Cécile Huguenin è una psicologa. Quando i medici le hanno

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Cécile Huguenin è una psicologa. Quando i medici le hanno
Cécile Huguenin è una psicologa. Quando i medici
le hanno comunicato la diagnosi del suo Daniel, ha
continuato a vivere con lui, senza mai ricorrere agli
ospedali e alle case di cura. Lui se ne è appena andato.
Gare du Nord
La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du
Nord raccontano il carattere composito della collana di
narrativa contemporanea di Edizioni Clichy, dedicata alla
scrittura di stampo letterario, principalmente francofona
ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi,
tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile,
senza timore di assumere posizioni di rottura di fronte
all’establishment culturale e sociale o di raccontare abissi,
sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries.
«Alzheimer mon amour»
de Cécile Huguenin
© 2011 Éditions Héloise d’Ormesson - Paris
Per l’edizione italiana:
© 2013 Edizioni Clichy - Firenze
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn: 978-88-6799-054-2
Cécile Huguenin
Alzheimer
mon amour
Traduzione di Michele Peretti
Edizioni Clichy
A Boris Cyrulnik,
che sa «parlare d’amore sull’orlo dell’abisso»
Prima parte
2006-2007
La scatola rossa
Occorreva che mi separassi da me stesso,
facendo un passo indietro e scavando
uno spazio fra me stesso e il mio tema.
Paul Auster
Invisibile
È seduta di fronte a lui. È ancora bello
e affascinante come un tempo. I ragazzi lo
avevano soprannominato Clint, per via della
sua andatura da cowboy disinvolto e la sua
collezione di berretti con la visiera.
Ultimamente ne porta uno americano di
tela grezza con una grande NY ricamata sopra,
e la sera non vuole mai toglierselo. Acconsente
a farlo solo se può sostituirlo con il vecchio
berretto da sci di lana rossa fatto a maglia da
sua madre. Sul davanti c’è la bandiera del suo
paese natale, che gli permette di capire come
metterselo nel verso giusto, e lui se lo calca
sulla fronte fino alle sopracciglia, perché sente
freddo. È seduto, ma se gli avessero ceduto il
posto avrebbe rifiutato. Se per caso qualcuno
fa un gesto come per offrirglielo, lui si volta
dall’altra parte facendo finta di non essersene
accorto, con l’aria di chi non ha bisogno di
niente.
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Questo residuo di orgoglio gli dà un contegno che incute ancora rispetto.
Lei gli rivolge quello sguardo amorevole
che trent’anni di convivenza non sono riusciti a scalfire. Le torna in mente la domanda
lancinante che la trafigge, la sconvolge e la
ossessiona di continuo perché è destinata a restare senza risposta. Perché si è ammalato? La
malattia che ha contratto porta un nome che
fa paura, a tal punto che i dottori hanno indugiato non poco prima di pronunciarlo. È una
parola che tutti quelli che gli vogliono bene
hanno fatto fatica ad accettare. Due lunghi
anni a osservare, impotente e isolata, il suo
lento e inesorabile naufragio, come se ogni
giorno una piccola parte di lui si inabissasse in
profondità sconosciute. Non poteva far altro
che aggrapparsi alla sua mano per trattenerlo,
correndo il rischio di affondare insieme a lui.
Anche lui la guarda. Ma i suoi occhi, che
erano di un azzurro intenso quando il cielo
era limpido, grigi prima della pioggia, verdi in
riva al mare, sono ormai spenti, neutri, come
svuotati di qualsiasi segno di coscienza. La attraversano come il bagliore freddo del laser.
Indifferente a tutto ciò che lo circonda, al ru18
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more, agli scossoni del vagone della metropolitana che sobbalza di continuo, lui aspetta.
Tranquillo, remissivo, aspetta che lei lo prenda
per mano, che lo guidi per i corridoi, lungo le
scale verso l’uscita. Si aggrappa al suo braccio
fino a farle male. I medici hanno individuato
tendiniti di ogni tipo, quella dello sportivo,
quella del pittore, e addirittura quella dello scrittore. Ma c’è qualcuno che ha parlato
della tendinite del caregiver? Caregiver: parola
orrenda che viene usata per etichettare chi accompagna il proprio partner nella sua deriva
verso un altrove sempre più inaccessibile.
All’inizio lui accetta il ritmo della sua andatura, ma a poco a poco lei si accorge che
comincia a opporre resistenza. Irrigidisce il
braccio, comincia a frenare i passi, a trascinare
i piedi sul selciato. Nessuno dei due dice una
parola, ma il filo che li lega si tende impercettibilmente. Lei rallenta l’andatura, attenta
a non fermarsi. Per paura di non poter più
continuare. I passanti dell’ora di punta li superano nella più completa indifferenza. Come
potrebbero immaginare che questa coppia
abituata a camminare in perfetta sincronia,
mano nella mano da così tanto tempo, in cui
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il ritmo dell’uno si accorda istintivamente a
quello dell’altro, che questa coppia armoniosa e unita stia andando, quella mattina, verso
una separazione irrimediabile.
Quella mattina lei lo porta per la prima
volta al centro di accoglienza diurno. La sua
leggera resistenza ricorda quella dei bambini al loro primo giorno di asilo. Non è facile accompagnare il proprio bambino verso la
prima separazione. Eppure sappiamo che si
incammina verso il suo avvenire. Che è necessario ampliare il suo orizzonte per consentirgli
di crescere. Con lui, invece, lei non smette di
risalire a ritroso il corso della vita. Gli contrassegna la biancheria come quando si va in
colonia. Oggi, il primo giorno di scuola. Lo
accoglie una ragazza, fresca, sorridente, espansiva. Lui la prende subito in simpatia, dato
che ha un debole per le belle donne. Si è rifiutato di farsi rivedere dall’ultima neurologa
che lo ha visitato e che «sembra una strega».
Quella che ha emesso la sentenza inappellabile e che gli ha parlato «come si parla a un
coglioncello». Come dargli torto, dopo aver
assistito impotente a quel monologo medico
nel corso del quale è stato trattato come un
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oggetto buono solo per la rottamazione. Non
l’ha degnato neanche di uno sguardo quando
ha illustrato il probabile decorso della malattia e ha prescritto esami più approfonditi.
La ragazza lo prende a sua volta per mano
e gli ripete il suo nome. Hanno già fatto amicizia. Lei invece, lei rimane lì immobile, come
un cactus irto di spine in un vaso, dimenticata, relegata in quel mondo che si sono lasciati
alle spalle quando hanno varcato quella porta.
Al di là di questo limite il vostro biglietto non è
più valido... Come per confermarlo, un uomo
si precipita su di loro, turbando quell’istante
così fragile. Pantalone militare e felpa mimetica, gli piomba addosso e gli stringe con forza la mano esclamando: «Finalmente, Signor
colonnello, ora potremo passare all’attacco!».
Lei scruta furtivamente il tesserino che porta
sul petto, il nome e la data di nascita. Antoine ha cinquantasette anni. Nel fare il saluto
militare, cerca in qualche modo di levarsela di
torno. L’intrusa non ha diritto di cittadinanza
nel loro mondo. Senza di lei potranno giocare
in pace ai soldatini, a guardie e ladri, a Scarabeo, al domino gigante.
Si è allontanato senza voltarsi tenendo il
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braccio della ragazza, seguendo la scia dell’aroma di caffè che si propaga per il corridoio
colorato, pieno zeppo di disegni, collage, dipinti come le pareti di un asilo. Le due sagome
scompaiono. In una lunga carrellata in negativo, il corridoio si allunga e si restringe. Le pareti si avvicinano. Come nei racconti di Poe.
E lei... lei lo vede entrare nel corridoio della
morte. Avanza da solo incontro a quell’inquietante aldilà che tutti un giorno dovremo
affrontare. Ci vorrà del tempo, dato che, a
ogni passo, dimentica il precedente e la meta
cui si avvicina. Lungo questo percorso di cui
nessuno conosce la durata ma tutti il termine,
lui perderà ogni giorno un frammento di sé
e della loro storia. All’idea della morte ci si
abitua. Ma come farà d’ora in poi con lui che
c’è senza esserci? È possibile elaborare il lutto
di una persona ancora in vita? In che modo?
Esistono percorsi di sopravvivenza per chi si
ritrova davanti a un corridoio vuoto?
Avrebbe voluto seguirli, prendere un buon
caffè insieme a loro. Non è stata invitata. La
porta che d’ora in avanti li separerà è più pesante del portone che lei oltrepassa uscendo.
Un peso le si abbatte addosso, le comprime
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la testa, le spalle, la schiena. Non era pronta.
All’inizio di questo primo giorno, si diceva:
«Oggi approfitterò di questa ritrovata libertà
per fare un sacco di cose...». Adesso invece è
apatica, smarrita. Andrà a zonzo tutto il giorno in attesa di tornare a prenderlo. Era da
tanto che non fumava. Il suo primo gesto da
donna libera è stato comprarsi un pacchetto
di sigarette, nella speranza che il fumo la aiuti a dimenticare, come succede a lui. Cammina lungo l’argine della Senna, si sporge a
guardare l’acqua verde e torbida. Vertigine.
La inghiottirebbe? Ma lei, nuotatrice provetta, non potrebbe fare a meno di muovere le
braccia per tenersi a galla. Per andare giù dovrebbe riempirsi le tasche di pietre pesanti.
Come Virginia Woolf in The Hours. Alcune
immagini del film le tornano in mente e la
distraggono. Quando è disperata, si fa dei
film. Se fossi prigioniera, pensa, avvolta nel
silenzio e nella solitudine, rivivrei tutti i film
che ho amato. Si sorprende a sorridere. All’epoca delle loro prime uscite, dei loro primi
incontri clandestini, quando si salutavano,
lui diceva che era ora di «tornare a scuola».
Lui la aspetta.
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