionale italiana alla fine del Settecento. E però,
proprio a partire da quegli anni l’idea di nazione italiana comincia a circolare, diventa l’oggetto di
progetti politici, è la ragione stessa dell’esistenza di un movimento nazionale. Anzi, finisce per esser
considerata come il criterio fondamentale sulla base del quale si costruisce la geografia politica in
Italia nella prima metà del XIX secolo, nel senso che chi si interessa di politica allora o è a favore
dei diritti della nazione e della costruzione dello stato-nazione, o è contro quei diritti, cioè contro
l’ipotesi di formazione di uno stato-nazione. Dunque, questa idea che appena alla fine del ’700 non
esisteva, diventa il motivo politico fondamentale intorno al quale si distribuiscono le appartenenze.
Come fa questa idea a imporsi? Il veicolo principale è la formazione di una «estetica della politica».
Con questo termine si indica una modalità della comunicazione politica, sollecitata dalla constatazione secondo la quale strumenti che normalmente servono per divertirsi e rilassarsi (romanzi,
poesie, drammi teatrali, pitture, statue e opere liriche) possono anche riempirsi di messaggi politici,
senza per questo perdere niente del loro fascino.
Per la formazione di una nuova «estetica della politica» è essenziale lo stretto rapporto che il nazionalismo intreccia con l’esperienza intellettuale comunemente nota col termine di «romanticismo».
Dei molti aspetti che connotano l’elaborazione romantica, uno merita di essere particolarmente
sottolineato: gli intellettuali che vi si avvicinano mettono ben presto a fuoco l’idea di «un’arte per
il popolo», termine che in questo caso non vuol dire altro che «un’arte per il più largo numero
possibile di persone».
Si tratta di un programma estetico che è certamente sollecitato anche dal nuovo statuto socioprofessionale del letterato o dell’artista della Restaurazione: non più sostenuto da un mecenate,
non più assunto stabilmente da una famiglia nobile, deve essere capace di vendere le sue opere
sul mercato se vuole procacciarsi di che vivere. Ma ciò che è importante osservare è che diversi
intellettuali e artisti romantici danno a questo chiaro programma professionale una declinazione
nettamente nazionalista. È, dunque, attraverso il lavori di veri e propri geni creativi come Giovanni
Berchet, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Francesco Hayez, Giuseppe Verdi e molti altri,
che il nazionalismo risorgimentale può avvalersi di un’«estetica della politica», che si traduce in
una vasta costellazione di romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica. Sono questi gli strumenti comunicativi che riescono a fare del nazionalismo un discorso mitico di grande impatto. La mitografia che ne deriva è efficace perché riesce a
proporre delle nuove, potenti, suggestioni: e sono proprio queste che danno al discorso nazionale
un grande impatto emotivo.
Ma quale definizione di «nazione» sorregge questa straordinaria vicenda politico-culturale? È una
definizione articolata in tre declinazioni fondamentali:
1) La prima, che si ripresenta costantemente, la descrive come comunità essenzialmente etno-culturale: si immagina, cioè, la nazione italiana come un soggetto collettivo che ha alle spalle una
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lunga storia comune; si dà quindi per scontato che la storia della penisola sia stata quella di un
gruppo coeso, e che tale coesione sia stata garantita dalla comunione di confessione religiosa,
dalla comunanza linguistica (questo almeno è quanto asseriscono gli intellettuali di orientamento nazional-patriottico, autori delle opere cui ho alluso prima), dalla trasmissione dello
stesso sangue, della stessa razza, della stessa terra. Questi sono elementi connotativi molto forti,
che si incontrano con regolarità nelle definizioni di che cos’è la nazione. Il contesto fondamentale all’interno del quale si svolgerebbe la storia nazionale, diciamo dal VI secolo in avanti, lo
si considera, poi, scandito dalla vicenda di un’incessante oppressione inflitta agli Italiani da
popoli o potentati stranieri; è così che viene presentata la storia della nazione, come una lunga,
dolorosa catena di momenti di oppressione da parte di stranieri.
2) Inoltre, la nazione viene descritta anche nelle sue componenti di genere, attraverso un’operazione che attribuisce agli uomini della nazione il compito di difenderla armi alla mano, e alle
donne della nazione il compito di riprodurre – in forma casta e virtuosa – le linee genealogiche
che strutturano la nazione come comunità di parentela.
3) Infine, la nazione viene presentata come una comunità i cui membri devono essere pronti a
soffrire per la patria, fino all’estremo sacrificio della propria vita. Il richiamo alla necessità del
sacrificio è un’operazione che consente di presentare il discorso nazionale come un discorso politico para-religioso: i militanti morti per la causa diventano subito dei «martiri», cioè in senso
proprio dei soggetti che hanno «testimoniato» con la morte la propria «fede» politica; in tal
modo le guerre nazionali si trasformano in «guerre sante» o «crociate»; l’azione di propaganda
diventa «apostolato» (termine largamente usato da Mazzini, in particolare); e la rinascita della
nazione diventa «resurrezione» (questo il senso etimologico originario del termine «Risorgimento»)
Descrivere in questo modo la comunità nazionale, e l’azione politica che è necessario fare per essa,
significa presentare il tutto con tratti di plausibilità molto forti, poiché su una proposta politica
enormemente innovativa si proiettano valori e simboli molto ben radicati nella mentalità diffusa
all’inizio del XIX secolo: chiunque capisce subito di cosa si parla se si dice che la nazione è una «famiglia» e che perciò i suoi membri sono «fratelli», legati dal «sangue» e dal «cor»; inoltre proiettare
nello spazio della nazione il valore dell’onore (gli uomini combattono e difendono la rispettabilità
delle proprie donne) è ricorrere a una passione che all’epoca è profondamente radicata, una passione per la quale non si esita a combattere dei duelli; e infine associare l’ideologia nazionale a specifici
simboli della tradizione cristiana significa presentare la nazione con i caratteri di un linguaggio che
tutti conoscono e quasi tutti apprezzano.
Al termine del Risorgimento tutti questi elementi del discorso nazionale non vanno perduti, ma
vengono pienamente incorporati nel processo di «nazionalizzazione delle masse» che viene realizzato dopo la costituzione dello stato unitario. Un esempio molto chiaro della forza di questo sistema simbolico viene dalle pagine di uno dei grandi best sellers dell’Italia liberale, Cuore di Edmondo
De Amicis. Pubblicato nel 1886, il libro ha la struttura di un diario tenuto dal piccolo Enrico Bottini, scolaro di una terza elementare di Torino nell’anno scolastico 1881-82. Il diario di Enrico parla
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dei piccoli fatti che accadono a scuola e fuori; ospita i racconti del mese che il maestro legge alla
classe e che Enrico trascrive; e talora accoglie anche qualche pagina di commento del padre, della
madre e della sorella. Gli interventi del padre sono quelli che hanno il massimo valore pedagogico
e normativo. E in uno di questi l’ing. Bottini spiega a suo figlio che cosa sia l’amor di patria:
L’amor di patria
24, martedì
Poiché il racconto del Tamburino t’ha scosso il cuore ti doveva esser facile, questa mattina, far bene il componimento d’esame: – Perché amate l’Italia? Perché amo l’Italia? Non ti
si son presentate subito cento risposte? Io amo l’Italia perché mia madre è italiana, perché il
sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che
mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove sono nato, la lingua che parlo,
i libri che m’educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in
mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio,
che ammiro, è italiano. Oh tu non puoi ancora sentirlo intero quest’affetto! Lo sentirai quando
sarai un uomo, quando ritornando da un viaggio lungo, dopo una lunga assenza, e affacciandoti una mattina al parapetto del bastimento, vedrai all’orizzonte le grandi montagne azzurre
del tuo paese; lo sentirai allora nell’onda impetuosa di tenerezza che t’empirà gli occhi di lagrime e ti strapperà un grido dal cuore. Lo sentirai in qualche grande città lontana, nell’impulso
dell’anima che ti spingerà tra la folla sconosciuta verso un operaio sconosciuto, dal quale avrai
inteso, passandogli accanto, una parola della tua lingua. Lo sentirai nello sdegno doloroso e
superbo che ti getterà il sangue alla fronte, quando udrai ingiuriare il tuo paese dalla bocca
d’uno straniero. Lo sentirai più violento e più altero il giorno in cui la minaccia d’un popolo
nemico solleverà una tempesta di fuoco sulla tua patria, e vedrai fremere armi d’ogni parte, i
giovani accorrere a legioni, i padri baciare i figli, dicendo: – Coraggio! – e le madri dire addio
ai giovinetti, dicendo: – Vincete! – Lo sentirai come una gioia divina se avrai la fortuna di vedere rientrare nella tua città i reggimenti diradati, stanchi, cenciosi, terribili, con lo splendore
della vittoria negli occhi e le bandiere lacerate dalle palle, seguiti da un convoglio sterminato
di valorosi che leveranno in alto le teste bendate e i moncherini, in mezzo a una folla pazza che
li coprirà di fiori, di benedizioni e di baci. Tu comprenderai allora l’amor di patria, sentirai la
patria allora, Enrico. Ella è una così grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar
salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l’anima mia, e sapessi che
hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t’accolgo con un grido
di gioia quando torni dalla scuola, io t’accoglierei con un singhiozzo d’angoscia, e non potrei
amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore.
Tuo Padre
Si tratta di una pagina ad altissima temperatura emotiva, che ripercorre con grande efficacia la
costellazione simbolica risorgimentale. Impressionante tanto la prima sequenza descrittiva, che
presenta la patria come una comunità fatta in primo luogo di rapporti parentali (la madre, il padre,
il fratello, la sorella), di sangue, di un suolo consacrato ai defunti delle passate generazioni, e solo
dopo anche di lingua e di cultura. Non meno impressionante è l’esercizio di pedagogia sacrificale
che occupa la parte finale dell’intervento, denso di esaltazione bellico-eroica. Sono immagini forti,
che non abitano solo questo libro di De Amicis, ma che occupano uno spazio comunicativo vasto,
che va dalle opere di Carducci e D’Annunzio ai sussidiari che si usano nelle scuole elementari del
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Regno. Ed è proprio nel costante ripetersi di queste fondamentali figure simboliche che occorre
vedere sia le ragioni del grande impatto del discorso nazionale risorgimentale, sia le ragioni della
sua duratura presenza anche nella storia dell’Italia post-unitaria.
Bibliografia essenziale
Anderson B., Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Roma, manifestolibri,
1996 [ed. or. 1983-92].
Banti A.M., La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita,
Torino, Einaudi, 2000.
Mosse G.L., La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), Bologna, il Mulino, 1975 [ed. or. 1975].
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Michele Finelli
Generazioni e Risorgimento: 1820-1861
Pretendere di affrontare in poche pagine un tema importante come quello propostomi sarebbe senza dubbio pretenzioso. Per cui mi limiterò a fornire alcune suggestioni che spero riescano a fugare
anche alcuni degli equivoci che hanno accompagnato il dibattito sul Risorgimento, i cui detrattori
hanno continuato a insistere sulla matrice elitaria, richiamando la mancata partecipazione popolare. In realtà, uno dei primi elementi che depone a favore del processo di unità nazionale è il fatto
che sia stato animato da giovani generazioni: Mazzini, Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II,
i quattro ‘padri della patria’, sono nati tutti dopo il 1800, rispettivamente nel 1805, 1807, 1812 e
1820.
L’idea di Italia che nacque dopo la dominazione napoleonica e il congresso di Vienna fu senza dubbio letteraria: si tratta di una patria che ancora non c’è geograficamente, tantomeno politicamente,
ma che si consolidò nelle letture dei testi romantici e nel recupero della tradizione letteraria italiana, oltre che nel desiderio di affrancamento dallo straniero. Prese corpo quella che lo storico Benedict Anderson ha definito una comunità immaginata, nella quale si riconobbero giovani di tutti
gli stati in cui era divisa la penisola, e ai quali era “negato” un futuro. Il mondo era rappresentato
dalle città, i cui confini erano segnati dalle mura cittadine: con l’epidemia di colera si chiudevano
le porte ai bisognosi; inoltre si registrava l’assoluta mancanza di trasporti e reti commerciali, e
l’economia della penisola era in uno stato di arretratezza endemica. I riferimenti culturali di questo periodo richiamavano tale impostazione. Monaldo Leopardi, ad esempio, padre di Giacomo,
dirigeva il periodico La Voce della Ragione e scrisse una serie di operette, I dialoghetti sulle materie
correnti nell’anno 1831, che oltre ad avere carattere reazionario identificavano la patria nella città.
Contro questa tendenza si mobilitò in particolare Giovanni Berchet, uno dei maggiori esponenti
del romanticismo italiano, esule dopo i moti del 1821. Egli scrisse la Lettera semiseria di Grisostomo, sostenendo la necessità di sprovincializzare la letteratura guardando oltre i confini d’Italia.
Berchet identificò il nuovo pubblico della letteratura romantica con il “popolo”, ovvero quella
parte di popolazione né troppo sofisticata e tradizionale (i Parigini) né eccessivamente incolta e
grossolana (gli Ottentotti).
La Carboneria
Con tutti i limiti propri di una dominazione straniera, l’età napoleonica ha aperto nuovi canali di
mobilità sociale, soprattutto nella pubblica amministrazione e nell’esercito: è su questo nucleo di
scontenti che si è costituita la Carboneria, che ha rappresentato per molti il primo momento di partecipazione politica. Ma la segretezza dell’organizzazione, l’oggettiva forza degli Austriaci e il fatto
che ancora mancasse la visione di un progetto comune fecero fallire sia i moti del 1820-21 che quelli
del 1830-31. Proprio i moti modenesi del 1831 ci aiutano a comprendere i limiti dell’organizzazione
carbonara. Francesco IV, Duca di Modena, aspirava a creare un Regno dell’Alta Italia, e per questo prese accordi con due carbonari locali, Enrico Misley e Ciro Menotti. Quando si accorse che
l’Austria avrebbe reagito con durezza al progetto, il Duca mantenne i contatti con il gruppo solo
per controllarne i piani e fermarli al momento giusto. Bisogna aggiungere che Menotti, a differenza
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di Misley, si fidava poco di Francesco IV, e per tale ragione, anche approfittando della vacanza di
potere che si era aperta in Vaticano, dove un conclave difficilissimo apertosi nel novembre del 1830
non aveva portato ancora all’elezione di un papa, stabilì per il 5 febbraio lo scoppio della rivolta. Francesco IV fece arrestare lui e gli altri congiurati il 3 febbraio, fuggendo a Mantova; infatti
dopo la sollevazione nelle Legazioni Pontificie, a Bologna, i tumulti si erano estesi a Modena e
Reggio-Emilia. Questo elemento è fondamentale, perché dimostra che senza gli Austriaci e il loro
intervento militare i sovrani della penisola erano incapaci di gestire l’ordine. Purtroppo questi moti
erano caratterizzati dalla mancanza di un’azione comune, conseguente alla disorganizzazione del
modello carbonaro, e da uno spirito localistico e municipalistico.
L’ascensione al soglio pontificio dell’ultraconservatore Gregorio XVI favorì la repressione austriaca. Il 26 maggio del 1831 Ciro Menotti venne impiccato, diventando un martire del Risorgimento,
nonostante in quella fase l’idea di identità nazionale fosse ancora lontana.
Largo ai giovani: Giuseppe Mazzini e La Giovine Italia
La rottura di un quadro politico statico si ebbe grazie a Giuseppe Mazzini, che elaborò la prima
proposta che ebbe successo politico a livello “nazionale”. Mazzini era nato a Genova nel giugno
del 1805, da Giacomo, un medico che, dopo aver assunto posizioni giacobine ai tempi della Repubblica ligure, con la Restaurazione si orientò su posizioni moderate, e Maria Drago, la cui educazione, di stampo giansenista, ebbe un ruolo fondamentale nella vita di Mazzini poiché gli trasmise il
senso del dovere e della lealtà e la necessità di coniugare “Pensiero e Azione”, divenuto poi il motto
del patriota genovese.
Mazzini diede un contenuto politico all’idea romantica di Italia letteraria, che era stata proposta da Foscolo, e ripescata anche nella tradizione dantesca. Non è un caso che il primo scritto di
Mazzini, Dell’Amor Patrio di Dante, risalente al 1827, tocchi proprio questi argomenti. Mazzini
nel 1828 trasformò un giornale di annunci economici, L’Indicatore Genovese, in un foglio di letteratura nel quale, attraverso le recensioni a volumi, definì i caratteri di una “letteratura nazionale”
di ispirazione romantica. Chiuso dalle autorità il giornale di Genova, Mazzini partecipò a un esperimento simile a Livorno, collaborando con L’Indicatore Livornese, grazie al quale conobbe altri
giovani patrioti toscani, tra cui si segnalano i nomi di Francesco Domenico Guerrazzi e Carlo Bini.
Per fare politica attiva, in quel momento, il passaggio obbligato era ancora l’iscrizione alla Carboneria, e il 13 novembre del 1830 egli subì il primo arresto. Liberato nel febbraio del 1831, dovette
scegliere tra l’esilio e il confino. Preferì la prima ipotesi, che gli avrebbe permesso di continuare a
lottare per la libertà del paese.
Consapevole delle carenze del modello carbonaro, nel 1831 a Marsiglia, città portuale e di forte
presenza italiana, Mazzini fondò La Giovine Italia, che lo storico Roberto Balzani ha definito la
prima “agenzia di nazionalizzazione” del nostro paese. L’organizzazione rifiutava i particolarismi e
il municipalismo, elementi che avevano impedito ai moti precedenti di avere successo, e proponeva
la scelta delle istituzioni repubblicane, che garantivano l’esercizio dell’eguaglianza e della sovranità
popolare. Il nemico principale fu individuato nell’Austriaco, che controllava il paese direttamente
o attraverso politiche dinastiche. Ciò si traduceva nella formula “Italia una indipendente libera e
repubblicana”, che portò ovviamente con sé altri elementi di novità. Il primo – lo si desume dal
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nome dell’organizzazione – è quello dell’età, dal momento che potevano iscriversi solo coloro che
non avevano superato i quaranta anni; inoltre erano ammessi anche gli analfabeti. La segretezza
della Carboneria non pagava: in tal senso Mazzini puntò su nuove forme di comunicazione, come il
giornalismo e la stampa di collane editoriali popolari. La lettera aperta al sovrano piemontese Carlo Alberto, del 1831, è il primo esempio di questa forma di comunicazione: “volete essere il primo
degli uomini o l’ultimo dei tiranni?”, scrisse Mazzini al sovrano. Ovviamente con tale messaggio
Mazzini non si aspettava che Carlo Alberto si schierasse con lui, ma voleva colpire le coscienze
popolari e far capire che tutti potevano confrontarsi con l’autorità.
Ciò portò a un immediato successo della Giovine Italia, soprattutto al Centro-Nord, dove si diffuse
da Genova e Livorno, non a caso città portuali. E il successo, come si è detto, era legato alla proposta politica del sodalizio, l’unico sulla piazza: non è casuale che vi aderissero anche personaggi che
successivamente si spostarono su posizioni moderate, come Vincenzo Gioberti e in Toscana Pietro
Bastogi e Carlo Bombrini, registi finanziari dell’Unità d’Italia, che a Pisa al Caffè dell’Ussero raccoglievano fondi per La Giovine Italia.
Questi giovani entusiasti cominciarono a orientarsi su posizione diverse a partire dalla seconda metà
degli anni ’30, quando il modello mazziniano mostrò delle crepe. Cosa non aveva funzionato bene
in questi anni? La struttura organizzativa, dopo il buon consolidamento iniziale, conobbe dei duri
colpi tra il 1833 e il 1835. Un tentativo di insurrezione venne sventato a Genova nel 1833 (avrebbe
dovuto estendersi a Chambery, Alessandria, Torino). Ciò condusse a numerosi arresti, soprattutto
a Genova, tra i quali quello del più caro amico di Mazzini, Jacopo Ruffini, che nel carcere si suicidò
piuttosto che rivelare i nomi dei compagni di lotta. Furono emesse condanne pesanti: numerosi
ergastoli e dodici condanne a morte; a Mazzini toccò quella in contumacia. Nel 1835 le repressioni
colpirono l’organizzazione nel Lombardo-Veneto. Collegato a questo aspetto, bisogna registrare il
fallimento della nuova tecnica di guerriglia mazziniana, ispirata alla “guerra per bande” teorizzata
dal piemontese Carlo Bianco di Saint-Jorioz, membro dell’esercito, che dopo i moti del 1821 fu
costretto a riparare all’estero e aderì sia alla Giovine Italia che alla Giovine Europa. La guerra per
bande era ritenuta necessaria per rompere l’equilibrio dell’imbattibile esercito austriaco.
A fianco dei limiti organizzativi, c’erano anche quelli teorici. Mazzini non riuscì a comprendere a
fondo la realtà contadina; non accennò alla redistribuzione della proprietà fondiaria e, nonostante
fosse a conoscenza delle dure condizioni di vita della popolazione, fece solo generici riferimenti al
miglioramento della situazione sociale, anche perché avrebbe voluto affrontare tali questioni dopo
l’instaurazione della repubblica, l’obbiettivo primario. In ogni caso grazie a Mazzini la gioventù
della penisola conquistò un ruolo di primo piano, e la sua riflessione “obbligò” altri personaggi a
formulare proposte concrete per il futuro della patria.
Gli anni ’40: la proposta moderata di Gioberti
La fine del “monopolio” mazziniano arrivò con l’apertura di un fronte moderato, alla cui nascita contribuirono in modo determinante i Congressi degli scienziati, dei quali il primo si svolse
a Pisa nel 1839. Essi favorirono una circolazione di idee che dimostrò l’esistenza di una cultura
italiana. Nel frattempo, a giocare un brutto colpo all’immagine di Mazzini – anche se lui non ne
era direttamente responsabile – intervenne la sfortunata spedizione di Attilio ed Emilio Bandiera.
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Ufficiali della marina austriaca, figli di un ammiraglio, aderirono alle idee mazziniane, fondando
successivamente una loro società segreta, la Esperia. Nel giugno del 1844 disertarono dalla marina
seguiti da 17 compagni, dal brigante calabrese Giuseppe Meluso e dal corso Pietro Boccheciampe.
Sbarcati vicino a Crotone, pur avendo appreso che a Cosenza la rivolta si era bloccata, decisero di
proseguire, andando incontro all’arresto e alla fucilazione, che avvenne il 25 luglio del 1844. Per
scagionare Mazzini bisogna dire che egli cercò in tutti i modi di scongiurare il tentativo dei Bandiera, che del resto vollero andare avanti quando era evidente che sarebbe stata una missione difficilissima. I giovani Attilio ed Emilio, coraggiosamente, offrirono il loro martirio, ma certamente
il prestigio di Mazzini ne risentì.
Toccò a Vincenzo Gioberti formulare una proposta politica alternativa, che egli costruì sulla base
di tre considerazioni: il rifiuto di ogni forma di lotta insurrezionale; la necessità di una Lega doganale italiana, per uniformare i codici di commercio; l’idea di uno stato guida, identificato nello
Stato pontificio, perché con la sua longevità e l’identità mantenuta nel tempo avrebbe garantito
l’Italia dalle intromissioni straniere. Nacque il neoguelfismo; nel 1843 Gioberti scrisse Del Primato
Morale e Civile degli Italiani, nel quale prese nettamente le distanze dal mazzinianesimo e propose
la soluzione confederativa come soluzione al problema italiano, grazie all’introduzione di una Dieta di monarchi sotto la guida del papa. Secondo Gioberti la penisola non era destinata alla fusione
politica, ma era necessaria una Lega doganale per farla funzionare. Tuttavia si dovette confrontare
con un papa retrivo come Gregorio XVI, e anche per questo in seguito intervenne con alcune precisazioni: nel 1845 con i Prolegomeni al Primato e nel 1846 con il Gesuita Moderno, nel quale attaccò
i gesuiti, la parte più retriva della Chiesa, e sostenne che stava ai monarchi incoraggiare lo sviluppo
della borghesia. Il cattolicesimo sarebbe diventato la religione civile, mentre la situazione italiana
avrebbe dovuto essere risolta al di fuori del contesto internazionale, cosa sicuramente difficile.
Dall’ illusione di Pio IX al decennio cavouriano
Il biennio liberale del 1846-1847 costituì la premessa all’esplosione rivoluzionaria del 1848-1849.
L’evento chiave fu l’elezione di Pio IX, avvenuta il 16 giugno del 1846. Per quale ragione Pio IX
accese le speranze non solo degli abitanti dello Stato pontificio ma anche dei sostenitori dell’indipendenza italiana? Quando divenne pontefice egli concesse un’amnistia per i reati politici, un
fatto inusuale, e una moderata libertà di stampa; nel 1847 anche lo Stato pontificio aderì alla Lega
doganale con Granducato di Toscana e Regno di Sardegna. In realtà Pio IX non fu affatto liberale.
La sua idea, per frenare gli entusiasmi popolari e le aspirazioni di riforma radicale dello stato dei
ceti liberali, era limitarsi alla concessione di caute riforme, nelle quali però i suoi sudditi colsero
l’inizio di un processo di profonde trasformazioni. Infatti i suoi provvedimenti, nonostante fossero
destinati al notabilato, avevano raccolto anche una considerevole adesione popolare, come dimostra il caso di Ciceruacchio e dei capipopolo. Chi non aveva creduto all’idea di Pio IX come “papa
liberale” era stato proprio Mazzini, che nel maggio del 1847 gli aveva inviato una lettera aperta
nella quale lo invitava ad assumersi le sue responsabilità nel processo di realizzazione dell’indipendenza italiana.
Il biennio 1848-49 è il momento di snodo della vita politica europea, preceduto peraltro da una
fase di acuta crisi economica di tipo congiunturale, e ha assunto nel comune immaginario politico
il valore simbolico di grande occasione di trasformazione sociale e istituzionale. Il 1848 è il mo-
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mento in cui l’equilibrio di Vienna, che sin dall’inizio aveva dato segni di debolezza, cominciò a
crollare. Non è questa la sede per soffermarsi a lungo sugli eventi europei. Nella penisola l’effetto
domino era partito con l’insurrezione di Palermo. Il 12 gennaio nel Regno delle Due Sicilie insorsero i palermitani, che instaurarono uno stato indipendente e sottratto al dominio di Ferdinando II
di Borbone, restaurando la costituzione di Cadice del 1812. Ciò diede il via allo scoppio di manifestazioni liberali anche nella capitale, Napoli, obbligando il sovrano a concedere la costituzione
l’11 febbraio del 1848. Questo gesto spinse Leopoldo II di Toscana, Carlo Alberto di Savoia in
Piemonte e Pio IX a Roma a fare altrettanto tra il febbraio e il marzo. Non si trattava, tuttavia,
di statuti particolarmente avanzati: essi ricalcavano, per lo più, la costituzione francese del 1830.
In ogni caso in Italia, a differenza di quanto accaduto in Francia, sembrava che il processo riformatore fosse ben controllato dalle monarchie. In realtà la tensione era sotterranea, e furono gli
eventi di Vienna e Budapest a innescare la miccia. Dopo una manifestazione liberale del 13 marzo
1848, l’imperatore Ferdinando I abbandonò Vienna e il 18 marzo stessa sorte toccò a Metternich.
Si comprende perché l’equilibrio di Vienna finì del tutto: la rivolta partì dal cuore dell’Europa,
facendo emergere i limiti di un dominio che non riusciva più a gestire le proteste e le aspirazioni di
tante diverse nazionalità.
In Italia tutto cominciò a Venezia, il 17 marzo, con la proclamazione della Repubblica di San Marco. A Milano il giorno successivo scoppiarono le Cinque giornate, con l’erezione di barricate da
parte dei cittadini. Il 20 marzo si formò un Consiglio di guerra, composto da Cattaneo, Cernuschi,
Terzaghi e Clerici e il 23 marzo Radetzky fu costretto a lasciare Milano. Di fronte alla richiesta di
intervento da parte dei milanesi, si mosse Carlo Alberto, che il 24 marzo varcò il Ticino. Il sovrano
piemontese aveva tergiversato a lungo, e in effetti era imbrigliato da un problema di fondo: non aveva la forza di sconvolgere l’equilibrio europeo, per il timore che i Francesi intervenissero e gli Austriaci si riorganizzassero. Con l’ingresso di Carlo Alberto in Lombardia cominciò la prima guerra
d’indipendenza: Leopoldo II, Ferdinando II e Pio IX inviarono i loro soldati. Ma il 29 aprile 1848
Pio IX, dietro pressioni austriache, fece ritirare le truppe, dichiarando che una guerra contro un
avversario cattolico era insostenibile e di non accettare l’ipotesi di presiedere “una certa nuova
repubblica da costituirsi con tutti i popoli d’Italia”. Ciò rappresentò anche la pietra tombale sul
neoguelfismo. La dichiarazione di Pio IX permise agli Austriaci di riorganizzarsi e di far ripartire
dal luglio la loro offensiva: tra il 23 e il 25 luglio, a Custoza, si registrò la sconfitta piemontese e il
4 agosto, dopo aver perso Milano, Carlo Alberto chiese l’armistizio, negoziato dal generale Salasco: la Lombardia tornò agli Austriaci, a eccezione di Venezia che si preparò a un lungo assedio.
A questo punto l’attenzione si spostò su Roma, dove si giunse alla nascita della Repubblica romana.
Il 13 dicembre partì da Forlì la proposta dei Circoli popolari di eleggere un’Assemblea costituente,
per porre rimedio alla situazione di caos istituzionale dovuta all’assassinio di Pellegrino Rossi e
alla conseguente fuga di Pio IX (novembre 1848), e risolvere i problemi finanziari ed economici.
Così il 29 dicembre la Giunta suprema stabilì l’elezione, per il 21 gennaio 1849, di un’Assemblea
costituente in grado di rappresentare il paese. Il primo vero elemento di rottura col passato fu costituito dal fatto che le elezioni furono indette a suffragio diretto e universale maschile. I requisiti
richiesti per votare erano 21 anni di età e la cittadinanza, o almeno la residenza nello stato da un
anno. Sarebbero stati eletti 200 rappresentanti. Si mise così in moto, per la prima volta, una macchina democratica straordinaria per quel periodo storico; era necessario istruire le persone al voto,
cosa totalmente aliena, non solo culturalmente, ma anche da un punto di vista pratico, e garantire
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i servizi di sicurezza delle operazioni di voto attraverso l’esercito e la guardia civica.
La prova venne superata con successo. Le elezioni si svolsero in un clima sereno e pacifico, e andarono al voto 250.000 persone, un terzo degli aventi diritto, cifra rilevante se si considera lo stato
di arretratezza delle campagne e come, soprattutto fuori dalle città, la politica conservatrice avesse
più adesione. Il 5 febbraio del 1849 la Costituente cominciò i lavori e il 7 Giuseppe Galletti venne
nominato presidente dell’Assemblea. Il giorno dopo ebbe inizio una seduta importante, che culminò la notte del 9 febbraio con l’abolizione del potere temporale del pontefice e la proclamazione
della repubblica. I favorevoli furono 118, i contrari 26. Al papa furono lasciate garanzie per l’esercizio del potere spirituale. È questa la notte in cui Goffredo Mameli spedì a Mazzini un famoso
telegramma in cui scrisse: “Roma Repubblica, venite”.
L’11 febbraio venne nominato un comitato esecutivo, il triumvirato, composto da Mattia Montecchi, Carlo Armellini, Aurelio Saliceti, mentre il 12 febbraio l’Assemblea concesse a Mazzini la cittadinanza, invitandolo a raggiungere Roma. Il patriota genovese temporeggiò e trascorse il mese di
febbraio in Toscana, dove cercò di convincere Giuseppe Montanelli e Francesco Domenico Guerrazzi a compiere la fusione tra Repubblica romana e Granducato, in quel momento retto da un
triumvirato composto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, dopo che Leopoldo II, come Pio IX,
aveva abbandonato la Toscana per Gaeta il 30 gennaio del 1849. Tuttavia il tentativo di persuasione
operato da Mazzini fu vano, anche perché all’interno dello schieramento costituzionale toscano
stavano emergendo i filo-piemontesi. Fu a questo punto che il patriota genovese si spostò a Roma.
Se si era battuto per la fusione con la Toscana lo si doveva a un suo maggior realismo politico,
derivante anche dal fatto che, vivendo in esilio a Londra, aveva un quadro di maggior respiro sulle
dinamiche politiche europee, per cui era ben consapevole delle difficoltà che la neonata Repubblica
avrebbe dovuto fronteggiare. Tra le altre cose Pio IX a metà febbraio aveva invitato le potenze europee come Francia, Austria, Spagna, nonché il re di Napoli, a ripristinare l’ordine a Roma.
Per questo Mazzini, accolto con grande entusiasmo in Assemblea il 6 marzo del 1849, fece un
discorso improntato al maggior realismo possibile: “Per dirigere una guerra avete necessità d’un
potere; d’un potere che, quanto più i capi sono straordinari quanto più l’urgenza è grave, sia rivestito di poteri straordinari, abbia in sé un concentramento di facoltà straordinarie. […] Voi avete
dichiarato che fareste una Costituzione. Ed io vi dico che una Costituzione non può farsi oggi. Vi
sono due specie di Costituzioni, Costituzione Italiana e Costituzione Romana. Una Costituzione
romana, secondo me, non deve farsi, una Costituzione italiana non può farsi. […] Una dichiarazione di principi; una serie di guarentigie, per la libertà individuale, di coscienza, di associazione,
di stampa, per tutte le libertà che costituiscono il vostro diritto più sacro; e un’organizzazione del
potere: quando avrete queste tre cose, avrete per me tutto quello che in questo momento, pendendo
la guerra […] voi potete e dovete avere”. Mazzini parlava di guerra da gestire, consapevole che in
questa fase la difesa e il consolidamento della Repubblica erano l’elemento essenziale.
Ciò non significa che egli fosse contrario all’idea di costituzione, che anzi fu ispirata anche da lui.
Mazzini aveva infatti chiara la consapevolezza del funzionamento della macchina democratica in
occasione delle elezioni, e così scrisse all’emissario francese Fernand De Lesseps: “La Repubblica
s’impiantò fra noi per volontà d’una Assemblea escita dal suffragio universale; fu accettata con
entusiasmo per ogni dove; e in nessun luogo fu combattuta. E notate, signore, che rare volte l’opposizione fu così facile e poco pericolosa; direi anzi così provocata, non dagli atti, ma dalle circostanze singolarmente sfavorevoli nelle quali la repubblica si trovò collocata nei primi suoi giorni”.
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I problemi cui faceva riferimento erano soprattutto di natura finanziaria, cruciali per la salvezza
dello stato. Le misure adottate non dettero i frutti sperati e dopo che Carlo Alberto ruppe l’armistizio Salasco il 20 marzo del 1849, subendo la sconfitta decisiva il 23 marzo a Novara, gli Austriaci
furono in grado di concentrare le loro forze contro la Repubblica romana. La fine della guerra fu
segnata dall’armistizio di Vignale, concordato il 24 marzo, firmato il 26 e seguito dalla durissima
pace di Milano del 6 agosto. Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che dovette far accettare a un parlamento recalcitrante il trattato di pace per salvare il Regno di Sardegna.
D’Azeglio, ispiratore del proclama di Moncalieri, fu determinante per salvaguardare lo Statuto
albertino. Nelle giornate successive Radetzky sconfisse gli ultimi patrioti lombardi, soffocando sul
nascere alcuni tentativi di ribellione a Como e reprimendone duramente altri, come a Brescia. La
sola Venezia resisteva all’assedio.
Fu a questo punto che a Roma l’Assemblea, riunita segretamente, elesse un nuovo triumvirato, composto da Mazzini, Armellini e Saffi, cui erano concessi poteri illimitati per la “guerra d’indipendenza”. Il 20 aprile i Francesi partirono alla volta di Roma, mentre le truppe borboniche penetrarono
nella Repubblica romana da sud. Il 30 aprile i Francesi furono battuti e respinti a Porta Cavalleggeri;
il 9 maggio a Palestrina le truppe di Garibaldi sconfissero le truppe borboniche. In una situazione di
questo tipo è comprensibile che la Repubblica romana non poteva che gestire l’emergenza; impossibile pianificare politiche di ampio respiro, ad esempio nel campo dell’istruzione, delle infrastrutture,
o delle politiche culturali. Nel frattempo procedevano i lavori sulla carta costituzionale che fu approvata, come ultimo atto simbolico, il 1° luglio, quando le truppe francesi erano già entrate in città.
Giorgio Candeloro, uno dei più importanti storici italiani, ha sottolineato, nella sua Storia dell’Italia
moderna, come tale costituzione fu “soprattutto per i principi fondamentali e per gli articoli sui diritti
e doveri, la più avanzata in senso democratico di tutte le costituzioni italiane del Risorgimento”. Si
può senza dubbio concordare con Candeloro e aggiungere che proprio in questo si nota la maggiore
assonanza tra la costituzione della Repubblica romana e quella della Repubblica italiana, pur mantenendo ovviamente i distinguo evidenti tra i diversi processi di formazione delle due carte. È dunque
opportuno ricordare almeno alcuni di questi articoli.
Art. 5: abolizione della pena di morte e di confisca dei beni. Anche Pietro Leopoldo, Granduca di
Toscana, nel 1786 aveva abolito la pena di morte, ma è da sottolineare la differenza tra la decisione
comunque arbitraria e personale di un sovrano illuminato e quella di un’assemblea democraticamente eletta.
Art. 6: sacralità del domicilio.
Art. 7: manifestazione libera del pensiero, e abolizione della censura preventiva.
Art. 9: il segreto delle lettere è inviolabile.
Si trattava di norme assai dirompenti che riflettevano la risposta alle dure condizioni di vita e di
controllo in cui erano tenuti all’epoca i detenuti e i sorvegliati politici. Bisogna considerare che
molti dei parlamentari, in misura maggiore o minore, avevano subito alcune di queste angherie per
il solo fatto di essere esponenti politici o del mondo della cultura.
L’eredità ideale e politica del biennio ’48-’49 è stata fondamentale. La costituzione approvata a Roma, nonché le figure di Giuseppe Garibaldi e Goffredo Mameli, assieme ai
molti giovani che si batterono al loro fianco, hanno alimentato il mito della Repubblica
romana. Per quel che riguarda Mazzini, questa esperienza mise in luce le sue capacità di
amministratore, oltre che il suo ruolo di padre della nazione. Ma rese consapevoli i suoi
avversari, in primis i moderati, della necessità di costruire un’alternativa piemontese per
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l’unità nazionale, nonostante il fallimento della prima guerra d’indipendenza.
Il decennio cavouriano, che sfociò nella nascita del Regno d’Italia, vide concretizzarsi gli sforzi delle componenti moderate e democratiche, sotto l’indiscutibile regia dello statista piemontese. Nonostante le differenze e le divergenze, era stata assunta la consapevolezza comune di dover liberare la
penisola dal giogo austriaco. Non è questa le sede per dilungarsi sulle capacità politiche di Cavour
e sui suoi successi diplomatici: la trasformazione del Regno di Sardegna in una monarchia parlamentare, la guerra di Crimea e gli accordi di Plombières rappresentano dei passaggi fondamentali
per la nascita dell’Italia unita. Ma è opportuno ricordare la dimensione europea di Cavour, giovane
statista che aveva viaggiato in Francia e Inghilterra, acquisendo un bagaglio culturale e amministrativo superiore alla media; egli ebbe inoltre la grande intuizione di accogliere in Piemonte molti
degli esuli del 1848-49, costruendo con loro la futura classe dirigente del paese.
Conclusioni
Questo breve contributo, lungi dalla pretesa dell’esaustività, ha lo scopo di ricordare come il processo di unità nazionale è nato dallo sforzo comune di diversi orientamenti politici. Se è vero che
dopo il 1861 si consolidò il governo moderato della Destra storica, toccò poi a ex garibaldini e
mazziniani come Crispi e Depretis governare il paese dal 1876 fino alla fine del secolo e cercare,
tra mille contraddizioni e revisionismi, di aprire il paese alle masse. La legge Coppino del 1877,
voluta fortemente da Depretis, rappresentò il primo tentativo di intervenire sull’istruzione e fu
accompagnata dalla riforma elettorale del 1882. Crispi, personaggio certamente contraddittorio,
con l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia cercò di introdurre nuove forme di
partecipazione popolare. Toccò poi a Giovanni Giolitti, primo presidente del consiglio slegato
dalla tradizione risorgimentale, condurre l’Italia nel XX secolo.
Bibliografia essenziale
Anderson B., Comunità immaginate, Origine e diffusione dei nazionalismi, prefazione di Marco
d’Eramo, Roma, manifestolibri, 1996.
Balzani R., Il problema Mazzini, in «Ricerche di storia politica», 2 (2005), e in particolare le pp. 177-180.
Di Ciompo E., I confini dell’identità. Teorie e modelli di nazione in Italia, Bari, Laterza, 2005.
Mazzini G., Lettere aperte, (a cura di G. Tramarollo), Pisa, Pacini Editore, 1978.
Smith Allen J., Il Romanticismo popolare, Bologna, il Mulino, 1990.
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Pietro Finelli
Conflitti e lotte politiche
Una storia di conflitti
Uno degli elementi di lungo periodo che accomuna gran parte della storiografia sul Risorgimento è
la svalutazione degli aspetti conflittuali e delle spaccature che dividono lo spazio politico nel corso
del processo risorgimentale.
Che si tratti della discordia concors cara alla storiografia liberale, della tesi gramsciana sull’egemonia
moderata, o anche delle recenti ricerche sull’identità italiana e sul discorso nazional-patriottico, gli
storici, salvo rare eccezioni, hanno sempre teso a sottovalutare il conflitto e lo scontro a favore di
una lettura conciliatorista del Risorgimento, e spesso, anche quando hanno assunto il conflitto come
propria chiave di lettura, lo hanno fatto comunque interpretando la divisività negativamente.
Eppure l’Italia unita, come la gran parte degli stati moderni, è il frutto di un parto difficile e doloroso fatto di guerre, che vedono schierate in campo le maggiori potenze europee, di insurrezioni,
di spedizioni militari e di vere e proprie rivoluzioni, oltre che di scontri tra ideologie e visioni del
mondo tra loro antitetiche e contrapposte.
Il Risorgimento è infatti una guerra – o un insieme di guerre – di liberazione nazionale dal predominio austriaco, ma è anche una guerra civile che vede schierati gli uni contro gli altri “patrioti”
italiani e “legittimisti”, italiani anch’essi, ed è, forse soprattutto, una ‘rivoluzione’ che vede l’abbattimento degli antichi stati, dotati spesso di una legittimità antichissima, e l’instaurazione, per
contro, di un nuovo stato basato sui principi liberali e nazionali. L’unificazione italiana, infatti, insieme alla coeva unificazione tedesca, rappresenta la sfida più significativa in tutto il XIX secolo ai
principi internazionali di legittimità e di equilibrio, in nome dell’autodeterminazione nazionale.
In effetti, cosa che si tende spesso a dimenticare o a sottovalutare, il Risorgimento italiano si inserisce nel più ampio quadro delle rivoluzioni transatlantiche che attraversano lo scenario geopolitico
occidentale, costituendone un episodio tutt’altro che secondario.
Rivoluzione e controrivoluzione
È proprio con la Rivoluzione francese e la calata delle truppe rivoluzionarie nella penisola che
l’opinione pubblica italiana fa le sue prime prove:
Altro che cataplasmi di riforme ci voleva a rifare il sangue di quel vecchio popolo italiano di frati,
briganti, ciceroni e cicisbei […] I francesi […] ci spazzolarono, poniamo con la granata, dalla polvere delle
anticamere e dalle macchie e dal tanfo di sagrestia. Essi ci armarono, ci disciplinarono, e con molte pedate
di dietro, se volete, e sorgozzoni davanti, ci spinsero a guardare in faccia ed a battere i nostri antichi padroni, i tedeschi e li spagnoli: fecero un eroe – incredibile a immaginare – di quel poltrone di Giovannin
Bongè, il servitore di quello stupido codardo bastardo spagnolo ch’era il Giovin signore. Essi ci avran
rubato tutto quello che volete – i principi nostrani ed austriaci di prima e di poi ci regalarono forse? – ma
ci lasciarono esempio di amministrazione sapiente, e di strade e di ponti e di edifici pubblici solcarono
agevolarono adornarono il bel paese.
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Così con linguaggio immaginifico ma efficace, in una celebre polemica con Ruggero Bonghi, Giosuè
Carducci ricordava la funzione maieutica svolta dai rivoluzionari francesi nei confronti della vita politica e sociale italiana. è, infatti, proprio negli anni del cosiddetto “triennio patriottico” (1796-1799)
che avviene l’apprendistato dell’opinione pubblica della penisola alla “nuova politica” basata sulla
sovranità del popolo/nazione e la contestuale costruzione di uno spazio politico comune ‘italiano’,
ampiamente modellato sull’esperienza francese. In questo triennio gli Italiani, o comunque una parte
significativa di essi, pur con tutti i limiti dovuti all’ambigua azione dei Francesi, al contempo conquistatori e liberatori, fanno un’intensa esperienza dei linguaggi, delle pratiche e delle forme della democrazia moderna. Negli anni successivi (1802-1815), dopo l’effimera restaurazione seguita alla caduta
delle “Repubbliche giacobine”, l’esperienza napoleonica si caratterizzerà da un lato per l’impegno
nella costruzione dell’apparato statale e amministrativo, cui aderiranno progressivamente anche gran
parte dei patrioti, e dall’altro per l’emergere con chiarezza di uno spazio comune italiano, letterario,
ma anche politico, che travalica le divisioni statuali interne alla Penisola.
La Rivoluzione e l’età napoleonica, pur con tutta la loro ambiguità, lasciano in eredità ai decenni
risorgimentali, così come nel resto d’Europa, la prima e più profonda delle spaccature che dividono
il campo politico della penisola, quella tra quanti, moderati o radicali, si riconoscono comunque
negli “immortali principi” e coloro che rifiutano nettamente l’esperienza rivoluzionaria, e la “nuova politica” moderna, facendosi alfieri di un immaginario passato idilliaco, e dell’alleanza tra il
Trono e l’Altare. I controrivoluzionari e i legittimisti italiani si contrappongono frontalmente al
movimento patriottico risorgimentale interpretato, in una lettura in cui capacità analitica e ostilità
preconcetta si fondono, come la specifica declinazione nazionale di un più ampio ‘sovvertimento’
mondiale, che aveva avuto nella riforma protestante e nella Rivoluzione francese i suoi due vertici.
Una lettura sposata con convinzione anche dalla Chiesa cattolica, o almeno dalle sue gerarchie,
che, a parte la breve e ambigua parentesi del ‘papato liberale’ di Pio IX, diventa anzi il principale
pilastro organizzativo e teorico del movimento reazionario, fornendo, con le encicliche pontificie,
dalla Mirari vos (1832) di Gregorio XVI alla Quanta Cura (1864) e al Sillabo – che l’accompagnava
– di Pio IX, alcuni dei principali testi teorici. Nonostante il fronte legittimista possa contare su una
serie di personalità piuttosto rilevanti come Monaldo Leopardi, Clemente Solaro della Margherita, Antonio Capece Minutolo, Giacinto de’ Sivo, provenienti per lo più dalle fila dell’aristocrazia,
esso sarà sempre piuttosto debole e frammentato, senza mai riuscire davvero a organizzarsi e ad
assumere una dimensione nazionale. Infatti, non solo proprio la segmentazione politica dell’Italia
rendeva difficile un movimento unitario, ma gli stessi stati pre-unitari guardavano con sospetto
a questi loro sostenitori. L’idealizzazione legittimista di un passato cetuale e comunitario finiva
infatti inevitabilmente per confliggere con la realizzazione di uno stato amministrativo accentrato
che i sovrani, in continuità con la tradizione settecentesca, portavano avanti. Se infatti i legittimisti
immaginavano una società organica in cui la legittimità del sovrano era ‘naturalmente’ riconosciuta dai sudditi, i monarchi della Restaurazione, piegando a proprio vantaggio lo stato amministrativo napoleonico, vagheggiavano un progetto neo-assolutista in cui la ‘macchina’ statuale fosse in
grado di governare i sudditi, per il loro bene, ma a prescindere sostanzialmente da essi.
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Liberali e carbonari. Una galassia ambigua
La costruzione di uno “stato senza pubblico” rappresenta uno degli snodi centrali intorno cui si
struttura la sfera politica della Restaurazione, influenzando in maniera determinante il disporsi in
campo delle diverse forze.
La netta separazione tra stato e società civile voluta dai sovrani restaurati si rivela fragile – e alla
prova dei fatti controproducente. Alla totale esclusione di ogni forma di rappresentatività nella
sfera politica corrispondono infatti spazi di autonomia per la società civile esigui e sottoposti a una
pressione costante da parte degli apparati polizieschi. Non stupisce quindi che l’opinione pubblica
cerchi forme di organizzazione alternative, dando vita a una sfera pubblica parallela, spesso animata dagli stessi protagonisti di quella ufficiale ma caratterizzata dalla segretezza, e dominata dal
proliferare delle sette segrete, che riuniscono un fronte variegato che va dai neo-giacobini ai liberali
moderati, accomunati essenzialmente dall’opposizione all’ordine costituito. Il segreto – non solo
organizzativo ma anche programmatico – delle vendite carbonare consente infatti la coesistenza
e, almeno inizialmente, la collaborazione tra progetti e opzioni politiche tutt’altro che omogenee:
dai democratici radicali, eredi diretti delle correnti più avanzate della Rivoluzione, riuniti intorno
a Filippo Buonarroti, agli aristocratici sostenitori di un ordinamento cetuale e dell’autogoverno
più o meno oligarchico delle comunità locali, riletto attraverso la lente del liberalismo. Si pensi
a personaggi come Federico Confalonieri o Luigi Porro Lambertenghi, sino ai funzionari e agli
ufficiali napoleonici, che hanno spesso visto brillanti carriere interrotte dalla Restaurazione, e che
auspicano un’attuazione ancora più coerente dello stato amministrativo – e meritocratico – e un
suo possibile esito di tipo consultivo o rappresentativo. Tutte queste opzioni si ritrovano intorno
alla rivendicazione comune di un assetto politico ‘costituzionale’, mallevadore delle libertà civili e
di una – sia pur limitata – partecipazione attiva alla gestione dello stato, esemplificato dalla Costituzione di Cadice (1812): cara ai democratici per il suo monocameralismo e il suffragio universale
e ai moderati per il sistema elettivo a più gradi, garanzia di ordine sociale e di stabilità politica.
Se il carattere composito della galassia cospiratoria era poco importante – e anzi poteva persino
rivelarsi un vantaggio consentendo, per così dire, una pluralità di offerte politiche – fino a quando
si trattava di opporsi ai regimi della Restaurazione, le spaccature e le differenze rendevano estremamente complesso, se non impossibile, realizzare effettivamente gli obiettivi dei liberali.
Esemplare da questo punto di vista è quanto successe nel Regno delle Due Sicilie nel 1820-21, uno
degli episodi più importanti quanto poco studiati dell’apprentissage alla politica degli Italiani.
Il regime costituzionale imposto a Ferdinando I grazie a un colpo di mano della carboneria crollò
infatti non solo a causa dell’intervento austriaco, ma anche perché fortemente indebolito al suo
interno dalla spaccatura tra i gruppi dirigenti murattiani, formatisi in età napoleonica, e la carboneria vera e propria, su posizioni decisamente più democratiche. A indebolire ulteriormente l’esperimento costituzionale napoletano fu il peso decisivo dei localismi, con la contrapposizione tra la
capitale e le province e soprattutto tra la parte continentale del Regno e la Sicilia, e in particolare
Palermo che cercò di riconquistare il perduto ruolo di capitale.
Il localismo rappresenta in effetti, anche fuori dall’Italia meridionale, uno dei fattori più gravi di divisione all’interno dello schieramento liberale. Non solo, infatti, il sistema rappresentativo favorisce il
rinfocolarsi delle antiche rivalità territoriali, ma gran parte dei cospiratori liberali accetta comunque
come quadro di riferimento il contesto politico istituzionale dato, limitando di fatto la propria sfera
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di azione ai confini del proprio stato e rinunciando a priori a un progetto politico complessivo. Si
pensi a quanto accade nel 1831, quando i diversi governi insorti dell’Italia centrale vengono spazzati
via uno dopo l’altro senza riuscire a trovare nessuna forma di coordinamento tra di loro.
La rivoluzione mazziniana
La reazione alla confusione programmatica e al localismo, che avevano provocato il fallimento dei
precedenti esperimenti rivoluzionari, fanno fare nel corso degli anni ’30 al movimento liberale un
autentico salto di qualità che si concretizza essenzialmente nella fondazione della Giovine Italia, da
parte di Giuseppe Mazzini.
Alla complessità e alla segretezza proprie della carboneria e delle altre sette si risponde con un’associazione snella che limita al minimo la struttura organizzativa e che soprattutto fa della pubblicità programmatica la propria bandiera, tanto da dar vita immediatamente a un giornale.
Ma se dal punto di vista organizzativo quello che è pure stato autorevolmente definito il “primo
partito politico dell’Italia moderna” si allontana solo relativamente dalle esperienze precedenti,
l’autentica rivoluzione incarnata dalla Giovine Italia riguarda l’orizzonte culturale all’interno del
quale viene inquadrato e spiegata l’azione patriottica e rivoluzionaria. Mazzini e gli altri intellettuali e militanti patriottici infatti recuperano e riutilizzano linguaggi e materiale retorico e culturale
abbondantemente sedimentato nell’immaginario degli Italiani (e non solo delle classi colte), dai
riferimenti religiosi ai vincoli di sangue, dalla salvaguardia dell’onore alla tradizione letteraria e
culturale, rileggendoli tuttavia alla luce del romanticismo che sta rivoluzionando in questi stessi
anni la sensibilità europea. Il tutto condensato in un’idea di nazione, che non è più solo la nuova
fonte di legittimità politica, ma il principio guida in grado di dare un senso all’intera esistenza (e
alla morte) degli individui che scelgono di impegnarsi per essa.
Il patriottismo letterario e la militanza nella Giovine Italia, o almeno una certa vicinanza con essa
o con una delle varie organizzazioni di ispirazione mazziniana che si diffondono per la penisola tra
anni ’30 e ’40 dell’Ottocento, rappresentano il principale vettore di accesso alla politica per un’intera generazione di patrioti. “Italia libera” diventa così la nuova parola d’ordine del movimento risorgimentale, grazie anche ad alcuni drammatici episodi, come la tragica fine dei fratelli Bandiera,
che rendono popolare la causa italiana presso l’opinione pubblica internazionale.
Va ricordato tuttavia che, ovviamente, non ci troviamo di fronte a una sostituzione meccanica di
organizzazioni e prospettive politiche, ma molto spesso vecchie e nuove parole d’ordine, vecchie e
nuove strutture organizzative tendono a sovrapporsi e a intrecciarsi.
Del resto se la ‘rivoluzione culturale’ mazziniana riesce a dare una nuova e più ampia prospettiva
nazionale al movimento liberale è per altro innegabile che la prospettiva dell’Italia libera e indipendente costituisce una sorta di orizzonte di riferimento, più o meno utopico, in grado di assumere di
volta in volta le declinazioni più diverse, dal rigido unitarismo repubblicano di Mazzini e dei suoi
seguaci diretti al blando confederalismo monarchico e cattolico di Gioberti.
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Unanimismo e conflitto
Assistiamo così, nel cosiddetto “lungo Quarantotto” – il triennio che va dall’ascesa al soglio pontificio di Pio IX nel 1846 alla tragica fine delle esperienze rivoluzionarie e repubblicane di Roma e
Venezia nell’estate del ’49 – a uno spettacolo paradossale: nel giro di pochi mesi si passa infatti da
un clima di concordia universale che sembra riunire intorno al neoletto pontefice sovrani, sudditi e
‘patrioti’ dei diversi schieramenti, a una durissima contrapposizione, in cui le divisioni esplodono
con drammatica chiarezza.
Il “lungo Quarantotto” è in effetti caratterizzato da una dimensione pubblica e “di massa” che
segna un vero e proprio salto di scala rispetto alle esperienze dei decenni precedenti.
La legittimazione offerta dal papa patriota e liberale consente infatti alla politica di potersi manifestare più o meno apertamente, innescando un circolo virtuoso tra riforme e manifestazioni pubbliche che l’esplosione rivoluzionaria europea del febbraio-marzo 1848 accentua ulteriormente.
Proprio questa accelerazione porta tuttavia le tensioni latenti all’interno dell’ampio schieramento
patriottico al punto di rottura.
La prima a saltare è la concordia tra sovrani e tra questi e i sudditi nel comune obiettivo della liberazione dell’Italia dal dominio austriaco. A dare la stura alle rivalità dinastiche è, non a caso, la
scelta di Pio IX di abbandonare la guerra. Una scelta che mette drammaticamente in luce una delle
fratture più profonde eppure più ostentatamente ignorate dalla pubblicistica patriottica di quegli
anni, quasi nella speranza di esorcizzarla: quella tra la natura universalista della fede religiosa
cattolica e la dimensione delimitata e nazionale dell’identità italiana. Una tensione resa ancor più
drammatica da un lato dal perdurante potere temporale della Chiesa e dall’altro dalla dimensione
religiosa e sacrale che la nazione assume per molti dei patrioti, e che, non a caso, sancirà l’inevitabile divorzio tra la Chiesa cattolica e il Risorgimento.
L’abbandono da parte dei monarchi italiani, con la sola parziale eccezione piemontese, del campo patriottico porta alla luce un’ulteriore spaccatura tra quanti restano fedeli alle tradizionali forme di legittimità e coloro che invece riconoscono come solo legittimo sovrano la nazione. Una spaccatura che
è spesso ben più intensa di quanto si sia soliti pensare, e basti qui ricordare il caso di Carlo Pisacane e
di suo fratello Filippo, ufficiale dell’esercito napoletano restato fino all’ultimo fedele ai Borbone.
Del resto anche lo stesso schieramento nazional-patriottico è attraversato a sua volta da un conflitto profondo che divide l’ala moderata, favorevole a ordinamenti costituzionali e all’indipendenza,
ma preoccupata soprattutto dal mantenimento dell’ordine sociale e pronta per questo a venire
anche ad accordi con gli antichi sovrani, e i democratici, sostenitori intransigenti della causa nazionale, coniugata, in maniera più o meno radicale, con istanze di riforma sociale.
Una spaccatura che, messa in ombra dal prevalere di una lettura che ha privilegiato la dimensione
della guerra nazionale di liberazione dagli Austriaci, tocca in realtà nel 1849 momenti di altissima
drammaticità, come il bombardamento di Genova da parte dell’esercito sabaudo all’inizio di aprile
o la giornata controrivoluzionaria del 12 di quello stesso mese, quando i moderati toscani abbattono la dittatura democratica di Guerrazzi, spianando la via al rientro del Granduca.
Paradossalmente, malgrado la durezza dello scontro nel 1849, gli anni successivi sono caratterizzati da un progressivo avvicinamento tra moderati e democratici, grazie alla cruciale funzione di
mediazione svolta dal solo stato costituzionale rimasto al termine della ventata rivoluzionaria del
lungo Quarantotto: il Regno di Sardegna.
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I moderati infatti vedono le proprie ambizioni a un riconoscimento del loro ruolo di classe dirigente totalmente negate dalla politica neoassolutista dei sovrani ritornati sul trono, che per altro,
come l’esperienza quarantottesca (e quarantanovesca) ha ampiamente dimostrato, sono del tutto
incapaci di garantire la pace sociale e di impedire i “tumulti democratici”. Obiettivi che, per contro,
trovano ambedue attuazione proprio nel Piemonte sabaudo. Da parte loro i democratici, o almeno
una parte progressivamente sempre più ampia di essi, abbandona l’idea mazziniana di una rivoluzione ‘autosufficiente’ e individua nel Piemonte la “monarchia nazionale” in grado di sostenere la
causa patriottica.
Come è noto il convergere di queste posizioni, insieme alla favorevole congiuntura internazionale,
portano tra il 1859 e il 1860 alla sostanziale realizzazione del processo unitario, con la seconda guerra
d’indipendenza, le rivoluzioni dell’Italia centrale e infine la spedizione dei Mille. Non a caso è proprio
intorno agli eventi di questi due anni che si costruisce la lettura conciliatoria del Risorgimento, plasticamente rappresentata dalla stretta di mano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano.
Tuttavia, la nazione che i patrioti si trovano dinanzi al momento della proclamazione del regno è
assai meno “una” di quanto essi pensassero e volessero. Appena nato, il Regno d’Italia deve immediatamente fronteggiare l’opposizione di una parte significativa della sua popolazione.
Nel Sud, l’impresa garibaldina si è infatti intersecata, così come era avvenuto per le esperienze
rivoluzionarie del 1820-21 e del 1848-49, con la lotta per l’appropriazione delle vaste terre demaniali e per il mantenimento degli usi civici. La protesta contadina, che ha identificato l’adesione
alla causa garibaldina con una soluzione a lei favorevole della “questione della terra”, di fronte al
prevalere delle istanze dei proprietari e dei “galantuomini” sposa la reazione legittimista, dandole
forza e consenso. Le province meridionali sono così il teatro di una sanguinosa guerra civile, in cui
motivazioni politiche e sociali si uniscono nell’alimentare il “grande brigantaggio”, di cui lo stato
italiano riuscirà ad avere ragione solo grazie a una durissima repressione militare e all’applicazione
dello stato d’assedio in gran parte dell’Italia meridionale (legge Pica 1863-1865).
Un’altra frattura che il raggiungimento dell’Unità ben lungi dal sanare acuisce ulteriormente è
quella con la Chiesa cattolica. Minacciate mortalmente nei propri possedimenti temporali le gerarchie ecclesiali si chiudono a riccio, confermando ossessivamente il proprio rifiuto di ogni ipotesi di
compromesso con l’“iniquo aggressore”.
Peraltro il successo del processo risorgimentale riaccende il conflitto all’interno dello stesso schieramento nazional-patriottico. Proprio l’incontro di Teano, osservato con più attenzione, mostra l’emergere di spie eloquenti del persistere delle antiche spaccature e della fragilità dell’accordo raggiunto:
Garibaldi gli [al re] cavalcava alla sinistra; e a venti passi di distanza il quartiere generale garibaldino alla
rinfusa col sardo. Ma – notava con occhi attenti e un po’ maliziosi il garibaldino Alberto Mario – a poco a
poco le due parti si separarono, respinta ciascuna al proprio centro di gravità; in una riga le umili camicie
rosse, nell’altra a parallela superbe assise lucenti d’oro, d’argento, di croci e di gran cordoni.
Se i democratici si sentono infatti legittimati a perseguire gli obiettivi unitari (Roma e Venezia),
senza eccessivi riguardi per la diplomazia internazionale e magari tornando a vagheggiare una
possibile soluzione repubblicana, i moderati da parte loro vedono ormai in garibaldini e mazziniani solo uno scomodo interlocutore, in grado di mettere a rischio tanto l’ordine interno che quello
internazionale. Un’accesa conflittualità che troverà il proprio drammatico culmine nell’episodio
di Aspromonte, quando solo il rifiuto di Garibaldi di “bruttarsi di sangue fraterno” – sensibilità
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evidentemente non condivisa dagli ufficiali sabaudi – impedirà il rischio di una guerra civile.
Il neonato stato unitario eredita così dall’esperienza risorgimentale uno spazio pubblico e un’arena
politica segnati da spaccature profonde e radicate, che finiranno per minarne la stessa legittimità.
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Marco Manfredi
Circuiti comunicativi e politica nel Risorgimento
Per parlare di comunicazione e politica nel Risorgimento non si deve cominciare né dal Risorgimento, né dall’Italia. Come accade per il concetto mobilitante del movimento risorgimentale,
ossia l’idea di nazione, l’origine di un organico rapporto fra comunicazione e politica risiede in
quell’incubatore della modernità politica che è stata l’esperienza della Rivoluzione francese. È
infatti nella Francia rivoluzionaria che pratiche e modalità della comunicazione tendono ad assumere nella politica una rilevanza centrale, con un’attenzione marcata non solo a ciò che si dice ma
anche ai modi e alle forme in cui si presenta e si diffonde il contenuto dei messaggi politici. È un
aspetto che si afferma pienamente con la vicenda rivoluzionaria, ma di cui non di rado si discute
e si riflette già nella letteratura illuministica che la prepara; in tal senso emblematico appare il dibattito sulle grandi potenzialità del teatro, quale impareggiabile veicolo e conduttore di passioni
politiche, che nel secondo Settecento investe e coinvolge ad esempio Diderot e diversi intellettuali
dell’Encyclopédie (Sorba 2001; Sorba 2011). La storiografia sulla Grande rivoluzione ha del resto
dedicato una crescente attenzione agli aspetti rituali ed “emozionali” della politica nell’epoca rivoluzionaria, a partire dallo studio delle nuove e grandi feste pubbliche (Ozouf 1982), per proseguire
con le tante trasformazioni destinate a investire persino le pratiche simboliche e comunicative più
minute e quotidiane, come nel caso del mutamento dei modi di saluto o di vestire (Hunt 2007), fino
alla spiccata attenzione, che meriterebbe tuttavia di essere maggiormente indagata, per la dimensione della spettacolarità, con la costruzione di nuovi paradigmi ottici, visuali e uditivi attraverso
un sapiente e studiato utilizzo di luci, di musiche e di suoni.
Pur non essendo mancata una ritualità politica d’antico regime, attraverso questa rinnovata attenzione per gli aspetti estetici si gettano le basi di una «nuova politica» (Mosse 2009) in cui il rapporto con la comunicazione è destinato a favorire una partecipazione attiva delle masse e ad assumere
dimensioni e forme prima sconosciute.
Se il punto di partenza è rappresentato dalla rottura rivoluzionaria, anche l’Italia comincia a essere
toccata da tali novità con l’esportazione dell’esperienza transalpina, a partire pertanto dalla prima campagna d’Italia e dall’avvio del cosiddetto Triennio repubblicano o giacobino (1796-1799).
Nonostante la sua brevità questo periodo merita di essere attentamente valutato e approfondito
in quanto fondativo di una serie di aspetti che indubbiamente precedono e in parte preparano
l’esperienza risorgimentale, anche sotto il punto di vista dell’importazione di una politica rituale,
esteriore, comunicativa; è soprattutto in quegli anni, prima cioè delle chiusure progressivamente
imposte dalla normalizzazione napoleonica, che si registra una rapida ma assai vivace dilatazione
degli spazi e dei circuiti del dibattito politico: si organizzano rituali politici e feste civiche, si scrivono catechismi popolari, si fondano giornali, sul modello dei circoli e dei club parigini si formano
esperienze associative di intonazione politica che presentano non di rado una pionieristica attenzione ai modi e alle forme di veicolazione dei propri messaggi.
Se ci vorrà poi, come vedremo nel dettaglio, il sommovimento del «lungo Quarantotto» perché
nella penisola italiana si riattivino e s’impongano, radicandosi pienamente, molte di queste espressioni e di questi fenomeni di comunicazione politica, è vero però che nella storia nulla passa invano
e senza lasciare traccia, tanto che il rilievo e la centralità degli aspetti comunicativi per il perseguimento di fini politici rimane come un dato sempre più presente e avvertito in molti di quella genera-
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zione di intellettuali formatisi nella temperie culturale degli anni “francesi”. Già nel 1816, all’indomani del congresso di Vienna, Giovanni Berchet rifletteva fra i primi sull’importanza dei modi da
usare per parlare agli Italiani; la sua Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, considerata uno
dei primi manifesti della nascente cultura romantica italiana, ruotava attorno alla centralità della
relazione comunicativa tra lo scrittore e il suo pubblico. Le riflessioni di Berchet s’intrecciano e si
spiegano a loro volta con un altro fenomeno che coinvolgerà lui e molti letterati della «generazione
del Risorgimento»: nei decenni della Restaurazione va infatti prendendo forma la figura del moderno intellettuale di mestiere e di professione che, non più sostenuto da un nobile mecenate o da
un principe, vive del proprio lavoro intellettuale, ha un pubblico di riferimento e deve scrivere per
un mercato (Berengo 1980). Anche tale trasformazione ha dunque le sue conseguenze sul terreno
della comunicazione, ad esempio nella ricerca di forme comunicative maggiormente popolari, sentimentali ed emozionali e capaci così di parlare a un numero più ampio di persone, forme a cui contribuisce ancora il progressivo affermarsi del movimento culturale romantico destinato a imporsi
in questi stessi anni all’egemonia dell’Illuminismo. Questo insieme di passaggi favorisce peraltro un
nesso crescente e assai più stretto tra temi e linguaggi artistico-letterari e la politica, moltiplicando
i generi e i canali attraverso cui può passare la comunicazione politica, la quale finisce per spaziare
dai romanzi alle poesie, dai drammi teatrali fino alle composizioni musicali o alle pitture.
Un effetto moltiplicatore è infine giocato, con le forme della comunicazione, anche dallo sviluppo
e dall’intensificazione delle forme del consumo culturale; nella prima metà del secolo si deve registrare infatti il peso sempre più rilevante esercitato da un processo di crescente “mediatizzazione”.
L’Ottocento borghese conosce infatti una sorta di “rivoluzione mediatica”: non solo perché prende
forma, come si è accennato, un mercato della cultura in cui il libro diventa una merce, e dunque
non più una cosa confinata a pochi dotti ma un genere di largo smercio, che anche in Italia vede
l’affermarsi di inedite figure di imprenditori e mercanti librari (di cui è sintomatico esempio la figura di Giovan Pietro Vieusseux, fondatore a Firenze, sul modello di analoghe esperienze europee,
dell’omonimo Gabinetto di lettura). Ma con esso, e dietro tale stimolo, prendono forma anche
nuovi media come enciclopedie, dizionari biografici o, grazie alla nuova tecnica litografica, riviste e
storie illustrate frutto dei progressi nel campo della comunicazione e dell’editoria.
Proprio un diverso modo di comunicare, condensando a tal fine tutto questo complesso di trasformazioni, sarà del resto nei primi anni Trenta anche uno dei principali elementi di novità della
proposta mazziniana, nel suo intento di dotare il movimento nazionale italiano di un organico
programma e di tracciare un solco netto con le esperienze del recente passato. Non è una svolta
il progetto mazziniano solo per la chiarezza, la coerenza e la novità dei suoi contenuti, ma anche
per le modalità comunicative prescelte. Non solo Mazzini, prototipo sotto molti aspetti dell’intellettuale romantico ottocentesco, si interessa di tutto, dal giornalismo alla letteratura, dalla musica
al teatro, ma nel suo disegno l’aspetto comunicativo ha fin dall’inizio una grande parte ed è alla
base della rottura con il passato. Le società segrete ad esempio avevano scontato un forte deficit
comunicativo, mentre l’intellettuale genovese pensa a un modello diverso di organizzazione, in cui
l’attività e i modi della propaganda siano centrali e radicalmente ridiscussi, garantendo e sviluppando la diffusione più capillare delle idee patriottiche. Non meno importanti del contenuto del
suo noto programma sono infatti per Mazzini le modalità attraverso cui renderlo efficace: giornali
e opuscoli, associazione politica, ecc., ossia strumenti e veicoli di propaganda in campo aperto.
E tuttavia proprio l’esperienza mazziniana è testimonianza fra le principali delle difficoltà incon-
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trate su tale terreno. E ciò perché, detto tutto questo, il discorso nazionale e il movimento nazionalpatriottico scontano inizialmente un grande svantaggio comunicativo, visto che i testi di intonazione patriottica spesso non potevano circolare liberamente nella penisola, per l’ostilità dei governi
preunitari della Restaurazione e per l’incisività dell’istituto della censura, o per farlo dovevano
essere comunicativamente confezionati con accorgimenti narrativi e retorici (si pensi soltanto, quale emblematico esempio di ricorso ad allusioni patriottiche, al caso assai noto dei Promessi Sposi)
(Banti, Bizzocchi 2002). I governi della Restaurazione, compresi quelli con una positiva reputazione di tolleranza, negano infatti l’esistenza di una pubblica opinione tanto da configurare un
modello di «stato senza pubblico» (Chiavistelli 2006).
E se, nonostante una situazione comunicativa tanto accidentata, gli autori del Risorgimento furono in grado di attirare l’attenzione di un cospicuo numero di lettrici e di lettori, come già anticipato
fu però solamente con la mobilitazione del biennio riformatore e poi con le convulse vicende della
prima guerra d’indipendenza – ma con un particolare vigore dopo le leggi in materia di stampa
del ’47 – che la comunicazione politica, uscendo dalla clandestinità o dall’obbligato ricorso a camuffamenti retorici, poté esprimersi direttamente e allo scoperto attivando veri e propri circuiti
comunicativi. Questo breve ma intenso triennio consente cioè una vera e propria liberazione della parola, liberazione da restrizioni di varia natura che prima la limitavano e di cui è indicatore
l’esplosione di giornali e fogli volanti, o di altre concrete iniziative di partecipazione come manifestazioni di piazza, comizi politici in spazi aperti, formazione di esperienze associative che guardano al precedente del Triennio repubblicano. C’è una sensibile e incredibile accelerazione, e questo
spiega anche perché il «lungo Quarantotto» costituisca uno snodo fondamentale per la diffusione
della pedagogia nazionale e nel processo di propagazione degli ideali patriottici. Uno spartiacque
prima e dopo il quale l’idea di nazione risulta diversamente diffusa e percepita, perché s’impone
come un incubatore di iniziative di propaganda assai notevole rispetto al passato. Anni fondamentali dunque non per l’elaborazione dell’idea di nazione che, come mostrato in tempi recenti dalla
storiografia, si deve soprattutto a una letteratura nazional-patriottica che muove i suoi primi passi
già a inizio secolo per espandersi notevolmente negli anni ’30 (Banti 2000), ma certo molto importanti per una più decisa ed estesa circolazione di quell’idea, per una dilatazione che ha portato a
definire il periodo che va dall’estate del 1846 a quella del ’49, forse non senza un’enfasi eccessiva, il
momento di avvio di un «Risorgimento di massa» (Banti 2011; Banti, Ginsborg 2007). Un’espressione che può andar bene nella misura in cui non la si prenda del tutto alla lettera ma sia utilizzata
per delineare appunto un momento di innegabile allargamento della dimensione partecipativa del
Risorgimento, allargamento a un numero maggiore di persone e a nuovi e inediti attori come ad
esempio frazioni del basso popolo cittadino, donne, esponenti del clero. Se il triennio repubblicano
è per certi versi la fase di una scoperta più o meno timida della politica per una porzione di Italiani, e il periodo della Restaurazione è quello dell’elaborazione e della riflessione concettuale da un
lato e della cospirazione dall’altro, il «lungo Quarantotto» è allora un momento di esplosione in
campo aperto, di rapido e diffuso “apprendistato” alla politica (Agulhon 1979), durante il quale si
apre effettivamente tutto un insieme di inedite possibilità e di esperienze di sperimentazione comunicativa, basate su sedi e strumenti sostanzialmente nuovi, soprattutto per la penisola italiana, di
formazione dell’opinione pubblica.
Come già si è lasciato intendere, un importante ruolo in quest’ultimo processo è giocato dai giornali, la cui fioritura è favorita dalle ricordate leggi sulla stampa del ’47 che nei diversi stati auto-
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rizzarono la pubblicazione di periodici politici; la loro espansione, tanto più se paragonata con la
situazione precedente, risulta davvero enorme, dapprima nei grandi centri e poi a ruota anche nelle
medio-piccole città di provincia. Il loro crescente numero, il fatto che escano quotidianamente e la
possibilità di commentare ed esporre fatti politici consentono adesso alle cronache di un medesimo evento di diffondersi a catena e molto più velocemente, in forme pressoché eguali, e nel giro di
poco tempo, innescando un efficace e inedito circuito comunicativo. Ciò produce un effetto cassa
di risonanza, rispetto a fatti che altrimenti sarebbero rimasti confinati in un ambito meramente
locale, municipale o regionale. Senza i giornali non sarebbero probabilmente possibili fenomeni
quali la rapida popolarità e l’uniforme prodursi da nord a sud di alcune manifestazioni pubbliche,
come accade ad esempio per le feste o i rituali di giubilo per il papa liberale Pio IX, o la trascinante
notorietà di alcuni accadimenti, come il famoso discorso tenuto dal balcone del Palazzo del Governo di Livorno da Giuseppe Montanelli che sancì il lancio della «Costituente italiana» e l’avvio
di fatto della fase democratica del Quarantotto. La diffusione così rapida e capillare dei giornali
rende poi possibili crescenti fenomeni di riconoscimento, come accade di frequente in occasione del
viaggio di propaganda effettuato fra la primavera e l’estate del ’48 da Vincenzo Gioberti nell’Italia
settentrionale e centrale (Fracassini 1939; Massari 1861), contribuendo peraltro ad alimentare un
nascente culto delle celebrità politiche. Quel «fervido pellegrinaggio patriottico» di città in città è
seguito passo passo dai giornali e riceve così una incredibile “copertura mediatica”; i fogli che ora
uscivano giorno per giorno erano assai più in grado di seguire, fomentare e anticipare gli eventi,
tanto che durante i trasferimenti Gioberti stenta a conservare l’anonimato: fin dalle prime tappe
è obbligato a tenere discorsi non programmati, a soste impreviste per scrivere omaggi ed epigrafi,
ad accettare banchetti in suo onore inizialmente non contemplati, a deviazioni che ne allungano
oltremisura il percorso. La gente del resto sapeva, era ormai informata attraverso gli articoli quotidiani del tragitto e dell’itinerario dell’autore del Primato, in atteggiamento di aspettativa o di
speranza ne attendeva il possibile passaggio. Questo clima di attesa, di speranza, di vigilanza attiva
alimentava così i richiamati fenomeni di riconoscimento, a cui contribuivano in alcuni casi pure i
primi effetti di un linguaggio visuale che sembrava cominciare a far sentire anch’esso la sua influenza, grazie alla crescente circolazione di immagini e ritratti favorita dal ricordato incremento della
diffusione di stampa ed editoria illustrate. A sua volta lo stesso viaggio di propaganda di Gioberti,
certamente il più famoso tour di propaganda del ’48, segna in sé un’ulteriore novità nel panorama
delle pratiche della comunicazione politica, che già evoca da vicino esperienze e modalità poi giunte a maturazione nei decenni a venire con la formazione di moderne formazioni politiche.
Ai fini dell’attivazione e dell’intensificazione di circuiti comunicativi, all’utilità dei giornali si affianca nei mesi più caldi del ’48 anche il crescente e rilevante ruolo svolto nel nuovo clima di libertà
dalle accennate esperienze associative, emerse alla luce del sole grazie alla recente svolta costituzionale. In particolare il riferimento va all’esperienza dei circoli politici.
I circoli politici e soprattutto, nella fase democratica, i circoli popolari s’impongono come espressione diffusa di sociabilità politica capace di dar vita a una serie di pratiche politiche collettive e di
mobilitazione nuove. Parliamo di pratiche perché, al di là del contenuto politico della loro attività
che è stato almeno in parte studiato (La Salvia 1999; Rizzi 1988), nella prospettiva di una più
tradizionale storia delle idee, assai meno è stata considerata la loro novità dal punto di vista dello
stile politico, dell’adozione di una serie di tecniche e linguaggi destinati poi a restare nelle modalità
dell’azione politica successiva. Limitandosi qui a qualche esempio si pensi alla pratica, assai fre-
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quente nell’azione dei circoli popolari, e adottata non di rado ancora oggi, di radunarsi fuori dai
palazzi istituzionali per porsi come co-potere (a sostegno di una misura) o come contropotere, ossia strumento di pressione e interprete alternativo della sovranità popolare, testimoniando visivamente l’opposizione e il contrasto del popolo contro un provvedimento inviso, o ancora la volontà
di fare pressione su governi e parlamenti ritenuti eccessivamente incerti o prudenti (Fruci 2008).
Modalità di espressione politica che in precedenza non esistevano e che codificate e sperimentate
allora diventeranno poi in seguito patrimonio comune di movimenti politici o sociali. A essi si devono poi spesso sforzi e tentativi di coinvolgere in varie forme attori e soggetti inediti, non di rado
ancora ai margini della partecipazione pubblica (donne, popolani, sacerdoti, militari di carriera).
I fogli politici, il viaggio di propaganda politica di Gioberti, un fenomeno come quello dei circoli
sono esempi assai efficaci dell’attivazione con il «lungo Quarantotto» italiano di una serie di inediti
circuiti comunicativi di propaganda politica. Si scorgono tracce di un processo di protomediatizzazione politica, con forme della propaganda che interagiscono con l’attenzione ai mezzi della comunicazione politica; c’è una dimensione storica, pur con tutte le cautele del caso, di fenomeni che
invece spesso tendiamo a percepire solo come esclusivi della società dello spettacolo, appaltandone
dunque lo studio solo a discipline “contemporanee” come la sociologia o le scienze della comunicazione (Ridolfi 2004), mentre le complesse interazioni fra politica e comunicazione presentano
già a metà del XIX secolo dei prodromi significativi in manifestazioni ed esperienze come quelle
descritte, per quanto la storia dei rapporti fra aspetti mediatici e politica per il primo Ottocento sia
ancora quasi tutta da fare.
In conclusione un’ultima annotazione. Una parte della storiografia ha cercato di richiamare l’attenzione sulla duratura, sostanziale ed estesa persistenza per tutti gli anni centrali della Restaurazione
di molteplici e trasversali elementi di conservazione e di arretratezza che permeano ancora gli stati
italiani preunitari (Meriggi 2002; Manfredi 2011). In altri termini, prima dell’intensa mobilitazione
in senso nazionale del «lungo Quarantotto» e di quei fenomeni di propaganda in campo aperto,
di liberazione della parola o di occupazione dello spazio pubblico di cui l’irrompere dei giornali,
il tour di Gioberti o il fenomeno dei circoli sono, fra tanti altri, un efficace esempio, le maglie e la
capacità di presa del Risorgimento, della sua egemonia in termini culturali, per usare un lessico
novecentesco, apparivano veramente assai più ridotte, frammentate e limitate, socialmente e geograficamente, soprattutto nella diffusa provincia italiana. Con l’esperienza del Quarantotto, che
rappresenta in tal senso un vero spartiacque della storia italiana, e non solo, tali maglie si allargano
invece notevolmente rispetto a un recente passato, contribuendo a screditare assai di più la legittimazione della Seconda Restaurazione, rispetto alla Prima, a “popolarizzare” maggiormente il
Risorgimento e gli ideali nazionali e a preparare il terreno e le condizioni per i fatidici accadimenti
unitari del 1859-’60. In altri termini, vanno bene Cavour e la sua abilità diplomatica, la forza degli
eserciti, le alleanze e gli accordi internazionali che hanno certo una loro rilevante e determinante
incidenza nel prodursi di quegli eventi, ma ugualmente senza il lascito e questa opera di semina del
«lungo Quarantotto» difficilmente sarebbe germogliata dieci anni più avanti la pianta dell’Unità.
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Alessio Petrizzo
Risorgimento a dimensione-massa
Alla vigilia del centocinquantenario dell’Unità, nell’autunno 2010, il dibattito sul Risorgimento è
stato stimolato, accanto ad altre e già allora numerose iniziative editoriali e cerimoniali, dall’attesa
uscita di Noi credevamo, film di Mario Martone, passato in concorso alla Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica di Venezia e più tardi vincitore del Premio David di Donatello (edizione 2011) come miglior film. La sceneggiatura del film, scritta dal regista insieme a Giancarlo De
Cataldo e ispirata all’omonimo romanzo di Anna Banti (1967), evita meritoriamente di indulgere
nei toni allo stesso tempo epici e autoassolutori che caratterizzano in molte sedi la retorica profusa
in quest’anno giubilare. Ma la dichiarata prospettiva critica e radicale della sceneggiatura, per il
modo in cui sceglie e confeziona gli episodi narrati, rischia piuttosto di confermare convinzioni
altrettanto stereotipate in merito a un Risorgimento privo della minima dimensione corale. Il Risorgimento di Martone è il prodotto dell’attivismo di pochi patrioti (divisi non meno che traditi),
colti ripetutamente in scene di intrigo settario e in conventicole appartate in spazi privati, marginali, clandestini. In due soli momenti sembra risaltare la rappresentazione di un soggetto più ampio
e inclusivo rispetto a queste ristrette avanguardie: la comunità militare e cameratesca delle camicie
rosse in Aspromonte con Garibaldi nel 1862 (un episodio di tentata opposizione allo stato unitario
e di sacrificio alle sue superiori esigenze) e la comunità di civili ritenuti fiancheggiatori dei briganti
che gli ufficiali piemontesi rastrellano e deportano (in un paesaggio di boschi montani e villaggi
dati alle fiamme, che rinvia alle ambientazioni cinematografiche sulle stragi nazifasciste di civili
compiute in Italia durante la Resistenza). In entrambi i casi – sembra legittimo concludere – un
autentico soggetto collettivo si forma a margine delle correnti politiche vincenti del Risorgimento
o in opposizione a esse (se non tout court in opposizione al processo risorgimentale). Non a caso,
il film non mette in scena episodi che la storiografia più recente ha riscoperto e interpretato come
esperienze cruciali di partecipazione anche popolare alla formazione della sfera pubblica e politica
risorgimentale: il «lungo Quarantotto» (ovvero il triennio 1846-1849, che negli stati italiani conosce una periodizzazione diversa rispetto al quadro europeo ed è un’epoca di massiccia – e per più
versi irreversibile – mobilitazione collettiva) o il 1859-1861 o episodi analoghi, anche minori e di
portata regionale o locale, durante i quali, tra gli anni Novanta del XVIII secolo e la presa di Roma
nel 1870, si verifica l’incontro di molte centinaia di migliaia di sudditi degli antichi stati con una
sfera pubblica i cui spazi e le cui logiche sono in corso di lenta e conflittuale definizione.
Se tale incontro conosce forme ed esiti diversificati a seconda dei luoghi, delle circostanze e dei protagonisti – e non ha necessariamente e ovunque una uniforme e indiscussa declinazione nazionalpatriottica – ciò non implica però che l’acculturazione politica degli Italiani durante il Risorgimento
sia un fenomeno limitato a ristrette cerchie di cospiratori coraggiosi e visionari oppure il prodotto,
inevitabile quanto disciplinato, di una trasformazione geopolitica – la nascita di uno stato unitario
sulla penisola – guidata in realtà da gabinetti e diplomazie. Come la storiografia si sforza da un decennio di mettere in luce, ribaltando un giudizio plurisecolare, il Risorgimento non è stato un movimento
che ha riguardato solo ristretti circoli delle élite sociali e politiche degli stati preunitari, ma qualcosa
di profondamente diverso, caratterizzato da una sua specifica e peculiare dimensione-massa.
Non per questo gli storici che indagano le forme di partecipazione di masse tutt’altro che trascurabili alle vicende politiche del Risorgimento intendono replicare i vecchi cliché di una storiogra-
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fia conciliante e consolatoria che affonda le sue radici nell’Italia liberale e in particolare nell’età
crispina, quando le diverse agencies variamente impegnate nel compito di «fare gli Italiani» (dalla
scuola all’esercito, dalla storia accademica al discorso pubblico, dalle feste nazionali alla monumentalistica, dalle riviste illustrate alla letteratura di consumo, per non citare che le sedi più note)
iniziano a edificare il vero e proprio mito di un Risorgimento compiuto grazie al concorso concorde dell’iniziativa di Casa Savoia e di uno spontaneo patriottismo popolare. Contro questo bozzetto
oleografico molto è stato scritto: si pensi soltanto ai nomi di Gaetano Salvemini, Piero Gobetti,
Antonio Gramsci, tra i critici più acuti degli esiti istituzionali del Risorgimento e dei suoi assetti
politico-sociali escludenti, o alle riflessioni del Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799
di Vincenzo Cuoco (uscito in prima edizione nel 1801), vero e proprio archetipo di tutte le future
narrazioni di un Risorgimento in cui le masse popolari – ignorate o incomprese – sarebbero comparse solo per rimanerne stabilmente ai margini.
Nelle pagine che seguono proverò a illustrare rapidamente in che senso si possa parlare, invece, di
Risorgimento a dimensione-massa e lo farò sia ricorrendo ad alcune cifre, utili a contestualizzare
i numeri della partecipazione politica e patriottica in quelle che erano le condizioni demografiche,
culturali e delle comunicazioni nel XIX secolo, sia attraverso alcuni cenni alle espressioni concettuali e alle pratiche di questa «nuova politica» (la definizione risale agli studi pioneristici di George
L. Mosse sul nazionalismo tedesco) a dimensione-massa.
A metà Ottocento i sudditi degli antichi stati sono circa ventiquattro milioni (nel 1861 il Regno
d’Italia, senza il Veneto e Roma, ne conta ventisei). Medie città di provincia come Brescia o Cremona hanno intorno ai trentamila abitanti o poco più, Firenze circa centomila, Roma meno del doppio. In un contesto simile, caratterizzato peraltro da una notevole segmentazione nel sistema dei
trasporti e delle comunicazioni, oltre che da un altissimo tasso di analfabetismo, proprio i numeri
di certe forme di partecipazione appaiono sorprendenti: da una città come Cremona nel 1859 partono circa un migliaio di volontari per la seconda guerra d’indipendenza e sono in massima parte
giovani uomini, ovvero, grosso modo, un’intera classe d’età; nel 1849 sono tremila i protagonisti
dell’insurrezione antiaustriaca e della difesa di Brescia; nell’autunno 1847 sono numerose decine
di migliaia gli uomini e le donne che partecipano alle manifestazioni e alle feste che attraversano
ripetutamente le strade e le piazze delle città e dei più piccoli borghi toscani dietro slogan riformisti
e patriottici e il 23 marzo seguente, a Roma, sono almeno quarantamila gli spettatori stipati nel
Colosseo per prestare un giuramento collettivo di difesa del suolo italiano il giorno stesso della
dichiarazione della prima guerra d’indipendenza. Se in termini assoluti tali numeri impallidiscono
dinanzi a quelli delle società di massa alfabetizzate e altamente mediatizzate del XX secolo, si tratta
però di una comparazione anacronistica: nelle condizioni demografiche, sociali e culturali dell’Italia del XIX secolo la dimensione-massa di queste occasioni di partecipazione politica appare al
contrario assai rilevante.
Ancora, nel 1859, i volontari alla seconda guerra d’indipendenza provenienti dall’Italia centro-settentrionale censiti da Anna Maria Isastia sono non meno di cinquantamila. Alla stessa cifra – cinquantamila – assommano i cosiddetti «mille» di Garibaldi alla fine della sua spedizione. 38.000
sono i volontari garibaldini arruolati per la campagna del 1866. Già tra 1848 e 1849, del resto, sui
vari fronti bellici italiani, sono stati conteggiati intorno ai trecentocinquanta corpi armati volontari, da aggiungere ai regolari, ai riservisti e alle guardie civiche. Se non tutti costoro si arruolano
o combattono solo per ragioni politiche e ideali, le guerre quarantottesche però costituiscono per
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molti un’occasione di rapida e spesso profonda politicizzazione, essendo insistentemente propagandate come crociate per la liberazione dal dominio straniero (in Lombardia e in Veneto) o in difesa
dell’autonomia insulare e delle istituzioni liberali (in Sicilia) o in difesa della repubblica sul piano
locale e, allo stesso tempo, dell’indipendenza sul piano nazionale (è così a Roma e a Venezia).
Sempre tra 1848 e 1849 si tengono le prime consultazioni elettorali a suffragio universale maschile
(nella Repubblica di Venezia, negli stati romani e in Toscana), come pure i «liberi voti» di annessione della Lombardia, delle province venete e degli ex ducati padani al Piemonte sabaudo: episodi
che coinvolgono ovunque centinaia di migliaia di uomini di tutti i ceti e che conoscono anche varie
mobilitazioni di voto extralegale, sia da parte di donne particolarmente reputate per meriti patriottici o di gruppi femminili organizzati, sia da parte di giovani maschi che non posseggono ancora i
requisiti anagrafici previsti dalle varie leggi elettorali, ma rivendicano il loro diritto di voto dopo
aver partecipato attivamente a insurrezioni e difese urbane. Fenomeni simili sono stati rilevati anche durante i plebisciti di annessione tenuti negli antichi stati via via che si compiva il processo di
unificazione, tra 1860 e 1861, nel 1866 e nel 1870. Anche nel caso dei plebisciti – spesso rubricati
sotto lo sbrigativo giudizio di «farsa» politica, piuttosto che analizzati da vicino nella profondità
di taglio di esperienze inedite quanto memorabili – furono letteralmente coinvolte intere comunità,
fino alle più piccole, come testimoniano ancora oggi le lapidi apposte in epoca postunitaria sulle
facciate, negli atri o nelle sale di molti palazzi comunali e come del resto non avrebbe cessato di
ricordare il discorso pubblico degli ultimi decenni del secolo, ripetendo l’immagine di una monarchia autenticamente nazional-popolare perché sanzionata dal concorso di milioni di SÌ all’atto di
nascita dello stato italiano.
Data alla seconda metà degli anni Quaranta anche l’affermazione di un’altra pratica tipica della
«nuova politica» a dimensione-massa, una tecnica di mobilitazione e formazione dell’opinione
pubblica già sperimentata altrove in Europa (in particolare dal movimento cartista in Gran Bretagna): la manifestazione, o «dimostrazione» nel lessico del tempo. A seconda dei casi a centinaia
o a migliaia, i partecipanti, uomini e spesso donne, sfidano le legislazioni preunitarie in materia
di «assembramenti» pubblici e sfilano ordinati attraverso i luoghi più rilevanti dei rispettivi spazi
cittadini, alzando cartelli e bandiere, scandendo slogan, cantando inni, allo scopo di fare pressione
sui governi per ottenere riforme liberali (e poi per festeggiare quelle riforme una volta concesse).
Nel «lungo Quarantotto» manifestazioni del genere, di orientamento liberale, costituzionale, radicale o patriottico, si svolgono in tutte le principali città. E, accanto e contemporaneamente a esse,
si diffonde la pratica di firmare petizioni collettive intorno ai temi del giorno, da inviare poi alle
autorità di governo o ai competenti organi consultivi o legislativi. Per fare un solo esempio, nel
giugno 1848 a Venezia una petizione contraria alla «fusione» con il Regno di Sardegna raccoglie
oltre cinquemila firme: a scorrerle – come del resto a scorrere petizioni analoghe di orientamento
opposto – si incontrano anche molti individui di estrazione popolare, spesso con l’indicazione della
professione a fianco al nome, intere famiglie e non poche donne.
In altre parole, i soggetti che si muovono nella sfera pubblica e le loro pratiche nell’Italia del Risorgimento – dal volontariato ai plebisciti, dalle manifestazioni alle petizioni, per restare agli esempi
che ho sommariamente evocato – grazie a ricerche recenti o tuttora in corso ci appaiono oggi
decisamente più numerosi e diversificati di quanto non si sia comunemente pensato fino ad anni
recenti.
Le forme di questa «nuova politica» a dimensione-massa si sono affacciate nell’Europa in rivolu-
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zione tra gli ultimi anni del XVIII secolo e i primi del XIX, quando, sul piano dei concetti politici, soggetti collettivi quali «popolo» e «nazione» sono stati riconosciuti come i depositari della
sovranità e quindi, sul piano delle pratiche, tutta una serie di dispositivi – simbolici e rituali, non
meno che organizzativi e procedurali: dagli strumenti di organizzazione del consenso ai canali della
rappresentanza, dalle cerimonie della religione civile (cortei, feste, commemorazioni) alla levée en
masse – è stata approntata per dare un corpo visibile, una legittimità e una memoria duratura e
trascendente alle nuove identità collettive proposte all’apprendistato di sudditi divenuti cittadini.
Negli stati italiani restaurati, però, le occasioni di discussione e propaganda intorno a questi temi,
per non parlare delle occasioni di partecipazione in termini analoghi a quelli dell’epoca rivoluzionaria, sono censurate e represse. Alla formazione embrionale di un’opinione pubblica nazionale
possono allora contribuire circoli o gabinetti di lettura, che si affiancano ai tradizionali istituti
della socialità aristocratica quali salotti e accademie, e accolgono esponenti dei ceti che hanno
conosciuto in epoca napoleonica la loro ascesa sociale oltre che la loro formazione intellettuale e
politica. È allora che, nonostante la censura e le difficoltà di circolazione, emerge un embrionale
mercato culturale, grazie a periodici di contenuto scientifico, letterario, di varietà che valicano i
confini degli stati preunitari fornendo occasioni per un dibattito condiviso – anche se mai direttamente politico. Lo stesso accade con i congressi degli scienziati, organizzati a turno in varie città,
a partire da Pisa nel 1839. Un reticolo a parte, ovviamente, è quello settario, clandestino, che negli
stessi anni si rinnova per iniziativa di Giuseppe Mazzini e raggiunge anche strati sociali più bassi,
di piccola borghesia e artigianato urbani.
Rispetto a questi spazi esigui, rigidamente controllati e spesso perseguitati e repressi dalle polizie e dai
tribunali preunitari, nella seconda metà degli anni Quaranta si produce una svolta profonda, che consente finalmente di conquistare a una politica apertamente connotata in senso nazional-patriottico
nuovi spazi pubblici, nuove modalità d’azione, nuovi attori sociali. È allora che la «nuova politica» a
dimensione-massa originata dalla Rivoluzione francese può tornare a occupare le strade e le piazze,
peraltro con grande coraggio e rischio dei suoi promotori (fino alla concessione delle costituzioni del
1848 non esiste alcun diritto riconosciuto di riunione e associazione). È allora che il profilo sociale
dei protagonisti delle nuove forme di mobilitazione patriottica inizia a includere settori crescenti di
popolo minuto urbano, i cui appartenenti compaiono tra i partecipanti e gli organizzatori di banchetti patriottici o manifestazioni e feste pubbliche, figurano nelle liste dei caduti nelle difese urbane
o negli elenchi degli aderenti ai circoli popolari – anche se per molti aspetti restano ignoti i confini
e i meccanismi della politicizzazione di «operai» e «artigiani» (o «artieri» o «artisti») e ancora non
sono chiariti il profilo complessivo del fenomeno, i suoi canali di mediazione, le istanze specifiche del
popolo minuto e gli effetti della sua presenza e iniziativa – anche autonoma – sulle élite. Un discorso analogo (ma in un contesto di maggior interesse da parte della storiografia) vale per la presenza
femminile: formalmente escluse dalla sfera politica, le donne trovano spesso nei canali offerti dalla
«nuova politica» occasioni di partecipazione diretta, presa di parola, rivendicazione.
Da allora in avanti, però, ci si muove in un contesto mediatico in rapida trasformazione, in cui (in Italia a partire dalle riforme sulla stampa del 1847-1848) la dimensione-massa è raggiunta non solo dai
numeri dei partecipanti attivi agli eventi in sé, ma è ribadita e rafforzata dall’effetto di amplificazione
e moltiplicazione che viene dalla stampa e dalle numerose e crescenti tribune dove è ormai possibile
raccontare pubblicamente quegli eventi, continuare a ripeterli anche dopo che sono accaduti, renderli memorabili, rappresentarli secondo modalità che ne orientino la ricezione anche presso quel
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pubblico che non vi ha preso parte ma che finisce così per esserne coinvolto. Tra 1848 e 1849 nella
sola Palermo sono stati censiti centoquaranta giornali; da allora, e per tutto il decennio seguente, nel
Regno di Sardegna costituzionale il giornalismo riesce a fidelizzare e a espandere il pubblico dei suoi
lettori (negli anni Cinquanta la «Gazzetta del popolo» supera le diecimila copie). Dappertutto sono
documentati moltissimi testi e fogli volanti specificamente pensati per un pubblico popolare, spesso
analfabeta, testi dall’andamento piano, dialogico, simile ai catechismi, che molti mediatori si incaricano di leggere o recitare agli angoli di strada, nei mercati, nei luoghi della sociabilità più popolare
come le taverne. Altri media contribuiscono a questo processo di crescente allargamento del pubblico
coinvolto da notizie ed eventi politici. La comunicazione per immagini, per esempio, costituisce una
delle principali innovazioni nel mercato editoriale e in quello dell’intrattenimento ottocenteschi: grazie all’evoluzione delle tecnologie di produzione e riproduzione dell’immagine, illustrazioni satiriche,
allegoriche o cronachistiche dei fatti del giorno sono vendute sciolte o compaiono sui giornali e nei
libri illustrati e anche gli spettacoli visuali più popolari (dai giochi ottici ambulanti ai panorama)
mettono spesso l’attualità politica o il racconto di imprese politiche o militari al centro del loro interesse. Lo stesso accade con il teatro, inteso sia come insieme di testi composti o reinterpretati in base
alle urgenze dell’attualità (è nota la ricezione in senso patriottico dei libretti verdiani), sia come luogo
fisico e sociale, che nei momenti di maggior attivismo delle società civili preunitarie si trasforma in
un’autentica vetrina dei sentimenti dell’opinione pubblica patriottica.
La costruzione dell’evento è un tratto fondante della nuova dimensione-massa della politica e conosce numerosi strumenti e canali – giornali, opuscoli e fogli volanti, romanzi, teatro, canzoni, illustrazioni – che intorno alla metà del XIX secolo iniziano a funzionare come un vero e proprio sistema di comunicazione multimediale, i cui contenuti sono progressivamente orientati all’attualità
e alla politica e i cui codici espressivi – e perfino i pubblici – si intrecciano e si rafforzano a vicenda.
Perché la dimensione-massa della politica risorgimentale si può intercettare anche in quanto lettori
di giornali e romanzi; in quanto spettatori di melodrammi; in quanto visitatori di esposizioni di pittura in cui fa irruzione la storia in funzione allegorica o, più tardi, negli anni Cinquanta, il presente
delle battaglie risorgimentali; e perfino in quanto collezionisti di cartes-de-visite (ritratti fotografici
di piccolo formato, circa 6x10 cm) dei protagonisti dello scenario politico o in quanto acquirenti
di una vasta oggettistica destinata all’uso domestico e decorata con episodi o personaggi pubblici
celebri. Alcuni di questi aspetti della storia del Risorgimento sono appena entrati, in questi termini, nell’agenda storiografica e costituiscono uno dei cantieri di ricerca più promettenti per indagare
le modalità del radicamento della politica e delle appartenenze collettive sul piano delle pratiche
quotidiane e perfino dei consumi privati.
Dalla «nuova politica» rivoluzionaria che pone i soggetti collettivi «nazione» e «popolo» al centro
dello spazio concettuale del politico e che, di conseguenza, reclama e ottiene che le loro incarnazioni simboliche – cittadini in armi, liturgie civili, monumenti ecc. – occupino visibilmente il centro
degli spazi sociali urbani, siamo arrivati a intravedere lontane ricadute e rinnovate occasioni di
politicizzazione nel mercato dei consumi culturali e perfino in gesti apparentemente minuti, isolati
o privati (certe letture, certe forme di collezionismo). Ma si tratta solo in apparenza di uno scarto,
oppure di un paradosso. La dimensione-massa della «nuova politica» guarda espressamente a questo spazio intimo della vita dei cittadini. Lungi dal postulare una rigida dicotomia tra due sfere separate – una sfera dell’impegno politico e militare e una sfera riservata agli affetti e alla domesticità
– il discorso nazional-patriottico elaborato dalla fine del XVIII secolo in poi prevede al contrario
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una stretta interdipendenza tra pubblico e privato. La nazione si realizza anche, e forse soprattutto,
attraverso il disciplinamento dei costumi privati, familiari, di genere dei suoi componenti e quindi
per tutto il secolo, prima e dopo l’Unità, il quotidiano degli Italiani è una sorta di terra di conquista ai valori pubblici, uno spazio nel quale far scoprire o radicare i valori fondanti della nuova
comunità politica e patriottica. Ma allo stesso tempo le pratiche, i codici espressivi dell’affettività,
i profondi valori simbolici associati alle relazioni più intime invadono lo spazio pubblico affinché
i contenuti della politica non appaiano estranei, ma al contrario “risuonino” presso le audiences a
cui mirano. Complice la gestazione in epoca romantica dei linguaggi che guidano l’apprendistato
politico e patriottico per tutto il XIX secolo, lacrime, baci e abbracci sono elementi assai ricorrenti
nel repertorio dell’azione collettiva che caratterizza la «nuova politica»: durante manifestazioni,
feste, commemorazioni, marce di volontari, plebisciti (e nelle loro innumerevoli rappresentazioni
mediatiche), immancabilmente questi elementi tornano con sorprendente insistenza, come se fossero una delle rappresentazioni in assoluto più efficaci del legame orizzontale e reciproco, intimo e
irrevocabile, che deve unire fra loro i concittadini, i «fratelli (e le sorelle) d’Italia».
Con ciò occorre ricordare che i confini della cittadinanza attiva rimangono strettissimi ancora per
lunghi decenni di vita postunitaria – nel 1861 meno del 2% della popolazione del neonato Regno
d’Italia gode di pieni diritti politici e tale percentuale sale intorno al 7% per effetto della riforma
elettorale del 1882: un quadro decisamente lontano da qualsiasi pur riduttiva dimensione-massa.
Ma sarebbe erroneo liquidare i linguaggi della «nuova politica» e i canali e le pratiche della loro
diffusione come forme di compensazione illusoria e come dispositivi funzionali al mantenimento
dell’esclusione formale – per esempio delle donne e dei ceti popolari – dall’esercizio attivo della
cittadinanza. Si tratta al contrario di correnti attive di politicizzazione, rispetto alle quali la storiografia, piuttosto che ripetere conclusioni ormai di senso comune, dovrebbe iniziare a indagare
appieno estensione, radicamenti ed effetti.
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Gian Luca Fruci
Il lungo momento plebiscitario (1797-1870)
1. La tesi storiografica che considera il Risorgimento come una questione riguardante limitate
e ristrette élites, se non l’opera geniale di un solo uomo (il conte di Cavour), trova ancora oggi
i suoi sostenitori, sia che essi valorizzino tale impegno illuminato di pochi sia che essi lo stigmatizzino attingendo alla costellazione interpretativa della «nazione mancata» di gobettiana
e gramsciana memoria. Sull’assunto del deficit di adesione e di partecipazione popolare al Risorgimento si fonda altresì il potente revival che negli ultimi quindici/venti anni ha conosciuto
il discorso apertamente antirisorgimentale nei circuiti mediatici sovente sotto forma di presunti scoop pseudo-storiografici. Abitando per lo più un universo parallelo e non comunicante con
la ricerca scientifica, questi canali comunicativi ignorano (o preferiscono ignorare) l’intenso
confronto in atto attualmente fra storiografia classica e storiografia critica sul Risorgimento, a
vantaggio della riesumazione di memorie inevitabilmente divise e travestite da storia «sempre
nuova». Di contro, e non a caso, il diffuso neo-discorso antirisorgimentale – slegato da qualsiasi scoperta di fonti o seria sedimentazione di studi – si sviluppa attraverso codici e linguaggi
«sempre uguali», plasmati sull’immaginario dei legittimisti e dei clericali sconfitti, che – ieri
come oggi – articolano la loro narrazione sulla teoria (risalente) del complotto ai danni della
Chiesa cattolica nonché sul conseguente attentato che sarebbe stato commesso dal movimento
nazional-patriottico contro l’identità religiosa e le tradizioni inveterate delle popolazioni degli
antichi stati italiani.
E tutto ciò avviene, paradossalmente, mentre la nuova e più recente storiografia risorgimentistica è concorde nel sostenere che il Risorgimento è stato un movimento di «massa». A fronte
di molte differenze interpretative, infatti, convergono su questa definizione, che misura la dimensione di «massa» sul contesto dell’epoca, sia la nuova risorgimentistica critica che si riflette ampiamente nell’Annali 22. Il Risorgimento della Storia d’Italia, Einaudi, curato nel 2007
da Alberto Mario Banti e da Paul Ginsborg, sia la nuova risorgimentistica classica che si trova
sintetizzata nel volume Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, curato da Eva Cecchinato e Mario Isnenghi per UTET nel 2008. Di recente, anche Emilio Gentile si è detto d’accordo
con questa tesi e con quest’approccio interpretativo in un agile libro-intervista curato da Simonetta Fiori e dedicato al processo di unificazione nazionale. Precisamente, parlando di una
«dinamica di massa» questa nuova storiografia intende sostenere che al Risorgimento, inteso
come un movimento politico che ha avuto come fine la costituzione nella penisola italiana di
uno stato nazionale, hanno preso parte attivamente molte decine di migliaia di persone; che
altre centinaia di migliaia, spesso vicine a coloro che hanno militato in senso stretto, al Risorgimento hanno guardato con partecipazione, con simpatia sincera o con cauta trepidazione.
Nel contesto di una società largamente analfabeta, che appena comincia a comunicare con i
giornali e con il telegrafo, che – salvo rare eccezioni sparpagliate per la penisola – ancora non
viaggia in treno, ma a piedi o in carrozza su strade sterrate, e che per mare si muove con navi
a vela e solo tardivamente con approssimativi piroscafi a vapore, il numero degli affiliati alle
sette carbonare, dei rivoltosi del ’20-21, degli iscritti alla Giovane Italia, di coloro che scendono in piazza o partono volontari o guerreggiano nell’esercito regolare del Regno di Sardegna
o organizzano ospedali o servizi di collegamento nel 1848-49, che tessono trame insurrezionali
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nei primi anni Cinquanta, che si arruolano volontari nel 1859, nel 1860 e nel 1866, che vanno
votare ai plebisciti, che si affollano ai funerali di Mazzini, di Vittorio Emanuele, di Garibaldi
e di altri ancora, è assolutamente imponente.
2. L’apoteosi del «Risorgimento di massa» è rappresentata dai plebisciti che dal 1848 al 1870
coinvolgono complessivamente in forme ufficiali ed extra-legali più di quattro milioni di persone di ogni classe, genere, età, appartenenza politica, dislocazione territoriale fra città e campagna. Il momento plebiscitario risorgimentale rappresenta la più massiccia mobilitazione
popolare dell’intero processo unitario e rivela in modo formidabile il surplus di antipluralismo
che, in nome della celebrazione di una sorta di «religione elettorale della nazione», connota
profondamente la costruzione dello spazio politico risorgimentale.
Il momento plebiscitario risorgimentale consiste in una serie di consultazioni a suffragio universale maschile per sì o per no. Nel 1848 si tengono in Lombardia, nelle province venete di
terraferma, negli ex-ducati di Modena e Parma in vista della costruzione (mancata) del Regno
dell’Alta Italia. Dal 1860 al 1870 si svolgono per sancire la progressiva formazione del Regno
costituzionale d’Italia sotto la dinastia di casa Savoia (precisamente fra primavera e autunno
del 1860 in Toscana ed Emilia, nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia, nelle Marche e in
Umbria; nel 1866 nell’area veneto-mantovana e in alcune province friulane; infine, nel 1870 nel
Lazio e a Roma). A Parma e nel suo contado quelli che il discorso del tempo chiama «liberi
voti» hanno luogo addirittura tre volte, nella primavera 1848 e nell’estate 1859 tramite sottoscrizioni su pubblici registri, nel marzo 1860 attraverso scheda stampata. E significativamente,
la parola «plebiscito» – già utilizzata dal 1851 in Francia nei testi ufficiali – fa la sua comparsa nella legislazione elettorale italiana proprio per opera di Giuseppe Manfredi, governatore
provvisorio di Parma, che la utilizza nel decreto dell’8 agosto 1859 per indicare la formula di
aggregazione al Regno di Sardegna.
I plebisciti (a eccezione di quello modenese del 1848) conoscono un indiscutibile successo di
partecipazione popolare. Un sentimento di gioia – ora indotta, ora spontanea, ora l’una e
l’altra – accompagna le operazioni di voto, che si svolgono in un contesto teatrale di festa,
coinvolgendo non solo gli elettori (ovvero tutti i maschi adulti che abbiano compiuto 21 anni),
ma l’intera società, e in particolare in forme ufficiose ed extra-legali i soggetti esclusi normativamente (o per motivi pratici) dalla cittadinanza elettorale plebiscitaria come le donne,
i minori, i vecchi, i malati, gli esuli e, più in generale, quelli che oggi chiameremmo «Italiani
all’estero», nel senso di toscani, emiliani, napoletani, marchigiani, umbri, siciliani, venetomantovani, romani, residenti lontano dalla penisola o al di fuori delle loro regioni e province
di provenienza al momento delle consultazioni elettorali di unificazione e a cui è consentito di
votare per corrispondenza.
Per gli attori del tempo, queste consultazioni assumono il significato – denso di conseguenze
politiche – di sanzione e apoteosi del processo risorgimentale, ovvero di rivelazione elettorale
di una comunità nazionale che si ritiene esista ab aeterno e che necessita quindi soltanto di
auto-riconoscersi. In breve, le pratiche plebiscitarie del 1848-1870 si configurano come una
sorta di sacramento dell’unità nazionale e come un festival della nazionalità – tradotto dal
linguaggio coevo da espressioni non a caso ambigue quali «suffragio nazionale» e «voto della
nazione». Per il nuovo potere politico e per i monarchico-costituzionali di Destra e di Sinistra,
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i plebisciti rappresentano altresì la consacrazione popolare del capo della comunità nazionale
attraverso l’acclamazione universale e democratica del sovrano, la cui figura ricopre un ruolo
centrale in tutta la messa in scena plebiscitaria e il cui nome appare espressamente, accanto
alla menzione dell’Italia e dello Statuto, nelle formule sottoposte all’approvazione popolare. Centralità che il discorso pubblico traduce in modo formidabile attraverso un’espressione
come «re eletto» (ovvero al contempo votato dal popolo e scelto dalla divina provvidenza),
attribuita nel 1860 a Vittorio Emanuele II e significativamente vergata insieme alla sua effigie
sulle monete d’argento da cinquanta centesimi, da una e due lire eseguite dalla zecca di Firenze
all’indomani del plebiscito toscano dell’11 e 12 marzo 1860.
Nel momento breve del plebiscito, attraverso lo slittamento dal «suffragio universale» a quello
che il linguaggio del tempo chiama «contento universale», si assiste a una sorta di sospensione
del tempo e alla configurazione di una «comunità egualitaria immaginata», in cui l’imperativo
della fraternità e della concordia domina contro ogni divisione di partito, di classe, di genere
e di età. In questo quadro concettuale ed emozionale, si (di)spiegano anche gli atti di «cittadinanza paradossale» di numerose donne-patriote e di molti militanti repubblicani, i quali non
solo votano, ma partecipano attivamente alla riuscita dei plebisciti valorizzando il loro profilo
di rito nazional-patriottico a discapito di quello di celebrazione monarchica. Se il profilo di
rito celebrativo della nazione che caratterizza i plebisciti (con il corollario di una limitata attenzione per i profili formali del voto) costituisce la condizione preliminare alla legittimazione
della presa di parola femminile, esso contribuisce altresì a fare avvertire alle donne un senso
di ingiustizia per l’esclusione normativa dall’evento unanimemente pensato e vissuto come il
coronamento e l’apoteosi del processo risorgimentale. Da qui il paradosso, per le patriote, di
agire e di percepirsi nonché di essere effettivamente percepite come «cittadine senza cittadinanza», costantemente in bilico fra «mondo alla rovescia» e aspirazioni emancipazioniste. La
lunga serie e il repertorio variegato di interventi, centrati sul linguaggio classico della «madre
patriota» e della «madre cittadina», che le militanti politiche mettono in campo per esprimere
la loro aperta adesione al processo di unificazione e alla figura (paterna) del monarca, si configurano così non solo come manifestazioni collettive di appartenenza nazionale, ma anche
come autentici atti simbolici e corali di rivendicazione dei diritti politici, e rappresentano il
principale laboratorio di sperimentazione di discorsi e pratiche velatamente o apertamente
suffragisti del Risorgimento da parte di migliaia di donne di ogni classe sociale e appartenenza
regionale.
I caratteri e le dinamiche della mobilitazione femminile, propriamente elettorale e non, sono
molteplici e a essa, in particolare a partire dal 1860, si affianca l’analoga e parallela mobilitazione, insieme collaborante e concorrenziale, da parte dei giovani minorenni. La principale
forma di intervento delle donne consiste in una partecipazione collettiva che ricalca e mima
le pratiche elettorali degli uomini. Nel 1848, quando il voto avviene per sottoscrizione su
pubblici registri aperti per settimane nelle parrocchie e nei comuni, 6500 patriote lombarde
sottoscrivono autonomamente la «solenne formola» di fusione proposta dal Governo Provvisorio Lombardo e la inviano simbolicamente alle donne del Regno di Sardegna. Nel decennio
1860-1870, quando il voto avviene per scheda scritta a mano o prestampata, le donne costituiscono seggi separati di genere, fanno irruzione nelle assemblee elettorali ufficiali con indirizzi
e appelli, chiedendo di votare o almeno di vedere messa a verbale la loro volontà unitaria.
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Le sottoscrizioni separate e i seggi separati fotografano un duplice sentimento femminile: da
un lato, l’adesione aperta e pubblica al processo unitario come succedaneo del voto ufficiale;
dall’altro, l’ingiustizia dell’esclusione dal voto anche alla luce della dimostrazione pratica che
le donne sono in grado di votare correttamente senza creare problemi e turbative, in breve che
possono essere pienamente cittadine. Infatti, anche quando non votano, le donne stazionano
(non di rado con i figlioletti) nelle assemblee elettorali o accompagnano, come a Roma nel
quartiere di Trastevere nel 1870, i loro mariti al voto, in deroga a una norma di ordine morale e
di buon costume che ritiene scandalosa e perturbante la presenza al seggio delle donne (Figg. 1
e 2, pag. 49).
La seconda forma di intervento ha per protagoniste singole donne che, come le combattenti del
triennio rivoluzionario e del 1848, votano anche in più seggi travestite da uomo (come la pisana
Dafne Munari in Emilia nel 1860) oppure sono ammesse eccezionalmente a votare per meriti patriottici. I casi più noti coinvolgono nell’autunno del 1860 due personaggi femminili molto diversi
fra loro. Da un lato, la popolana trentenne Marianna De Crescenzo, detta la Sangiovannara, taverniera di Monte Calvario a Napoli, protagonista dal 1848 della mobilitazione e poi della cospirazione nazional-patriottica, cugina di Salvatore De Crescenzo, il capo della «camorra liberale» alle
cui squadre il ministro dell’Interno prima borbonico-liberale poi filo-garibaldino Liborio Romano
affida l’ordine pubblico nell’estate del 1860. Dall’altro lato, la poetessa diciottenne di Recanati,
Maria Alinda Bonacci, figlia di un illustre letterato-patriota, borghese, cattolica e liberale, autrice di epigrafi e carmi per il passaggio del re Vittorio Emanuele II nelle Marche nonché del testo
dell’indirizzo plebiscitario di 275 donne della sua città.
La Sangiovannara è un’eroina popolare. Regina consultata e riverita del suo quartiere, che domina
dalla sua osteria addobbata di tricolori, guida i cortei che festeggiano l’arrivo di Garibaldi a Napoli
e lo accompagna nella visita alla Madonna di Piedigrotta. Oggetto per un momento dell’attenzione
mediatica internazionale, le riviste illustrate del tempo (l’inglese «Illustrated London News», la francese «Illustration», lo statunitense «Harper’s Weekly») le dedicano ritratti, schizzi, interviste e articoli
che ne fissano l’immagine di «donna guerriera» e di prediletta del dittatore delle Due Sicilie, dai tratti
forti, con i capelli neri e sciolti, la corporatura robusta, lo scialle sgargiante a fiori, il grembiule con
cucita l’icona di Garibaldi, due pistole e il pugnale appesi alla cintura (Figg. 3 e 4, pag. 50).
Patriota temuta, a capo di una squadra personale di armati di entrambi i sessi, Marianna evoca
nell’immaginario maschile una modalità virilizzante di accesso al voto. Secondo una leggenda metropolitana, raccolta dal giornalista franco-ginevrino Marc Monnier, il diritto elettorale le sarebbe
stato concesso per decreto «poiché si era battuta come un soldato» sotto Capua al fianco dei garibaldini. In realtà, insieme ad altre patriote come Antonietta De Pace, ottiene un riconoscimento
dal governo dittatoriale all’indomani del plebiscito, ma nella forma di una pensione mensile per essere stata «in tempi di tenebrosa tirannide» un «esempio inimitabile di coraggio civile e di costanza
nel propugnare la causa della libertà». La mattina del 21 ottobre 1860 invece, Marianna, al fianco
del cugino Salvatore, guida un corteo festante e tricolore che conduce gli esuli Silvio Spaventa e
Filippo Cappelli verso il padiglione elettorale predisposto all’aperto nel rione popolare di Monte
Calvario. Arrivata la comitiva al seggio, secondo il resoconti del «Nazionale» di Ruggero Bonghi
confermato dai periodici stranieri: «Il Presidente della Commissione accordava alla Sangiovannara
come a speciale privilegio, il diritto di votare ed ella con immenso entusiasmo deponeva il suo sì
nell’urna in mezzo allo Spaventa e al Cappelli, mentre il popolo prorompeva in plausi e le bande
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musicali facevano echeggiare la piazza de’ loro suoni». Pochi giorni dopo, il 4 novembre 1860, Alinda, incaricata di portare all’ufficio elettorale l’indirizzo delle donne di Recanati, vota insieme ai 239
coetanei analfabeti. Simbolo più rassicurante di donna che accede all’urna per i meriti conquistati
sul campo della poesia patriottica, cantando le battaglie per l’indipendenza e il suo re condottiero
senza prendervi parte in prima persona, la sua figura di votante non assurge immediatamente alla
cronaca nazionale. Tuttavia, il ricordo del suo gesto si è tramandato attraverso la memorialistica e
la storiografia locale nonché grazie a una quartina del carme In morte del primo Re d’Italia scritto
nel 1878 per la scomparsa di Vittorio Emanuele II, in cui l’atto eccezionale è evocato con orgoglio
dalla sua protagonista:
Fanciulla oscura e timida,
con la scritta del sì sacra parola,
sporsi all’urna la trepida
man, fra le ausonie giovinette io sola!
3. Da un lato, i «liberi voti» risorgimentali presentano i tratti classici dell’istituto plebiscitario, fondato sulla ratifica ex-post, non deliberativa, «monosillabica» e binaria (sì/no) e, di fatto, senza facoltà di
scelta, in cui l’esito positivo non si misura alla luce del risultato (acquisito) del voto, ma rispetto alla
partecipazione (e quindi alla capacità di mobilitazione elettorale), al grado più o meno unanimistico
del consenso espresso, e infine, in base alle strategie (istituzionali e non) di comunicazione delle cifre
numeriche o percentuali del successo conseguito. Dall’altro, essi si discostano dal «canone plebiscitario» perché a caratterizzarli non sono tanto le pressioni sugli elettori o le manipolazioni del suffragio,
quanto un processo politico partecipato e improntato al principio olistico «una nazione, un voto»,
in cui la celebrazione dell’identità nazionale rivelata e del suo «re patriota» si sostituisce apertamente
all’espressione della democrazia, secondo rituali e scenografie in parte mutuate dalle (dimenticate)
pratiche plebiscitarie del periodo rivoluzionario e napoleonico.
Le consultazioni di approvazione «per sì o per no» fondate sul suffragio universale (maschile) che
definiamo a posteriori «plebiscitarie» hanno, infatti, nella penisola una storia lunga e strutturano
profondamente la socializzazione degli Italiani alle procedure elettorali democratiche fin dalle origini
del Risorgimento. Fra la primavera del 1797 e l’autunno del 1798 centinaia di migliaia di cittadini
(e ufficiosamente diverse centinaia di cittadine e di minori) partecipano ai comizi elettorali o, in alternativa, alle feste federative (sostitutive) che si celebrano, per l’accettazione di costituzioni-sorelle
modellate su quella termidoriana, nelle repubbliche militari create (come la Cispadana e la Cisalpina) o rigenerate (come la Ligure e – in omaggio al gusto antiquario del tempo – la Romana) dalle
armate francesi. Queste prove di «voto universale» – secondo una locuzione applicata per la prima
volta in quel tornante al campo semantico elettorale – rappresentano un formidabile laboratorio di
sperimentazione per le pratiche plebiscitarie moderne, in parallelo con la Francia direttoriale e in
anticipo su quella consolare e imperiale. In breve, esse s’ispirano ai libres votes sulle costituzioni del
1793 e del 1795, ma annunciano la consultazione costituzionale del 1799 che sancisce il colpo di stato
del 18 brumaio, preparando gli appels au peuple napoleonici, che conoscono nella penisola non solo
un’estensione all’Isola d’Elba e ai dipartimenti piemontesi annessi alla Francia nel corso del 1804,
ma anche e soprattutto, a distanza di un anno, una precipua declinazione italiana, durante la quale
ricorre in senso non antiquario il termine «plebiscito» per indicare il testo della formula presentata
all’accettazione popolare. Nel 1805 i cittadini delle antiche repubbliche, rigenerate e poi brumairisées,
47
di Genova e Lucca sono chiamati prima a manifestare tramite sottoscrizioni su pubblici registri (oppure attraverso il sistema del «silenzio assenso») la loro approvazione rispettivamente alla riunione
all’Impero francese e alla trasformazione in principato a esso vassallo, poi a tributare rituali di accoglienza e di ringraziamento di «antico regime democratico» al re-imperatore Napoleone I.
Antecedenti diretti del momento plebiscitario risorgimentale, i liberi voti del 1797-1798 e gli appelli
al popolo del 1805 condividono con esso la matrice e alcuni lineamenti peculiari. In primo luogo,
ispirandosi direttamente o indirettamente al modello termidoriano, tanto le pratiche plebiscitarie
rivoluzionarie quanto quelle del 1848-1870 fanno ricorso alla sovranità democratica, costruendo
in via eccezionale corpi elettorali universalistici e inclusivi, allo scopo di consacrare architetture
istituzionali che concepiscono, invece, la cittadinanza politica come una funzione anziché come un
diritto, riservandola in ultima istanza a coloro che possono esercitarla saggiamente perché in condizioni di indipendenza personale (economica e culturale). Nelle repubbliche del triennio rivoluzionario 1796-1799, infatti, il voto non è diretto, ma a due o tre gradi, e agli elettori di secondo o terzo
grado è richiesto di essere proprietari, usufruttuari di o affittuari di beni, mentre al momento della
proclamazione del Regno d’Italia il sistema elettorale fondato su un duplice binario, capacitario e
censitario, di accesso al suffragio riconosce la cittadinanza politica attiva esclusivamente al 7% dei
maschi adulti alfabeti che abbiano compiuto 25 anni. In secondo luogo, sia le consultazioni popolari del 1797-1798 che quelle del 1848-1870 compendiano tre profili differenti. Legittimano al contempo un potere personale, una realtà statual-territoriale e una legge fondamentale, configurandosi
come istituti insieme di diritto pubblico e di diritto internazionale. In particolare, come i plebisciti
risorgimentali convalidano un nuovo regno e un nuovo sovrano insieme allo Statuto albertino, così
le procedure di sanzione costituzionale rivoluzionarie sono concepite sia come sacramenti di inedite
o rigenerate compagini statali, sia come gesti di approvazione democratica della figura e dell’operato politico dei «generali costituenti» francesi, riconosciuti come gli autentici padri e domini delle
nuove repubbliche militari, il cui personale politico esecutivo è da essi stessi nominato. Infine, gli
appelli al popolo del 1805 trasmettono in eredità al momento plebiscitario risorgimentale sia il loro
profilo di atti di dedizione collettiva al monarca, sia le cerimonie successive alle operazioni di voto.
Queste ultime si articolano in due momenti simbolicamente fondamentali, entrambi dominati dalla presenza anche fisica del sovrano: l’accettazione solenne dei voti (nella ambigua accezione che il
termine conserva all’epoca) e l’ingresso trionfale in prima (o per interposta) persona nelle capitali
dei nuovi territori acquisiti secondo i rituali della presa di possesso d’antico regime. Nel 1805 come
nel 1848-1870 questi rituali parlano i linguaggi del potere monarchico tipici del discorso politico
consolare-bonapartista e napoleonico-imperiale, che attinge a fonti di legittimazione riconducibili
tanto all’Antico Regime quanto al nuovo ordine post-rivoluzionario.
La figura di «Bonaparte l’Italico» ricopre un ruolo principale in tutte le procedure plebiscitarie che
si svolgono nella penisola dal 1797 al 1805. Sebbene non compaia espressamente nei dispositivi sottoposti al suffragio popolare, il suo nome monopolizza il palcoscenico elettorale e recita una parte
fondamentale nel discorso favorevole alle ratifiche costituzionali del 1797 nella Repubblica cispadana e nella Repubblica ligure, in cui il voto è presentato come un atto di omaggio al nuovo Licurgo
transalpino. Inoltre, come attesta anche l’iconografia, dall’alto di un seggio proto-regale appositamente installato per lui, il primo generale in capo dell’armata d’Italia è protagonista assoluto della
grandiosa cerimonia federativa cisalpina che si tiene il 9 luglio 1797 a Milano per il giuramento e
l’acclamazione collettivi della costituzione (Fig. 5, pag. 50), mentre insieme al generale Alexandre
48
Fig. 1. – Carlo Bossoli, Voto per l’annessione nella Sala dell’Università di Napoli, litografia acquerellata, Perrin, TorinoParigi,1860-1862.
Fig. 2. – Venezia, gli abitanti del quartiere San Marco, prima sezione, si recano all’Ateneo per votare il Plebiscito (21 ottobre), Litografia, 1866.
49
Fig. 3. – Marianna la Sangiovannara, in «L’Illustration. Journal
Universel», 20 ottobre 1860.
Fig. 4. – Marianna De Crescenzo detta la Sangiovannara, fotografia al
collodio, 1860-1870.
Fig. 5. – Festa della Federazione della Repubblica Cisalpina 9 Luglio 1797, incisione di Giuseppe Benaglia da tempera su
tela di Andrea Appiani (1801-1803)
50
Berthier è presente in absentia anche nella simmetrica festa che si svolge il 20 marzo 1798 a Roma in
Piazza San Pietro in occasione della proclamazione corale della legge fondamentale della (prima)
Repubblica romana, contendendo la scena al comandante delle truppe francesi dai giganteschi
archi di trionfo di cartapesta che illustrano come un saggio di storia immediata l’epopea vittoriosa
della campagna d’Italia del 1796-1797. Prima che nel 1799 il ritorno alla personalizzazione del potere dopo la rottura rivoluzionaria sia sancito in Francia dal voto sulla costituzione dell’anno VIII
che contiene esplicitamente il riferimento a Bonaparte primo console, fra 1797 e 1798 in occasione
dei liberi voti e delle feste federative costituzionali delle repubbliche cadette italiane si esprimono
suffragi su (e a favore di) «Bonaparte». Il suo nome è di continuo evocato, acclamato, osannato,
applaudito nei linguaggi e nelle pratiche del momento (elettorale) costituzionale, durante il quale la
«rivoluzione riflessa» italiana individua e celebra in lui il suo ideale «re patriota», configurando un
originario impianto al contempo antipolitico e carismatico-personalistico, popolare e mediaticomilitare della politica moderna nella penisola.
4. Alla fine di questo breve viaggio all’interno delle congiunture plebiscitarie che aprono, attraversano e chiudono il Risorgimento (una sorta di «lungo momento plebiscitario risorgimentale»),
appare con tutta evidenza il filo che, dal punto di vista concettuale e procedurale come da quello
rituale e simbolico, collega il soldato-re al re-soldato configurando una «nazione plebiscitaria»,
che si affianca alla «nazione volontaria», nel corso dell’intero processo unitario. Essa impronta
fortemente in senso olistico e consensuale l’apprendistato sette-ottocentesco alla partecipazione
politica degli Italiani (e delle italiane più intraprendenti), chiamati (e chiamate) a partecipare ripetutamente a riti unanimistici di rigenerazione nazional-patriottica e di legittimazione democratica
ex-post di figure monocratiche guerriere.
Della pervasività dell’immaginario consensuale plebiscitario una spia illuminante è l’accezione
neutra se non propriamente positiva che il termine «plebiscito» e le sue varianti lessicali conservano a lungo nel linguaggio politico post-unitario a differenza di quel che accade nella Terza Repubblica francese, dove il lemma «plébiscite» assume il significato peggiorativo oggi usuale e diventa
sinonimo stigmatizzato del regime di democrazia illiberale instaurato da Napoleone III. Nell’Italia
liberale, la parola e la cosa incontrano una fortuna che travalica il campo semantico giuridico-istituzionale e politico-elettorale. La loro applicazione si allarga ai discorsi e alle pratiche emozionali
che circondano i riti, ordinari ed eccezionali, di devozione verso la famiglia reale e le dinamiche di
solidarietà patriottica che si sviluppano in occasione di eventi traumatici e di catastrofi nazionali.
Si pensi a espressioni ricorrenti come «plebiscito di dolore», coniato per illustrare le molteplici
dimostrazioni popolari di cordoglio per la morte di Vittorio Emanuele II; come «plebiscito d’amore», sotto il cui titolo la «Gazzetta Ufficiale del Regno» raccoglie l’insieme delle felicitazioni a
Umberto I per lo scampato attentato del 1878. E, infine, come «plebiscito di marmo» che indica, in
generale, il fenomeno della statuomania in onore di Vittorio Emanuele II innescatasi nella penisola
all’indomani della sua scomparsa, e, in particolare, l’imponente complesso monumentale del Vittoriano inaugurato nella capitale, dopo un trentennio di lavori, nel 1911. All’indomani del terremoto
di Messina del 1908, sono altresì denominate «plebisciti del dolore» le processioni patriottiche
durante le quali nelle principali città italiane migliaia di cittadini e cittadine, non di rado accompagnati dai propri figli, depongono le loro offerte in urne ricoperte dalla bandiera tricolore secondo
dinamiche e coreografie che ricalcano quelle dei plebisciti risorgimentali e dei loro predecessori di
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fine Settecento e inizio Ottocento.
Un ulteriore indizio del duraturo riconoscimento positivo riservato al fenomeno plebiscitario
nell’immaginario politico italiano è costituito dalla fortuna iconografica delle pratiche plebiscitarie, testimoniata non soltanto da un profluvio di stampe sciolte e di immagini pubblicate sulle
coeve riviste illustrate italiane e straniere (Figg. 6, 7 e 8, pagg. 53-54), ma anche dall’esistenza di
una tradizione sia scultorea che pittorica ufficiale e semi-ufficiale di taglio sia realistico sia allegorico che, in presa diretta o a distanza di anni dalla convocazione dei comizi nazionali, fissa per
immagini i rituali dell’atto di voto collettivo, la centralità del sovrano nella dinamica plebiscitaria
(Fig. 9, pag. 54) e la memoria figurata dell’atto solenne di rivelazione democratico-elettorale della
nazione (Fig. 10, pag. 55).
Pertanto, il momento plebiscitario risorgimentale non rappresenta soltanto la più massiccia mobilitazione popolare dell’intero processo unitario, ma è anche e soprattutto spia illuminante della
polarizzazione verticale e personalistica del potere e di un surplus di antipluralismo che connota
profondamente la comunità immaginata italiana e le dinamiche della sua legittimazione politica.
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Sul lungo momento plebiscitario:
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Torino, Giappichelli, 2003.
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52
Fig. 6. – Paysans toscans arrivant à Florence pour la votation, in «L’Illustration. Journal Universel», 24 marzo 1860.
Fig. 7. – Neapolitans proceeding to record their votes of annexation, in «The Illustrated London News», 10 novembre 1860.
53
Fig. 8. – Arrivo del Re a Venezia il 7 novembre, in «L’Illustrazione Universale», 25 novembre 1866.
Fig. 9. – Carlo Bossoli, S. M. il Re sottoscrive il decreto di annessione della Toscana presentato dal Barone Bettino Ricasoli il 22 marzo 1860, tempera su carta, 1860.
54
Fig. 10. – Luigi Riva, Il plebiscito romano del 1870, olio su tela, 1874.
55
Angelica Zazzeri
Risorgimento al femminile
Affrontare il tema del «Risorgimento al femminile» significa sia interrogarsi sul modo in cui le
donne presero parte a quella lunga stagione di rivoluzioni, sia chiedersi quali novità promosse il
Risorgimento nella percezione che le patriote avevano di loro stesse e dei loro codici comportamentali. Questi due aspetti della questione risultano strettamente interconnessi nelle fonti storiche che
ci sono giunte.
Sin dal triennio repubblicano (1796-99), alcune donne presero parte alla discussione sulla rigenerazione politica e morale della società intrecciando il risveglio della nazione con quello del loro
sesso. Nel 1797 tra Venezia, Mantova e Verona circolarono alcuni scritti femminili (tra cui vale la
pena ricordare La causa delle donne, dalla veneziana Annetta Vadori, così come La schiavitù delle
donne, redatto dalla mantovana Carolina Airenti Lattanzi) in cui si denunciavano le ingiustizie che
fino ad allora il gentil sesso aveva subito (l’ineguaglianza dei regimi patrimoniali, le monacazioni
e i matrimoni forzati, le mancanze di un’educazione volta a fare delle donne dei semplici oggetti
del piacere maschile) e si invocava l’avvento della parità civile e politica di uomini e donne. Temi
simili risuonavano anche in fogli volanti distribuiti da anonime «cittadine» che contestavano l’idea
secondo cui la natura femminile costituisse di per sé un limite insuperabile al pieno esercizio delle
funzioni attribuite all’individuo e al cittadino anche in una società democratica ed egualitaria. In
alcuni casi più estremi si arrivò a rivendicare l’uguaglianza sessuale capovolgendo i termini della
discussione sulla natura femminile: se l’inferiorità e la minorità delle donne erano state consacrate
in nome dell’elemento spirituale, emotivo e sentimentale, che si riteneva fosse preminente nella
natura femminile, una nuova gerarchia, che riconosceva il primato della forza spirituale su quella
materiale e fisica, affermava la supremazia della donna sull’uomo.
A dare maggiore spessore alle rivendicazioni di queste repubblicane era un nuovo modello di femminilità di cui si fecero promotrici: nella società rigenerata e costituita in nazione la donna avrebbe
dovuto ripudiare i vizi, la corruzione e gli ozi in cui si erano vezzeggiate le aristocratiche, e, consapevole delle proprie responsabilità, si sarebbe dimostrata pronta a compiere sacrifici per la causa
patriottica. Le prove di questo cambiamento dei costumi femminili non si fecero attendere. Già
negli anni Venti e Trenta esponenti dell’alta borghesia o della nobiltà collaborarono alla preparazione dei moti e aderirono alla Carboneria costituendo la società delle Giardiniere (così chiamata
dai luoghi in cui si ritrovavano, i giardini appunto). Ogni giardino corrispondeva a un raggruppamento di 9 donne, che si dividevano tra apprendiste e maestre. I compiti affidati a queste collaboratrici erano per lo più di coordinamento e di raccordo ma non di meno presupponevano una certa
dose di coraggio, ardore, dedizione patriottica: se arrestate erano infatti sottoposte a interrogatori,
carcerazioni e perquisizioni. Molto più numerose furono coloro che esternarono il desiderio di
partecipare alle vicende politiche attraverso la scrittura. Nei loro componimenti poetici le letterate anteponevano il bene comunitario al perseguimento della felicità individuale e non esitavano
ad affrontare temi di grande attualità e di respiro internazionale come la sfortunata insurrezione
polacca, di cui trattò la nota patriota Caterina Franceschi, moglie del professore pisano Michele
Ferrucci. Questo impegno letterario raggiunse il suo apice nel 1848 con la nascita di alcune testate
interamente scritte e dirette da donne come il veneziano «Il circolo delle donne italiane», o come
il siciliano «La Legione delle pie sorelle», organo di stampa dell’omonima società di signore che
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aveva come fine quello di istruire le giovani popolane e di operare in ambito filantropico.
Il 1848 fu certamente l’anno dell’exploit del patriottismo femminile: mentre gli uomini accorrevano
volontari in Lombardia, le donne contribuirono a raccogliere sottoscrizioni, crearono veri e propri
laboratori in cui ricamarono bandiere e coccarde da stendere ed esibire in occasione del passaggio
dei battaglioni tra le vie della città (Fig. 1).
Fig. 1. – Patriote in attesa del passaggio dei battaglioni di volontari.
A ogni occasione le signore facevano mostra del loro patriottismo abbigliandosi secondo i costumi
nazionali. Non solo esibirono coccarde, sciarpe e fazzoletti tricolori ma operarono una più ampia
rivisitazione del loro intero guardaroba: gli abiti realizzati secondo gli stili e le tendenze parigine,
che fino ad allora si erano imposte in tutta la penisola, vennero dismessi in nome delle «mode
nazionali». I periodici più popolari tra le gentildonne, come il milanese «Corriere delle dame»,
iniziarono a pubblicizzare figurini significativamente intitolati «Mode d’Italia», che sostituivano i
cappelli sofisticati con quelli alla calabrese, proponevano un’eleganza più sobria e non mancavano
di includere un’arma, simbolo della mobilitazione armata dell’intera nazione (Figg. 2-3). Parimenti venne contestato l’uso dei cerchi, ritenuto un costume tipico dell’aristocrazia imperiale, e si
rivolsero appelli alle «sorelle» affinché acquistassero stoffe dalle manifatture locali messe a dura
prova dalla guerra.
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Figg. 2-3. – Mode d’Italia.
Numerose furono anche le donne che parteciparono alle processioni patriottiche e alle luminarie organizzate soprattutto in occasione delle vittorie militari. La loro era una presenza carica di significato: prendere
parte al corteo era un modo per mostrare l’ampiezza della mobilitazione in corso, confermare l’adesione
dell’intera nazione a quanto stava accadendo, e conferire, in questo modo, legittimità e fondatezza alla
rivoluzione in corso. Tuttavia in questi cortei non si mancava di mettere in evidenza che la loro era anche
una presenza eminentemente materna perché di solito le donne, che sfilavano tra la Guardia Civica e le
rappresentanze politiche cittadine, erano circondate dai fanciulli, i futuri cittadini e combattenti. La particolare disposizione in questi allestimenti scenici impediva un contatto diretto delle donne con la sfera
militare e con quella politica e giustificava la loro presenza nello spazio pubblico in grazia dello specifico
ruolo materno. Si riconduceva così una presenza potenzialmente dirompente (non dimentichiamo che il
luogo naturale delle donne era lo spazio domestico) entro i più tranquillizzanti ruoli muliebri normativi.
A dispetto della costante attenzione posta a regolamentare le forme della partecipazione femminile agli
eventi rivoluzionari, non mancarono alcune intrepide personalità che nel 1848 decisero di mettersi in viaggio per raggiungere i campi lombardi e curare i feriti. Se è ancora poco noto il nome della marchesa di Laiatico, Eleonora Rinuccini, cognata di Giorgio Trivulzio, ferito nei combattimenti delle Cinque Giornate,
è ben più conosciuta Angelica Palli, moglie di Giovanpaolo Bartolomei, comandante del Secondo Battaglione livornese. Queste prime figure isolate di infermiere sarebbero diventate una presenza ben più familiare già un anno più tardi, quando a Roma, durante la difesa della Repubblica, si formò un «Comitato
delle ambulanze». Approvato da Giuseppe Mazzini e diretto da alcune donne tra cui la famosa principessa
Cristina Trivulzio di Belgioioso, le improvvisate infermiere che vi operarono si presero cura dei feriti italiani e francesi. In quei mesi effervescenti dove i confini tra i sogni e la realtà sembravano farsi sempre più
sottili, non furono poche nemmeno coloro che iniziarono a fantasticare di impugnare un’arma e di combattere in nome della patria, proprio come fecero le popolane di Milano, Palermo e Bologna (Figg. 4-5).
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Fig. 4. – Palermo, 12 gennaio 1848.
Fig. 5. – Bologna, 8 agosto 1848.
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Alcune di queste temerarie riscossero grande successo attirandosi le maggiori attenzioni dei cronisti
dell’epoca, che a esse dedicarono immagini e necrologi. Restano famosi i casi di Luigia Sassi Battistotti, che nelle Cinque Giornate si pose alla testa di un centinaio di uomini, e quello di Colomba Antonietti, che dopo essersi battuta col marito a Venezia, morì durante la difesa delle Repubblica romana
nel giugno 1849. Tuttavia a desiderare di combattere non furono solo donne del popolo: le memorie
private e i carteggi di molte esponenti della borghesia e dell’aristocrazia racchiudono non poche frasi di rammarico per «non poter dare il proprio braccio alla patria», o per «non essere nata uomo».
Mentre una letterata di spicco come la già citata Caterina Franceschi Ferrucci confessava al marito
Michele, combattente in Lombardia, che sarebbe corsa al suo fianco se non avesse avuto la figlia Rosa,
a Venezia Teresa Mosconi, Elisabetta Michiel Giustinian e Antonietta Dal Cére Benvenuti chiedevano
l’istituzione di un battaglione armato femminile. Il corpo tanto agognato dalle veneziane non fu mai
concesso, al suo posto venne istituito un battaglione completamente disarmato, destinato alla cura
dei feriti e tenuto a operare con discrezione evitando di comparire in pubblico. Una delle risposte più
interessanti che fu data alla richiesta di armamento femminile fu la fioritura di un vero e proprio filone
satirico che mise in scena un ridicolo mondo alla rovescia per deridere le pretese donnesche. Giornali
di grande tiratura, come lo «Spirito Folletto» di Milano, «Il Lampione» di Firenze e l’«Arlecchino»
di Napoli, immaginarono la formazione di club e parlamenti femminili riservati esclusivamente alle
donne e in cui si sarebbero votate proposte legislative come la leva forzata di mariti da dare alle figlie
zitelle ormai avanti negli anni. Il parlamento si sarebbe inoltre dotato di un corpo armato, pronto a
combattere la guerra dei sessi. A rappresentare attraverso le immagini un simile ordine socio-politico
parallelo e capovolto rispetto a quello vigente furono alcune vignette che si caratterizzavano per la
loro connotazione pornografica. I corpi delle donne emancipate mettevano in risalto le forme e la
silhouette divenendo in un certo senso «pubblici». In vignette come quella qui presentata (Fig. 6) si
rifletteva l’usurpazione dei costumi maschili (la donna con il sigaro) nei comportamenti licenziosi
e libidinosi femminili (le due soldatesse che leggono il biglietto di un corteggiatore). Attraverso la
pornografia si denunciava e si condannava la corruzione di una sfera politica in cui le donne avrebbero avuto potere decisionale.
Fig. 6. – La Guardia Civica femminile.
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Ma perché armarsi? Che cosa significava per le donne? Certamente bisogna considerare che la
diffusione di alcuni modelli di femminilità proposti dal teatro dovettero giocare un qualche ruolo:
a Napoli, a Venezia e in molte città del Nord-Est uno degli spettacoli più frequentemente messi in scena era la Giovanna D’Arco, che veniva presentata come l’eroina della nazione francese,
sollecitando indirettamente desideri di emulazione da parte delle Italiane. Battersi per la propria
patria rappresentava però anzitutto il gesto sommo di patriottismo e di cittadinanza da quando,
con la Rivoluzione francese, si era diffusa l’idea della nazione in armi, ovvero di un esercito non
più costituito da mercenari o dall’elite di uno stato bensì da tutti gli uomini della nazione, pronti a
morire per essa. Se compito degli uomini della nazione era combattere, alle donne spettava essere
moglie e madre di cittadini. La donna di per sé non avrebbe potuto vedersi riconosciuto il titolo di
cittadina: si riteneva fosse priva di quella autonomia di giudizio e di capacità decisionale giudicate
indispensabili per godere della cittadinanza. La negazione dell’individualità della donna la gettava
in balia della famiglia definendola in virtù dei rapporti intrattenuti con gli uomini (la donna era
figlia, moglie o madre), e restringendo i suoi compiti allo spazio privato: non ci si aspettava che una
donna parlasse in pubblico, arringasse le folle, e ancor meno che impugnasse un’arma o combattesse. Viceversa a lei spettava vincere la fragilità e la debolezza interiore che si ritenevano connaturate
al suo sesso, educare i figli a diventare i protagonisti esemplari della scena pubblica, infiammarli di
amore patrio e offrirli prontamente in sacrificio alla patria.
Rispetto alle aspettative socialmente diffuse tuttavia durante il Risorgimento si avviò una revisione
della tradizionale codificazione maschile dell’essere femminile. Si affermò cioè che le donne erano
esseri pensanti, ragionevoli e perfettibili. In un significativo passo dell’Indirizzo delle donne toscane
alle donne siciliane, pronunciato in occasione del banchetto per i fratelli delle Due Sicilie, si riconosceva a entrambi i sessi la forza, l’affetto, l’energia, la pietà, l’entusiasmo, la ragione, la fermezza
nel sacrificio e la fede nel giusto. Proclamando l’uguaglianza nel dato naturale si annullava all’origine la minorità in cui erano state soggiogate le donne e si rimetteva radicalmente in discussione il
loro diritto a essere riconosciute pienamente come cittadine. Questo ampliamento della percezione
di sé fece nascere la convinzione di essere dotate di una «doppia natura», di «moglie e madre» da
un lato, e di «italiana e cittadina» dall’altro. La scissione di queste due identità rompeva il divieto
di imbracciare le armi in nome del ruolo materno e prefigurava la possibilità stessa di combattere.
Le rivendicazioni di cittadinanza avanzate a partire dall’affermazione dell’appartenenza alla nazione trovarono espressione anche in una pratica apparentemente più regolare come quella del
dono. Il dono patriottico rivestiva di carattere politico un atto personale di generosità permettendo di farsi protagoniste di un evento che incideva su tutta la collettività. Numerosi furono i casi
di donazioni femminili che si registrarono in tutta la penisola: si donarono monili, cannoni, armi
e uniformi, generi di prima e di seconda necessità diretti nei campi lombardi. Ad animare questi
gesti non erano solo i buoni propositi o i precetti cristiani, ma anche, talvolta, desideri più audaci.
Nel settembre del 1848 la fiorentina Isabella Rossi Gabardi, per raccogliere offerte da inviare alla
Serenissima, propose alla Camera toscana l’istituzione di Comitati femminili che dovevano porsi
alle dirette dipendenze degli apparati politici, istituendo un nesso diretto, troppo diretto, tra donne e politica. La sua proposta veniva liquidata con queste parole: “I deputati della Commissione
sono i primi a encomiare la nobiltà di questi sentimenti […] ma […] sono costretti a dichiarare l’inconvenienza d’una cooperazione diretta delle Assemblee legislative in questa formazione di Comitati
femminei, e propongono sulla petizione l’ordine del giorno”.
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Se il 1848 fu un laboratorio di sperimentazione di presenze e di forme di intervento nel pubblico,
negli anni Cinquanta, che tradizionalmente vanno sotto l’etichetta di «decennio di raccoglimento
e di preparazione», le parole-chiave fino alla guerra di Crimea furono due: educazione e salotti.
Nel solo 1851 uscirono, rispettivamente a Genova e a Torino, le Lettere morali ad uso delle fanciulle
e Della educazione intellettuale: libri quattro indirizzati alle donne italiane di Caterina Franceschi
Ferrucci e i Discorsi di una donna alle giovani maritate del suo paese della greca livornese Angelica
Palli Bartolommei. Due anni dopo, nel 1853, quasi a corona­mento di quella felice congiuntura,
usciva la versione definitiva dello scritto della Franceschi Ferrucci, Degli studi delle donne, che auspicava un’adeguata istruzione femminile, che includesse la letteratura patria, la filosofia e un po’ di
diritto e aiutasse le giovani a confutare le accuse di fragilità e incostanza di cui le si tacciava. Parallelamente i salotti garantirono ospitalità agli esuli e misero a disposizione spazi per la discussione
politica permettendo di continuare a incontrarsi in nome della medesima passione patriottica. Se
nel territorio della penisola i salotti più celebri furono quello milanese di Clara Maffei, quello fiorentino di Emilia Peruzzi e quello genovese di Alba Coralli, tra le fuoriuscite restie ad assoggettarsi
nuovamente al dominio austriaco non deve essere dimenticata Luisa Riva Casati che, a Zurigo dal
1851, fece della sua casa l’asilo di molti fuggiaschi e del suo salotto un punto di incontro frequentato anche dallo stesso Mazzini.
I momenti salienti della mobilitazione femminile a cavallo degli anni Cinquanta-Sessanta furono
scanditi da due eventi e da due personaggi di fondamentale importanza per la storia di quegli
anni: la spedizione dei Mille e Garibaldi, i plebisciti e Vittorio Emanuele II. Le donne furono tra
gli ammiratori più appassionati di Giuseppe Garibaldi: le madri lo osannavano come un nuovo
profeta e molte signore andavano in delirio per l’emozione di vederlo da vicino o di stringergli la
mano. Enrichetta Caracciolo, indotta alla monacazione forzata e attiva nelle trame clandestine
del meridione, nelle sue Memorie ringraziava Dio per aver potuto vedere l’eroe dei due mondi; la
patriota comasca e mazziniana Luisa De Orchi in una lettera del 1860 parlava di lui con queste parole: “Vivo in un’affannosa ansietà e ripongo ogni speranza nell’uomo unico nei secoli, mai vinto.
Al Santo d’Italia adorazione e amore. Tutte le mie aspirazioni sono per Garibaldi, a Lui tutto il
pensiero, in lui piena fede. Avendolo conosciuto personalmente mi sta fisso in cuore la di lui parola,
la bontà, la benevolenza con cui m’accolse”. Attorno a Garibaldi e alla sua spedizione rinacquero i
progetti per l’istituzione di Comitati femminili che avrebbero garantito alle patriote un’autonomia
organizzativa e una visibilità pubblica. Questi almeno erano gli intenti con cui Felicita Bevilacqua,
sposa del barone Giuseppe La Masa, rivolgeva un appello alle «sorelle italiane» invitandole a
collaborare. Mentre le letterate tornarono a incitare alla vittoria e all’indipendenza, negli ospedali
allestiti presso i campi di battaglia nel Meridione si riversarono quante intendevano assistere i feriti
ed essere attive nell’organizzazione delle retrovie. Gli entusiasmi suscitati dall’impresa garibaldina
mossero poi poche intraprendenti a imbarcarsi nell’avventura. È il caso di Rosalia Montmasson,
moglie del politico e patriota Francesco Crispi, tra gli organizzatori della spedizione dei Mille. Il
4 maggio 1860 a Genova la Montmasson confessò al marito il desiderio di accompagnarlo in Sicilia. Di fronte alle sue insistenze Crispi e Garibaldi acconsentirono a lasciarla imbarcare. La Montmasson non fu l’unica donna a unirsi alla spedizione. All’indomani dello sbarco a Marsala infatti si
affiancarono ai garibaldini altre donne, motivate ora dall’appassionato trasporto per Garibaldi e i
suoi compagni, ora dall’amore di patria. Le donne che combatterono con i garibaldini suscitavano
curiosità per il loro coraggio e per il loro ardore e spesso rievocarono nei volontari le immagini del-
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le leggendarie amazzoni. Queste temerarie divennero una fonte di ispirazione per editori, scrittori e
cronisti che non esitarono a utilizzare il loro ritratto come un soggetto insolito e particolare, quasi
memorabile, dato che fu impresso in alcune carte da visita dell’epoca (Fig. 7).
Fig. 7. – Carta da visita di una garibaldina.
Questa grande mobilitazione femminile si traduceva in una manifestazione collettiva di appartenenza nazionale che assumeva tuttavia significati piuttosto controversi in quei mesi. L’esclusione
dall’evento plebiscitario palesò infatti le ambiguità di una nazione che riservava alle donne più
doveri che diritti. Rimaste fuori dalle urne, le donne non rinunciarono a far sentire la loro voce e
ribadirono la loro italianità con metodi alternativi: protestarono e lo fecero in modo spettacolare.
Organizzarono cortei, acclamazioni, donazioni simboliche alle municipalità che si svolsero simultaneamente alle votazioni maschili e aspiravano ad avere il medesimo valore di assenso all’annessione. Nelle Marche, nell’Umbria, nelle province napoletane e in Sicilia, le donne, insieme ai
minori di 21 anni esclusi dal voto, stesero indirizzi rivolti al re o a Garibaldi, chiedendo che i loro
nomi fossero messi a verbale per segnalare l’adesione al processo unitario. A Ferrara e a Napoli si
formarono comitati femminili che equiparavano il dono al re con il suffragio maschile. Nell’Italia
centro-settentrionale in comuni come quello di Fusignano nelle Romagne si aprirono veri e propri
seggi femminili dove le donne si recarono a deporre i loro voti.
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Con la proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861, l’appartenenza alla nazione e l’amore
per la patria sfumarono con toni sempre più marcati nella specifica questione istituzionale della
cittadinanza. Due sono gli anni fondamentali a cui possiamo far riferimento. Il primo è il 1864,
quando Anna Maria Mozzoni, proveniente dagli ambienti filo-mazziniani e destinata a diventare
ben presto una delle voci più ascoltate dell’emancipazionismo italiano, ricondusse l’impegno patriottico delle Italiane entro una più ampia prospettiva cosmopolita, valorizzando il contributo che
le donne potevano dare al progresso sociale. Il secondo anno è il 1868, che vide la nascita a Padova
del settimanale «La donna», ideato e diretto dalla letterata filomazziniana Gualberta Alaide Beccari. Fu il primo giornale a proporsi come espressione di un movimento che proprio attraverso le
sue pagine iniziò a coordinarsi: quello femminile.
Nonostante ancora una volta le donne dessero prova delle loro capacità, la situazione legislativa
non mutò. Nel 1865 il Codice Civile ribadiva la posizione di subordinazione delle donne nella famiglia e nella società riconfermandole come soggetti «naturalmente» immaturi e necessariamente
subordinati all’uomo. Nello stesso anno l’approvazione di una legge elettorale amministrativa inseriva le donne tra i minorati civili, spazzando via precedenti legislazioni che nel Lombardo-Veneto
come nel Granducato avevano permesso fino ad allora alle altolocate di partecipare alle elezioni
amministrative. Tuttavia la revisione del diritto di famiglia, il miglioramento della condizione femminile e il raggiungimento di una sostanziale parità tra l’uomo e la donna furono temi che riuscirono ad approdare in Parlamento attraverso il patriota liberale meridionale Salvatore Morelli. Eletto
deputato nel 1867, il suo progetto di legge intitolato Per la reintegrazione giuridica della donna
rivendicava alle donne in quanto persone e individui, madri e mogli i medesimi diritti civili e politici
di cui godevano gli altri cittadini del Regno.
Se riconoscete la donna per persona, se ammettete in lei le stesse facoltà che possiede l’uomo […], come
vi comanda il buon senso, la ragione e la storia […] quale argomento potrebbe affacciarsi per negare alla
creatrice dei cittadini, la giuridica caratteristica di cittadino?
I dissolventi addurranno certo, che, accordando questi diritti alla donna, essa si svierebbe dalle cure domestiche e dall’allevamento ed educazione dei figliuoli, cui è principalmente chiamata dalla natura.
No, dico io, questo avviene anche per i padri di famiglia: essi non vanno all’urna e mancano ai doveri civili
e politici, quando intime necessità ne fanno loro divieto […].
Riconoscendo alla donna identità di tipo e facoltà eguali all’uomo, giustizia vuole che essa sia eguagliata
al medesimo nei diritti civili e politici. Quindi le donne italiane, dalla pubblicazione di questa legge, sono
facultate ad esercitare i diritti civili e politici nello stesso modo e con le medesime condizioni che li esercitano gli altri cittadini del Regno d’Italia.
Pur presentato alla Camera il 18 giugno 1867 il progetto non venne né ammesso alla lettura né registrato tra i fascicoli degli archivi. In compenso a riservargli grande eco fu la stampa. Il periodico
napoletano «Il Folletto» commentò l’impresa di Morelli con un sonetto destinato a raccogliere
grandi successi per un periodo di tempo molto, anzi troppo, lungo:
L’emancipazione della donna (proposta Morelli).
Donne mie la proposta arci-utilissima
Che ha fatto quel leone di Morelli,
In coscienza vi dico che è bellissima,
E può produrre effetti molto belli:
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E se la studiate insieme a me
Saprete le ragioni ed il perché.
[…]
Sarà bello il vedere una donzella,
Che seduce col fisico e il morale,
Abbandonar l’inutile gonnella,
E vestirsi da Guardia Nazionale
E stare per un’ora in fazione,
Per garantire l’itala nazione!…
Veder fumar la donna è una bellezza,
Vederla studiar filosofia,
E dar della politica contezza
È cosa che ci mette in allegria…
Se fino ad ora la donna è stata donna,
Ella porrà i calzoni e l’uom la gonna.
E che di più? Donzelle che volete?
Cavalcare, guidare, andare in cocchio?
Andare a caccia, oppur parar la rete,
O portare il cristallo in faccia all’occhio?
Fatelo ch’è permesso: il gran Leone
Di tutto far vi dà permissione.
Se dunque nei propositi di molte donne la partecipazione al Risorgimento nazionale era stata strettamente congiunta alla progettualità di un Risorgimento femminile, il primo decennio dell’Unità
suggellò il naufragio di questo connubio. Mentre la conquista di Roma segnò un fondamentale
traguardo della storia d’Italia, la sfida della conquista dei diritti femminili nello stato nazionale era
ancora ben lontana dal concludersi.
Bibliografia essenziale
Banti A.M., L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII
secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi, 2005.
Banti A.M. (a cura di), Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e
nelle immagini, Roma, Laterza, 2010.
Banti A.M., Ginsborg P. (a cura di), Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 2007.
Fiorino V. (a cura di), Una donna, un voto, numero monografico di «Genesis», V (2006), 2,
Roma,Viella.
Filippini N.M., Scattigno A. (a cura di), Una democrazia incompiuta. Donne e politica in Italia
dall’Ottocento ai nostri giorni, Milano, Franco Angeli 2007.
Haupt H.G., Soldani S., Donne della nazione. Presenze femminili nell’Italia del Quarantotto, in 1848.
Scene da una rivoluzione europea, numero speciale di «Passato e presente», 46 (1999).
Soldati S. (a cura di), Italiane! Appartenenza nazionale e cittadinanza negli scritti di donne dell’Ottocento, in Patrie e appartenenze, numero monografico di «Genesis», 1 (2002), pp. 85-124.
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APPENDICE – LABORATORI DIDATTICI
Beatrice Monroy
Le mille storie dei Mille
Il laboratorio ha preso spunto da un programma radiofonico in venti puntate, curato da Beatrice Monroy e trasmesso da Radio3 dal 19 ottobre al 16 novembre 2007, e tuttora ascoltabile
in rete all’indirizzo http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-9040121a-a4d14386-bd49-5fb4830ca8f2.html?p=5.
Il programma raccontava l’epopea garibaldina attraverso articoli di giornali, bollettini di guerra
dei Borboni, proclami di Garibaldi e soprattutto le voci dei protagonisti, scrittori che parteciparono alla grandiosa impresa e che raccontarono un viaggio attraverso tutta l’Italia, fatto di scoperta
di luoghi e di gente. Voce guida del programma era quella di Davide Riondino.
Beatrice Monroy gira l’Italia raccontando storie, nelle scuole, nei circoli, nelle biblioteche: “Faccio
– lei dice – un lavoro di testimonianza della letteratura e credo nella forza del racconto, in quanto
ha rapporto col mito. La storia dei Mille, per come è arrivata alla mia memoria, ha molto a che
fare col mito: è un racconto che si svolge nel Mediterraneo e che richiama i grandi viaggi per mare
del mito, dalle Argonautiche in poi, ma anche i viaggi di oggi di chi arriva da lontano sulle nostre
coste”. Il laboratorio ha dimostrato il valore didattico oltre che la forza del racconto di storie.
Viene qui trascritta, a mo’ di esempio, la 3a puntata, in cui si evidenzia una caratteristica propria
dell’impresa dei Mille: la giovane età, oltre che l’entusiasmo, dei protagonisti.
Riondino
Maggio 1860. L’Italia ancora fatta a pezzi, divisa, lacerata dalle guerre, sembra impazzita di
gioia, una vitalità straordinaria ha preso giovani e meno giovani, tutti organizzano, partecipano, vogliono essere parte di una straordinario movimento che sta cambiando per sempre la
fisionomia e la storia del nostro paese. Basta divisioni, basta stranieri, basta polizia e mancanza
delle libertà minime di espressione. I ragazzi cresciuti con i padri in esilio o morti combattendo
per le guerre e le rivoluzioni del ’48 o ritornati a casa piegati dalla sconfitta, adesso sono pronti
a cambiare il gioco.
Hanno trovato nel Piemonte, in Cavour, un alleato anche se un alleato che non si vuole esporre
direttamente ma, soprattutto, hanno trovato Giuseppe Garibaldi e i suoi uomini, loro sì sono in
grado di credere nei sogni; perciò sono andati a iscriversi alle liste segrete di reclutamento nelle
varie città del nord per partire verso la lontana Sicilia; si sono nascosti sui treni, hanno falsificato la loro età e adesso sono davvero tanti… chi se l’aspettava? Sono partiti senza niente se non i
vestiti che hanno addosso, ma come faranno a sopportare la lunghissima marcia che li aspetta?
Voce
4 maggio. In viaggio.
Non so per che guasti, il treno s’è fermato. Siamo vicini a Montebello. Che gaie colline, e che
esultanza di ville sui dossi verdi! Ho cercato coll’occhio per tutta la campagna. È appena passato un anno, e non un segno di quel che avvenne qui. Il sole tramonta laggiù. In fondo ai solchi
lunghi, un contadino parla ai suoi buoi. Essi aggiogati all’aratro tirano avanti con lui. Forse
egli vide e sa dove fu il forte della battaglia? Ho negli occhi la visione di cavalli, di cavalieri, di
lance, di sciabole cavate fuori da trecento guaine, a uno squillo di tromba; tutto come narrava
quel povero caporale dei cavalleggieri di Novara tornato dal campo due giorni dopo il fatto.
Affollato da tutta la caserma, colla sciabola sul braccio, col mantello arrotolato a tracolla,
coi panni che gli erano sciupati addosso, lo veggo ancora piantato là in mezzo a noi, fiero, ma
niente spavaldo.
– Dunque, e Novara?
– Novara la bella non c’è più! Siamo rimasti mezzi per quei campi.
Nella stazione di Novi.
Si conoscono all’aspetto. Non sono viaggiatori d’ogni giorno; hanno nella faccia un’aria d’al67
legrezza, ma si vede che l’animo è raccolto. Si sa. Tutti hanno lasciato qualche persona cara;
molti si dorranno di essere partiti di nascosto.
La compagnia cresce e migliora.
Vi sono dei soldati di fanteria che aspettano non so che treno. Un sottotenente mi si avvicinò
e mi disse:
– Vorrebbe telegrafarmi da Genova l’ora che partiranno?
Io, né sì né no, rimasi lì muto. Che dire? Non ci hanno raccomandato di tacere? L’ufficiale mi
guardò negli occhi, capì e sorridendo soggiunse:
– Serbi pure il segreto, ma creda, non l’ho pregata con cattivo fine.
E si allontanò. Volevo chiamarlo, ma ero tanto mortificato dall’aria dolce di rimprovero con cui
mi lasciò! È un bel giovane, uscito, mi pare da poco, da qualche collegio militare; alla parlata,
piemontese. Non so il suo nome e non ne chiederò. Innominato, mi resterà più caro e desiderato
nella memoria1.
Voce
Sul treno che avrebbe dovuto portare da 180 a 200 volontari al massimo, ne erano saliti invece
quasi trecento, di tutte le età, dai 14 anni ai 48. Alla stazione di Milano però, e più precisamente
lungo il tragitto dalla Stazione di Porta Tosa a quella di Porta Nuova, i nostri condottieri Nullo, Cucchi, Tasca, Piccinini, fecero un’accurata selezione e ne rimandarono parecchie diecine,
tra i ragazzi troppo giovani, perchè dai 12 ai 14 anni, o malandati di salute. Per avere saputo
tenersi ben nascosto, rimase invece con noi il giovinetto Adolfo Biffi, il quale essendo nato nel
1846 avrebbe compiuto i 14 anni ventun giorni dopo la nostra partenza, se a Calatafimi tre
delle palle deli Cacciatori borbonici, colpendolo al ventre, dopo averlo fatto girare su se stesso,
e annaspare con le braccia all’aria, non l’avessero steso morto.
Il passaggio da Milano a Genova si effettuò tra la massima allegria e la grande impazienza di
arrivare a Genova. Tra Pontedecimo e Rivarolo, a un certo punto donde si scorge un primo
tratto di mare, fu uno scoppio d’entusiasmo, un grido generale ed uno sventolio di fazzoletti e
di banderuole tre colori, da quasi tutti i finestrini.
Verso le nove della mattina del giorno 4 si era sotto la tettoia della stazione di Piazza Principe2.
Riondino
Immaginate dei ragazzi di 14 anni, dei bambini, possiamo dirlo, che fino a quel momento hanno vissuto in famiglia a Bergamo, non hanno visto niente del mondo perché non ne hanno avuto il tempo. Sono piccoli, incredibilmente piccoli, eppure vengono scelti per la grande impresa.
Ora immaginate questi bambini, conoscono la loro città, il freddo, il caldo, il cibo della loro
città, le montagne e i boschi ed ecco un giorno salgono su un treno con addosso i vestiti di ogni
giorno, della lana, attenzione ricordatelo perché sarà più avanti un elemento importante su cui
ritorneremo, calze di lana, scarpe ben solide, maglia di lana e nient’altro se non la loro gioia di
vivere, salgono su un treno e di già vicino Genova cominciano a vedere delle cose straordinarie:
delle palme! Queste strane piante alte alte con quel ciuffo in cima che ondeggia e poi: il mare!
Il mare! Immaginate di non averlo mai visto ed ecco lì d’improvviso in una giornata di maggio,
splendente più che mai.
I grandi, i più esperti si prendono cura di quei ragazzini che adesso sono lì confusi fuori dalle
loro montagne che li proteggevano. Sono nel cuore della grande frenetica città di mare, nel suo
cuore pulsante, tra marinai dal volto scuro, quella strana vegetazione e il sole che si riflette sul
mare incendiando ogni cosa, rendendola come sbiadita, priva di contorni, bianca.
Dove la sarà la Sicilia? Verso dove bisogna guardare?
Sono andati da Bergamo a Milano. Da Milano a Genova a Piazza Principe. Il 4 maggio la città
è invasa dai volontari, sono drappelli di otto, dieci persone con un capogruppo; se ne vanno
in cerca di alloggio, le locande sono invase, non sanno più come fare a sistemare tutta quella
gente.
1 Cesare Abba, Da Quarto al Volturno, testo libero internet.
2 Guido Sylva (a cura di Alberto Agazzi), La VIII compagnia dei Mille, Istituto Civitas garibaldina, Bergamo.
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Voce
Genova, 5 maggio. Mattino.
Ieri sera arrivammo ad ora tarda, e non ci riusciva di trovar posto negli alberghi, zeppi di gioventù venuta di fuori. Sorte che, lungo i portici bui di Sottoripa, ci si fece vicino un giovane,
che indovinando. senza tanti discorsi, ci condusse in questo albergo, La gran sala era tutta
occupata. Si mangiava, si beveva, si chiacchierava in tutti i vernacoli d’Italia. Però si sentiva che
quei giovani, i più, erano Lombardi. Fogge di vestire eleganti, geniali, strane; facce baldanzose;
persone nate fatte per faticare in guerra, e corpi esili di giovanetti, che si romperanno forse alle
prime marcie. Ecco ciò che vidi in una guardata. Entravamo in famiglia. E seppi sùbito che
quel giovane che ci mise dentro si chiama Cariolato, che nacque a Vicenza, che da dieci anni è
esule, che ha combattuto a Roma nel quarantanove, e in Lombardia l’anno passato. Gli altri mi
parvero, la maggior parte, gente provata.
Più sul tardi.
Stamane il primo passo lo feci da C. al quale farò conoscere i dottori di Parma, che a lui, studente di medicina, sarebbero cari, se potesse venire con noi.
– Tu vai in Sicilia! esclamò appena mi vide.
– Grazie! Tu non mi hai detto mai parole più degne.
– È una grande fortuna! – soggiunse pensoso: e dopo lunghi discorsi prese la lettera che gli
diedi per casa mia. Egli la porterà soltanto quando si sappia che noi saremo sbarcati in Sicilia.
Se si dovesse fallire, voglio che la mia famiglia ignori la mia fine. Mi aspetteranno ogni giorno,
invecchiando colla speranza di rivedermi.
Mi abbattei nel signor Senatore, che mi conobbe giovinetto.
Egli mi ha detto che in Genova si è radunata una mano di faziosi, i quali oggi o domani vogliono partire, per andare a far guerra contro Sua Maestà il Re di Napoli. Non sa più in che
mondo viva: e se il governo di qui non mette la mano sopra quegli sfaccendati perturbatori...
Basta, spera ancora! Scaricava cosi la collera che gli bolliva; ma a un tratto si piantò, domandandomi se per avventura fossi anch’io della partita. Io non risposi. Allora certo d’aver colto
nel segno, cominciò colle meraviglie, poi colle esortazioni. Come? Poteva essere che il mondo
si fosse girato tanto, da trovarsi a simili fatti un giovane, uscito dal fondo d’una valle ignota,
allevato da buoni frati, figlio di gente quieta, adorato dalla madre?... Poi passò alle minaccie.
Avrebbe scritto, si sarebbe fatto aiutare da quanti del mio paese sono qui; mi avrebbe affrontato
all’imbarco, per trattenermi… Ed io nulla. Ultima prova, quasi piangendo e colle mani giunte
proruppe: Ma che cosa vi ha fatto il re di Napoli a voi, che non lo conoscete e andate a fargli
guerra? Briganti!
Eppure un suo figlio verrà con noi3.
Per le vie di Genova tutta lavoro, dove la gente va attorno sempre con l’aria di chi non ha tempo
da perdere, quei forestieri che riempivano i caffè e le passeggiate stonavano alquanto. Ma forse
nessuna città era adatta come Genova a farvi quell’adunata e a servir di copertura al Governo.
Il quale così, negli ultimi momenti, poté far bene le viste di non accorgersi di nulla, proprio
come se nulla vi fosse, e tutto pareva inteso, consentito, voluto dalla città intera, ma con somma
prudenza4.
Voce
Quivi avemmo istruzione di costituirci in tanti drappelli da sei a otto uomini, di eleggerci un
capo-gruppo, il quale dovesse recarsi, a determinate ore, in un luogo designato, a prendervi gli
ordini, di fissare una località per ciascun gruppo. Ove riunirci a ricevere comunicazioni. Tuttociò si fece lì per lì, indi ci si disse di disperderci per la città, in cerca di alloggi, nelle diverse
locande, e ci si fecero le maggiori raccomandazioni di tenere un contegno irreprensibile e prudentissimo, e di cercare di dar nell’occhio altrui il meno possibile.
Con il mio gruppo ci eravamo allogati in una locanda e, com’era nostro dovere, usavamo ogni
3 Abba, Da Quarto al Volturno, cit.
4 Cesare Abba, Storia de I Mille, testo libero internet.
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riguardo per non essere troppo osservati, poiché era chiaro che tutta quella gioventù forestiera,
piovuta così all’improvviso in quella città da tante parti diverse, che girandolava per le vie nei
costumi più vari e molti anche bizzarri, con borse, borsette, tasche a pane rigonfie, alle autorità
di Genova, per quanto dovessero aver consegna di russare, non poteva che dar fastidio.
Al secondo ritrovo del giorno successivo, 5 maggio, ci si avvisa finalmente che alle ore dieci di
quella sera dovevamo trovarci fuori Porta Pila, sulla spiaggia alla foce del Bisagno. Esultanti
a quell’annunzio, che preludeva all’imminente partenza, ci demmo a torno per fare qualche
provvista5.
Riondino
E infatti alla fine, dopo tante esitazioni, ogni cosa era pronta. Garibaldi si era deciso per la
partenza, i suoi uomini erano andati alla ricerca di navi adatte all’impresa e qui se ne sono
dette tante, chi ha detto che le due navi furono rubate ai Rubattino, chi ha detto che le due
navi in qualche modo furono passate da qualcuno all’interno della compagnia… la situazione
era questa, le armi erano rimaste bloccate, le navi erano in forse, e dalla Sicilia si sapeva che la
rivolta era stata domata nel sangue. Eppure il Generale sentì, intuì che comunque stessero le
cose quello era un momento irripetibile, non si poteva non partire. Fu l’affluenza incredibile di
quei ragazzi? O cosa? Certo è che…
Voce
Il 5 maggio ogni cosa era pronta. Allora Garibaldi scrisse al Re cominciando: “Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quelle d’alcune centinaia dei miei vecchi compagni d’arme”. Pareva che volesse rammentare a Vittorio Emanuele
che l’anno avanti egli per il primo, nel suo discorso del 10 gennaio in Parlamento, aveva trovato
l’espressione giusta come un’eco delle “grida di dolore” giunte a lui da ogni parte d’Italia. E
soggiungeva di saper bene a quale impresa pericolosa si sobbarcava, ma che poneva confidenza
in Dio e nella devozione dei suoi compagni. Prometteva che grido di guerra sarebbe l’unità
nel nome di Lui, Vittorio; e sperava che, se mai l’impresa fallisse, l’Italia e l’Europa liberale
non dimenticherebbero che era stata determinata da motivi puri affatto da egoismo. Disse, che
riuscendo, un nuovo e brillantissimo gioiello avrebbe ornato la corona di Lui; ma non celava
l’amarezza sua per la cessione della sua terra natale. E, certo per non compromettere il Re, finiva scusandosi di non avergli detto il suo disegno, per tema che egli lo dissuadesse dal fare quel
passo. Il Generale scriveva pure all’Esercito italiano, esortando ufficiali e soldati a star saldi
nella disciplina, a non abbandonare le fila per seguire lui. Scriveva all’Esercito napolitano per
ricordare ai figli dei Sanniti e dei Marsi che erano fratelli dei soldati di Varese e di San Martino.
E anche non dimenticava i Direttori della Società dei Vapori Nazionali, cui nella notte doveva
menar via il Piemonte e il Lombardo, scusandosi di quell’atto di violenza, e raccomandandoli
al paese perché rimettesse qualunque danno, avaria o perdita che loro potesse seguirne.
In tutte quelle lettere e in parecchie altre di quel giorno, una frase qua un’altra là rivelavano un
sentimento sicuro ma anche una misteriosa tristezza6.
Riondino
Il 5 mattina i capigruppo vengono avvisati di trovarsi alle dieci di sera alla spiaggia alla foce
del Bisagno.
Alla domanda “Chi va là” la risposta è “Sicilia”.
Ah dunque si parte, intanto sono diventati il doppio e dappertutto sbucano volontari.
5 Sylva (a cura di Alberto Agazzi), La VIII compagnia dei Mille, cit.
6 Abba, Storia de I Mille, cit.
70
Voce
Quarto, presso la Villa Spinola. 5 maggio, a un’ora di notte.
Ho bevuto l’ultimo sorso.
Strana coincidenza di date! Partiremo stasera. Chi fra quanti siamo qui non ripensa che oggi è
l’anniversario della morte di Napoleone7?
Voce
All’ora indicataci eravamo sul posto. Il numero è alquanto aumentato. Stiamo la maggior parte sdraiati sul greto, chiacchierando, altri passeggiano in mezzo ai curiosi, i genovesi, in parte
destinati a formare la famosa compagnia degli omonimi Carabinieri, sono accompagnati dai
parenti e amici, accorsi a salutarli, ad abbracciarli.
Regna la miglior armonia, il massimo buon ordine, associati alla più viva allegrezza. Limpida,
magnifica è la notte.
Ad un tratto uno sconosciuto traversa di corsa i nostri gruppi e dà un tonfo nelle onde, e rumorosamente vi si dibatte. A tutta prima lo si sta a guardare, credendo lo abbia preso la vaghezza
di fare una nuotata, ben presto però ci si accorge com’egli stia invece affogando e allora alcuni
dei nostri si lanciano al suo soccorso e lo traggono in salvo8.
Riondino
È mezzanotte, sono a Quarto, lì davanti a loro da qualche parte, molto in fondo c’è la Sicilia,
così hanno detto i marinai puntando il dito là in fondo, in fondo in quel buio, in quel mare
nero, oltre la spiaggia di ciottoli, lì in quell’orizzonte scuro fatto di acqua, e loro, abituati alle
montagne, adesso si sentono persi. Saliranno su delle barchette che ondeggiano lente lente sul
mare. Il mare era calmo? Quando si sta su una barchetta, la dolce consistenza dell’acqua salina
la si può proprio sentire e con la mano la si può toccare…
Voce
Genova nelle ore supreme fu ammirabile. Nessun chiasso: silenzio, raccoglimento e consenso.
Alla Porta Pila, v’erano delle donne del popolo che, a vederci passare, piangevano. Di là a
Quarto, di tanto in tanto, un po’ di folla muta. A pie della collina d’Albaro alzai gli occhi, per
vedere ancora una volta la Villa, dove Byron stette gli ultimi giorni, prima di partire per la
Grecia: e il grido di Aroldo a Roma mi risonò nelle viscere. Se vivesse, sarebbe là sul Piemonte,
a fianco di Garibaldi inspiratore.
– Questo villaggio è Quarto? – Sì. – Dov’è la villa Spinola? – Più avanti.
Tirai avanti. Ecco la villa.
Biancheggiava una casina di là da un gran cancello, in un bosco oscuro, nella cui profondità,
pei viali, si movevano uomini affaccendati. Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto,
v’era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: Eccolo!
No, non ancora! Invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva al mare, o
spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero
tutti; era Lui!
Attraversò la strada e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della villa, seguito da
pochi, discese franco giù per gli scogli. Allora cominciarono i commiati. Ed io che non aveva
lì nessuno, mi sentii negli occhi le lagrime. Avviandomi per discendere, mi abbattei in Dapino,
mio condiscepolo di sei anni or sono. Aveva la carabina sulla spalla. Fui lì per abbracciarlo;
ma gli vidi a fianco suo padre e un suo fratello, e mi cadde l’animo. Temei d’assistere ad una
scena dolorosa, perché mi pareva che quel padre, che io so tanto amoroso, fosse venuto per
trattenere il figliuolo; e due passi più sotto v’erano le barche, e una turba silenziosa come di
ombre sfilava giù in quel fondo e… mi si fa un nodo alla gola.
Qui accanto dicono d’un altro che non conosco. Sono Veneti, giovani belli e di maniere signorili.
7 Abba, Da Quarto al Volturno , cit.
8Sylva (a cura di Alberto Agazzi), La VIII compagnia dei Mille, cit.
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– Sapete che la madre di Luzzatto venne a cercarlo?
– Da Udine?
– O da Milano, non so. Corse di qua, di là, da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto, chiedendo, pregando e tanto fece che lo trovò.
– E lui?
– E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perché sarebbe partito lo stesso, col rimorso
d’averla disobbedita.
– E la mamma?
– Se n’andò sola9.
9 Abba, Da Quarto al Volturno, cit.
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Paola Raspadori
Fare gli Italiani
Paola Raspadori e Anna Maria Di Pascale hanno suggerito alcuni percorsi didattici attraverso la
letteratura degli anni del Risorgimento e successivi, con una ricco apparato di citazioni. In particolare hanno presentato i seguenti temi:
• L’educazione dei giovani: D’Azeglio, Settembrini, Nievo, Ruffini, De Sanctis
• Figure di nuovi intellettuali: Colet, White, Nievo
• La riflessione dopo l’unità: De Amicis
• Il disincanto: De Roberto, Pirandello
I testi che seguono sono stati presentati in forma di bozza e non hanno avuto elaborazione ulteriore.
Una generazione di giganti
Questa fu una generazione di giganti, perché fece un’opera non potuta fare da molte generazioni
e per molti secoli: fece l’Italia, e la fece con la forza del pensiero, che raccolse in uno ed
armonizzò tanti pensieri discordi
Luigi Settembrini
Come si fanno gli Italiani: una ricetta piemontese, Massimo D’Azeglio
Fra la molteplicità delle strade che possiamo percorrere per rendere conto della complessa interazione intercorsa fra la letteratura e la rivoluzione risorgimentale, una su cui mi sembra particolarmente interessante proporre un pacchetto di letture è il problema dell’educazione e della scuola.
L’interesse di cui parlo è legato sia alla qualità intrinseca degli autori, sia ai contenuti che emergono nel dialogo ideale dei testi, discussione che verte sui valori a cui deve essere improntata l’educazione, e sulla funzione della scuola.
Mentre nelle cronache e nei memoriali “in diretta” prevalgono temi come lo slancio, l’avventura,
la voglia di nuovo, nelle autobiografie subentrano, come è logico, toni più analitici, e la riflessione
sulla propria identità spirituale e intellettuale diventa una riflessione sui “caratteri” del popolo
italiano e sui mezzi da porre in opera per educarlo. E anche nei romanzi questa riflessione è in
primo piano, a cominciare dai Promessi sposi, in cui i personaggi prendono corpo e assumono la
loro fisionomia attraverso l’intreccio fra la propensione dell’indole e l’incidenza dell’educazione e
della società dell’epoca.
Lo ha ben presente, questo scopo, Massimo D’Azeglio (1798-1866), quando, aprendo il suo libro
di memorie (I miei ricordi, scritti nel 1863-66), scrive:
Io vorrei però che queste pagine servissero, in un senso, anche all’età nostra: e mi spiego.
L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione.
Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è
questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la
lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani.
E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani
vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perché
pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino
loro, perché l’Italia, come tutti popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero, come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione,
finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia
bene, o almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare,
ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o
frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con
un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che
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si formino Italiani che sappiano adempiere al proprio dovere. E pur troppo si va ogni giorno più verso
il polo opposto.
Ora, se le materie, i racconti, gli esempi contenuti in questo libro, potessero avere per effetto di contribuire a formare un solo alto carattere, io crederei aver reso un gran servizio al mio paese; poiché se
è vero, come dice il proverbio, che un pazzo ne fa cento (e grandi esempi ne vediamo tuttodí), è vero
altrettanto che anche un alto e forte carattere può farne cento e mille, e dare vita, calore, e, per dir
così, intonazione più degna e più generosa per anni ed anni ad un intero paese.
Enunciando la formula che è divenuta celebre, D’Azeglio riprende in modo brillante un tema già
presente nella saggistica del Cuoco, nell’opera di Foscolo, e affrontato di petto con la consueta lungimiranza da Leopardi (Discorso sui costumi degli italiani, 1824). E rievocando la propria infanzia
e formazione, si inserisce in un percorso che ha come precedenti innanzitutto Alfieri (in particolare
sulla tematica della volontà), ma anche più a distanza Chateaubriand e qualche ricordo di Montaigne (meno presente a mio avviso il fondamentale modello di Rousseau).
L’alta nobiltà cui D’Azeglio appartiene, da lui snobbata in giovinezza10, viene riconsiderata in vecchiaia ma solo quando essa assuma la sua valenza “stilnovistica”, di nobiltà come gentilezza, lealtà
e forza dell’animo, cioè elementi sostanziali, valori che si rivelano in forme che non hanno niente di
puramente esornativo e perdono la loro connotazione di classe.
Ho passata tutt’intera la mia vita sino a tre mesi fa, senza saper altro della mia famiglia se non poche
notizie udite da un vecchio agente di casa. Non uscí mai parola dalla bocca di mio padre e mia madre su
questo argomento. Mi ricordo anzi che nella mia fanciullezza – potevo aver dodici anni al più – essendo
un giorno riuniti in famiglia, presente qualche amico di casa, il discorso cadde sulla nobiltà. Io così alla
buona, e senza malizia dissi: – Noi, signor padre, siamo nobili? – M’accorsi che, dovevo aver fatta una domanda sciocca, vedendo che tutti ridevano verso di me. Mio padre, sorridendo anch’esso, rispose: – Sarai
nobile se sarai virtuoso. – Ed io non cercai più in là.
Non cercai più in là, come dico, per un pezzo: ed anzi non so perché m’era sempre stato antipatico quel
nostro nome di Taparelli, e sempre mi son fatto chiamare e firmato Azeglio. Ora, tre mesi sono, in una
triste occasione per la famiglia – la morte del mio fratello maggiore Roberto – ebbi ad esaminare carte e
documenti nostri, e così la mia erudizione archeologica sulla storia di casa mia ha potuto spingersi nel
passato più indietro di mio nonno, punto che finora non avevo potuto mai superare.
Il proposito di contribuire a formare gli Italiani D’Azeglio lo persegue prendendo come esempio se
stesso (a cui riserva, via via, una simpatica ironia, se pure venata di compiacimento) in quanto oggetto di una educazione di cui sottolinea la strategia efficace, fatta di una fermezza tutta piemontese,
e non solo. Per lui, il carattere è determinato innanzitutto da tre elementi cioè l’ubbidienza, che per
D’Azeglio sta alla base della libertà, l’autorità legale, la fortezza della volontà, che vuol dire tenacia
ma anche spirito di sacrificio e capacità di sopportare. In senso fisico e morale.
La madre e il padre, in modo diverso, sono stati gli artefici di questa educazione: a tal proposito
D’Azeglio si diffonde in alcuni episodi gustosissimi: le pubbliche scuse al servitore che la madre gli
impone, le punizioni inflitte ai ritardatari, le regole che presiedono alle passeggiate e la stoica sopportazione della rottura del braccio, dissimulata per risparmiare spaventi alla madre, la cui figura
idolatrata campeggerà nella vita di D’Azeglio.
Essa poteva poco occuparsi di noi, e poco contribuire alla nostra istruzione; ma per fortuna nostra poté
una tal madre, allora come sempre, procurarci, sia col precetto, sia coll’esempio, un tesoro più importante
della istruzione: l’educazione del cuore, la buona direzione degli affetti e dei sentimenti.
Essa non meno del marito avea troppo retto giudizio per cadere nell’errore così comune ai parenti educatori; di pensare non al meglio dei figliuoli, ma al proprio comodo ed alla propria vanità. Io non subii
mai nessuna di quelle domestiche torture alle quali l’amor proprio delle mamme in ispecie, condanna così
spesso i poveri bambini destinati alla laboriosa carriera d’enfant prodige.
Salvo quei pochi versi, d’Ossian per lo più, che imparavo volentieri in vista del torrone domenicale, non
mi ricordo mai d’essere stato costretto a declamare nulla alle visite che venivano a trovare i miei parenti.
10 Su questo punto potremmo ricordare Manzoni, come si rallegra con Fauriel del fatto che la sua futura sposa sia
una borghese senza titoli nobiliari.
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Di più, non ebbi mai nessuna di quelle incomode toilette di Highlander, di Zuavo, e simili; non portai mai
cappellini di gusto, né stivaletti eleganti. Oltre a ciò, mai da mio padre o mia madre, mi vidi ammirato,
né mi sentii dire: quanto sei bellino! quanto sei carino! e però (ora col muso che ho posso dirlo) credo
che lo ero; e difatti mi ricordo (tanto i ragazzi badano alle parole più di quel che pare) che gli estranei mi
dicevano cento belle cose e mi mangiavano dai baci e dalle carezze; ed io me ne tenevo.
Ma i miei volevano per prima cosa far di me un uomo, e sapevano che l’educazione deve cominciar colla
vita; essere, per dir così piccina quando siam piccini, e grande quando siamo grandi; sapevano che i veri
germi dell’uomo futuro stanno nelle prime impressioni dell’infanzia; sapevano finalmente che le adulazioni e gli eccitamenti all’orgoglio, alla vanità possono pe’ parenti essere un malaccorto sfogo di tenerezza,
ma pe’ figliuoli divengono una pessima lezione ed un pessimo regalo. Né ignoravano che tutti siamo d’una
stoffa nella quale la prima piega non scompare mai più.
Essi perciò non m’ammiravano né m’adulavano, onde non rendermi vano e presuntuoso; non mi mettevano attorno tante gale, onde non dar esca alla più sciocca delle pretensioni, per un uomo in ispecie, il
pretendere in bellezza. Neppure m’ammollivano o m’intimorivano con troppi: – Bada! sta’ attento! puoi
cadere, puoi farti male! – e, se cadevo e davo qualche capata, non si mostravan turbati, né si mettevano in
tante compassioni; mi dicevano, non però duramente, ma sorridendo affettuosi: – via, via, non sarà nulla
–. Un giorno che mi feci una scalfittura e che piangevo, mi ricordo benissimo mia madre mi disse: – Bada!
se se n’accorgono le budella vorranno scappar di lí! – Io, a vedermi burlato, presi cappello e finì il pianto,
vinto dal dispetto.
In una parola, lo scopo de’ miei era d’avvezzarmi alla vita quale veramente si presenta poi nel corso degli
anni successivi. E quest’avvezzarsi consiste tutto nell’acquistare la forza del sagrificio, nell’imparare a
soffrire.
E, in verità, se le colpe della tenerezza non fossero pur care e simpatiche colpe, si dovrebbe muovere
terribili rimproveri a quei parenti che pensano bensì ad avvezzare i loro figliuoli al caldo, al freddo, all’intemperie, ecc., perché sanno che inevitabilmente dovranno esporsi in appresso a soli ardenti, a nevi, a
piogge, ecc.; e poi, non potendo ignorare che i figli saranno esposti egualmente a delusioni, a sventure, alle
inesorabili esigenze dell’onore e del dovere, non pensano ad avvezzarli a soffrire!
E si dovrebbe pur riflettere che il diritto naturale esiste anche pei bambini; e che è loro diritto di non essere
né corrotti, né ingannati, né fuorviati.
Essi hanno diritto di non essere sagrificati ad inopportune e dannose tenerezze. Hanno diritto d’essere
avviati nel modo più breve e più certo verso quel benessere morale e materiale che, per dir così, è il loro
capitale, il loro avere su questa terra, e che tengono direttamente dalla bontà della Provvidenza.
E non v’è bene possibile se l’uomo non è avvezzo a soffrire come ad ubbidire, quando il dovere o la necessità lo impongono.
Ora, quali sono i primi, i maggiori dei beni? Essere uomo onesto, ed uomo libero. Pel primo, conviene ubbidire alla legge morale; pel secondo, ubbidire alla legge politica e civile. Può egli farsi ciò senza sagrificio,
senza più o meno soffrire?
So bene che pur troppo in Italia ora, non tutti accettano in pratica la mia definizione: la libertà stare
nell’ubbidienza. C’è invece nell’aria l’idea opposta, che la libertà sta nel disubbidire a tutte le leggi. Fino
ad un certo punto sono da compatire. Ai lunghi ed odiosi despotismi passati, doveva succedere una violenta reazione. Ma il cadere d’un arbitrio in un altro non risolve il problema, e non si sarà né liberi, né
forti, né indipendenti, finché invece dell’arbitrio d’uno o di molti, non regni la legge.
Le basi di questa virile ubbidienza debbono però essere posate nella prima educazione. I bambini, per
legge di natura, debbon formarsi per autorità e non per libero esame. Sfido un padre, e più una madre a
poter rispondere a tutti i perché dei figliuoli altrimenti che colla frase: perché lo dico io!
Inoltre quest’autorità dev’essere appoggiata nel cervellino del bimbo ad una stima ed un rispetto profondo pe’ parenti. È quindi una ragazzata quanto un’idea falsa messa in capo ai fanciulli, quel trattamento
alla pari, quel darsi di tu, fra padri e figliuoli; quel lasciarli metter bocca a tutto, e di tutto lasciarsi domandar ragione.
Tra l’uomo ed il bambino, tra il padre e il figliuolo non esiste parità e se le relazioni tra loro la rappresentino, esse sono una bugia.
Ma anche qui, l’antico despotismo e la nuova licenza in materia d’educazione, furono causa ed effetto
come in politica. Si verrà, coll’esperienza, ad una via ragionevole? Speriamolo.
Questa via, i miei l’avevano quasi trovata, a parer mio. Ora spiegherò questo quasi.
Malgrado la venerazione profonda che io professo per mio padre, credo però mi sia permesso di esporre
rispettosamente i miei dubbi su alcuni suoi atti e alcune sue opinioni. Penso altresí che s’io tacessi ogni
critica, non mi si presterebbe gran fede quando io lodo.
Dirò dunque che nel seguire con noi l’ottimo sistema dell’autorità, talvolta la sua natura subitanea ed
impetuosa lo trasportava; ciò unito a quella continua diffidenza che provava, come dicemmo, del proprio
cuore, lo faceva traboccare nell’estremo opposto, e forse era, a momenti, duro oltre misura. Ma anche
questo suo difetto lo benedico. Meglio cento volte quella passeggera durezza, che il suo contrario.
In ogni genere ed in ogni caso il governo debole è il peggiore di tutti.
Questi erano i principî che guidavano i miei parenti nell’educarci. Alcuni aneddoti li mostreranno all’atto.
Com’è naturale, narro inezie da fanciulli. Ma non è un’inezia, anzi la più importante come la più difficile
delle imprese l’avviarli bene sin dal principio; e se questo scritto potesse non essere inutile affatto ad un
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tale scopo per chi ci segue, il mio desiderio più caldo sarebbe appagato.
La distribuzione delle occupazioni nella giornata era regolata per Metilde e per me da un ordine del giorno scritto che non si violava impunemente. Così ci avvezzavamo all’ordine, al non far aspettar nessuno per
nostro comodo; difetto dei più fastidiosi nei più piccoli come nei grandi.
Mi ricordo un giorno che Metilde, uscita in compagnia della signora Teresina, si fece aspettare ed arrivò a
pranzo già bene inoltrato. Era d’inverno e nevicava. Le due delinquenti sedettero un po’ confuse, e venne
loro portata la minestra in due scodelle tenute in caldo, indovini dove? Sul terrazzino! non solo erano a
zero Réaumur; ma avevano inoltre per coperta un dito di neve!
A tavola, ben inteso, sí lei che io, non s’apriva bocca, aspettando la grazia di Dio senza diritto né di petizione né di osservazione. Quanto allo star con convenienza, pulizia, non far strepito colla bocca né farsi
altrimenti sentire, sapevamo che ogni contravvenzione ci conduceva prestissimo al bando per lo meno.
Ogni nostro studio era dunque dissimulare la nostra presenza; e le prometto che con questo metodo non
ci veniva davvero in capo di crederci noi il centro, ed il resto del mondo la circonferenza; idea che a forza
di scioccherie, di smorfie e d’adulazioni, vien da tanti fitta, direi, per forza in que’ poveri cervellini, che
lasciati alla semplicità loro naturale, si sarebbero mantenuti ragionevoli.
Le lezioni di galateo non erano soltanto pel tempo del pranzo. Era proibito per noi, anche fuori l’alzar la
voce, l’interrompere; e proibitissimo metterci addosso le mani scambievolmente sotto verun pretesto. Se
poi talvolta nell’andare a tavola io mi cacciavo innanzi a Metilde, mio padre, presomi per un braccio, mi
rimetteva alla coda del corteggio dicendomi: – Non c’è ragione d’essere incivile perché è tua sorella.
La vecchia generazione in molte province d’Italia ha l’abito d’urlare come se l’interlocutore fosse sordo,
d’interromperlo come se non avesse anch’esso la parola e di picchiarlo in vari luoghi e forme come se non
vi fosse altro modo di maneggiarlo, salvo le pene corporali. Non mi si dica dunque che il regolamento di
casa mia era una sofisticheria superflua, ed utinam potesse diventare legge universale del regno.
In un’altra occasione l’ottima mia madre mi diede una lezione relativamente al credermi qualche gran
cosa, che non iscordo, come non dimentico il luogo dove accadde. Nel gran prato delle Cascine, che ha
nel mezzo il quercione e dove si facevano le corse, entrando a diritta dal parterre del Piazzone, c’è un sentiero lungo il bosco. Ero nell’angolo appena entrati, con mia madre, seguiti da un altro vecchio servitore
concittadino di Pilade, benché meno eroe di lui, pure buonissimo uomo. Non mi ricordo il motivo, bensí
alzai una piccola canna che avevo in mano e credo (Dio mel perdoni) che lo percossi.
Mia madre, alla vista dei passeggianti che ci attorniavano, mi costrinse a mettermi in ginocchio ai suoi piedi
e domandargli perdono. Ho ancora presente il levarsi il cappello e la fisionomia costernata del povero Giacolin, che non si poteva capacitare di vedersi davanti inginocchiato il cavalier Massimo Taparelli d’Azeglio.
Non temere il dolore era un’altra delle lezioni che più assiduamente ci dava nostro padre, ed al precetto
sempre, venendo l’occasione, aggiunse l’esempio. Se ci accadeva lagnarci di qualche dolore, diceva un po’
in ischerzo, ma in fondo anco seriamente quanto al senso: – Un Piemontese dopo che ha gambe e braccia
rotte e due stoccate a traverso al corpo, allora, e non prima, può dire: «Veramente… sí… non mi pare di
sentirmi proprio bene».
Tanta era poi l’autorità morale che aveva saputo acquistare sull’animo mio, che non vi sarebbe stato mai
caso ch’io non l’ubbidissi in tutto, mi avesse pur detto di saltar da una finestra.
Mi ricordo del primo dente che mi fece cavare; che nell’andar dal Campani in piazza del Granduca, di
dentro mi sentivo morire e di fuori facevo il bravo e mi sforzavo di mostrarmi indifferente.
Si presentò poi un’occasione più grave di mettere alla prova la mia fermezzina da bambino ed altrettanto,
come si vedrà, quella di mio padre. Egli aveva preso a pigione una villetta ad un tiro di schioppo da San
Domenico di Fiesole, sulla diritta volgendosi al monte, detta Villa Billi.
Due anni sono v’andai ed ancora vi trovai la stessa famiglia di contadini e i due ragazzi miei compagni e
coetanei d’allora, Nando e Sandro, barbogi più di me, e ci facemmo festa proprio di cuore.
Stando in questa villa, era costume di nostro padre di farci far lunghe passeggiate che venivano regolate
da una speciale legislazione. Severamente proibito di domandare: «quante miglia abbiamo ancora? che
ora è?» Di dire: «ho sete, ho fame, sono stanco,» e, del resto, libertà piena d’atti e di parole.
S’era un giorno sul tornare da una di queste gite, e ci trovavamo sotto Castel di Poggio, venendo verso
Vincigliata per sassi e scoscendimenti.
Io m’era colto un gran mazzo di ginestre ed altri fiori, avevo in mano un bastone, m’avviluppai non so
come e caddi malamente. Corse mio padre, mi rialzò, cercommi nella persona e, visto che mi dolevo d’un
braccio, lo mise a nudo e trovò che un poco deviava dalla linea diritta; e difatti m’ero rotto l’ulna, una
delle due ossa dell’antibraccio.
Io che lo fissavo in viso, lo vidi come trasmutarsi e prendere un’espressione di così viva e tenera sollecitudine, che proprio non mi parve più lo stess’uomo. M’acconciò il meglio che potette il braccio al collo,
e poi si riprese la via di casa. Passati alcuni minuti, durante i quali era potuto tornare nella natura sua
solita, mi disse:
«Senti, Mammolino, tua madre sta poco bene. A vedere che ti sei fatto male, si potrebbe rimescolare.
Bisogna, figliuol mio, che ti faccia forza. Domattina anderemo a Firenze, e ti si farà quel che occorre; ma
per stasera non bisogna che mostri d’aver male. Hai inteso?»
Tutto questo me lo disse con la solita fermezza, ma con grandissimo affetto, ed a me non parve vero d’aver
un incarico importante e difficile da condurre a buon fine; e difatti me ne stetti tutta la sera rincantucciato,
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tenendomi il mio braccino rotto il meglio che potevo, e mia madre mi credette stanco della lunga passeggiata e non s’accorse di nulla.
L’indomani condotto a Firenze, fu messo in ordine il braccio. Ma per guarir bene dovetti andar poi ai
fanghi di Vinadio pochi anni dopo.
Forse ora dirà qualcuno che mio padre era un barbaro?
Io mi ricordo di quel fatto come se fosse ora, e mi ricordo che nemmeno per ombra mi venne in capo di
trovarlo tale. Ero stato invece così felice dell’indicibile tenerezza che gli avevo veduta dipinta in viso, e d’altra parte trovavo così ragionevole che non s’avesse a sgomentare mia madre, che presi il difficile comando
come una bella occasione di farmi onore.
E tutto ciò perché non ero guastato, e mi s’era già messo in cuore qualche poco di buon fondamento. Ed
ora che son vecchio e che ho veduto il mondo, benedico la severa fermezza di mio padre: e vorrei i bimbi
italiani d’ora ne avessero ognuno un simile e ne profittassero più di me; fra trenta anni l’Italia sarebbe la
prima delle nazioni. E poi, se ne persuadano, i bimbi sanno ben distinguere più che non sembra, e nella
severità giusta ma affettuosa non vedon mai nulla d’ostile. Li ho sempre trovati invece disposti a preferire
chi li tiene in riga, a quelli che le dan loro tutte vinte; e i soldati hanno lo stesso umore. Di più; ecco una
prova se mio padre meritasse d’esser tenuto barbaro. Egli credeva che non fosse bene svegliare a un tratto
i fanciulli, rompendo i loro sonni in modo brusco.
Quando s’aveva ad alzarsi presto per qualche partenza, egli veniva accanto al mio lettuccio e cominciava
a cantare una canzoncina, ancora l’ho negli orecchi, che diceva:
«Chi vuol veder l’aurora
lasci le molli piume».
E così a poco a poco, alzando sempre più la voce, mi trovavo sveglio senza il minimo sussulto. E difatti,
malgrado la sua severità, io gli volevo un bene che lo sa Iddio.
Nelle pagine vivaci che abbiamo letto, sarà interessante notare, oltre alla pedagogia della severità e
dell’affetto, l’intreccio fra il tema dell’educazione del fanciullo e di quella del popolo; il riferimento
alla contemporaneità e la polemica contro la mollezza dei costumi attuali; il riferimento anche allo
“stoicismo piemontese” come esempio da seguire [Alcuni tratti di questo padre, compresa l’etica
della montagna, ci possono ricordare il Lessico familiare di Natalia Ginzburg, e i racconti di Levi].
La virtù militare non è assente da questo quadro, e si incarna nella fedeltà del padre al re di Sardegna. Ma al momento in cui scrive D’Azeglio, paragonando l’Europa a un grande edificio fatto di
molti appartamenti con diversi inquilini, vede nella pubblica istruzione e nell’educazione un mezzo
per giungere il più vicino possibile a una condizione di pace generale.
Ma attenzione: nella sua esperienza, è la famiglia, ed è poi la sua personale esperienza di vita, ad
avergli assicurato la fortezza e l’ubbidienza che egli ritiene essenziali. Di contro la scuola dei gesuiti
che egli frequentò viene liquidata con poche osservazioni come luogo all’insegna dell’ignoranza,
dell’inutilità e dell’ingiusto privilegio accordatogli, nella sua qualità di nobile (vedi l’episodio di un
compito d’esame di greco che gli viene “passato” dall’insegnante).
Per quanto riguarda i contenuti, è l’insistenza della scuola sulla classicità a suscitare il fastidio
di D’Azeglio, che opterebbe piuttosto – con Cavour e con Manzoni – per le discipline moderne
(dall’inglese alla storia moderna). E che, da vero moderato, accusa la letteratura classicheggiante (a
cominciare dall’Alfieri) di insinuare idee tirannicide nei giovani. Come Felice Orsini, l’attentatore
di Napoleone III.
Luigi Settembrini (Le ricordanze della mia vita): l’esperienza di collegio
Se ci spostiamo a sud, a Napoli, poco più tardi (ma quindici anni di differenza sono comunque significativi), troviamo nelle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (1813-1876; il memoriale,
che raccoglie molte pagine di diario, fu interrotto dalla morte), patriota democratico, il racconto di
una esperienza familiare che, molto differente da quella di D’Azeglio per quanto riguarda il contesto e la classe sociale, è tuttavia, per certi aspetti, paragonabile.
Innanzitutto per l’autorità che vi assume la figura del padre: “l’amore che io avevo ai libri mi era
stato istillato nell’animo dal caro e benedetto padre mio” dice di sé, tributando al padre il merito della sua prima educazione, tanto intellettuale quanto patriottica (il padre aveva partecipato
all’esperienza della Repubblica partenopea, e aveva preceduto il figlio – e il nipote Raffaele – nelle
carceri borboniche).
Ma mentre D’Azeglio ripercorrendo il passato può vantare una lunga giovinezza, fatta di viaggi e
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di apprendistato (e poi una brillantissima carriera politica, oltreché molteplici interessi e successi
artistici e letterari), la vicenda di Settembrini, di buona famiglia ma tenuto a guadagnarsi il pane, è
legata in primo luogo alla sua formazione, poi all’attività politica e è segnata dal lungo soggiorno
in carcere (che rende così interessante la seconda parte delle sue ricordanze).
Anche per lui, che è accesamente anticlericale, assai negativa è l’esperienza del collegio:
Il collegio di Maddaloni passava per uno dei migliori del regno, ma era come gli altri: una prigione d’un
centinaio di fanciulli che stanno inginocchiati o seduti la maggior parte del giorno ed apprendono dottrina cristiana e lingua latina. Un prefetto, prete ignorante e villano, educa e guida una ventina di quelle
creature, che imparano a temere e odiare quel loro tiranno, il quale sta sempre col viso arcigno e pronto
a scoccare il castigo. Non hanno più le guance incarnate, e quasi non sanno più muoversi, perché dentro stanno inchiodati su le seggiole, e se escono vanno in fila con gli occhi bassi: recitano sempre rosari,
litanie, angelus, e con lo stesso tuono anche le lezioni di scuola. Educare lì non è altro che spezzare ogni
volontà nei giovinetti, non farli ragionare mai, ridurli a stupida e fratesca obbedienza. Imparano cose
inutili, e non amano lo studio donde non traggono alcuna dolcezza; escono di collegio ignoranti ed increduli per istizza.
A mio padre scrivevo le più nuove e lunghe lettere, gli parlavo della caducità delle cose umane, delle false
promesse del mondo, e ad ogni paio di versi un passo della Bibbia: infine una volta gli scrissi che sentivo la
vocazione di farmi frate, e lo pregavo di mettermi in un monastero. Mio padre mi lasciò dire: io replicavo:
infine mi rispose secco secco: “Va bene, studia per ora, e quando avrai diciotto anni ne riparleremo”. A
queste parole io risposi con una lettera che cominciava “Jesus, Maria, Joseph” e finiva “Vostro figliuolo
nella carne Luigi”. “No, padre mio, subito, subito, si tratta dell’anima, et periculum est in mora. È vocazione, Dominus vocavit, auscultabo. Io mi ritirerò dal mondo in un deserto, e farò penitenza dei peccati
miei, e anche dei vostri, o padre mio”.
Immaginate come si turbò mio padre a leggere che io volevo far penitenza anche dei peccati suoi! Corse
al collegio, mi fece passare in un’altra camerata e dividere dal De Silva, e a me non disse altro se non:
“Attendi ad essere uomo, e non scrivere sciocchezze”. Io credetti di essere un martire, e raddoppiai fervori
e paternostri. Il De Silva ed io ci scrivevamo epistole che i compagni di scuola ci recavano. Egli spesso mi
mandava epigrammi ed odi latine in onore di certi santi che io non so donde li cavava; ed io che non era
sì forte nei versi latini, per non parere da meno, scrivevo oremus, e dei buoni, lunghi, sonanti, con infine
l’omnia saecula saeculorum, e li raccolsi tutti in un libretto che doveva essere un volume delle Opera omnia.
Seguitavo intanto a sermonare scrivendo a mio padre, il quale vedendomi incaponito in quella fantasia di
farmi frate, per non perdermi e per altre sue buone ragioni, ritirò me e mio fratello Peppino dal collegio
sul finire dell’anno 1826.
(da Ricordanze della mia vita, parte I, cap. Il collegio)
“In un balen, feconde/venner le carte”: scuole pubbliche e private
A Napoli, i giovani convergono nella capitale per studiare all’università. Il clima è molto vivace:
all’improvviso, si riscoprono la cultura la letteratura e le scienze “nazionali”, italiane. Vengono
proscritte le cose straniere, e questa battaglia culturale, che può colorirsi di qualcosa di gretto, diventa invece un modo per esprimere una battaglia politica.
Questo sentimento in Napoli si manifestava più particolarmente per quattro vie, che parevano diverse,
e pure menavano a lo stesso fine. Si manifestava nella lingua, che Basilio Puoti a capo della sua scuola
diceva dover essere schiettamente italiana ed antica; nella filosofia, che Pasquale Galluppi rivendicava
all’Italia ormai stucca delle basse ciarlatanerie francesi; nelle frequenti cospirazioni dirette da Carlo Poerio, le quali miravano tutte a rifare l’Italia libera ed indipendente dallo straniero e nelle opere dello stesso
re Ferdinando, il quale non voleva armi tedesche né consigli di Francia, favoriva le arti nel regno per non
aver bisogno dell’Inghilterra, e volle piuttosto non avere ferrovie che averle fatte con capitali forestieri.
Questo abborrimento d’ogni cosa forestiera, questo napolitanismo gretto e pettegolo era pure un sentimento nazionale rappiccolito, così che il regno acquistò una certa personalità che prima non avea.
Io dunque vedevo intorno a me un gran muoversi ed ordinarsi di soldati, assistevo a gran dispute di scolari
nelle cose della filosofia e della lingua; udivo un gran parlare di avvenimenti politici, un chiedere e dare
novelle, e sentivo che una febbre politica faceva battere molti cuori come il mio.
Dopo il 1830 nacque una nidiata di giornali, che sebbene parlassero di sole cose letterarie, e dicessero
quello che potevan dire, pure ei si facevano intendere, erano pieni di vita e di brio, e toccavano quella
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corda che in tutti rispondeva. Era moda parlare d’Italia in ogni scritturella, si intende già l’Italia dei letterati: e sebbene molti avessero la sacra parola pure al sommo della bocca, nondimeno molti altri l’avevano
in cuore. Si leggeva con ardore le istorie del Botta, e si attendeva quella del Colletta, non v’era chi non
parlasse delle Prigioni del Pellico, ogni giovanotto sapeva a mente le poesie del Berchet: tutti palpitavano
a leggere l’Ettore Fieramosca del D’Azeglio; gli artisti rappresentavano in diverso modo il campione d’Italia, e chi amava le armi si faceva bello di possedere lame di spade e di pugnali su cui era scritto il giorno
e l’ora del duello di Barletta. Di Dante non vi dico nulla: era l’idolo degli studiosi: egli rappresenta la
grande idea della nostra nazionalità, egli il pensiero, l’ingegno, la gloria, la lingua d’Italia. Ci era un altro
idolo per la moltitudine. Fino allora era stato peccato mortale il pur nominare Napoleone, e di soppiatto
girava un libretto intitolato Il prigioniero di Sant’Elena, e di rincontro al frontespizio era un paesaggio, e
tra due alberi lo spazio bianco figurava il ritratto di Napoleone, che a prima vista non si discerneva. Allora
fu tolto l’interdetto, e di Napoleone si poté parlare, e scrivere, e dirlo italiano, e averne ritratti, e ognuno ne
volle in casa sua un’immagine di gesso, o a stampa, o dipinta. Si ricordava che quell’uomo aveva operato
meraviglie, schiacciata l’Austria, dato a noi nuovo codice e principe non codardo; vivevano ancora molti
che avevano combattuto le battaglie dell’impero, e le raccontavano; sicché i giornalisti non rifinivano mai
di scriverne, e Cesare Malpica aveva quasi una monomania napoleonica, e sciorinava una serie di descrizioni di quelle grandi battaglie. Né questo scrivere guerresco dava ombra, anzi piaceva al Re, che si teneva
un napoleoncino, e lasciava se ne sfogassero dopo tanti anni di silenzio, essendo già passato il pericolo,
Napoleone morto da un pezzo, e gli scrittori non altro che parolai. Gli uomini di più tempo e cognizioni
scrivevano nel Progresso, opera periodica nella quale rimane una parte del nostro sapere in quegli anni.
Il ministro Santangelo faceva scrivere gli Annali Civili, opera non ispregevole, ma scritta da uomini che
piegavano la scienza alla volontà del governo. In molte città di provincia si scrivevano altri giornali. La
sostanza di tutte quelle scritture era poca e magra, ma in mezzo alle cose anche frivole appariva di tanto
in tanto un lampo di amor patrio, un gran pensiero che non poteva spiegarsi intero nella sua forma perché
mancava la libertà, e veniva fuori a squarci ed a pezzi.
Settembrini ricostruisce il clima ardente di quel periodo, le discussioni animate e i miti, tra cui
Dante e Napoleone, ormai assimilato come italiano (che invece D’Azeglio aborre).
È anche questo il momento in cui Settembrini e l’amico Musolino fondano a Napoli – trovandosi
soli in due – la Giovine Italia.
“Ma voi eravate veramente pazzi!” Sì, ma senza quei pazzi non ci sarebbe l’Italia ora; senza quella fede,
quella febbre ardente, e quell’entusiasmo, i savi discuterebbero ancora e non avrebbero fatto nulla. Ci volevano i pazzi ed i savi, come in tutte le cose grandi ci vuole l’ardire ed il senno: ma al cominciare ci vogliono
sempre i pazzi. Ma lasciatemi considerare un po’ la ragione di quella pazzia.
L’unità d’Italia fu sempre antico e continuo desiderio di tutti gli Italiani intelligenti e generosi. Dante
voleva l’unità del mondo con a capo l’Italia.
Le istituzioni pubbliche, le università offrono scarso cibo ai giovani, panorama di intelligenze destinate a perdersi a causa:
a) dello scarso interesse delle cose insegnate;
b) della mancanza di costanza, ordine e disciplina, non “per colpa loro, ma per quell’educazione fratesca che storpia l’anima e il corpo”.
Viceversa, è l’insegnamento privato che, in questo momento, offre una sponda alla libertà intellettuale:
L’università di Napoli è stata sempre una grande scuola gratuita di studi professionali, dove gli studenti
sono liberissimi di entrare e di uscire o di non andarvi affatto; e pochissimi ci vanno. Chiunque si presentava, e pagava la tassa, e faceva gli esami ed era approvato, aveva il suo diploma. Il governo ebbe sempre
paura di ragunare in un solo luogo le molte migliaia di giovani che da tutto il regno convenivano in Napoli
a studiare, e però non li obbligava ad assistere ai corsi, e li lasciava sparpagliare nelle scuole private, e teneva l’università come a pompa, perché c’era stata sempre, e non altro che un’officina da sfornare dottori.
Questo produceva un male, ed un bene. Il male era che i giovani non si conoscevano né s’affratellavano fra
loro; i professori per la rarità degli scolari si svogliavano benché valenti, e se togli qualcuno di molto grido,
gli altri leggevano ai banchi; l’università non ebbe gran nome. Il bene, che a mio credere avanzava il male,
era che l’insegnamento era liberissimo; la scienza non s’imparava dal professore ufficiale che insegnava
come volevano i superiori, ma da maestri privati che in casa loro insegnavano come volevano: metodo,
libri, sistema, ognuno aveva il suo, e i giovani correvano dai migliori e di maggior grido. Ma i più utili tra
questi professori privati erano quelli che avevano pochi scolari, coi quali pigliavano dimestichezza e affezione, e però insegnavano liberamente e senza paura, e quasi in conversazione amichevole. Molti valenti
uomini trascurati o mal visti dal governo fecero i professori privati, educando i giovani a nobili sensi: ed
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uno di essi diceva: “Mi perseguiti pure il governo, purché mi lasci insegnare, che io insegnando gli fo la
maggiore guerra, formo voi altri giovani che un giorno sarete colti, onesti, generosi, e suoi nemici.” È vero
che per insegnare ci voleva il permesso della polizia, ma zitto zitto se ne faceva anche senza per un otto o
dieci giovani che non parevano. Questo libero insegnamento ci ha salvati dall’ultima servitù, dalla servitù
del pensiero, ed ha favorito l’educazione dei grandi e liberi pensatori che noi avemmo in ogni tempo.
Pienamente concorde è la testimonianza di Francesco De Sanctis, [di poco più anziano di Settembrini (1817-1883), campano dell’entroterra – Morra Irpina, provincia di Avellino –, famiglia di piccoli proprietari], tratta dal bellissimo discorso L’ultimo dei puristi, scritto nel 1868, e poi raccolto
nei Saggi critici:
Allora non ci erano regolamenti d’istruzione pubblica e non programmi; esami per cerimonia: d’italiano
punto; né la laurea era necessaria a professare.
La divisa del governo in fatto d’istruzione era questa: non incaricarsene; per lunga rilassatezza alcuni
pochi regolamenti erano andati in disuso; monsignor Colangelo, presidente dell’Università, di una sola
cosa si mostrava sollecito, che gli studenti andassero alla Congregazione; quanto al resto, lasciava correr
l’acqua per la china, e a chi faceva atto di zelo soleva dire: non te ne incaricare. Mi ricordo. Professore del
Collegio militare, un giorno mi sfogava col cappellano, e gli mostravo cosa ci era da fare per raddirizzare
gli studi. Colui sentì, sentì: poi tutt’a un tratto mi prese per mano e disse: senti un consiglio d’amico, non
te ne incaricare: il Re dice: più asini sono loro e più dotto sono io. Due anni dopo lo spiritoso cappellano
fu nominato vescovo.
Con questo sistema si riuscì a imbarbarire le classi inferiori; ma, quanto alla borghesia, l’effetto sortì contrario alle speranze. Riunendosi da quindici a ventimila studenti in Napoli, capitale alla francese, dov’erano condensate tutte le forze intellettuali del paese, meno il governo se ne incaricava, e più queste forze
operavano e producevano. Essendo la laurea non necessaria e non difficile ad ottenere, e gli esami punto
severi, in tanto concorso e gara di gioventù si sviluppò il desiderio disinteressato della coltura, l’amore
della scienza per la scienza. Le scuole private, quando son considerate come succursali o appendici delle
pubbliche, o come oggi si dice, pareggiate; ed hanno per fine le ripetizioni o la preparazione agli esami, si
guastano e si corrompono. A quel tempo le scuole private erano padrone del campo, rifuggitosi da tutto
ciò che ci era di vivo e di nuovo nella coltura nazionale.
La scuola di Basilio Puoti, purista impegnato nella ricerca e nel vaglio di una lingua che attingesse
alle fonti della tradizione (cioè agli scrittori antichi, da quelli trecenteschi, fino al Machiavelli),
rappresenta le forze del progresso. Nel brano di De Sanctis che segue, questa parola è ripetuta più
volte. Può sembrare perfino paradossale che il progresso si rifugi sotto le ali di un così accanito
laudator temporis acti, ma la contraddizione è solo apparente. La spiega bene Settembrini dicendo:
quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria
e di tutto[...]
parecchi valenti uomini si diedero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché
la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancor credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale[...]
Una volta [il Puoti] mi disse: “Pare piccola cosa quella che io fo, ma quando sarò morto la intenderete.
Se io vi dico di scrivere la vera lingua d’Italia, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente, e avere in cuore
la patria nostra…”.
(L. Settembrini, cap. VII, L’università)
E indietro indietro, ecco mi trovo in sullo scorcio del terzo decennio di questo secolo, quando gli uomini
del ’21 erano già la generazione che passa, e sorgevamo noi altri, giovanotti dai quindici a’ venti anni, la
nuova generazione; i predestinati del ’48 e del ’60.
Migliaia di giovani dalle provincie piombavano ogni anno in Napoli, ed eran chiamati dal popolo gli
studenti, ed anche i calabresi. Venivano da’ seminarii, portandosi appresso come trofei i libri imparati, il
padre Soave, l’abate Troisi; il Portoreale, 1’Eineccio, la geometria di Euclide, la Storia greca e romana di
Goldsmith, Tasso e Metastasio; venivano in Napoli per compiere gli studi, come dicevano, ed imparare la
professione. Napoli era la città del sole, il faro che dovea guidarli alla gloria, il progresso.
Ed il progresso era allora incarnato in un uomo, nel marchese Puoti. Di scuole pubbliche ci era appena
il nome, l’Università era deserta; insegnava lettere italiane un tal canonico Bianchi, il quale pagava egli i
due o tre suoi studenti; di lettere latine era maestro Lucignano, e di diritto di natura un abate Cuti; Manfrè
rappresentava la medicina, e Pugnetti la giurisprudenza; Galluppi e Nicolini non erano ancora venuti su. I
tempi sospettosi: impossibile ogni libertà di pensiero; inceppato ogni movimento letterario o scientifico; il
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progresso erasi andato a rifuggire sotto quest’umile insegna: Scuola di lingua italiana del marchese Puoti.
Ma non importa che il progresso pigli questa o quella forma anche la più umile e la più innocua: ci è sempre sotto esso e tutto esso. La nuova generazione per potere sviluppar le sue forze ha bisogno di trovare
innanzi a se un passato da combattere, un avvenire da conquistare. Allora il passato si chiamava il seminario, l’istruzione provinciale; il progresso si chiamava il purismo, la scuola di Basilio Puoti. Questo santo
nome, che i Napolitani ricorderanno sempre con riverenza, era la bandiera intorno a cui si raccoglieva la
gioventù, e questo nome significava libertà, scienza, progresso, emancipazione, lotta contro il seminario,
aspirazioni ancora indistinte a nuove idee, a nuova civiltà. I1 purismo fu il primo atto di questo gran
dramma compiuto al ’60; il primo segno di vita che dava di sé la nuova generazione volgendo le spalle al
seminario.
È superfluo notare che di tutte queste grandi conseguenze e di questi profondi significati non ne sapeva
nulla nè il marchese Puoti, né la gioventù, né la polizia. Vi era lì tutta una rivoluzione ignorata e dagli
attori e dagli spettatori e dalle vittime. E rivoluzioni siffatte sono le meno reprimibili e le più efficaci.
(F. De Sanctis, L’ultimo dei puristi)
Quello che qualifica davvero la scuola del Puoti è il metodo a dir poco rivoluzionario. Il saggio di
De Sanctis descrive con grande chiarezza e in modo assai diffuso il sistema di questo maestro, che
maestro non si vuol far chiamare (così come i suoi studenti non sono discepoli, ma collaboratori),
e della sua rivoluzione morale. È il dialogo didattico il veicolo delle conoscenze e dello spazio di
libertà. Quali sono i suoi segreti?
a) l’amore per i giovani;
b) il rispetto del loro giudizio;
c) la cortesia di modi che “rendeva tollerabili anche i giudizi più severi”, poiché “le lettere
servono a ingentilire l’animo”;
d) il fatto che “i principali attori erano i giovani”, resi protagonisti;
e) il rifuggire da discorsi o lezioni cattedratiche: il maestro parlava “alla buona”, intervenendo con esempi, riservandosi le conclusioni, dopo aver dato spazio alla discussione e ai
punti di vista; egli si considera socraticamente la levatrice. “Il miglior maestro è quello che
pensi meno a comparir lui e lasci fare ai giovani, dissimulando la sua opera e creando in
loro questa illusione che quello che imparano sono loro stessi che l’hanno trovato”;
f) la correzione assai diligente;
g) la gradualità nelle letture e negli studi, ma anche l’“assiduo lavorare”.
Riferendo di questo metodo, De Sanctis, che successivamente si è allontanato molto dai contenuti del
Puoti, eleva un altissimo elogio al suo maestro, alla ventata di rinnovamento, all’uscita dalla barbarie,
alla redenzione determinata da quell’insegnamento, così efficace e formativo da contenere in sé anche
il germe della futura ribellione. Dopo Puoti infatti, la ventata del progresso s’incarnò nella lettura di
filosofi e scrittori stranieri (Fichte, Kant, Hegel; Goethe, Schiller, Hugo), fino agli italiani “letti con
l’avidità del frutto proibito” alla riscoperta di filosofi come Vico. “Le dispute scientifiche e letterarie,
i romanzi francesi e italiani occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto”. Così
Francesco De Sanctis si preparava a divenire il primo ministro dell’istruzione del nuovo regno.
A Torino: il libro Cuore
Il mio desiderio di scrivere ha avuto due origini, la prima sono state le storie che mio padre mi
raccontava quando ero piccolo. Il libro Cuore, di De Amicis, ha avuto un’influenza fondamentale su
di me, e forse ha anche a che fare con l’amicizia che provo per l’Italia… per me, e non solo per me,
averlo sentito raccontare da bambino rappresenta un’esperienza indimenticabile.
Abraham B.Yehoshua, Il lettore allo specchio
Un’altra pietra miliare sul tema della scuola è costituita dal libro Cuore, pubblicato da De Amicis
dopo lunga gestazione nel 1886.
Grande novità, novità di rilievo di questo libro molto originale, è di avere come protagonista assoluta la scuola, vista non come sfondo o componente (cfr., ad esempio, Dickens), ma proprio come
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oggetto di analisi e di osservazione da parte di un autore che ha dedicato molte opere a questo
argomento, tra cui il coevo Romanzo di un maestro, che affronta la condizione del maestro con una
conoscenza documentata, approfondita e anche assai pessimistica del problema scolastico.
La formazione di giornalista di Edmondo De Amicis vi si esprime appieno; l’autore dimostra di
conoscere i reportages e gli articoli che comparivano sulle numerose riviste della categoria, ma
dimostra anche, innanzitutto nel libro Cuore, di essere in grado di suggerire un modello letterario,
che tiene presente vari generi letterari e ne fonda uno nuovo – quello del diario che insegue il filo
delle ricorrenze annuali e vi intreccia lettere, racconti, meditazioni, episodi e quadretti descrittivi,
e voci diverse (Enrico, il padre, la madre, la sorella) – e imitatissimo anche nei libri scolastici (per
esempio, durante il fascismo, il libro di lettura Il Balilla Vittorio, di cui parla Meneghello nel suo
libro I fiori italiani, è organizzato secondo il modello del libro Cuore).
Siamo all’indomani dell’Unità, e a dieci anni dalla legge Coppino (1877): “Il problema dell’educazione si presenta come uno dei più urgenti per dare alla nazione un fondamento di crescita culturale e tecnico scientifica, di fronte a un tasso di analfabetismo tra i più alti d’Europa”.
È un presente che nel libro di De Amicis si riallaccia strettamente al passato risorgimentale, con
una continuità che non tollera distinzioni, che abbraccia in una sintesi “medaglioni oleografici di
Vittorio Emanuele e di Cavour, di Garibaldi e Mazzini – ma quest’ultimo ricordato essenzialmente
per l’amore verso la madre”– e compatta tutta l’opera col filo rosso di un patriottismo condiviso,
in una visione che parte da Torino per riunire tutta l’Italia.
Per questo, la scuola è raffigurata come un esercito che assurge a dimensioni mitiche:
Pensa, la mattina quando esci; che in quello stesso momento, nella tua stessa città, altri trentamila ragazzi
vanno come te a chiudersi per tre ore in una stanza a studiare. Ma che! Pensa agli innumerevoli ragazzi che
presso a poco a quell’ora vanno a scuola in tutti i paesi, vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno, per
i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto
un sole ardente, dove tra le nebbie, in barca nei paesi intersecati da canali, a cavallo per le grandi pianure,
in slitta sopra le nevi, per valli e per colline, a traverso a boschi e a torrenti, su per sentier solitari delle
montagne, soli, a coppie, a gruppi, a lunghe file, tutti coi libri sotto il braccio, vestiti in mille modi, parlanti
in mille lingue, dalle ultime scuole della Russia quasi perdute fra i ghiacci alle ultime scuole dell’Arabia
ombreggiate dalle palme, milioni e milioni, tutti a imparare in cento forme diverse le medesime cose,
immagina questo vastissimo formicolìo di ragazzi di cento popoli, questo movimento immenso di cui fai
parte, e pensa: – Se questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie, questo movimento è
il progresso, la speranza, la gloria del mondo. – Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito.
I tuoi libri son le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, e la vittoria
è la civiltà umana. Non essere un soldato codardo, Enrico mio.
(E. De Amicis, Cuore, 28 ottobre, La scuola)
Ma all’epoca delle “grandi virtù” (come “dare la vita per il proprio paese”) è subentrata quella delle “virtù piccole”, come dice la madre di Enrico nell’intervento di martedì 29 novembre intitolato
I poveri, intervento in cui rimprovera il figlio che non ha fatto l’elemosina. All’eroismo dei martiri
del Risorgimento devono succedere i piccoli eroi del lavoro e della vita quotidiana (il piccolo Robetti
che salva un bambino nel traffico, Garrone sempre pronto a difendere i deboli, Precossi e Coretti
studenti lavoratori, Crossi che con la sua buona riuscita contribuisce a redimere il padre) e soprattutto gli eroi della volontà.
La solidarietà fra le regioni italiane è la prima cifra sempre ripetuta: le regioni sono rappresentate
in un unico abbraccio, sia all’interno della classe (cfr. Il ragazzo calabrese) che attraverso i racconti
mensili.
Si ritorna al discorso che già conosciamo, alla necessità di forgiare il carattere degli Italiani, di
rafforzarne la debole caratura etica e morale secondo le riflessioni che già abbiamo letto nei testi di
D’Azeglio, Settembrini e De Sanctis.
Eroe di questa buona volontà, oltre agli esempi citati, è Stardi, di cui intuiamo la possibilità di un
salto di classe – esempio unico in un libro in cui sembra che i bambini siano destinati naturalisticamente a raccogliere il lavoro dei genitori – grazie a un lavoro indefesso che lo porta ad amare i
libri con idolatria e lo fa diventare intelligente. Accanto al suo esempio, troviamo ricorrente il tema
della nobiltà del lavoro (cfr. Il piccolo scrivano fiorentino, Gli amici operai, I feriti del lavoro) che pro-
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mette a questi ragazzi un futuro migliore. C’è spazio per il merito, in questo microcosmo.
Lo stesso Enrico del resto è un protagonista “medio”, che deve imparare a volere, acquistare maggiore tenacia e buona volontà.
Ingrediente fondante del romanzo è la solidarietà e l’armonia fra le classi (cfr. Il maestro e il carbonaio). Essa si realizza all’interno di una fascia media fatta di una componente borghese e artigiana
che emargina sia Franti che Nobis, il sottoproletario e il nobile-solo-di-nascita, entrambi insensibili alla voce del cuore. Al contrario, Derossi assurge a ideale di calocagazia, rappresentato simile
a un piccolo Garibaldi. Lui, figlio di commercianti, è nobile-di-cuore.
Tutto questo viene raccontato con dei toni che ignorano del tutto il registro umoristico. Il riso è
solo quello di Franti, ed è beffardo.
La stessa ambientazione torinese del resto è immagine di questa desiderata concordia ordinum:
Non c’è il palazzo vistoso del gran signore, che schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l’immagine di una
vita splendida e superba: l’architettura è democratica ed uguagliatrice. Le case possono chiamarsi fra
loro: – cittadina – e darsi del tu. La distribuzione delle classi sociali a strati sovrapposti, dal piano nobile
ai tetti, toglie alla città quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria che accendono nell’immaginazione il desiderio inquieto e triste delle grandi ricchezze. Girando per Torino si prova piuttosto un
desiderio di vita agiata senza sfarzo, d’eleganza discreta, di piccoli piaceri, accompagnati da un’operosità
regolare, confortata da un capitale modesto, ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza
dell’avvenire.
(De Amicis, Le tre capitali, pp. 19-20)
E questa immagine di Torino ci fa venire in mente le parole con cui Cavour appoggiava l’istanza
di Roma capitale:
Per quanto personalmente mi concerne gli è con dolore che io vado a Roma. Avendo io indole poco artistica, sono persuaso che in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma antica e di Roma moderna, io
rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra natale…
L’immagine stessa di Torino suggerisce dunque quella di una società basata certo sulla discriminazione e, fino a un certo punto, sul privilegio, ma anche una precisa idea di etica del lavoro, e di
reciproca visibilità delle classi.
È quasi un’ossessione, nel romanzo di De Amicis, il riconoscimento reciproco, la solidarietà sociale. Essi ritornano continuamente, negli interventi del padre, in scene scolastiche, in notazioni
ambientali.
Naturalmente, il sogno e la predica interclassista rivolti a una società classista hanno destato, come
si sa, lo scetticismo o l’irrisione dei lettori moderni. E l’ambivalenza di questi temi può essere fatta
notare attraverso una fin troppo facile lettura in filigrana.
Eppure possiamo anche notare che il problema dei privilegi di classe è forse risolto in modi che
non possiamo condividere, attraverso la buona educazione e la filantropia, ma non è rimosso. La
famiglia e la scuola devono assumersi il compito di farvi fronte. Non luoghi separati per le diverse
classi sociali, non scuole private o ambienti esclusivi.
Nel romanzo circola, oltre che la grande fiducia nella scuola pubblica di cui abbiamo parlato, una
profonda fede laica, in un momento in cui il laicismo dello stato unitario è già sottoposto a una
scatenata offensiva confessionale. E, infine, un “oscuro senso della fine, della morte” che ci avverte
di come, dietro l’utopia di sorti progressive per la scuola italiana, si celi anche la consapevolezza
delle difficoltà che si profilano.
Un’ultima osservazione: il profluvio di buoni sentimenti e di lacrime che ci propina De Amicis ci
affonda forse in un mare di melassa, ma raccogliere l’idea che ci sia un’educazione morale e sentimentale che va fatta anche con le parole, non ci sembra da ignorare.
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Anna Maria Di Pascale
Penna e baionetta
Risorgimento: rinascita di entusiasmi, di slanci giovanili, di ideali, di illusioni. Ritorno alla vita,
dopo la fine di un vecchio mondo, in alcuni scritti di epoca o di impronta risorgimentale: le Confessioni di un italiano di Nievo e Lorenzo Benoni di Ruffini.
Nelle Confessioni di un italiano la vita di tutti i personaggi giovani è dominata da “moti del cor
profondo”, da ideali ai quali sacrificare tutto, anche la vita. Non importa se sono ideali che impongono azioni e comportamenti molti diversi, si tratta sempre della patria e di un essere amato, sia se
consideriamo l’amore per la libertà e la passione amorosa di Carlino, sia se pensiamo al sacrificio
di Clara che, indotta a farsi suora, muore felice di esser rimasta fedele all’unico amore della sua
vita e ai voti “ch’ella aveva pronunciati cinquant’anni prima per la salute della Repubblica di Venezia”.
Nel romanzo è un vecchio che racconta e intende scrivere un’opera che possa diffondere buoni
principi morali e quindi possa costituire un utile insegnamento. Quando leggiamo, però, dimentichiamo molto spesso il vecchio e sentiamo invece le ragioni del giovane, con le contraddizioni, i
turbamenti interiori e soprattutto il desiderio di creare un mondo migliore più libero e più giusto.
Carlino è nato nel 1775 in un castello del Friuli meridionale fedele alla Repubblica di Venezia, in
un mondo destinato a scomparire. Con affettuosa ironia il narratore ci parla del castello e dei suoi
abitanti che sembrano vivere fuori del tempo. È un mondo aristocratico che continua a imporre
le sue regole e limita con violenza la libertà dei sottoposti, in particolare dei giovani. Le fughe
d’amore sono duramente punite e Carlino, nato in queste circostanze, da un matrimonio considerato disonorevole, è trattato come un servo, benché sia nipote della contessa. L’educazione dei figli
è affidata ai conventi e agli ordini religiosi, i matrimoni o la monacazione è decisione che spetta
ai genitori, manca un vero insegnamento morale e le regole sono quelle stabilite dalle differenze
sociali e imposte dalle pratiche del culto.
Carlino si sofferma sulle abitudini che scandiscono le giornate al castello di Fratta, sui gesti che si
ripetono con poche varianti determinate dalle stagioni. Per lui orfano, senza una posizione sociale
riconosciuta, l’educazione è lasciata alla natura e al rapporto con la servitù, l’istruzione si limita
a qualche lezione del piovano per la calligrafia e alle preghiere in latino della Messa, apprese solo
in parte e con difficoltà. Nel castello c’è una biblioteca che gli abitanti non frequentano, è “andata
a male in una cameraccia terrena”, dove solo la giovanissima contessina Clara pesca quel poco
di buono che resta, dato che durante la sua educazione in convento ha imparato a trovare rifugio
dalla noia e dai pettegolezzi delle monache proprio nei libri. Su tutto domina una “ignavia universale”, nella vita di Fratta così come nel governo di Venezia che sopravvive e nasconde la sua
decadenza dietro “un’orpellatura di eleganza”, mentre i migliori fidano nella Provvidenza. Ma il
giovane Lucilio Vianello, il futuro medico patriota e innamorato infelice di Clara, non può frenare
un sogghigno al sentir parlare di Provvidenza.
(p. 89) Ognuno sa che la Provvidenza coi nostri pensieri coi nostri sentimenti colle nostre opere matura i
propri disegni; e a volersi aspettar da lei la pappa fatta, l’era o un sogno da disperati o una lusinga proprio
da donnicciuole. Perciò quando la Badoer (la Contessa madre) cadeva in questa bambolaggine di speranza, Lucilio non potea far a meno di scuotere il capo; ma lo scoteva mordendosi le labbra e frenando un
sogghignetto che gli scappava fuori dagli angoli, rimpiattandosi sotto due baffetti sottili e nerissimi.
Carlino che è cresciuto libero con tratti quasi selvaggi, grazie alla sua collocazione ambigua nella
famiglia, rifugge dalle ipocrisie e diffida delle ritualità vuote. Più tardi riconoscerà la superiorità
morale dell’umile servo Martino, l’unico da cui ha ricevuto sincero affetto. Il testamento spirituale
di Martino sarà una scoperta salvifica nella vita del giovane in un momento di acuta disperazione.
Da bambino la scoperta in sé stesso del coraggio e della fermezza nel mantenere la parola data
al brigante che lo ha ricondotto al castello, quando nella sua fuga si era perduto, contribuiscono
alla sua crescita interiore. Inoltre la profonda passione per Pisana, la figlia più piccola del Conte,
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e la sofferenza amorosa indurranno Carlino ad accostarsi con tenacia agli studi senza che nessuno
glieli abbia imposti. Carlino è il giovane che prova un naturale ribrezzo per le falsità e rifiuterà per
questo di legarsi a personaggi abbietti come l’avvocato Ormenta e il gesuita padre Pendola, spie
dell’Inquisizione veneziana. Non solo, egli capirà anche i limiti dei grandi personaggi, di Napoleone in particolare. Studente povero a Padova, accresce la volontà di agire e la forza interiore in virtù
di tre propulsori: l’amore deluso, la mancanza di una famiglia e la morte della patria. In un primo
momento l’ardore giovanile è alimentato e ingannato da padre Pendola che, notate le sofferenze
amorose di Carlino, approfitta di quella debolezza per consolarlo e per prospettargli grandi fini,
tali da far dimenticare le misere passioni personali. Carlino, infatti, è pronto a infiammarsi per un
alto ideale, ma deve imparare a distinguere il male dal bene. Padre Pendola per breve tempo fa presa su di lui con l’adulazione e l’eloquenza con cui parla di “patria religione del cittadino, di inviolabilità delle sue leggi”. Ben presto però il giovane coglie le note false di quei discorsi e soprattutto è
infastidito dalle pratiche religiose dell’avvocato Ormenta a cui padre Pendola lo ha indirizzato. C’è
poi, fondamentale, la conoscenza di altri giovani, quelli che Ormenta giudicava “pecorelle smarrite” e di cui Carlino sente di condividere le aspirazioni. A questo punto comprende inorridito che da
lui si vuole “uno spionaggio indecoroso”. L’incontro con un giovane studente trevisano, Amilcare
Dossi, svela a Carlino i nuovi ideali: verità e uguaglianza sono la nuova professione di fede.
(p. 359) l’amore della verità vince tutti gli altri in purità ed in altezza. La verità, per quanto povera e nuda, è
più adorabile, è più santa della bugia incamuffata e suntuosa. […] Oh benedetta quella filosofia che mortali,
deboli, infelici pur c’insegna che possiamo esser grandi nell’uguaglianza, nella libertà, nell’amore!... Ecco il
mio fuoco, Carlino; ecco la mia fede, il mio pensiero di tutti i momenti! Verità ad ogni costo, giustizia uguale
per tutti, amore fra gli uomini, libertà nelle opinioni e nelle coscienze!…
“Le idee altissime, i nobili affetti” non si limitano quindi a una crescita individuale ma sono volti a
cambiare e rinnovare la società.
E quando nelle riflessioni dei giovani in questi anni cruciali dell’800 s’inserisce il richiamo ai Greci
e ai Romani, esso è motivato dal ricordo di grandi esempi di forza morale. Lo notiamo in molti
scritti di autori risorgimentali, così come nella biografia del giovane Garibaldi che in visita a Roma
col padre contrappone le virtù romane alla città dei papi. Ce ne parla Jessie White nella Vita di
Garibaldi e i suoi tempi:
Entrò egli [Garibaldi ragazzo] per la prima volta nell’Eterna Città, tutto compreso dell’antica storia romana, con la Roma degli Scipioni come ideale di grandezza; ma tanto più fu stomacato al vederla nido
ignobile di cardinali, di preti e di frati per lo più nullafacenti.
Carlino è pronto a combattere per i suoi ideali, ma non è ingenuo o sprovveduto, s’interroga sulle
armi francesi, su quale uomo avrebbe potuto dare nuove leggi a Venezia, ironizza sulla faciloneria
degli agitatori, riconosce l’ignoranza delle masse e la prepotenza dei soldati francesi. I dubbi però
non gli impediscono l’azione, corre a combattere quando è necessario senza riflettere sul possibile
successo o sul fallimento dell’impresa. La generosità è per lui regola di vita.
In opposizione alle vecchie generazioni paurose e inerti i giovani osano, si sacrificano per le loro
idee anche quando intuiscono che si tratta di pure illusioni, hanno amori che durano tutta la vita.
Ed è proprio su queste illusioni che essi crescono e acquistano autorità per offrire a noi un modello,
un esempio da emulare.
L’amore per la libertà e l’amore per la donna si combinano insieme, ma a volte il secondo può
essere sacrificato al primo.
Anche le donne hanno però animo grande e generoso e dimostrano di saper affrontare enormi
sacrifici per la patria e per un uomo: e Carlino sa riconoscerne la superiorità.
(p. 399) Le donne superiori a noi! Sì, fratellini miei; consentite questa strana sentenza in bocca d’un vecchio che ne ha vedute molte. Sono superiori a noi nella costanza dei sacrifizi, nella fede, nella rassegnazione; muoiono meglio di noi: ci son superiori insomma nella cosa più importante, nella scienza pratica della
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vita, che, come sapete, è un correre alla morte. Al di qua delle Alpi poi le donne ci son superiori anche
perché gli uomini non ci fanno nulla senza ispirarsi da loro: un’occhiata alla nostra storia alla nostra
letteratura vi persuada se dico il vero.
Pisana, ribelle e capricciosa, è capace di profondi sentimenti e di gesti di estremo coraggio. Per
salvare Venezia venduta da Napoleone all’Austria col trattato di Campoformio sarebbe pronta a
dare se stessa a un francese, un còrso. Delusa lo schiaffeggia, mentre il vecchio marito codardo la
rimprovera per paura della reazione dei Francesi. In seguito sarà capace di sacrificarsi in modo
sublime per Carlino, fino a chiedere l’elemosina per lui nelle vie di Londra. Romantica e impulsiva
tradisce Carlino con Ettore Carafa perché crede che Carlino sia a Milano con un’amante. Afferma
sempre la sua indipendenza e riesce a trasformare in atto di ribellione anche le scelte che rispondono ad una imposizione familiare.
Le Confessioni sono un romanzo di formazione, per cui seguiamo la crescita del giovane sia come
individuo che come cittadino. Dal punto di vista politico, risorgimentale, c’è l’allargamento di
orizzonti di Carlino che inizialmente soffre soprattutto per Venezia, ma giunge a pensare che se
Napoleone fu fatale con la sua tirannia alla vecchia Repubblica di Venezia fu utile all’Italia. Quando non può più arruolarsi nella Legione cisalpina, si arruola come alfiere nella Legione partenopea e parte con il Carafa per la spedizione di Roma. (Nievo probabilmente ha attribuito al Carafa
caratteri di Garibaldi, il che spiega il fascino di questo personaggio). Partecipa alla Rivoluzione
partenopea e in questa occasione si sofferma a riflettere sulle somiglianze tra gli Italiani delle varie
regioni d’Italia
(cap. 17, p. 665)… e dal sommo all’imo di questa povera Italia non siamo per tanto diversi gli uni dagli
altri come vorrebbero darci a credere. Anzi delle somiglianze ve n’hanno di così strambe che non si riscontrano in veruna altra nazione. Per esempio un contadino del Friuli ha tutta l’avarizia, tutta la cocciutaggine d’un mercante genovese, e un gondolier veneziano tutto l’atticismo d’un bellimbusto fiorentino,
e un sensale veronese e un barone di Napoli si somigliano nelle spacconate, come un birro modenese e
un prete romano nella furberia. Ufficiali piemontesi e letterati di Milano hanno l’eguale sussiego, l’ugual
fare di padronanza: acquaioli di Caserta e dottori bolognesi gareggiano nell’eloquenza, briganti calabresi
e bersaglieri d’Aosta nel valore, lazzaroni napoletani e pescatori chiozzotti nella pazienza e nella superstizione. Le donne poi, oh le donne si somigliano tutte dall’Alpi al Lilibeo! Sono tagliate sul vero stampo
della donna donna, non della donna automa, della donna aritmetica, e della donna uomo che si usano in
Francia in Inghilterra in Germania.
Non accetta compromessi per cui abbandona l’ottimo posto di prefetto delle Finanze nella Repubblica cisalpina quando la repubblica è trasformata nel 1805 in Regno d’Italia. La fede di Carlino
nei suoi ideali, la fermezza che non lo abbandona di fronte alle sconfitte poggia sull’amore per gli
uomini, sulla fiducia di poter offrire un esempio e un insegnamento utile ai buoni cittadini futuri.
Carlino, cresciuto senza un padre, mostra nel rapporto con i suoi figli la complessità e la difficoltà
di tale rapporto. (Il tema del rapporto padre/figli è importante in quest’opera così come in tutta la
letteratura dell’Ottocento e permette moltissimi raffronti interessanti con testi italiani ed europei).
Nel corso della sua vita adulta la situazione storica ha subito varie svolte drammatiche: ci sono
stati i moti del 1830, molti tentativi d’insurrezione sono falliti. Il figlio di Carlino, Giulio, ha assunto in questi anni un atteggiamento di cinico scetticismo. Ha abbandonato la speranza di un cambiamento e ha deciso che cosa migliore è vivere alla giornata, divertirsi con gli amici di qualsiasi
tendenza politica, anche reazionari.
C’è molta tensione tra padre e figlio, finché la rivoluzione del 1848 restituisce al padre la stima per
il figlio anche se li separerà per sempre. Quando dalla Francia, trasformata in Repubblica, soffiano
di nuovo venti di rivolta, Carlino butta via i suoi settant’anni e corre in piazza cogli altri.
(p. 913) In quei momenti, per quanto fossi vecchio, mezzo cieco e padre di famiglia, certo non ebbi tempo
di pensare a’ miei affaruzzi di casa…
Anche Giulio corre ad armarsi all’Arsenale ma viene insultato e respinto da alcuni patrioti che
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lo avevano visto troppe volte in “trista compagnia”. Scosso profondamente, offeso nell’orgoglio,
il giovane corre a combattere sotto falso nome dando prova di eroismo. A Roma, dove è creato
aiutante di campo da Garibaldi, riprende il suo nome e riacquista l’onore perduto con grande consolazione del padre, ma dovrà riparare in America, prima a New York poi a Rio de Janeiro, infine
nella repubblica argentina da cui non tornerà mai più nella sua patria. Comprendiamo che questa
generazione è meno serena della precedente. Il messaggio di Carlino è però ottimista perché egli,
conservando vivo l’amore per la libertà e la coscienza di un dovere sociale, può affermare il valore
di una morale laica e morire sorridendo al pensiero di aver speso utilmente la propria vita.
Nella ricchezza tematica di questo romanzo Nievo dimostra di voler perseguire uno degli obiettivi
più nobili e alti dell’età risorgimentale (pensiamo sia a Mazzini che a Manzoni): la concezione della
letteratura come strumento di educazione civile e sociale.
Per questo si preoccupa della lingua e critica i puristi per il lessico desueto e coloro che non
costruiscono in modo piano i loro ardui ragionamenti. È necessario, invece, avere un vasto pubblico
di lettori perché la letteratura possa contribuire al “rinnovamento nazionale”:
(dal cap. 10) Farsi intendere da molti, o non è forse meglio che farsi intendere da pochi? In Francia si
stampano si vendono e si leggono più libri non per altro che per la universalità della lingua e la chiarezza
del discorso. Da noi abbiamo due o tre vocabolari, e i dotti hanno costumi di appigliarsi al più disusato.
Quanto poi alla logica la adoperano come un trampolo a spiccare continui salti d’ottava e di decima.
Quelli che son soliti a salire gradino per gradino restano indietro le mezze miglia, e perduto che hanno di
vista la guida siedono comodamente ad aspettarne un’altra che forse non verrà mai. Animo dunque: non
dico male di nessuno: ma scrivendo, pensate che molti vi abbiano a leggere. E così allora si vedrà la nostra
letteratura porger maggior aiuto che non abbia dato finora al rinnovamento nazionale.
Carlino vecchio, inoltre, riflette sull’educazione dei giovani e sull’importanza di una morale laica
per il bene della società: non approva che i principi morali debbano poggiare ciecamente sull’autorità indicata dalla fede religiosa e per questo è in disaccordo con la moglie Aquilina nel giudicare
i comportamenti degli uomini, e anche dei figli, e nel preoccuparsi unicamente della salvezza della
loro anima. Ad Aquilina
(pp. 877-878) perdute le loro anime, non le importava nulla che la società avesse dalle loro azioni giovamento o danno. Era egoista non solamente in sé, ma anche a nome loro.
[Io] desiderava insomma che la volontà di Dio fosse loro dimostrata, oltreché nella parola della rivelazione, anche nelle leggi e nelle necessità morali che regolano la coscienza degli individui e la pubblica
giustizia. Così, se anche una contraria educazione li privava dei sostegni della fede, essi restavano sempre
uomini soggetti ad una legge ragionevole ed umana; mentre una volta che fossero alieni dalla religione,
così com’erano sudditi a’ suoi precetti unicamente per paura, la loro coscienza rimaneva senza alcun
lume, e nullo affatto il valor morale dell’animo. […]
Preparar dunque gli animi dei fanciulli in modo che, anche provvisti di queste credenze, debbano ubbidire
per intimo sentimento alla regola universale di giustizia che illumina le coscienze, sarà non solamente
opera di prudente educator sociale, ma anche cura lodevole e consentanea alla natura pietosa di Dio!
[…] è un tradimento del proprio ministero la trascuranza di quei maestri che pur vedendo rinnovarsi tutto
giorno migliaia di questi casi in cui esseri umani forniti di qualità pregevolissime cessando di esser devoti
diventano bestie, tuttavia si ostinano ad appoggiare soltanto al precetto religioso la moralità dei discepoli
mettendo così a grave repentaglio l’economia morale della società. Non dite che viviamo in tempi di tiepidezza religiosa e di miscredenza? Adunque adoperatevi per difender almeno la felicità dei terzi e l’ordine
sociale con miglior riparo che non sia l’adempimento dei doveri appoggiato unicamente a quella fede di
cui lamentate l’insufficienza.
Un altro tema che emerge dalle Confessioni, ma soprattutto da un racconto di Nievo Il barone
di Nicastro (pubblicato integralmente nel 1860) è quello dell’impegno dell’intellettuale, dell’engagement, tema che a ben vedere si collega strettamente all’intento di educazione civile e sociale. Il
racconto per lo stile satirico-filosofico e per il contenuto fantastico è tale da ricordare Candido di
Voltaire.
Il barone Camillo a 15 anni si chiude nella biblioteca per studiare il valore degli uomini e delle cose,
infatti il motto di famiglia che consiste nelle parole Pensare e pesare, poste accanto a una bilancia,
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ingiunge che nessuno della famiglia potesse immischiarsi mai nelle cose degli uomini prima di averne
cercato e conosciuto il valore.
A 40 anni Camillo esce dalla biblioteca:
nel giorno appunto che compiva i quarant’anni potè alzarsi dallo scrittoio e spalancar la finestra dicendo: Ho finito! – Povero filosofo!… prima di cominciare credeva sul serio di aver finito!… – Ma come poi
aveva finito?… Col ficcarsi appunto in capo la fede più santa, più generosa che mai santificasse cranio
di barone!… col creder che la virtù basti per conforto, per alimento, per premio a sè stessa; ch’essa sia il
sommo onore, la somma felicità, la somma gloria, il sommo bene che regola il valore delle cose e degli
uomini!…
Camillo decide di abbandonare il castello per cercare la dimostrazione di un connubio impossibile,
la coesistenza nella vita di felicità e virtù. Una vecchia pergamena gli rivela, prima della partenza,
l’ingenuità del suo ottimismo attraverso l’affermazione di Bruto Minore che virtù è negazione di
sostanza, quindi virtù è uguale a zero, ma questa affermazione lo fa infuriare e tanto più lo spinge
a partire per poterla confutare.
(Certamente è presente a Nievo la canzone di Leopardi, Bruto Minore in cui Bruto vicino a morire
proclama il rifiuto della virtù quale parola vana: Stolta virtù, le cave nebbie, i campi / dell’inquiete
larve / son le tue scole, e ti si volge a tergo / il pentimento).
Il barone Camillo nel suo lungo viaggio che lo conduce tra mille avventure dall’Europa alla Cina,
dal Giappone all’America, all’Australia, perfino nella mongolfiera che lo solleva tra le nubi incontra delusioni e pericoli che sempre, nonostante il testardo ottimismo, egli è costretto ad attribuire
al numero due, cioè al fatto di trovarsi in situazioni contraddittorie.
Tornato nel suo castello, alla fine della vita comprende che l’infelicità è legata a un continuo dualismo: bene e male, vero e falso, giusto e ingiusto, ma anche corpo e anima senza possibilità di conciliazione. Solo la morte risolve il dualismo: la doppia servitù della materia e dello spirito fu spezzata
per sempre, e ognuno andò per la sua strada a cercare il complemento dialettico.
Il barone di Nicastro, che ha consumato gran parte della sua vita chiuso nella biblioteca, sottratto
ai rapporti umani, e ha fallito nella ricerca di una verità inesistente, può dar luogo a un confronto
con il personaggio del conte Rinaldo delle Confessioni. Rinaldo è il fratello di Pisana che viene educato in collegio presso i padri Somaschi. Non compare per lungo tratto nelle vicende del romanzo
perché, uscito di collegio a 24 anni, continua a rimanere chiuso nella sua camera, concentrato negli
studi. In seguito, ottenuto un oscuro posto nella Ragioneria del governo veneziano:
(p. 635) il conte Rinaldo passava dall’ufficio alla Biblioteca, dalla Biblioteca alla tavola e al letto senza
darsi pensiero che altri uomini vivessero al mondo.
(p. 762) Egli era di quegli animi indolenti e fantastici che svampavano in sogni in progetti ogni loro attività; e appoggiano le loro speranze ai castelli in aria per esimersi appunto di fabbricare in terra qualche
cosa di sodo.
Rinaldo dedica la sua vita a comporre un’opera colossale sul commercio dei Veneti da Attila a
Carlo V, accresce e perfeziona continuamente il suo scritto senza però riuscire a trovare un editore.
Quando, a sue spese, affrontando grandi sacrifici, ne farà stampare qualche capitolo non ci sarà
nessuno che leggerà realmente la sua opera e le recensioni appariranno chiaramente costruite senza
alcuna conoscenza diretta del testo. Morirà nella Venezia colpita dal colera raccomandandone la
stampa, ed eventualmente qualche altra necessaria correzione, alla pietà di Carlino. Sono evidenti
le differenze tra il conte Rinaldo e Carlino sempre pronto all’azione, sempre critico sul “torpore
d’inerzia e di vergogna” in cui è caduta Venezia e sull’“infiacchimento” del popolo.
Il dottor Lucilio, meravigliandosi dello sconfinato sapere di Rinaldo, si esprime con tristezza sui
tempi in cui sono costretti a vivere i letterati e sull’inutile sperpero dello studio e dell’intelligenza:
(p. 886) – Ecco – diceva egli – ecco come si sfruttano, in tempo di errori e di ozii nazionali, le menti che vedono giusto e lontano, e le forze che non consentono di poltrire!… I loro affetti la loro attività si sprecano
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a rianimare le mummie; non potendo migliorare le istituzioni e studiare ed amar gli uomini, scavano antiche lapidi, macigni frantumati, e studiano ed amano quelli. È il destino quasi comune dei nostri letterati!
Carlino, però, che ha conosciuto e ammirato Ugo Foscolo quando urlava il suo sdegno nella Venezia umiliata e venduta agli Austriaci da Napoleone, richiama ben altri esempi di letterati che sanno
coniugare lo studio con l’azione o sanno trasformare in azione i loro scritti.
(p. 886) Ma Lucilio diceva troppo. Perché con Alfieri con Foscolo con Manzoni con Pellico era già cresciuta una diversa famiglia di letterati che onorava sì le rovine, ma chiamava i viventi a concilio sovr’esse:
e sfidava o benediva il dolore presente pel bene futuro. Leopardi che insuperbì di quella ragione alla quale
malediceva, Giusti che flagellò i contemporanei eccitandoli ad un rinnovamento morale, sono rampolli di
quella famiglia sventurata ma viva, e vogliosa di vivere.
Ecco infatti come irrompe nel romanzo Ugo Foscolo:
(p. 462) – Cittadino, non disperare della virtù al pari di Bruto! – uscì a dire come ruggendo un giovinetto
quasi imberbe e di fisionomia tempestosa. –Bruto disperò morendo, noi siamo per nascere!
Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d’un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la
morte del padre avea preso stanza a Venezia.[…] Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo
Foscolo.
Lorenzo Benoni ovvero scene della vita di un italiano di Giovanni Ruffini, uno degli amici genovesi
più vicino a Mazzini, è un romanzo autobiografico pubblicato in lingua inglese a Edinburgo nel
1853, alcuni anni prima delle Confessioni. Gli avvenimenti narrati si collocano tra il 1816 e il 1833
e sono quelli della fanciullezza del protagonista, fino alle prime esperienze carbonare e risorgimentali nella Liguria che dopo il 1815 è soggetta al Piemonte. Qui vigeva un dispotismo tra i più
feroci e accanto al potere illimitato dei militari c’era la potenza del clero, dei frati di ogni ordine,
ma specialmente quella dei Gesuiti.
Anche in questo racconto è evidente il tema della formazione e quello dello slancio ideale che muove studenti e giovanissimi intellettuali a sacrificare la propria vita per trasformare la società.
L’educazione di Lorenzo è affidata fin dai primi anni a un religioso, in questo caso lo zio canonico,
in seguito al Collegio Reale dei padri Somaschi. Punizioni eccessive, soprusi di ogni genere accompagnano la crescita e suscitano un desiderio insopprimibile di libertà e di giustizia.
Il “carcere duro”, punizione a cui Lorenzo è costretto dallo zio canonico, provoca un tentativo di
fuga, episodio ricorrente sia nella realtà che nella finzione letteraria per tanti fanciulli dell’Ottocento. (Si può accennare qui di sfuggita che una fuga mette in risalto anche il carattere deciso e ribelle
di Garibaldi bambino, che si rifiuta di diventare prete e sogna una vita libera sul mare. Molti altri
esempi si potrebbero ricavare dai romanzi e dalla vita). L’ambiente del collegio dove si esercita la
prepotenza dei più forti sui più deboli richiama racconti di Dickens:
In questo collegio stetti per cinque lunghi anni […] I due primi possono essere riepilogati così: molta miseria di mente e di corpo, geloni, busse, una faccia antipatica e deforme che pretendeva l’impossibile, che
spesso s’aggrottava e brontolava con mio grande spavento […]
Lo stato delle cose in quella camerata era molto triste, dura la sorte, varie le sofferenze per la maggior
parte degli alunni, colpa principalmente il mal governo d’una bestia di prefetto, di cui parlerò più innanzi,
ma specialmente colpa il sistema di sevizie, di rapina e di oppressione, vittoriosamente esercitato da una
minoranza di quattro, che la facevano da padroni, strapazzando e trattando come negri diciassette loro
compagni, la grande maggioranza della camerata.
L’educazione impartita dai religiosi esercita su tutto un controllo soffocante. Lorenzo è punito con
la prigione perché hanno scoperto che legge il Paradiso perduto di Milton, libro proibito, posto
all’Indice dalla Chiesa.
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La prigione nella quale fui chiuso era veramente triste. Immaginatevi una stanzuccia bassa, umida, che
riceveva la luce solamente dal pertugio di una piccola inferriata senza vetri, e così alta che bisognava
arrampicarsi per vedere una strisciolina di cielo, non più grande di un fazzoletto. Ogni altra veduta era
impedita da un’alta muraglia che sorgeva dirimpetto, a piccolissima distanza, sei piedi almeno sopra il
finestrino. L’unica mobilia di questa misera cella era una seggiola impagliata, un tavolinuccio d’abete,
quattro assicelle messe su cavalletti di ferro e un povero pagliericcio: tale era il mio nuovo appartamento.
Senza comunicare con alcuno, senza libri, né carta, né lume, con un po’ di pane e d’acqua per nutrimento,
un’abbondanza di topi che scorrazzavano pel lastrico e qualche volta anche montavano sul lettuccio; con
di più una tramontana che mordeva la faccia, penetrando per tutta la notte attraverso le vecchie e logore
imposte che chiudevano malamente la finestra; ecco l’inventario dei comodi che aspettavano il povero
prigioniero.
Mi gettai su quel misero pagliericcio in uno stato di grande abbattimento.
I padri spesso mostrano ai figli soltanto un volto severo e autoritario perché considerano questo
il metodo educativo più giusto. Nonostante gli ottimi risultati scolastici, infatti, Lorenzo riceve
affettuosità solo dalla madre, dal padre proibizioni e freddi rimproveri.
Dopo i moti del 1821 la libertà costituzionale ha vita effimera. Lorenzo che s’iscrive all’Università,
alla facoltà di Legge, deve presentare per essere ammesso documenti che attestano un vero stato di
polizia in nome del sovrano e della Chiesa:
Nella lista seguente, in cui noto a memoria i certificati richiesti, alcuni forse ne avrò dimenticato:
1. Certificato di nascita e di battesimo.
2. Idem di vaccinazione o di vaiuolo sofferto.
3. Id. di aver compiuti i due anni di filosofia e sostenuti gli esami.
4. Id. di buona condotta del parroco.
5. Id. di aver assistito nella propria parrocchia a tutte le funzioni nei giorni festivi, durante gli ultimi sei
mesi.
6. Id. di essersi confessato una volta al mese nell’ultimo semestre.
7. Id. di essersi confessato e comunicato nell’ultima Pasqua.
8. Id. che mio padre e mia madre possedevano terreni di un sufficiente valore per assegnare a ciascuno dei
loro figliuoli una porzione, eguale alla quota determinata dal regolamento di cui ho detto più sopra.
9. Finalmente un certificato della polizia, comprovante che io non avevo avuto parte nel moto rivoluzionario del 1821.
L’idea che io potessi essermi mescolato in un moto politico, quando avevo dodici anni o giù di lì, mi parve
così ridicola, che sorridendo lo dissi. L’avevo appena detto, che le tre teste dei tre scrivani intenti al lavoro
si alzarono a un tratto, e i loro sei occhi si fissarono sopra di me con una espressione tra la meraviglia e
lo spavento. Il Segretario prese un’aria di dignità offesa e mi disse che i regolamenti erano fatti per essere
osservati e non per essere commentati. Rimasi spaurito dal tono della osservazione, che era quello di un
superiore ad un inferiore colto in fallo. […]
«Gli studenti debbono esser tenuti bassi» era la frase sacramentale che giustificava ogni specie d’indegnità; e quei pochi tra i professori, che pur ve n’erano, i quali ci trattavano con un po’ di discrezione, erano
notati su in alto come autori di un cattivo esempio, contrario al sistema dell’utile disciplina.
Quanta pena, trepidazione, perdita di tempo, pazienza, ed anche quante bugie mi costarono quei benedetti certificati, specialmente il quinto ed il sesto, Dio solo lo sa! Naturalmente il parroco non poteva sapere
se avessi assistito alle funzioni religiose, e perciò dovette credere alla mia parola. Il confessore bisognò che
facesse lo stesso. Dovevo forse dir loro: «No, non sono stato alle funzioni, non mi sono confessato tutti i
mesi», e chiudermi così volontariamente le porte dell’Università? Soffocai la voce della coscienza, ed ebbi
i due certificati. Li presi con un sentimento di vergogna e di confusione, come se li avessi rubati.
Comune amico di Lorenzo e del fratello Cesare (si cela sotto questo nome il patriota Jacopo Ruffini) è Fantasio (Giuseppe Mazzini): intelligenza, severità dei costumi, ampia cultura lo caratterizzano.
Era versatissimo nella storia e nella letteratura non solo d’Italia, ma anche delle altre nazioni.
Shakespeare, Byron, Goethe, Schiller gli erano familiari quanto Dante e l’Alfieri. Magro e gracile di
corpo, aveva un’anima infaticabilmente attiva. Scriveva molto bene, così in versi come in prosa, e non
v’era genere di componimento in cui non si fosse provato: saggi storici, critiche letterarie, tragedie, ecc.,
ecc. Appassionato amatore di ogni forma di libertà, l’anima sua fiera spirava un indomabile spirito di
rivolta contro ogni tirannia ed oppressione. Buono, affettuoso, liberale, non negava mai i suoi consigli e
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servizi, e la sua libreria riccamente fornita, come pure la sua borsa sempre piena, erano a disposizione
degli amici. Forse si compiaceva un po’ di far mostra della sua potenza dialettica a spese del buon senso,
sostenendo qualche volta dei paradossi stravaganti. Forse v’era un che di affettazione nel suo vestire
sempre di nero; il suo abborrimento per i solini scoperti aveva certamente dell’esagerato, ma, nell’insieme,
era uno spirito veramente nobile.
Con Fantasio Lorenzo approfondisce la lettura della Divina Commedia, ne capisce e apprezza tutta
la bellezza, inoltre è attraverso Dante che coltiva nobili sentimenti e sviluppa l’amore per la patria:
fin da quel tempo il nome d’Italia, che così spesso ricorre nel poema, diventò sacro per me e destò i palpiti
del mio cuore.
In un capitolo dal taglio decisamente storico Lorenzo traccia un quadro desolante del Piemonte
prima dello Statuto: l’arbitrio e il favoritismo regnavano nei tribunali, nessuna libertà del cittadino
veniva rispettata mentre fioriva il mestiere delle spie e degli informatori delle autorità e della Polizia
segreta. Fantasio fonda un giornale letterario che però la censura chiude dopo poco tempo, pensa
alla possibilità di fondare una società segreta e allaccia strette relazioni con i liberali toscani. A Genova cerca contatti con la Carboneria, anche se era possibile dubitare della sua esistenza in quanto
non dava segno di vita. I giovani desiderosi di agire, impazienti di fare qualcosa di buono, si consumavano in aspirazioni illusorie. Dopo una lunga attesa Lorenzo è introdotto nella Carboneria con
una cerimonia di iniziazione che si svolge secondo canoni teatrali e poetici: in pieno carnevale, di
notte, il giovane dopo essere stato bendato viene condotto da due individui in domino in una casa
misteriosa e in una grande sala. I costumi, l’interrogatorio, il linguaggio e i gesti, tutto risponde a
una precisa ritualità.
Inizialmente Lorenzo è esultante:
Così al pari di Archimede, avevo anch’io trovato il mio punto d’appoggio per smuovere terra e cielo. Il
desiderio che da tanto tempo mi aveva tormentato l’anima finalmente era stato appagato! Potevo collaborare fra uomini liberi, avevo fratelli in ogni parte del mondo, la mia vita aveva uno scopo! Ero veramente
orgoglioso di me stesso! Con quale senso di commiserazione osservavo i miei “profani” compagni! Sognavo pericoli, sacrifici, mete raggiunte, spendendo nobilmente la vita e… la gloria… ma che cosa non
arrivavo a sognare?
L’attività di cospiratori risulta però molto deludente: la montatura melodrammatica nasconde incapacità e scarsa serietà organizzativa. Fantasio ne incolpa i parrucconi che fungevano da capi e che
diffidavano dei giovani. Ancora una volta quindi si prospetta la difficoltà di rapporto generazionale,
il bisogno di coerenza e di rapporti limpidi da parte dei giovani. Anche l’amore nasce per Lorenzo in
questo clima di società segrete, di trame, di aspirazioni rivoluzionarie, e si rivela attraverso messaggi
e segni misteriosi tali da accendere l’immaginazione. L’amore e la passione politica fanno uso dei
medesimi strumenti romantici. Ma Lilla la giovanissima aristocratica (ha 17 anni), attratta dall’aura
di pericolo che circonda le imprese di Lorenzo e dei suoi amici, partecipe dei loro stessi desideri, ha
un carattere volitivo e indipendente. Al giovane che ne è molto innamorato essa ben presto appare
imprevedibile e capricciosa. La gelosia e la delusione infine gli provocano una sofferenza così acuta
da indurlo ad allontanarsi per sempre da lei.
Lilla è un personaggio interessante che non ha la stessa ricchezza psicologica di Pisana delle Confessioni, ma ne condivide alcune caratteristiche per l’indole appassionata, l’ardire e l’affermazione della
propria libertà.
Dopo l’arresto di Fantasio, accusato di far parte della Carboneria, e la sua espulsione dal Piemonte,
gli avvenimenti incalzano: da Marsiglia Fantasio invia una lettera che contiene il piano particolareggiato di una nuova società segreta, la Giovine Italia, ma poco tempo dopo i moti del 1830 falliscono,
la Giovine Italia viene scoperta ed è arrestato Cesare Benoni. Lilla incurante del pericolo accorre
per offrire un rifugio a Lorenzo, che rifiuta e decide di tentare la fuga in Francia. La fuga difficile e a
tratti disperata ha esito felice. Il racconto però si conclude in modo drammatico perché a Marsiglia
Lorenzo, che ha raggiunto Fantasio, apprende la notizia della morte di Cesare in carcere. Nella realtà
storica Jacopo Ruffini si suicidò in carcere il 19 giugno 1833.
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Un altro tema interessante emerge da questi romanzi, e da molti testi memorialisti: la lotta per la
libertà fa avanzare la storia; l’umanità, anche attraverso stasi e sconfitte, si muove fiduciosa nel
progresso.
Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi,
niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto,
tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena,
in cui si possa non essere cattivi.
(dal Sentiero dei nidi di ragno di I. Calvino)
Nell’opera di Nievo non c’è la fede nella provvidenza manzoniana ma nella verità e nella pubblica
giustizia, c’è la solidarietà umana per cui non si deve ridere della debolezza degli uomini, ma “piangere con essi e aiutarli ad affrancarsi”.
Certamente per merito della straordinaria figura di Garibaldi speranza e ottimismo dominano nella letteratura garibaldina e nei diari o nelle ricostruzioni storiche di alcune osservatrici di eccezione
come Louise Colet o Jessie White.
Si sente la necessità di raccontare le vicende in cui sono protagonisti individui mossi da alti ideali
e giovani pronti a sacrificare la vita per un futuro migliore e si sente soprattutto la necessità di
raccontare avvenimenti e anni in cui sono avvenuti grandi cambiamenti e la storia è andata avanti.
Louise Colet, poetessa francese, amica di Flaubert, è a Napoli nei giorni cruciali del 1860-1861.
Durante il suo soggiorno annota riflessioni e avvenimenti in un diario che sarà pubblicato nel 1863
col titolo Il Liberatore all’interno dell’opera L’Italia degli Italiani. Per Louise Colet Garibaldi incarna un principio provvidenziale. Nelle sue pagine il ritratto del Generale è caratterizzato da forza
e dolcezza insieme. La semplicità delle abitudini, la severità nei comportamenti, l’austerità dei costumi insieme al coraggio e al valore straordinario, alle doti di profonda umanità, ne fanno un personaggio circondato da un’aureola religiosa. In alcune occasioni egli assurge a immagine di Cristo.
(p. 13) L’eroe è di taglia media, ma dritta e fiera; egli porta alta la sua bella testa ispirata. Il suo sorriso di
una estrema dolcezza, la sua fronte intelligente e pensosa, la sua barba bionda, come quella del Cristo nei
quadri dei grandi pittori italiani, danno al suo viso qualche cosa di mistico. Il suo sguardo sembra, per
così dire, guardare nella sua anima; egli ne ripiega la forza in se stesso; ma se una parola lo commuove, se
un sentimento l’attrae, se l’azione lo sollecita, subito un lampo si illumina nella sua pupilla. Quando, con
la spada in mano, dà il segnale della battaglia questo lampo diventa fiamma. “Si vede il fuoco dei suoi
occhi nella notte”, mi diceva uno dei suoi soldati. I suoi occhi divorano il nemico, lo consumano, l’atterrano. Garibaldi è folgorante e bello nella mischia, come l’arcangelo Michele, di Raffaello, che calpesta il
demonio.
In nota la scrittrice aggiunge altri particolari per completare il ritratto e rispondere ad alcune maldicenze:
Egli sa domare un cavallo e condurlo nella mischia così agilmente come sa fendere le onde furiose durante
la navigazione. […] Egli parla lo spagnolo, l’inglese e il francese come l’italiano. Legge di volta in volta il
Romancero del Cid, Shakespeare e Hugo, come legge Dante. […]
Nella prosa, il suo stile è fermo e deciso come la sua spada; i suoi proclami non hanno circonlocuzioni;
egli dice netto e forte ciò che sente in cuore. […] È stato rimproverato a Garibaldi di non servirsi a proposito del nome di Dio per infiammare i soldati. È vero che Garibaldi parla di Dio il meno possibile, ma ne
parla sempre con rispetto, come si deve parlare di questo formidabile sconosciuto. Non tratta Dio come
quasi tutti gli uomini politici, come una comparsa nel suo destino o l’ indulgente verso le sue passioni […];
egli imita di Cristo la carità, la mansuetudine, l’amore dei poveri, fino al martirio; è l’antitesi dei preti di
Roma e li combatte con il Vangelo in mano.
Pochi giorni prima della partenza di Garibaldi per Caprera durante un banchetto si svolge una
scena che assume caratteri evangelici:
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(p. 55) Garibaldi, pensoso e raccolto come sempre, ascoltò più che parlò. Sembrava meditare e, secondo
la sua abitudine, sembrava guardare dentro di sé.
Improvvisamente la porta della sala si aprì, una mendicante fu introdotta; era una di quelle povere dei vicoli di Napoli, a cui Garibaldi mostrava simpatia. La vecchia vestita di cenci si accostò all’eroe; lo chiamò
figlio e lo baciò. L’uomo giusto e semplice da vero cristiano restituì alla mendicante il bacio di pace e di
uguaglianza e diede ordine di darle da mangiare. Una vera scena evangelica. Dopo queste agapi di gloria,
di libertà e di fede ritornò al campo e l’apostolo ridiventò soldato.
Con la sua partenza Garibaldi porta via con sé “la poesia della rivoluzione”. Louise Colet nota
che diminuiscono allegria e contentezza e che per i Napoletani, popolo dalla viva immaginazione,
Garibaldi sarebbe stato l’ideale di sovrano, per il suo prestigio ma soprattutto per la sua affabilità.
Questa è l’unica nota disarmonica nel diario della scrittrice francese che delinea un quadro sereno
e spesso festoso, nonostante il dramma delle operazioni belliche. Non coglie la complessità dei
problemi politici, ma sottolinea sempre il rispetto reciproco e la profonda intesa tra i protagonisti
del Risorgimento italiano.
(p. 43) Tutte le forze d’Italia, tutte le sue capacità, l’intelligenza e l’azione si confondevano in un’intesa
perfetta per il trionfo dell’unità e della libertà. Si facevano tacere tutte le vanità, le recriminazioni e gli
interessi particolari; non ci si preoccupava che del bene del paese, della sua moralità e della sua gloria:
gli uni sul campo di battaglia, gli altri nell’arena della politica. Mentre la grandezza del re e di Garibaldi
sfolgoravano alla testa delle armate, la stessa grandezza si rivelava nei due memorabili discorsi di Cavour
davanti alle Camere.
Anche lontano, Garibaldi è invocato durante il lungo assedio della fortezza di Gaeta e al momento
della capitolazione del re borbonico è a lui che il popolo attribuisce la gloria della vittoria perché
non può credere che un’importante battaglia si sia conclusa senza di lui.
(p. 346) Questo fanatismo dei Napoletani per l’uomo che ha dato loro la libertà, i Francesi l’hanno avuta,
con minore ragionevolezza, per l’uomo che diede loro la gloria. Il nome di Napoleone fu da noi, nel popolo, il simbolo inebriante dello splendore nazionale.
Nella conclusione del suo scritto, al momento in cui L. Colet parte per Roma, dove si è ritirato
Francesco II, essa esprime la certezza della conquista di Roma da parte dell’eroe:
(p. 360) Garibaldi, ritirato a Caprera, proietta sull’Italia intera quell’ombra formidabile che l’Etna riflette
su tutta la Sicilia; il titano sembra addormentato, ma egli si risveglierà e Roma sarà libera!
L’eroismo e l’entusiasmo dei giovani dominano negli aneddoti narrati da L. Colet che di Francesco II dice che a 20 anni non aveva “neanche uno dei nobili istinti della gioventù”.
I garibaldini arrivati da tutta l’Italia sono giovani e belli, illuminano la città con la loro camicia
rossa e sembrano “fenicotteri superbi”.
(p. 8) Ecco i Siciliani, somigliano ad altrettanti giovani Bacco indiani con la loro serica capigliatura
nera e riccia; i Calabresi, snelli, dai tratti regolari, dall’atteggiamento marziale, che si distinguono
per i pugnali cesellati alla cintura, e per il cappello a punta dove ondeggiano piume nere e ciuffi di
nastro. I Veneziani, dall’aspetto malinconico e espressivo, i Toscani, più piccoli e più esili, si riconoscono per la loro eleganza. I Nizzardi, i Piemontesi, i Lombardi, tutti questi ragazzi dell’Italia
del nord, dell’Italia centrale e delle Romagne, falangi eroiche e provate, composte da coraggiosi che
quasi tutti hanno fatto parte dei famosi cacciatori delle Alpi. Vanno e vengono nella Napoli libera
e gioiosa, la Napoli di Garibaldi! […] nugoli di fenicotteri superbi (flamants superbes).
Non soltanto Italiani, ma giovani da ogni parte d’Europa accorrono in Italia per partecipare
all’impresa di Garibaldi o per assistere a questi straordinari avvenimenti storici. Giovani inglesi,
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polacchi, ungheresi, scrittori francesi sono a Napoli. Il Risorgimento si alimenta di questo entusiasmo romantico che supera le barriere, i confini e accomuna nazioni diverse.
(p. 42) Non furono soltanto truppe piemontesi che sbarcarono a Napoli durante questa prima quindicina
di ottobre. Il 14, una domenica mattina, la riva di Santa Lucia risuonò del canto nazionale inglese […]:
1500 inglesi belli, grandi, robusti, vestiti da garibaldini. Nei loro ranghi si trovava il figlio di lord Seymour,
il figlio di lady Campbell e Alfredo Edelman di Monteiro italiano da parte di madre e inglese da parte di
padre, ardito volontario che si era battuto a Milazzo, a Melito e a Reggio.
Più di una volta parlando con un compatriota o con un nobile straniero L. Colet riferisce la riflessione comune che le raffinatezze di Parigi perdevano ogni attrattiva di fronte alla possibilità di
seguire da vicino la rinascita dell’Italia. La scrittrice non è solo la dama parigina che frequenta
i palazzi napoletani o la turista che visita le reggie abbandonate dal re e i siti archeologici, ma la
donna intrepida che non esita ad affrontare disagi per recarsi nei luoghi dove si combatte e dove
sorgono gli ospedali da campo, a Caserta, a Santa Maria Capua Vetere, a Capua dove l’esercito
regio insieme ai garibaldini assedia la guarnigione borbonica.
(p. 50) Un ufficiale polacco la cui distinzione mi colpì; cittadino di Parigi, prima di essere soldato per l’indipendenza, egli ha conosciuto tutte le nostre eleganze: i nostri salotti, i nostri teatri, […]. Il giovane ufficiale
polacco conveniva con me che lo spettacolo che ci dava in quel momento l’Italia era più grande più puro, più
commovente di tutte le meraviglie e tutte le curiosità materiali di cui Parigi è diventata il centro.
Un amico della scrittrice, Anton Deschamps, le scrive:
(p. 315) “Voi siete fortunata ad assistere alla resurrezione di questo grande popolo. Come le piccole passioni di Parigi, letterarie e le altre, mi sembrano poca cosa; non c’è più che una gioventù, è la gioventù
italiana”.
Jessie White Mario, scrittrice e filantropa inglese, fu amica di Mazzini che l’aveva definita Hurricane Jessie, Miss Uragano. Con il marito Alberto Mario, sostenne la causa italiana attraverso scritti
e comizi tenuti in varie parte del mondo, anche a New York. Dopo il fallimento della spedizione di
Pisacane fu imprigionata a Genova con Alberto Mario per 4 mesi. Nel 1860 con il marito raggiunse
Garibaldi in Sicilia e nel diario di L. Colet la troviamo intenta a prestare le cure di infermiera ai
soldati feriti nell’ospedale di Caserta. Si occupò in seguito di problemi sociali: la condizione dei
poveri di Napoli, le malattie dei minatori delle solfatare della Sicilia e le malattie dovute alla malnutrizione come la pellagra.
Dopo la morte di Garibaldi nel 1882 e di Alberto Mario nel 1883, Jessie White con il ricchissimo
materiale raccolto dal marito sulle imprese compiute (ricordi, documenti, lettere, cartine) realizzò
e diede alle stampe nel 1885 una grande opera, Garibaldi e i suoi tempi, che ebbe numerose edizioni.
I fratelli Treves più tardi (1893) pubblicarono Vita di Garibaldi nella collana economica di letture
amene con una Avvertenza che riconosceva all’opera la facoltà di istruire ma anche di dilettare. Poiché romanzi e racconti avevano un pubblico prevalentemente femminile, i Treves aggiungono che
anche alle lettrici più frivole di romanzi è permesso qualche volta leggere qualcosa di più sostanzioso11.
Uno scritto di J. White del 1882 era posto come prefazione all’edizione del 1893. Qui si piangeva
con sgomento, non solo in Italia ma in tutto il mondo, la morte di Garibaldi, l’eroe che aveva liberato tanti popoli dalla schiavitù e che tutti credevano “immortale, capace di vincere la morte, come
ogni altro nemico”. In una nota a questa pagina la scrittrice si scusa della “presunzione” di aver lei,
11 “La letteratura amena, alla quale questa raccolta è dedicata, abbraccia non solo il romanzo, la novella, il racconto,
ma tutto ciò che è narrato in modo piacevole, con forma letteraria, con quell’arte che permette a un libro di essere facilmente compreso e gustato da tutte le classi e da tutte le età. La storia, la biografia, il viaggio, la poesia, hanno diritto
d’entrare nella nostra raccolta […] Se taluno dei nostri volumi riesce a dilettare non solo, ma anche a istruire, sarà tanto
di guadagnato. […] Anche alle lettrici più frivole di romanzi è permesso qualche volta leggere qualcosa di più sostanzioso. […] Abbiamo cercato elevare il gusto del pubblico, facendogli conoscere, oltre ai soliti produttori d’appendici, lo Zola
prima, e il Bourget poi, e i romanzieri russi, e altri tedeschi e inglesi”.
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inglese, deciso di scrivere in italiano “la biografia di uno dei maggiori figli d’Italia”. Riprendendo
una frase di Lafayette, afferma che “ognuno ha una seconda patria oltre a quella ove nacque”. Per
J. White la seconda patria è l’Italia “per istinto, per intelletto d’amore”, per il matrimonio e “per
la fortunata conoscenza in gioventù d’alcuni Italiani eminenti” che le “ispirarono la ferma fede nel
suo Risorgimento”.
Afferma la veridicità storica della sua opera per essere stata testimone diretta di tanti avvenimenti
narrati e per essersi avvalsa di un vero archivio di lettere e carte e della costante corrispondenza che
lei stessa e il marito avevano tenuto con l’estero. Immagina anche qualche critica di parzialità per la
simpatia che traspare per i “martiri e gli eroi che hanno fatto l’Italia”, ma dichiara di essere sempre
stata fautrice di ogni nobile scopo. I “cavalieri della libertà”, che furono capaci di sacrificare tutto,
vita e ricchezza, avevano difetti inerenti alla natura umana ma seppero forgiare virtù e difetti in
un’unica arma contro i nemici dell’Italia12.
J. White ha tale esperienza diretta degli avvenimenti e ha raccolto una documentazione così ricca
che le permette di realizzare un’opera molto diversa dal diario di L. Colet per l’ampiezza e l’approfondimento della visione storica e politica. Garibaldi nel suo scritto mostra caratteristiche molto
simili a quelle messe in luce dalla scrittrice francese, ma, a differenza di L. Colet, J. White è molto
attenta agli ostacoli politici che si frappongono all’azione dell’eroe.
La vita di Garibaldi è dominata da ideali che si riverberano anche sui giovani che popolano le
cronache e i racconti garibaldini. Una profonda tensione morale caratterizza Garibaldi così come
Mazzini, essi sono dei puri per cui anche gli errori e i fallimenti sono santificati dall’altezza e la
purezza degli intenti. Bellezza fisica, generosità, coraggio, profondo senso della giustizia sono doti
di Garibaldi fin da fanciullo; egli è amato dai compagni ed è profondamente sensibile nel rapporto
con la natura. Ecco due aneddoti dell’infanzia:
(dal cap. I) Fin da piccino, e assai prima che la madre ne avesse sentore, si arrampicava sulle sartie delle
grosse barche pescherecce, sdrucciolava giù per i cordami, arte che gli servì più di una volta quando gli
occorse più tardi di osservare a volo d’ uccello le mosse nemiche, o passare rapidamente da un bastimento
ad un altro. L’acqua sembrava il suo elemento nativo, diceva sempre di non ricordare il tempo quando
non nuotasse come un pesce. Era dotato di una forza muscolare straordinaria e di una intrepidità che mai
gli venne meno.
Non è invenzione posteriore, ma un fatto ricordato dai suoi coetanei che, a 8 anni, egli salvò una lavandaia
sul punto di annegarsi in un fosso; che a tredici egli tutto da solo a nuoto trasse a riva alcuni suoi amici,
caduti da una barca che si era capovolta.
In una delle sue sensazioni infantili il Giuseppe maturo si ricordava l’amaro pianto di rimorso per avere
a 7 anni strappato le ali ad un grillo. Si era poi chiesto, se è mai esistito un bambino il quale non sia stato
crudele durante quell’età in cui manca la riflessione e non abbia preso gusto, per esempio, a schiacciar le
mosche, a torturare gli uccelli, a maltrattare i gatti, ad assistere alle loro sofferenze.
Ebbene, sì, Garibaldi fu proprio quel bambino; guai se vedeva qualcuno recar danno ad animali, ad uccelli, a chiunque non poteva difendersi! gli faceva pagar cara la triste sua compiacenza. Nascere a Nizza
significa nascere nell’eden d’ogni bellezza; significa nascere in mezzo a un lusso portentoso di colori, di
forme e di profumi d’ogni maniera.
Ma Garibaldi aveva anche un carattere forte capace di ardite decisioni nel perseguire le sue passioni, come dimostra con la sua tacita ribellione a farsi prete e la sua fuga infantile.
(dal III cap.) Quando gli fu manifestata l’intenzione definitiva dei suoi genitori di farlo prete, egli giustificò la sua ripugnanza, ma non fece, a parole, altre opposizioni. […] Riuscita vana ogni speranza di
smuovere la madre dalla sua risoluzione, ecco che lui propone alle altre tre vittime (tre compagni nelle sue
condizioni) di darsi alla fuga e di cercar fortuna con le proprie forze. Riuniti i magri risparmi, vuotate le
dispense di casa, e caricato il tutto sopra una barca, quei ragazzi veleggiarono per Genova allegramente,
calcolando di potersi arruolare là, come mozzi, a bordo di qualche bastimento.
Anzi, Garibaldi si riprometteva di raggiungere in America il fratello Angelo, che pure lui l’aveva incoraggiato nelle sue lettere a non farsi prete. Ma proprio un prete quel giorno scopre la trama e ne avverte
il padre di Giuseppe, il quale raggiunge all’altezza di Monaco i fuggiaschi con una barca più veloce e li
riconduce tutti a Nizza.
12 cfr. Hurricane Jessie, «Corriere della sera», 21 ottobre 2010, un articolo che traccia la biografia della scrittrice.
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Figurarsi la mortificazione del giovinetto! Egli che aveva per massima “non doversi intraprendere una
cosa senza la quasi certezza della vittoria!”.
Amava leggere Plutarco che gli offriva il modello di grandi uomini e rimase disgustato durante un
viaggio a Roma col padre perché il popolo romano gli sembrò eternamente in ginocchio e vide che
ogni potere e ufficio era nelle mani dei prelati. Quando cominciò a imparare il mestiere di marinaio,
volle apprendere tutto e conservò questa attitudine per ogni attività a cui si dedicava. Avrebbe voluto
accorrere in aiuto alla Grecia; poi, conosciuto un membro della Giovine Italia, fondata da Mazzini
a Marsiglia, la sua idea dominante diventò la liberazione dell’Italia. Importante fu anche l’amicizia
con Émile Barrault, un seguace di Saint Simon, attraverso il quale si accostò alle utopie umanitarie.
Fino a quel punto, i suoi istinti generosi, la sua simpatia per gli oppressi, il suo sdegno per la schiavitù
in cui giaceva l’Italia, erano vaghe aspirazioni, impeti indefiniti. Ora nell’idea che c’era una patria da
liberare, che anche altri ad essa pensavano e per essa cospiravano, egli trovava lo scopo della propria vita.
Comprese la ragione per cui era nato, la meta dell’essere. Egli stesso così si esprime in proposito:
“Lo dichiaro francamente, Cristoforo Colombo, perduto in mezzo all’Atlantico, minacciato da’ suoi compagni, ai quali aveva domandato tre giorni, alla fine del terzo udendo gridare: «Terra!» non fu più felice
di me quando udii pronunciare la parola: «Patria!» e vidi nell’orizzonte il primo «faro acceso dalla rivoluzione del 1830». – Vi erano dunque uomini che si occupavano della redenzione dell’Italia!”.
[…] Fin da allora promise a sé stesso di dedicarsi per intero alla liberazione dei popoli oppressi, di non
accontentarsi della semplice libertà di nome, di continuare i propri sforzi per tutta la vita e lì per lì egli
prese per sua divisa “Peuples, formons nous la sainte alliance Et donnons nous la main”.
Non leggeva molti libri ma per alcuni aveva una vera passione, in particolare I Sepolcri di Ugo
Foscolo e le poesie di Berchet che conosceva a memoria.
Quando Garibaldi nel 1860 sbarca in Sicilia Jessie White e il marito lo raggiungono.
(dal cap. 43) Chi non vide Garibaldi a Palermo perdette l’occasione di conoscerlo nel momento più felice
della sua vita. Tutto gli sorrideva: la vittoria, il sole e le belle Palermitane; egli era raggiante, affabile.
Esponendo le sue idee intorno al modo di governare un popolo, si capiva come nelle sue mani quei derelitti isolani sarebbero divenuti un popolo prospero, dignitoso, non essendo essi al disotto di nessuno per
intelligenza e patriottismo.
Garibaldi si occupava con pensiero costante dei fanciulli popolani, vispi, nudi e idolatri di “Gallibardo”,
e un giorno domandò ad Alberto Mario se volesse egli assumersi di fondare un collegio militare a spese
dello stato, capace di 6000 ragazzi.
Alberto accettò a patto di dipendere da lui solamente per i mezzi e l’organizzazione. E il completo impianto in un mese di quell’Istituto, che egli denominò Istituto Militare Garibaldi, chiarì come i governi in
generale impediscano più che non sollecitino il bene di una nazione.
È poi interessante ciò che, confutando storici a lei contemporanei, J. White ci dice dell’intesa tra i
Siciliani e Garibaldi e dell’apparente inerzia della popolazione.
(cap. 44) L’accordo completo, non smentito mai, fra il governo del Dittatore e i Siciliani era veramente
ammirabile, e non trovava esempio che ne’ brevi e bei giorni della Repubblica romana. Illimitati e spinti
fino all’adorazione eran l’affetto e la devozione, che quei fieri e impetuosi isolani profusero al loro liberatore e agli eroici compagni suoi.
Non si è resa ancora giustizia alla Sicilia per la parte da essa presa nella redenzione dell’Italia. Gli storici
contemporanei hanno parole di biasimo proverbialmente severe per quei picciotti che resero vana con le
grida, allo spuntar delle prime case di Palermo, la sorpresa ideata da Garibaldi; sorpresa in tutti i casi di
riuscita incerta, come stanno a dimostrarlo fatti simili e in Italia e in Francia. E gli stessi storici esagerano
il torto dei Palermitani per essersi trovati addormentati alle tre del mattino, poiché fu lo stesso Garibaldi
che decise di fare nel buio i suoi movimenti13.
13 G.C. Abba, in quella piccola gemma intitolata: Noterelle di Uno dei Mille, così spiega quest’apparente indifferenza:
“Ma che cosa fanno i Palermitani che non se ne vede in giro?” chiesi ad un popolano che sbucò da una porta armato di
daga. – “Eh! signorino, già tre o quattro volte, la polizia fece rumore e schioppettate, gridando: viva l’Italia! viva Garibaldi! E chi era pronto, veniva giù, e i birri lo pigliavano senza misericordia” . - “E ora han paura d’un nuovo tranello?”
(p. 139).
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J. White non tace le tensioni successive alla conquista del Regno borbonico e le amarezze di Garibaldi, che nel marzo 1861 decide di lasciare Caprera per accettare la richiesta dei napoletani di
rappresentare Napoli in Parlamento.
(dal cap. 50) Non voleva tornare più al Parlamento. Fu una risoluzione approvata dai suoi migliori amici,
giacchè non si vedeva di quale profitto sarebbe stata per la patria la sua lotta con persone assai più abili
di lui nell’uso della parola.
Ma più di una spina gli stava confitta nel cuore. Era per lui uno strazio l’aperta ingiustizia con cui si
ricambiavano i suoi uffiziali e i suoi bravi soldati; e nel suo cuore aveva un’eco il grido che dalla Sicilia e
da Napoli mandavano molti di coloro che avevano combattuto e sofferto per la patria, cacciati, umiliati
e non di rado sostenuti in carcere alla mattina dopo della liberazione, mentre gli onori e i posti si prodigavano ai portavoce e ai fidi alleati del conte di Cavour, ed anche ad alcuni che avevano parteggiato sino
all’ultima ora per i Borboni.
Nulla egli avrebbe voluto o saputo chiedere per sé; ma queste dure sorti dei suoi uomini gli aprivano la
ferita che gli era già stata aperta nell’animo dalla “vendita” di Nizza, la sua casa natale, il suo nido diletto,
ferite che invelenivano da tempo i suoi rancori contro Cavour.
Qualità straordinarie di Garibaldi sono sottolineate dai garibaldini e da tutti coloro che lo avvicinarono. Al suo fascino molti attribuirono il successo della spedizione del 1860 e il risultato del
plebiscito che approvò il nuovo stato italiano unitario in Sicilia e a Napoli, in cui il numero di voti
negativi fu veramente irrisorio. Anche Marc Monnier, uno scrittore francese che nel 1860 è a Napoli e ha lasciato numerose opere sulla storia d’Italia (Storia della conquista delle due Sicilie, inoltre
opere sul brigantaggio e la camorra), si esprime in modo molto simile a L. Colet e a J. White. Egli
osserva la sincera venerazione del popolo per Garibaldi.
10 e 11 settembre 1860. Garibaldi è un santo per i lazzaroni. È Dio che l’ha mandato per salvare il paese;
parecchi lo chiamano Gesù Cristo; i suoi ufficiali sono gli Apostoli. […] I napoletani lo credono invulnerabile: quando è coperto di pallottole, non ha che da scuotere la sua camicia rossa, e le pallottole cadono ai
suoi piedi. È forse a causa di questa superstizione che finora si è salvato da attentati reazionari: ricordare
che egli è entrato da solo nella città, ancora difesa da parecchi soldati (dicono seimila). […] Garibaldi è
passato venti volte in carrozza scoperta tra la folla. È restato tutta la sera al teatro San Carlo illuminato
per lui. E non una pallottola sanfedista è venuta a sibilare intorno a lui.
Decisamente Garibaldi ha detronizzato San Gennaro. Egli è ora il patrono di Napoli.
Questo linguaggio religioso che ricorre a termini come apostolato, martire, redenzione, miracolo ci
dà la misura della fede nella lotta per la libertà e quindi nel progresso dei popoli.
Attuata l’unificazione d’Italia le critiche aumentano, i dissensi tra i repubblicani e i sostenitori delle
istituzioni monarchiche piemontesi si fanno più aspri. La delusione si sostituisce agli entusiasmi,
mentre molte sicurezze che il positivismo aveva ereditato dalla fiducia illuministica nella ragione
cominciano a vacillare. Le inchieste parlamentari mettono in luce i gravi problemi della società del
Sud e gli scrittori mostrano di essere i più sensibili nell’additare i mali del progresso. Verga nella
prefazione ai Malavoglia (1881) rappresenta il progresso come una fiumana che travolge senza
pietà i deboli nel suo cammino fatale volto alla conquista del benessere. Nella novella L’amante di
Gramigna il personaggio del brigante, che non conosciamo direttamente, assume quasi caratteri
mitici. Immaginiamo il suo potere e il suo fascino perché ne vediamo gli effetti nella passione cieca
e illimitata dell’amante, disposta a fare da serva alle guardie della prigione che Gramigna rende
sacra con la sola presenza. La novella Libertà ci racconta invece un drammatico episodio di rivolta
contadina e di feroce repressione a Bronte per opera di Nino Bixio e dei garibaldini, preludio di
quella che sarà la guerra ai briganti.
Federico De Roberto nel suo romanzo I Viceré (1894) ci dà il grande affresco di una famiglia
aristocratica siciliana tra il 1850, quasi alla vigilia della spedizione di Garibaldi, e il 1880 quando
ormai la storia italiana è la storia di un paese unito sotto una monarchia parlamentare, segnata da
lotte politiche e dall’avvicendamento al Governo di maggioranze di segno diverso. Per De Roberto
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la storia non ha un disegno, non si muove in modo razionale e lineare, ci sono invece singoli interessi, singole furbizie e rivalità che tentano di trovare un equilibrio. Il fine delle varie vicende quindi
ha i limiti di una visione tutta individuale e il progresso è solo un processo per conquistare privilegi
borghesi. I Viceré, che sono stati definiti il romanzo dell’antirisorgimento, mostrano un profondo
pessimismo nei riguardi della natura umana14.
L’affermazione attribuita al duca Gaspare Uzeda, “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari
nostri” (II, 8), irride alla famosa frase di D’Azeglio sulla necessità di fare gli Italiani.
Gaspare Uzeda, che fino al 1848 era stato borbonico per la pelle, si volge ai rivoluzionari per motivi
di invidia verso il primogenito della famiglia. Ma i suoi cambiamenti sono numerosi: all’inizio dei
moti del ’48 parla di “carnevalata”, ma quando pensa che i liberali possano prevalere si schiera con
loro; subito dopo il fallimento della rivoluzione del ’48, quando arriva in Sicilia il principe di Satriano, inviato dai Borboni, lo accoglie come un salvatore. In seguito si avvicina di nuovo ai liberali
quando cade la monarchia borbonica e diventa deputato del nuovo Regno d’Italia.
Consalvo, il giovane principe Uzeda di Francalanza che percorre la carriera politica fino a presentarsi per le elezioni in parlamento come rappresentante della Sinistra, si esprime in modo
molto diverso nel suo discorso elettorale e in quello in cui convince la vecchia zia che niente è
cambiato per la razza dei Viceré. Nel discorso elettorale è interessante notare che le caratteristiche attribuite a Garibaldi sono proprio quelle su cui tutti i racconti dei testimoni diretti si
soffermano: forza e dolcezza.
(pp. 295-296) Concittadini!… Voi chiedete un programma a chi sollecita l’onore dei vostri suffragi; il mio
programma, in mancanza d’altri meriti, avrà quello della brevità; esso compendiasi in tre sole parole:
libertà, progresso, democrazia… (Battimani fragorosi ed entusiastici.) […] Concittadini, la mia fede in
questi grandi ideali umani non è nuova, non data da questi giorni, in cui tutti la sfoggiano, come i galanti
vantano le grazie della donna desiderata… (Ilarità), protestando di non volerne i favori… (Nuova ilarità)
ma di star paghi a sospirarla da lungi… (Risa generali). La mia fede data dall’alba della mia vita, quando
i pregiudizi di casta che io conobbi, ma che non mi duole di aver conosciuti, perché ora sono meglio in
grado di combatterli… (Benissimo!) mi vollero chiuso qui, tra questi muri. Permettetemi ch’io vi narri
un aneddoto di quei giorni lontani. Erano i tempi in cui Garibaldi il Liberatore correva trionfalmente da
un capo all’altro del feudo borbonico per farne una libera provincia della libera patria italiana… (Bravo,
bene!) Io ero allora fanciullo, e alla mia mente inesperta ed ignara il nome di Garibaldi sonava come quello di un guerriero formidabile che altre leggi non conoscesse fuorché le dure, le violente leggi di guerra.
Un giorno corse una voce: Garibaldi era alle porte della nostra città; i Padri Benedettini si disponevano
ad ospitarlo… non potendo subissarlo coi suoi diavoli rossi… (Si ride.) Ed io quasi temetti di guardare in
viso quel fulmine di guerra, come se col solo sguardo dovesse incenerirmi. Ed un giorno i miei compagni
m’additarono l’Eroe dei due mondi. Allora io vidi quel biondo arcangelo della libertà intento… sapete voi
a qual opera? A coltivare le rose del nostro giardino! Da quel giorno la rivelazione di quel cuore vasto e
generoso, dove la forza leonina s’accoppiava alla gentilezza soave… (Scroscio di applausi), di quell’uomo
che, conquistato un Regno, doveva, come Cincinnato, ridursi a coltivare il sacro scoglio, dove oggi aleggia
il magnanimo spirito di Lui, che fu a ragione chiamato “il Cavaliere dell’umanità”…
Gli stenografi smisero di scrivere, tale uragano d’applausi e di grida si scatenò. Urlavano: «Viva Francalanza!… Viva Garibaldi!…Viva il nostro deputato!…» e le parole del principe si perdevano nel clamore
universale, vedevasi solamente la bocca che s’apriva e chiudeva come masticando, il braccio che gestiva
rotondamente per finire l’aneddoto. […] «Silenzio!… Parla ancora!… Viva Garibaldi!… Viva il principino!…» Tratto di tasca il fazzoletto, egli lo sventolò gridando: «Viva Garibaldi! Viva l’Eroe dei due mondi!…» Poi, aspettando il silenzio, si terse la fronte imperlata di sudore.
Eletto al Parlamento, Consalvo placa lo sdegno della zia, custode della tradizione familiare, con un
discorso che svela il suo reale pensiero.
(pp. 302-303) «Forse Vostra Eccellenza l’ha anche con me… Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo perdono… Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla… Vostra Eccellenza non può dolersi
che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese… Forse le duole il mezzo col quale questo risultato
s’è raggiunto… Creda che duole a me prima che a lei… Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo
al mondo; lo troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto
bene, forse che prima si stava d’incanto?».
14 cfr. in opposizione Nievo.
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«Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo
che il passato par molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io
mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi
disse: “Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in
Parlamento.” Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse
allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta… Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva
dai Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto… Certo, dipendere dalla canaglia
non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle
proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge
è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile… E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi
la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il
richiamo… o anche la testa!…
[…] «La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le
condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa
d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale
non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. […] In politica, Vostra Eccellenza ha
serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani
legittimi… Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni…
Di qui a ottant’anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia… Certo, la
monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente
irresistibile l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? il nostro dovere, invece di
sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…».
Travolto dalla foga oratoria, nel tripudio del recente trionfo, col bisogno di giustificarsi agli occhi propri,
di rimettersi nelle buone grazie della vecchia, egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione
di quello tenuto dinanzi alla canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo, senza più tossire, soggiogata all’eloquenza del nipote, divertita e quasi cullata da quella recitazione enfatica e teatrale.
Una novella di De Roberto, I vecchi, da Processi verbali (1889) mostra il fallimento degli ideali
risorgimentali attraverso due personaggi, uno di media e l’altro di umile estrazione. Quindi si tratta
di un fallimento che è possibile riconoscere in tutte le classi sociali. All’inizio i due vecchi sono
seduti ai giardini su una panchina. Non conosciamo i loro nomi ma li vediamo: uno più grande,
l’altro più piccolo; in seguito capiremo dai loro discorsi che il più grande era un servo, il più piccolo
un misuratore del catasto. Il più piccolo si rivolge ad alcuni soldati per cercare di chiacchierare un
po’, ma inutilmente perché i soldati parlano dialetti del nord incomprensibili. Quando i due vecchi
cominciano a parlare tra loro rievocano avvenimenti della loro giovinezza, la rivoluzione del ’48, il
1860. L’interpretazione che i due personaggi ne danno è lontanissima dagli ideali e dalle passioni
giovanili dei patrioti e dei garibaldini, è un’ interpretazione che si può considerare qualunquista.
L’impiegato, che ha lavorato a Bronte molto tempo, ricorda gli avvenimenti del 1860 e fa capire che
se i contadini hanno usato le armi contro i signori è stata colpa dei signori che si sono fatti attrarre
da idee liberali e da Garibaldi e hanno armato i contadini. Poi commentando la rivolta dei contadini mette sullo stesso piano ladri e rivoluzionari.
Io glie l’avevo detto, in Casino, ai signori, proprietari, civili, che il popolo non mi andava, e guadagnava
la mano ogni giorno di più. A chi dicevo, a questo bastone?… Avevano il capo alla politica, che doveva
arrivar Garibaldi, e i borbonici se ne stavano rintanati nelle loro campagne. […]
A chi dicevo, a questo bastone? Niente!… Invece, davano loro fucili, polvere e palle, col pretesto della
rivoluzione; come se non fossero bastati i “temperini”, certi “temperini” lunghi così, che ognuno di quegli
amici portava alla cintura!… Ma tanto va la secchia al pozzo, finché si rompe! E lascia fare oggi, e lascia
far domani, finì col sacco e fuoco […]
Il pretesto erano le tasse, che l’annata era stata cattiva e l’esattore succhiava il sangue della povera gente.
Ma la vera tassa era la vendetta, e il denaro del prossimo. Voi mi avevate fatto un torto? Io venivo a casa
vostra, a farmi giustizia con le mie mani, sfondando, bruciando, ammazzando.
L’altro vecchio, il servo, approva sempre con deferenza le parole del compagno. Il misuratore del
catasto si vanta infine di aver fatto il suo dovere da uomo d’ordine e guarda con invidia e malignità
quei borbonici che ora, nel Regno d’Italia, ricoprono incarichi importanti. Il servo a sua volta si
vanta di aver trasportato nel ’48 la roba del padrone dalla Sicilia a Napoli tra innumerevoli pericoli.
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Una prima volta aveva salvato la vita mostrando ai rivoluzionari la coccarda con i tre colori, poi
giunto a Napoli la vigilia del 15 maggio del ’48 aveva trovato l’inferno.
[…] i realisti perdevano. Alle cinque vengono fuori il primo e il quarto reggimento svizzero; e, Madonna
del Carmine! succede una carneficina: case sfondate, bruciate; uomini, donne e bambini: un macello, che
nella notte Ferdinando fece nascondere tutti i morti, per non farli contare…
Il 15 maggio tutta la città era a fuoco, i liberali combattevano sulle barricate e i soldati di Ferdinando, tra cui truppe mercenarie svizzere, diedero luogo a una spaventosa carneficina. In quell’occasione il servo si era salvato gridando Viva lo re.
Ne I vecchi e i giovani di Pirandello (1913) il giovanile entusiasmo dei giovani, che avevano fatto
la rivoluzione del ’48 e avevano seguito Garibaldi, è ormai una fredda illusione priva di vita. È
un romanzo con riferimenti storici molto precisi: l’età umbertina, i Fasci siciliani e la rivolta nelle
zolfare, lo scandalo della Banca Romana. Esso costituisce un raro esempio nella narrativa pirandelliana in cui il tempo storico è generalmente quello di una contemporaneità non precisata. C’è
una contrapposizione tra fasi diverse della storia, ma non veramente tra vecchi e giovani, padri
e figli. La generazione che ha lottato per l’Unità d’Italia sente di aver vissuto una giovinezza segnata dal sacrificio ma anche dall’entusiasmo, ora nella vecchiaia prende atto di una sconfitta e
di un fallimento di cui essa stessa in gran misura è stata l’artefice. Non siamo neanche sicuri che
l’età eroica abbia veramente arricchito di significato la vita dei suoi protagonisti, forse era solo
un miraggio.
Caterina Laurentano, moglie di un garibaldino caduto a Milazzo, dice al figlio Roberto Auriti
che si presenta senza speranza alle elezioni politiche in opposizione alle forze reazionarie e clericali:
(p. 232) Nel Sessanta, caro Roberto, sai che facemmo noi qua? sciogliemmo in tante tazzoline le animucce
nostre, come pezzetti di sapone; il Governo ci mandò in regalo un cannellino per uno; e allora noi qua, poveri imbecilli, ci mettemmo tutti a soffiare nella nostra acqua saponata e che bolle! che bolle! una più bella
e più variopinta dell’altra! Ma poi il popolo cominciò a sbadigliare per fame, e con gli sbadigli, addio!
fece scoppiare a una a una tutte quelle magnifiche bolle che sono finite, figlio mio, con licenza parlando,
in tanti sputi… Questa è la verità!
I giovani sono gli eredi di questa sconfitta, essi, succubi o partecipi della corruzione e delle colpe
del ceto dominante, sono delusi e privi di ogni speranza. Nella realtà presente la disillusione è cocente per tutti: per quelli che hanno vissuto con estrema coerenza e lealtà gli ideali risorgimentali
e hanno voluto trasmetterli ai figli, per i puri che sembrano fantasmi viventi, ma anche per coloro
che hanno combattuto gli ideali liberali, per gli aristocratici che tentano di conservare in vita il
passato borbonico trasformandosi in ridicole maschere. Sono sconfitti anche quelli che con varie
gradazioni si sono adattati al nuovo regime e si sono arricchiti diventando in qualche caso i nuovi
padroni, i signori dell’economia e della finanza.
In una delle pagine più amare del romanzo Pirandello denuncia la corruzione della vita politica italiana.
(p. 237) Tutte le sere, tutte le mattine, i rivenditori di giornali vociavano per le vie di Roma il nome di
questo o di quel deputato al Parlamento nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una
truffa ora di uno scrocco a danno di questa o di quella banca.
[…] Ma sì, ma sì: dai cieli d’Italia, in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango
s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già
guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto, almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e
le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della Città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della
terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri
uccellacci, il sospetto e la calunnia. Sotto il cielo cinereo, nell’aria densa e fumicosa, mentre come scialbe
lune all’umida tetra luce crepuscolare si accendevano ronzando le lampade elettriche, e nell’agitazione degli
ombrelli, tra l’incessante spruzzolìo di un’acquerugiola lenta, la folla spiaccicava tutt’intorno. […]
Era la bancarotta del patriottismo, perdio!
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I vecchi e i giovani è un romanzo straordinario per comprendere le situazioni senza sbocco create
da interessi economici e politici in cui gli ideali non hanno spazio. Ma Pirandello, pur partendo da
un’epoca storica, guarda al di là della storia e qui mostra in modo esplicito la matrice della visione
pessimistica del suo pensiero: è sempre inutile sperare in un rinnovamento, nel progresso storico.
Né un passato eroico, né una vita ascetica dedicata agli studi, né il tradimento o la sopraffazione,
né l’arricchimento raggiunto con i mezzi più meschini o illeciti, niente salva dall’afa della vita. Per
tutti è la condizione umana che annichilisce e avvilisce: clericali e nostalgici del Regno borbonico,
democratici e socialisti, onesti e corrotti; per tutti la vita è condizione soffocante.
La verità pirandelliana è espressa da don Cosmo, fratello del principe don Ippolito Laurentano,
nelle pagine finali del romanzo e ne costituisce la conclusione ideologica. Don Cosmo ha il ruolo
del personaggio-filosofo, si tiene in disparte, conduce una vita austera, dedita agli studi, lontano
dalla società cerca di vivere anche al di fuori della storia, “in parentesi”.
(p. 440) Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco!
Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci
degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo
illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà…
Bibliografia essenziale
Massimo Taparelli D’Azeglio, I miei ricordi, 1863-66
Luigi Settembrini, Le ricordanze della mia vita, 1876
Ippolito Nievo, Le Confessioni di un italiano, 1857-1858
Ippolito Nievo, Il barone di Nicastro, 1860
Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni ovvero scene della vita di un italiano a cura di un amico (Redfield,
New York 1853)
Francesco De Sanctis, L’ultimo dei puristi, 1868, poi raccolto nei Saggi critici
Louise Colet, Le liberateur in L’Italie des Italiens, Paris 1863
Jessie White, Garibaldi e i suoi tempi, Milano 1885
Jessie White, Vita di Garibaldi, Milano 1893
Edmondo De Amicis, Cuore, 1886
Federico De Roberto, I Viceré, Milano 1894
Federico De Roberto, I vecchi in Processi verbali, Milano 1890
Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, Milano 1913
Rosa Pardi
La società dell’Ottocento attraverso i quadri del Museo civico Fattori di Livorno
Come aiutare dei ragazzi di terza media a crearsi un’immagine mentale della vita materiale durante
l’Ottocento, usando fonti accessibili alla loro età in un percorso laboratoriale che li impegni fattivamente?
Una risposta può venire dall’uso combinato delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) e di un bene culturale presente sul territorio: il Museo civico Fattori di Livorno.
Le caratteristiche di questo Museo – piccolo, facilmente raggiungibile, situato in un edificio che
facilita la contestualizzazione dei quadri – permettono di impostare la visita secondo un percorso
di scoperta. L’insegnante, infatti, assegnerà a piccoli gruppi di studenti il compito di selezionare
dalla collezione alcuni quadri secondo criteri: vita in città, vita in campagna, guerra, lavoro, persone. Ogni gruppo ha l’incarico di individuare l’autore, il titolo, l’anno di produzione di ogni opera
scelta15.
A scuola il lavoro prosegue usando il laboratorio di informatica in cui i ragazzi possano lavorare al
massimo due per macchina, meglio se il rapporto è uno a uno. Usando scansioni dei quadri ricavate dal catalogo del museo, ogni coppia seleziona i quadri riferibili al proprio argomento oppure
individua un nuovo argomento: ad es. donne ricche e lavoratrici, oppure moda maschile e femminile, lavori scomparsi. Questi nuovi argomenti di ricerca sono stati effettivamente individuati dai miei
allievi nel corso di una discussione cominciata passando in rassegna i quadri.
Il passo successivo consiste nel creare presentazioni in PowerPoint dell’argomento scelto; i quadri
vengono montati in slide, accompagnati da una breve didascalia esplicativa e da una introduzione
che evidenzia le differenze con il presente. Ad es. un’allieva che si è occupata dell’argomento “vita
15 La prof.ssa Pardi ha presentato nel laboratorio un’ampia scelta dei quadri utilizzati. Ne diamo qui l’elenco:
• Adolfo Tommasi, La raccolta delle olive
• Adolfo Tommasi, Nei campi
• Angiolo Tommasi, Mascagni
• Enrico Pollastrini, Vittorio Emanuele II a cavallo
• Eugenio Cecconi, Cenciaiole livornesi
• Giovanni Fattori, I carbonai o operai maremmani
• Giovanni Fattori, La terza moglie
• Giovanni Fattori, Il fabbro
• Giovanni Fattori, Assalto alla Madonna della scoperta
• Giovanni Fattori, Campagna Romana
• Giovanni Fattori, I buoi
• Giovanni Fattori, Il campo italiano durante la battaglia di Magenta
• Giovanni Fattori, Mandrie maremmane
• Guglielmo Micheli, Porto di Livorno o Nel porto
• Guglielmo Micheli, Bindolo
• Guglielmo Micheli, Carro rosso
• Leonetto Cappiello, La famiglia Cappiello
• Mario Puccini, Fascinaia
• Mario Puccini, Funaioli
• Michele Gordigiani, Ritratto della contessa Bastogi
• Natale Betti, La venditrice di uova
• Plinio Nomellini, Garibaldi
• Plinio Nomellini, Il fieno o il fienaiolo
• Raffaello Gambogi, Emigranti
• Raffaello Gambogi, Funaioli
• Ruggero Penari, Oltre il muro
• Ulvi Liegi, Il mercato centrale
• Ulvi Liegi, L’interno della sinagoga di Livorno
• Ulvi Liegi, Pagliai
• Ulvi Liegi, Scalo regio o I bastioni del granduca
• Ulvi Liegi, Porta romana
• Vittorio Corcos, Ritratto della moglie
• Vittorio Corcos, Ritratto di Yorik
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in campagna” scrive: “dai quadri che ho analizzato si può notare che la vita in campagna era molto
dura e diversa rispetto a oggi. A quel tempo le fonti energetiche provenivano dagli animali e dagli
umani, mentre oggi l’uomo controlla macchine che svolgono il lavoro pesante. Ad es. la raccolta
delle olive veniva fatta dalle donne – La raccolta delle olive di Adolfo Tommasi, 1894 – e il fieno
veniva raccolto a mano dai contadini, i fienaioli – Il fienaiolo di Plinio Novellini, 1888”.
Questa fase viene condotta in autonomia dagli studenti che possono ricercare altre informazioni
usando internet: ad es. altri quadri sul tema, oppure notizie biografiche sull’autore o informazioni
su oggetti che per loro sono sconosciuti. Il carro rosso di Guglielmo Micheli rappresenta un barroccio toscano il cui uso risultava assolutamente sconosciuto; in questo e in altri dipinti compaiono i
pagliai che una volta erano un elemento tipico della campagna toscana, oggi del tutto scomparsi
dal paesaggio.
L’ultima fase riguarda la socializzazione dei prodotti: ogni coppia o singolo proietta la presentazione Power Point relativa all’argomento ed espone i risultati integrando a voce il lavoro. In questa
fase risulta evidente la polisemia delle fonti usate, infatti uno stesso quadro può essere stato interrogato per scopi diversi: il dipinto di Tommasi, La raccolta delle olive, è stato scelto da chi si occupava
di vita in campagna, ma anche da chi indagava sul lavoro delle donne o sul modo di vestire delle
diverse classi sociali.
Riassumendo, i passi necessari sono:
• La ricognizione sul campo: la visita al museo per una prima selezione
• L’osservazione delle immagini scelte usando le TIC
• Il loro montaggio in un PowerPoint con schedatura e brevi didascalie
• La scrittura di una breve introduzione esplicativa
• La socializzazione attraverso una esposizione orale che utilizza il PowerPoint.
Dalla narrazione si capisce che il macro-obiettivo del laboratorio è relativo al concetto di trasformazione, che ritengo basilare nell’insegnamento della storia: individuare cambiamenti e persistenze
costringe a confrontarsi con il presente e a osservarlo. L’iniziale schedatura dei quadri che riporta
l’anno di produzione permette all’insegnante di sottolineare persistenze di lungo periodo, a proposito ad es. degli attrezzi usati in campagna, o di evidenziare cambiamenti epocali come l’uso di
energia inanimata. Penso che proprio l’osservazione delle diverse durate sia un importante obiettivo cui tendere continuamente durante il curriculum.
Infine l’osservazione ripetuta e prolungata aiuta ad accrescere le conoscenze utili alla formazione
di quel quadro mentale a cui accennavo all’inizio, essenziale per creare il contesto per altre storie:
la politica, l’economia, le idee.
Non sono da trascurare, a mio avviso, altre competenze trasversali che vengono esercitate, quali
schedare usando uno schema dato, scrivere didascalie e brevi introduzioni, infine parlare in pubblico usando come supporto una presentazione in PowerPoint.
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Orsetta Innocenti
Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli
Il testo che segue è niente più che la scaletta del laboratorio che Orsetta Innocenti ha condotto
sull’inno di Mameli. Ci sembra opportuno proporlo nonostante la sua incompletezza, anche in
considerazione del successo che ha avuto in seguito l’interpretazione che ne ha fatto Roberto Benigni a Sanremo e della sua possibile utilizzazione didattica.
L’INNO UFFICIALE
Testo: Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli
G. Mameli, Canto degli Italiani
Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò
I –Dove siamo.
Speranze e delusioni del ’48; il contesto mazziniano.
II – E questo cos’è?
L’immediatezza dei versi e l’impeto della melodia lo resero subito il canto più amato dell’unificazione: non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli
Italiani – e non alla Marcia Reale – il compito di simboleggiare la patria, ponendolo accanto a God
Save the Queen e alla Marsigliese. L’ufficializzazione del Canto quale inno nazionale della Repubblica italiana avvenne il 12 ottobre 1946.
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III – L’autore e il contesto culturale.
Goffredo Mameli (1827-1849)
Il padre Giorgio Giovanni, della famiglia aristocratica sarda dei Mameli, o Mameli dei Mannelli,
contrammiraglio della Regia Marina Sarda, aveva percorso tutta la carriera nella marina iniziando da ufficiale, spostandosi poi a Genova per comandare una squadra della flotta del Regno di
Sardegna e a Torino per ricoprire la carica parlamentare; la madre era Adelaide (Adele) Zoagli,
della famiglia aristocratica genovese degli Zoagli, figlia a sua volta del Marchese Nicolò Zoagli e di
Angela dei Marchesi Lomellini.
Goffredo Mameli frequentò le Scuole Pie dell’Ordine Calasanziano di Genova e l’Università; all’età
di 20 anni fu autore delle parole del Canto degl’Italiani (1847), più noto come Inno di Mameli, musicato da Michele Novaro e adottato poi come inno nazionale della Repubblica italiana. Ma già ai tempi
della scuola aveva dimostrato il suo talento letterario componendo versi d’ispirazione romantica.
Mameli venne presto conquistato dallo spirito patriottico e, durante i brevi anni della sua giovinezza, fu seguace di Mazzini e fece parte del Comitato dell’Ordine, promotore di varie manifestazioni
a favore dell’introduzione di riforme liberali nel Regno di Sardegna. In occasione di una manifestazione antiaustriaca recitò una delle sue composizioni patriottiche: Per la festa del 10 dicembre 1847
in Genova e sventolò, malgrado la proibizione del governo, la bandiera tricolore.
Nel marzo 1848 organizzò una spedizione di 300 volontari genovesi per andare in aiuto dell’insurrezione di Milano e, in virtù di questa impresa coronata da successo, venne arruolato nell’esercito
di Giuseppe Garibaldi con il grado di capitano. In questo periodo compose un secondo canto
patriottico, intitolato l’Inno militare, musicato da Giuseppe Verdi.
Dopo la caduta di Milano e l’armistizio Salasco, Mameli tornò a Genova. Entrò a far parte del
Circolo italiano e assunse la direzione del giornale Diario del popolo promovendo una campagna
di stampa per la ripresa della guerra all’Austria.
Giunta la notizia delle sommosse popolari seguite all’uccisione di Pellegrino Rossi, si recò a Roma
dove promosse la convocazione di una costituente nazionale secondo i dettami politici di Mazzini:
sovranità popolare, guerra d’indipendenza, rinvio della questione della scelta della forma di governo a dopo la cacciata dello straniero. Dopo la fuga di Pio IX e la proclamazione il 9 febbraio 1849
della Repubblica romana di Mazzini, Armellini e Saffi, Mameli si occupò soprattutto dell’organizzazione militare. Si prodigò nella difesa della Repubblica romana assalita dai Francesi, partecipando ai principali fatti d’armi.
La sua morte avvenne in seguito a delle circostanze accidentali: nella difesa della villa del Vascello fu
ferito in maniera non particolarmente grave da un commilitone, con la baionetta, a una gamba. Morì
per la sopravvenuta infezione il 6 luglio 1849 a soli 21 anni, all’ospizio della Trinità dei Pellegrini.
Fu sepolto al Verano, dove è ancor oggi visibile il suo monumento. Tuttavia le sue spoglie vennero
traslate nel 1941 al Gianicolo, dove il fascismo belligerante aveva spostato e ricostruito il Monumento ai caduti per la causa di Roma Italiana eretto inizialmente (nel 1879) lì presso, nel piazzale di
San Pietro in Montorio.
IV – Di che parla il testo
È la parte centrale della lezione.
Oltre alla spiegazione letterale del testo occorre fornire una spiegazione per le parole più insolite
(“calpesti” per “calpestati”, “squilla” per “campana”, “natio” per “dove si è nati” eccetera).
Avvenimenti storici richiamati nel testo:
Concezione progressiva della storia italiana sottesa agli ideali risorgimentali (richiamo a Dante, La
Divina Commedia, i canti VI e in particolare l’Aquila del Paradiso)
- Scipio è Scipione l’Africano: modello di storia romana (e origini divine  possibile
richiamo a Virgilio, Eneide, e all’origine mitica della rivalità tra Roma e Cartagine);
- La battaglia di Legnano: (possibile parallelo con Il parlamento di Carducci)  significato dell’Italia comunale come modello di unione italiana contro il nemico straniero
(sempre nell’interpretazione patriottica ottocentesca, distinguere tra storiografia reale e
‘patriottica’); modello della poesia civile patriottica del XIX secolo (Manzoni, Giusti 
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idea della letteratura storica come civica e moralizzatrice  Manzoni sul romanzo storico
e stesso significato sotteso anche ai Promessi sposi)
- Ferruccio: Francesco Ferrucci (Ferruccio): difensore di Firenze nel Cinquecento (e
omaggiato come eroe del pre-Risorgimento  vedi per esempio il testo Francesco Ferrucci e
la guerra di Firenze 1529-30, pubblicato nel 1889 con prefazione di Giovanni Bovio. Le vicende che videro protagonista Ferrucci si svolsero durante l’Assedio di Firenze (12 ottobre 1529
- 12 agosto 1530), a opera delle milizie imperiali di Carlo V, costituite però prevalentemente
da Italiani. Ferrucci divenne celebre per la strenua difesa che l’esercito della Repubblica fiorentina, da lui guidato, oppose agli imperiali. Egli fu infine sconfitto da forze preponderanti a
Gavinana, sulla montagna pistoiese, ferito e catturato il 3 agosto 1530. Nella stessa battaglia
perse la vita il comandante dell’esercito imperiale, Filiberto di Chalon, principe d’Orange. Il
condottiero, già gravemente malato e ferito, fu portato al cospetto del comandante superstite,
Fabrizio Maramaldo, un militare italiano al soldo dell’esercito imperiale, che per vendicarsi
delle numerose sconfitte e scherni da lui ricevuti, lo uccise contro tutte le regole della cavalleria. Si vuole che Francesco Ferrucci prima di spirare gli abbia rivolto con disprezzo le celebri
parole: “Vile, tu uccidi un uomo morto”. Dieci giorni dopo Firenze si arrese agli imperiali e
dovette accettare il rientro dei Medici. Il sacrificio di Ferrucci è diventato, in epoca risorgimentale, emblema del sentimento di orgoglio nazionale, e il nome del suo aggressore (Maramaldo) è divenuto, per antonomasia, sinonimo di “traditore”, “fellone”.
- Balilla: Giovan Battista Perasso o Giambattista, detto Balilla, è una popolare figura storica di patriota della Genova del Settecento. La tradizione racconta che nacque nella
frazione di Pratolongo di Montoggio in valle Scrivia. La sua reale identità è rimasta dubbia
ma in lui viene identificato il giovane da cui il 5 dicembre 1746 prese le mosse la rivolta
popolare contro gli occupanti dell’impero asburgico nel quartiere genovese di Portoria. La
popolazione venne incitata dal ragazzo a sollevarsi attraverso il lancio di un sasso contro
le truppe austro-piemontesi che sotto il comando del ministro plenipotenziario Antoniotto
Botta Adorno occupavano la città, a quel tempo alleata con i Francesi e gli Spagnoli. Il 10
dicembre 1746 la città fu così liberata dalle truppe austriache. L’arroganza dei soldati austriaci, che pretendevano di essere aiutati a estrarre fuori dal fango un pezzo di artiglieria,
fu la miccia che fece esplodere la risolutiva – per le sorti di Genova – rivolta popolare.
Come ricorda il giornalista e scrittore Paolo Lingua nel suo libro Breve storia dei Genovesi,
il mito del Balilla fu alimentato (e ingrandito) in pieno Risorgimento, ovvero cento anni
dopo gli accadimenti che portarono alla rivolta popolare contro le truppe austro-piemontesi. La sua figura fu poi ulteriormente enfatizzata, sempre in chiave fortemente patriottica,
nel ventennio dell’era fascista, anche attraverso la creazione dell’Opera Nazionale Balilla.
Nessuna testimonianza storica accertata e accertabile, né alcun documento ufficiale forniscono dunque il nome esatto del protagonista di questo storico episodio, tanto che a lungo
attorno a questa figura – che pure è stata, questo sì, storicamente accertata – è aleggiato un
alone di leggenda. Approfondite ricerche sulla esatta identità dell’eroe di Portoria furono
peraltro portate avanti nell’Ottocento con esiti controversi. Si giunse però ad accertare
che due Giovan Battista Perasso (o Giambattista Perasso) erano nati rispettivamente uno
nel 1729 a Pratolungo di Montoggio, sulle colline di Genova; l’altro nel 1735 nello stesso
quartiere di Portoria. Entrambi quindi sono i possibili Balilla della storia. La Società Ligure di Storia patria nel 1927 ha messo, per così dire, una parola definitiva sulla questione
stabilendo che non è possibile – sulla base dei documenti di cui si dispone – identificare
con sicurezza il “ragazzo delle sassate”. Anche per lo storico Federico Donaver, del resto,
il monumento eretto a ricordo dell’episodio di Portoria rappresenta, oltre che l’eroe in sé
stesso, “l’ardire generoso d’un popolo che, giunto al colmo dell’oppressione, spezza le sue
catene e si rivendica la libertà”.
Etimologicamente, la parola balilla equivale a monello o ragazzo, ma molte fonti la fanno
derivare da Baciccia, adoperato a Genova come diminutivo del nome Giovan Battista (o
Giambattista).
L’episodio consente un facile riferimento al post-Risorgimento e al concetto di ‘educazione
dell’Italia bambina’ (Collodi [1883] e De Amicis [1886]); in particolare, è importante sottoli107
neare l’equivalenza (analizzata in tempi recenti per esempio da Spinazzola, Asor Rosa, Boero
e Faeti) tra Italia bambina e protagonisti bambini (l’intero Risorgimento come romanzo di
formazione dell’Italia)  non a caso, nascita della “letteratura giovanile” (Pinocchio, Cuore,
Gian Burrasca) e scelta di protagonisti ragazzini che si trovano anche nell’Inno.
Possibile parallelo più approfondito con Cuore e in particolare con i “racconti mensili” (il
valore dell’identificazione)  anche nell’Inno il protagonista bambino e lo spaziare storico
si aggiungono a un interregionalismo spinto
- Vespri: allusione all’episodio dei “Vespri siciliani”. Tutto ebbe inizio mentre si era in
attesa della funzione del Vespro il 31 marzo 1282, lunedì di Pasqua, sul sagrato della chiesa
dello Spirito Santo, a Palermo. A generare l’episodio fu – secondo la ricostruzione storica
– la reazione al gesto di un soldato dell’esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in
maniera irriguardosa a una giovane donna accompagnata dal consorte, mettendole le mani
addosso con il pretesto di doverla perquisire; a difesa di sua moglie, lo sposo riuscì a sottrarre
la spada al soldato francese e lo uccise. Tale gesto fu appunto la scintilla che dette inizio alla
rivolta. Nel corso della serata e della notte che ne seguì i palermitani – al grido di Mora, mora!
– si abbandonarono a una vera e propria caccia ai francesi che dilagò in breve tempo in tutta
l’isola, trasformandosi in una carneficina. I pochi Francesi che sopravvissero al massacro vi
riuscirono rifugiandosi nelle loro navi, attraccate lungo la costa.
Complessivamente si tratta di una serie di riferimenti al passato glorioso (episodi storici di
orgoglio patriottico che dovrebbero convalidare una visione teleologica della storia italiana) che si prestano a un trattamento multi-disciplinare (es. Verdi scrive due opere: I Vespri
Siciliani e La battaglia di Legnano)
- sangue polacco: riferimento al congresso di Vienna (1815): Polonia e Italia avevano
un comune nemico nell’Austria.
V – Il senso generale
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Unità storica e geografica già implicita fin dalla prima parola “fratelli”
Patria vs stranieri
Citazione di posti in Italia che rimanda per estensione all’Italia tutta
Frantumazione vs unità
Quello che potremmo definire il “filo rosso dantesco”: unione di Italia come volere divino (di
nuovo implicitamente Paradiso, VI e il discorso di Giustiniano)
VI – L’inno ufficioso
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l’idea di nazione e il Risorgimento mancato
problema del valore musicale e poetico (ma soprattutto musicale) e dell’uso politico dell’inno
(che spiega la scelta a favore di Mameli)
confronto possibile con il Va’ pensiero dal Nabucco di Verdi (testo di Temistocle Solera, 1842) e
anche con altri cori di opera (p. es. il celebre coro della Norma, “Guerra! Guerra!”, di Bellini).
confronto tra i due testi (Va’ pensiero introspettivo)
ruolo popolare urbano dell’opera lirica (cambiamento di costume)
connessioni tra musica e politica e soprattutto l’uso della musica come veicolo di trasmissione per temi profondamente sentiti dalla collettività  concetto di uso pubblico della storia e
uso pubblico della musica.
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Finito di stampare nel mese di Settembre 2011
presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.
Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa
Tel. 050 313011 • Fax 050 3130300
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