una versione più breve di questo articolo è stata

Transcript

una versione più breve di questo articolo è stata
Chiaromonte
(una versione più breve di questo articolo è stata
pubblicata sul Sole 24 Ore dell’8 marzo 2011)
Una frase rivelatrice alla fine di una lunga
chiacchierata serale in un ristorante: “Ci siamo
divertiti – dice uno dei ragazzi – e ci siamo sentiti
studiati”. Strano, si viene fin quassù sotto il
massiccio del Pollino in una zona quasi intatta e
bellissima della Basilicata, per verificare quel che
resta dell’origine di una teoria politica e sociologica,
per cercare un legame tra sfiducia nelle istituzioni e
nella cooperazione sociale che qui si respira ancora
e il nostro carattere nazionale, e si finisce per
ritrovarsi in un flusso di autocoscienza
antropologica, di disponibilità al reality etnografico
e alla vivisezione sociale che per la gente del posto
è un abito: contenti di essere osservati, grazie.
Chiaromonte sta su un cucuzzolo di 800 metri. Dal
castello, quando è bel tempo, si vede il mar Jonio in
fondo alla valle. Dalle torri della Spiga si vedono il
Sinni che scende dal Pollino e il Serrapotamo.
Ha duemila residenti, effettivi un po’ meno: 1800
circa, più di un terzo nelle frazioni, 800 nel paese
nuovo, e solo 300 nelle vecchie strade del centro
storico. Tra i vicoli in alto, molto silenzio. Interrotto
da un “buongiorno”, o dalla tosse di una donna
anziana dietro la porta di una casetta medievale. Lo
spettacolo è arcaico. È al centro di quello che era
stato uno dei feudi principali della prima delle sette
case del Regno di Napoli, i Sanseverino (la gente di
qui dice ancora la contea). Sarebbe rimasto un
borgo perduto dell’Italia medievale, se nel 1955 –
56 anni fa – non fosse arrivato in paese un
politologo americano, Edward C. Banfield, con
l’obiettivo di studiare una piccola comunità arretrata
nel Mezzogiorno d’Italia. Visse qui qualche mese.
Intervistò la popolazione ed elaborò una tesi: il
familismo amorale è il principio che regola i
rapporti all’interno di sistemi basati su moltitudini
di famiglie nucleari, incapaci di cooperare e di fare
scelte che vadano oltre l’interesse di brevissimo
periodo. Il familismo amorale descritto da Banfield
impedisce la crescita della comunità, il
perseguimento dell’interesse generale, riduce il
controllo sui pubblici ufficiali, riduce le
organizzazioni spontanee e l’altruismo, erode la
fiducia tra gli individui e le famiglie (fiducia che è
base di qualunque forma di sviluppo economico),
mina il valore della legge come garanzia collettiva,
spinge i deboli a tifare per il mantenimento
dell’ordine con le maniere forti, e induce chi ricopre
cariche pubbliche a sfruttarle a proprio vantaggio
contro gli altri; in una società di familisti amorali
non ci sono leader, né gregari, non c’è iniziativa,
non ci sono principi né ideologia, non ci sono
aspettative nella politica, non ci sono classi
dirigenti, ma solo famiglie ristrette.
Il libro fu pubblicato con il titolo molto accademico,
ma a suo modo anche molto letterario di “Le basi
morali di una società arretrata” nel 1958. In Italia fu
pubblicato dal Mulino prima con il titolo “Una
comunità del Mezzogiorno” nel 1961, poi con la
traduzione del titolo originale nel 1976, e riproposto
tre anni fa in occasione del cinquantennale. Quella
sul familismo amorale diventò una teoria fortunata
negli studi politici e sociologici occidentali, e servì
per definire il nostro Mezzogiorno. L’assenza di
cooperazione e di fiducia come base del
sottosviluppo. Un grande, studiato e dibattuto
classico. Con gli anni il familismo amorale è
diventato un sinonimo di italianità, rilanciato in
questa stagione di crisi dal deficit di concorrenza,
merito, cooperazione, mobilità sociale, relativi
ascensori, eccetera eccetera.
Nel libro Chiaromonte si chiama Montegrano,
precauzione inutile ovviamente. Da cinquant’anni,
ricercatori, giornalisti, sociologi si inoltrano nella
valle, per vedere com’è fatto il paese di Banfield,
com’è diventato, che rapporto c’è con quello di
allora. Tre anni fa è venuto un ricercatore danese
che ha scritto una tesi dialettica nei confronti dello
studioso americano. Si è affezionato ai luoghi e
l’anno dopo è ritornato con sua madre. Quest’anno è
già venuto il Manifesto e si appresta ad arrivare Rai
Storia. Da un certo punto di vista, c’è un elemento
quasi di morbosità antropologica nella nostra
curiosità.
Il ritratto che Banfield fece della comunità fu
impietoso, crudo, drammatico e pessimista. Del
resto, erano gli anni ’50 ed era un Mezzogiorno
molto remoto. All’epoca per i chiaromontesi fu una
storia seccante. Perché noi? Dieci o quindici anni
dopo la ricerca, uno scrittore locale, ricevendo la
visita di un’assistente di Banfield la portò a Teana,
un paese vicino dove c’erano ancora gli asini che
dormivano nelle case con le famiglie e le disse:
perché non Teana? Curioso, ma nessuno sa dire in
modo
definitivo
perché
Banfield
scelse
Chiaromonte. Si dice perché la famiglia di sua
moglie avesse origini da queste parti. Ma anche in
questo caso la domanda resta: perché proprio
Chiaromonte? Di sicuro il comune aveva
caratteristiche di medietà. Era arretrato, ma diviso in
classi, c’era una classe ricca, di piccoli proprietari di
paese, una famiglia aristocratica – i baroni di Giura
– di cui più avanti, e c’era anche un’economia
terziaria, perché a causa del ruolo nella contea era
ancora un piccolo centro amministrativo.
*
Un uomo intelligente, Nicola Cicale, insegnante in
un istituto professionale a Trabutola, pensa che
forse la tesi di Banfield era precostituita, “però in
fondo aveva ragione, ancora oggi la famiglia è solo
quella stretta, e qualunque iniziativa che viene dalla
società è salutata da un classico: armiamoci e
partite”.
In apparenza tutto è irriconoscibile rispetto a quello
che Banfield vide. Innanzitutto la società è più ricca,
l’agricoltura non è quella di allora. Oggi solo un
quarto degli occupati lavora in campagna o in
attività collegate, quasi il 30 per cento sono
dipendenti pubblici (municipio, scuole, ospedale), e
il resto lavora nel commercio e nelle costruzioni.
I redditi sono cresciuti e una famiglia di quattro
persone con 1200 euro al mese vive
tranquillamente, con 2000 è quasi benestante. Un
paio di calze di lana costano all’emporio della via
principale 3 euro e 90. Un vestito da uomo fatto su
misura (escluso il tessuto) si può ordinare alla
sartoria Grandinetti per 300 euro.
Seconda questione, la mobilità: non è più il paese il
perimetro dell’azione, ma la valle. I comuni da due,
tre o quattromila abitanti cercano di consorziarsi per
ridurre le spese di nettezza urbana o per ottimizzare
i servizi di polizia – il federalismo incombe. I
ragazzi vanno in giro la sera, a Sinise o alla
Spifieria di Valsinni (che sta aperta fino alle due del
mattino). Terzo, le tlc: c’è la tv, i telefonini e
soprattutto Internet e i social network, Facebook.
Dunque è un’altra arretratezza rispetto a quella di
cinquant’anni fa, è solo provincia meridionale
ormai. Con tutto il suo carico di letteratura: Percoco,
l’eclettico studioso locale in cui i compaesani
vedono “un pozzo di scienza” e in cui i derobertiani
rinverranno un po’ di don Cono Canalà (“non
concordo con le osservazioni preliminari del quinto
capitolo di Banfield, ipotesi predittiva, capisce…
predittiva…”); la giovane farmacista gentile,
bionda, sorridente, molto carina, laureatasi fuori,
unica tra i suoi compagni di liceo ad avere un lavoro
stabile; una fatale signora Grandinetti della
omonima sartoria, diamantino al naso, vestita un po’
da città, con l’aria con cui in un romanzo
ottocentesco si sarebbe detto “è stata a Parigi”; c’è
un dongiovanni versatile, contemporaneamente
titolare di impresa di pompe funebri, di emporio
(abbigliamento sportivo incluso) nella piazza
principale, un po’ coltivatore diretto e anche
presidente regionale del soccorso alpino, Rosario
Amendolara, bel ragazzo alla conquista di qualcosa
e con la bandiera del Regno delle Due Sicilie appesa
alla finestra di casa. C’è un sindaco già senatore
socialista, attualmente udiccino, Antonio Vozzi, di
mestiere assicuratore, molto pater familias e quindi
voluto bene. I di Giura vengono sempre meno.
Tipica malinconia agraria meridionale, la loro casa è
aperta tutto l’anno. Nella torre che la chiude verso
ovest si raccolgono cimeli e cineserie del
chiaromontese più illustre Ludovico Nicola di
Giura, ufficiale medico italiano che prestò servizio
alla corte imperiale di Pechino nella città proibita.
Su tutto si avverte una immanente – e, chissà,
immancabile – aria da zia Leonie, nelle signore
anziane che scrutano i passanti, o nelle persiane
chiuse dei palazzetti dalle ingenue pretese
notabilari.
Il paese vecchio si svuota, per tenere gli affari in
piedi Annalisa del forno di via Vittorio Emanuele,
fa la rappresentante dei suoi prodotti in giro per i
paesi limitrofi (si consigliano i taralli con lo
zucchero). La vita associativa diminuisce. Le partite
non si vedono al bar perché tutti hanno Sky, le
sezioni di partito non esistono quasi più. La tv
domina la vita al chiuso. Non solo nelle case.
All’hotel Ricciardi – cui siamo debitori di una
formidabile pasta con peperoni e cacioricotta – gli
avventori mangiano con la tv accesa, mattina e sera.
Non c’è legame tra educazione televisiva e
orientamenti politici. Ai ragazzi non piace
Berlusconi (la Basilicata ha una tradizione di
centrosinistra), ma molto il Grande Fratello. In
amore, a sentire i racconti locali, la gioventù
sembrerebbe abbastanza libertina, con annessi
racconti boccacceschi (“ma – nota Cicale – queste
cose c’erano anche prima, solo che la società
contadina imponeva più discrezione”).
Non c’è lavoro, non c’è imprenditoria, il turismo
non decolla, tutto è legato al ricambio nei servizi e
nei posti pubblici, l’ospedale e le altre strutture.
Così molti ragazzi se ne vanno. Ma adesso
cominciano a pensare se non sia il caso di tornare,
vivere a Bologna o a Milano con mille euro al mese
non ha senso. L’agricoltura non è un grande affare,
ma c’è sempre più gente che cerca di recuperare il
rapporto con la tradizione e con l’identità, nella
campagna. Tutti in casa hanno respirato cultura
bracciantile e sanno in quale mese bisogna seminare
e come si fa la vendemmia. Così, quelli che tornano
l’estate, tendono a recuperare il passato, le cantine –
grotte in cui si conserva il vino – oppure un
minuscolo appezzamento in cui ciascuno vorrebbe
coltivare un filare. All’orizzonte collettivo c’è una
sola preoccupazione, il futuro, non quello stagionale
di cinquant’anni fa, quello legato al ciclo agricolo,
ma un futuro esistenziale, un generale che sarà di
noi. Nonostante i cambiamenti economici, le
condizioni di vita migliorate, nel profondo una parte
delle intuizioni di Banfield restano attuali. Nelle
conversazioni sono ancora vive e palpabili la
sfiducia generale nella dimensione collettiva, nella
cooperazione, nella coincidenza tra interesse
personale e collettivo, nella modernità liberale. “La
politica è sempre uguale, promette e non fa”, dice
Lucio Vitale, trentun anni, corrispondente locale del
Quotidiano della Basilicata. Dalla politica, cioè, si
aspettano qualcosa, ma sono sicuri che non arriverà.
Questa diffidenza ha un effetto, spiega Rosario
Amendolara: “La pigrizia. Quelli di noi che quando
vanno fuori, sono bravi, si danno da fare, riescono,
poi, quando tornano, si lasciano risucchiare
dall’incapacità di prendere iniziative che non
dipendano da una spinta esterna”.
Aspetto positivo, nella valle c’è pochissima
malavita e non ci sono infiltrazioni mafiose. Perché?
Si dibatte sulla questione: la sanità di fondo della
gente, innanzitutto; quanto alla relazione tra
familismo amorale e assenza di criminalità le
opinioni a confronto sono due. C’è chi dice che la
famiglia nucleare è stata una protezione naturale
dalle infiltrazioni (sebbene sia un incubatore di
spirito negativo da clan), e c’è chi ribatte che questo
dovrebbe valere per tutto il Mezzogiorno e che in
realtà la valle si salva per un misto di ragioni, valori
sociali, scarsa accessibilità, modesti flussi
finanziari.
Quanto al prof. Banfield, anche il fortuito legame
tra la gente del posto e l’uomo che li ha riconsegnati
con una stimmata agli onori del mondo è cambiato.
Oggi il risentimento nei suoi confronti si è
attenuato, “Le basi morali di una società arretrata” è
come un prodotto locale: qui è stato pensato il
familismo amorale. In un certo senso, sono disposti
ad affidare la loro identità alla celebrazione di un
libro che parla male di loro. E nello stesso tempo a
farsi scrutare come cinquant’anni fa. “Già – dice un
chiaromontese – è quasi una forma di voyeurismo
allo specchio. Quando arriva qualcuno ci
concediamo e poi siamo curiosi di vedere che cosa
racconterà di noi, un po’ per sfida, un po’ magari
per capire qualcosa di più della nostra vita. È
diventato come una seconda identità. Una volta è
successo con un documentario televisivo. Tutti si
concessero alle telecamere, con sincerità, salvo
incazzarsi quando si videro in tv. Ma lo sapevano
che ci sarebbero finiti. E succederà ancora”. E’
come il set di una specie di GF specializzato in
fisica sociale. La Regione istituirà un osservatorio
sociologico per ospitare studenti da tutto il mondo; e
quando la signora dell’emporio viene a sapere che
quel tale con l’orlo di pelliccia sul cappuccio è un
giornalista, gli chiede amabile: “Siete venuto per
Banfield, è vero?”.
Marco Ferrante