parte ii - Silvia Bordini

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parte ii - Silvia Bordini
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LUCIO FONTANA
Il primo artista che ha elaborato l'esigenza di una utilizzazione creativa del mezzo televisivo è
stato Lucio Fontana. Nel 1946 il Manifiesto Blanco, redatto da un gruppo di giovani
dell'Accademia Altamira di Buenos Aires riunito intorno alla personalità di Fontana,
costituisce l'inizio di una serie di prese di posizione teoriche, nel segno dell'ipotesi di una
radicale evoluzione dell'arte fondata su una nuova sintesi tra la scienza (come dimensione
teorica del moderno), la creatività (come dimensione spirituale e subconscia dell'arte), e le
applicazioni tecnologiche (come mezzo della trasformazione materiale della vita).
Il Manifiesto Blanco si apre infatti con un appello «a tutti gli uomini di scienza del mondo, i
quali sanno che l'arte è una necessità vitale della specie», perché contribuiscano con le loro
investigazioni all'evoluzione dell'arte, e prosegue analizzando gli sviluppi della
rappresentazione, dallo spazio al movimento e al tempo. Nel mondo contemporaneo
trasformato dalla scienza e dalla tecnica non vi è più posto, secondo Fontana, per le forme
tradizionali dell'arte, che devono perciò modificarsi e manifestarsi in una nuova sintesi:
«come una somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo, spazio, la quale
integri una unità fisico-psichica.» (Crispolti 1986)
Queste idee traevano forza dalle precedenti esperienze di Fontana e prendono corpo nelle
ricerche spaziali che si sviluppano al suo ritorno in Italia, a Milano, esplicandosi sia nelle
opere sia nella produzione teorica. Si intensifica nei Manifesti (tra il '47 e il '52) la riflessione
sulla materia e sull'arte, sulle forme e sui colori, sul concetto di una spazialità infinita, verso
il superamento sia dei limiti delle forme tradizionali del quadro e della scultura, sia,
nell'«eternità» del gesto, della deperibilità della materia nel tempo; e viene ribadita con
insistenza la necessità storica dell'appropriazione da parte dell'artista dei mezzi offerti dalle
scoperte scientifiche intese come stimolo alla creazione. In tale contesto di idee appare per la
prima volta anche il riferimento alla televisione, nel Primo Manifesto dello spazialismo
(1947, firmato da Beniamino Joppolo, Fontana, Giorgio Kaisserlian, Milena Milani): «Ci
rifiutiamo di pensare che scienza ed arte siano due fatti distinti.... Gli artisti anticipano gesti
scientifici, i gesti scientifici provocano sempre gesti artistici. Né radio né televisione possono
essere scaturiti dallo spirito dell'uomo senza un'urgenza che dalla scienza va all'arte. E'
impossibile che l'uomo dalla tela, dal bronzo, dal gesso, dalla plastilina non passi alla pura
immagine aerea, universale, sospesa. » (Crispolti 1986).
Su questi temi Fontana ritorna ancora nel Secondo Manifesto Spaziale del 18 marzo '48: «con
le risorse della tecnica moderna, faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di
meraviglia, scritte luminose. Trasmetteremo per radiotelevisione, espressioni artistiche di
nuovo modello» e nella Proposta di un regolamento del movimento spaziale (2 aprile 1950),
in cui si precisa programmaticamente che «il Movimento spaziale si propone di raggiungere
una forma d'arte con mezzi nuovi che la tecnica mette a disposizione degli artisti»; tra questi
si indicano «la radio, la televisione, la luce nera, il radar e tutti quei mezzi che l'intelligenza
umana potrà ancora scoprire«, specificando che «l'invenzione concepita dall'Artista spaziale
viene proiettata nello spazio» e che «nell'umanità è in formazione una nuova coscienza, tanto
che non occorre più rappresentare un uomo, una casa, o la natura, ma creare con la propria
fantasia le sensazioni spaziali» (Crispolti 1986).
E' questo il periodo in cui Fontana realizza opere fondamentali, che vanno nelle direzioni
indicate dagli scritti e che tra l'altro sono state lette dalla critica come antesignane dei futuri
esiti dell'environment e del concettuale. Nel '49 l'Ambiente spaziale con forme spaziali e
illuminazione a luce nera« (luce di Wood) esposto per sei giorni a Milano alla Galleria del
Naviglio dal 5 febbraio 1949; grandi forme astratte vagamente biomorfe, di cartapesta,
colorate a piccoli punti (quasi buchi di colore) con tinte fosforescenti, galleggiavano appese
nello spazio buio, e, illuminate dalla luce nera di Wood a raggi ultravioletti creavano
particolari dimensioni spaziali e dinamiche. Fontana ricordò più tardi l'Ambiente spaziale
come il suo primo tentativo di liberazione della forma plastica dalla staticità, rievocando le
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suggestioni del mutamento dell'oggetto in evento, e dell'immersione fisica e psichica dello
spettatore nell'ambiente-opera: «l'ambiente era completamente nero, con luce nera di Wood,
entravi trovandoti completamente isolato con te stesso, ogni spettatore reagiva col suo stato
d'animo del momento, precisamente, non influenzavi l'uomo con oggetti, o forme impostegli
come merce in vendita, l'uomo era con se stesso, colla sua coscienza, colla sua ignoranza,
colla sua materia, etc. etc. L'importante era non fare la solita mostra di quadri e sculture, ed
entrare nella polemica spaziale - subito dopo feci i 'buchi' la rottura di una dimensione ! il
vuoto etc. etc.»(Crispolti 1986)
Tre anni ancora, e nel 1951 si avrà il sinuoso groviglio di duecento metri di luci al neon sullo
scalone d'ingresso della IX Triennale di Milano, in un ambiente progettato dall'architetto
Baldessari; dopo la luce nera (magica e paradossale nella sua stessa definizione) è il tubo
fluorescente il mezzo tecnologico che ridisegna magicamente lo spazio; e di nuovo il neon è
utilizzato nel 1953 nell'ambientazione spaziale di segmenti rettilinei di luce su un soffitto a
buchi, nella sala cinematografica nella XXXI Fiera di Milano. In occasione della Triennale,
al Congresso Internazionale delle Proporzioni, Fontana legge il Manifesto tecnico dello
Spazialismo, in cui proietta le sue problematiche in una prospettiva storica e ribadisce ancora
la relazione tra le scoperte scientifiche, i cambiamenti del modo di vivere e le trasformazioni
del modo di pensare dell'uomo, e in particolare di concepire l'arte.
La televisione è dunque ripetutamente indicata tra gli strumenti di un'arte nuova; tuttavia,
malgrado i numerosi riferimenti, Fontana la utilizzò soltanto in un occasione, il 17 maggio
del '52, realizzando una trasmissione sperimentale per la RaiTv di Milano.
L'esperienza assume nell'iter di Fontana un particolare significato, malgrado la sua unicità.
Infatti Fontana utilizza le prime tele e carte-telate bucate proprio per la realizzazione delle
immagini luminose in movimento che costituivano questo suo «video»; e
contemporaneamente (maggio '52) le espone in una personale alla Galleria del Naviglio,
chiamando le sue opere Concetti Spaziali. Come nota Crispolti «la nascita dei 'buchi' di
Fontana va posta esattamente in relazione a questa implicazione di nuove tecnologie»
(Crispolti 1986). Inoltre la sua trasmissione televisiva si pone come una sperimentazione
innovativa in Italia, dove le emissioni televisive pubbliche regolari iniziano solo nel '54, e
dove Fontana trova spazio per impostare con straordinaria naturalezza il problema
dell'integrazione tra le caratteristiche formali del mezzo e la tematica artistica dello
spazialismo. Si tratta di un'opera progettata per la televisione e basata su forme che
interagiscono programmaticamente con la luce e che sono non solo animate ma anche
ulteriormente spazializzate dal dispositivo tecnico dell'emittente. Sul monitor il quadro con i
buchi, che costituisce la matrice originaria, si trasforma in evento; l'opera si dinamizza e si dà
non più come termine finale e compiuto di un processo ma come un processo in atto, si
identifica con la durata effimera della trasmissione smaterializzandosi. Per questo si lega
indissolubilmente alla determinazione del mezzo, cui si affida l'espansione di aspirazioni e
messaggi illimitati virtualmente nello spazio e nel tempo - e tuttavia fruibili solo in
condizioni spaziali e temporali determinate dal mezzo stesso.
In concomitanza con la trasmissione televisiva e nella logica della ricerca di un ampliamento
dell'arte collegato all'uso di mezzi nuovi, viene redatto il Manifesto del movimento Spaziale
per la televisione, (17 maggio 1952, firmato da Ambrosini, Burri, Crippa, Deluigi, De
Toffoli, Dova, Donati, Fontana, Giancarozzi, Guidi, Joppolo, La Regina, Milena Milani,
Morucchio, Peverelli, Tancredi, Vianello), che vale la pena di riportare per intero, non solo
per il suo significato storico ma anche perché ripropone significativamente alcuni elementi
fondanti della poetica di Fontana: «Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo,
attraverso la televisione, le nostre nuove forme d'arte, basate sui concetti dello spazio, visto
sotto un duplice aspetto:
Il primo, quello degli spazi, una volta considerati misteriosi ed ormai noti e sondati, e quindi
da noi usati come materia plastica;
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il secondo, quello degli spazi ancora ignoti nel cosmo, che vogliamo affrontare come dati di
intuizione e di mistero, dati tipici dell'arte come divinazione.
La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti.
Siamo lieti che dall'Italia venga trasmessa questa nostra manifestazione spaziale, destinata a
rinnovare i campi dell'arte.
E' vero che l'arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne
sia svincolata e che attraverso lo spazio possa durare un millennio, anche nella trasmissione
di un minuto.
Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all'infinito, in infinite direzioni, le linee
d'orizzonte; esse ricercano una estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non è
più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica.
Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a
servizio dell'arte che noi professiamo» (Celant 1977).
Se nei precedenti scritti il riferimento di Fontana alla televisione non individuava uno
specifico «video» nel senso che si generalizzerà e si articolerà problematicamente dagli anni
'60, ma un più generale orizzonte tecnologico cui l'arte doveva far ricorso, in modo
sostanziale, per evolversi con i tempi, superare i limiti del quadro, proiettarsi in una spazialità
illimitata, reso coll'abbinamento del gesto e della tecnologia, il Manifesto per la Televisione
è più esplicito e diretto nell'individuare le caratteristiche del mezzo, sia come trasmittente sia
come parte integrante della ricerca e dell'opera stessa. L'impiego della televisione significa di
per sé l'intenzionalità di rielaborare la nozione di opera come oggetto e di proporre
interrogativi sulla sua struttura, sulla percezione, sul rapporto con il pubblico.
Particolarmente significativi sono l'idea di un'espansione ampia, nel mondo, verso un
pubblico virtualmente illimitato, e il riferimento alla dematerializzazione dell'arte e al
superamento della dimensione di un tempo confinato alla trasmissione, in virtù della sua
dimensione spaziale. Spazio come categoria mentale più e oltre che fisica, non rimando
illusionistico ma processo concettuale, come il gesto che lo genera (non può non cogliersi il
collegamento con i successivi tagli), e per questo assimilabile al tempo come eternità.
Ultimo tra gli scritti programmatici di Fontana il Manifesto per la Televisione costituisce
forse il paradigma più preciso di quel legame positivo, creativo tra arte scienza e tecnologia
cercato dall'artista, veicolo auspicato del superamento dei linguaggi tradizionali in una sintesi
nuova.
Sull'uso della televisione inserita in una problematica spaziale Fontana torna in altre
occasioni, come nella dichiarazione Perché sono spaziale dello stesso 1952; esplicitando
anche il riferimento al dinamismo plastico dei futuristi, alle differenze con il cubismo, alla
sperimentazione spaziale nell'architettura e nei suoi materiali moderni (cemento), Fontana
riprende i temi portanti dei precedenti Manifesti sul rapporto dell'arte con l'evoluzione dei
mezzi nel tempo («non ci può essere un'evoluzione nell'arte con la pietra e il colore, si potrà
fare un'arte nuova con la luce, televisione, solo l'artista creatore deve trasformare queste
tecniche in arte»), sull'arte spaziale, sull'uscita dal quadro per penetrare nella dimensione del
tempo e dello spazio, sullo sviluppo di «una forma d'arte basata sulle tecniche del nostro
tempo, neon televisione, radar ecc.» (Ballo 1970 e Celant 1990).
Ancora, quasi un decennio più tardi, dialogando con Carla Lonzi e polemizzando con gli
artisti che si dedicano al cinema (fare «dell'arte di cinema, è la cosa più cretina che ci possa
essere, non ha dimensione, ha movimento solo, e non ha volume»), Fontana dichiara che con
la televisione «non è che trasmetterei delle figure, invaderei degli ambienti di colore, farei
delle proiezioni, farei quello che vorrei, ma arrivi attraverso uno spazio e arrivi attraverso
degli elementi veramente nuovi» (Lonzi 1969). Frasi in cui si ribadisce che l'interesse per il
mezzo televisione è concentrato sulle sue capacità innovative di attivazione sensoriale, visiva
e spaziale, secondo la stessa pulsione che orienta la produzione delle opere più famose, i
Tagli e le Nature .
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Senza voler fare di Fontana uno dei tanti padri della videoarte, è indubbio che egli già indica,
almeno potenzialmente, quella sintesi tra le funzioni dell'artista, della struttura mediale e
dello spettatore che sarà in seguito una caratteristica portante delle opere video. Non solo
inaugura quasi simbolicamente l'uso della televisione per produrre e trasmettere un'opera
d'arte, ma anche, in senso più largo e generale, afferma la necessità creativa di impiegare i
nuovi mezzi forniti dalle scoperte scientifiche del suo tempo, e così facendo cattura già la
disponibilità del video a collegarsi e rielaborare altre forme e linguaggi dell'arte
contemporanea.
COINVOLGIMENTO E PERCEZIONE
Non a caso le ipotesi di Fontana sono un punto di riferimento importante per altre pratiche
innovative di tipo ambientale, performativo, percettivo, da quelle di Piero Manzoni o di Yves
Klein, a quelle dei gruppi cinetici, che tra l'altro egli stesso sostiene e contribuisce a lanciare.
Infatti al Miriorama 10, inaugurata il 14 aprile 1961 alla galleria La Salita di Roma, la
presentazione è scritta da Fontana; l'artista torna in questo testo sui temi dei suoi manifesti,
ribadendo le idee sulla interrelazione tra la sensibilità dell'uomo moderno e le esigenze create
dalle manifestazioni della civiltà che si rinnova. D'altronde alla loro prima mostra Miriorama
1 gli artisti del Gruppo T avevano fatto esplicito riferimento a Fontana, «esponendo» in
lettere di gomma appiccicate al muro stralci dal Manifiesto Blanco, accanto a brani de La
scultura futurista di Boccioni (1912), della Ricostruzione Futurista dell'universo Di Balla e
Depero (1915), e dalla Teoria della forma e della figurazione, di Klee (pubblicato in Italia nel
1959), denunciando così chiaramente le radici, storiche e recentissime, delle loro idee (Mussa
1976).
All'epoca Fontana non era il solo a muoversi nella direzione di un sovvertimento della
dimensione oggettuale del quadro e della plastica tradizionali, verso l'espansione e
l'articolazione in uno spazio fisico e percettivo più ampio e complesso, facendo appello ad un
nuovo rapporto con le tecnologie moderne.
Vari orientamenti di ricerca, dalla fine degli anni '50, puntavano alla trasformazione del ruolo
dell'artista, del rapporto con il pubblico, della nozione di arte, inserendo disparati materiali e
modalità di intervento nel contesto dell'esperienza artistica; fino a spingere l'opera al di là dai
confini delle tecniche tradizionali integrandola con macchine, strumenti e materie inconsueti,
fino a scardinarla, ribaltandola nell'azione, nello spazio e nel tempo vissuto, fuori dai luoghi
istituzionali (De Mèredieu 1994).
Il 1952, in quest'ottica, può apparire come un anno chiave, tanto è denso di fatti nuovi,
destinati a molteplici maturazioni. Si storicizza l'informale con i saggi di Harold Rosenberg
su Art News e di Michel Tapié (Un art autre); Cage presenta la sua famoso concerto sul
silenzio 4' 33" ; nell'estate dello stesso anno al Black Mountain College si svolge l'Untitled
event, con la partecipazione di Cage Cunningham, Rauschenberg; Rauschenberg inventa il
combine painting; Yakov Agam presenta i suoi primi quadri trasformabili; Guy Debord in
Hurlements en faveur de Sade (proiettato a Musée de l'Homme) introduce nel cinema
l'assenza di immagini (Hors Limites 1994). Munari pubblica i manifesti sul Macchinismo, il
Dis-int-egr-ismo, l'Arte totale e inizia le proiezioni a luce polarizzata (Polariscop); Veronesi
espone alla mostra del M.A.C. alla Galleria dell'Annunziata a Milano un Quadro fatto a
macchina (M.A.C. 1984).
Negli anni successivi si avranno le esperienze sulla rappresentazione del movimento di Paul
Bury (Plans Mobiles,1953), di Tinguely (Reliefs méta-mécaniques e Sculptures automobiles,
1954) di Nicolas Schöffer (Tour spatiodynamique sonore, alta 50 metri, 1954-55), e della
mostra Le Mouvement (Galérie Denis René, Parigi 1955). Intanto Rotella inizia i suoi
decollages, Arnheim pubblica Art and visual perception (1954); nel 1956 Yves Klein mette a
punto il suo blu che brevetta nel 1960 col nome di International Klein Blue, e ad Alba, su
iniziativa del movimento per il Bauhaus Imaginiste (Baj, Jorn, Pinot Gallizio) ha luogo il
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primo congresso internazionale che riunisce diverse tendenze di avanguardia e con Constant,
Simondo, Wolman prefigura la creazione dell'Internationale Situationniste. Nel '57 a Vienna
Hermann Nitsch organizza l'Orgien Mysterien Theatre, un festival che riunisce tutte le arti; a
Düsseldorf viene fondato il gruppo Zero ; a Milano Manzoni produce i primi Achromes.
(Hors Limites 1994).
Queste ed altre esperienze confluiscono e si strutturano nelle tendenze del decennio
successivo: sia l'idea «concettuale» di una preminenza del progetto e del processo rispetto al
prodotto, sia l'allargamento dei mezzi da utilizzare, sia l'intenzione di un diretto e immediato
coinvolgimento, sensorio, fisico e psichico, sono tutti elementi che ritroviamo, con estrema
varietà di invenzione e di attuazione, nella dialettica tra la «scientificità« e i meccanismi
dell'arte cinetica e la «spontaneità« delle forme comportamentali e performative, tra la diretta
ispirazione alla società dei consumi e ai mass media della Pop Art e gli impulsi in chiave
antitecnologica e lirica dell'Arte Povera. Proprio questa dialettica, questa disponibilità
creativa e critica alla ricerca e alla sperimentazione costituiscono il brodo di coltura della
videoarte; la cui fisionomia, se si caratterizza macroscopicamente per l'assunzione del
medium televisivo, è altrettanto decisamente segnata da influssi e scambi con tutte le pratiche
artistiche contemporanee. Il comune denominatore può essere individuato nell'interazione
con lo spettatore, fattore caratterizzante e determinante che si alimenta proprio dal dialogo
con le nuove tecnologie. Coinvolgimento e partecipazione sono le parole d'ordine che,
almeno ai suoi inizi, la videoarte condivide con l'arte cinetica, con l'happening, con la
performance, con Fluxus. Sono parole che possono infatti significare un intervento attivo - a
livello intellettuale, psichico o comportamentale - dello spettatore, oppure un diverso tipo
d'interattività per cui l'opera è un processo che reagisce allo sguardo attraverso l'impiego di
tecnologie che dai macchinari o dai dispositivi percettivi dei cinetici, travasano nella
videoarte e arriveranno alle «macchine intelligenti» degli informatici e agli scenari della
«realtà virtuale» (Popper 1975).
L'arte cinetica cavalca la sfida della tecnologia moderna e cerca di superare l'impasse delle
avanguardie tra mito del progresso e ricerca di assoluto indicando all'esperienza video le
potenzialità di una contaminazione visiva tra la realtà della machina e quella dell'immagine.
Parte dalle premesse scientifiche della psicologia sperimentale (Gestalttheorie) diffuse da
Arnheim nel 1954 e lavora sulla percezione; i suoi esponenti che si costituiscono in gruppi in Spagna l'Equipo 57 (1957), a Düsseldorf il Gruppo Zero (1958), a Milano il Gruppo Mid
(1958) e il Gruppo T (1959), a Padova il Gruppo N (1959), negli USA l'Anonima Group
(1960), a Parigi il GRAV (1961), a Mosca il Dvizdjenie (1962), a Roma il Gruppo Uno
(1963) - scelgono di procedere con metodi operativi derivati dalla tecnologia moderna, dal
programma inserito dall'artista nella struttura stessa dell'opera come principio di
organizzazione formale in trasformazione dinamica nello spazio e nel tempo (Mussa 1976,
Vergine 1984).
Ma l'arte cinetica ha come obiettivo generalizzato non solo e non tanto la creazione di opere
in movimento, quanto di dispositivi percettivi, cioè l'attivazione della partecipazione di chi
esperisce l'opera, all'interno di variabili previste, programmate: il cinetismo reale prodotto da
meccanismi che sono parte integrante dell'opera, o dalla consapevole manipolazione dello
spettatore stesso, che diventa così anch'esso parte dell'opera, oppure il movimento virtuale
indotto dallo spostamento dello sguardo. Si configura una particolare integrazione tra caso e
programma, come dirà Eco nel 1962 in occasione della Mostra di Arte Programmata, al
negozio Olivetti di Milano, che poi percorrerà l'Europa: «Nelle vicende del caso può essere
individuato a posteriori una sorta di programma... e non sarà dunque impossibile
programmare, con la lineare purezza di un programma matematico, 'campi di accadimenti' nei
quali possano verificarsi dei processi casuali. Avremo così una singolare dialettica tra caso e
programma, tra matematica e azzardo, tra concezione pianificata e libera accettazione di quel
che avverrà, comunque avvenga, dato che in fondo avverrà purtuttavia secondo precise linee
formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini o delle
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direzioni possibili. Possiamo così parlare di arte programmata» (Eco 1962). Intorno a queste
ipotesi si creano molteplici contatti, dibattiti, mostre, (e anche accese polemiche tra artisti e
critici, come quelle emerse nel 1963 alla IV Biennale Internazionale d'Arte di San Marino e
al XII Congresso Internazionale di Verrucchio), che culminano nell'esposizione, ampia ma
eterogenea e in un certo senso conclusiva, The Responsive Eye, nel 1965 al Museum of
Modern art di New York, l'anno dopo l'esplosione della Pop Art alla Biennale di Venezia
(Vergine 1984).
L'happening, seconda la definizione del suo iniziatore Allan Kaprow, è un «assemblage di
eventi», che mescola situazioni spazio-temporali, oggetti svariati, frammenti di arti diverse
(danza, teatro, film, pittura, scultura, musica, letteratura), elementi fantastici e assurdi,
materiali di scarto o moderna tecnologia, in un lavoro gestito insieme dall'artista e dal
pubblico. Vuole essere fondamentalmente un'azione che fonde arte e vita; si svolge su un
tracciato predisposto, cui si possono dare infinite e imprevedibili risposte, trasformando la
situazione che viene presentata e di cui gli spettatori, insieme all'artista, diventano attori; per
cui, all'interno della sua conclamata libertà ed estemporaneità contiene una dialettica
significativa tra programma e caso, tra azioni predisposte e imprevedibilità delle risposte,
significativamente affine a quella teorizzata da Eco. L'attenzione per il processo percettivo
cui di fatto si riduce l'essenza e il processo dell'opera programmata e cinetica, diventa
nell'happening l'opera stessa, ma totalizzandosi, allargandosi in modo polisensoriale,
collettivo. Dalla percezione ottica si estende alla partecipazione fisica; recuperando così
anche il fatto fortuito, le attese, la noia come sensazione esistenziale del tempo, le
sollecitazioni emozionali espunte dalle strutture cinetiche.
Basilari nell'happening sono le reminiscenze del Futurismo e soprattutto l'influenza Dada, e
direttamente determinante è inoltre l'attività di Cage al Black Mountain College e poi alla
New School for Social research di New York. Proprio al Black Mountain College si svolgono
nel '52 le prime manifestazioni; ma bisogna arrivare al '59 per una affermazione più
completa, con il 18 happenings in 6 parts, New York, Reuben Gallery, di Allan Kaprow
(Goldberg 1988). Kaprow avverte che «l'azione non avrà alcun senso chiaramente
enunciabile per quel che concerne l'artista»: si tratta di un insieme di azioni che si svolgono
in tre sale della galleria, attrezzate con specchi, colori, oggetti, rumori, dove alcuni artisti
declamano frammenti di testi, dipingono, suonano, lasciano tracce e segnali, mentre gli
spettatori si mischiano a loro seguendo le istruzioni di un programma che viene consegnato
all'ingresso. Con questa provocatoria sinestesia tra le arti e i linguaggi, e tra artista e
spettatori, inizia di una intensa stagione che vede all'opera artisti di formazione diversa, come
Cage, Kaprow, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Grooms, il Gruppo Gutai in Giappone, gli
esponenti dell'arte povera e minimal. E subito si inventano altri tipi di azioni artistiche, le
performances, gli ambienti (environments), le installazioni, sul comune riferimento alla
stretta connessione tra arte e vita e alla proposta di una molteplicità di stimoli sensoriali visivi, auditivi, cinetici, tattili - per creare situazioni in cui proiettare lo spettatore. Tra
America ed Europa si confrontano nell'articolazione di un medesimo spirito di ricerca la
Grotta dell'Anti-Materia di Pinot Gallizio (1959), Le vide e le Anthropométrie-spectacles di
Yves Klein (1960) in ambito Nouveau Réalisme, le Sculture viventi di Piero Manzoni (196061), gli Anti-Procès di Lebel (1960), Yard di Kaprow (1961), gli Eventi di Cage, i magazzini
di Oldenburg e di Ben, le azioni di Beuys e della Body Art, gli ambienti di arte povera e
minimal di G. Uecker, G. Colombo, F. Spindel, L. Samaras e di tanti altri artisti. Le ipotesi
del lavoro collettivo, dell'opera non commerciale, della dinamizzazione dello spazio nel
tempo, dell'attivazione della percezione e del corpo, dell'interazione col pubblico si integrano
a dispostivi, procedimenti e materiali inconsueti all'arte, macchine, luci elettriche, prismi,
specchi, terra e aria (Celant 1976).
Nelle performances e negli ambienti l'azione degli spettatori si limita di nuovo
all'osservazione, ma cresce tuttavia il livello psicofisico del loro coinvolgimento, captato
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dallo spettacolo proposto dall'artista, la cui presenza si fa sempre più determinante ed
esclusiva, fino all'assunzione del proprio corpo come materiale dell'opera. Non è più l'oggetto
artistico ad essere centrale ma l'effimero e transitorio svolgersi di un evento esistenziale, le
cui tracce visibili saranno memorizzate attraverso documentazioni fotografiche, filmiche e
infine video, che via via tendono a configurarsi come opere d'arte autonome e a suggerire
azioni appositamente pensate per la registrazione della telecamera. Segnando così anche
rispetto al cinema una diversione sostanziale, una implicita messa in discussione del suo
carattere narrativo.
In generale, comune a tutti questi orientamenti è anche la volontà di superamento
dell'informale, di eliminare le tracce dell'esecuzione manuale e la personalizzazione della
creazione artistica; inoltre l'intenzione di opporsi all'individualismo e alla
commercializzazione della figura dell'artista, così come alla mercificazione e chiusura
dell'opera nel sistema dell'arte. Da qui si sviluppa l'ideologia del lavoro di gruppo,
l'anonimato, la firma collettiva, la produzione di multipli nell'arte cinetica, mentre
nell'happening, e nella performance, assume importanza la presenza dell'artista, la vocazione
all'effimero e al transitorio, l'eliminazione del prodotto a favore dell'azione limitata a pochi
minuti o a qualche giorno. Generalizzato è anche, pur nelle differenze di queste pratiche
artistiche, l'intento ideologico di spingere il coinvolgimento polisensoriale ad una attivazione
della coscienza e quindi, nelle intenzioni degli artisti, a provocare nei fruitori una
sensibilizzazione critica verso la realtà contemporanea. Un atteggiamento che diventa un
elemento sostanziale in alcune esperienze che tendono a fondere arte e vita, sullo sfondo
della ribellione contro società capitalistica e della rivendicazione della totale libertà degli
artisti. Tra queste l'Internationale Situationniste (1957) e in particolare Fluxus, al cui interno
si verificano le prime esperienze di videoarte
FLUXUS
Fluxus incarna l'esigenza di sperimentare mezzi capaci di creare una cultura interamente
nuova (Ubi Fluxus 1990). Non a caso si sviluppa negli anni '60, in un clima denso di tensioni
internazionali e di aspirazioni ad un diverso modo di vivere e di fare politica, mentre si
lanciano i primi satelliti e si mette piede sulla luna. Gli inizi di Fluxus sono in America, dove
la ricerca artistica era stata vivacizzata anche dall'arrivo negli anni '40 di numerosi artisti in
fuga dal nazismo (per es. Mondrian, Schoenberg, Moholy-Nagy che apre una scuola a
Chicago, Albers che fonda il Black Mountain College). Poi dall'ambiente newyorchese
approda in Europa, con epicentro in una Germania ansiosa di ricominciare, di proporre di sé
una nuova immagine culturale.
Personaggio chiave della storia di Fluxus è George Maciunas; non in quanto artista (svolge
un'attività come grafico, tra l'altro per la rivista Film Culture del critico cinematografico
Jonas Mekas) ma come organizzatore, promotore di incontri e manifestazioni, editore. Nella
primavera 1961 George Maciunas apre a New York la A. G. Gallery e organizza con vari
artisti una serie di performances in cui appare per la prima volta il termine Fluxus.
Nell'autunno '61 Maciunas è in Europa dove prenderà contatto con Vostell, Paik e Ben
Patterson a Colonia, con Emmet Williams a Darmstadt, Joseph Beuys a Düsseldorf, Addi
Köpcke a Copenhagen, Robert Filliou a Parigi e Ben Vautier a Nizza. Organizza in giro
Fluxus/Performances o Festivals Fluxus; tra i più celebri, nel 1962 il Neodada in New York
alla galleria Parnass di Wuppertal con Ben Patterson, il Neo-Dada in der Musik a Düsseldorf,
e a Wiesbaden, a settembre, il Fluxus Internazionale Festspiele Neuester Musik, con Paik e
Vostell partecipano tra gli altri Chiari, Forti, Brecht, Cage, Kosugi, Maxfield, Higgins, Riley,
Knoxles, La Monte Young; nello stesso anno Maciunas inizia la pubblicazione degli Yearboxes di Fluxus (Hors Limites 1994).
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Quando torna in America nel settembre 1963, Fluxus è in pieno svolgimento nei maggiori
centri artistici del mondo: a Parigi, con il Festival d'expressions libres di Jean-Jacques Lebel;
a Düsseldorf con il Fluxus Festival alla Kunstakademie (Vostell, Paik, Yoko Ono, Riley,
Spoerri, Maciunas, Filliou, Maderna, Higgins, Cage, Bussotti, Brecht, Watts); a Vienna con
le azioni di Nitsch, Mühl, Brus e Rainer; a New York con l'Happenings, events and advanced
music organizzato dal New York City Audio-Visual Group for research and experimentation.
Le attività continueranno a Copenhagen, ad Amsterdam, a Nizza, in Inghilterra, in Italia, in
Svizzera, fino a che, malgrado le premesse antiistituzionali e libertarie anche Fluxus viene
musealizzato, nel 1970, con la mostra al Kölnische Kunstverein, Happening and Fluxus,
presentata da Harald Szeemann.
Tuttavia Fluxus non si struttura mai come un vero e proprio gruppo o come un movimento
organizzato. Come scrive Paik, Fluxus «è un modo di vita, non un concetto artistico»
(Duguet 1988); è una continua integrazione e disgregazione delle arti in eventi totali e si
esplica non tanto nella creazione di oggetti d'arte ma piuttosto di avvenimenti e situazioni. Le
sue opere sono happenings, film sperimentali, opere multimediali, musica concreta ed
elettronica, azioni per strada, eventi concettuali e manifestazioni pubbliche, effimere e rituali,
dissacranti e derisorie del concetto di arte e di artista. Alle radici di Fluxus si collocano il
Futurismo, Duchamp, Dada; fondamentale è il concetto di indeterminato di Cage, la sua
ricerca sulla configurazione imprevedibile dell'assemblaggio suono-musica, il trasferimento
del concetto di ready made nel suono ready-made (Ubi Fluxus 1990). I suoi compagni di
strada sono le ricerche sulla percezione e sul coinvolgimento di chi guarda, la nuova
relazione con il pubblico, la critica alla nozione di opera e di artista, l'uso di materiali del
mondo contemporaneo. La struttura dell'opera cambia totalmente; si dissolve e si ricompone
nello spettacolo-manifestazione multimediale, diventa indeterminata come l'esistenza
quotidiana; ha una dimensione virtuale che diventa reale solo se partecipata (come diceva
Duchamp «è l'osservatore che fa l'opera»), e tende alla liberazione di un flusso di energie
contro i vecchi schemi di comportamento, in un clima ludico, libertario.
Gli artisti Fluxus usano tutte le tecniche e i materiali possibili, aprendosi ad ogni possibile
esperienza nel segno del rapporto arte-vita. L'artista fluxus, scrive Maciunas (Fluxus
Manifesto 1965 e 1966), deve essere «non professionale, non parassita, non elitario, (...) deve
dimostrare che ogni cosa può sostituire l'arte e che ognuno la può fare». Tra i materiali di
Fluxus si trova anche il video, sia come strumento di riproduzione di immagini in
movimento, sia come tecnica di produzione di immagini, sia come materiale visivo e di
costruzione di ambienti e situazioni, sia come oggetto simbolico della comunicazione e della
informazione nella società contemporanea. Vostell, Paik, Beuys sono tra i primi
sperimentatori di questo nuovo linguaggio.
WOLF VOSTELL
Dopo alcune iniziali esperienze come litografo e come allievo alla Werkkunstschule di
Wuppertal (1953), Vostell si reca nel 1954 a Parigi. Le sue biografie registrano l'incontro con
un termine - ed un evento - che sarà determinante per il suo modo di concepire l'arte; legge su
un quotidiano, Le Figaro del 6 settembre 1954, la notizia di un drammatico avvenimento di
cronaca: «...peu après son dècollage... un superconstellation tombe et s'engloutit dans la
rivière» (Vostell 1992). Da questo secco resoconto Vostell estrae una parola, décollage, per
trasformarla nella nozione portante delle sue azioni, il dé-coll/age. «Il termine dé-coll/age spiega Vostell in un'intervista con Charles Dreyfus - rinvia a un principio della negazione
estetica, o a un'estetica della negazione: a forme di distruzione, volontaria o involontaria, per
opera dell'uomo o del destino. Duchamp aveva dichiarato che 'l'oggetto intatto' era nuovo in
quanto opera d'arte. L'oggetto distrutto incorpora il dramma della sua utilizzazione. Il
processo del dé-coll/age, che deforma l'oggetto, è anche un evento, un avvenimento, una
azione che ha la stessa importanza del risultato estetico. La vita trovata al posto dell'oggetto
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trovato, la vita trovata 'dé-coll/agée' è la scoperta che determina la mia opera: distorsione di
immagini televisive, manifesti bruciati, cancellamento di riviste, azioni dé-coll/age,
dimostrazioni in pubblico della produzione dei miei oggetti» (Hors Limites 1994 ).
Con queste frasi Vostell condensa il senso di un lungo itinerario artistico, segnato fin dagli
inizi, come egli stesso racconta, dalla volontà di ribellione e di introspezione insieme, dal
bisogno di essere diverso dagli altri, di affermare la propria libertà. Per questo è determinante
per Vostell l'incontro con Fluxus, con la sua istanza vita/arte/vita nel segno dell'opposizione
culturale alla società. Vostell conosce Maciunas nel 1962 e lo coinvolge a pubblicare nella
sua rivista Dé-coll/age (1962-67), partecipa poi a varie manifestazioni in Europa e in
America; tra le più importanti il Festum Fluxorum, all'American Center di Parigi nel
dicembre '61, e, tra maggio ed agosto 1963, con la Smolin Gallery di New York il 6 TV Décoll/agen-Action-Environment (il primo environment con televisione svolto in America), e lo
Yam Fluxus Festival di New Brunswick, che è la contropartita americana dei Festivals Fluxus
europei, con happenings, performances, danza e musiche di Brecht, Cage, Childs, Grooms,
Hansen, Higgins, Kaprow, Maciunas, Morris, Rainer, Watts (Vostell 1992). L'artista porterà
in Fluxus la determinazione sferzante di una creatività critica, di un'ideologia che punta a
smascherare la violenza della società, delle guerre, dei comportamenti, dell'informazione
massificata.
Il dé-coll/age comprende una commistione di elementi differenti, per lo più scarti, lacerazioni
della realtà: materiali effimeri e residui, brandelli di pittura o di giornali o di fotografie,
macchinari-simbolo del sociale, strumenti dei mass media. Cemento, colate di colore,
piombo, filo spinato macchine fotografiche, telecamere e televisori sono integrati in un
continuo confronto tra uomo e macchina, tra naturale e artificiale. Carichi ancora di una
violenza di tipo espressionista e legata alla storia, alla politica, questi frammenti del mondo
contemporaneo si intessono nella dimensione temporale e esistenziale dell'happening, della
performance e dell'environment; si pongono come elementi di azioni che si sparpagliano in
luoghi urbani sulle indicazioni non sense delle «partiture» di Vostell, come per esempio nel
primo Cityrama a Colonia (settembre '61), in cui viene distribuito ai partecipanti un
programma con le disposizioni per andare a visitare le rovine della guerra in 26 luoghi della
città; oppure si concentrano in luoghi deputati, dentro e fuori le gallerie, come nello Yam
Festival e nell'happeningYou a Long Island (1964), in cui il pubblico è coinvolto in una serie
di avvenimenti nel segno dell'assurdo, della distruttività, del caos, del disgusto. L'oggetto e
l'azione si frantumano e si ricompongono intenzionalmente in un sistema di relazioni tra cose,
rimanenze, idee, persone, nel «confronto con i temi che dominano la nostra realtà - auto,
televisione, sovversione politica, caos e distruzione» (Wedewer 1992).
La televisione partecipa - e non poteva essere diversamente - a questa serrata denuncia; ed è
sempre la televisione come oggetto aberrante, pericoloso, ottuso e falso, instancabilmente
svelato e continuamente, simbolicamente distrutto, per spingere il pubblico a rovesciare la
propria accettazione passiva. Vostell comincia a inserire il televisore nei suoi dé-coll/age fin
dal 1958. Nell'allestimento del ciclo delle Schwarzes Zimmer (Berlino, 1958-59) i televisori
trasmettono i loro normali programmi ma incastonati tra oggetti e fotografie dei campi di
sterminio di Treblinka e di Auschwitz, con l'evocazione drammatica del fantasma irrisolto del
passato nazista accostata all'altrettanto drammatica indifferenza delle emissioni commerciali
della televisione. Nel TV De-coll/age (1958) Vostell propone una grande tela incolore,
lacerata in vari punti da cui si intravedono altrettanti occhieggiamenti di schermi, con le loro
emissioni assurdamente decontestualizzate, ridotte a residui e metafore inquietanti. In 6 TV
decoll/age sei televisori sono manipolati in quanto oggetti e in quanto alla trasmissione,
secondo diverse modalità: sono manomessi, rotti, alterati nella ricezione, gli schermi
imbrattati di colore, o segati in due, o smontati (Celant 1977). Nel 1963, durante lo Yam
Fluxus Festival l'artista fa sotterrare un televisore acceso e avvolto di filo spinato e tra le
istruzioni dell'happening ordina di gettare una grande torta con panna montata sulla
televisione mentre sta andando in onda un programma (Vostell 1963). Nello stesso anno
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durante la presentazione della prima versione di Sun in Your head, 9 Nein De-coll/agen
distrugge con un colpo di fucile un televisore acceso, una simbolica uccisione di un mezzo di
comunicazione per la quale si è parlato di affinità con il gesto di Lucio Fontana, il taglio nella
tela di un quadro monocromo (Friedel 1986). Nel 1964 è la volta dell'happening You: «ha
avuto luogo - scrive Vostell - in una piscina bianca, vuota, riempita con cento sacchetti di
plastica pieni di colori gialli blu e rossi, con ossa e costole di bue, e su un campo da tennis
colorato di giallo (...) La mia idea di base: confrontare i partecipanti, il pubblico, con una
satira della ragionevolezza della vita nella forma di una prova del caos e rendere consapevole
l'assurdità in ciò che è assurdo e ripugnante» (Wedewer 1992). Tra le azioni che svolgono
questa «prova del caos» tre apparecchi televisivi sono adagiati su letti d'ospedale e
trasmettono (ma deformate) tre partite di baseball, un altro brucia, ulteriore simbolo del
sovvertimento assurdo e violento dell'ordine apparente della quotidiana realtà.
Nel frattempo, come si vedrà, in Germania e in USA si intrecciano e quasi si accavallano
altre sperimentazioni che segnano gli sviluppi della videoarte; ma Vostell continuerà a
proporre la propria visione di un'anti-immagine televisiva fondata sulla manipolazione
alterazione del suo linguaggio esterno, del suo messaggio come emittente e come oggetto.
Continua ad accanirsi sulla televisione, a denunciarla, a metaforizzarla, ad accostarla a
memorie impressionanti di guerra, a materiali carichi di simbologie negative. In Endogen
Depression (1975, poi in varie repliche), alcuni televisori sono semiseppelliti nel cemento e
tra loro circola un branco di tacchini, mentre ogni schermo continua a emettere trasmissioni
diverse; la televisione è cementificata, la sua energia bloccata in un confronto tra l'artificiale e
il naturale i più ottusi e straniati. In Requiem (1990) viene riproposto ancora lo schema e il
messaggio delle Schwarzes Zimmer in un grande pannello in 20 parti su cui altrettanti
televisori sono inseriti sullo sfondo di fotografie della seconda guerra mondiale imbrattate da
schizzi di cemento.
Anche nei videotapes Vostell segue la prassi di intervento basata sull'alterazione-denuncia
della programmazione televisiva. Esemplare in proposito è Sun in your head del 1963 (Le
soleil dans la tête è il nome della Galleria di Parigi dove l'artista nel 1961 aveva organizzato
la sua prima mostra in Francia), in cui vengono riprese in un film a 16 mm (poi travasato su
nastro), immagini estrapolate da programmi televisivi di larga diffusione e modificate da
diverse manomissioni, esterne e della trasmissione (Herzogenrath 1982). Si tratta di
un'esperienza che sarà fondamentale per i successivi sviluppi del videotape utilizzato dagli
artisti, e che Vostell riprende in altre occasioni, per esempio in Tv Butterfly del 1980, e in
Siberia extremena del 1982. Solo Tv Cubisme (1985) fa eccezione; è l'unico video in cui
Vostell non parte dalle correnti trasmissioni televisive ma registra una azione pensata
espressamente per il video, riproponendo in una ulteriore e spiazzante interpretazione uno dei
temi di fondo della sua poetica, il confronto tra naturale e artificiale, tra materia animata e
materia inanimata; figure e visi di modelle pesantemente truccate si strofinano a blocchi di
cemento, li toccano e li accarezzano e, attraverso una tecnica di molteplici sovrimpressioni,
quasi si fondono - carnali e sensuali - alla ruvida compattezza del materiale industriale, sul
sottofondo sonoro di ansiti e sospiri e gemiti (Invideo 1990).
NAM JUNE PAIK
Diversamente da Vostell Paik non intende la televisione come strumento «nemico«, da
denunciare e distruggere, ma è attratto dal suo interno e intrinseco linguaggio. Anziché
l'attacco ideologico e diretto egli usa un altro tipo di decostruzione; utilizza e nello stesso
tempo violenta la televisione, deformandola in un gioco di spiazzante e ironica messa in
discussione della sua capacità di riproduzione della realtà. Ne studia le alterazioni, i disturbi,
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e impara a provocarli, a interpretarli creativamente e a ribaltarli in nuove formalizzazioni; dal
televisore sollecita e trae altre immagini e anti-immagini, in una spudorata e fantasmagorica
moltiplicazione. Usa un procedimento analitico che include la manualità e la progettazione,
integrandole con le metamorfosi aleatorie di forme, luci, colori; si aprono in tal modo i vari
percorsi di un linguaggio denso, esplosivo, ridondante, l'equivalente visivo di un flusso di
energia, capace anche all'occorrenza di assottigliarsi in trascorrenti metafore. E' l'invenzione
dell'effetto speciale elettronico allo stato sorgivo, in una dimensione estetica. L'inizio di un
mito, con tutti i limiti del mito .
Nam June Paik è un musicista; coreano, studia estetica, arte e musica a Tokio, dove si laurea
con una tesi su Arnold Schoenberg. Tra il '56 e il '58 continua gli studi a Monaco, a
Darmstadt con Stockhausen e Nono, e a Friburgo. La musica contemporanea è un tracciato
fondamentale che lo impegna costantemente e attraversa le sue opere, in una sinestesia
continuamente arricchita e rinnovata. Nel 1958 Paik assiste a Music Walk di Cage a
Düsseldorf e si entusiasma per l'indeterminato, visita l'esposizione Dada-Dokumente einer
Bewegung ; il 13 novembre 1959 alla Galerie 22 presenta la sua musica-azione Hommage à
John Cage, di 6 minuti, con musica elettronica, tre magnetofoni, un vetro rotto e piano
rovesciato. In questa occasione entra in contatto con Beuys, e nel '60 incontra Maciunas,
Cage (che è conquistato dalla famosa performance in cui Paik taglia con un paio di forbici la
sua cravatta), e Vostell; inizia una intensa attività di concerti e performances in stretto
contatto con Fluxus. Tra i più importanti Etude for Piano Forte il 6 ottobre 1960 nello studio
di Mary Bauermeister a Colonia; e nel maggio '62 One for Violin, al Kammerspiele Theater
di Düsseldorf durante la manifestazione Neo Dada in der Musik, con George Brecht, Vostell
e altri. «Tenni il violino verticalmente come una spada finché il pubblico fu silenzioso racconta Paik - e poi lo spaccai su una tavola di fronte a me. Mentre alzavo il violino
silenziosamente e lentamente, si creò una tensione nel pubblico (...) era parte del dramma nel
dramma» (Paik 1993). Nel '63 partecipa insieme a Brecht, Cage, Filliou, Gysin, La Monte
Young, Yoko Ono, Vostell, al Festum, Fluxorum, Fluxus organizzato da Beuys alla
Staatliche Kunstakademie di Düsseldorf.
La sua esperienza rimasta più famosa e scivolata nel mito è una mostra del marzo '63
(Wuppertal, Galleria Parnass), dal titolo Exposition of music-electronic television, che è oggi
considerata la prima esposizione di arte video, per l'interazione creativa tra musica elettronica
e immagine elettronica. Ma al momento le componenti innovative non furono poste in rilievo
dalla critica e dallo stesso gallerista Jean-Pierre Wilhelm; la mostra infatti si configurava
come un evento Fluxus, articolato in un assemblage di oggetti, provocazioni, che stimolano la
percezione e il coinvolgimento. Vi si mescolavano pianoforti preparati e rovesciati, oggetti
sonori disparati, dalle pentole alle chiavi, un manichino femminile disarticolato in una vasca
da bagno, una testa di toro che colava sangue. E comprendeva anche, apparentemente meno
spettacolari, ma, come nota Fargier, decisivi per le origini della video arte, 13 televisori che
riproducevano altrettante differenti immagini distorte e deformate, astratte, statiche ma
magicamente vibranti in un pulviscolo di luci; erano ottenute senza il referente della ripresa e
dell'emissione di una realtà esterna, semplicemente avvicinando una calamita al tubo catodico
e modificando il circuito orizzontale e verticale di modulazione. «Collegati a 13 magnetofoni
(o generatori di frequenza) che giocano il ruolo di fonti di informazione costitutive del
segnale, i televisori non diffondono nulla di stupefacente; zebrature, interferenze. Tuttavia scrive Fargier - è la creazione più importante di Paik, la più decisiva, la più radicalmente
nuova. Tutto il resto è più o meno già stato visto altrove. Il resto è un residuo. La fine di
qualcosa. E' l'inizio di una nuova arte. Vostell ne è stupefatto» (Fargier 1989).
Paik dunque programma il disturbo e la distorsione; a differenza dal dé-coll/age agisce
direttamente sul dispositivo, sulla macchina, e scavalca completamente il riferimento (e la
diretta denuncia così pregnante in Vostell) alla normale programmazione, per creare
immagini astratte; assume come dato di partenza il mezzo e le sue peculiarità tecnologiche
ma ne altera il funzionamento e l'immagine, ridefinendoli con la costruzione astratta di
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modulazioni luminose collegate alla musica elettronica. Con questa operazione che interviene
sul mezzo e non sul prodotto l'artista sottrae l'immagine elettronica al vincolo della
riproduzione meccanica del reale, e introduce un nuovo tipo di confronto critico con
l'apparato televisivo. Non più - come nota Fargier - la negazione fortemente ideologizzata di
Vostell ma una «positivizzazione» dell'apparecchio, una diversa assunzione di responsabilità
e di critica della massificazione e dei rituali della televisione. Ne deriva un uso creativo del
mezzo, una lavorazione artigianale sull'immagine elettronica, che si aprirà alle più varie
potenzialità, intrecciando (secondo una via che Paik persegue incessantemente e indica a tutto
l'universo videoartistico), la specificità formale dell'immagine elettronica con la molteplicità
dei linguaggi artistici contemporanei.
La purezza astratta delle immagini dei 13 monitor delle Tv elettronica verrà riproposta da
Paik in varie altre elaborazioni di forme autogenerate dal televisore modificato. Esemplare in
proposito è la concettualità meditativa di Zen for Tv (1963): un televisore posto
verticalmente, che emette una sola striscia sottile al centro del monitor, un taglio di luce,
immobile e arcaica, fluidificata in una sorta di ipnotica energia. Lo zen come armonia totale
con il cosmo, la conoscenza di sé per via di una assoluta concentrazione, si traducono
nell'essenzialità della riga di luce. Emblema del riferimento alle radici orientali di Paik, che
l'artista pone in relazione senza difficoltà con la più sofisticata tecnologia occidentale,
spostandone i tradizionali significati di strumento di produzione verso un recupero alto del
fare manuale, verso una sorta di meditativo artigianato dell'elettronica, in cui bisogna
concentrarsi sulle operazioni giuste e precise e non altre. «Per lavorare con le nuove
tecnologie nell'arte - afferma Paik in una conversazione del 1992 - occorre una grande
pazienza. Bisogna studiare molto... Il mio background mi ha aiutato a essere paziente. ... E'
una specie di 'pazienza' che deriva dallo Zen, il training, e che aiuta a studiare la tecnologia»
(Novecento 1992). E in effetti Paik porta con sé un retaggio di cultura zen che si riaffaccia
nelle opere e che sempre interagisce con la tecnologia secondo parametri affascinanti quanto
paradossali e metaforici; ad esempio è esplicita nei vari Buddha Tv, in cui la statua ieratica di
fronte al video che ritrasmette la propria immagine, o è vuoto, o contiene una candela,
rimanda al narcisismo interattivo dello sguardo e dello specchio, all'intercambiabilità (o
inesistenza) di presente e passato nella diretta. Questa componente di riflessiva
concentrazione è sottesa nei videotapes e nelle installazioni multimediali, nelle pareti di
monitor su cui si inseguono forme e colori, in cui la meditazione sul tempo e sulla
comunicazione sono inglobate nelle implicazioni spettacolari, nella monumentalità e nella
ridondanza di immagini turbinose e di spazi caleidoscopici.
Studiare la tecnologia, inventare strumenti nuovi e non solo applicare quelli già esistenti, è
per Paik un'attività strettamente connessa a questo modo di concepire e fare arte. Non a caso
nell'introdurre la mostra di Wuppertal Paik cita accanto a Vostell, che ha inventato le
possibilità di combinazione tra televisori e ogni sorta di elementi eterogenei, due scienziati
esperti in ricerche elettroniche, K. O. Götz e K. Wiggen. (Fargier 1989). Paik individua così
per la sua arte una duplice componente - l'arte e la scienza - intese come un binomio
inscindibile costantemente verificato e applicato attraverso un procedimento tecnologico
duttile e immaginoso, capace di far interagire campi di sperimentazione diversi; la musica, la
scultura, la pittura, i retaggi del cinema astratto, del Dada e della pubblicità, della storia e del
quotidiano, dello spazio del tempo si accostano nell'immaterialità dell'immagine elettronica
come nella costruzione di spazi, monumenti, oggetti, figure, in cui gli elementi portanti sono
gli involucri massicci dei televisori (spesso arcaici, quasi frammenti e reperti di un recente
passato) metamorfizzati dal brillare luminoso e dinamico degli schermi televisivi. E' un
intreccio inesauribile di tecniche, di suggestioni, di campi di sperimentazione, di memorie, di
citazioni e autocitazioni, sul filo conduttore dei concetti di metamorfosi e di metafora. «La
mia televisione sperimentale non è sempre interessante né sempre ininteressante come la
natura, che è bella non perché cambia in un modo bello ma semplicemente perché cambia»
scrive Paik nel giugno '64 (Metamorfosi 1988, Fargier 1989).
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Coerentemente con questi assunti Paik, in collaborazione con Shuya Abe (esperto di
elettronica) mette a punto uno dei primi video-sintetizzatori a colori mai realizzato, l'AbePaik synthetizer (che Paik non si curerà di brevettare). Questo strumento consente di
modificare o di generare istantaneamente dalle componenti elettroniche qualsiasi forma,
colore e suono e di mischiarli insieme, costruendo un universo di immagini sature e
granulose, immateriali ma dense di una materialità pulviscolare, luminosa, cinetica (Paik
1974).
Il sintetizzatore sarà messo a punto nel '70, e costituirà l'elemento di punta della personale di
Paik Electronic Art III (Bonino Gallery, 1971). Ma già nel '63-64 a Tokio (poco prima di
andare in America nel giugno 1964) l'artista studia insieme a Shuya Abe e a Nideo Uchida le
variazioni cromatiche delle immagini televisive cercando, egli dice, di «trasformare un
televisore da passivo passatempo in attiva creazione» (Celant 1977). Con Shuya Abe Paik
costruisce in Giappone un robot controllato elettronicamente, K 456. Questo robot è una
figura - un personaggio - quasi emblematico dell'atteggiamento di Paik nei confronti della
tecnologia - come concetto ricco di implicazioni simboliche quanto come dispositivo
articolabile secondo direzioni e potenzialità le più disparate. Non solo perché K 456 fa
riferimento all'antica inquietudine del moderno che ha inventato il tema dell'uomo-macchina,
rivisitato nei termini della tecnologia elettronica, ma anche perché in esso Paik rinnovando
l'elemento ludico, grottesco e dissacrante di estrazione dadaista, contesta l'antico modello
attraverso un lavoro di sottrazione e di aggiunte, con grottesca o clownesca leggerezza, fino a
rivestirlo di connotazioni sessuali; all'apparenza infatti è un ammasso di ferraglie privo di
seduzione, ma è la struttura di una macchina sofisticata, che è stata incaricata di dialogare con
le performances di Paik, con i suoi video, e paradossalmente caricata di interpretazioni
sessuali.
K 456 ha una storia, una «vita»; per 19 anni segue Paik e collabora come attore alle sue
manifestazioni, a cominciare da Robot Opera (1964); muore nel 1982 travolto da
un'automobile di fronte al Whitney Museum a New York, in un incidente-performance
spettacolare («il primo incidente del XXI secolo» lo definisce Paik), registrata e poi inserita
nel video Living with the Living Theater del 1989. L'artista non si è mai espresso
chiaramente, pare, sul sesso di K 456; ma Fargier, nella sua monografia sull'artista, lo
considera un robot femmina. K 456 ha un abbozzo di seno, accompagna Paik come una
donna docile e fedele (in un video lo vediamo esibirsi per strada, camminare, parlare, forse
adescare i passanti); ma soprattutto il robot produce una sorta di ovulazione, espelle dei
fagioli, che Fargier interpreta come un tentativo di procreare, una ovulazione abortita; e Paik
avrebbe ucciso il suo robot femmina per la sua sterilità, identificandolo oscuramente con la
propria madre. Ma forse, perché no, si potrebbe continuare il gioco delle interpretazioni e
pensare a K 456 come ad un transessuale, o quantomeno ad un emblema dell'ambiguità dei
sessi; alla commistione ironica e paradossale di artificiale e di simulazione umana del robot
può corrispondere l'oscillazione altrettanto ironica dell'identità maschile-femminile,
nell'intreccio tra gioco, farsa e tragedia finale di un'esistenza elettronica; metafora anche
dell'impurità e degli intrecci artistico-linguistici propri della videoarte. Telecomandato come
gli uomini e le donne di oggi, in un mondo di informazione dilagante e modificata, autoritaria
e controllata, il robot di Paik sembra ammiccare ad una identità perduta.
Lo stesso Paik, va ricordato, ha anche definito l'analogia di televisione e sesso in quanto mass
media, e ha enunciato il tentativo (o l'antica utopia) di «umanizzare la tecnica», interpretando
questo concetto attraverso il tema del doppio corpo-macchina in alcune famose performances
di Charlotte Moorman, la violoncellista americana che organizza dal 1963 al 1982 il New
York Avantgarde Festival e con la quale Paik intesse una intensa collaborazione; come in Tv
Bra for living sculpture, presentata nel 1969 alla mostra Tv as creative medium alla Howard
Wise Gallery di New York, in cui la Moorman indossa come reggiseno due mini tv che
trasmettono in tempo reale la sua stessa immagine alterata dai segnali elettronici attivati dal
suono del violoncello. Fusioni e combinazioni di elettronica e performances, di suono e
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immagine, di corpo e monitor, di sesso e tecnologia informatica, di provocazione e
sperimentazione si susseguono in Tv-fuck, Tv bed, Tv penis e poi nelle famiglie di robot,
videosculture di giganteschi giocattoli costruiti con vecchi televisori, in cui si accentua
l'ironia e la citazione. Umanizzare la tecnologia significa dunque svelare la tecnologizzazione
dell'umano. Paik già indaga - nel clima underground della New York anni '60 - certi temi del
cyberpunk americano degli anni '80, anticipando gli spunti dell'utilizzazione di dispositivi
elettronici che consentono l'interazione fisica della realtà virtuale, nuovo e futuribile input
nell'immaginario contemporaneo.
Un'altra tappa considerata fondamentale è l'utilizzazione della telecamera portatile, il che
avviene solo quando questo strumento (oggi così comune) viene immesso sul mercato ad un
prezzo accessibile (la portapack della Sony), e Paik riesce a comprarlo con una sovvenzione
dell'Institut of International Education. A New York nel 1965 Paik sperimenta la ripresa in
esterni e realizza la prima teletrasmissione gestita da un artista; riprende un momento del
caotico traffico newyorkese il giorno della visita di Paolo VI e lo ripropone la sera stessa in
un ritrovo del Greenwich Village, il Café A Gogò - praticamente in diretta - in un video
intitolato Cafe Gogo, 152 Blecker Street, October 4 and 11, 1965, World Theater, 9. P.M..
(Novecento 1992). «Diventano realtà cinque anni di vecchi sogni: la combinazione della Tv
elettronica e della registrazione video - afferma Paik - Nella mia elettro-visione su nastro
magnetico vedete non solo la vostra immagine istantaneamente (...) ma vi vedete deformati in
12 modi diversi, cosa che non si può fare che grazie all'elettronica» (Paik 1974). Tra gli artisti
solo Cage e Cunningham assistono alla presentazione; tuttavia la manifestazione ha un valore
fondativo rispetto ad un nuovo tipo di uso creativo del mezzo, e assume nella storia del video
un'aura iniziatica. Per la prima volta un artista si confronta con la diretta del video, riprende
un momento qualsiasi di quel quotidiano così intensamente evocato in happenings e
performances, e ne decreta lo status di opera. Cafe Gogo, 152 Blecker Street non è la
registrazione di evento artistico ma di un evento banale (traffico stradale) in margine a evento
storico (visita del papa), riproposto quasi immediatamente (in diretta) la sera stessa come un
evento artistico; è un ready-made-video, è - duchampianamente - un evento-trovato,
modificato elettronicamente e artisticizzato dalla evidenziazione di Paik in un luogo deputato
dell'avanguardia newyorchese.
Contemporaneamente Paik continua a sondare il linguaggio televisivo; a novembre presenta
alla galleria Bonino di New York Electronic Art (ancora non è emerso il termine videoarte),
con televisori modificati che trasmettono immagini astratte, deformazioni sonore e luminose,
animate da un ritmo e da un cinetismo che le trasforma in stimoli percettivi particolarissimi.
Non a caso Celant fa riferimento, a proposito di queste ricerche paikiane degli anni '60, agli
artisti optical, citando l'environment teatrale multimediale Black Gate Cologne (1968) di Otto
Piene (del Gruppo Zero) e Aldo Tambellini, in cui l'interazione di telecamere, monitor e luci
stroboscopico-fluorescenti è controllata dagli autori e dal pubblico (Celant 1977)
«Come la tecnica del collage ha rimpiazzato la pittura a olio, allo stesso modo il tubo a raggi
catodici rimpiazzerà la tela. -dichiara Paik in occasione della serata al Café A Gogo - Un
giorno gli artisti lavoreranno con i condensatori, le resistenze, i semiconduttori come oggi
lavorano con i pennelli, i violini e materiali vari» (Paik 1974). Il che non significa, come nota
Gazzano, una sostituzione, e neppure la semplice ripresa di quanto era stato fatto dal cinema
astratto delle avanguardie storiche, nelle pellicole di Richter, El Lissitskij, Eggelin, Survage, i
Futuristi; «la novità del suo lavoro - che è radicale, e che ci dà nuove emozioni da trent'anni non è affatto nel 'dipingere' col tubo catodico, non è nel sostituire la tela col monitor. E'
appunto nel 'trattare' l'immagine, nel distorcerla, nel modificarla, nell'intrecciarla cambiandole di segno - con altre immagini di diversa provenienza e significato» (Gazzano
1993).
Questa intersecazione di pratiche e linguaggi artistici, questa ricerca di partecipazione dello
spettatore, costruiscono l'utopia della reinvenzione di un'arte totale; la televisione assume un
ruolo centrale in quanto oggetto e in quanto medium, in quanto rappresentazione e strumento
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della rappresentazione lasciato in vista, in un gioco di duplicazioni e invenzioni che
contrassegna l'intera e vasta produzione di Paik; nei videotapes, come Beatles Electronique
(1966-69), Global Groove (1973 con Jud Yalkut), A tribute to John Cage (1976),
Guadalcanal requiem (1977, con Bill Viola), Allen's Allan's complaint (1982, con Shigeko
Kubota); nelle trasmissioni via satellite, come Nine minute live (con Charlotte Moorman
Beuys e Douglas Davis alla Documenta 6 di Kassel, 1977), Good Morning Mr Orwelll
descrivere 1984, e Wrap around the world per i giochi olimpici di Seoul nel 1988; nelle
videoinstallazioni e videosculture, dalla essenziale e lirica Moon is the oldest TV del 1965,
alle fantasmagorie del flusso comunicativo di Tadaikson (the more the better) con 1003
monitors a Seoul nel 1988, de La Fée electronique al Musée d'Art Moderne de la Ville de
Paris nel 1989, di Electronic Super Highways, nel padiglione tedesco alla Biennale di
Venezia del '93.
JOSEPH BEUYS
Beuys è un artista estremamente complesso. Lo ho citato come partecipe di Fluxus in
Germania, ma i suoi connotati, la sua poetica, travalicano i confini - già di per sé sconfinanti di Fluxus. Nel turbinio di provocazioni e sperimentazioni di Fluxus Beuys trova spazio per
l'espansione di un proprio discorso artistico, etico, ideologico, le cui premesse sono già
formate.
Partito da un interesse per le scienze che non verrà mai meno, Beuys, dopo la guerra, studia
scultura alla Kunstakademie di Düsseldorf, dove insegna dal '61; partecipa a Fluxus
organizzando tra l'altro il Festum, Fluxorum, Fluxus (1963) in cui presenta la sua prima
azione importante, Sibirische Symphonie, I Satz, una lunga performance densa di simboli
sulla vita e sulla morte, in cui appaiono alcuni elementi che diventeranno ricorrenti, la
lavagna nera, la lepre e il pianoforte. Nel novembre 1963 a Kranenburg Beuys presenta la sua
personale manifestazione Josef Beuys Fluxus con circa 150 opere. Intensa è poi la
partecipazione a numerose manifestazioni artistiche a livello internazionale (tra le quali
Documenta a Kassel e la Biennale di Venezia) mentre prosegue l'attività didattica e l'impegno
ideologico e politico; fonda nel '67 con Johannes Stüttgen il Partito studentesco tedesco e nel
'74, con Heinrich Böll, l'Università libera; nel '72 è cacciato dall'accademia, nel '79 è
candidato dei Verdi al Parlamento Europeo (Beuys 1994).
La sua fisionomia ha un momento iniziatico, che l'artista racconta nella propria autobiografia.
Arruolato giovanissimo nella Luftwaffe, il suo aereo è abbattuto nel 1943 in Crimea;
gravemente ferito è curato da una tribù di tartari, presso i quali si risveglia unto di grasso e
avvolto in coperte di feltro. E' un'esperienza di morte e resurrezione, in contatto con la natura,
con una popolazione semiprimitiva, lontana dall'occidente civilizzato, e segna i destini
dell'artista. Beuys riproporrà pressoché costantemente il senso di questa vicenda nelle sue
opere; le quali sono sempre o quasi sempre azioni in cui è determinante la presenza
carismatica dell'artista, tesa ad attivare una comunicazione auratica con le persone
assumendo come dato di partenza le tensioni e le energie indotte dalla percezione di sostanze,
tracce, frammenti di una sorta di viaggio tra la vita e la morte, tra la natura e la civilizzazione,
tra l'informe e la forma.
Il grasso e il feltro diventano i materiali privilegiati di Beuys; accanto ad essi sostanziano le
sue azioni altri elementi e oggetti di natura organica o inorganica - il rame (conduttore), la
lavagna, il pianoforte, la lepre, il coyote, il miele - tutti capaci di produrre, conservare o
diffondere il calore e l'energia necessari per raggiungere una coscienza più estesa. Il grasso
(utilizzato sistematicamente dal 1963) è una sostanza comune ai vegetali e agli animali.
Denso e duttile, si modifica per contatto o per il calore, anche a distanza, è una materia in
continua evoluzione verso la fermentazione e la putrefazione o verso la rielaborazione in
calore, cibo, merce. Il feltro è un manufatto elementare intessuto di peli animali: isola,
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protegge, riscalda, separa, filtra lo sguardo e i rumori, si modifica. Come il grasso è un
materiale attivo, capace di reagire anche alla semplice presenza umana. L'uso da parte di
Beuys di queste sostanze si configura come un'ulteriore e personalissima declinazione del
rapporto arte tecnica; l'artista assume la materia non più per trasformarla in oggetti e
immagini attraverso i tradizionali procedimenti formativi, ma per una sorta di ritorno alle
origini, per evocare un invisibile potenziale di energia, di associazioni, di comunicazioni,
mirando a costruire quella che egli definisce «scultura sociale»: una sostanza invisibile, un
organismo immateriale, il sentimento di una presenza che si crea tra gli oggetti e tra gli
oggetti e le persone, fatta di pensiero, di coscienza, di espansione del senso dell'essere umano
nel mondo. Per Beuys il pensiero è in sé una forza suscettibile di produrre forma, anche a
distanza, agendo come il calore che modifica il grasso e il feltro; è un'energia formatrice, che
può modificare la realtà, partendo da una percezione-riflessione che oltrepassa la semplice
informazione ottica per attingere ad una dimensione più fisica e insieme più immaginativa,
verso un processo di riconciliazione tra uomo e natura. «Queste forme invisibili non restano
invisibili che in quanto non ho occhi, non ho organi per poter percepire ciò che è adatto a
diventare immagine. Per chi sa dunque crearsi un organo di percezione, queste forme sono
percepibili» (Beuys 1988).
Intervengono in questa concezione (come ha sottolineato più volte la critica), le reminiscenze
della filosofia romantica tedesca della natura, l'iconografia di leggende nordiche,
l'antroposofia di Rudolf Steiner che postulava «che ogni uomo è un tempio e un riassunto del
mondo, che la rivelazione è all'interno di ciascuno«; Beuys crede nella possibilità per l'uomo
di modificare la realtà col pensiero, giungendo ad affermare che «ogni uomo è un artista»
(Jeder Mensch ist ein Kunstler, è il titolo di una sua celebre azione, filmata nel '79 e diffusa
in video nel 1985), riferendosi alle qualità espressive di cui ciascuno può valersi nell'esercizio
di una qualsiasi attività (Beuys 1994).
«Se l'uomo è realmente creatore, cioè se la forma viene dall'interno, possiamo dire che essa è
una plastica o un'opera d'arte. In quale misura è determinata dall'esterno ? Quale relazione vi
è tra i dati esterni del mondo e ciò che l'uomo fa partendo da se stesso ?» si chiede Beuys
(Beuys 1988). La risposta è nella sensibilizzazione della comunicazione e della coscienza,
che si pone in atto attraverso tutti i sensi, associando tutti i modi della percezione, non solo il
vedere ma anche il tatto, il caldo e freddo, l'udito, il senso del tempo, l'intuizione. Una
sensibilizzazione veicolata dall'accostamento e dall'evocazione dei contrari, la natura e la
tecnologia, il materiale informe e la forma geometrica, l'animale e l'uomo. Per questo le sue
opere, i suoi materiali, le sue azioni sono strumenti per stimolare la discussione, e sempre
fondamentale è la presenza fisica, attiva e dialettica, dell'artista, i suoi gesti, il suo essere, la
sua immagine, le parole, i segni.
Data questa esigenza primaria di comunicare e di attivare una percezione più intensa, ci si
può chiedere come Beuys si sia posto in rapporto ai mass media, in particolare alla
televisione quale strumento di comunicazione fondamentale, totalitaria e pervasiva della
società contemporanea. Tanto più in quanto moltissime azioni di Beuys sono state filmate,
riversate in video o registrate in diretta con la telecamera a partire dal 1964 (Hergott 1994).
Tra i primi esempi, la performance Fluxus Kukei, akopee-Nein! o, sempre nel 1964, Das
Schweigen von Marcel Duchamp wird überwertet (Il silenzio di Marcel Duchamp è stato
sopravvalutato) che ha luogo in diretta davanti alla camera televisiva. Tra i più noti Soziale
Plastik, filmato nel 1967 da Lutz Mommartz, in cui Beuys fissa intensamente l'obiettivo per
undici minuti, immobile, silenzioso, il viso a tutto campo, catturando magneticamente lo
sguardo dello spettatore; Eurasienstab (1968) che registra una performance in cui
interagiscono i più tipici ingredienti di Beuys (se stesso, la margarina, il «bastone eurasiano»,
il feltro); I like Amerika and Amerika Likes Me (1974) una lunga azione che dalla Germania
si trasferisce a New York (René Block Gallery) dove per tre giorni l'artista si chiude in una
grande gabbia vuota insieme ad un coyote. Con l'animale mitico degli antichi abitanti
dell'America del Nord, emblema di un mondo libero e selvaggio ormai scomparso, l'artista
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convive, dialoga, gioca, avvolto nella sua coperta di feltro, col suo lungo bastone da pastore
eurasiatico, tra mucchi di giornali, intessendo una metaforica riconciliazione tra natura e
cultura (Tisdall 1976, Hergott 1994).
Tutta la filmografia e videografia di Beuys costituisce, un dato inseparabile dalle altre opere,
appartenendo «alla volontà di comunicazione e di chiarimento che governa il suo pensiero»
(Hergott 1994). Film e video contribuiscono, anche per la loro immaterialità e fluidità, alla
realizzazione della sensazione di una forma invisibile, quella «plastica sociale» che assume il
pensiero come scultura immateriale, infiltrata e circolante tra materie e situazioni catalizzati
dalla presenza dell'artista.
Tuttavia è chiaro che Beuys è lontano dalle problematiche specifiche sia del film d'artista sia
della videoarte; Beuys adopera il film e il video per i propri scopi, semplicemente come
ulteriore strumento per comunicare; per prolungare il senso del suo discorso. E' interessato a
continuare non a conservare le opere registrandole e memorizzandole, (come invece fa
Schum); non intende calarsi totalmente all'interno del mezzo per sviscerare e reinventare le
sue molteplici potenzialità linguistiche (come Paik); e anche la denuncia e la contestazione
dell'oggetto e del potere televisivo (così centrale in Vostell e, con un uso ancora diverso in
una ampia frangia di video espressamente politici come quelli del gruppo Guerrilla
Television) rimangono marginali nelle sue intenzioni.
Il suo pensiero in merito viene chiarito nel 1977, in occasione della trasmissione
internazionale via satellite che inaugura Documenta 6 a Kassel, in cui interagiscono azioni di
Paik, Charlotte Moorman, Douglas Davis, e Beuys; il quale si limita ad esporre per dieci
minuti, davanti a camera fissa, il suo concetto di plastica sociale e di arte allargata. E nella
discussione che segue dichiara: «Credo che questo medium sia capace di informare, di
esporre chiaramente le relazioni tra le idee, di inventariare le situazioni; penso che sia adatto
a questo scopo ...io do forma al mio pensiero poi mi servo di questo mezzo per veicolare le
mie idee .(...)Il medium mi interessa meno per le azioni che per stimolare la discussione. Una
utilizzazione semplice ed evidente del medium come stimolo per il prolungamento della
discussione (...) Una azione, in tale situazione sarebbe assurda. Riconosco completamente il
lavoro di coloro (...) che utilizzano il medium in maniera piuttosto artistica, ma ciò che faccio
io non ha alcun rapporto con questo» (Herzogenrath 1982).
Video e film dunque sono intesi e usati come sostanza, come un'altra materia intermediaria
capace di attivare uno scambio di informazioni. Per questo l'artista si preoccupa di ridurre in
termini elementari le caratteristiche linguistiche del mezzo, elimina ogni effetto che possa
sovrapporsi al messaggio, interferire con l'azione. Adopera di preferenza il piano fisso, la
staticità, il bianco e nero (I like Amerika and Amerika likes Me , per esempio, era stato
registrato a colori da Helmuth Wietz, ma Beuys, che partecipa al montaggio finale, sceglie di
trasferirlo in bianco e nero), in modo da sollecitare la reattività della percezione e la presa di
coscienza di chi guarda; è agli spettatori di creare il movimento, di proiettarsi nell'immagine,
di captare e utilizzare il potenziale energetico del mezzo e dell'azione che in esso è
«prolungata». Va notato inoltre che Beuys non fa distinzione tra film e video, li adopera in
generale nello stesso modo e con gli stessi fini, proprio perché è interessato alla
comunicazione e non a sfruttare le proprietà specifiche del mezzo filmico e di quello video.
Un confronto critico diretto con l'elemento televisione si realizza esplicitamente in Filz TV
(Tv feltro), un'azione del 4 ottobre 1966 a Copenhagen che viene riproposta in studio per
essere filmata e edita in video da Gerry Schum nel 1970, all'interno di Identifications. Come
tutte le opere di Beuys anche questa azione si basa su un'iconografia personale che cela e
rivela una sorta di parabola da interpretare, alla quale ciascuno può di volta in volta
aggiungere (o togliere o variare) significati. Un'iconografia che come si è visto annovera
materiali informi e plasmabili - simboli primari di una condizione di caos e di
indeterminatezza da cui attraverso l'azione e la presenza fisica dell'artista si deve attivare una
tensione che conduca ad un impegno individuale e collettivo. In Filz Tv queste materiesimbolo fondamentali sono il feltro e la televisione stessa. Il feltro copre lo schermo, ne
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occulta e ottunde la funzione di emissione di immagini e suoni; senza mai parlare Beuys si
siede davanti al televisore da cui provengono i rumori di una discussione, solleva un lembo
del pannello di feltro e lascia scorgere immagini confuse e baluginanti; poi indossa guanti da
boxe e si percuote; poi divide in due un lungo salsicciotto, e con una estremità ascolta il
video-feltro, come con uno stetoscopio; ritaglia l'altra parte del salame in forme geometriche
e lo appende a una parete. Infine sposta il televisore di fronte ad un muro sul quale pende un
pezzo di feltro a forma di schermo.
Il feltro, definito da Beuys quale metafora di un irraggiamento di energia interiore e del
«carattere dissociante e analitico del pensiero» (Bianchini 1994), assume qui la funzione di
un filtro che indebolisce la trasmissione e sollecita un'attenzione diversa, più critica. Così
come, colpendosi, lo spettatore Beuys si oppone alla propria ricezione passiva. In Filz Tv,
suggerisce Celant, Beuys rappresenta «la sua lotta contro la televisione». Colpendosi come
spettatore indica che la degradazione personale va riscattata: «nella sua trasmissione
impersonale, Beuys richiama il personale e l'emotivo, il violento ed il maldestro
dell'individuo contrario all'ammorbidimento ovattato della televisione» (Celant 1977). Ma vi
è anche la metafora della percezione confusa e mediata imposta dalla televisione, attutita dal
feltro, ricercata inutilmente attraverso la materia organica e alimentare; ancora una volta si
evidenzia il collegamento spiazzante di opposti - natura e tecnologia, comunicazione e
confusione - e il tema dell'azione a distanza, implicito nel medium televisivo.
Nel rituale di Filz TV questo medium tecnologico è messo a tacere e nello stesso tempo
evidenziato proprio come minaccioso silenzio, lo spettatore è colpito, punito, e una diversa
percezione è attivata dal cibo-grasso della salsiccia, poi emblematicamente messa da parte e
esposta dopo aver assunto una grottesca razionalità formale. La televisione come oggetto e
come emissione sembra interagire inutilmente con l'uomo e diventa essa stessa una sostanza
assurda, impropria. E' un filtro e insieme uno strumento che prolunga l'immagine nella realtà,
che Beuys utilizza così come uno strumento egli usava la sua vita e la sua immagine: «io
sono un emittente, io irraggio» (Beuys 1994).
GERRY SCHUM
Verso la fine degli anni '60 la registrazione di opere d'arte, intesa come estensione visiva e
temporale del fenomeno osservato, riceve un impulso decisivo, collegandosi e partecipando a
tutte le tendenze d'arte emergenti, dal pop al poverismo, dal concettuale al minimalismo, dal
comportamentale alla land art e alla body art, privilegiandone gli aspetti «dematerializzati».
E' anche il momento di un confronto con il cinema, che in realtà non è mai affrontato
direttamente, se non in alcune punte dell'underground americano (Aprà 1986). Il film
d'artista, che parte dalle avanguardie come film puro, astratto, surreale, antinarrativo, negli
anni '60 conosce nuove articolazioni in Warhol, Yoko Ono, Beuys, Mekas, Schifano,
Baruchello, Patella, Ontani e vari altri artisti che assumono come oggetto e soggetto
dell'opera le proprie azioni, ne inventano apposta per il film e infine per il video, modificando
così i termini del loro linguaggio.
Progressivamente, a contatto con le nuove tecnologie (presto interverrà anche il computer), il
confine tra film d'artista e video tende a perdersi fino al prevalere del video. Il sistema
telecamera-video conquista gli artisti non solo per le sue possibilità di intreccio con altre
pratiche e modelli visuali ma anche perché è una tecnologia più maneggevole, accessibile,
personalizzabile; consente un controllo immediato dell'opera nel suo farsi - in diretta e in
tempo e spazio reali - e quindi di assimilare il processo al prodotto. D'altro canto le
esperienze astratte della televisione elettronica di Paik segnano una frattura rispetto al
carattere riproduttivo che accomunava cinema e video e che comunque era già stato messo in
discussione dalle avanguardie e da ricerche recenti, per esempio da Stan Brakhage con la
costruzione dell'immagine direttamente attraverso gli strumenti filmici quali obiettivi, messa
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a fuoco e velocità di scorrimento. Nel video inoltre la definizione «bassa» ma fluida e vivida
nella continuità di minutissimi punti di luce conduce ad altre suggestioni visive, mentre la
possibilità di trasmettere contemporaneamente su tanti schermi diversi, come nelle
videoinstallazioni, modifica sostanzialmente il senso del tempo, dello spazio e della fruizione
propri del cinema (Provenzano 1992).
Un'esperienza importante in queste direzioni è quella condotta da Gerry Schum. Schum è un
gallerista che si incarica per la prima volta di promuovere film basati sulla registrazione di
azioni artistiche, di produrli e diffonderli per televisione in una apposita galleria (la
Videogalerie a Düsseldorf, 1971-73), proponendo una percezione diversa sia per le opere sia,
istituzionalizzandoli, per i video che ne derivano. La sua Fernseh-Galerie è infatti concepita
come uno spazio per mostre pensate e realizzate per il circuito televisivo: «gli oggetti d'arte
non saranno presentati nel contesto statico e isolato in cui l'arte è abitualmente obbligata a
manifestarsi (...) La mostra non presenta prodotti finali, ma processi dell'operare artistico,
durante i quali i desideri del consumatore d'arte entrano in gioco in una sorta di feedback (...)
- scrive Schum - L'eterno triangolo di studio, galleria, collezionista, in cui l'arte si è svolta
finora, è stato infranto. Invece della proprietà privata dell'arte che impedisce l'ulteriore
circolazione delle opere, c'è ora la comunicazione con un pubblico più vasto attraverso (...) la
trasmissione televisiva» (Schum 1979, Herzogenrath 1982, Cominciamenti 1988).
Schum gira un film per la televisione, Land art, documentando opere di Marinus Boezem,
Walter De Maria, Jean Dibbets, Barry Flanagan, Mike Heizer, Richard Long, Dennis
Oppenheim, Robert Smithson, lo trasmette pubblicamente dalla rete Freies Berlin il 15 aprile
1969, e lo inserisce nell'ambito della mostra Prospekt 69 alla Kunsthalle di Düsseldorf. Con
questa iniziativa egli introduce il termine Land Art per indicare un particolare tipo di
esperienza artistica; inoltre contribuisce a dare nuova consistenza ad una precisa tipologia, se
così ci si può esprimere, della neonata videoarte; cioè la registrazione di un evento, e dunque
il trasferimento di un'opera per sua natura transitoria ed effimera su un nuovo supporto, in cui
la documentazione diventa inevitabilmente un'altra opera. La Land art infatti, col nome
ancora di Earth art, aveva già avuto una consacrazione ufficiale nella mostra del 1968 alla
Cornell University in cui erano esposte prevalentemente fotografie, per esempio di Mile Long
Drawing di De Maria (2 linee parallele tracciate nel deserto del Nevada), ossia le tracce
selezionate di un'idea di intervento nella natura, di cui si accentuava così il carattere
concettuale. Earth art, Earthworks e infine e definitivamente Land art significa trasformare
in opera d'arte il paesaggio stesso. Luoghi naturali remoti e solitari sono assunti come
materiale nei cui confronti l'artista si pone come elemento modificatore e modificato esso
stesso, in un macroscopico rapporto tra naturale e artificiale. Nel video di Schum vediamo
queste trasformazioni nel loro farsi; percorrere luoghi solitari e disabitati (Long); segnare la
sabbia col bulldozer secondo linee prospettiche e aspettare che la marea avanzi a ingoiarle
(Dibbets); scandire il tempo e il moto del mare con un cilindro di plexiglas progressivamente
riempito dalle onde (Flanagan); i vortici di vento e sabbia (Boezem); le due linee parallele
tracciate nel deserto e i tre cerchi dello sguardo che ruota lungo l'orizzonte (De Maria); i
grandi specchi incastrati nei 4 punti cardinali di una cava (Smithson); la linea di confine tra
Canada e USA segnata sul ghiaccio (Oppenheim). L'acqua, la terra, il vento, il cielo, i cicli
della natura esaltati e nello stesso tempo dominati più o meno simbolicamente da solitari
segnali umani. Proprio la componente artificiale di queste operazioni è quella che in fondo
emerge dalle registrazioni di Schum; memorizzazione e fissaggio su un supporto di eventi
remoti e monumentalmente cosmici, pensati per esistere più che per essere visti, o per essere
visti prevalentemente in riproduzioni fotografiche e filmiche, da uno sguardo
concettualmente orientato. Dunque pensabili come totalità ma percepibili come frammento,
come parzialità, o come appunto registrazione; che ne perpetua il processo, ne raffredda la
simbolicità, li trasforma in altro tipo di opera, restituendo la visibilità espunta dalla loro
natura concettuale. Più tardi questo sguardo sulla natura sarà raccolto e trasposto in una
magia surreale da Bill Viola, in Chott-el-Djerid. A portrait in light and heat (1979), che
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svolge la suggestione tattile di luci e forme filtrate dalla fata morgana del calore come
materia
Un modello parzialmente diverso di registrazione viene proposto da Schum in Identifications,
diffuso il 30 novembre 1970 dalla trasmittente SuedWestfunk Baden-Baden; è una
compilation di azioni comportamentali e concettuali di Giovanni Anselmo, Joseph Beuys,
Alighiero Boetti, Stanley Brown, Daniel Buren, Piero Calzolari, Gino De Dominicis, Ger van
Elk, Hamish Fulton, Gilbert & George, Gary Kühn, Mario Merz, Klaus Rinke, Ulrich
Rückrien, Reiner Ruthenbeck, Franz Erhard Walter, Lawrence Weiner e Gilberto Zorio
(l'autore aveva in precedenza girato un documentario della VI Biennale d'arte di San Marino
del 1967). Anche in questo caso Schum riprende le opere senza commentarle, nell'ottica di
una neutra visualizzazione. «L'opera d'arte è il film stesso - afferma infatti Schum - Il film è il
risultato di un'idea, della realizzazione dell'artista e del mio lavoro come regista e operatore.
Nella pratica l'artista ha un'idea che già più o meno include il fatto che la riproduzione,
mediante il mezzo filmico e televisivo, sia parte della realizzazione» (Cominciamenti 1988).
Ma in Land Art era ancora presente un linguaggio filmico, la ripresa dall'alto, gli stacchi e gli
avvicinamenti della macchina da presa, il ritmo della composizione, l'interpretazione delle
inquadrature: l'operatore si faceva compartecipe dell'autore cercando di prolungare ed
enfatizzare l'aura dei grandi spazi naturali modificati dall'uomo. Invece in Identifications è
più direttamente implicata l'azione, breve e intensa, che viene registrata da una camera quasi
sempre fissa; Land art realizza ancora un confronto tra due opere, due mezzi diversi, il film e
l'evento ripreso; Identifications tende invece alla pura visualizzazione delle performances,
all'equivalenza rispetto all'azione, all'identificazione tra televisione e opera implicita nel titolo
che, secondo le parole di Schum «indica la correlazione nel processo artistico fra l'opera
d'arte e l'artista nel tentativo di superare ciò che li separa».
Siamo ancora nell'ambito del film girato per esistere solo nel momento della trasmissione
televisiva, ma si rafforza l'idea caratterizzante della videoarte di una simultaneità tra
immagine e riproduzione; e si approda comunque ad una fusione tra due linguaggi. Il
trasferimento sullo schermo, ripristinando l'evento nell'immaterialità dell'immagine riprodotta
e riproducibile, fatta di luci e impulsi elettronici, si configura come un'opera nuova; la
registrazione stabilizza per una visione diversa opere dalla durata limitata nello spazio e nel
tempo e, al di là della presunta oggettività della camera, le modifica.
LO SCHERMO COME SPECCHIO. CORPO-SPAZIO-TEMPO
Questo procedimento si intensifica in relazione alla Body Art, una forma d'arte che assume
direttamente il corpo dell'artista come mezzo d'espressione, come soggetto, come veicolo di
rappresentazione e di dialogo con il pubblico, al limite della complicità o della repulsione.
Vito Acconci, Bruce Nauman, Marina Abramovich, Gina Pane, Chris Burden, Gino De
Dominicis, Gilbert e George, Gunter Brus, Ulrike Rosenbach, Hermann Nitsch, diventano
nelle loro performances personaggi e soggetti autobiografici di rituali estenuati; prevalgono
temi legati ad angoscia, disinibizione, morte e sessualità, che si esaltano in un processo di
misurazione con esperienze estreme (Vergine 1974). Non più teatrali e espanse come
nell'happening, ma circoscritte per lo più nelle gallerie le opere della Body Art sono
transitorie, uniche e intenzionalmente coinvolgenti; nei loro confronti il video si pone in
prima istanza come documentazione, secondo il modello di Schum; ma il legame tra artista,
medium e pubblico si fa più stretto, in virtù del vivere di queste opere - in quanto
scatenamento freddo di emozioni e pulsioni - proprio delle risposte istintive e immediate
sollecitate dalla loro visione. Non per nulla Gina Pane, al termine di Le lait chaud del '72gargarismi di latte e sangue che esce dalle proprie labbra tagliuzzate con una lametta - afferra
la telecamera e la punta sugli spettatori per includere nell'azione e nel video anche le loro
reazioni (Bloch 1982). Rivisti oggi, a distanza di quasi trent'anni, i videotapes della Body art
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hanno un sapore straniante, reperti di un modo di concepire l'arte come regressione primaria e
infiltrazione nella vita, secondo una prassi rapidamente diffusa, consumata e spenta.
Le registrazioni della Body art iniziano alla fine degli anni '60; viene usato il film (per
esempio da Oppenheim in Armand Asphalt) e presto direttamente il video. Acconci
documenterà le sue azioni in decine di riprese intessendo una reiterata vicenda di conflittuali
metafore; si morde accanitamente fin dove può (Trademarks 1970), cerca di trasformare il
suo corpo in uno femminile (Conversion e Opening del 1970, ripresi in video); mette in
scena una lunga lotta tra maschile e femminile in Pryings (1971) tentando per 21 minuti di
far aprire gli occhi ad una donna che resiste disperatamente (Van Assche 1992); centrato
sulla visione, sulla lotta tra il non voler vedere e il far vedere, il video assume una particolare
pregnanza, quasi emblema delle antinomie dello sguardo televisivo, proponendo una
situazione limite che traspone la simbologia del conflitto uomo-donna in quella di un
drammatico rapporto - accettare o resistere - con un mondo pervaso di immagini. Gina Pane
analizza dolore, tortura, disgusto direttamente su se stessa e sul pubblico. Nitsch, esponente
del radicale e violento Wiener Aktionismus si confronta con animali sgozzati e viscere e
sangue. Abramovic e Ulay si pongono nudi a delimitare uno stretto passaggio che gli
spettatori devono varcare per entrare nella galleria (Imponderabilia, Bologna 1977) o
sbattono per ore l'un contro l'altro i loro corpi, o urlano fino allo spasimo. Invece,
inappuntabili e surreali, Gilbert e George fanno di se stessi sculture viventi che si muovono
come robots per le vie di Londra, danzano come marionette su un tavolo, i volti e le mani
dorati, al suono di una vecchia canzonetta (Pluchart 1975, Bloch 1982).
Se da un lato le azioni Body Art possono essere concepite espressamente per essere
registrate, dall'altro la loro ripresa diventa un processo di modificazione delle relazioni tra
osservato e osservatore, scavando nelle possibilità dello sguardo meccanico del video. Lo
schermo assume il ruolo di uno specchio; l'analisi del proprio corpo si trasferisce nel corpo
dello spettatore-attore.
Come ha analizzato Rosalind Krauss, la video arte contiene un nucleo forte di narcisismo, nel
senso che al termine hanno dato gli studi psicoanalitici di Lacan sullo sviluppo della
percezione e dell'identificazione del bambino attraverso il riconoscimento della propria
immagine nello specchio. Utilizzato da artisti coinvolti nella Body art e nelle performances il
sistema camera-monitor propone un rispecchiamento del sé come esperienza psichica, un
dialogo serrato con l'identità e il corpo, in virtù della peculiare capacità del mezzo di
riprendere e ri-mostrare simultaneamente l'immagine; il soggetto si mediatizza in un altro se
stesso. Quest'immagine di identità-alterità rivelata e enfatizzata dalle tecnologie elettroniche è
anche, secondo Krauss, una chiave di lettura di una critica interna del mezzo stesso esercitata
delle sperimentazioni linguistiche della Body art, come in Vertical Roll di Jonas, che dissolve
le forme nello spazio e nel tempo intervenendo sul sincronismo camera-monitor (Krauss
1976).
Il video tende anche a sostituirsi alla diretta esibizione in pubblico, in un'esperienza
individuale memorizzata e socializzata dalla registrazione. Trasferendosi immediatamente sul
nastro magnetico e scavalcando la dimensione emotiva della performance le azioni si
oggettificano e si trasformano, acquisendo un nuovo tipo di visibilità, e i videotapes tendono
a diventare opere autonome, in virtù del loro agire sul piano del linguaggio più ancora che
sull'evento riprodotto. Si avvia un processo ulteriore di costruzione dell'immagine e di
elaborazione autonoma del mezzo che saranno articolati dagli artisti che assumono il
videotapes come mezzo d'espressione, come, tra tanti altri, Joan Logue, Dara Birnbaum, John
Samborn, Bill Viola, Robert Cahen, i Vasulka, Gary Hill, Ed Emschwiller, Gianni Toti.
Vito Acconci media il rapporto con gli spettatori attraverso la diretta del video come in Seedbed, 1971 o in Command Performance, 1973, in cui esegue gli ordini che il pubblico gli
impartisce da un'altra stanza con la telecamera (Linker 1994). Bruce Nauman va oltre
facendo coincidere l'immagine di se stesso e l'opera video (Nauman 1993). L'artista si muove
in uno spazio chiuso, cammina, corre, salta, o suona il violino, e si lascia riprendere dalla
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telecamera fissa, in tempo reale, per sessanta minuti volutamente monotoni e ossessivi.
Analizza e rispecchia piattamente il proprio corpo in semplici e ripetuti movimenti, senza
cercare nessun effetto spettacolare; l'unica alternativa spiazzante è data dalla posizione della
telecamera, capovolta o posta di lato, per cui Nauman appare come se camminasse sul
soffitto, come in Revolving Upside Down (1968) o come se suonasse il violino su una parete
(Violin Tuned D.E.A.D.). L'ambiguità spaziale e il senso di instabilità si coniugano con la
riflessione sul tempo, che è un elemento costitutivo di questi videotapes: un tempo
ricondotto ad un continuo presente, condizionato e condizionante la visione (Freed 1975)
collegato intrinsecamente ad una percezione oggettivata di corpo e gesti. Nelle
videoinstallazioni Nauman integra questa dimensione con le componenti spaziali e con uno
specifico coinvolgimento della persona-immagine dello spettatore. In Tape Video Corridor
(1970) tempo e spazio si fondono e si scambiano nella ripresa e trasmissione simultanea di
due telecamere e due monitors che si rimandano reciprocamente, alle estremità di uno stretto
corridoio, l'immagine frontale o quella di schiena di chi transita nel corridoio stesso.
«Dunque sul monitor -spiega Nauman - voi vi allontanate da voi stessi, e più cercate di
avvicinarvi, più vi allontanate dalla telecamera, più vi allontanate da voi stessi» (Nauman
1986).
Vedere se stessi sullo schermo in uno spazio e in un tempo alterati da lievi scarti temporali e
dalla cattura dell'immagine riflessa, per cui ci si percepisce sempre dialetticamente in una
condizione di spiazzamento tra un dopo o un prima, tra vicino e lontano, tra interno e esterno,
tra presenza e assenza, è un tema proposto varie volte. In Wipe Cycle di Frank Gillette e Ira
Schneider (presentato nel 1969 alla mostra Tv as a creative medium di New York), un
sistema di nove monitors restituisce le riprese nella galleria (combinate con altre
registrazioni) in diretta e/o con un ritardo scandito su otto o sedici secondi (Rosenbush
1973). in Present Continuous Past (s) di Dan Graham (1974) lo spettatore entra in un
ambiente e si vede ripetuto all'infinito tra due pareti di specchi, in tempo reale, e dopo pochi
secondi si rivede anche mentre entra, con un ritardo programmato dal rimando di una
telecamera (Graham 1979).
Questo effetto sottile di disorientamento spazio-temporale che si congiunge a quello di un
ambiguo rispecchiamento, e che assume come centrale l'autoidentificazione narcisistica di cui
parla Krauss, diventa un motivo conduttore nelle videoinstallazioni. Utilizzando insieme
oggetti disparati e diversi monitor e telecamere le installazioni configurano spazi
tridimensionali, percorribili, situazioni che l'osservatore percepisce dall'interno, divenendone
parte. I televisori come materiali di un'architettura e i loro schermi come fonti di luci e
immagini, colori e suoni, e come specchi virtuali, animano l'impianto da minimal art di questi
luoghi, attirano l'attenzione in una dimensione multicentrica e in una continua trasformazione
di rimandi percettivi, secondo percorsi di volta in volta emergenti e subito sostituiti e
riproposti. E' ancora Paik a proporre le prime realizzazioni in questo senso, in Moon is the
Oldest TV (1965, e poi '76 e '85), in cui pone in semicerchio una serie di televisori su alti
parallelepipedi neri, in un ambiente buio e deforma il segnale elettronico di ogni schermo
creando altrettante sfere luminose in sequenza che mimano le fasi di una luna artificiale (Van
Assche 1992). La configurazione minimalista, la moltiplicazione di fuochi visivi e la serialità
della sequenza di immagini sarà più volte ripresa, tra gli altri da Marie-Jo La Fontaine (Die
Sizilianische Eröffnung, 1986-92, o Jeder Engel ist Schrechlich, 1992), che integra le sue
installazioni con una particolare componente narrativa (Rétrospective 1993).
La molteplicità di sollecitazioni sensoriali si intensificherà inoltre nella dimensione spaziotempo e interno-esterno indotta dal circuito chiuso; per esempio in Iris di Les Levine (New
York 1968) tre telecamere, sei monitors, diversi specchi e tubi fluorescenti determinano uno
spazio percettivo frammentato dalle riprese dei visitatori secondo una diversa profondità, in
primo piano, a media distanza e a lunga distanza, e moltiplicato dagli specchi (Celant 1977).
In Participation TV (Paik, 1969, Howard Wise Gallery) la telecamera riprende il pubblico e
ne ritrasmette l'immagine deformata e colorizzata; i visitatori potevano inoltre intervenire
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sulle modificazioni della propria immagine attraverso un microfono (Paik 1974). In Interface
di Peter Campus (1972) torna il gioco di telecamere e specchi che ripropongono allo
spettatore la sua immagine e quella della sua ombra, a grandezza naturale ma perturbata e
manipolata elettronicamente. In Double Vision (1971) Campus fa apparire sullo schermo due
visioni concentriche del medesimo oggetto, l'esterna statica, l'interna in movimento (Campus
1974). In The Blue Wall, presentato da Ed Emshwiller all'ARTEC di Nagoya nel 1989
immagini reali e informatizzate, riprese di luoghi reali e degli spettatori si combinano insieme
in uno spazio composito e articolato (Popper 1993).
Gli esempi potrebbero continuare a lungo. Su queste esperienze che esplorano il rapporto
immagine-corpo-sguardo secondo modalità percettive che modificano sostanzialmente le
matrici comportamentali, svariate sono infatti le interpretazioni degli artisti; legandosi
ritualmente alla geometrizzazione parcellizzata del corpo femminile in Frederike Pezold
(Göttin Körpertemple, 1971), o coniugandosi con una complessa simbologia in Franciska
Megert (Das Spiel mit dem Feuer, 1989) che separa e fonde il corpo maschile e il femminile,
lambiti dal fuoco distruttore e purificatore, per esaltare l'antagonismo di opposti in una
metafora visiva; oppure conducendo ad un'ulteriore alterazione della fisicità del percepire
nella gigantizzazione inquietante dello schermo in un ambiente claustrofobico, come in
Passage di Bill Viola (1987). O, ancora, arrivando a travasare lo sguardo nella corporeità di
una dimensione virtuale come in The Legible City di Jeffrey Show (1988-91), un'installazione
interattiva che conduce lo spettatore ad un'esplorazione labirintica e personalizzata di città
costruite con la tecnica del computer graphic come gigantesche sequenze di frasi (Manhattan,
Amsterdam, Karlsruhe); l'interfaccia tra osservatore e immagini è l'osservatore stesso che
pedalando su una bicicletta si inoltra e si inserisce nelle fluidità di un'inedita esperienza
spaziotemporale (Moving Images, 1992). Ormai lontana dalle analisi della Body art,
quest'opera si può tuttavia leggere anche come un ulteriore manipolazione tecnologica e
illusionistica di sensazioni corporee: un'emanazione dell'interazione percettiva e della
centralità dell'esserci che informano di sé tanta parte della videoarte.
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Si intensifica rapidamente, dalle prime esplorazioni pionieristiche fino ad oggi, nelle
videoinstallazioni, nelle videosculture e nei videotapes, sia la suggestione del collage visivo e
sonoro di forme infinitamente variabili, sia l'articolazione del rispecchiamento, del doppio,
del tempo e dello spazio, sia l'elaborazione delle immagini con un referente esterno oppure
autoreferenziali, generate direttamente dal dispositivo. Prosegue la ricerca su un linguaggio
intermediale, caratterizzato dai contatti con gli orientamenti artistici emergenti e con
l'evolversi delle nuove tecnologie, attraverso la rielaborazione delle categorie di astratto e
figurativo, di oggetto e comportamento, di reale e virtuale. Un processo in cui
particolarmente stimolante sarà l'intreccio con il computer, mentre si articola quello con il
teatro, il cinema, la danza, la musica, la poesia, in nuove sintesi che richiedono nuovi metodi
di lettura.
Ma la storia del complesso tragitto della videoarte esula da queste brevi considerazioni sulle
sue fasi iniziali. Va ricordato comunque che mentre numerosi sono gli artisti che utilizzano in
tanti modi diversi il mezzo televisivo, per brevi esperienze o con un'adesione più profonda e
costante, provenendo e a volte poi tornando ad altre ricerche, la videoarte acquista spazio
progressivamente nelle gallerie e nei musei, nelle reti televisive, nella pubblicazione di
riviste e di una saggistica specializzata, partecipa a manifestazioni artistiche diversamente
orientate, continuando il proprio meticcio vagabondare. Un viaggio che forse non richiede
una destinazione, una ricerca mai finita di relazioni che sottende, ma forse elude, quella di
una autonoma identità.
Oltre alla Videogalerie di Gerry Schum, altre gallerie si dedicano a esporre e promuovere
opere video, come la Scan di Nakaya a Tokyo, o a New York Bonino, Castelli, Sonnabend, e
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la Howard Wise Gallery, che organizza nel '66 l'esposizione mondiale di Computer graphic e
nel 1969 la prima mostra di ampio respiro sulla videoarte, Tv as a creative Medium, con
videotapes, videoggetti e installazioni a circuito chiuso di Frank Gillette, Ira Schneider, Paik,
Charlotte Moorman, Earl Reiback, Eric Siegel, Thomas Tadlock, Aldo Tambellini e Joe
Weintraub. In seguito Howard Wise fonda l'Electronic Arts Intermix, e, con Castelli e
Sonnabend, la Tapes and film . Nel 1971, sempre a New York, apre l'Electronic Kitchen (tra
i fondatori Steina e Woody Vasulka), che presenta l'attività di artisti quali Paik, Dan Graham,
Peter Campus, Ira Schneider, Joan Jonas, Terry Blumenthal, Dara Birnbaum, Kit Fitzgerald,
John Sanborn, Bill Viola.
Contemporaneamente l' Everson Museum of art di Syracuse (New York), apre una sezione di
videoarte, con opere di Douglas Davis, Andy Mann, Paik, Peter Campus, Frank Gillette, e nel
1973 organizza una esposizione di videotapes; la mostra si sposta in vari musei americani per
confluire poi nel Projekt 74 a Colonia, la prima rassegna video di livello internazionale in
Europa. Altre iniziative museali si svolgono al Museum of Modern Art di New York, con il
Video Environments Projects di Keith Sonnier (1971), al Museum of Art di Long Beach, al
Whitney Museum.
Anche in Europa si inaugurano spazi e momenti di discussione; nel 1971 la galleria di Liegi
Yellow Now organizza la prima manifestazione di video intitolata Proposition pour un
circuit fermé del television. Nel 1974 si inaugura una grande esposizione sul video
internazionale al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles (Artistes et Vidéo); nel 1974
l'International Cultureel Centrum (ICC) di Anversa, diretto da Flor Bex crea uno studio con
apparecchi di registrazione a disposizione degli artisti; nel '76 si organizzano gli incontri
internazionale del gruppo argentino C.A.Y.C. Nel 1983 a Charleroi si svolge la mostra Art
Vidéo. Rétrospectives et Perspectives.
A Londra la Serpentine e la Hayward Gallery organizzano festivals video dal '71. A Parigi il
Musée d'art moderne de la ville de Paris organizza una grande mostra nel '74, l'Art video
confrontation e nel 1983 un'ampia rassegna delle ricerche videoartistiche è presentata da
Popper e Couchot in occasione della mostra Electra. Nel 1982 si organizza al Pompidou una
serata in onore di Paik con 400 televisori.
Si interessano al video anche le grandi manifestazioni periodiche di arte contemporanea. Nel
1977 Documenta 6 a Kassell presenta una retrospettiva di video e videoinstallazioni di più di
40 artisti americani, e alcuni video (di Paik e Douglas Davis) sono trasmessi via satellite
negli USA. Nel 1986 la Biennale di Venezia dedicata a arte e scienza comprende un settore
sulla videoarte e sulla computer art.
Iniziano anche i contatti con le reti televisive all'avanguardia. Nel 1968 il Westdeutsche
Rundfunk di Colonia incarica per la prima volta degli artisti di produrre nastri per la Tv
pubblica; Otto Piene e Aldo Tambellini trasmettono nel '69 Black Gate Cologne sintetizzando
in video una azione multimediale. Nel 1969 la WGBH-TV di Boston (sovvenzionata dalla
Rockfeller Foundation), organizza e diffonde tramite Fred Barzyk una serie di trasmissioni di
Paik (Electronic Opera n° 1, Video-Chair e Tv Cello, con Charlotte Moorman), Piene, James
Seawright, Thomas Tadlock , Tambellini, intitolate The medium is the medium; nel 1970
trasmette Beatles: from Beginning to End , un programma della durata di quattro ore
realizzato con il sintetizzatore Paik-Abe. Anche la KQED di San Francisco e la WNET di
New York trasmettono programmi regolari di videoarte. In Gran Bretagna Channel Four, in
Francia Canal Plus, in Belgio Videographie sviluppano l'interesse per la sperimentazione
artistica indipendente collegata ai circuiti televisivi.
Intanto, nel 1970 Ira Schneider e Beryl Corot editano il primo periodico sul video, Radical
Software, che pubblica 11 numeri fino al 1974, occupandosi di problemi teorici, artistici,
tecnici e politici relativi alla comunicazione. Nello stesso anno esce Expanded Cinema di
Gene Youngblood pubblica, e nel '71 Guerrilla Television di M. Shamberg, sull'uso politico e
di controinformazione del video. Si organizzano manifestazioni internazionali e centri di
produzione e di diffusione e di raccolta: nel 1975 è il primo festival annuale di video
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documentari del Global Village; seguono il videofestival di Locarno (dal 1979), il Siggraph a
Boston, l'Ars Electronica a Linz, Imagina a Montecarlo, l'Arc a Parigi, il Zentrum für Kunst
und Medientechnologie a Karlsruhe (ZKM), a Tokio l'Osaka Furitsu Bijutsu Center, a
Taormina la Rassegna Internazionale del Video d'autore. Collezioni permanenti di opere
video vengono istituite in vari musei, al Moma di New York e a quello di San Francisco, allo
Stedelijk di Amsterdam, al Pompidou di Parigi, al Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, al
Kunstmuseum di Berna, al Ludwig di Colonia (London, 1985, Fagone 1990, Bureaud 1992,
Van Assche 1994, in Taormina Arte).