Interviste con Steven Spielberg Greg Bear Maurizio Manzieri

Transcript

Interviste con Steven Spielberg Greg Bear Maurizio Manzieri
FANTASCIENZA
DELOSBOOKS
RIVISTA DI FANTASCIENZA
ESTATE 2008 - ANNO VI - NUMERO 14 NUOVA SERIE
Benjamin Rosenbaum
Tim Pratt
Thomas Ligotti
L.R. Johannis
Interviste con
Steven Spielberg
Greg Bear
Maurizio Manzieri
54
9,90
Sommario
www.fantascienza.com/robot
NARRATIVA
F A N T A S C I E N Z A
ISSN 1974-8205
Rivista diretta da
Vittorio Curtoni
Direttore responsabile
Franco Forte
Redazione
Silvio Sosio
Francesco Lato
Grafica
Silvio Sosio
Copertina
Maurizio Manzieri
Illustrazioni interne
Giacomo Pueroni
Luca Vergerio
Stampa
Stampa Editoriale S.r.l.
Manocalzati Avellino
www.stampaeditorialetodisco.com
Collaboratori
Riccardo Anselmi
Kremo Baroncinij
Giorgio Betti
Vittorio Catani
Giovanni De Matteo
Valerio Evangelisti
Andrea Jarok
Francesco Lato
Claudio Leonardi
Giuseppe Lippi
Marco Spagnoli
Flora Staglianò
Roberto Taddeucci
Elisabetta Vernier
Responsabile distribuzione
Andrea Iovinelli
[email protected]
Una pubblicazione
Associazione Delos Books
Piazza Bonomelli, 6/4
20139 Milano
http://www.delosbooks.it
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Pubblicità
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Presidente Silvio Sosio
Dir. editoriale Franco Forte
Comunicazione Luigi Pachì
Una copia Euro 9.90. Reg. Tribunale di
Milano n. 513 del 16 settembre 2003.
È vietata la riproduzione di testi e foto
senza l’autorizzazione dell’editore.
6 Sogni impossibili di Tim Pratt
38 I linguampiri del quarto pianeta
di Oleg Ovchinnikov
62 Cardanica di Dario Tonani
94 Le vigilie di Natale della zia Elise
di Thomas Ligotti
122 Duello sull’Atlantico di Giuseppe De Micheli
146 Tre terrestri e un marziano di L.R. Johannis
178 La casa oltre il cielo
di Benjamin Rosenbaum
Pag. 51: Una breve
storia di una lunga
carriera, quella di
Arthur C. Clarke
RUBRICHE
2 Editoriale di Vittorio Curtoni
23 CINEMA - Intervista con Steven Spielberg
di Marco Spagnoli
29 L’OCCHIO ALIENO - Cassandra Writing di
Giorgio Betti
35 AL ROGO! - I draghi soporiferi di Valerio
Evangelisti
51 CRITICA - Il grande disegno di Arthur C.
Clarke di Enzo Verrengia
56 NOTO & IGNOTO - Fruttero, Lucentini 2: faccia
a faccia di Giuseppe Lippi
87 INTERVISTE - Greg Bear Radio di Michael Lohr
103 INTERVISTE - Manzieri The Marvellous
di Silvio Sosio
111 FUMETTI - Il fumetto del futuro
di Claudio Leonardi
138 FANDOM - Il risveglio del fandom
di Andrea Jarok e Kremo Baroncinij
143 RETROFUTURO - L.R. Johannis
di Vittorio Catani
163 TELEVISIONE - Animazione di fantascienza
nel Sol Levante di Giovanni De Matteo
171 FANTAGIOCHI - Il potere della forza
di Riccardo Anselmi
190 LIBRI
Pag. 23: Indy is back.
Marco Spagnoli ha
intervistato il regista
Steven Spielberg
Pag. 103: Come
nasce l’arte di
Maurizio Manzieri,
l’autore della
copertina
SCRIVI A ROBOT:
via email:
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posta tradizionale:
Robot - Delos Books
Piazza Bonomelli 6/4
20139 Milano MI
1
L’editoriale
I miei alveari di libri
di Vittorio Curtoni
N
2
ell’appartamento dove mi sono
trasferito da marzo, e che molto
amo per la luminosità, l’ampiezza
dei locali e la splendida ristrutturazione
ideata da mia moglie Lucia, ho due alveari di libri. Sono le nuove librerie che
abbiamo messo nel corridoio d’ingresso, color bianco cigno (o così dice la ditta; a me i cigni paiono un po’ più bianchi,
comunque), tre metri di base per due e
mezzo d’altezza. Accolgono chi entra
con la calorosità di svariate centinaia di
volumi rilegati o brossurati, materiale da
libreria, non da edicola, e fanno da prologo agli altri contenitori di carta stampata sparsi in casa. Assieme a DVD e videocassette, le relativamente poche che ho
conservato dopo accurata selezione; le
altre le ho regalate a Riccardo Anselmi,
che immagino sia ancora lì a intripparsi
gli occhi con le centinaia di film che ho
registrato negli anni eroici del VHS.
Se le guardate dalla pozza di luce del
soggiorno e procedete lentamente verso il corridoio, le librerie vi appariranno
effettivamente come alveari colmi di cellette nelle quali le operose api dell’ingegno umano hanno disseminato il miele prodotto dalle loro fatiche: narrativa
e saggistica di svariata natura, un po’ di
poesia, d’arte, di fotografia, di fumetti, e
quant’altro. Accumuli annosi di volumi
che hanno scandito il procedere della
mia esistenza danno in maniera impeccabile il senso del vissuto, e con la policromia dei dorsi ravvivano il colore chiaro dell’ambiente. Se poi qualcuno avesse
anche voglia di leggere, beh, credo gli resterebbe solo l’imbarazzo della scelta.
All’interno di questi alveari ho predisposto un piccolo settore con i pochi
libri che ho scritto io, più qualche antologia con miei racconti; ma il mio vero
trionfo sta nella serie di ripiani sui quali
ho sistemato le mie traduzioni di romanzi e saggi da libreria: un centinaio di titoli, molti dei quali di dimensioni pantagrueliche, che formano in pratica il rias­
sunto e suppongo il senso della mia vita. Assieme alle traduzioni da edicola
(Urania, Galassia e compagnia bella), che
ho messo nello studio e sono circa centocinquanta. Nell’insieme, mi sono reso
conto di avere tradotto dal 1970 a oggi
duecentocinquanta libri, senza contare
le numerose traduzioni di materiale breve (racconti, articoli) su riviste disseminate qua e là.
Ora, credo che la prospettiva dei milioni di miliardi di fantastilioni di parole
Editoriale
contenuti in quell’ammasso traduttorio
possa far vacillare la mente umana. Accadrà anche ai miei colleghi di porsi di fronte a ciò che hanno tradotto e chiedersi:
ma davvero l’ho fatto io? Io ho scritto tutta questa roba, trasferendola da una lingua a un’altra nel migliore dei modi che
mi è stato possibile? Sgomenta rendersi
conto di quanto si è lavorato, affrontando di volta in volta sfide diverse, perché
ogni singolo libro, bello o brutto che sia,
è un capitolo a sé; e, almeno a me, accade di restare basito prendendo in mano
un libro uscito magari trent’anni fa e rendermi conto di non ricordarne nulla, neanche il minimo accidente. Tanto che leggendo la quarta di copertina o il risvolto giurerei di non averlo mai letto. Eppure c’è scritto che l’ho tradotto io, e quindi
deve essere vero, perché gli editori non
mettono un nome qualunque di traduttore a capocchia (tranne qualcuno che
talora lo fa, ma è la rarissima eccezione).
Sarà forse per questo che sto sentendo spuntare eteree alucce sulla schiena
e un robusto pungiglione dal posteriore:
ape libraria sono sempre stato, la metamorfosi si deve compiere. Via, via, in volo verso nuovi fiori, nuovi umori letterari,
altri volumi e volumetti con il mio nome
da aggiungere all’alveare. Come mi disse
tempo fa Sandrone Dazieri: “Deve essere bello avere il tuo nome su tanti libri.”
Sì, vero, è bello. Dà anche il capogiro, però. L’importante è continuare a restare librati in aria senza precipitare per eccesso di stanchezza. O di pesticidi nell’ambiente. Se mi sono spiegato.
U
no dei pregi decisamente unici
di tutte le librerie presenti in casa mia, non solo i due alveari, è l’ospitare
un alto numero di libri (in italiano e inglese soprattutto, qualcuno in francese)
forniti di dedica al sottoscritto. Conosco
bibliofili che vedono le dediche, o anche la semplice firma dell’autore, come
il fumo negli occhi, ritenendo l’aggiunta
dell’inchiostro di una biro o una stilografica macchia indelebile per il nitore della carta stampata. Rispetto le opinioni altrui, ma la penso diversamente.
Amando facilitarmi la vita fin dove
è possibile, e considerandomi per molti versi un autarchico, ho cominciato
col dedicarmi tutti i miei libri, un’operazione semplicissima grazie alla quale,
aprendo i sette tomi che recano il mio
nome in copertina, posso leggere nella mia schifosissima grafia: A me stesso,
con enorme stima. Vittorio. Come mi disse anni fa Andrew Masterson: “È molto
meglio che trovarci scritto: Non c’è ma�
le, ma potevi fare di più.” Un grande saggio, Andrew.
Poi sono partito alla conquista del
mondo, e ora la quantità di dediche e autografi ospitata sui libri in mio possesso
è veramente notevole. Tra i pezzi più pregiati: la dedica di Leonard Cohen sul suo
romanzo Il gioco preferito, quelle di Robert Sheckley, Paul Di Filippo e James
Morrow su tutta una serie di libri in lingua originale, quella di Daniel Drode su
Surface de la planète. E qui mi fermo, anche se potrei procedere a lungo. Ma poi
a chi importa, giusto?
3
4
Il lato più bellissimissimo di questa
mia passione è che mi porta spesso a incontrare autori, non di rado in condizioni di totale rilassatezza e cordialità. Possibilmente a pranzo, o a cena, se del caso
con la complicità di un editore italiano
che apprezza il mio lavoro e giudica cosa buona farmi conoscere allo scrittore
che ho tradotto. Grande, davvero. Eventi
di questo tipo mi fanno sempre godere a
velocità smodata.
Nei giorni in cui scrivo mi è successo
di nuovo nella mia città, Piacenza, che
al momento (maggio) ospita un Festival
Blues giunto alla quarta edizione con
eccellente successo. Oltre ai bluesmen
arrivati da mezzo mondo, sono ospiti anche scrittori di varie nazionalità; e,
grazie ai miei potenti agganci politici, sono già riu­scito a pranzare con Joe
R. Lansdale e James Sallis, due autori che proprio non credo abbiano bisogno di presentazioni. Lansdale, fra l’altro, è qui con la moglie e con la figlia Kasey, che è una musicista (a mezza strada
tra country e blues) e si esibirà all’interno del festival.
Ho sbolognato a entrambi una copia
di Robot, molto apprezzata, e ottenuto
la promessa dell’invio di racconti per la
nostra amata rivista. Mi risentirò con loro via e-mail. Wow. Sallis è oggi noto come autore di polizieschi, però ha iniziato
con la fantascienza (su New Worlds, mi ha
detto) e non gli spiacerebbe tornare alle origini in Italia. Un uomo simpaticissimo. Come, ovviamente, Lansdale, di rara
amabilità, per quanto soffra di un difet-
to incurabile: è astemio! E chi lo avrebbe
immaginato, leggendo i suoi libri? “Il vino proprio non mi piace”, mi ha confessato. “Nemmeno quello italiano che tutti amano. Posso bere un po’ di birra, ma
non vado matto nemmeno per quella.
Cosa posso farci se l’alcol non mi gusta?”
Assolutamente nulla, per carità. Non sai
quel che ti perdi, e peggio per te. Si è
mangiato un eccellente, ricchissimo risotto sorseggiando Coca Cola…
A
questo punto, per quanto sia ovvio che ormai siamo alla fine, forse qualche speranzoso lettore si aspetta
ancora che io parli di questo numero di
Robot. Nossignori, non lo farò. Il fascicolo è nelle vostre mani, non avete altro da
fare che leggerlo per giudicare da voi. Se
lo avete comperato, si suppone che vi interessi, quindi cosa dovrebbe importarvi
delle omelie del direttore?
Due cose dovrebbero essere chiare. Uno, ho letto e approvato il materiale contenuto in queste pagine, per cui
non credo proprio di rifilarvi una ciofeca. Anche se potrei sbagliarmi, ma non
è che parlandone qui cambierei le cose.
Due: non reggo più, o quasi (le eccezioni
sono sempre possibili), l’idea di scrivere
il classico editoriale. Se date uno sguardo ai numeri più recenti ve ne renderete
conto. Cerco solo, nella mia immodestia,
di comunicare idee e sensazioni che attraversano i miei giorni. E che spero possano interessare. Sforzandomi di non essere indigesto, nel mio periodare pallido
e assorto. Alla prossima!
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Narrativa
Sogni impossibili
di Tim
Pratt
Premio Hugo 2007
Miglior racconto breve
P
ete stava tornando a casa dopo
la serata trascorsa a vedere Acque del sud in un cinema d’es­
sai, quando notò per la prima volta il
videonoleggio.
Si fermò sul marciapiede, con la te­
sta piegata, pensieroso davanti al pic­
colo negozio strizzato fra una bottega
di oggetti da regalo molto kitsch e un
fornaio. Avanzò di un passo verso la
porta, sbirciò all’interno e vide poster
di vecchi film, scaffali pieni di DVD e
VHS, e un grande schermo TV addos­
sato a una parete. La scritta sulla porta
diceva “Sogni Impossibili Video” e le
macchie sul vetro indicavano che esi­
steva da qualche tempo.
Ma non era così. Pete conosceva
ogni videonoleggio della contea,
dalle grandi catene ai negoziet­
ti minuscoli dove il perso­
nale era costituito da stu­
denti universitari, ai
piccoli porno shop di
Illustrazione
di Giacomo Pueroni
periferia, che talora vendevano clas­
sici dell’horror all’italiana o bootleg
asiatici. Non aveva neppure mai sen­
tito nominare quel posto e ci passava
davanti almeno due volte la settimana.
Pete credeva nei film come molta gen­
te crede in Dio e non poteva concepire
il non aver notato un negozio del ge­
nere ad appena tre isolati dal proprio
appartamento. Spinse la porta facen­
do risuonare un campanellino: il ne­
gozio era piccolo, solo tre corridoi di
DVD e una parete di videocassette, lu­
ci fluorescenti e una vecchia moquette
azzurra. Non c’erano clienti. La com­
messa disse: — Dica pure se le serve
qualcosa — e Pete annuì, notando­
la appena, se non per il fatto che fos­
se una donna di poco più di vent’an­
ni con capelli corti e chiari somiglianti
alla peluria di un pulcino.
Si diresse alla sezione classici. Era
un cinefilo onnivoro, ma la qualità di
un videonoleggio si valuta dallo scaf­
7
fale dei classici, proprio come si giu­
dica il livello di civiltà di una nazio­
ne dalle condizione delle sue prigio­
ni. Scorse la fila di titoli conosciuti e si
fermò davanti a un DVD a testa in giù
con un argenteo bollino “novità” ap­
piccicato davanti.
Lo sollevò con mani tremanti: la
confezione vantava di contenere il director’s cut di L’orgoglio degli Amberson di Orson Welles.
— È uno scherzo? — disse quasi
arrabbiato, tenendo in alto la confe­
zione.
— Come? — chiese la commessa.
Lui le si avvicinò brandendo la sca­
tola e capì subito dalle sopracciglia
inarcate e dall’atteggiamento guardin­
go che la donna immaginava un pro­
blema in arrivo. — Mi scusi — disse.
— Qui dice director’s cut di L’orgoglio
Tim Pratt (1976) è poeta
e scrittore di fantascienza e
fantasy. È cresciuto nel North
Carolina e ha frequentato la
Appalachian State Universi�
8
degli Amberson, restaurato con le par­
ti mancanti.
— Sì — rispose la donna, di nuovo
distesa. — È uscito qualche settima­
na fa, non lo sapevi? Prima si poteva
vedere soltanto la versione originale,
quella massacrata dalla produzione…
— Ma la pellicola mancante — la
interruppe lui, — è andata intera­
mente perduta, distrutta, e l’unica
traccia degli ultimi cinquanta minuti
deriva dalla sceneggiatura.
La donna si incupì — Beh, sì, la pel­
licola è andata perduta e tutti credeva­
no che fosse stata distrutta, ma l’han­
no ritrovata lo scorso anno nell’ango­
lo sperduto di un magazzino.
Poteva essergli sfuggita una notizia
del genere? I forum da lui frequentati
in rete avrebbero dovuto pulsare della
notizia, un vero e proprio sogno ba­
ty, dove si è laureato in lette�
ratura inglese. In seguito si è
trasferito in California, prima
a Santa Cruz e poi a Oakland,
dove vive con la moglie Hea�
ther Shaw ed è redattore del�
la rivista Locus, per cui, tra le
altre cose, scrive… i necrologi.
Come molti autori delle ulti�
me generazioni, ha frequen�
tato i corsi di scrittura creativa
del Clarion Workshop.
Ha pubblicato una rac�
colta di poesie, due di raccon�
ti (Little Gods, 2003 e Hart
& Boot, 2007) e un roman�
zo (The Strange Adventures
of Rangergirl, 2005), nonché
(firmandosi T.A. Pratt) una se�
rie di “fantasy urbana” incen�
trata sul personaggio di Mar�
la Mason, metà strega e metà
supereroina.
Sue storie sono appar�
se in riviste come Realms of
Fantasy, Strange Horizons e
due su Asimov’s, la seconda
delle quali, che qui presentia�
mo, ha vinto il premio Hugo
2007. (FL)
Sogni impossibili
gnato per l’appassionato di cinema.
— Come hanno fatto a trovare la pel­
licola?
— È una storia molto interessante.
Welles ne parla nel commento al film.
Voglio dire, è un po’ balbettante, ma
quel tizio ha ormai più di novanta an­
ni, cosa ci si può aspettare? Lui…
— Ti sbagli — disse Pete. — A me­
no che Welles non parli dall’oltretom­
ba. È morto negli anni Ottanta.
La donna aprì la bocca, la richiuse
ed esibì un sorriso falso. A Pete sem­
brava di ascoltare il mantra che in
quel momento la donna doveva ripe­
tersi mentalmente: il cliente ha sem­
pre ragione, anche quando sbaglia. —
Certo, sarà come dici tu. Vuoi noleg­
giarlo?
— Sì — rispose, — ma non ho la
vostra tessera.
— Sei di qui? Mi serve solo un nu­
mero di telefono, la carta di identità e
una prova dell’indirizzo.
— Credo di avere la mia ultima bu­
sta paga — rispose Pete, cercando nel
portafoglio e passandole i documen­
ti richiesti. La donna gli consegnò un
modulo da riempire, poi inserì i dati
nel computer. Nel frattempo l’uomo
le disse: — “Senti, non voglio sembra­
re un idiota, è solo che… sono molto
informato sui film.
— Non devi credere a me — rispose
la donna, picchiettando con un dito la
confezione del DVD. — Fanno $3.18.
Pete estrasse nuovamente il porta­
foglio, ma sebbene fosse stracolmo di
scontrini vari e pezzetti di carta con
appunti e memo, non aveva denaro
contante. — Accetta una carta di cre­
dito?
La donna storse la bocca: — C’è un
minimo di cinque dollari per usare la
carta di credito, mi spiace. Regole del­
la casa.
— Prenderò un altro paio di film
— disse lui.
La commessa alzò gli occhi verso
l’orologio a parete: erano quasi le 10.
— So che stai per chiudere, farò in
fretta — aggiunse Pete.
La donna scrollò le spalle: — Certo.
Pete andò al reparto fantascienza,
solo per ricevere un altro shock. C’era
Io, Robot, ma non si trattava del non
certo indimenticabile film d’azio­
ne con Will Smith: era più vecchio e
nei credits diceva “scritto da Harlan
Ellison”. Ma l’adattamento di Ellison
del romanzo di Asimov non era mai
stato prodotto, per quanto fosse sta­
to pubblicato sotto forma di libro. —
Si tratterà di una qualche produzione
studentesca non autorizzata — mor­
morò, non riconoscendo il nome del­
la casa di produzione. Ma… ma… di­
ceva “vincitore del premio Oscar per
la miglior sceneggiatura non origi­
nale”. Doveva trattarsi di uno scher­
zo dello studente regista, una coper­
tina palesemente assurda, come se il
film provenisse da una qualche realtà
parallela. Valeva la pena vederlo, an­
che se non riusciva a capire come non
ne avesse mai sentito parlare. Proba­
9
bilmente si trattava di una produzio­
ne locale. Lo portò al banco e porse la
carta di credito.
La commessa guardò la tessera
dubbiosa: — Visa? Mi spiace, accettia­
mo solo la Weber e la Foster.
Pete la fissò, riprendendo in mano
la carta. — È una delle carte di credi­
to più diffuse — disse, parlando lenta­
mente, come si rivolgesse a un bambi­
no. — Non ho mai sentito…
Alzando le spalle, la ragazza guar­
dò nuovamente l’orologio, stavolta in
modo più esplicito. — Mi spiace, non
sono io a fare le regole.
Doveva vedere questi film. Quando
si trattava di pellicole — nuove! stra­
ne! — Pete non aveva alcuna pazien­
za, sebbene in altre aree della sua vi­
ta fosse perfino troppo accomodante.
Erano i film l’unica cosa importante.
— Per favore, abito proprio qui die­
tro l’angolo; mi lasci andare a prende­
re del denaro contante e tornare? Die­
ci minuti, per favore?
Le labbra della commessa erano
strette e dure. L’uomo indicò L’orgoglio degli Amberson: — Voglio solo
vederlo come avrebbe dovuto essere.
Anche tu sei un’appassionata, giusto?
Mi puoi capire.
L’espressione del volto di lei si di­
stese. — Va bene. Dieci minuti, non di
più. Voglio andarmene a casa anch’io.
Pete la ringraziò calorosamente e si
precipitò fuori dal negozio. Corse per
tre isolati, per lo più in salita, fino al
10 suo appartamento in un edificio a due
piani decorato a stucco. Imprecò lot­
tando con le chiavi, entrò, raggiunse
il cassetto dei calzini, dove teneva un
sottile rotolo di banconote per ogni
emergenza. Schizzò indietro verso So­
gni Impossibili, respirando così forte
da sentire l’aria bruciare nei polmoni
e un dolore al fianco. Non aveva più
fatto una vera corsa dal tempo del li­
ceo, dieci anni prima.
Arrivò davanti al fornaio e al nego­
zio per articoli da regalo, ma in mez­
zo non c’era nessuna porta per Sogni
Impossibili: non c’era proprio nulla.
I negozi erano l’uno accanto all’altro,
senza neppure un vicolo a separarli.
Appoggiò una mano al muro di
mattoni, provò a convincersi di ave­
re sbagliato isolato e di essersi perso
durante la corsa, ma sapeva benissimo
che non era vero. Si incamminò verso
casa, lentamente, e quando raggiunse
l’appartamento, entrò in salotto, con
scaffalature metalliche alte fino al sof­
fitto piene di DVD e cassette. Prese un
disco e lo introdusse nel lettore dere­
gionalizzato di altissima qualità, poi
con il telecomando accese il gigan­
tesco televisore al plasma a schermo
piatto. Gli altoparlanti surround pre­
sero vita ronzando e lui si lasciò spro­
fondare nella bellissima poltrona in
pelle al centro della sala. Pete aveva
una rugginosa Honda a quattro porte
con oltre trecentomila chilometri sul
motore, campava di pasta e formag­
gio di scarsa qualità, risparmiava sulla
carta igienica rubando i rotoli dai ba­
Sogni impossibili
gni dell’università dove lavorava. Vi­
veva in modo frugale nel quotidiano,
per poter vivere in modo sfarzoso in
quello dei film.
Premette il tasto avvio. Aveva l’in­
tera serie televisiva di Ai confini della
realtà in DVD e adesso dagli altopar­
lanti arrivava la voce, carica di razio­
nalità, del narratore che presentava la
storia di un uomo che si imbatte in un
polveroso negozietto magico, pieno di
meraviglie.
Nel guardarlo, Pete iniziò ad annu­
ire e sussurrò: — Sì.
C
ontrollò al mattino, durante la
pausa pranzo, anche dopo es­
sere uscito dal lavoro all’Ufficio Ma­
tricole, la sera, ma Sogni Impossibili
non riapparve. Per cena, prese un pa­
nino in un negozietto e andò su e giù
per gli ultimi isolati della strada com­
merciale vicino al suo appartamento.
Alle 8:30 si appoggiò a un lampione e
guardò fisso il posto dove c’era stato il
videonoleggio. Quando era arrivato lì
la sera precedente? Alle 9:45? Ma chi
poteva dire se il tempo avesse qualco­
sa a che fare con quella miracolosa ap­
parizione? E se fosse stato un evento
unico e irripetibile?
Ma intorno alle 8 e 45 la porta im­
provvisamente riapparve. Pete aveva
sbattuto le palpebre, ecco tutto, e in
quell’istante era avvenuto qualcosa e
il negozio era di nuovo lì.
Rabbrividì, pieno di una strana
esultanza, e si chiese se fosse quella la
sensazione provata dai testimoni di
una guarigione miracolosa o di statue
che piangevano sangue. Prese un pro­
fondo respiro ed entrò.
C’era la stessa commessa, che lo
guardò torvo: — Ti ho aspettato, ie­
ri sera.
— Mi dispiace — rispose lui, cer­
cando di non incontrare lo sguardo
della donna. Sapeva di lavorare in un
negozio di meraviglie? Certo non si
comportava come se lo sapesse. Pen­
sò che doveva far parte del miracolo,
non esserne esterna, e per lei un mon­
do con la versione completa e non ta­
gliata di L’orgoglio degli Amberson non
doveva essere nulla di speciale. —
Non ero riuscito a trovare contante in
casa, ma oggi ne ho parecchio.
— Ti ho tenuto da parte i video —
disse la donna. — Devi assolutamente
vedere il film di Welles, ti farà cambia­
re completamente opinione sulla sua
carriera.
— Molto gentile da parte tua. Vor­
rei dare un’occhiata e prendere qual­
che altra cosa.
— Fai pure con comodo. È una se­
rata molto fiacca, anche per un mar­
tedì.
La curiosità verso quella donna —
la proprietaria (o almeno la commes­
sa) di un negozio magico! — combat­
teva con il desiderio di rovistare fra gli
scaffali. — Lavori sempre da sola?
— Quasi sempre, tranne nei week­
end. Ci sarebbe bisogno di due com­
messi qui, ma il mio capo perde un 11
sacco di soldi, con tutta la gente che
scarica film dalla rete, acquista DVD
per posta, cose del genere. — Scosse
la testa.
Pete annuì; anche lui si procurava
film online e per posta, ma c’era qual­
cosa di diverso nella gratificazione
istantanea di noleggiare qualcosa in
prima persona, senza attendere lo sca­
ricamnto o la posta. — Mi spiace sen­
tirlo, perché mi sembra un gran bel
negozio. Sei qui ogni sera?
Lei si appoggiò al bancone sospi­
rando. — Ultimamente, sì. Lavoro il
più possibile, alcuni giorni faccio an­
che lo straordinario, perché mi servo­
no i soldi. In questo periodo non mi
bastano neppure per mangiare, e mi
limito a una mela per pranzo e spa­
ghetti cinesi per cena. La mia com­
pagna di stanza mi ha mollato e devo
pagare il doppio dell’affitto in attesa
di trovarne uno nuovo. È uno schifo.
Io… ah, mi spiace, non intendevo sfo­
garmi con te.
— No, va benissimo — rispose Pe­
te. Mentre parlava, aveva avuto modo
di guardarla meglio, scoprendo che,
oltre a essere in grado di fornire mira­
coli, era carina, con quel look logoro
da ex-punk. Non proprio il suo tipo,
comunque, se non per il fatto che an­
che lei amava i film.
— Fruga pure — disse lei, aprendo
un pesante libro di testo sul bancone.
Pete non ebbe bisogno di ulteriore
incoraggiamento. La notte prima ave­
12 va elaborato una teoria e ora tutto ciò
che vedeva la supportava. Pensava che
il negozio appartenesse a un univer­
so parallelo, un mondo praticamente
uguale al suo, se non per minime dif­
ferenze, come altri nomi per le carte
di credito più usate. Ma anche picco­
le differenze possono portare a diver­
genze sostanziali quando si tratta di
film. Ogni film dipende da così tante
variabili: l’entusiasmo capriccioso del
regista, la fiducia di una casa di pro­
duzione in una sceneggiatura, quale
stellina dorme con quale produttore.
Uno qualunque di quei fattori era in
grado di alterare in modo irrevocabi­
le lo sviluppo di un film, e la storia di
Hollywood era cosparsa di cadaveri di
pellicole arrivate a un passo dall’esse­
re prodotte. Lì, in questo mondo, al­
cune erano state portate a termine e
Pete sarebbe rimasto senza dormire
per una settimana, se necessario, pur
di vederne il più possibile.
Gli scaffali furono un susseguirsi di
miracoli: ecco La morte di Superman,
diretto da Tim Burton e interpretato
da Nicholas Cage; nell’universo di Pe­
te, Burton e Cage avevano lasciato ca­
dere il progetto. Poi, Atto di forza, ma
scritto e diretto da David Cronenberg,
non da Paul Verhoeven; quindi, Terminator, interpretato da O.J. Simpson
invece che da Arnold Schwarzenegger,
che pure prendeva parte al film nel
ruolo di Kyle Reese. Ed ecco I predatori dell’arca perduta, con Tom Selleck
al posto di Harrison Ford, e non vi era
traccia di altre pellicole di Indiana Jo­
Sogni impossibili
nes, una disdetta. Le mani del giova­
ne erano già piene di DVD; si trovò a
disagio nel maneggiarli, mentre tira­
va fuori altri film dagli scaffali. C’era
Casablanca con George Raft al posto
di Bogart, forse persino con uno dei
finali alternativi! Poi un film di guer­
ra con John Wayne di cui non aveva
mai sentito parlare, ma la copertina
diceva che riguardava l’invasione via
terra delle isole giapponesi, definen­
dolo un “avvincente dramma storico”.
Una rapida scorsa al resto degli scaffa­
li non mostrò alcun segno del Dottor
Stranamore di Stanley Kubrick, e l’in­
sieme delle due cose suggeriva che in
quel mondo la bomba atomica non
fosse mai stata sganciata sul Giappo­
ne. Le implicazioni che ne derivavano
erano enormi, ma Pete scacciò dalla
mente ulteriori speculazioni quando
un altro film catturò la sua attenzio­
ne. In quel mondo, Kubrick era vissu­
to a sufficienza per completare da solo
Intelligenza Artificiale.
Doveva assolutamente vederlo sen­
za il tocco sentimentale introdotto da
Steven Spielberg che l’aveva trasfor­
mato in Pinocchio.
— Puoi tenerli soltanto tre giorni
— disse la commessa, non senza di­
vertimento, e Pete la guardò sbatten­
do le palpebre, come un uomo im­
merso in un sogno. — Pensi di avere il
tempo di vederli tutti?
— Farò un piccolo festival — ri­
spose Pete. Ne aveva tutta l’intenzio­
ne: si sarebbe dato malato per vede­
re quei film, e copiarli, se ci riusciva;
chissà quale strana protezione antipi­
rateria poteva esistere in quel mondo.
— Be’, il mio capo non vuole che un
nuovo cliente prenda venti film tutti
assieme, sai? Potresti limitarti a quat­
tro o cinque, per evitarmi il fastidio di
dovergli spiegare la cosa? Abiti qui vici­
no, no? Puoi sempre riportarli e pren­
derne altri non appena hai fatto.
— Certo — ammise Pete. La cosa
non gli piaceva, ma aveva paura di in­
sistere troppo. Scelse quattro film —
L’orgoglio degli Amberson, La morte di
Superman, Io Robot e Casablanca — e
rimise a posto gli altri. Dopo qualche
noleggio, forse lei gli avrebbe consen­
tito di prendere dieci o venti film per
volta. Doveva vedere quanti giorni di
malattia aveva conservato: era un’otti­
ma occasione per prendersi una brut­
ta influenza e perdere un paio di setti­
mane di lavoro.
La commessa passò il codice a bar­
re delle custodie, inserì i dati dalla ta­
stiera e gli disse il totale: $12.72. Pete
le dette due pezzi da cinque, due da
uno, due quartini, un decino, due ni­
chelini e un paio di penny. Si era por­
tato contante in abbondanza stavolta.
La donna osservò il denaro sul ban­
cone e poi l’uomo con un’espressio­
ne a un tempo divertita e circospetta.
Batté sulle banconote. — So che non
sei un falsario, perché altrimenti al­
meno proveresti a far sembrare il de­
naro vero. Si tratta di un gioco o che
cosa? Non è denaro straniero, perché 13
riconosco i nostri presidenti, tranne
questo tizio sopra, cos’è questo, un
decino?
Pete soppresse un lamento. Il de­
naro era diverso, non ci aveva neppu­
re pensato. Cominciò a contemplare
la possibilità della rapina a mano ar­
mata.
— Un momento, ci sono un pa­
io di nichelini mescolati alle monete
false — aggiunse, tirando da parte le
due monetine. — Quindi mi devi so­
lo $12.62.
— Mi sento veramente stupido —
disse Pete. — Sì, è denaro che ho pre­
so da un gioco che giocavo ieri, e de­
vo averlo messo in tasca per errore. —
Ripulì il bancone di banconote e mo­
netine.
— Sei un tipo strano, Pete. Spero
che non ti offenda se te lo dico.
Annuendo malinconicamente, lui
estrasse dalle tasche una manciata di
spiccioli. — Credo di esserlo. — Ave­
va parecchi nichelini, che erano rea­
li — o almeno abbastanza — in quel
mondo, e si mise a contarli sopra il
bancone; in tutto erano $3.35, abba­
stanza per un DVD. L’indomani sa­
rebbe andato in banca a cambiare
il contante in sacchetti di nichelini,
quanti riusciva a portarne, e avrebbe
noleggiato i film cinque centesimi al­
la volta. Certo, avrebbe potuto ruba­
re tutti e quattro i film e correre via,
ma poi non sarebbe più potuto torna­
re, e c’erano scaffali su scaffali di pelli­
14 cole che voleva vedere. Per quella sera
doveva accontentarsi solo di L’orgoglio
degli Amberson. — Questo — disse. La
commessa prese i nichelini, scosse la
testa divertita, gli passò una custodia
di plastica trasparente e dei penny co­
me resto, strane piccole monete otta­
gonali.
— Te li metto da parte, signor Ni­
chelino — disse, prendendo gli altri
film che Pete aveva portato al banco.
— Divertiti e fammi sapere cosa ne
pensi.
Pete mormorò una sorta di ringra­
ziamento e corse verso la porta, con
il disco stretto al petto; tornò verso
il suo appartamento alternando trat­
ti di corsa al semplice camminare.
Una volta dentro azionò il ronzante
assortimento di apparecchi di avan­
guardia e attivò il cassetto del lettore
DVD. Aprì la confezione, tolse il disco
— semplice, nero con i titoli in argen­
to — e lo inserì nell’apparecchio. Era
leggermente più piccolo dei DVD del
suo mondo, ma sembrava a posto. Il
disco iniziò a ruotare, ronzò e il di­
splay lampeggiò qualche volta prima
di spegnersi. Lo schermo televisivo di­
ceva ‘Nessun disco’. Il giovane impre­
cò e cercò di caricarlo di nuovo, ma
senza successo. Seduto sulla poltro­
na di pelle, si tenne la testa fra le ma­
ni. Il denaro non era l’unica cosa di­
versa nell’altro mondo; anche il siste­
ma di codifica dei DVD lo era e per­
fino il lettore deregionalizzato, capace
di riprodurre dischi di tutto il mon­
do, non era in grado di leggere quel­
Sogni impossibili
la versione di L’orgoglio degli Amberson. Le videocassette sarebbero state
altrettanto inutili: si era già accorto
che erano nastri diversi da quelli del
suo mondo, di un formato inesisten­
te, più piccolo del VHS e più grande
del Betamax.
Ma non tutto era perduto. Uscì
portando con sé L’orgoglio degli Amberson, dato che non poteva permet­
tersi di lasciarselo sfuggire, e corse al
videonoleggio. — Noleggiate lettori
DVD? — chiese boccheggiando. — Il
mio si è rotto.
— Certo, Pete — rispose la don­
na, — ma serve una cauzione di $300.
Non vorrai mica pagarli in nichelini?
— Certo che no — rispose lui. —
A casa ho un po’ di denaro vero. Pos­
so vederlo? — Al diavolo la logica:
l’avrebbe rubato. Lei aveva il suo in­
dirizzo, ma non era lo stesso mondo
e nel giro di pochi minuti il negozio
sarebbe scomparso di nuovo. Il gior­
no dopo sarebbe tornato con una pi­
stola giocattolo e avrebbe rubato tutti
i DVD che poteva portare via; sarebbe
venuto con una valigia e…
La commessa tornò posando il let­
tore sul banco, con il cavo arrotola­
to sopra. La spina elettrica aveva una
forma strana, con le due alette per­
pendicolari fra loro. Pete rammentò
che gli standard elettrici erano diver­
si persino fra Europa e Nord America,
ed era quindi ingenuo presumere che
la presa di casa sua fosse compatibi­
le con apparecchi di un altro universo.
Dubitava fortemente di riuscire a tro­
vare un adattatore nel negozio locale
di elettrodomestici, e anche se fosse
riuscito a rimediare qualcosa, il vol­
taggio della rete di casa poteva esse­
re completamente sbagliato. Avrebbe
potuto distruggere il lettore DVD, co­
me alcuni computer americani posso­
no “friggere” se li si collega a una pre­
sa europea.
— Non preoccuparti — disse,
sconfitto. Fece finta di cercare nelle
tasche dei pantaloni e aggiunse: — Mi
sono dimenticato il portafoglio.
— Tutto bene, Pete? — chiese la ra­
gazza.
— Certo, è che sono veramente
eccitato al pensiero di vederlo. — Si
aspettava una risposta sprezzante, del
tipo ‘È solo un film’, come quelle che si
era sentito ripetere per tutta la vita da
parenti e amici.
Invece lei rispose: — Ehi, capi­
sco. Non preoccuparti, lo avremo
senz’altro quando avrai riparato il let­
tore. Il vecchio Orson non è più molto
richiesto al giorno d’oggi.
— Certo — convenne Pete, spin­
gendo il DVD sul bancone verso di lei.
— Vuoi un rimborso? Lo hai tenu­
to solo venti minuti.
— Tieni pure i soldi. — rispose lui.
Rimase fuori a guardare, dall’altro la­
to della strada, la commessa che chiu­
deva. Dieci minuti dopo le 10 batté
le palpebre e il negozio scomparve,
mentre lui aveva gli occhi chiusi. Si al­
lontanò a passo strascicato.
15
Q
uella sera, una volta a casa,
guardò la sua copia in DVD
di L’orgoglio degli Amberson, con lo
scempio di sceneggiatura, il finale po­
sitivo imposto dalla produzione, mo­
dificato per non deprimere gli spetta­
tori del periodo della guerra, e alla fi­
ne non riuscì a dormire chiedendosi
quello che avrebbe potuto essere.
O
rmai non pensava che Sogni
Impossibili sarebbe compar­
so di nuovo, perché apparve solo alle
9. Si chiese se la finestra dimensionale
si stesse chiudendo e se il negozio sa­
rebbe riapparso sempre più tardi ogni
sera, fino a non comparire mai più
nel giro di un giorno o di una setti­
mana. Spinse la porta con un pesante
sacchetto di plastica in mano. La com­
messa, appoggiata al bancone, man­
giava cracker tirati fuori da minuscoli
contenitori di plastica, simili a quelli
che portano con la minestra al risto­
rante. — Ciao.
— Signor Nichelino — lo accolse
lei. — Ultimamente sei l’unico cliente
che viene qui dopo le 9.
— Tu, ah, hai detto che in questo
periodo non hai denaro neppure per
il pranzo e volevo scusarmi per aver­
ti causato tutto questo fastidio… in­
somma, ti ho portato del cibo, se ne
vuoi. — Pete si era arrovellato il cer­
vello per tutto il giorno, chiedendosi
cosa portare. Aveva escluso i fast food:
se nel suo mondo McDonald non esi­
16 steva, cosa avrebbe pensato lei delle
confezioni? Si preoccupò anche di al­
tre cose. Doveva evitare la carne, nel
caso nel suo mondo fosse diffuso il
morbo della mucca pazza? E se un’in­
fluenza aviaria avesse trasformato il
pollo in una prelibatezza? Se la sua
cultura fosse stata solo vegetariana?
Alla fine si era deciso per involtini ve­
getariani alle uova, spaghetti di riso, e
una zuppa calda e acida. Aveva visto
film di azione di Hong Kong nel ne­
gozio, perciò sapeva che la cultura ci­
nese esisteva in quell’universo, ed era
abbastanza sicuro che il cibo sarebbe
stato simile.
— Sei un dio, Pete — disse la don­
na, aprendo la confezione di spaghet­
ti e tenendo i bastoncini da professio­
nista. — Sai cosa ho mangiato oggi a
pranzo? Una pera che ho dovuto ru­
bare dall’albero del vicino. Ho preso
i cracker da un vassoio in una sala da
pranzo. Mi hai salvato la vita.
Agitava le mani, la bocca piena
di involtini, e avendola davanti Pete
comprese come il suo progetto fosse
impossibile. Aveva sperato di farsela
amica e di convincerla a farlo resta­
re fin dopo la chiusura, così da poter
venir portato via di nascosto fino al
suo mondo, dove avrebbe potuto ve­
dere tutti i film, e forse diventare il
suo compagno di stanza. Alle 3 del
mattino della notte precedente tutto
era sembrato logico, e aveva trascor­
so gran parte della giornata a pen­
sare solo a quello, ma ora che aveva
messo in moto il piano, capiva come
Sogni impossibili
fosse più un’idea da cinema, ben po­
co realistica. Poteva funzionare in un
film, ma nella vita reale non conosce­
va neppure il nome della donna, che
non l’avrebbe certo accolto a braccia
aperte, e quand’anche, cosa avrebbe
fatto lui nell’altro universo? Passa­
va il giorno a processare richieste di
iscrizione, riordinare libretti univer­
sitari, usare database e archiviare co­
se, ma cosa avrebbe fatto nel mondo
di lei? E se i computer avessero usato
linguaggi di programmazione com­
pletamente diversi? Come si sarebbe
guadagnato da vivere, una volto esau­
rito il suo ipotetico sacchetto gigante
di nichelini?
— Scusami, ma non ti ho mai chie­
sto come ti chiami — disse.
— Ally — rispose lei. — Prendi un
involtino, mi sembra di essere un ma­
iale.
Pete acconsentì e Ally uscì da die­
tro il bancone. — Ho qualcosa per te.
— Andò davanti al grosso schermo
televisivo e lo accese. — Non abbiamo
tempo di vederlo tutto, ma abbastan­
za per vedere prima della chiusura gli
ultimi cinquanta minuti, la pellicola
restaurata. — Accese il lettore DVD e
L’orgoglio degli Amberson iniziò.
— Oh, Ally, grazie — riuscì a dire lui.
— Ehi, il tuo lettore di DVD si è
scassato e tu dovevi vederlo.
Per i successivi cinquanta minu­
ti, Pete guardò lo schermo. Il cast era
simile, tanto che notò un solo attore
diverso, e da quello che aveva letto si
trattava della pellicola perduta di cui
aveva sentito parlare nel suo mondo.
Il genio di Welles era evidente anche
nella versione massacrata edita dal­
la RKO, ma qui c’era una chiarezza
di intento talmente pura da risultare
schiacciante, una versione triste, real­
mente triste, un racconto di gloria e
inevitabile declino.
Alla fine, Pete si sentiva prosciuga­
to dal punto di vista fisico, ma total­
mente felice.
— È ora di chiudere, Pete — disse
Ally. — Grazie ancora per la cena. La
cucina cinese mi fa impazzire. — Lo
accompagnò gentilmente alla porta,
mentre lui non smetteva di ringraziar­
la. — Sono contenta che ti sia piaciu­
to — aggiunse lei. — Ne riparliamo
domani. — Chiuse la porta a chiave e
Pete rimase a guardare dall’altra par­
te della strada, finché il negozio scom­
parve, poco dopo le dieci. La finestra
dimensionale si stava chiudendo e il
negozio appariva per un tempo sem­
pre minore ogni sera.
Doveva godersela finché durava:
non si può chiedere a un miracolo più
di quanto ti voglia dare.
L
a sera successiva le portò del
pollo kung pao e le chiese qua­
li fossero i suoi film preferiti. Ally lo
guidò allo scaffale dei preferiti del ne­
gozio e gli indicò le proprie scelte. —
So che è solo nostalgia, ma io amo an­
cora The Lunch Bunch, hai presente,
il seguito di Breakfast Club, ambien­ 17