MOT16C_Amirante_Danno sinistri stradali

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MOT16C_Amirante_Danno sinistri stradali
“Che c’è di nuovo in materia di responsabilità civile?”
Corso Area Civile – cod. P15030 – della Scuola superiore della magistratura
tenutosi dal 6 maggio 2015 all’8 maggio 2015
La liquidazione del danno alla persona in materia di
sinistri stradali1
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Relazione di Vittoria Amirante Giudice del Tribunale di Roma
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SOMMARIO
1. Premessa
2. Art. 139 cod. ass Le micropermanenti.
2.1. Il danno tabellato e la legittimità costituzionale della norma
2.2. L’applicabilità analogica dell’art. 139 cod. ass.
2.3. Art. 32 commi 3 ter e 3 quater della legge n. 27/2012
3. Art. 138 Cod. Ass. e tabelle giurisprudenziali
3.1. L’adozione di tabelle diverse da quelle milanesi dopo Cass. N.
12464/2012 e regime processuale applicabile alle tabelle giurisprudenziali
3.2. Lo schema di decreto attuativo dell'art. 138 d.lgs. 209/2005
4. Il danno patrimoniale
4.1. Le fattispecie più ricorrenti di danno emergente nei sinistri stradali
4.2. Il danno da incapacità di guadagno e l’art. 137 cod. ass.
5. Il concorso colposo del danneggiato ed i suoi riflessi sul danno risarcibile
6. La rivalutazione e gli interessi
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1. Premessa
In questa sede, anche per evidenti limiti di tempo, dobbiamo dare per scontata
tutta l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in tema di danni alla persona svoltasi
almeno sino alle notissime sentenze delle Sezioni Unite del novembre 2008 e quindi
esaminare come a partire da tale pronuncia sia mutato l’approccio al tema
dell’inquadramento e definizione del danno alla persona.
In via generale può dirsi che i principi affermati dalle SU nel 2008, che
sembravano destinati all’eternità, nel giro di pochi anni sono diventati sempre più
evanescenti sotto l’attacco sia di sopravvenienze legislative2 che della giurisprudenza
sia di merito che di Cassazione.
In particolare la ricostruzione del danno non patrimoniale quale “categoria
ampia ed omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori
sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva”, del danno morale quale “uno
dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell’unico ed
unitario danno non patrimoniale, e non un pregiudizio a sé stante” e della
inammissibilità concettuale di una autonoma categoria di danno cd. «esistenziale» sono
tutte questioni che risultano poste in discussione della stessa Suprema Corte sin dalle
prime decisioni successive al novembre 20083.
Le successive sentenze della terza sezione della Cassazione hanno infatti
adottato una varietà di criteri interpretativi, soprattutto in ordine alla quantificazione del
risarcimento, che sembrano mettere in discussione i principi affermati dalle Sezioni
unite, e in particolare quello per cui « il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 […]
costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie ». Per
Cass. 22585/2013 il danno morale e il danno « dinamico relazionale » vanno liquidati
autonomamente dal danno biologico, mentre per Cass. 21716, 11950, 3290/2013 ciò
costituirebbe un’inammissibile « duplicazione risarcitoria ». Contrasti analoghi per il
danno non patrimoniale da morte: secondo Cass. 4043/2013 ne va adottata una nozione
unitaria e omnicomprensiva, mentre per Cass. 19402/2013 occorre tenere separatamente
conto, ai fini della liquidazione, del danno biologico, di quello morale e del danno alla
vita di relazione. E nella stessa materia Cass. 9231/2013 ha riesumato la nozione di
danno esistenziale (o « dinamico relazionale »). Vi è stato poi il ritorno del danno da
lesione della « capacità lavorativa generica », che, in quanto danno patrimoniale
(diverso dalla lesione della specifica capacità di lavoro e di guadagno), si aggiungerebbe
2
Il riferimento è in primis a: d.P.R. 3 marzo 2009 n. 37 e d.P.R. 30 ottobre 2009 n. 81.
si veda Cass. 28 novembre 2008, n. 28407; Cass 12 dicembre 2008, n. 29191 Cass. sez. Lavoro, 19
dicembre 2008, n. 29832 Cass. 12 settembre 2011, n. 18641.
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al danno biologico, mentre, secondo la giurisprudenza costante da Cass. 3260/1993, in
tal modo si determinerebbe la famigerata e temuta duplicazione risarcitoria. Del resto,
anche sull’accertamento e la liquidazione del danno (patrimoniale) derivante dalla
riduzione della capacità lavorativa specifica non mancano decisioni contrastanti (Cass.
2644/2013 rispetto a, tra le altre, Cass. 19357/2007), dietro le quali riemerge la
controversia sul significato della nozione di danno biologico.
Le più recenti pronunce, dunque, affermano che il danno biologico (cioè la
lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamicorelazionale (altrimenti definibile "esistenziale", e consistente nel peggioramento delle
condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti
fondamentali della persona) costituiscono componenti dell'unitario danno non
patrimoniale rispondendo a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento
lesivo, che può causare, nella vittima e nei suoi familiari, un danno medicalmente
accertato, un dolore interiore e un'alterazione della vita quotidiana, che, senza poter
essere valutate atomisticamente, debbono pur sempre dar luogo ad una valutazione
globale, evitando duplicazioni, ma anche "vuoti" risarcitori”4.
Le difficoltà riscontrate nell’affrontare il tema della liquidazione del danno alla
persona si pongono anche nella interpretazione degli artt. 138 e 139 del d.lgs. 7
settembre 2005 n. 209 (Codice delle Assicurazioni Private; d’ora in avanti: «Cod. Ass.»)
atteso che il cod. ass., se da un lato offre una definizione legale di danno biologico,
quale «lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona
suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle
attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato,
indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito»,
dall’altro non esamina e non definisce il danno morale né il danno esistenziale.
Nella consapevolezza, dunque, della mutevolezza degli indirizzi dottrinari e
giurisprudenziali possiamo passare ad esaminare più specificamente il tema della
liquidazione concreta del danno in materia di sinistri stradali.
Sul punto il Cod. Ass., dopo aver definito come sopra il danno biologico, offre
due diversi strumenti liquidatori: uno (art. 138 Cod. Ass.) per le lesioni di non lieve
entità ( postumi superiori al nove per cento) ed uno (art. 139 Cod. Ass.) per le lesioni di
lieve entità (postumi pari o inferiori al nove per cento, cd micropermanenti). Per
entrambi è prevista la risarcibilità in base ad una tabella unica su tutto il territorio della
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, Cass. n. 20292 del 20/11/2012, Cass. n. 9231 del 17/04/2013, Cass. n. 19402 del 22/08/2013, Cass. 3
ottobre 2013 n. 22585 ; da ultimo, v. Cass. n. 20111 del 24/09/2014
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Repubblica con l’adozione di schemi tabellari che individuano valori standard di
liquidazione del danno, parametrati alla gravità della lesione alla integrità psico-fisica e
alla età del danneggiato e che consentono la determinazione del valore risarcitorio in
base all’incrocio tra i dati relativi ai punti di invalidità e quelli relativi alle fasce di età.
La tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica è, tuttavia, ancora oggi
legalmente prevista solo per le lesioni cd. micropermanenti (1-9%) in quanto, come
noto, per le lesioni cd. macropermanenti (10-100), il Dicastero competente non ha
ancora provveduto ad esercitare il potere normativo delegato.
2.Art. 139 cod. ass. Le micropermanenti
Il decreto legislativo 7 settembre 2005 n. 209, all’art. 139, tipizza il regime di
liquidazione del danno derivante da menomazioni alla integrità psicofisica pari o
inferiori a 9 punti. Il sistema risarcitorio, come detto, si fonda su una tabella unica su
tutto il territorio della Repubblica, aggiornata secondo periodicità fisse e attualizzata
secondo gli indici ISTAT. Il criterio legale di liquidazione prevede anche la possibilità
di personalizzare, entro soglie rigide, l’ammontare del danno. L’ammontare liquidato a
titolo di danno biologico può essere, infatti, aumentato dal giudice in misura non
superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive
del danneggiato.
2.1. il danno tabellato e la legittimità costituzionale della norma
La disciplina del risarcimento del danno biologico risultante dal codice delle
assicurazioni private è caratterizzata dalle stesse criticità che erano già emerse
all’entrata in vigore dell’art. 5 della legge n. 57 /2001 con cui, per la prima volta, si è
regolata la copertura assicurativa del danno alla salute occorso a seguito di sinistro
stradale . Si è, infatti, dubitato della legittimità costituzionale di tale disciplina,
sostanzialmente riprodotta dall’art. 139, che, limitando il ristoro del pregiudizio
derivante da lesioni di lieve entità, subite nel contesto della circolazione dei veicoli, a
importi predefiniti dal legislatore mediante il rinvio ad una tabella ministeriale -importi
che, per quanto periodicamente aggiornati, restano significativamente inferiori rispetto
a quelli individuati dalle note tabelle di matrice giurisprudenziale, creerebbe un vulnus
del principio della integralità del risarcimento.
Tali dubbi, inizialmente superati sulla base del rilievo che i limiti attenevano
unicamente al danno biologico, residuando la piena libertà di cumularvi un danno
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morale ed un danno di tipo esistenziale, si sono riproposti con maggior forza
all’indomani dell’intervento delle Sezioni Unite del 2008, dovendo accertarsi se la
limitazione risarcitoria di cui all’art. 139, comma III, Cod. Ass., si applichi al danno non
patrimoniale nella sua interezza ovvero al solo danno biologico in senso stretto.
Secondo un primo orientamento l’art. 139 cod. ass., alla luce di Cass. S.U. n.
26972 dell’11.11.2008, sarebbe omnicomprensivo, non consentendo il conseguimento
da parte del danneggiato di importi ulteriori, nemmeno a titolo di danno morale:
quest’ultimo, in particolare, potrà essere riconosciuto solo nei limiti della
personalizzazione del 20%. Questa lettura ermeneutica ha trovato consenso in una parte
della giurisprudenza della Suprema Corte che con la sentenza n.12408 del 7.6.2011 ha
affermato che «quante volte la lesione derivi dalla circolazione di veicoli a motore e di
natanti, il danno non patrimoniale da micro permanente non potrà che essere liquidato,
per tutti i pregiudizi areddituali che derivino dalla lesione del diritto alla salute, entro i
limiti stabiliti dalla legge mediante il rinvio al decreto annualmente emanato dal
Ministro delle attività produttiva (ex art. 139, comma 5), salvo l'aumento da parte del
giudice, "in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento
delle condizioni soggettive del danneggiato" (art. 139, comma 3)».
Secondo altro indirizzo5 “il giudice deve muovere dal presupposto che, nei
valori monetari disciplinati dall’art. 139 Cod. delle Assicurazioni, il legislatore non
abbia affatto tenuto conto anche del danno conseguente alle sofferenze fisiche e
psichiche patite dalla vittima. Ne discende che il giudice deve procedere con le seguenti
modalità : a) verificare se la “voce” del danno non patrimoniale intesa come “sofferenza
soggettiva” sia o non adeguatamente risarcita con la sola applicazione dei valori
monetari previsti dalla Legge (artt. 138, 139 cit.); b) in caso di risposta negativa, il
giudice, procedendo ad “adeguata personalizzazione” del danno non patrimoniale, deve
liquidare, congiuntamente ai valori monetari di legge, una somma ulteriore che ristori
integralmente il pregiudizio subito dalla vittima. Inutile sottolineare che anche tale
impostazione ha riportato consensi dalla Suprema Corte che con sentenza n. 19816 del
17 settembre 2010, ha affermato che «il diritto al risarcimento dei danni non
patrimoniali deriva da una precisa norma del codice civile (art. 2059 cod. civ.), che la
legge n. 57/2001 non ha certo abrogato. L’art. 5 della suddetta legge si è limitato a
5
Tribunale Milano, sez. V civile, del 19 febbraio 2009 n. 2334; Tribunale di Bologna, sez. III, sentenza 29
gennaio 2009 che reputa che la limitazione alla misura non superiore ad un quinto dell'aumento del
danno biologico di cui al comma III dell'art.139 Codice Assicurazioni Private vada riferita unicamente alla
personalizzazione inerente all'aspetto dinamico relazionale: “la suddetta limitazione non può
considerarsi omnicomprensiva, tenuto conto che all'epoca di emanazione della suddetta normativa era
pacifica l'autonoma risarcibilità del danno morale”
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dettare i criteri di liquidazione del danno biologico - cioè di quell’aspetto del danno non
patrimoniale che afferisce all’integrità fisica - senza per questo escludere che, nella
complessiva valutazione equitativa circa l’entità della somma spettante in risarcimento,
il giudice debba tenere conto anche delle sofferenze morali subite dal danneggiato».
Ancor più di recente la Cassazione 6 ha osservato che le norme di cui agli artt. 138 e 139
cod.ass. non consentivano (ieri) né consentono (oggi) una lettura diversa da quella che
predica la separazione tra i criteri di liquidazione del danno biologico in esse codificati e
quelli funzionali al riconoscimento del danno morale: in altri termini, la "non
continenza", non soltanto ontologica, nel sintagma "danno biologico" anche del danno
morale 7.
Occorre comunque evidenziare che si dia corso all’una o all’altra interpretazione, il
divario tra il risarcimento liquidato ai sensi delle tabelle legislative (cui rinvia il codice
delle assicurazioni) e quello liquidato in base alle tabelle di cui si avvale la
giurisprudenza, e di cui si dirà in seguito, permane. Infatti il “punto” del danno
biologico dettato dal legislatore con la l. 57/2001, trasposto nell’art. 139 cod. ass., pur
costantemente aggiornato, è significativamente inferiore rispetto al “punto” del danno
biologico su cui si fondano le tabelle formulate in via pretoria e si ripercuote così
sull’intera quantificazione del danno alla persona, comprimendolo rispetto a quello che
sarebbe riconosciuto al di fuori della responsabilità da circolazione dei veicoli.
6
Cass. 3 ottobre 2013 n. 22585
7
Vd. Anche Trib. Torino 17-3-2009 secondo il quale « non è evidentemente sostenibile che i valori siano
stati fissati dal legislatore già tenendo conto della sofferenza; poiché il consolidato orientamento della
giurisprudenza di merito e di legittimità (all'epoca di emanazione dell'art. 139 codice delle assicurazioni,
e del suo “antecedente” normativo, cioè della l. 57/2001) era nel senso che la sofferenza dovesse essere
ristorata “a parte” attraverso il riconoscimento del danno morale ». Né, secondo tale orientamento, può
identificarsi nella personalizzazione la sede per il ristoro del danno morale. Secondo il Tribunale di
Rovereto, nella sentenza del 2.3.2009 « l'adeguamento cui fa riferimento il comma 3, col limite del
quinto, non può che riferirsi alle medesime conseguenza pregiudizievoli, nei casi in cui le stesse fossero
maggiori di quanto accade normalmente, per le particolari condizioni soggettive del danneggiato (si
pensi, ad es., ad un rilevante danno alla deambulazione per un soggetto particolarmente appassionato
di escursioni in montagna). Ne deriva, ulteriormente, che l'adeguamento della liquidazione del danno
biologico cui fanno riferimento le Sezioni Unite a proposito delle sofferenze morali si sottrae ai limiti
posti dall'art. 139, comma 3 cod. ass., perché si riferisce ad un pregiudizio ontologicamente diverso ». In
dottrina è dello stesso avviso P.G. Monateri, L’ontologia dei danni non patrimoniali, Danno e resp., 2014,
62 s. a margine di Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 2013, n. 22585. In linea sembrerebbe anche Castronovo,
La nuova responsabilità civile cit., 402 che, peraltro prima delle pronunce delle sezioni unite del 2008,
evidenziava come, non essendo il danno morale contemplato da nessuno dei due testi legislativi in
materia di assicurazioni, d.lgs. 38/2000 e l. 57/2001, « per l’uno e per l’altro permane … la responsabilità
civile ».
7
Ne consegue che, anche laddove si giungesse ad opinione unanime sulla
possibilità di integrare il quantum del risarcimento calcolato ai sensi dell’art. 139 cod.
ass. mediante la liquidazione di un importo ulteriore a titolo di ristoro del danno morale,
la vittima della circolazione stradale otterrebbe ugualmente — per lesioni di lieve entità — importi predeterminati (almeno in parte) dal legislatore e per di più inferiori rispetto
a quelli che le sarebbero riconosciuti ove il danno si fosse verificato in altro contesto e
fosse stato quantificato secondo le tabelle di matrice giurisprudenziale.
Proprio tale divario ha sollecitato i giudici di merito a rimettere la questione
dapprima alla Corte Costituzionale per la valutazione di legittimità e successivamente
anche alla Corte di giustizia per la verifica di conformità con il diritto dell’Unione
europea. Quest’ultima ha reputato la previsione conforme al diritto europeo 8, la
Consulta aveva respinto le censure sollevate per inammissibilità e dunque senza entrare
nel merito delle stesse 9 sino alla recentissima sentenza del 16 ottobre 2014 n.235, che
appare aver risposto contemporaneamente ad entrambe le questioni sopra evidenziate.
La Corte Costituzionale, infatti, nell’affrontare la questione di legittimità costituzionale
posta in relazione all’art. 139 Cod. Ass. per violazione degli artt. 2, 3, 24, 32, oltreché
76 Cost. (e anche con quelli interposti delle disposizioni europee) ha in primo luogo
affermato che “È pur vero, infatti, che l'art. 139 cod. ass. fa testualmente riferimento al
"danno biologico" e non fa menzione anche del "danno morale". Ma, con la sentenza n.
26972 del 2008, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno ben chiarito (nel
quadro, per altro, proprio della definizione del danno biologico recata dal comma 2 del
medesimo art. 139 cod. ass.) come il cosiddetto "danno morale" - e cioè la sofferenza
personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente)
del danno non patrimoniale, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato - «rientra
nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura
intrinseca costituisce componente». La norma denunciata non è, quindi, chiusa, come
paventano i rimettenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i
presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento
dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla
disposizione del citato comma 3”. La Corte, ha in secondo luogo, esaminato la
costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto
dall’art. 139 cod. ass. anche sotto il profilo del prospettato vulnus al diritto all'integralità
del risarcimento del danno alla persona, evidenziando che esso va condotto non già
assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la
ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base
8
Corte eur. giust. 23-1-2014 C-371/12
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Si veda in particolare l’ordinanza Corte Cost.n. 157 del 20.4.2011
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della disciplina censurata. All’esito di tale valutazione e bilanciamento la Corte ha
ritenuto che la disciplina in esame supera certamente il vaglio di ragionevolezza
proponendosi il contemperamento di contrapposti interessi, quali l'interesse risarcitorio
particolare del danneggiato e quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un
livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi ed ha ribadito che “l'introdotto
meccanismo standard di quantificazione del danno - attinente al solo specifico e limitato
settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze
pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi (nove) gradi della
tabella - lascia, comunque, spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio,
risultante dalla applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente
maggiorandolo fino ad un quinto, in considerazione delle condizioni soggettive del
danneggiato”. 10
La Corte Costituzionale, dunque, nell’escludere la illegittimità costituzionale di
un limite legale al danno liquidabile, adotta la tesi della omnicomprensività del danno
tabellato con l’unico margine di personalizzazione dato dall’aumento sino al 20%.
2.2. L’applicabilità analogica dell’art. 139 cod. ass. ai casi diversi da quelli
previsti ex lege
In dottrina e giurisprudenza ci si è posti il dubbio relativo alla applicabilità, in
via di analogia, delle tabelle legali di liquidazione anche per postumi di lieve entità non
connessi alla circolazione stradale.
Una prima corrente di pensiero è favorevole all'applicazione analogica,
principalmente in base al rilievo che tra lesioni derivanti dalla circolazione stradale e
lesioni derivanti da altre cause non v'è altra differenza se non quella, irrilevante, del
mezzo col quale le lesioni sono state inferte.
Su tale anomala situazione anche il Consiglio di Stato si è pronunciato in senso
critico in occasione del parere n. 4209 del 17 novembre 2011 emesso sullo schema di
decreto recante "Nuova tabella delle menomazioni all'integrità psicofisica comprese fra
dieci e cento punti di invalidità".
10
Sulla base di analoghe considerazioni anche la Corte di giustizia della Unione europea nella citata
sentenza 23 gennaio 2014, in causa C-371/12, E. e C. Petillo contro Unipol assicurazioni, ha escluso la
prospettata incompatibilità dell'art. 139 cod. ass. con le direttive europee.
9
Recita il predetto parere "La Sezione, inoltre, ritiene utile sottoporre
all'Amministrazione riferente una possibile conseguenza distorsiva derivante
dall'applicazione ai soli sinistri stradali degli indici parametrici contenuti nelle tabelle
allegate allo schema di regolamento in questione: infatti, analoghe conseguenze sul
piano lesivo verrebbero ad ottenere differenti trattamenti risarcitori, a seconda del solo
fatto che la lesione sia avvenuta nell'ambito della circolazione stradale o meno".
Chi opta per l’applicazione analogica osserva altresì che l’adozione delle tabelle
ex art. 139 cod. ass., quale parametro di determinazione del danno biologico, sia in
materia di vittime del terrorismo (DPR 30.10.2009 n. 81 art. 4, lett. b) che di
responsabilità sanitaria (L. 189/2012 art. 3 di conversione del cd decreto Balduzzi)
mostri l’intento del legislatore di riferirsi a quelle tabelle per tutte le lesioni di modesta
entità, procedendo quindi ad una applicazione estensiva del parametro introdotto
originariamente in materia di circolazione stradale11. Mentre per i sinistri derivati da
circolazione stradale l'applicazione dell'articolo 139 codice dell'assicurazione
avverrebbe in via diretta, per il trattamento dei danni cagionati da altre cause viene
adottato quale criterio equitativo di liquidazione.
Secondo altra opinione l'applicazione analogica deve essere esclusa sia in
considerazione della collocazione della disposizione nel "Codice delle assicurazioni
private" e, in particolare, nel "Titolo X: Assicurazione obbligatoria per i veicoli a
motore e i natanti", che della ratio legis, volta a dare una risposta settoriale al problema
della liquidazione del danno biologico al fine del contenimento dei premi assicurativi.
La Suprema Corte con la sentenza 12408 del 2011 ha affermato che “I criteri di
liquidazione del danno biologico previsti dall'art. 139 cod. ass., per il caso di danni
derivanti da sinistri stradali, costituiscono oggetto di una previsione eccezionale, come
tale insuscettibile di applicazione analogica nel caso di danni non derivanti da sinistri
stradali"
Di qui, il persistere dell'attuale diversità tra i risarcimenti dovuti alla circolazione
e quelli derivanti da altre cause. Dove c'è, invece, unanimità di consensi è sul principio
di applicazione di un'unica tabella nazionale.
Lo dice il Consiglio di Stato quando scrive che "tale esigenza (di porre rimedio
all'inconveniente dovuto alle diversità delle tabelle adottate dai vari Tribunali) appare
11
Così Trib. Genova n. 1301 del 04/04/2014
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veramente condivisibile e coerente con le esigenze di parità di trattamento tra situazioni
analoghe".
2.3. Art. 32 commi 3 ter e 3 quater della legge n. 27/2012
L’art. 32 comma 3 ter della legge 27/2012 (di conversione del d.l. 24 gennaio 2012 n.
1) ha aggiunto all’art. 139 cod. ass., dopo la definizione di danno biologico, come
“lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di
accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e
sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da
eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito” l’inciso “In ogni caso, le
lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale
obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”.
L’art. 31 comma III-quater ha, invece, introdotto una previsione autonoma: “il danno
alla persona per lesioni di lieve entità di cui all'articolo 139 del decreto legislativo 7
settembre 2005, n. 209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui
risulti visivamente o strumentalmente accertata l'esistenza della lesione”.
La ratio della novella è quella, evidente, di diminuire i costi dei risarcimenti conseguenti
a truffe assicurative e di porre un argine ai risarcimenti, in crescita esponenziale, dei
danni da “colpo di frusta”, allorché gli stessi non siano radiograficamente accertati, ma
“desunti” esclusivamente dalla sintomatologia soggettiva della vittima .
Se questo è il fine, tuttavia, il testo appare oscuro e di difficile se non impossibile
interpretazione. Infatti la dicitura “in ogni caso” appare avere valore ricognitivo del
quadro generale normativo preesistente e non permette di far discendere dalle parole che
la seguono alcuna modifica sostanziale di quel quadro. La norma, inoltre, è priva di
senso anche nel suo significato tecnico letterale dal momento che ovviamente non è “la
lesione” che “da luogo a risarcimento per danno biologico permanente” bensì gli esiti, la
cui valutazione è sempre demandata alla preparazione del medico legale. Ulteriore
problema è dire cosa debba intendersi per “accertamento clinico strumentale obiettivo”
anche alla luce della duplicazione delle due norme in seno all’art. 32 (commi III-ter e
III-quater) che appaiono sostanzialmente sovrapponibili. Deve, peraltro, evidenziarsi
che i tre aggettivi “clinico strumentale obiettivo”, non separati né da virgola né da “o”,
lascerebbero intendere la necessarietà della compresenza in ogni singolo accertamento
di tali elementi - di modo che dovrebbe escludersi l’alternatività tra accertamento
clinico ed accertamento strumentale- mentre i due avverbi “visivamente o
strumentalmente”, certamente non richiedono la compresenza di entrambi per il positivo
accertamento della lesione.
11
Sembrerebbe, dunque, che le nuove norme, lette in combinato disposto, richiedano – ai
fini della risarcibilità del danno biologico – che la lesione sia suscettibile di
accertamento medico legale. Perché ciò accada, l’esistenza della lesione deve risultare
visivamente: per l’ANIA per visivamente si intende «un’osservazione obiettiva senza
necessità di conferma strumentale, da cui risulti l’esistenza di una lesione, come è
possibile nel caso, ad esempio, delle escoriazioni, delle ferite, delle contusioni, degli
ematomi, delle amputazioni». La lesione può anche essere accertata strumentalmente:
per l’ANIA sono strumentali quelle “indagini (radiografia, ecografia, esame
elettromiografico, etc.) che documentano oggettivamente l’esistenza della lesione” Se
queste sono le chiavi ermeneutiche entro cui collocare le nuove norme, allora è corretto
ritenere che le stesse siano parimenti applicabili per tutta l’area del danno alla persona
di lieve entità, vuoi temporaneo che permanente. Secondo l’interpretazione preferibile
«il comma 3 ter disciplina il danno che abbia prodotto postumi permanenti, mentre il
comma 3 quater è applicabile a qualsiasi pregiudizio alla persona, anche temporaneo,
l’uno e l’altro, tuttavia, subordinano la risarcibilità del danno a presupposti identici» 12.
Quale che sia il significato che si voglia dare alla disposizione secondo la quale
“in ogni caso le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico
strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico
permanente” sembrerebbe che il ruolo del medico legale non sia stato toccato dalla
norma che si limita a chiarire che le “lesioni lievi ” o forse i “postumi lievi” delle stesse
non “danno luogo” a risarcimento13. In altre parole il medico dovrebbe continuare a
valutare il danno secondo le disposizioni della prima parte del 139 chiarendo se tale
valutazione sia suscettibile di “accertamento clinico strumentale obiettivo”. Così
interpretata, peraltro, la norma recita comunque l’ovvio, dal momento che nessun
medico legale in mancanza di una qualche obiettività clinica, può valutare la sussistenza
di postumi permanenti. E’, dunque, sicuramente vero che il danno biologico per poter
essere risarcito deve essere obiettivamente esistente e la sua esistenza deve essere
riscontrata sulla base di una corretta criteriologia medico legale ma tale conclusione
andava sostenuta anche prima dell’introduzione degli artt.32 ter e quater dell’art. 139
12
Vedi BUFFONE G. Le tabelle legislative ex artt. 138-139 Codice assicurazioni private relazione per il
corso Come si liquida il danno civile” della Scuola superiore della magistratura tenutosi dal 16 ottobre al
18 ottobre 2013.
13
Vedi G. Cannavò “Micorpermanenti come (e se) cambia il lavoro del medico legale” in Danno e
Responsabilità, 2013, 10 pag. 925 e ss il quale a pag. 929 sottolinea che “uno dei problemi che ha posto
la L. 27/2012 sta sicuramente nel fatto che essa fa riferimento alla lesione e non alla menomazione
mentre il ruolo del medico legale ruota sull’accertamento causale tra evento lesivo, lesione e l’eventuale
menomazione e quindi sulla sua quantificazione”.
12
cod. ass. i quali, dunque, sembravano aver unicamente formulato in modo esplicito un
principio già implicito nel sistema.
Né si ritiene di poter interpretare tale norma nel senso di imporre al medico
legale l’adozione di specifiche e diverse modalità tecniche per l’accertamento e la stima
del danno alla persona atteso che “il modo in cui i fatti debbano essere accertati o
valutati è regolato dalle regole della scienza, non del diritto”14. Va, peraltro, evidenziato
che molti uffici giudiziari, dopo la riforma in esame, hanno ritenuto di “aggiustare” o
modificare il quesito da sottoporre al CTU nei giudizi di risarcimento del danno
derivanti da sinistri stradali15.
Occorre, peraltro, ricordare che la stima dei danni alla persona da parte del
medico legale avviene comparando lo stato obiettivo di salute della vittima con le
indicazioni suggerite da apposite tabelle o baremes, nelle quali a ciascun tipo di
invalidità è associata una misura percentuale. Al fine di quantificare il danno biologico
si debbono, dunque, compiere due operazioni: con la prima, di carattere medico legale,
si procede alla misurazione dell'invalidità, misurazione che viene effettuata in termini
percentuali immaginando che sia uguale a 100 la validità di un individuo privo di
malattie o disfunzioni che ne limitino in qualche modo la possibilità di svolgimento
delle normali attività dell'esistenza; con la seconda si assegna, in genere, una somma per
ogni punto riconosciuto, così monetizzando la lesione.
Per avere un parametro di riferimento con il quale determinare la percentuale di
invalidità permanente il medico legale ricorre a delle tabelle di invalidità o bareme. I
baremes medico legali si dividono in due categorie: obbligatori e facoltativi. I primi
sono approvati con atti normativi, e la loro adozione è ineludibile da parte sia dal
medico legale che del giudice (ad es., in tema di danni alla salute con esiti
micropermanenti, il bareme approvato con D.M. 3 luglio 2003, cui rinvia l'art. 139 cod.
ass.16). I secondi non hanno natura di fonte normativa, sono liberamente elaborati dalla
comunità scientifica e dalle varie scuole di pensiero che la compongono17.
14
Così M. Rossetti “Il quesito medico legale dopo la riforma dell’art. 139 cod. ass.” in Danno e
responsabilità, 2013, 10 pag. 933
15
Tra questi il Tribunale di Milano che ha reso noto il nuovo quesito medico legale approvato
dall’Osservatorio sulla giustizia civile del tribunale di Milano il 10 aprile 2013
16
Il d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 all’art. 13 al III comma ha demandato al Ministero del Lavoro, previa
delibera del consiglio di amministrazione dell'INAIL l'approvazione di una tabella delle menomazioni
comprensiva degli aspetti dinamico relazionali del danno alla salute. Detta tabella è stata poi approvata
13
Se si tiene conto che tra i vari bareme sussistono delle differenze conseguenti ai
diversi principi cui gli stessi si ispirano, già si vede come a seconda del tipo di bareme
utilizzato si possa giungere, per lo stesso caso, a diverse percentualizzazioni
dell'invalidità con evidenti ripercussioni sulla monetizzazione della medesima. Tuttavia
la Suprema Corte di recente ha sottolineato che “Ciò non vuoi dire che tale stima possa
essere arbitraria od equitativa: equitativa può essere la monetizzazione del danno alla
persona, non certo la valutazione in corpore della sua entità. Pertanto, quando la scelta
del bareme medico-legale da adottare non sia imposta da alcuna norma, l'ausiliario
tecnico prima, ed il giudice poi, restano liberi di scegliere il bareme che ritengono più
autorevole, più moderno o più corretto, col solo obbligo di motivare la propria scelta18”.
Quanto alla applicabilità delle nuove norme ai processi pendenti deve
evidenziarsi che secondo una prima tesi, alle nuove norme deve essere attribuita natura
sostanziale in quanto incidono sulla stessa nozione di «danno biologico», così dunque
potendosi applicare solo ai fatti illeciti verificatisi dopo l’entrata in vigore. Alle stesse
conclusioni perviene chi colloca le nuove norme nell’ambito delle disposizioni che
regolano l’efficacia delle prove civili. L’opinione prevalente, tuttavia, assegna alle
nuove disposizioni carattere meramente interpretativo, in un settore carente, ab origine,
di criteri orientativi per l’accertamento del pregiudizio biologico così ritenendole
pienamente applicabili ai processi pendenti19.
con d.m. 12 luglio 2000 e rappresenta il primo riferimento normativo di un bareme medico legale
concepito essenzialmente con riferimento alla compromissione della validità biologica della persona.
17
Nel campo della responsabilità civile la tabellazione delle invalidità venne dapprima effettuata nel
1928 da Antonio Cazzaniga ed attualmente sono in uso più barème (la guida di Luvoni-Mangili-Bernardi,
quella di Louis Melennec, quella elaborata dalla American Medical Association) anche se quello che
sembra più seguito risulta essere la Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente
pubblicata dal SIMLA.
18
Cass. 17219 del 29/07/2014
19
Vd R. Partisani “La risarcibilità delle micropermanenti dopo la legge 24 marzo 2012 n. 27: il primato
dell’accertamento clinico strumentale obiettivo” in La responsabilità civile, 2012, 12 pag. 933
14
3. L’art. 138 cod. ass. e le tabelle giurisprudenziali
Come abbiamo già sopra evidenziato, per le lesioni cd. macropermanenti (10100), non sono state ancora adottate tabelle normative20. In tali casi suppliscono le
prassi degli uffici giudiziari e degli Osservatori sulla Giustizia Civile che hanno adottato
nel tempo tabelle cd. giurisprudenziali (previste, cioè, dal diritto vivente e non dalla
Legge). In tale contesto normativo e giurisprudenziale è intervenuta la Suprema Corte
con la sentenza n. 12408/2011 che, partendo dalla constatazione che, presso la
giurisprudenza di merito, esistono marcate differenze non solo dei valori adottati per la
liquidazione, ma anche in relazione al metodo utilizzato ai fini della stessa,
determinandosi divergenze di trattamento assai accentuate tra le vittime di identiche
lesioni, ha osservato che tale fenomeno “vulnera elementari principi di eguaglianza,
mina la fiducia dei cittadini nell'amministrazione della giustizia, lede la certezza del
diritto, affida in larga misura al caso l'entità dell'aspettativa risarcitoria, ostacola le
conciliazioni e le composizioni transattive in sede stragiudiziale, alimenta per converso
le liti” mentre la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione
all'integrità psico fisica, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, presuppone
l'adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazioni uniformi. La
20
La norma, già in vigore dal 1ºgennaio 2006, aveva altresì indicato, nel comma 2 anche i principi ed i
criteri di redazione della tabella unica nazionale. A tale effetto, offriva innanzitutto una definizione del
danno biologico, più completa delle precedenti già codificate, da intendersi come « lesione temporanea
o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che
esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del
danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito ». I
criteri adottati dal legislatore delegato del 2005 per la predisposizione della tabella unica nazionale
prevedevano il sistema a punto variabile in funzione dell'età e del grado di invalidità. Il valore
economico del punto sarebbe stato dunque funzione crescente della percentuale di invalidità, mentre
l'incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato sarebbe
cresciuta in modo più che proporzionale rispetto all'aumento percentuale assegnato ai postumi. Lo
stesso valore economico del punto sarebbe invece risultato funzione decrescente dell'età del soggetto,
sulla base delle tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT, al tasso di rivalutazione pari all'interesse legale.
Infine, il danno biologico temporaneo inferiore al cento per cento sarebbe stato determinato in misura
corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno (comma 2) . Erano altresì
contemplati precisi criteri di personalizzazione del danno, in quanto nella ipotesi in cui la menomazione
accertata avesse inciso in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali,
l'ammontare del danno determinato ai sensi della tabella unica nazionale avrebbe potuto essere
aumentato dal giudice sino al trenta per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni
soggettive del danneggiato (comma 3) . Gli importi stabiliti nella tabella unica nazionale sarebbero stati
infine annualmente aggiornati, con decreto del Ministro delle attività produttive, in misura
corrispondente alla variazione dell'indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed
impiegati accertata dall'ISTAT.
15
Suprema Corte ha, dunque, affermato che l'adozione della regola equitativa di cui
all'art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del
caso concreto, ma anche uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo
intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in
misura diversa solo perché esaminati da differenti uffici giudiziari. Dunque, la scelta
deve essere effettuata tra "i tanti criteri concretamente adottati dalla giurisprudenza".
Tuttavia, chiarito che essi si pongono tutti su un piano di pari dignità
concettuale, le difficoltà si rinvengono nella selezione dei criteri maggiormente in linea
con la nozione di equità delineata dalla Corte di Cassazione. La Corte presenta la
propria scelta quasi come obbligata nel senso che i giudici di merito di ben sessanta
tribunali "hanno posto a base del calcolo medio i valori di riferimento per la
liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano, dei quali è dunque
già nei fatti riconosciuta una sorta di vocazione nazionale". I giudici di legittimità
ribadiscono di avere assunto la tabella milanese a parametro in linea generale attestante
la conformità della valutazione equitativa del danno in parola alle disposizioni di cui
agli artt. 1226 e 2056 c.c. attraverso un percorso sostanzialmente ricognitivo volto a
prevenire critiche in merito alla legittimità dell'intervento della Corte che andrebbe a
supplire un vuoto normativo. La Corte, per sostenere la legittimità della sua decisione,
procede rivisitando il concetto giuridico di equità. Per la Cassazione n. 12408/2011
equità non vuol dire arbitrio ma mezzo per assicurare l'intima coerenza
dell'ordinamento, garantendo che casi uguali non siano trattati in modo diseguale. Ne
segue che l'equità non è più regola del caso concreto o rimedio occasionale
all'insufficienza della legge positiva, ma un principio fondamentale del sistema che
assicura la parità di trattamento. Il conseguimento di una ragionevole equità (nella
liquidazione del danno non patrimoniale) deve ubbidire a due principi che essendo
tendenzialmente contrapposti (la fissazione di criteri generali e la loro adattabilità al
caso concreto) non possono essere applicati in modo "puro". Il componimento delle due
esigenze di cui si è detto richiede sistemi di liquidazione che associno all'uniformità
pecuniaria di base del risarcimento, ampi poteri equitativi del giudice, eventualmente
entro limiti minimi e massimi, necessari al fine di adattare la misura del risarcimento
alle circostanze del caso concreto. Peraltro, tale esigenza di contemperamento tra i due
principi è appunto ciò che ha fondato la nascita delle tabelle e l'evoluzione del danno
alla persona fino ai nostri giorni. Giunti a questo punto della costruzione della regola
dell'equità non restava che passare alla scelta del criterio di base che realizzasse la
richiamata "uniformità pecuniaria". Scartato il criterio della media aritmetica delle
misure presenti nelle decisioni precedenti di Tribunali ubicati nelle più svariate zone del
nostro paese, (perché la media sarebbe arbitrariamente effettuata tra valori ponderali
assai differenti), la scelta ricade sulla tabella milanese, che già avrebbe una vocazione
16
nazionale. Una caratteristica positiva di questa tabella viene pure individuata nel fatto
che l'ultimo aggiornamento effettuato dopo le sentenze del 2008 ha anche apportato un
importante cambiamento nella intitolazione, da "Tabella di liquidazione del danno
biologico" a "Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale da
lesione all'integrità psico-fisica e della perdita/grave lesione del rapporto parentale".
Le tabelle milanesi, peraltro, nel rifarsi a una nozione unitaria di danno non
patrimoniale, si sono ben guardate dal far confluire tutte le ripercussioni non
patrimoniali in seno al danno biologico: la valutazione del punto appare, infatti, riferita
al danno non patrimoniale (derivante da lesione alla salute) complessivamente inteso.
Ciò implica che l'applicazione delle tabelle milanesi non ha determinato, per alcun
verso, la cancellazione del danno morale proponendo la liquidazione congiunta del
danno non patrimoniale conseguente alla lesione permanente dell'integrità psicofisica
suscettibile di accertamento medico legale (id est, del danno biologico) e del danno non
patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore, sofferenza
soggettiva, in via di presunzione, in riferimento a un dato tipo di lesione. Vale a dire la
liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di danno biologico
standard, personalizzazione del danno biologico, danno morale
Si ritiene, dunque, che “uno dei modi possibili per pervenire, necessariamente
sempre in via equitativa, ad una liquidazione unitaria è, infatti, l'adozione di tabelle che
includano nel punto base la relativa considerazione, dando perciò per presunta - quindi,
in media, generalizzata, secondo l'id quod plerumque accidit - l'esistenza di un tale tipo
di pregiudizio, pur se non accertabile per via medico-legale, operando, perciò, non sulla
percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente
liquidazione. Si tratta, come detto, di una presunzione, accettabile quanto meno per le
invalidità superiori al 10%, rispetto alle quali può reputarsi "normale" che vi siano
profili prettamente soggettivi di ansia, preoccupazione, turbamento, dispiacere, collegati
al pregiudizio fisico, salvo prova contraria, che può essere, a sua volta, anche
presuntiva. Così opinando, la liquidazione c.d. tabellare ben può considerare anche la
componente prettamente soggettiva data dalla sofferenza morale conseguente alla
lesione della salute, sia pure in una dimensione, per così dire, standardizzata, come
risulta essere stato fatto con le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, alla stregua
delle esplicazioni fornite in occasione della loro diffusione. Consegue a quanto fin qui
detto che, applicando il valore c.d. tabellare del punto, vale a dire il valore medio, pur se
comprensivo della componente di pregiudizio soggettivo di cui si è fin qui detto, non si
ha ancora la vera e propria personalizzazione del danno. Onde valutare nella loro
effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche, patite dal soggetto leso e
pervenire al ristoro del danno nella sua interezza, il giudice, se ed in quanto vengano
addotte circostanze che richiedano la variazione della liquidazione tabellare in aumento
17
o in diminuzione, di queste dovrà tenere conto al fine di escludere od ammettere la
personalizzazione, esplicitando in motivazione se e come abbia considerato tutte tali
circostanze21”.
E, così, a partire dalla sentenza n. 12408 del 7 giugno 2011, la Suprema Corte ha
indicato come «tabella giurisprudenziale di riferimento», quella elaborata dal Tribunale
di Milano.
Tuttavia non ci si può esimere dal notare che anche questa scelta potrebbe
soggiacere ad una critica "a contrariis" rispetto alla motivazione che è servita per
scartare la regola della media delle decisioni di vari Tribunali, quando si legge nella
sentenza e nella relazione di presentazione dell'ultima edizione della tabelle, che i
calcoli si sono basati esclusivamente su precedenti degli uffici giudiziari di Milano. Là
si formulò la tesi dell'arbitrarietà di una media effettuata tra valori con pesi ponderali
assai differenti, ma qui si potrebbe dire che l'osservazione effettuata in un ristretto
campo settoriale, trasportato alla valenza per tutto il vasto territorio nazionale, non tenga
conto delle diversità economiche e sociali dei diversi contesti territoriali. Con questa
osservazione non si vuole inficiare la scelta della Suprema Corte ma soltanto segnalarne
i limiti. Tra l'altro, la massima ricavata dalla sentenza apre alla possibilità di future
decisioni che perfezionino il sistema, quando si scrive che l'indicazione della tabella
milanese è valida fino a quando non sussistano in concreto circostanze idonee a
giustificarne l'abbandono.
In quest'ottica si pone, ad esempio, il Tribunale di Roma che ha confermato
anche per il 2015 l'adozione di tabelle in cui il valore del punto è riferito esclusivamente
al danno biologico, mentre attraverso un calcolo percentuale viene individuata la
componente relativa alle ulteriori ripercussioni non patrimoniali patite dal danneggiato.
Il Tribunale di Roma, infatti,22 sottolinea che la tabella di Milano «ricomprende nel
valore di punto, graduato per percentuale d'invalidità, anche il valore per la componente
relazionale e quella morale soggettiva dell'unitario danno non patrimoniale, lì dove la
tabella romana valorizza tali componenti sul piano della personalizzazione, a sua volta
graduata per classi di percentuali di invalidità» e osserva che l'applicazione della tabella
«in uso presso il Tribunale di Roma, il quale oltre ad essere il più grande d'Italia tratta
circa il 20% del contenzioso in materia di responsabilità civile, non frustra la giusta
esigenza della parte di ottenere un integrale risarcimento dei pregiudizi sofferti, ma anzi
21
Così Cass. n. 5243 del 06/03/2014; cfr. Cass. n. 9231/13
22
Trib. Roma, 9 gennaio 2012, www.personaedanno.it
18
consente la più ampia valorizzazione di tutte le sue componenti accertate in concreto»23.
E’ opportuno, peraltro, evidenziare che si tratta di un orientamento non univoco in
quanto, in altre pronunce, gli uffici romani hanno aderito alla pronuncia della Suprema
Corte abbandonando l’utilizzo delle tabelle romane24 e che ad oggi, l’indirizzo di
legittimità che dà esclusivo soggiorno alle tabella milanese, nell’applicazione dell’art.
1226 c.c. al danno alla persona, non è stato revocato in dubbio dalla Cassazione e,
pertanto, costituisce a tutti gli effetti diritto vivente .
L’utilizzo delle tabelle non deve, in ogni caso, costituire attività meramente
esecutiva di un criterio di calcolo standardizzato poiché, altrimenti, l’attività di
liquidazione sarebbe solo “parziale”. Giova, infatti, ricordare che il sistema di
liquidazione si articola in due fasi: il giudice dapprima, accertata la percentuale nella
quale la lesione incide sulla condizione psico - fisica del soggetto leso, determina un
ammontare di base, ricavandolo da un calcolo svolto secondo le regole proprie del
modello equitativo predeterminato che si è inteso adottare; in un secondo momento, il
giudice prende in considerazione le circostanze del caso concreto in cui la lesione si è
verificata e decide se e come adeguare ad essa la somma in un primo momento
individuata. Attiene sempre alla prima fase l'elaborazione di criteri tendenzialmente
uniformi, elaborati sulla base dell'esame di situazioni tipiche e privi di elementi
peculiari in cui, partendo dall'esatta considerazione dell'esperienza e riflessione medico
legale e giudiziaria ed osservando come ben diversa sia la compromissione che ogni
punto aggiuntivo di invalidità comporta per l'integrità e l'efficienza psicofisica del
soggetto, si è differenziato il valore del punto di invalidità in relazione alla riduzione
della capacità psicofisica ed alla età del soggetto, abbandonando il criterio del valore
fisso del punto di invalidità. Rimane fermo però che l'utilizzabilità della "tabella" da
parte del giudice trova fondamento pur sempre nel suo potere - dovere di procedere alla
liquidazione con criterio equitativo ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., a cui è insito,
anche lì dove si pongano come punti di partenza criteri predeterminati e standardizzati,
23
La giurisprudenza in esame, peraltro, ha inteso discostarsi dai principi di Diritto enunciati dal giudice
superiore, introducendo sia argomenti di merito, concernenti precipuamente il sistema liquidatorio
milanese, giudicato non condivisibile nella sistematica adottata (v. ad es., Trib. Roma, sez. XIII, sentenza
26 settembre 2013 n. 19089, est. R. Parziale) sia segnalando come quelle tabelle facciamo riferimento
ad un dato contesto territoriale e, dunque, ad esempio, per la realtà romana, siano più confacenti quelle
romane, poiché ricavate dalla media delle liquidazioni adottate nell’ambito del circondario di
riferimento (v. ad es., Trib. Roma, sez. XII, sentenza 23 settembre 2013 n. 18922, est. C. Cartoni ).
24
In tal senso v. Corte App. Roma, sez. III, sentenza 10 gennaio 2012 n. 1, Pres. Azara, est. Di Matteo; v.
Corte App. Roma, sez. III, sentenza 16 gennaio 2013 n. 307, Pres. Azara, est. Buonomo; Corte App.
Roma, sez. III, sentenza 23 gennaio 2013 n. 445, Pres. Buonomo, est. Rizzo).
19
la valutazione del caso concreto e specificamente, quali elementi di riferimento
pertinenti, la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l'età, l'attività
espletata, le condizioni sociali e familiari del danneggiato. In altri termini, anche
l'adozione della cosiddetta "tabella" non esonera il giudice dalla dovuta
personalizzazione dei valori dei punti al caso concreto, nonostante che la tabella sia
costruita in genere con riferimento ai parametri dell'età e del grado di invalidità del
soggetto leso, in quanto ciò attiene ad un'evoluzione e perfezionamento della prima fase
operativa, e cioè l'individuazione di parametri il più possibile uniformi tra casi
astrattamente simili, ma non incide sull'opera di personalizzazione del parametro al caso
concreto.
3.1. L’adozione di tabelle diverse da quelle milanesi dopo Cass. N. 12464/2012 e
regime processuale applicabile alle tabelle giurisprudenziali
A seguito della citata sentenza della Corte di cassazione n. 12464/2011 che ha
individuato le tabelle milanesi quali tabelle giurisprudenziali di riferimento, occorre
chiedersi se siano tabelle cui il giudice è obbligato ad uniformarsi o se le stesse vadano
rappresentate, più semplicemente, come parametro cui risulta necessario rapportarsi
nel procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di garantire la
congruità del relativo importo. Muovendosi in quest'ultima prospettiva25, sembra
ammissibile che il giudice addivenga a valutazioni determinate secondo differenti
criteri, purché egli fornisca adeguata motivazione in ordine allo scostamento
quantitativo cui risulti essere pervenuto. In buona sostanza, nel motivare circa l'equità
della somma liquidata, il giudice non potrebbe oggi prescindere da un confronto con le
somme ricavabili, entro il range di oscillazione previsto dai meccanismi di
personalizzazione, dall'applicazione delle tabelle milanesi. Il termine di riferimento
viene, così, ad essere incarnato da quel parametro che ha trovato più consistente
diffusione e che, come tale, è stato ritenuto più idoneo a rispecchiare la valutazione
operata dalla coscienza sociale per quanto concerne la traduzione in denaro del
pregiudizio non patrimoniale derivante dalla lesione alla salute.
25
Tale prospettiva pare essere confermata da Cass. civ., 29 maggio 2012, n. 8557, ove — a fronte della
lamentata liquidazione di un risarcimento del danno morale per morte del congiunto in misura inferiore
a quella delle tabelle locali — i giudici di legittimità osservano che non «si pone alcun problema di
eventuale applicabilità di diverse tabelle quali, ad esempio, quelle del Tribunale di Milano, cui questa
Corte ha riconosciuto valenza generale di parametro di conformità della valutazione equitativa del
danno nella recente pronuncia 7 giugno 2011, n. 12408. A queste tabelle, infatti, il ricorrente ha fatto
solo un generico richiamo nelle memorie presentate ai sensi dell'art. 378 c.p.c., sicché l'argomento non
trova ingresso nel presente giudizio».
20
Tale ultimo orientamento è stato recentemente confermato da Cass. 25 febbraio
2014, n. 4447. Invero, per la Suprema Corte il valore delle tabelle milanesi va inteso
non già nel senso di avallare l'idea che le dette tabelle ed i loro adeguamenti siano
divenute esse stesse in via diretta una normativa di diritto, che occorrerebbe
necessariamente qualificare all'interno della categoria delle fonti per come regolata, sia
pure ormai indirettamente per quanto concerne il concetto di legge, dall'art. 1 preleggi
(ma non solo), bensì nel senso che esse integrino i parametri di individuazione di un
corretto esercizio del potere di liquidazione del danno non patrimoniale con la
valutazione equitativa normativamente prevista dall'art. 1226 c.c. Le Tabelle sono
dunque "normative" nel senso che sono da riconoscere come parametri di corretto
esercizio del potere di cui all'art. 1226 e, dunque, di corretta applicazione di tale norma.
Esse hanno, pertanto, valore normativo nel senso che forniscono gli elementi per
concretare il concetto elastico previsto nella norma dell'art. 1226 c.c. Esse, quindi,
assumono rilievo come una sorta di elemento extratestuale della norma dell'art. 1226
c.c., ravvisato dalla Suprema Corte con riferimento a ciò che si è evidenziato nel
multiforme divenire della società e, quindi, nelle applicazioni concrete, con riferimento
al problema della ricerca di parametri di equità nella valutazione del danno non
patrimoniale.
Va, peraltro, evidenziato che, secondo Cass. civ., 2 agosto 2011, n. 16866 «il
giudice di merito può anche ispirarsi a criteri predeterminati e standardizzati, come il
cosiddetto criterio tabellare, desunto dai precedenti giudiziari dell'ufficio di merito che
provvede alla liquidazione: in tal caso, non deve motivare in ordine al criterio applicato,
mentre, qualora se ne discosti, adottando le tabelle in uso presso altro ufficio
giudiziario, è tenuto a dare ragione della diversa scelta»: a dover essere motivata,
secondo questa prospettiva, sarebbe allora l'adozione delle tabelle milanesi in luogo di
quelle in uso presso l'ufficio.
Quanto alla tipologia di vizio della decisione che facesse applicazione di tabelle
diverse da quelle di Milano, va rilevato che i giudici di legittimità, con la medesima
sentenza n. 12408/2011, con la quale l’adozione generalizzata viene sancita, specificano
- in ogni caso - che non sarà possibile il ricorso in cassazione, per violazione di legge,
verso le sentenze d'appello “per il solo fatto che non sia stata applicata la tabella di
Milano e che la liquidazione sarebbe stata di maggiore entità se fosse stata effettuata
sulla base dei valori da quella indicati, ma occorrerà che il ricorrente si sia
specificamente doluto in secondo grado, sotto il profilo della violazione di legge, della
mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che,
inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono
comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti”.
21
Si veda la recentissima Cass., 20 maggio 2015, n. 10263 secondo la quale “La
mancata adozione da parte del giudice di merito delle Tabelle di Milano in favore di
altre, ivi ricomprese quelle in precedenza adottate presso la diversa autorità giudiziaria
cui appartiene, integra violazione di norma di diritto censurabile ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3, c.p.c.”
Secondo Cass. civ. 14402/2011, integra invece un vizio di motivazione ex art.
360 n. 5 c.p.c. atteso che i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a
riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non
patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore
ammontare cui sia diversamente pervenuto, e che, dunque, è incongrua la motivazione
che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che,
avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella
cui l'adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire
Con particolare riferimento al giudizio di legittimità, perché il ricorso non sia
dichiarato inammissibile per la novità della questione posta, non sarà sufficiente che in
appello sia stata prospettata l'inadeguatezza della liquidazione operata dal primo
giudice, ma occorrerà che il ricorrente si sia specificamente doluto in secondo grado,
della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano e
che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi
sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti26. In relazione al
giudizio di gravame, sembrerebbe che la adozione delle tabelle milanesi a fronte di
quelle diverse adottate dal giudice di prime cure sia subordinata alla dimostrazione,
posta a carico dell’appellante, di avere chiesto l’impiego di tali tabelle già in primo
grado e che l’applicazione delle tabelle di Milano avrebbe condotto al riconoscimento di
una somma maggiore di quella accordata27.
Giova ricordare che anche la questione relativa all’utilizzo delle tabelle è suscettibile di
passare in giudicato: quanto, ad esempio, accade dove le parti non impugnino il capo
della sentenza di merito che ha applicato una data tabella e siano in disappunto
unicamente sull’uso (fatto di quella tabella) aggiornato o non28.
26
Cass. Civ., sez. III, 19 luglio 2012 n. 12464 e di recente Cass. n. 24205 del 13/11/2014, e la recentissima
Cass. N. 3380 del 20/02/2015
27
Corte App. Roma, sez. III, sentenza 1 febbraio 2012 n. 59, Pres. Buonomo, est. Di Marzio
28
Cass. Civ., sez. III, 29 maggio 2012 n. 8557
22
Secondo la giurisprudenza consolidata29, le tabelle giurisprudenziali non
costituiscono documenti in senso proprio, non integrano nuovi elementi di fatto e
devono comunque essere acquisite in giudizio ove il giudice di merito abbia fatto
specifico richiamo a dette tabelle, avendo esse natura di allegazioni difensive in certa
misura paragonabili a riferimenti giurisprudenziali30. Esse, pertanto, possono essere
prodotte anche in sede di legittimità, da parte di chi ne lamenti l'erronea applicazione da
parte del giudice di merito, senza che ciò violi il divieto di cui all'art. 372 cod. proc.
civ.31. Ciò, tuttavia, non esclude che «le tabelle siano date per pacificamente conosciute
dalle parti e dal giudice» e che le stesse possano costituire elemento posto alla base
della decisione anche se non materialmente presenti negli atti di causa. Si potrebbe,
dunque, arrivare a considerare la «notorietà» che le tabelle hanno ormai assunto
riconducendole (quanto meno quelle milanesi) nell’ambito dei “fatti notori”32..
Proprio la natura sui generis delle tabelle giurisprudenziali, nel quadro degli
elementi di causa, conduce a delle regole precipue, ad esempio in tema di cd.
“sopravvenienze tabellari”. Si è, ad esempio ritenuto che se le tabelle applicate per la
liquidazione del danno non patrimoniale da morte di un prossimo congiunto cambino
nelle more tra l'introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice (anche d'appello)
ha l'obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione33.
3.2. Lo schema di decreto attuativo dell'art. 138, d.lgs. 209/2005
29
Per una disamina, v. AINA, L'utilizzo delle tabelle nella liquidazione del nuovo danno non patrimoniale
in Nuova Giur. Civ., 2010, 2,2, 101
30
In tal senso, Cass. Civ., sez. III, sentenza 29 maggio 2012 n. 8557; così, già, Cass., 8 maggio 2001, n.
6396
31
Così Cass. Civ. 8557/12 cit.
32
Valga sul punto ricordare che, secondo la giurisprudenza più recente della Suprema Corte (Cass. Civ.,
Sez. II, sent. 19 agosto 2010 n. 18748), il "notorio" oggi ricorre quando una persona di ordinario livello
intellettivo e culturale vivente in quel contesto storico ed ambientale, può avere agevole conoscenza del
"fatto" ritenuto noto, anche tramite elementi che possono essere tratti dalle correnti informazioni
frequentemente diffuse da organi di stampa o radiotelevisivi, alla cui opera informativa e divulgativa va
ormai riconosciuto, agli effetti dell'articolo 115 c.p.c., comma 2, l'innalzamento della soglia del c.d.
"notorio", costituente l'ordinario patrimonio di conoscenza dell'uomo medio, rispetto a precedenti
epoche, caratterizzate da un più basso livello socio - culturale generale della popolazione e da minore
capacità diffusiva dei mezzi d'informazione di massa
Cass. Civ., sez. III, sentenza 11 maggio 2012 n. 7272. Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la
sentenza di appello, sotto il profilo della violazione di legge, avendo la stessa provveduto ad una
semplice rivalutazione degli importi liquidati in base alle tabelle vigenti alla data della decisione di primo
grado, e non più in uso al momento della pronuncia impugnata
33
23
Per concludere l’esame dell’art. 138 cod. ass. occorre evidenziare che il
Consiglio dei ministri nella riunione del 3 agosto 2011 - dunque a distanza (giudicata
quanto meno sospetta) di meno di due mesi dalla introduzione per via di sentenza, su
tutto il territorio nazionale, delle tabelle milanesi che avrebbero consentito risarcimenti
ben più corposi, in favore delle vittime della strada – ha approvato lo schema di
regolamento recante la tabella delle menomazioni all'integrità psicofisica comprese tra
10 e 100 punti di invalidità, in attuazione dell'art. 138 del d.lgs. 7 settembre 2005, n.
209. La struttura del decreto ministeriale è estremamente scarna ed essenziale poiché
consta di un unico articolo, nel quale si dà atto della approvazione della tabella unica
nazionale delle menomazioni alla integrità psicofisica compresa tra 10 e 100 punti di
invalidità (lett. a) , nonché del valore pecuniario da attribuire a ciascun singolo punto di
invalidità (lett. b) , entrambe in allegato al decreto unitamente alle rispettive note
introduttive sui criteri applicativi.
La Relazione illustrativa rende conto delle finalità sottese al regolamento
ministeriale il quale, allineandosi alla giurisprudenza che ai medesimi effetti aveva
invece suggerito l'impiego delle tabelle milanesi su tutto il territorio nazionale, avrebbe
dovuto rimediare alla disparità di trattamento nella liquidazione del danno biologico
causato dai sinistri stradali, fino a quel momento affidata all'alea delle differenti tabelle
in uso presso ciascun ufficio giudiziario.
Il novero delle malattie tabellate, in numero di 156, risulta esiguo ed incompleto
al confronto della tabella contenente le voci di invalidità, nel maggior numero di 387,
utilizzata dall'INAIL per l'indennizzo del danno biologico derivante dagli infortuni sul
lavoro (d.m. 12 luglio 2000), senza considerare l'ampia discrezionalità concessa al
medico legale nella determinazione del grado di invalidità permanente, in quelle ipotesi
di preesistenze ovvero di lesioni plurime monocrone , da valutarsi di volta in volta, in
ragione della maggiore o minore incidenza di danni fra loro concorrenti.
Sul presupposto che, per caratteristiche proprie, talune patologie possano
assumere forme assai differenti, variabili da persona a persona, la tabella allegata al
decreto ministeriale ha inoltre contemplato delle « forchette », ossia valori di invalidità
minima e massima a seconda del differente quadro clinico che possa giustificare una
adeguata valutazione personalizzata del danno, anche per tale via tuttavia
implementando il tasso di discrezionalità del medico legale e, con esso, della potenziale
conflittualità tra le parti .
Nella determinazione dei coefficienti moltiplicatori del punto di invalidità
permanente per postumi superiori al 9% (All. III) , il decreto ministeriale ha ritenuto di
includere nella tabella, per ragioni di completezza, anche i coefficienti dall'1% al 9%,
24
cosicché la progressione dei primi risultasse coerente con gli stessi della tabella
economica delle c.d. micropermanenti, al fine di evitare un eccessivo divario nei valori
monetari nel passaggio fra i gradi di invalidità dal 9% al 10% . I valori del punto così
ricavati sono tuttavia risultati tali da ridurre sensibilmente il risarcimento del danno alla
persona coinvolta in un sinistro stradale, con riduzioni sino al 40%-50% degli importi
attualmente liquidati in applicazione della tabella in uso presso il Tribunale di Milano,
medio tempore applicata anche al comparto della r.c. auto, secondo la Cass. civ., 7
giugno 2011, n. 12408, citata. Tanto lo si deve non solo all'impiego d'un duplice criterio
d'abbattimento del valore del punto in funzione della età , ma anche all'adozione, come
dato economico di base, del valore già previsto dall'art. 139, d.lgs. n. 209/2005, per il
primo punto di invalidità all'età zero (Euro 674,78) , rivalutato al 2005 (All. III) , senza
tuttavia considerare che il punto base di liquidazione delle micro permanenti è stato nel
frattempo annualmente aggiornato.
Le incongruità dello schema di decreto in rassegna, ed in specie l'ingiustificato
deteriore trattamento riservato dalle nuove tabelle assicurative alle vittime della strada,
non ha lasciato indifferenti nemmeno le istituzioni. Nella seduta n. 540 del 24 ottobre
2011, la Camera dei Deputati ha infatti approvato (con amplissima maggioranza di
voto) la mozione che « impegna il Governo a ritirare il provvedimento, ingiustificato e
lesivo dei diritti dei danneggiati, e a predisporre, in tempi rapidi, un nuovo decreto teso
a determinare valori medi di risarcimento del danno biologico per le lesioni di non lieve
entità che prendano a riferimento quelli delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano».
Numerose sono state anche le considerazioni critiche espresse nei confronti del suddetto
schema di decreto ministeriale d'attuazione dell'art. 138, commi 1 e 2, cod. ass., da parte
della Sezione consultiva del Consiglio di Stato, nella adunanza in data 8 novembre
2011. Il Consiglio di Stato ha osservato che la tabella relativa ai coefficienti
moltiplicatori del punto di invalidità allegata allo schema del decreto attuativo,
contempla anche le lesioni di lieve entità, comprese tra 1 e 9 punti di invalidità. Così
facendo, il Governo avrebbe mostrato la chiara intenzione di attuare, nella stessa sede,
anche l'art. 139 del d.lgs. n. 209/2005, ciò che avrebbe, tuttavia, dovuto implicare una
modifica dello schema di decreto tanto nella intitolazione quanto nelle premesse, nel
testo e nei relativi allegati, ai fini della contestuale abrogazione del decreto
interministeriale che attualmente regola la stessa materia. Paventando la disapplicazione
della norma regolamentare da parte del giudice investito della domanda di risarcimento,
ha altresì osservato, con riguardo alla tabella dei coefficienti moltiplicatori del punto di
invalidità (All. III), che la progressione ivi prevista non sembra corrispondere ai principi
e criteri stabiliti dall'art. 138, comma 2, lett. c) , d.lgs. n. 209/2005, secondo il quale il
valore economico del punto è funzione crescente della percentuale di invalidità e
l'incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del
25
danneggiato cresce in modo più che proporzionale rispetto all'aumento percentuale
assegnato ai postumi. Al fine di dirimere in radice ulteriori possibili contenziosi, il
Consiglio di Stato ha infine ritenuto opportuno che lo schema di decreto in esame
specifichi sia il campo di sua applicazione, da doversi espressamente limitare ai sinistri
derivanti dalla circolazione dei veicoli, sia la disciplina transitoria che consenta di
stabilire se i nuovi criteri di liquidazione del regolamento attuativo trovino applicazione
in tutti i sinistri non ancora definiti, ancorché l'evento di danno si fosse verificato prima
della loro entrata in vigore.
26
4. Il danno patrimoniale
Sin qui abbiamo esaminato il danno non patrimoniale alla persona, ora occorre
affrontare il tema, ugualmente complesso, del danno patrimoniale che la vittima di un
illecito può subire.
Esso trova il suo fondamento nell’art. 1223 c.c. e si definisce come una diminuzione del
patrimonio, leso dalla altrui condotta, direttamente nella sua consistenza anche per
effetto delle spese sostenute dal danneggiato per la ricostituzione delle cose sulle quali
ha avuto incidenza la causa dannosa, ovvero indirettamente con la perdita o riduzione
del reddito o con il venir meno di una attesa di guadagno34.
Dunque il danno patrimoniale comprende due distinte ipotesi: quella della perdita subìta
o danno emergente (che si verifica per spese sostenute o per perdita di beni o situazioni
vantaggiose di cui il danneggiato già godeva prima dell’evento generatore di danno) e
quella del mancato guadagno o lucro cessante (per assenza di acquisizioni di beni o
vantaggi che il danneggiato avrebbe conseguito se non fosse intervenuto l’evento
generatore di danno e sempre che la diminuzione non sia meramente ipotetica, ma
basata su ragionevole e fondata previsione).
Il lucro cessante calcola la quantità di guadagno che il danneggiato non potrà percepire
e aggiungere al suo patrimonio a causa dell'evento che lo ha colpito e danneggiato. In
sostanza, nella categoria del lucro cessante rientrano tutti i futuri guadagni che si erano
previsti e che la persona perderà a causa dell'evento.
Invece, il danno emergente viene definito dal codice civile come "perdita subita".
Sia la perdita che il mancato guadagno devono essere – ex art. 1223 c.c. – conseguenza
immediata e diretta dell’illecito ovvero ad esso collegati mediante uno stretto rapporto
di causa ad effetto. Una volta che sia stata dimostrata l’esistenza del danno, l’art. 1226,
richiamato dall’art. 2056 c.c., ne consente la liquidazione equitativa (che può
conglobare in sé anche la rivalutazione monetaria e gli interessi) ove esso non possa
essere determinato nel suo preciso ammontare.
4.1. Le fattispecie più ricorrenti di danno emergente nei sinistri stradali
Il danno emergente consiste, dunque, nella diminuzione del patrimonio leso dall’altrui
condotta direttamente nella sua consistenza. Tra i danni patrimoniali emergenti possono
essere incluse le spese sostenute dal danneggiato per la ricostruzione o la riparazione
delle cose su cui ha avuto incidenza la causa dannosa, le spese di cura presenti e future,
34
così Cass. civ., 12 aprile 1984 n. 2368
27
quelle di sepoltura, le spese per l'attività stragiudiziale e quelle per il vestiario
danneggiato nel corso dell'incidente.
In linea di principio il danno patrimoniale alle cose deve rispondere alla regola del
“pieno ripristino” dello status quo ante (cioè pagamento del controvalore effettivo del
bene danneggiato, ad esempio l’autoveicolo, gli oggetti personali, un orologio, il
vestiario).
Quanto, in particolare, al danno ai veicoli, deve evidenziarsi che, in linea generale, il
danneggiato ha diritto a vedersi risarcire il costo delle riparazioni, laddove inferiore al
valore commerciale del mezzo, ovvero quest’ultimo se il primo risulti maggiore. La
Suprema Corte ha, infatti, evidenziato che la domanda di risarcimento del danno subito
da un veicolo a seguito di incidente stradale, quando abbia ad oggetto la somma
necessaria per effettuare la riparazione dei danni, deve considerarsi come richiesta di
risarcimento in forma specifica, con conseguente potere del giudice, ai sensi dell'art.
2058, secondo comma, cod. civ., di non accoglierla e di condannare il danneggiante al
risarcimento per equivalente, ossia alla corresponsione di un somma pari alla differenza
di valore del bene prima e dopo la lesione, allorquando il costo delle riparazioni superi
notevolmente il valore di mercato del veicolo 35. Ne consegue che, in caso di domanda
di risarcimento del danno subito da un veicolo a seguito di incidente stradale, costituita
dalla somma di denaro necessaria per effettuare la riparazione dei danni, in effetti si è
proposta una domanda di risarcimento in forma specifica. Se detta somma supera
notevolmente il valore di mercato dell'auto, da una parte essa risulta eccessivamente
onerosa per il debitore danneggiante e dall'altra finisce per costituire una lucupletazione
per il danneggiato. Ne consegue che in caso di notevole differenza tra il valore
commerciale del veicolo incidentato ed il costo richiesto delle riparazioni necessarie, il
giudice potrà, in luogo di quest'ultimo, condannare il danneggiante (ed in caso di azione
diretta L. n. 990 del 1969, ex art. 18, l'assicuratore), al risarcimento del danno per
equivalente36. Ciò significa che se il bene danneggiato risulta “vetusto” il risarcimento
sarà limitato al valore di mercato minimo . Si pensi ad una autovettura fuori mercato per
la sua anzianità di servizio, ma ciò non di meno perfettamente funzionante e rispondente
ai bisogni del suo proprietario. Quest’ultimo si vedrebbe risarcito di una somma che non
gli permetterebbe di riparare l’autoveicolo e quindi perderebbe l’utilità fornita dal
mezzo, con la ovvia conseguenza di accollarsi l’onere di acquistare una nuovo
autoveicolo, magari con esborso ulteriore di denaro. In tali casi peraltro il giudice, in
base ad una valutazione equitativa, potrà apprezzare il bene in considerazione
dell’utilità che svolgeva per il danneggiato ed in ogni caso andrà sommato al valore del
35
Cass n. 21012 del 12/10/2010
36
Cass. 2402/1998; Cass. 15197/2004; Cass. 21012/2010; Cass. 259/2013
28
bene- detratto il valore del relitto- il costo della rimozione del relitto, della
rottamazione, della immatricolazione di un nuovo veicolo37.
Quando invece è possibile e più conveniente una riparazione (perché il danno non
supera il valore di mercato della macchina) il risarcimento deve corrispondere al prezzo
della riparazione maggiorato dell’IVA, a meno che il danneggiato non sia un soggetto
che ha la possibilità di deduzione della stessa imposta. Il risarcimento del danno
patrimoniale si estende, infatti, agli oneri accessori e consequenziali qualora la
liquidazione sia stata operata in base alle spese di riparazione. Laddove, invece, il danno
sia stato commisurato al valore commerciale del veicolo e non l'importo occorrente per
le riparazioni, non è possibile aggiungervi l'IVA.38
Quanto al “costo delle riparazioni” secondo un primo orientamento il risarcimento
andrebbe commisurato al costo medio delle riparazioni salvo che il maggior esborso sia
giustificato da circostanze particolari ed oggettive, altri ritengono che le spese per la
riparazione dell’autoveicolo vadano rimborsate integralmente anche laddove il
danneggiato si rivolga ad una autofficina di fiducia che applichi prezzi superiori alla
media sempre che lo scostamento non sia eccessivo39.
Quanto alla prova del quantum debeatur si ritiene che i preventivi delle riparazioni
possano costituire elementi di prova per la formazione del convincimento del giudice ed
una utile base per la valutazione del danno in via equitativa40.
Vanno anche rimborsate altre spese, come quelle sostenute per la rimozione
dell’automezzo, per il suo trasporto in officina e il danno da fermo tecnico dell’auto che
37
Vedi la risalente cass. n. 4034 del 05/12/1975
38
Cass. n. 24718 del 2013
39
Vedi Cass. n. 15197 del 06/08/2004 che afferma che “In tema di risarcimento dei danni alle cose
provocati da un incidente stradale, qualora il danneggiante lamenti, in sede di legittimità, di essere stato
condannato a pagare una somma eccessiva a titolo di risarcimento danni per la riparazione
dell'autoveicolo danneggiato, è irrilevante la produzione di preventivi redatti da ditte diverse rispetto a
quella che eseguì la riparazione della vettura, indicanti un importo inferiore a quello effettivamente
pagato per la riparazione, avendo invece il ricorrente l'onere di indicare quali voci, presenti nella fattura
il cui importo sia stato liquidato dai giudici di merito, fossero eccessive o non corrispondenti per
eccessività ai valori correnti”.
40
Cass. n. 591 del 19/01/1995 evidenzia che, nella liquidazione di danni, relativi a veicoli, verificatisi in
occasione di un incidente stradale, possono essere utilizzati dal giudice di merito come elementi di
prova per la formulazione del suo convincimento preventivi di spesa contenenti una specifica
indicazione di voci. Cfr la recente Cass. n. 11765 del 15/05/2013 che, in senso contrario, afferma che “In
tema di risarcimento dei danni alle cose provocati da un incidente stradale, il preventivo di spesa
prodotto dal danneggiato, redatto in assenza di contraddittorio e non confermato dal suo autore, non
ha valenza probatoria e non é idoneo ai fini della determinazione del "quantum debeatur".
29
si tramuta in una mancanza di possibilità di utilizzo dell’autovettura da parte del
proprietario. Quanto al c.d. danno da "fermo tecnico", patito dal proprietario di un
autoveicolo a causa della impossibilità di utilizzarlo durante il tempo necessario alla sua
riparazione, possono essere enucleati tre indirizzi: il primo secondo il quale esso può
essere liquidato anche in assenza d'una prova specifica, rilevando a tal fine la sola
circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a
prescindere dall'uso effettivo a cui esso era destinato. L'autoveicolo, infatti, anche
durante la sosta forzata è una fonte di spesa per il proprietario (tenuto a sostenere gli
oneri per la tassa di circolazione e il premio di assicurazione), ed è altresì soggetto a un
naturale deprezzamento di valore41. Un secondo orientamento, invece, sostiene che
nulla possa essere riconosciuto a titolo di danno da fermo tecnico laddove l’attore non
fornisca specifici elementi di prova atteso che “il cd. "danno da fermo tecnico" del
veicolo incidentato non può considerarsi sussistente "in re ipsa", quale conseguenza
automatica dell'incidente, ma necessita, per converso, di esplicita prova, che attiene
tanto al profilo della inutilizzabilità del mezzo meccanico in relazione ai giorni in cui
esso è stato sottratto alla disponibilità del proprietario, tanto a quello della necessità del
proprietario stesso di servirsene, così che, dalla impossibilità della sua utilizzazione, ne
sia derivato un danno (quale, ad esempio, quello derivante da impossibilità allo
svolgimento di un'attività lavorativa, ovvero da esigenza di far ricorso a mezzi
sostitutivi)42. Secondo un terzo orientamento per così dire intermedio, infine, il danno
rappresentato dal mancato ammortamento delle spese fisse di esercizio (tassa di
circolazione, premi assicurativi etc), costituendo un effetto necessario e costante
dell’impossibilità di utilizzare il mezzo, può essere liquidato anche in difetto di una
prova specifica ed in via equitativa, mentre l’ulteriore danno subito a causa
dell’impossibilità di utilizzare il veicolo ovvero il costo del noleggio di auto sostitutiva
per il tempo occorrente ai fini della riparazione dell'autovettura incidentata può essere
liquidato solo ove allegato e provato dal danneggiato.
Tra gli altri danni patrimoniali riscontrabili in ipotesi di sinistri stradali rientrano le
spese mediche che la vittima di lesioni personali dovrà sostenere per eliminare o ridurre
i postumi permanenti da esse derivati ovvero per farmaci e cure, nei limiti della loro
necessità e congruità eventualmente valutata dal CTU. Al riguardo può esclusivamente
precisarsi che, quanto alle spese occorrenti per l’eliminazione di postumi permanenti, la
cassazione ritiene che il relativo importo sia dovuto “anche quando, al momento della
liquidazione, la vittima non le abbia ancora sostenute, a nulla rilevando che sia trascorso
41
Cass. n. 22687 del 04/10/2013
42
Cass. n. 12820 del 19/11/1999
30
un rilevante lasso di tempo dal momento dell'illecito” 43 e che il giudice, dinanzi a
lesioni personali di devastante entità, che abbiano costretto il leso ed i suoi familiari a
numerosi e ripetuti ricoveri, purché questi ultimi siano documentati, può liquidare il
pregiudizio consistito nelle erogazioni per viaggi di cura e spese mediche anche in
assenza della prova dei relativi esborsi, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ.44
Rientrano altresì nel danno patrimoniale le cd spese funerarie. La Corte di cassazione ha
sempre interpretato in senso ampio tali spese includendovi non solo le spese per il
feretro ed il funerale ma anche le spese connesse alla cerimonia funebre quali le
telefonate tra parenti, i telegrammi di condoglianze, i fiori, le spese di viaggio per
partecipare alle esequie45. Esse, inoltre, costituendo una voce di danno ineliminabile,
possono essere liquidate anche in mancanza di specifica dimostrazione della precisa
entità della somma corrisposta a tale scopo, occorrendo, tuttavia, fornire al giudice i dati
dai quali desumere, almeno approssimativamente, i parametri cui commisurare la
valutazione, sia pure con riferimento al costo medio delle onoranze funebri della zona in
questione46.
Tra i danni che la vittima di un sinistro ha diritto di pretendere dal responsabile e dal
suo assicuratore rientrano altresì i compensi erogati a professionisti di cui essa si è
avvalsa per coltivare la pretesa risarcitoria, quali avvocati, medici legali, commercialisti,
ove l’esborso sia provato e ritenuto necessario o almeno utile. La Suprema corte ha,
infatti, ritenuto che nella speciale procedura per il risarcimento del danno da
circolazione stradale, introdotta con legge n. 990 del 1969 e sue successive
modificazioni, “il danneggiato ha facoltà, in ragione del suo diritto di difesa,
costituzionalmente garantito, di farsi assistere da un legale di fiducia e, in ipotesi di
composizione bonaria della vertenza, di farsi riconoscere il rimborso delle relative spese
legali; se invece la pretesa risarcitoria sfocia in un giudizio nel quale il richiedente sia
vittorioso, le spese legali sostenute nella fase precedente all'instaurazione del giudizio
divengono una componente del danno da liquidare e, come tali devono essere chieste e
liquidate sotto forma di spese vive o spese giudiziali47 e che “qualora il danneggiato
abbia fatto ricorso all'assistenza di uno studio di consulenza infortunistica stradale ai
fini dell'attività stragiudiziale diretta a richiedere il risarcimento del danno asseritamente
sofferto al responsabile ed al suo assicuratore, nel successivo giudizio instaurato per
43
Cass. n. 10616 del 26/06/2012
44
Cass. n. 712 del 19/01/2010
45
Cass. n. 373 del 15/02/1971 e Cass. n. 10528 del 13/05/2011
46
Cass. n. 11684 del 26/05/2014
47
Cass. . n. 2275 del 02/02/2006
31
ottenere il riconoscimento del danno, la configurabilità della spesa sostenuta per
avvalersi di detta assistenza come danno emergente non può essere esclusa per il fatto
che l'intervento del suddetto studio non abbia fatto recedere l'assicuratore dalla
posizione assunta in ordine all'aspetto della vicenda che era stata oggetto di discussione
e di assistenza in sede stragiudiziale, ma va valutata considerando, in relazione all'esito
della lite su tale aspetto, se la spesa sia stata necessitata e giustificata in funzione
dell'attività di esercizio stragiudiziale del diritto al risarcimento48.
4.2. Il danno da incapacità di guadagno e l’art. 137 cod. ass.
Il codice delle assicurazioni all’art. 137 disciplina la liquidazione dei danni da riduzione
della capacità di produrre reddito sia sotto il profilo della aestimatio che della prova
del danno. La norma in esame, infatti, prevede che “Nel caso di danno alla persona,
quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l'incidenza dell'inabilità
temporanea o dell'invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile,
tale reddito si determina, per il lavoro dipendente, sulla base del reddito di lavoro,
maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge, che
risulta il più elevato tra quelli degli ultimi tre anni e, per il lavoro autonomo, sulla base
del reddito netto che risulta il più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini
dell'imposta sul reddito delle persone fisiche negli ultimi tre anni ovvero, nei casi
previsti dalla legge, dall'apposita certificazione rilasciata dal datore di lavoro ai sensi
delle norme di legge. È in ogni caso ammessa la prova contraria, ma, quando dalla
stessa risulti che il reddito sia superiore di oltre un quinto rispetto a quello risultante
dagli atti indicati nel comma 1, il giudice ne fa segnalazione al competente ufficio
dell’Agenzia delle entrate. In tutti gli altri casi il reddito che occorre considerare ai fini
del risarcimento non può essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della pensione
sociale”.
L’art. 137, dunque, stabilisce quale debba essere il reddito da porre a base del calcolo
lasciando, tuttavia, impregiudicata la questione del metodo da adottare per la
liquidazione del danno patrimoniale da lesione della capacità di guadagno.
Occorre, dunque, esaminare i principi generali elaborati dalla dottrina e dalla
giurisprudenza in tale materia.
Il presupposto della riduzione della «capacità di guadagno» (la quale è nozione
giuridica) è la riduzione della «capacità di lavoro» o capacità lavorativa (la quale è
nozione medico-legale). La «capacità di lavoro» consiste nella possibilità individuale di
dedicarsi a un’attività produttiva, e costituisce il prodotto di un processo formativo al
48
Cass. . n. 997 del 21/01/2010 e Cass. n. 9400 del 06/09/1999
32
quale concorrono sia le caratteristiche personali naturali dell’individuo, sia le influenze
dell’ambiente sociale nel quale l’individuo si forma. Naturalmente, per «attività
produttiva» (o lavoro) deve intendersi il prodotto di qualsiasi applicazione manuale o
intellettuale, sottesa da precise cognizioni, che sia produttiva di beni o servizi
suscettibili di valutazione economica. Pertanto la riduzione della capacità di guadagno
può sussistere quand’anche il danneggiato svolgesse un’attività che – pur non
costituendo svolgimento di lavoro subordinato o esercizio di lavoro autonomo – era
comunque suscettibile di valutazione economica.
Occorre, peraltro, distinguere l’ipotesi di danno da incapacità temporanea e danno da
incapacità permanente di guadagno.
“La liquidazione del danno da incapacità temporanea di guadagno deve avvenire:
sommando e rivalutando i redditi (o la frazione di essi) perduti al momento della
liquidazione; sommando e scontando i redditi (o la frazione di essi) ancora non percepiti
al momento della liquidazione, ma che sarebbero stati acquisiti con certezza o con
verosimile certezza. Va da sé che se la vittima pur restando assente dal lavoro abbia
continuato a percepire integralmente il proprio reddito non potrà pretendere alcun
risarcimento del danno da incapacità di guadagno, perché esso non si è verificato”49.
Per quanto attiene alla liquidazione del danno da incapacità permanente di guadagno
deve considerarsi che una lesione della salute può riverberare tre tipi di conseguenze sul
lavoro svolto dalla vittima:
(a) maggiore stancabilità o minore efficienza nello svolgimento dell'attività lavorativa
(c.d. danno alla cenestesi lavorativa);
(b) perdita del lavoro, e di conseguenza del reddito;
(c) conservazione del lavoro, ma con riduzione del reddito, tanto in atto quanto in
potenza.
Il danno sub (a) costituisce un danno non patrimoniale, del quale tenere conto nella
liquidazione del danno biologico attraverso una adeguata personalizzazione del
risarcimento. Va osservato che, in generale, il danno da riduzione della capacità
lavorativa generica (per la permanente riduzione della resistenza fisica al lavoro
esercitato od alle chances lavorative), costituendo una lesione di un'attitudine o di un
modo di essere del soggetto, si sostanzia in una menomazione dell'integrità psico-fisica
risarcibile quale danno biologico. Il danno da lesione della "cenestesi lavorativa", che
consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento
dell'attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul
reddito della persona offesa (c.d. perdita di chance), risolvendosi in una
compromissione biologica dell'essenza dell'individuo, va liquidato, dunque,
onnicomprensivamente come danno alla salute. A tal fine il giudice, ove abbia adottato
49
Così M. Rossetti “L’assicurazione obbligatoria della R.C.A.”, Utet 2010, pag. 441 e ss.
33
per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità,
ben può liquidare la componente costituita dal pregiudizio della cenestesi lavorativa
mediante un appesantimento del valore monetario di ciascun punto, restando invece non
consentito il ricorso al parametro del reddito percepito dal soggetto leso50.
I danni sub (b) e (c) costituiscono, invece, un danno al patrimonio.
Si ha «incapacità permanente di reddito» (o di guadagno) allorché si verificano due
condizioni: 1) il soggetto danneggiato, una volta guarite le lesioni, non ha potuto
recuperare interamente la propria complessiva integrità psicofisica; 2) la lesione della
salute ha precluso o precluderà al danneggiato – secondo un giudizio di ragionevole
verosimiglianza – la possibilità di conservare i propri redditi da lavoro nella stessa
misura goduta prima dei sinistro, ovvero di acquisire in futuro ulteriori redditi od
incrementi reddituali.
Il risarcimento del danno patrimoniale da incapacità di lavoro e di guadagno può,
pertanto, essere accordato non già a chi si limiti a dimostrare di avere subito lesioni
personali, ma soltanto a chi deduca e dimostri che, a causa di quelle: (a) ha perso in
tutto od in parte il proprio reddito; (b) pur avendo conservato il proprio reddito in atto,
in futuro tale reddito si contrarrà, ovvero crescerà meno di quanto non sarebbe avvenuto
in assenza del danno51. L’accertamento del danno causato dalla lesione della capacità
produttiva richiede l’esame, da parte dei giudice, di una serie di nessi causali: a) tra fatto
lesivo e lesioni; b) tra lesioni e postumi; c) tra postumi e incapacità di lavoro; d) tra
incapacità di lavoro e incapacità di guadagno.
Non basta, quindi, per avere diritto al risarcimento, dimostrare che dopo il sinistro il
danneggiato ha cessato l’attività lavorativa precedentemente svolta, oppure ha subito
una riduzione dei redditi precedentemente percepiti, perché tra lesione della salute e
diminuzione della capacità di guadagno non sussiste alcun rigido automatismo. Ne
consegue che in presenza di una lesione della salute, anche di non modesta entità, non
può ritenersi ridotta in egual misura la capacità di produrre reddito, ma il soggetto leso
50
In tal senso Cass. n. 5840 del 24/03/2004; Cass n. 2311 del 02/02/2007e la recente Cass. N. 7524
dell’1.4.2014. Cfr Cass. N. 6658 del 19 marzo 2009 che afferma che “La sussistenza di un danno
patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro e di guadagno, in conseguenza di lesioni personali,
non può, tuttavia, essere esclusa per il solo fatto che i redditi del danneggiato dopo il sinistro non si
siano ridotti, in quanto il giudice deve altresì accertare se le residue energie lavorative della vittima, pur
consentendole di conservare al momento il reddito pregresso, comportino però una maggiore usura, e
di conseguenza rendano verosimile un’anticipata cessazione dell’attività lavorativa, ovvero precludano
alla vittima la possibilità di svolgere attività più remunerative”.
51
vedi Cass. 17220 del 29/07/2014
34
ha sempre l’onere di allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l’invalidità
permanente abbia inciso sulla capacità di guadagno 52.
Il grado di invalidità permanente determinato da una lesione all'integrità psicofisica non si riflette, pertanto, automaticamente, né tanto meno nella stessa misura, sulla
riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e, quindi, di guadagno della
stessa. Tuttavia, nei casi in cui l'elevata percentuale di invalidità permanente rende
altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa
specifica ed il danno che necessariamente da essa consegue, il giudice può procedere
all'accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa
specifica voce di danno con criteri equitativi. La liquidazione di detto danno può
avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi
ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a
quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell'infortunio53.
Il danno patrimoniale futuro, nel caso di fatto illecito lesivo della persona, è da valutare
su base prognostica ed il danneggiato, tra le prove, può avvalersi anche delle
presunzioni semplici. Pertanto, provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se
essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità
(cosiddette "micropermanenti", le quali non producono danno patrimoniale ma
costituiscono mere componenti del danno biologico), è possibile presumere che anche la
capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura - non necessariamente in
modo proporzionale - qualora la vittima già svolga un'attività o presumibilmente la
svolgerà. In quanto prova presuntiva essa potrà essere superata dalla prova contraria
che, nonostante la riduzione della capacità di lavoro specifico, non vi è stata alcuna
riduzione della capacità di guadagno e che, quindi, non è venuto a configurarsi in
concreto alcun danno patrimoniale54.
52
Vedi Cass. n. 2644 del 05/02/2013; Cass. n. 11516/2012, Cass. n. 23761/11, Cass. n. 18866/08, Cass.n.
10031/06 e Cass. 4493 del 24.2.2011 che sottolinea che “La liquidazione del danno patrimoniale da
riduzione della capacità di lavoro e di guadagno non può costituire un'automatica conseguenza
dell'accertata esistenza di lesioni personali, ma esige che sia verificata la attuale o prevedibile incidenza
dei postumi sulla capacità di lavoro, anche generica, della vittima. Ne consegue che quando detti
postumi sono di lieve entità o, comunque, manchino elementi concreti dai quali desumere una
incidenza della lesione sulla attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso, vanno escluse l'esistenza
e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un
meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua totalità, il
pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica”.
53
Cass. n. 25634 del 14/11/2013
54
Così Cass. n. 1690 del 25/01/2008 più di recente Cass. n. 20003 del 23/09/2014
35
L'esercizio di tale potere, peraltro, da un lato è subordinato alla condizione che risulti
obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata provare il
danno nel suo preciso ammontare, come desumibile dalle citate norme sostanziali;
dall'altro non ricomprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si
tratta, presupponendo già assolto l'onere della parte di dimostrare sia la sussistenza, sia
l'entità materiale del danno; ne' esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori
e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l'apprezzamento
equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune
insuperabili nella determinazione dell'equivalente pecuniario del danno stesso55
Tale presunzione, dunque, copre solo l' "an" dell'esistenza del danno, mentre, ai fini
della sua quantificazione, è onere del danneggiato dimostrare la contrazione dei suoi
redditi dopo il sinistro, non potendo il giudice, in mancanza, esercitare il potere di cui
all'art. 1226 cod. civ., perché esso riguarda solo la liquidazione del danno che non possa
essere provato nel suo preciso ammontare, situazione che, di norma, non ricorre quando
la vittima continui a lavorare e produrre reddito e, dunque, può dimostrare di quanto
quest'ultimo sia diminuito 56.
Quanto alla prova del quantum debeatur deve evidenziarsi, come accennato
all’inizio del presente paragrafo, che in relazione alla materia dei sinistri stradali l’art.
137 attribuisce (anche) una efficacia probatoria privilegiata alle dichiarazioni fiscali del
danneggiato stabilendo che il reddito da valutare ai fini della liquidazione del danno
patrimoniale debba essere quello risultante dalle dichiarazioni fiscali e ciò sino a prova
contraria. Prova contraria che, peraltro, può essere offerta sia dai convenuti i quali
vogliano dimostrare che le dichiarazioni siano infedeli, che dallo stesso danneggiato il
quale intenda provare di aver percepito un reddito maggiore di quanto dichiarato e di
aver, pertanto, occultato redditi all’erario57.
L’art. 137, infine, prevede che “in tutti gli altri casi il reddito che occorre
considerare ai fini del risarcimento non può comunque essere inferiore a tre volte
55
così Cass. n. 18207 del 25/08/2014 cedi anche Cass. N. 13288 del 7.6.2007 e Cass. N. 10607 del
30.4.2010, fra le tante
56
Cass. n. 11361 del 22/05/2014. “La domanda di liquidazione dei danni in via equitativa, proposta ai
sensi dell'art. 1226 c.c., attiene, dunque, alla quantificazione dei danni che non possano essere provati
nel loro preciso ammontare, e costituisce decisione secondo diritto, in quanto sollecita l'applicazione di
una norma di legge (per l'appunto l'art. 1226 c.c.), che una tale quantificazione prevede” così Cass. n.
21103 del 2013; cfr Cass. N. 16202 del 18.11.2002.
57
Salvo incorrere nella denuncia all’agenzia delle entrate da parte del giudice sia ai sensi dello stesso art.
137 cod. ass. per il caso di reddito percepito maggiore del 20% di quello dichiarato, sia più in generale ai
sensi dell’art. 36 dpr 600/73.
36
l’ammontare annuo della pensione sociale”. Si ritiene che tale disposizione debba essere
interpretata nel senso che la liquidazione del danno in base al triplo della pensione
sociale sia residuale e si possa applicare solo nel caso in cui il danneggiato non sia
titolare di reddito da lavoro ma possa produrlo in futuro (ovvero sia titolare di un
reddito da lavoro con caratteristiche tali da escludere che possa essere posto a base del
calcolo di un reddito futuro58) e non anche nel caso in cui, pur essendo il danneggiato
percettore di reddito, ometta la produzione delle dichiarazioni fiscali ovvero nel caso di
danneggiato che percepisca un reddito inferiore al triplo della pensione sociale.
In particolare va evidenziato che già prima dell’introduzione dell’art. 137 cod.
ass. il ricorso al criterio di cui all'art. 4, comma terzo, della legge n. 39 del 1977, la cui
formulazione la norma in esame mutua integralmente, presupponeva che non fosse
possibile al danneggiato nemmeno fornire elementi utili alla liquidazione del danno
secondo criteri presuntivi, che tengano conto, in particolare, dell'attività di lavoro svolta
al momento del sinistro59.
Deve evidenziarsi che è configurabile un danno patrimoniale da lucro cessante
anche con riferimento alla persona non attualmente occupata (per le più varie ragioni)
allorché l’interessato (privo in tali casi, per forza di cose, della possibilità di dimostrare
il reddito passato) sia in grado di provare adeguatamente, anche con il ricorso alla prova
presuntiva, lo svolgimento futuro di attività lavorativa di un certo tipo da parte sua,
sulla base di una valutazione probabilistica (secondo i parametri tipicamente civilistici
del più probabile che non) e siano parimenti accertate la significativa compromissione
della capacità lavorativa e la riduzione della capacità di guadagno, non potendosi
automaticamente inferire l’esistenza del danno reddituale nel caso di superamento di
58
Così M. Rossetti “L’assicurazione obbligatoria della R.C.A.”, Utet 2010, pag. 454.
59
cfr. Cassazione n. 6658/09 che afferma “Nel caso di specie, trattandosi di soggetto impiegato in
attività lavorativa stabile al momento del sinistro, proseguita anche in data successiva a questo, ed
essendo decorso un notevole lasso di tempo dalla data dell'incidente, bene avrebbe potuto il
danneggiato fornire, per il tramite delle dichiarazioni dei redditi ovvero altrimenti, la prova dell'avvenuta
contrazione dei guadagni ovvero fornire, tramite prova documentale o testimoniale, elementi idonei a
sorreggere la presunzione della contrazione futura del reddito da lavoro. Il D. non ha provato
l'ammontare del reddito percepito prima e/o dopo il sinistro, né per il tramite della documentazione
fiscale né altrimenti; ancora, non ha nemmeno dimostrato la concreta incidenza della ridotta capacità
lavorativa sulla percezione del reddito da lavoro autonomo: è perciò corretta la decisione del giudice di
merito che ha ritenuto inapplicabile il criterio del c.d. triplo della pensione sociale ed impraticabile il
ricorso ad altro criterio di liquidazione equitativa del danno patrimoniale”
37
una certa soglia dell’invalidità biologica o introdurre una arbitraria presunzione di
corrispondenza fra entità del danno biologico ed entità del danno reddituale60.
Come sopra detto, qualora non vi sia una prestazione lavorativa già esistente (ad
esempio i redditi futuri per in non occupati o per i minori) o si tratti di attività
indirettamente produttive di reddito (si pensi ad esempio delle problematiche connesse
con la produzione di ricchezza ad opera delle casalinghe) è stato ritenuto dalla
giurisprudenza legittimo il ricorso a parametri quali il triplo della pensione sociale
(rectius assegno sociale soppresso dal 1996 ma annualmente adeguato dall’INPS61).
Per quanto attiene ai metodi di liquidazione del danno reddituale, esso può
essere liquidato in forma di rendita (art. 2057 c.c.) o di capitale.
Il metodo più seguito è quest’ultimo, e la sua applicazione corretta prevede la
trasformazione in capitale di una rendita pari all’ammontare annuo del reddito perduto
dalla vittima. Normalmente per tale operazione vengono adottati i coefficienti di
capitalizzazione per la costituzione delle rendite vitalizie immediate, di cui alla tabella
allegata al r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403, che ha approvato le tariffe della Cassa nazionale
per le assicurazioni sociali.
Si tenga tuttavia presente che il coefficiente di cui alla suddetta tabella è un
coefficiente per la costituzione di una «rendita vitalizia», cioè di durata pari alla
presumibile durata della residua vita futura.
Il soggetto danneggiato non avrebbe tuttavia percepito il reddito per tutta la
durata della vita, ma solo sino all’età pensionabile. Per tenere conto di questa
circostanza, possono in teoria adottarsi due sistemi:
1) si può liquidare il capitale applicando il coefficiente di costituzione della
«rendita vitalizia», applicando poi un abbattimento (normalmente il 10 per cento) per
60
App. Torino, sez. III, 20 febbraio 2009. In particolare in relazione all’ipotesi di danneggiato
studente all’epoca del fatto lesivo, la Suprema Corte con sentenza n. 16541 del 28/09/2012 ha ritenuto
che l'accertata esistenza d'un danno alla salute, anche se di non lieve entità, non è di per sé sufficiente
per ritenere necessariamente esistente un conseguente danno da riduzione della capacità di guadagno,
a meno che il danneggiato non provi, sulla base di elementi concreti, o che a causa della lesione sia stato
costretto a ritardare il compimento dei suoi studi e di conseguenza l'ingresso nel mondo del lavoro,
ovvero una verosimile riduzione dei suoi redditi futuri.
61
Quanto alla determinazione della “pensione sociale” va evidenziato che in tema di risarcimento dei
danni derivanti da circolazione stradale, la Suprema Corte con sentenza n. 7275 del 01/06/2000 ha
stabilito che “l'ammontare annuo della pensione sociale, cui fa riferimento l'art.4 del D.L. 23 Dicembre
1976, n. 857, convertito nella legge 26 Febbraio 1977, n. 39, deve ritenersi comprensivo dell'aumento
previsto dall'art.2,comma secondo, della legge 15 Aprile 1985, n. 140”.
38
tenere conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa. Molti giudici di merito,
tuttavia, omettono di applicare l’abbattimento per lo scarto tra vita fisica e vita
lavorativa, in considerazione del fatto che la tabella allegata al r.d. n. 1403 cit. è stata
costruita in base alle tavole di sopravvivenza della popolazione italiana calcolata in base
ai censimenti del 1901 e del 1911, ed alle statistiche mortuarie del biennio 1910-1912.
Poiché da allora la durata della vita media è sensibilmente cresciuta, il coefficiente
indicato dalla tabella rende oggi un capitale leggermente inferiore a quello che
risulterebbe dall’applicazione di un coefficiente, per cosi dire, aggiornato.62 La necessità
della concreta applicazione di tale coefficiente di riduzione non è oggetto di concorde
valutazione in sede giurisprudenziale, infatti, che vede nella sua non applicazione la
possibilità di tenere conto sia dell’aumento della vita media degli italiani, mediamente
verificatasi rispetto ai valori del 1911, sia della recente tendenza all’incremento della
vita lavorativa media. Occorre, tuttavia evidenziare come a partire dal 2010 la corte di
cassazione sia intervenuta sul punto63 ritenendo che detta riduzione non debba più
essere effettuata in considerazione dell’allungamento della vita media verificatosi.
2) oppure si può liquidare il capitale applicando un coefficiente per costituzione
di una «rendita temporanea» (normalmente al tasso del 4,5 per cento), cioè di una
rendita di durata predefinita. In questo caso la durata della rendita sarà pari all’età del
danneggiato al momento della liquidazione meno l’età massima pensionabile.
Si badi che, in tutti e due i casi, la liquidazione del danno va effettuata
sommando i redditi già perduti dalla data dell’illecito alla data della liquidazione (e, se
necessario, rivalutandoli) e capitalizzando i redditi futuri prevedibilmente conseguibili .
L’età del danneggiato da prendere in considerazione per individuare il
coefficiente di costituzione, sia della rendita vitalizia sia di quella temporanea, deve
essere quella del «momento della liquidazione», e non quella del momento dei sinistro.
Le formule per la liquidazione di questo tipo di danno saranno dunque, secondo
la più autorevole dottrina (Rossetti):
A) ove si adotti il coefficiente di capitalizzazione vitalizia,
D== (R1, R2, R3… Rn) + (R*k) – 10%
ove D è il danno da lucro cessante; R1, R2, R3… Rn, sono i redditi mensili
maturati prima della liquidazione, rivalutati in base all’indice Istat del costo della vita
relativo all’epoca della maturazione; R è il reddito al momento del sinistro rivalutato al
momento della liquidazione; k è il coefficiente di capitalizzazione per le rendite
vitalizie, desunto dall’allegato al r.d. n. 1403 cit.;
B)ove si adotti il coefficiente di capitalizzazione temporanea,
62
Vd. Cass. 2 marzo 2004 n. 4186
63
Cfr Cass. n. 15738 del 2 luglio 2010; Cass. n. 6753 del 24 marzo 2011
39
D==R1, (R2, R3… Rn) + (R*t)
ove t è il coefficiente di capitalizzazione per le rendite temporanee.
Un caso particolare è costituito dall’ipotesi in cui il lavoratore, a causa della lesione,
perda il proprio lavoro e il reddito che da esso si procurava, ma non perda la possibilità
di impiegare proficuamente aliunde le proprie capacità di lavoro.
Ricorrendo una simile fattispecie, il danno da perdita del reddito non può essere
liquidato attraverso la capitalizzazione di una rendita calcolata sulla presumibile vita
futura del danneggiato. A meno che questi non sia molto anziano, deve infatti
presumersi sulla base dell’id quod plerumque accidit (art. 115 c. p. c.) che la persona
lesa, entro un certo arco di tempo, potrà trovare una nuova occupazione. Dunque in
questi casi, per evitare sovracompensazioni, è opportuno liquidare il danno da perdita
del reddito capitalizzando il reddito perduto in base ad un coefficiente di
capitalizzazione temporanea, individuato in base al numero di anni presumibilmente
occorrenti al lavoratore per riconvertirsi e trovare un nuovo impiego (preferibilmente, in
numero non inferiore a 4-5).
Problemi particolari sorgono in quei casi in cui non viene dimostrata una riduzione del
reddito in atto, ma è verosimile (ex art. 2727 c.c.) che tale riduzione si verificherà nel
futuro.
In primo luogo, è opportuno ricordare a questo riguardo che il danno futuro va risarcito
non soltanto nelle ipotesi in cui esso si produrrà con assoluta certezza, ma anche quando
possa ritenersi – partendo dall’esame di situazioni già esistenti – che tale danno si
produrrà secondo una ragionevole e fondata previsione.
«Ragionevole e fondata previsione» vuol dire che il giudice deve esaminare gli elementi
attuali (tipo di lavoro, tipo di malattia, tipo di ripercussioni negative di questa su
quello), i quali debbono essere certi, e su essi fondare un giudizio prognostico di
produzione dell’evento dannoso.
È inammissibile, pertanto, il ricorso a ogni «automatismo risarcitorio», come già sopra
evidenziato, ovvero a quelle motivazioni nelle quali si afferma che il danno futuro «si
presume» sol che l’invalidità permanente superi un certo grado percentuale.
Liquidando «automaticamente» il danno da incapacità di reddito quando il danno alla
salute supera un certo grado di invalidità si perviene ad una duplicazione risarcitoria, in
quanto – come si è visto – la maggiore difficoltà incontrata dal lavoratore nello svolgere
le proprie mansioni, fermo restando il reddito, costituisce un «danno biologico» e non
patrimoniale. Lo strumento della presunzione (art. 2727, 2729 c.c.) va pertanto
maneggiato con estrema attenzione, al fine di evitare sia sovracompensazioni che
sottocompensazioni.
40
Sulla liquidazione del danno da riduzione futura della capacità di reddito,
quando non si registra in atto una perdita patrimoniale, permangono tuttora disparità di
vedute tra i giudici di merito.
Secondo un primo orientamento, la diminuzione della capacità di reddito può
essere misurata percentualmente, e tale determinazione percentuale va demandata a un
consulente tecnico d’ufficio medico legale. Ottenuta dal consulente tecnico d’ufficio la
quota percentuale di riduzione della capacità di reddito, basterà moltiplicare il reddito
documentato per tale percentuale.
A tale sistema sono state mosse alcune obiezioni.
In primo luogo, nel momento in cui si chiede al consulente tecnico d’ufficio di
determinare in gradi percentuali la riduzione della capacità di guadagno, si chiede al
medico legale di accertare qualcosa che travalica lo specifico settore di competenza. Al
medico legale può infatti chiedersi senz’altro in che modo la prestazione lavorativa
risulti o risulterà impedita o resa difficoltosa, ma non di misurare in termini percentuali
la perdita patrimoniale futura.
In secondo luogo, è la stessa medicina legale ad escludere che il medico possa
misurare in termini percentuali la riduzione della capacità di guadagno. È unanime
infatti l’opinione secondo cui una misura percentuale può prestarsi a misurare
l’«invalidità», che è in generale pensabile come identica per soggetti della stessa età,
dello stesso sesso e con identici postumi, ma non l’«incapacità», la quale è
estremamente soggettiva, e varia a seconda del tipo di lavoro svolto dalla vittima.
In terzo luogo, non esiste alcun baréme medico-legale dal quale ricavare la
riduzione di capacità produttiva, né sarebbe possibile costruirlo, in quanto la riduzione
di tale capacità è questione da valutare caso per caso, sfuggente a ogni generalizzazione.
Un sistema alternativo per liquidare il danno futuro da riduzione della capacità
di guadagno, quando non sia dimostrata in atto una riduzione del reddito, è quello di
apprezzare percentualmente non la riduzione della capacità produttiva, ma la riduzione
del reddito.
Per la quantificazione dell’importo relativo al danno patrimoniale da perdita
della capacità specifica relativamente a soggetti già titolari di reddito, in genere si fa
riferimento al confronto tra il reddito pregresso al netto dei contributi previdenziali e
agli oneri fiscali (in genere da desumere a fini di completezza della informazione dalla
dichiarazione annuale dei redditi se presentata o dai CUD rilasciati dal datore di lavoro
e normalmente richiesti per una pluralità di anni – almeno tre – al fine di determinare
l’andamento medio del reddito, depurandolo da situazioni particolari che possano
favorire o sfavorire) e l’equivalente reddito successivo al fatto.
Tale differenza costituisce la base del calcolo ovviamente da operarsi nel caso
che si tratti di un danno permanente, dovendo, invece essere considerato in se qualora si
41
tratti di un danno temporaneo da riconoscere per il numero degli anni in cui si è
verificato.
Detta differenza deve, poi, essere aggiornata al momento della decisione
attraverso gli ordinari indici Istat per le famiglie degli impiegati ed operai.
Una volta determinata la base, per il calcolo del danno da perdita del reddito
futuro si sono confrontati una pluralità di sistemi.
Il prevalente individua il calcolo attraverso una operazione di capitalizzazione in
cui la base – che come si è detto è costituita dalla perdita di reddito netto determinata –
viene moltiplicata per un coefficiente di capitalizzazione che tiene conto dell’età del
danneggiato al momento del fatto o al momento della liquidazione.
Il coefficiente utilizzato è quello individuato dalla tabella allegata al regio
decreto 9 ottobre 1922 n. 1403, salva una possibile personalizzazione per compensare i
problemi posti dalla “anzianità” della tabella, come sopra evidenziato.
In altre parole il calcolo procede nel seguente modo:
Danno= (D * R) * I [- S + P]
Ove D è Differenza retributiva al netto delle imposte
R è Rivalutazione della differenza di reddito D alla data di liquidazione secondo
gli indici Istat FIOI
I è Coefficiente Inail secondo la tabella del regio decreto 1403/1922
S è Coefficiente di riduzione per tener conto dello scarto tra vita media e vita
lavorativa
P è Coefficiente di personalizzazione per tener conto dell’incremento della vita
media e dell’innalzamento della età pensionabile
I due ultimi fattori dell’operazione (S e P) non sono sempre necessari del
calcolo essendo ritenuti oggetto di una valutazione discrezionale del giudice che deve,
comunque, motivare la sua scelta.
In base a questo sistema, dopo avere domandato ed ottenuto dal consulente
tecnico d’ufficio una analitica descrizione del modo in cui la lesione ha inciso sul
concreto svolgimento dell’attività lavorativa, occorre in primo luogo stabilire se sia
«verosimile» che i postumi residuati alla lesione, con l’andar del tempo, possano
causare una riduzione degli introiti.
42
5. Il concorso colposo del danneggiato ed i suoi riflessi sul danno risarcibile
Ai sensi dell’art. 1227 c.c. “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il
danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle
conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il
creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.
La norma richiamata contiene, secondo la giurisprudenza di legittimità64, al 1 e al 2 co.
due distinte disposizioni che disciplinano fattispecie profondamente diverse e con effetti
che operano su piani ontologicamente distinti: il primo comma regola il concorso del
danneggiato nella produzione del fatto dannoso ed ha come conseguenza una
ripartizione di responsabilità, rappresentando un'ipotesi particolare della più generale
previsione del concorso di più autori del fatto dannoso (art. 2055 c.c.), nella quale uno
dei coautori del fatto dannoso è lo stesso danneggiato che non può più ripetere quella
parte del danno dallo stesso causato e che quindi non costituisce un danno ingiusto. Una
situazione del tutto diversa è invece disciplinata dal 2 co. della norma in questione,
"danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza", ove si
prende in esame l’ipotesi in cui l’evento dannoso sia stato determinato esclusivamente
dalla condotta del debitore ma talune conseguenze potevano essere evitate se il creditore
avesse usato l’ordinaria diligenza.
“La norma, dunque, perimetra l’area del risarcibile, da un lato, attraverso il cd. concorso
colposo del danneggiato e, dall’altro, attraverso l’individuazione di quei danni che il
danneggiato stesso avrebbe potuto evitare adoperandosi con l’ordinaria diligenza”65.
E' orientamento consolidato della Suprema Corte che “l'art. 1227, comma 1, c.c. sia una
norma che disciplina la causalità tra condotta e danno, fissando un limite al principio
della condicio sine qua non. Il concorso colposo della vittima esclude pertanto il nesso
di causa tra la condotta ed il danno. Mancando il nesso di causa, viene a mancare la
concepibilità stessa d'una responsabilità purchessia in capo all'offensore. Responsabilità
che mancherà del tutto, se la condotta della vittima ha avuto efficacia causale
assorbente; o in misura proporzionale all'apporto causale di questa, se la condotta della
vittima ha avuto efficacia causale concorrente.66.
La Cassazione, peraltro, ha evidenziato che “premesso che il fatto colposo del
danneggiato, idoneo a diminuire l'entità del risarcimento secondo l'art. 1227 primo
64
Cass. n. 3729 del 04/05/1990
65
G. Cassano “La responsabilità civile” Giuffrè, Milano 2012 pg. 38
66
Cass. n. 17152 del 03/12/2002; nello stesso senso, tra le tante, Cass. n. 23426 del 2014 Cass. n. 15375
del 13.7.2011; Cass. n. 4476 del 24/02/2011; Cass. n. 11227 del 08/05/2008; Cass. n. 2868 del
26/02/2003)
43
comma cod. civ., comprende qualsiasi condotta negligente od imprudente che
costituisca causa concorrente dell'evento, e, quindi, non soltanto un comportamento
coevo o successivo al fatto illecito, ma anche un comportamento antecedente, purché
legato da nesso eziologico con l'evento medesimo, allorquando il fatto colposo del
danneggiante è antecedente al fatto illecito - cioè all'inadempimento ed alle sue
conseguenze dannose nella responsabilità contrattuale ed alla condotta integrante il fatto
ingiusto di cui all'art. 2043 cod. civ. ed alle sue conseguenze nella responsabilità
extracontrattuale - la sua efficacia di concausa del danno cagionato dall'illecito, se è
indubbio che possa estrinsecarsi con riferimento al danno-conseguenza della condotta di
inadempimento o della condotta realizzante il fatto ingiusto, può altrettanto
indubbiamente estrinsecarsi anche direttamente rispetto alla condotta costituente
l'illecito, cioè può giocare ed essere apprezzata come concausa della condotta di
inadempimento stesso o di quella determinativa del fatto ingiusto, id est come concausa
delle relative condotte illecite”67.
Il riscontro di profili di colpa in capo danneggiato può, dunque, dare luogo a tre ipotesi:
la prima della sussistenza di una colpa del danneggiato che sia, tuttavia, irrilevante ai
fini della produzione del sinistro e quindi del danno; la seconda della sussistenza di una
colpa del danneggiato di rilevanza tale da escludere la responsabilità dell’agente; la
terza la colpa del danneggiato concorrente con quella del danneggiante con conseguente
ripartizione del danno in una percentuale collegata con l’incidenza causale dei rispettivi
comportamenti.
Quanto al primo caso la Suprema Corte ha evidenziato che “non già la mera violazione
di una norma disciplinante la circolazione stradale è di per sè fonte di responsabilità (o
di limitazione dell'altrui responsabilità) in sede risarcitoria, bensì il comportamento che
la violazione medesima viene ad integrare, purché lo stesso abbia esplicato incidenza
causale sull'evento dannoso”68.
In relazione alla seconda ipotesi, di fatto colposo del danneggiato tale da interrompere il
nesso causale tra condotta dell’agente e danno, la Suprema corte ha evidenziato che il
67
Cass. n. 5677 del 15/03/2006
68
Nella specie, la S.C. con sentenza n. 8366 del 08/04/2010 ha cassato, con rinvio, la sentenza di merito
la quale aveva ritenuto che la presenza di un passeggero a bordo di un ciclomotore avesse avuto
incidenza causale sul sinistro determinato dall'urto del veicolo contro una barriera protettiva a seguito
dell'abbagliamento del conducente, in ragione del solo fatto che detta presenza fosse normativamente
vietata. L'omesso uso del casco protettivo da parte del conducente di un motociclo può essere fonte di
corresponsabilità della vittima di un sinistro stradale per il danno causato a se stessa, soltanto ove il
giudice di merito accerti in fatto che la suddetta violazione abbia concretamente influito sulla eziologia
del danno, costituendone, appunto, un antecedente causale. In tal senso Cass n. 24432 del 19/11/2009
44
comportamento del danneggiato può anche essere sopravvenuto rispetto alla condotta
dell’agente laddove si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, si da
privare di efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente
comportamento dell’autore dell’illecito 69.
Infine, quanto al “concorso” vero e proprio del fatto colposo del creditore di cui alla
terza ipotesi sopra svolta, deve rilevarsi che questo “agisce in stretto rapporto di
causalità con il danno, nel senso che esso deve essere riferito alla cooperazione attiva
del danneggiato nella produzione dell'evento. Si vuol dire che, se in genere l'evento è
determinato esclusivamente dal danneggiante, esso può verificarsi anche con il concorso
del comportamento colposo del danneggiato. In quest'ultimo caso vale il principio
secondo il quale il pregiudizio che ciascuno arreca a se stesso non costituisce danno in
senso giuridico. A quest'ultimo fine si rende necessario l'accertamento della gravità
della colpa del danneggiato per individuare la percentuale della sua efficienza causale
rispetto all'evento e per determinare l'entità delle conseguenze che sono derivate dal
concorso del fatto colposo del danneggiato70”.
La Suprema Corte, nelle fattispecie di sinistri stradali, in particolare, ha sottolineato che
“qualora la messa in circolazione di un veicolo in condizioni di insicurezza sia
ricollegabile all’azione o omissione non solo del conducente – il quale prima di iniziare
o proseguire la marcia deve controllare che questa avvenga in conformità delle normali
norme di prudenza e sicurezza – ma anche del trasportato, il quale ha accettato i rischi
della circolazione, si verifica un’ipotesi di cooperazione colposa dei predetti nella
condotta causativa del fatto evento dannoso. Pertanto in caso di danni al trasportato
medesimo, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea di per sé ad escludere la
responsabilità del conducente, né a costituire valido consenso alla lesione ricevuta,
vertendosi in materia di diritti indisponibili, essa può costituire nondimeno un
contributo colposo alla verificazione del danno” 71. Tale ipotesi si riscontra nei frequenti
casi di danneggiato trasportato a bordo di un ciclomotore a ciò non abilitato laddove,
ovviamente, si rinvenga in tale circostanza un fattore rilevante ai fini della
determinazione stessa del sinistro, nel senso che il trasporto del passeggero abbia
“creato un profondo turbamento dell'equilibrio del mezzo”.
Si è, ancora, ritenuto che “L'esposizione volontaria ad un rischio, o, comunque, la
consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca
a proprio danno un evento pregiudizievole, è idonea ad integrare una corresponsabilità
del danneggiato e a ridurre, proporzionalmente, la responsabilità del danneggiante, in
69
In tal senso Cass. N. 1002 del 21.1.2010 e Cass. n. 6640 dell’8.7.1998; Cass. n. 2737 del 7.4.1988
70
Cass. n. 3957 del 26/04/1994
71
Cass. n. 10526 del 13/5/2011 e Cass. n. 11947 del 22/05/2006.
45
quanto viene a costituire un antecedente causale necessario del verificarsi dell'evento, ai
sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., e, a livello costituzionale, risponde al
principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost. avuto riguardo alle esigenze di
allocazione dei rischi (riferibili, nella specie, all'ambito della circolazione stradale)
secondo una finalità comune di prevenzione, nonché al correlato obbligo di ciascuno di
essere responsabile delle conseguenze dei propri atti”72 .
Si è, invece, esclusa la configurabilità di un concorso colposo del danneggiato nella
mera accettazione, da parte del medesimo, del trasporto su autovettura con alla guida
conducente in evidente stato di ebbrezza, non assurgendo tale condotta a
comportamento materiale di cooperazione incidente nella determinazione dell'evento
dannoso . La Suprema Corte73 ha, infatti, sottolineato che “Per ritenere, quindi, che il
danneggiato concorra con suo fatto colposo a cagionare il danno è necessario che egli
ponga in essere una materiale condotta, tale da incidere nella produzione del danno
stesso, al cui verificarsi egli ha, così attivamente cooperato”.
Quanto al caso di mancato uso delle cinture di sicurezza da parte di un passeggero si è
rilevato che “sotto il profilo dell'illecito amministrativo non vi è dubbio che il
destinatario della norma, che impone l'obbligo della cintura, sia il soggetto che detta
cintura deve indossare, e quindi, in caso di soggetto trasportato, (salvo che sia minore),
destinatario del dovere sia lo stesso trasportato, che - ove non adempia - è l'unico
esposto alla sanzione. Ne consegue che l'omesso uso delle cinture di sicurezza, da parte
di persona che abbia subito lesioni in conseguenza di un sinistro stradale, costituisce un
comportamento colposo del danneggiato nella causazione del danno, rilevante ai sensi
dell'art. 1227 comma 1 c.c., e legittima la riduzione del risarcimento, ove si alleghi e
dimostri che il corretto uso dei sistemi di ritenzione avrebbe ridotto od addirittura eliso
il danno74”.
Altra ipotesi “tipica” di concorso colposo del danneggiato in materia di sinistri stradali
si rinviene nei casi di investimento di pedone per il quale la giurisprudenza è costante
72
Cass. n. 11698 del 26/05/2014 in applicazione dell'anzidetto principio ha confermato la sentenza di
merito, che aveva ritenuto sussistente il concorso di colpa del danneggiato per aver partecipato come
passeggero ad una gara automobilistica clandestina.
73
Cass. n. 27010 del 07/12/2005
74
Cass n. 4993 del 11/03/2004 e Cass. 29 settembre 2011 n. 19884, che ha respinto il ricorso di una
donna, vittima, assieme al conducente del veicolo a bordo del quale veniva trasportata, di un incidente;
Cass. 28 maggio 2009 n. 12547, che ha rigettato il ricorso di un uomo ed una donna che avevano subito
un tamponamento , stabilendo che "non portare la cintura di sicurezza determina un risarcimento del
danno ridotto"
46
nel ritenere che “La presunzione di colpa del conducente dell'autoveicolo investitore
prevista dall'art. 2054, comma primo, cod. civ. non opera in contrasto con il principio
della responsabilità per fatto illecito, fondata sul rapporto di causalità fra evento
dannoso e condotta umana. Pertanto, la circostanza che il conducente non abbia fornito
la prova idonea a vincere la presunzione non preclude l'indagine in ordine all'eventuale
concorso di colpa, ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., del pedone investito,
sussistente laddove il comportamento di quest'ultimo sia stato improntato a pericolosità
ed imprudenza”75.
In particolare se da un lato si è ritenuto che “la mera circostanza che il pedone abbia
attraversato la strada, sulle strisce pedonali, frettolosamente e senza guardare non
costituisce da sola presupposto per l'applicabilità dell'art. 1227, comma primo, cod. civ.,
occorrendo invece a tal fine che la condotta del pedone sia stata del tutto straordinaria
ed imprevedibile76, dall’altro si è ritenuto che il pedone che attraversa in ora notturna
una strada a quattro corsie con scorrimento rapido, scavalcando il guard-rail, concorre a
porre in essere una situazione di pericolo, ponendo i veicoli sopravvenienti in
condizioni di difficoltà e di emergenza ove, avvistandolo, non possano poi porre in
essere adeguate manovre per evitare o ridurre l'impatto. Pertanto, nella ricostruzione
della dinamica del fatto il giudice, ai fini del riparto delle responsabilità, ai sensi degli
artt. 2054 e 1227 cod. civ., deve ponderare tutte le cause imputabili alle condotte
imprudenti del pedone ed inesperte o negligenti dei conducenti in relazione agli altri
elementi obbiettivi riscontrati sul luogo dell'investimento 77.
La regola fissata dall'art. 1227, comma 1, c.c., trova applicazione anche nel caso in cui
la vittima del danno abbia, con la propria condotta colposa, concausato la propria morte.
Anche in questo caso il responsabile non potrà essere chiamato a rispondere
integralmente del danno patito dai congiunti della vittima, per la semplice ragione che
75
Cass. n. 6168 del 13/03/2009 ed in senso conforme Cass. n. 24204 del 13/11/2014 che sottolinea che,
atteso che “il conducente di veicoli a motore è onerato da una presunzione di colpa, il giudice chiamato
a valutare e quantificare l'esistenza d'un concorso di colpa tra la colpa del conducente e quella d'un
pedone investito deve: (a) muovere dall'assunto che la colpa del conducente sia presunta e pari al 100%;
(b) accertare in concreto la condotta del pedone; (c) ridurre progressivamente la percentuale di colpa
presunta a carico del conducente via via che emergano circostanze idonee a dimostrare una colpa in
concreto del pedone” e che è onere del conducente dimostrare che la condotta del pedone è stata
colposa ed ha avuto efficacia causale assorbente o concorrente nella produzione dell'evento.
76
Cass.n. 20949 del 30/09/2009
77
Cass. n. 24689 del 24/11/2009
47
dove vi è colpa della vittima manca il nesso di causa tra azione e danno, e dove manca
questo non sorge responsabilità 78.
Per quanto, poi, attiene al co. 2 dell’art. 1227 c.c. va ribadito che a differenza
dell'ipotesi regolata dal primo comma dell'art. 1227 cod. civ. - che concerne l'incidenza
del comportamento colposo del creditore danneggiato nella determinazione del danno,
la quale rileva ai fini di una proporzionale riduzione del risarcimento - l'ipotesi
disciplinata dal secondo comma della stessa norma, in presenza di un fatto dannoso,
sotto il profilo causale, imputabile al solo debitore, ne esclude la risarcibilità
limitatamente alle conseguenze ulteriori che il creditore avrebbe potuto evitare con il
proprio comportamento, successivo all'evento. Tale norma si riferisce, dunque, alla
diversa situazione in cui il danneggiato sia estraneo alla produzione dell'evento, ma,
dopo il suo verificarsi, abbia omesso di far uso della normale diligenza per circoscrivere
l'incidenza negativa dell’evento stesso. In relazione a detta seconda ipotesi, il contegno
del creditore va valutato sotto il profilo della eventuale omissione della "ordinaria
diligenza" richiesta dal medesimo art. 1227. Si ritiene, peraltro, che la norma in esame,
nel porre la condizione dell'inevitabilità, da parte del creditore, con l'uso dell'ordinaria
diligenza, non si limita a richiedere a quest' ultimo la mera inerzia, di fronte all'altrui
comportamento dannoso, o la semplice astensione dall'aggravare, con fatto proprio, il
pregiudizio già verificatosi, ma, secondo i principi generali di correttezza e buona fede
di cui all'art. 1175 cod. civ., gli impone altresì una condotta attiva o positiva diretta a
limitare le conseguenze dannose di detto comportamento, intendendosi comprese
nell'ambito dell'ordinaria diligenza, all'uopo richiesta, soltanto quelle attività che non
siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.
Dal punto di vista processuale e con particolare riguardo alla materia dei sinistri stradali
che qui interessa, si è evidenziato che il danneggiato da illecito da circolazione stradale
ha l'onere di provare il fatto storico della circolazione, l'evento di danno e l'imputabilità
soggettiva (per la colpa) ed oggettiva (per il nesso causale, che include la dinamica
dell'incidente e la compatibilità delle lesioni), mentre è il danneggiante o il suo solidale,
che si giova del concorso, a dover eccepire e provare il concorso del fatto colposo del
creditore79.
78
Cass. n. 23426 del 04/11/2014 e 11698/2014 e Cass. n. 18177 del 28/08/2007
79
Cass. 20 novembre 2001 n. 14592 e Cass. 28 luglio 2004 n. 14235. Vd anche Tribunale Roma sez. XIII
del 12/01/2007; Tribunale Ferrara del 26/05/2005 il quale afferma che incombe sul responsabile
dell'evento dannoso, e non sul danneggiato, l'onere di provare, ai fini della riduzione del risarcimento,
sia che il danneggiato non utilizzava la cintura di sicurezza al momento dell'incidente, sia che tale
omissione abbia determinato le lesioni o l’aggravamento delle stesse. Ancora Tribunale Udine del
48
“La prova che il creditore-danneggiato avrebbe potuto evitare i danni dei quali chiede il
risarcimento usando l'ordinaria diligenza, deve essere, dunque, fornita dal debitoredanneggiante che pretende di non risarcire, in tutto o in parte, il creditore. Se non vi
sono elementi per accertare l'esistenza di un apporto causale ad opera del
comportamento colposo del creditore-danneggiato (nella fattispecie, mancato uso delle
cinture di sicurezza da parte del trasportato), non rimane che l'incidenza causale del
comportamento del danneggiante, tenuto conto che la posizione del passeggero è
assistita dalla presunzione di colpa nella causazione dell'evento dannoso a carico del
conducente a norma dell'art. 2054, comma 1, c.c.”80
Tuttavia in giurisprudenza si è distinto, sul piano probatorio, le due ipotesi contemplate
nell’art. 1227 c.c. affermando che solo nella circostanza di cui al co. 2 potrebbe essere
ravvisato l’oggetto di una eccezione in senso stretto, in quanto tale proponibile solo
dalla parte interessata, mentre il concorso causale di cui al co. 1 potrebbe essere rilevato
anche d’ufficio. Questa possibilità, tuttavia, viene ammessa solo laddove risultino
acquisiti al processo elementi idonei a sostenere il concorso causale del danneggiato, nel
rispetto, dunque, del principio dispositivo ed in base alle allegazioni delle parti ed alle
prove richieste ed ammesse. La giurisprudenza81, infatti, sostiene che, nella
ricostruzione del fatto storico il giudice possa rilevare il concorso di colpa del
danneggiato, anche di ufficio, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai
quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale dello stesso danneggiato, e
ciò nella considerazione che tale indagine sia intrinseca alla ricostruzione del fatto
storico e non costituisce eccezione in senso stretto.
Proprio sul presupposto che il primo comma dell'art. 1227 c.c. concerna il concorso
colposo del danneggiato nella produzione dell'evento che configura l'inadempimento,
quindi la sua cooperazione attiva -mentre, nel secondo comma, il danno è
eziologicamente imputabile al danneggiante, ma le conseguenze dannose dello stesso
avrebbero potuto essere impedite o attenuate da un comportamento diligente del
15/04/1998 secondo il quale “L'omesso uso delle cinture di sicurezza da parte di persona che abbia
subito lesioni in conseguenza di un sinistro stradale, costituisce un concorso colposo del danneggiato
alla causazione del danno, ai sensi dell'articolo 1227 comma primo, cod. civ., e legittima una riduzione
del risarcimento soltanto ove si alleghi e dimostri che il corretto uso dei sistemi di ritenzione avrebbe
ridotto od addirittura eliso il danno”. Tribunale Roma del 28/01/2003 sottolinea che “Non è accoglibile
la tesi concernente la probabile incidenza del mancato uso della cintura di sicurezza sul danno subito in
un sinistro stradale, ai fini della diminuzione del risarcimento ex art. 1227 cod. civ. e 2056 cod. civ., ove
la tesi non sia confortata da nessuna prova o richiesta di prova e si basi esclusivamente su considerazioni
presuntive”.
80
Cass. N. 7777 del 03/04/2014 vedi anche Cass. n. 23148 del 31/10/2014.
81
Cass.: 13 gennaio 2005 n. 205 n. 564, Cass. 12 marzo 2004 n. 5127
49
danneggiato- la Suprema Corte ha altresì evidenziato che “nel caso di giudizio sull'"an"
separato da quello sul "quantum", le circostanze imputabili al danneggiato, idonee a
determinare un suo concorso di colpa, vanno dedotte ed esaminate in sede di
accertamento generico per quanto attiene sia alla loro esistenza, sia al grado della loro
efficienza causale; pertanto, qualora in detto giudizio sia stato escluso il concorso di
colpa del danneggiato, ogni questione sul punto non è più proponibile nel successivo
giudizio82.
Vale, infine, la pena di evidenziare che l'accertamento in termini percentuali del
concorso di colpa della vittima nella causazione del danno costituisce il frutto di un
procedimento logico e non matematico, e, come tale, insuscettibile di giustificazione
analitica. Ne consegue che colui il quale si dolga del relativo accertamento compiuto dal
giudice di merito non può limitarsi ad invocare che la corresponsabilità della vittima
fosse in realtà maggiore o minore di quella accertata, ma ha l'onere di dedurre il vizio di
motivazione, sotto forma di contraddittorietà tra l'espressione percentuale del concorso
di colpa e le osservazioni logiche che la sorreggono83.
6. Rivalutazione ed interessi
Il risarcimento dovuto per danno subito in occasione di sinistro stradale è debito
di valore, sicché deve essere rivalutato e produce interessi, da calcolarsi sulla somma
originaria, rivalutata tempo per tempo. La rivalutazione ha la funzione di ripristinare la
situazione patrimoniale di cui il danneggiato godeva anteriormente all'evento dannoso,
mentre il nocumento finanziano (lucro cessante) da lui subito a causa del ritardato
conseguimento del relativo importo, che se corrisposto tempestivamente avrebbe potuto
essere investito per lucrarne un vantaggio economico, può essere liquidato con la
tecnica degli interessi84.
La Suprema Corte ha ritenuto, anche di recente che nelle obbligazioni di valore,
quale quella di risarcimento del danno determinato da un fatto illecito, gli interessi per il
ritardo nel pagamento della somma dovuta costituiscono una componente implicita
nella domanda risarcitoria e, come tali, non solo spettano di pieno diritto al danneggiato,
anche in assenza di un'espressa richiesta, ma sono dovuti anche in mancanza di una
prova rigorosa del mancato guadagno, potendo tale prova essere offerta dalla parte e
82
Cass. n. 13242 del 06/06/2007
83
Così Cass. n. 6752 del 24/03/2011
84
Cass. N. 15928 del 7.7.2009 e Cass. n.3747/05
50
riconosciuta dal giudice ricorrendo a criteri presuntivi ed equitativi, previa valutazione
delle circostanze attinenti al caso specifico85
Nella responsabilità aquiliana, infatti l'obbligazione risarcitoria mira alla
reintegrazione del patrimonio del danneggiato e dunque la rivalutazione monetaria è
dovuta a prescindere dalla prova della svalutazione monetaria da parte del danneggiato
ed è quantificabile dal giudice, anche d'ufficio, tenendo conto della svalutazione
sopravvenuta fino alla data della liquidazione86.. È altresì risarcibile il nocumento
finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato conseguimento della somma
riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la tecnica degli interessi computati
non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma
sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero sulla somma rivalutata in base
ad un indice medio.87 Il ritardato adempimento dell'obbligo di risarcimento causa al
creditore un danno ulteriore, rappresentato dalla perduta possibilità di investire la
somma dovutagli e ricavarne un lucro finanziario. Tale danno va liquidato dal giudice in
via equitativa, anche facendo ricorso ad un saggio di interessi, (cosiddetti "interessi
compensativi") i quali non costituiscono un frutto civile dell'obbligazione principale, ma
una mera componente dell'unico danno da fatto illecito88.
Le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno, dunque, vanno rivalutate
dalle date in cui sono state monetariamente determinate (c.d. aestimatio) fino alla data
della loro liquidazione definitiva (c.d. taxatio). La rivalutazione va effettuata applicando
sulle somme i più recenti indici di rivalutazione monetaria ricavati dalle pubblicazioni
ufficiali dell'ISTAT. Gli indici presi in considerazione sono quelli del c.d. costo della
85
Cass. n. 10825 del 11/05/2007 e Cass. n. 20943 del 30/09/2009
86
Cass. n. 22347 del 24/10/2007 sottolinea peraltro che “Nei debiti di valore i cosiddetti interessi
compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno causato dal ritardato pagamento
dell'equivalente monetario attuale della somma dovuta all'epoca dell'evento lesivo. Tale danno sussiste
solo quando, dal confronto comparativo in unità di pezzi monetari tra la somma rivalutata riconosciuta
al creditore al momento della liquidazione e quella di cui egli disporrebbe se (in ipotesi
tempestivamente soddisfatto) avesse potuto utilizzare l'importo allora dovutogli secondo le forme
considerate ordinarie nella comune esperienza ovvero in impieghi più remunerativi, la seconda ipotetica
somma sia maggiore della prima, solo in tal caso potendosi ravvisare un danno da ritardo, indennizzabile
in vario modo, anche mediante il meccanismo degli interessi, mentre in ogni altro caso il danno va
escluso. Il giudice del merito è tenuto a motivare il mancato riconoscimento degli interessi compensativi
solo quando sia stato espressamente sollecitato mediante l'allegazione della insufficienza della
rivalutazione ai fini del ristoro del danno da ritardo secondo il criterio sopra precisato”.
87
Cass. n. 4587 del 25/02/2009
88
Cass. n. 17155 del 09/10/2012
51
vita, ovverosia del paniere utilizzato dall'ISTAT per determinare la perdita di capacità di
acquisto con riferimento alla tipologia dei consumi dalle famiglie di operai ed impiegati
(indice F.O.I.). Sulle somme come sopra liquidate sono dovuti, fino alla data della
sentenza, gli interessi c.d. compensativi, che, in mancanza di migliori elementi di
giudizio sul punto (eventualmente offerti dalle parti), possono fissarsi equitativamente
nel tasso degli interessi legali, e valgono a compensare il danneggiato del mancato
godimento delle somme stesse nel periodo considerato. Ai sensi dell'art. 1219 c.c., gli
interessi sulle somme dovute per il risarcimento di danni da illecito aquiliano decorrono
dalla data in cui il danno è stato prodotto. Secondo la più puntuale elaborazione
giurisprudenziale sul tema, tali interessi compensativi non vanno calcolati né sul valore
iniziale del danno (e cioè sulle somme non rivalutate), né sulle somme risultanti dalla
rivalutazione relativa all'intero periodo di mora del debitore, bensì sul valore che si
ricava dalla rivalutazione calcolata anno per anno secondo i criteri già fissati dalla Corte
di Cassazione89, secondo cui gli interessi (ad un tasso non necessariamente
corrispondente a quello legale) vanno calcolati dalla data del fatto non sulla somma
complessiva rivalutata alla data della liquidazione, bensì sulla somma originaria
rivalutata anno dopo anno, cioè con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali
la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici di rivalutazione
monetaria. In altre parole, per il primo anno gli interessi si calcolano sulla somma non
rivalutata, per il secondo anno si calcolano sulla somma rivalutata secondo gli indici
Istat dell’anno di riferimento, e così via …
In alternativa sarebbe possibile calcolare gli interessi legali prendendo come
base l’importo che risulta dalla rivalutazione della somma originaria secondo la media
degli indici Istat degli anni di riferimento. In relazione a questa seconda operazione,
nella pratica risultano corretti sia il metodo che calcola gli interessi dalla data del fatto
sull’importo costituito dalla media tra il credito originario e quello risultante dalla
rivalutazione, sia quello che pone come base del calcolo il credito originario rivalutato
secondo un indice medio.
Il calcolo della rivalutazione e di questi interessi c.d. compensativi si arresta alla
data della sentenza, in quanto gli interessi compensativi relativi a debiti di valore,
destinati a coprire una componente del danno globale da risarcire e dovuti dalla data
dell'evento dannoso a quella della pronuncia giudiziale di liquidazione, anche se
comprensiva della rivalutazione monetaria, non sono in realtà veri e propri interessi ma
soltanto uno dei possibili mezzi tecnici pretoriamente adottato dalla giurisprudenza per
ristorare il danneggiato della perdita delle utilità economicamente apprezzabili che,
nell'intervallo tra la consumazione dell'illecito e la liquidazione finale, il medesimo
danneggiato avrebbe potuto trarre dal bene (se non ne fosse stato privato e alla cui
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Cass. n. 1712/95
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restituzione in natura avrebbe diritto) o dall'equivalente monetario del bene stesso se
tempestivamente conseguito.
Nel caso di riconoscimento del risarcimento del danno da ritardo mediante
l’attribuzione degli interessi, in ipotesi in cui sia intervenuto il pagamento di acconti
prima della liquidazione, di questi il giudice deve tenere conto, senza che peraltro possa
farsi riferimento al criterio dettato dall’art. 1194 c.c. (secondo cui il debitore non può
imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi), che vale esclusivamente
per le obbligazioni di valuta (Cassazione n. 5707/97; n. 2115/96; n. 6228/94). Al
riguardo, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione risultano riconosciuti due
metodi.
Secondo un primo metodo, dall’importo rivalutato del credito originario va
detratta la somma pagata in acconto, previa sua rivalutazione e quindi deve procedersi al
calcolo degli interessi, secondo i criteri dettati dalla sentenza n.1712/95 da computare
sull’intero importo dovuto, per il periodo che va dalla data dell’evento dannoso al
versamento dell’acconto, e sulla somma residua dopo la detrazione dell’acconto
rivalutato, per il periodo che va dalla corresponsione dell’acconto alla data della
liquidazione (sent. n. 6228/94; n. 12452/03).
Secondo un altro metodo, più semplice, si procede invece a devalutare alla data
del fatto sia l’acconto che il credito risarcitorio rivalutato, a detrarre il primo dal
secondo ed a procedere quindi al computo degli interessi sulla differenza secondo i
ridetti criteri (sent. n. 12452/03).
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