Due parole autobiografiche su questa traduzione

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Due parole autobiografiche su questa traduzione
Due parole autobiografiche su questa traduzione
I tempi in cui scoprimmo Eliot lo scoprimmo con la nostra scarsa conoscenza dell’inglese, con la nostra devota impreparazione, con la nostra
ammirata intuizione. Lo scoprimmo anche senza capirlo, lo capimmo
anche fraintendendolo. Proprio come accadde allo stesso Eliot, che sentì la grandezza del poema di Dante pur conoscendo poco l’italiano.
Rinnovate l’aria! Pulite il cielo! Purificate il vento!
Separate pietra da pietra, separate
la pelle dal braccio, il muscolo dall’osso,
e lavàteli. Lavate la pietra
Lavate l’osso, lavate il cervello, lavate l’anima,
lavàteli, lavàteli.
Ci bastavano versi come questi per sentirci, noi ragazzi, infinitamente
attratti da un poeta che invocava lavacri purificatori sopra un mondo di
assassini, un mondo tanto simile a quello in cui vivevamo.
E poco ci importava la contraddizione “ideologica” di appassionarci,
noi “di sinistra”, ai versi di un poeta anglo-cattolico (e quindi “di destra”), perché per noi allora era “di sinistra” tutto ciò che nell’arte, nella
letteratura, nel pensiero, aveva il segno del nuovo, tutto ciò che ci portava fuori dal chiuso ambiente culturale di quegli anni. Dunque scoprimmo Eliot così, emotivamente. Come una terra desolata (con la bellezza
che ha la desolazione dei deserti) dove ci avventurammo animosi e
sprovveduti, senza mezzi, senza mappe, senza alcun sentiero tracciato
da altri che servisse a guidarci. Ma oggi che quella terra è stata esplorata
zolla per zolla con i più sofisticati strumenti analitici, oggi che Eliot si
conosce e viene studiato come uno dei più grandi poeti contemporanei,
io darei tutta questa “conoscenza” per un solo grammo di quell’emozione che allora ci comunicò.
Traducendo Assassinio nella Cattedrale Tommaso Giglio ed io siamo andati quasi inconsciamente – e anche a costo di qualche azzardo – alla ricerca di quell’emozione perduta, di quell’ignoranza perduta e palpitante,
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di quel fervore rabdomantico che ci fece tradurre Little Gidding, l’ultimo
dei Quattro Quartetti. Lo traducemmo, e apparve per la prima volta in
italiano, a Napoli, nel 1944. Nella Napoli occupata dagli americani, nella
Napoli di Sciuscià, nella Napoli de la Pelle di Malaparte, nella Napoli
Milionaria del contrabbando e del mercato nero, nella Napoli sguaiata di
Zazà, introducemmo anche la voce di Thomas Stearns Eliot. Traducendo
Little Gidding in mezzo a quel frastuono ci pareva di mettere un po’ di
ordine nelle nostre emozioni (ed è questo il compito della poesia secondo
Eliot), di vivere nel mondo con distaccata-appassionata partecipazione
(ed è un concetto più volte espresso nei Quattro Quartetti, e a volte forse
ci è parso persino di percepire – in qualche istante, mentre si decifrava un
verso più complicato e misterioso degli altri – quell’intersecarsi del nontempo nel tempo cui tante volte Eliot allude nella sua poesia.
Quando Eliot nel 1935 scriveva Assassinio nella Cattedrale, stava già
componendo i Quattro Quartetti, e proprio in Little Gidding (l’ultimo
dei quartetti) viene fuori uno dei temi portanti del suo dramma, e cioè
che “nell’eternità della storia ciò che muore si unisce a ciò che ritorna”:
ed è così che la ruota gira e resta immota. Tradurre Assassinio nella Cattedrale significava per me completare un lavoro già iniziato esattamente
quaranta anni prima: e forse, anche per noi, in qualche modo, così la
ruota gira e resta immota.
Come pubblicammo la prima traduzione italiana di Little Gidding
La stessa carica di vita sentivamo anche dentro di noi. Noi eravamo un
gruppetto di amici poco più che ventenni, avevamo fondato una rivista,
Sud, che viveva precariamente e di cui uscirono solo pochi numeri.
Dal 1944 al 1947, su questa rivista quasi clandestina, scrivevamo di tutto, di politica, cinema, letteratura, e traducevamo di tutto, dai poeti inglesi agli esistenzialisti francesi.
Ma ancor prima, insieme con Tommaso Giglio, avevo tradotto e pubblicato in una plaquette che apparve anche in qualche libreria (ma che distribuivamo noi stessi agli amici) uno dei Quattro quartetti di Thomas
Stearns Eliot, Little Gidding, che nella nostra traduzione cominciava
così: “La primavera fiorita nel cuore dell’inverno / È la sola stagione che
in questo posto non muta: / Anche se dilegua sotto i raggi del sole /
Rimane eternamente sospesa nel tempo”.
In quell’anno (1944) la guerra non era ancora finita, e nell’Italia occupata dagli Alleati qualsiasi pubblicazione doveva essere sottoposta al visto
dell’Autorità Militare, il PWB (Political Warfare Branch). Ma noi non ce
ne preoccupavamo. Chi avrebbe potuto censurare Eliot? E una traduzione come la nostra, così ben intonata all’originale? “È questa la primavera inattesa / Che ha rotto il suo patto col tempo / E imbianca i filari di
effimeri fiori di neve”. Chi avrebbe osato?
Finanziò “l’operazione Eliot” un ragazzo generoso, Aldo Liguori, che fu
come folgorato sulla via di Damasco quando gli mettemmo tra le mani
l’antologia Americana di Vittorini. Fu lui che divenne, imprevedibilmente, in un giorno del 1944, l’editore di Eliot, ed è a lui che in cuor mio
dedico questa traduzione.
Nel 1944-45, nonostante i bombardamenti e i disastri della guerra, Napoli era una città vivacissima, esplosiva, percorsa da una carica di vitalità
così febbrile che pareva quasi dovesse rifarsi in pochi mesi di tutti gli
anni di torpore e di rovine appena trascorsi. Era una vitalità meravigliosa, era come se i napoletani vivessero al ritmo frenetico dei boogie-woogie,
che le segnorine dei quartieri sapevano ballare con una varietà di evoluzioni e con un’energia superiore a quella di qualsiasi soldato americano.
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Raffaele La Capria
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