ACTA N. 33-2006++completo

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ACTA N. 33-2006++completo
Volume nº 33 - Anno 2006
LE FRATTURE PERIPROTESICHE DELL’ANCA
DR. D. DURANTE - DR. F. BASILE ROGNETTA
Istituto Ortopedico del Mezzogiorno d’Italia “F. Faggiana” Reggio Calabria
Direttore Dr. P. CAVALIERE
RIASSUNTO
L’incidenza delle fratture periprotesiche del femore dopo protesizzazione d’anca è nettamente aumentata negli ultimi 10 anni, con l’aumento delle protesi impiantate ogni anno,
arrivando ad interessare fino al 1% dei casi per impianti primari e fino al 6% dei casi nelle
revisioni chirurgiche.
Nei pazienti già protesizzati aumentano i fattori di rischio (osteoporosi e difficoltà
deambulatorie) e le fratture possono avverarsi intraoperatoriamente o per successivo trauma spesso a bassa o bassissima energia. Lo scopo del trattamento deve essere quello di
portare a consolidazione la frattura ma, a differenza del comune trattamento, un elemento
da valutare è la stabilità dell’impianto e il bone stok periprotesico. Raramente il trattamento è incruento, preferendosi la sintesi con placca in presenza di impianto stabile e revisione
con stelo lungo in caso di protesi mobilizzata.
Parole chiave: fratture periprotesiche, protesi d’anca, osteolisi periprotesica.
INTRODUZIONE
Le fratture periprotesiche del femore dopo una protesizzazione di anca costituiscono
una problematica che nella pratica quotidiana sta assumendo valori sempre più alti con
l’aumentare del numero di protesi impiantate.
Secondo i diversi autori le incidenze vanno dal 0,1 -2,5 % nella chirugia primaria
(Johanson 1981- D’Imporzano 1996- Spotorno 1996) al 2,9% nella chirugia di revisione (Zuber 1990), e fino al 6% secondo altri sempre nella revisione (1-3).
Barry (1998) distingueva l’incidenza in: 0,5% nelle primarie cementate, 0,2% nelle primarie biologiche, 1,4% nelle revisioni cementate e 0,8% nelle revisioni biologiche
I motivi che hanno causato l’incremento di questa complicanza sono da attribuire anzitutto al notevole numero di protesi d’ anca che vengono impiantate ogni anno (in USA
vengono eseguite 120.000 protesi/anno (4) ed, a titolo di esempio, nel nostro Istituto
mediamente vengono impiantate 250 protesi per anno), con un trend tuttora in crescita;
inoltre si assiste ad un allargamento delle indicazioni: attualmente infatti, grazie ai nuovi
materiali protesici, al miglioramento ed alla velocizzazione della tecnica operatoria, l’impianto protesico viene eseguito anche in pazienti molto anziani, obesi, con scadente qualità
ossea, o anche in “giovani” anziani che dopo l’intervento di protesi mantengono le loro
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abitudini comportamentali, e che quindi possono andare incontro a traumi efficienti tali da
procurare una frattura periprotesica (3-5); è da considerare ancora il fattore rappresentato
dall’aumento del numero dei casi che necessitano di chirurgia di revisione, (attorno alla
7^-8^ decade di vita), dove la frattura periprotesica è possibile per la qualità dell’osso che
è già generalmente più scadente, oltre che per la maggiore possibilità di creare difetti corticali durante l’intervento chirurgico (3-6); infine le fratture sono influenzate da fattori
generali, come la osteoporosi severa (si sono osservati casi di fratture “spontanee”) o patologie neurologiche che alterano lo schema deambulatorio e provocano cadute accidentali,
e fattori locali di rischio come difetti corticali iatrogeni intra o perioperatori (alcuni necessariamente ricercati, come le ampie fenestrature per la rimozione dello stelo cementato
precedente) o mobilizzazione dello stelo femorale sia nell’immediato postoperatorio sia
per la progressiva osteolisi periprotesica negli anni.
CLASSIFICAZIONE
Esistono numerose classificazioni delle fratture
periprotesiche dell’anca. Alcune prendono in considerazione solamente la sede della frattura (Johansson et
al. del 1981) (8), mentre altre considerano, oltre la
sede, altri fattori come lo stato dello stelo (stabile o
instabile) o la qualità del bone stock periprotesico.
Altra classificazione adoperata è quella di Vancouver
elaborata da Duncan e Masri del 1995 (9); si tratta di
una classificazione semplice che include il livello di
frattura, la stabilità dell’impianto e la qualità ossea e
soprattutto è di facile utilizzo per la programmazione
della strategia chirurgica.
Per questo lavoro e come guida nell’attività chirurgica abbiamo utilizzato la semplice classificazione di
S.S. Kelley che tiene conto soprattutto del livello della
frattura (prossimale-intermedia-distale) adattando poi
ed integrando caso per caso la valutazione del bone
stok e la tenuta dell’impianto protesico (fig 1)
Fig. 1
TRATTAMENTO
Inizia in sala operatoria evitando di creare microfratture o difetti corticali, e se questi
sono presenti occorre adoperare cerchiaggi metallici per evitare che si propaghino e determinino una frattura completa, oppure bypassare i difetti corticali con protesi a stelo lungo
di almeno il doppio del diametro corticale. Nell’ottica della prevenzione riteniamo importante sottoporre periodicamente a controlli clinico radiografici i protesizzati a un mese, tre
mesi, sei mesi, e successivamente a cadenza almeno annuale per proporre un reimpianto al
momento in cui un peggioramento del bone stok faccia intuire una possibile cedimento
corticale (6-7).
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Gli obiettivi del trattamento consistono nel ripristinare il migliore asse anatomico possibile, nell’ottenere la stabilità sia dell’impianto protesico che della frattura allo scopo di
consentire una precoce mobilizzazione del paziente, e quindi possibilmente garantire un
ritorno alla qualità di vita precedente al trauma.
Per tali obiettivi il trattamento può essere di tipo conservativo o chirurgico (5-6-9).
Il trattamento conservativo è generalmente riservato ai casi nei quali le condizioni generali del paziente sono talmente scadenti da non potere permettere un intervento chirurgico,
oppure nei casi di frattura composta riguardante i massicci trocanterici, dove la protesi è
stabile e la diastasi della frattura non sia eccessiva; in questi casi vengono applicati dei
tutori di anca o trazione a cerotti per 30 gg seguiti da carico parziale sull’arto.
Il trattamento chirurgico viene invece riservato a tutte le altre fratture ove prima di tutto
è fondamentale stabilire se lo stelo sia mobilizzato; ciò lo si può dedurre dalla clinica,
dalle radiografie precedenti la frattura e dalla TAC preoperatoria che “ricostruisce” la spira
di frattura; molte volte però la certezza si concretizza solamente durante l’intervento chirurgico, ed è quindi importante, in questi casi, programmare l’intervento consapevoli che
possa essere necessario anche un cambio di indicazione durante l’intervento stesso (3-6);
le indicazioni sono:
• Nelle fratture prossimali trocanteriche scomposte con protesi stabile: sintesi con kirschner e cerchiaggi del trocantere.
Fig. 3 postop.
Fig. 2 preop.
• Nelle fratture intermedie e distali con stelo stabile: riduzione a cielo aperto e sintesi
(13). Il problema è rappresentato dalla scelta del mezzo di sintesi che deve essere in grado
di permettere una buona riduzione della frattura e di garantire una sufficiente stabilità. E’
nota la difficoltà dell’utilizzo di viti bicorticali in sede protesica per la presenza dello stelo,
ed anche l’utilizzo dei soli cerchiaggi metallici talvolta è sufficiente a garantire un adeguata stabilità. Per questi motivi sono state introdotte delle placche che permettono l’utilizzo
contemporaneo di cerchiaggi e viti. Dalla placca di Ogden, che permetteva l’ancoraggio
prossimale con bande di Parham e distalmente poteva essere bloccata con viti, sono stati
sviluppati altri impianti come le placche che presentano in alternanza per tutta la loro lun– 161 –
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ghezza fori ovali per le viti e sagomature per cerchiagli, in modo tale che il chirurgo ossa
scegliere se e dove utilizzare cerchiaggi, viti bicorticali e/o mono corticali.
Fig. 4 preop.
Fig. 5 postop.
• Nelle fratture intermedie e distali con stelo mobilizzato: nella maggior parte dei casi
vi è una indicazione alla sostituzione dello stelo femorale usando delle protesi modulari, a
stelo lungo, non cementate in grado di oltrepassare la frattura almeno del doppio del diametro corticale così da ottenere una buona stabilità, simile a quella che si ottiene con un
chiodo endomidollare.
Fig. 7 postop.
Fig. 6 preop.
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Molti Autori consigliano l’utilizzo di steli lunghi non cementati perché l’utilizzo del
cemento in sede di frattura può portare, oltre che all’interposizione dello stesso nel focolaio di frattura con conseguente mancata guarigione, anche a rischi generici come embolie
gassose e patologie vascolari dovuti alla reazione esotermica durante la polimerizzazione
(15-19-20).
Nei gravi difetti ossei è necessario aggiungere trapianti ossei massivi o sotto forma di
chips. Tale indicazione sussiste anche per le possibili contemporanee mobilizzazioni del cotile.
MATERIALI E METODI
In occasione del presente lavoro abbiamo preso in esame i casi operati nel nostro
Istituto dal gennaio 2004 al dicembre 2005. Si tratta di complessivi 42 casi (30 femmine12 maschi). La suddivisione topografica ha fatto constatare 16 casi di frattura prossimale-9
fratture intermedie-11 fratture distali- 3 fratture bifocali- 3 rifratture. Le linee guida chirurgiche sono state quelle esposte. Nei casi di stelo mobilizzato abbiamo impiantato sempre
uno stelo lungo da ripresa (Profemur E della Wrigth) che si propone con una modularità
che prevede l’adattamento a diverse dimensioni di metafisi, con diverse misure e posizioni
del collo, diverse testine e infine steli di diversa misura e calibro in grado comunque di
oltrepassare la frattura per il doppio del diametro corticale. Il carico è stato concesso
secondo la stabilità riscontrata intraoperatoriamente, e a seconda sia stata effettuata anche
la revisione del cotile. Tutte le fratture sono arrivate a consolidazione. Fra i casi atipici
segnaliamo una frattura per caduta accidentale avveratasi distalmente ad uno spaziatore
impiantato dopo un espianto di protesi settica. La frattura è avvenuta a distanza dall’espianto, quando il quadro ematochimico e locale già poneva l’indicazione ad un reimpianto che è stato effettuato d’èmblee assieme ad una sintesi con placca e cerchiaggi.
Fig. 8 preop.
Fig. 9 postop.
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CONCLUSIONI
In conclusione riteniamo che le fratture periprotesiche rappresentino un problema
importante la cui incidenza è destinata ad aumentare nel corso degli anni per le motivazioni suesposte, e per le quali non esiste un trattamento standardizzato.
La corretta scelta terapeutica dipende dal livello di frattura, dalla qualità ossea, dalla
stabilità protesica e dalle condizioni generali del paziente. Rimane comunque una chirurgia difficile da eseguire, dove può accadere che il chirurgo, nonostante un adeguato planing preoperatorio, sia costretto ad un possibile cambio di indirizzo intraoperatorio e pertanto bisogna essere attrezzati e preparati a simile evenienza.
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