PDF - Spaghetti Writers

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Storia di vita verticale
Alessia Del Freo
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Da piccola sognavo di volare. Mi rifugiavo dietro il serbatoio d’acqua dopo la capanna, per
sdraiarmi con la testa verso il cielo, su una tavola di legno in equilibrio sopra quattro
mattoni, di quelli che fanno polvere rossa, dove lo zio aveva aggiunto un gancio per fermare
lo stendino nei giorni di vento e che io e mio cugino avevamo rubato per costruirci la
panchina sotto il ciliegio dove andare a leggere in primavera.
Se volevo volare era colpa dei Super Sayan e non delle cassette Disney che sedevano
accatastate in camera di mio fratello e dove il gatto andava a dormire; era un mondo invaso
dai super poteri, e la tensione verso la leggerezza era nata proprio così, a vedere in
televisione i cartoni giapponesi malamente doppiati, nonostante quella tendenza a correre
su un prato verde da porta a porta dietro a un pallone.
Tipi come lui, dalle mie parti ce n’erano pochi: se ne incontravano a volte scendendo verso
la città, a nonna non piacevano e sospettosa mi pregava di non salire con loro, e io vi
rinunciavo volentieri perché a quel tempo ancora provavo gusto a contare i
centoquarantadue scalini delle quattro rampe di scale del dentista.
Eppure la vita era orizzontale: le strade costruite sulla pelle nuda del pianeta, le case di
massimo due piani a causa della legge antisismica, gli uomini che lavoravano i campi e
stendevano allevamenti, e se c’era un terreno scosceso andava pareggiato, una vetta troppo
alta tagliata e levigata come un parquet. Anche l’amore si faceva distesi sotto le lenzuola, e i
libri erano sequenziali, e sull’ala destra l’allenatore diceva di giocare palla a terra, tutto ciò
che mi circondava sembrava bidimensionale, composto da un dispiegarsi infinito di
quotidianità, abitudini e scadenze e orari prefissati, e luoghi misurabili in linee d'aria
esclusivamente piane.
D’imparare a volare non se ne parlava, così mi rifugiai in un grattacielo di trenta piani alla
Défense, per capire come trascendere il tempo, tagliare le distanze e attraversare il mondo
da una parte all’altra. A sciogliere i dubbi e farmi sentire l’assenza di gravità fu proprio lui,
tra il via vai di gente da un ufficio all’altro, le carezze nascoste e impercettibili sui suoi
bottoni e una mano tesa davanti al laser di controllo, prima di lasciarlo scendere e
scomparire per poi tornare su, invisibile, nascosto dietro ai muri.
Ho fatto buttare giù il cemento per sostituirlo con diecimila quadrati di vetro e sentirmi in
caduta libera, ho inebriato i suoi tessuti dei miei profumi al mattino e l’ho macchiato di
lacrime e fango delle mie tempeste emotive, e poi di café noisette nei banali pomeriggi
piovosi. Dentro di lui mi sono sentita più al sicuro e più in pericolo – non è così che ci si
dovrebbe sentire in amore? – nella paura di rimanervi rinchiusa e nella solitudine
confortevole di un’ora extra non retribuita: dentro di lui, in una vita verticale, piano dopo
piano, ascensore delle mie brame.
Molte persone non li sanno cavalcare, gli ascensori, io ho imparato a vivere in quell’anfratto
di cinghie e cavi elettrici sopra il soffitto di uno di questi; il mio si chiama Ashen per le sue
pareti cineree, vi ho trasferito il mio studio perché la vita coricata addosso alla terra non la
volevo vivere, e quella finta assenza di gravità mi ha dato leggerezza e onnipotenza e super
poteri: a bordo di un ascensore ho visitato il mondo, nelle notti di congiunzioni astrali in
cui tutte le cappe del pianeta diventano una e i bottoni si moltiplicano fino a esaurire la
superficie terrestre, e ci si addormenta a Parigi e ci si risveglia nell’altro capo del pianeta, in
quella curva sul lago che dalle zone residenziali si muove verso Toronto, nella discesa
criminale dove il continente si stringe, fino a Bogotà a liberare un paese dalle vertigini, per
risalire il mondo dall’altra parte, attraversando le basi scientifiche dell’Antartide,
avventurarsi nei restanti continenti e ritornare a casa, dentro la Mole ad ammirare
un’esposizione su Gus Van Sant, e nello studio legale di un vecchio edificio in centro a
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firmare le carte, nei meandri di un labirinto di rovine, in una foresta e in una casetta
sperduta in Patagonia, perché da quell’anfratto di cinghie e cavi elettrici ho ascoltato e
registrato e vissuto nella dimensione verticale dei passeggeri e dei loro ricordi, delle curve
aeree e della vita orizzontale di un treno, fino a conoscere il mondo intero e tornare là,
distesa su quella tavola di legno in equilibrio su quattro mattoni, a guardare il cielo e
sognare di volare.
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