I tre cedri - effediemme

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I tre cedri - effediemme
18. circe e il pavone.
l’immaginario barocco
Giambattista Basile
Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de’ peccerille (“Il racconto dei
racconti ovvero Il passatempo per i più piccoli”) di Giambattista Basile,
meglio conosciuto come Pentamerone, è un’opera raffinata che mescola
modelli diversi: la struttura rimanda alla tradizione novellistica, ma i racconti attingono al ricchissimo patrimonio fiabesco popolare, e sono scritti
in napoletano. Come il Decameron – a cui si riferisce già nel titolo, solo che
i giorni (emeron) da dieci (deca) sono passati a cinque (penta) –, l’opera
è composta da cinquanta racconti (nel Decameron sono cento), racchiusi
in una cornice. Quest’ultima narra le disavventure di Zoza, che sta per
conquistare il bellissimo Tadeo, principe di Camporotondo, quando viene
ingannata e preceduta da una schiava mora. Per vendicarsi Zoza ispira alla
schiava (che nel frattempo è rimasta incinta) il desiderio di ascoltare racconti, e il principe fa chiamare dieci bruttissime novellatrici (una è zoppa,
una ha il gozzo, una la gobba, e così via…) che raccontano le loro novelle
per cinque giorni; ma dopo l’ultima fiaba dell’ultimo giorno subentra Zoza,
e narra la sua stessa vicenda: la verità viene così svelata, la schiava mora
condannata a morte e giustiziata.
I tre cedri (Le tre cetra, in napoletano) è il racconto che precede quello di Zoza: protagonista è
un giovane principe che rifiuta categoricamente di sposarsi, fino a quando decide che l’unica
donna adatta per lui deve essere «bianca e rossa come appunto quella ricotta colorata dal
suo sangue». Si mette dunque in cerca di questa ragazza e, trovatala, decide di portarsela a
casa come legittima sposa.
Un’illustrazione del
Pentamerone del
pittore austriaco
Franz von Bayros,
1909.
Il re di Torrelunga aveva un figlio maschio che era il suo occhio destro, che era le fondamenta di tutte le sue speranze e non vedeva l’ora di accasarlo con qualche buon partito e d’essere
chiamato nonno. Ma questo principe era tanto solitario e selvaggio che, quando gli si parlava di
moglie, scuoteva la testa e lo trovavi lontano cento miglia.
Tanto che il povero padre, che vedeva il figlio acido e ostinato e la sua stirpe conclusa, se
ne stava indispettito, quasi quasi scoppiava, aveva un nodo alla gola, era tutto gonfio come una
puttana che ha perduto il cliente, come un mercante a cui è fallita la filiale, come un contadino
a cui è morto l’asino, perché lui non era commosso dalle lacrime di tata, né ammorbidito dalle
preghiere dei sudditi, né scosso dai consigli dei gentiluomini che gli illustravano il piacere di chi
10 lo aveva generato, la necessità dei popoli, il suo interesse e che avrebbe posto termine alla linea del
sangue di re e, con una perfidia da Carella1, con un’ostinazione da mula vecchia, con una pellaccia
di quattro dita, dov’era meno spessa, aveva puntato i piedi, tappate le orecchie e otturato il cuore,
avrebbe potuto anche suonare l’allarmi.
Ma, poiché di solito accade più in un’ora che in cent’anni e non puoi mai dire per questa
via non passo, accadde che, trovandosi un giorno tutti insieme a tavola, il principe, tagliando a
metà una ricotta, mentre badava alle cornacchie che passavano si fece per disgrazia un taglio ad
un dito, tanto che due gocce di sangue, cadendo sulla ricotta, fecero un intruglio di colore così
bello e piacevole che – o fosse una punizione di Amore che l’aspettava al varco o una volontà del
1. Carella: probabilmente un personaggio popolare a noi sconosciuto.
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cielo per consolare quell’uomo dabbene del padre, che non era tormentato tanto dalla sua ernia
addomesticata quanto da quel puledro selvaggio del figlio – gli venne il capriccio di trovare una
femmina così bianca e rossa come appunto quella ricotta colorata dal suo sangue.
E disse al padre: «Signore mio, se non avrò una cosetta con questa carnagione sono spacciato! non c’è mai stata una femmina che mi ha scosso il sangue e ora desidero una femmina
come il mio sangue. Perciò deciditi, se mi vuoi avere sano e vivo, a darmi l’equipaggiamento per
andarmene attraverso il mondo cercando una bellezza che sia pari a questa ricotta; se no finisco
la corsa e vado a fondo».
E il re, sentendo questa decisione da bestia, gli cascò la casa in testa e, restando tutto rigido,
passava da un colore all’altro, e, quando riuscì a tornare in se stesso e ad aprire la bocca, disse:
«Figlio mio, ciliegina dell’anima mia, occhio del mio cuore, bastone della mia vecchiaia, che vertigine ti è venuta? sei uscito di senno? hai perso il cervello? o è asso o è sei! tu non volevi moglie
per togliermi l’erede e ora te n’è venuta voglia per buttarmi fuori da questo mondo? dove, dove
vuoi andartene in giro, consumando la vita e lasciando la tua casa? la tua casetta, il tuo focolarino,
la tua puzzettina? non sai quante fatiche e quanti pericoli toccano al viaggiatore? fatti passare,
figlio mio, il capriccio, stammi a sentire! non voler vedere questa vita chiusa, questa casa caduta
a piombo2, questo stato andato alla malora!».
Ma queste e altre parole gli entravano da un’orecchia e dall’altra gli uscivano ed era come
gettarle a mare; tanto che il povero re, visto che il figlio faceva la cornacchia assordata nel campanile, gli diede una bella manata di denari e due o tre servi e lo salutò, sentendosi staccare l’anima
dal corpo e, affacciato a un terrazzino, piangendo come una vite tagliata lo seguì con gli occhi
finché lo perse di vista.
E allora il principe partì lasciando il padre triste e amareggiato e cominciò a trotterellare per
campagne e boschi, per monti e per valli, per piani e per alture e vide molti paesi e ebbe a che fare
con molti popoli e sempre con gli occhi aperti per vedere se gli riuscisse di vedere il bersaglio del
suo desiderio. Tanto che, dopo quattro mesi, arrivò su una spiaggia della Francia, dove, lasciati
i servi all’ospedale con un mal di testa ai piedi3, si imbarcò da solo su una navicella genovese e
navigando verso lo stretto di Gibilterra là s’imbarcò su un vascello più grande e se ne andò dalla
parte delle Indie cercando sempre, di regno in regno, di provincia in provincia, di contrada in
contrada, di strada in strada, di casa in casa e di buco in buco, di trovare l’originale di quella bella
immagine che aveva dipinto nel suo cuore.
E tanto smosse le gambe e girò i piedi finché arrivò all’Isole delle orche, dove, gettata l’ancora
e sceso a terra, incontrò una vecchissima, che era magrissima e aveva una faccia bruttissima. A
lei raccontò la ragione che lo aveva portato in quei luoghi e la vecchia rimase stupefatta sentendo
di questo bel capriccetto e della capricciosa chimera4 di quel principe e delle fatiche e dei rischi
affrontati per scapricciarsi e gli disse: «Figlio mio, squagliatela, perché se ti vedono i miei tre figli,
che fanno i macellai di carne umana, la tua vita non varrà tre soldi, perché mezzo vivo e mezzo
cotto una padella ti servirà da catafalco5 e una pancia da tomba! ma vai a passo di lepre, non andrai
lontano e troverai la tua fortuna».
A queste parole il principe, rabbrividendo agghiacciato spaventato e sbigottito, mise la strada
tra le gambe e, senza neanche dire arrivederci, cominciò a consumarsi le scarpe, finché arrivò in
2. caduta a piombo: completamente distrutta.
3. mal di testa ai piedi: il testo dialettale dice “un’emicrania ai piedi”,
cioè un forte dolore ai piedi.
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4. chimera: fantasia.
5. catafalco: struttura che serve per sostenere la bara durante il funerale.
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un altro paese dove trovò un’altra vecchia peggiore della prima e che, dopo aver sentito fino alla
zeta la sua storia, gli disse: «Squaglia subito da qua, se non vuoi fare da merenda agli orchettini
figli miei, ma sprona perché per te si fa scuro, un poco più avanti troverai la tua fortuna».
A queste parole il povero principe cominciò a sbattere i talloni come se avesse le bolle sulla
coda e tanto camminò che incontrò un’altra vecchia, che stava seduta su una ruota con un paniere
infilato nel braccio, pieno di pastine dolci e confetti che dava da mangiare a un pugno di asini, che
poi si mettevano a saltellare sulla riva di un fiume, tirando calci a certi poveri cigni.
Il principe, arrivato davanti a questa vecchia e, dopo averle fatto cento salamelecchi, le raccontò la storia del suo pellegrinaggio e la vecchia, rassicurandolo con parole gentili, gli offrì una
buona colazione, da leccarsi le dita, e quando si alzò da tavola gli regalò tre cedri che sembravano
appena appena colti dall’albero e ci aggiunse anche un bel coltello, dicendo nello stesso momento: «Puoi tornare in Italia, perché hai riempito il fuso6 e hai trovato quello che cercavi. Vattene
adesso e quando sei poco lontano dal tuo regno alla prima fontanella che trovi taglia un cedro,
ne uscirà una fata e ti dirà dammi da bere! e tu stà subito pronto con l’acqua, altrimenti svanirà
come l’argento vivo e, se non sei svelto con la seconda fata, fà attenzione ad essere prontissimo
con la terza, che non ti sfugga, a darle subito da bere e avrai la moglie a forma del tuo desiderio».
Il principe tutto allegro baciò cento volte quella mano pelosa, che sembrava la schiena di
un porcospino, e, salutata la vecchia, se ne andò da quei paesi e, arrivato sul mare, se ne navigò
verso le Colonne d’Ercole e, arrivato nei nostri mari e dopo mille tempeste e pericoli, approdò
ad un porto a una giornata di distanza dal suo regno. E, entrato in un bellissimo boschetto dove
le ombre facevano da palazzo ai prati per non farli vedere al Sole, scese da cavallo accanto a una
fontana che con una lingua di cristallo chiamava a fischi la gente a rinfrescarsi la bocca e dove,
seduto sul tappeto soriano7 dell’erba e dei fiori, estratto il coltello dalla guaina cominciò a tagliare
il primo cedro.
Ed ecco ne uscì come un lampo una bellissimissima fanciulla, bianca come il latte di latte
rossa come una ciocca di fragole, che disse dammi da bere! Il principe rimase così sorpreso, a
bocca aperta e sbalordito dalla bellezza della fata che non fu abbastanza svelto a darle l’acqua e
così l’apparire e lo svanire della fata fu quasi nello stesso istante. Questa fu una bastonata sulla
zucca per il principe, come può capire chi ha desiderato a lungo qualcosa di bello e, quando l’ha
tra le mani, la perde.
Ma, tagliando il secondo cedro, gli accadde lo stesso e fu una seconda bastonata sulle tempie
tanto che, con gli occhi come due fontanelle faceva cadere lacrime goccia a goccia, fronte a fronte,
spinta a spinta, faccia a faccia e a tu per tu con la fontana non cedendole d’un palmo e, in mezzo
a tutti questi pianti, diceva: «E come sono disgraziato, mi venga un colpo! due volte me la sono
lasciata scappare, come se avessi le mani rattrappite, che mi venga una paralisi! e com’è che mi
muovo come uno scoglio quando dovrei correre come un levriero? ma guarda che l’ho fatta bella!
svegliati disgraziato, ne è rimasta solo un’altra, al tre vince il re! questo coltello o mi da la fata o
quella cosa che puzza».
E, mentre dice queste parole, taglia il terzo cedro, ne esce la terza fata, dice, come le altre,
dammi da bere! e il principe subito le porge l’acqua e ecco gli rimane in mano una fanciulla tenera
e bianca come una giuncata, con una riga di rosso che sembrava un prosciutto abruzzese o una
soppressata di Nola, una cosa mai vista al mondo, una bellezza senza misura, un bianco splendente
6. hai riempito il fuso: hai terminato il tuo lavoro (il fuso era uno strumento che serviva per torcere e avvolgere il filo nella filatura a mano).
7. soriano: siriano.
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più del bianco, una grazia più graziosa del grazioso: Giove aveva fatto piovere l’oro sui suoi capelli e
con quello Amore ci fabbricava le frecce per trapassare i cuori e Amore aveva anche dipinto quella
faccia perché qualche anima innocente rimanesse presa nel vischio del desiderio; il Sole aveva
acceso due lanternini in quegli occhi perché nel petto di chi la guardava si accendessero fuochi
artificiali ed esplodessero razzi e botti di sospiri; Venere con il suo tempio era passata su quelle
labbra colorando la rosa per farle pungere con le spine mille anime di innamorati; Giunone aveva
spremuto le sue zizze su quel seno per allattare le voglie degli uomini. Insomma era tanto bella,
dalla testa ai piedi, che non c’era da vedere cosa più splendente tanto che il principe non riusciva a
capire cosa gli fosse successo e guardava, fuori di sé, il così bel frutto di un cedro, un così bel pezzo
di femmina venuto fuori da un pezzo di frutta e diceva fra sé: «Dormi o sei sveglio, Ciommetiello?
ti si è bloccato lo sguardo o ti sei infilato gli occhi al contrario? che roba bianca è uscita da una
buccia gialla! che pasta dolce dall’agro di un cedro! che frutto stupendo da un piccolo semino!».
Alla fine, accortosi che non era un sogno e che si giocava per davvero, abbracciò la fata dandole cento e cento bacioni e, dopo mille parole d’amore di questo e di quello che si scambiarono
tra loro, parole che come un canto fermo erano contrappuntati da baci di miele, il principe disse:
«Non voglio, anima mia, portarti nel regno di mio padre senza lussi degni di questo bel corpo e
senza un corteggio degno di una regina; per questo sali su questo cerro8, dove sembra proprio che
la natura abbia fatto per nostra comodità un nido a forma di cameretta, e aspettami fino al mio
ritorno, perché mi metto subito le ali e prima che si secchi questo sputo ritorno per portarti via
vestita e accompagnata come si conviene per un regno come il mio». E, fatte le dovute cerimonie,
se ne andò.
Nel frattempo una schiava negra era stata mandata dalla padrona con una brocca a prendere
acqua a quella fontana. E lei, vedendo per caso riflessa nello specchio dell’acqua l’immagine della
fata, credeva che fosse la sua e, stupita, cominciò a dirsi: «Cosa vedere, Lucia sfortunata essere
così bella e padrona mandare a prendere l’acqua e me sopportare questo, Lucia sfortunata?». E
dicendo questo ruppe la brocca e tornò a casa e, quando la padrona le chiese perché avesse combinato questo guaio, rispose: «Andata a fontanella, brocca urtata pietra».
La padrona, inghiottita questa bugia, le diede il giorno dopo un bel barilotto perché lo riempisse d’acqua. E lei, tornata alla fontana e vista di nuovo brillare sull’acqua quella bellezza con un
profondo sospiro, disse: «Me non essere schiava labbrona, me non essere mora, me non essere
culo qua e là, perché essere così bella e portare barilotto a fontana!». E, dicendo così, tunfete un’altra volta, e rompendo il barilotto ne fece settanta pezzetti e, tornata a casa brontolando a tutto
andare, disse alla padrona: «Asino passato, barilotto urtato, a terra cascato e tutto spezzettato!».
La povera padrona sentendo questo non riuscì più a restare calma e, presa una scopa, l’ammaccò tanto che se lo sentì per una manciata di giorni. E, preso un otre, disse: «Corri, precipitati,
schiava senzaniente, gamba di grillo, culo sfondato, corri e non fare culo-culo e non fare guardalà e portami subito quest’otre pieno d’acqua, altrimenti ti afferro come un polipo e ti do una tale
sbattuta che mi ricordi!».
La schiava corse a gambe in collo, perché aveva provato il lampo e aveva paura del tuono, e,
mentre riempiva l’otre, guardò ancora la bella immagine e disse: «Me stare di malavoglia a prendere l’acqua: meglio sposare mia Giorgia! non essere bellezza questa da fare morire arrabbiata
e servire padrona accigliata!». E mentre diceva così prese uno spillone che portava nei capelli e
8. cerro: albero dall’ampia chioma, simile alla quercia.
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cominciò a sbucherellare l’otre, che diventò una piazzola di giardino con le fontane automatiche,
ne uscirono cento zampilli e la fata, vedendo questo, si mise a ridere a tutte guance.
La schiava, sentendola, alzò gli occhi e s’accorse del trucco e, parlando tra sé, disse: «Tu essere
la causa di mia bastonatura e non te ne importare!» e poi disse alla fata: «Che fare lassù, bella
ragazza?». E lei, ch’era la mamma della cortesia, le sputò tutto quello che aveva in pancia senza
tralasciare una virgola di quello che le era capitato con il principe, che aspettava, d’ora in ora e
150 d’attimo in attimo, con vestiti e corteggio per andarsene nel regno del padre a godersela con lui.
Sentito questo la schiava, ringalluzzita, pensò di vincere quella partita e le rispose: «Se aspettare marito, lasciare me venire sopra a pettinare testa e fare te più bella». E la fata disse: «Sii la
benvenuta, come il primo giorno di maggio» e la schiava si arrampicava e lei le porgeva una
manina bianca che, stretta da quei bastoni neri, sembrava uno specchio di cristallo con la cornice
d’ebano e la schiava arrivò sopra e, mentre stava rimettendole a posto i capelli, le ficcò lo spillone
nella memoria. Ma la fata, sentendosi trafiggere, gridò «Colomba, colomba!» e, trasformata in
colombella, si alzò in volo e fuggì via. La schiava si spogliò nuda e fece un mucchietto degli stracci e delle pezze che aveva addosso e le gettò un miglio lontano e lei, restata sull’albero come la
mamma l’aveva fatta, sembrava una statua di giaietto9 in una casa di smeraldo.
Nel frattempo il principe tornò con una grande cavalcata e trovata una botte di caviale dove
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aveva lasciato un secchiello di latte, restò a lungo senza fiato e alla fine disse: «E chi ha fatto questo
sgorbio d’inchiostro sulla carta di pregio dove pensavo di scrivere i miei giorni più felici? chi ha
addobbato a lutto quella casa imbiancata di fresco, dove credevo di prendermi tutti i miei piaceri?
chi mi fa trovare questa pietra di paragone10 mentre avevo lasciato una miniera d’argento per farmi ricco e beato?». Ma la schiava furba vedendo lo stupore del principe disse: «Non meravigliare,
principe mio, io stare, oplà, fatata, un anno a faccia bianca, un anno a culo nero!».
Il principe, poveruomo, visto che il male non aveva rimedio, abbassò le corna come il bue
e inghiottì questa pillola e fatta scendere carboncina la vestì dalla testa ai piedi, rivestendola e
addobbandola tutta e, con un nodo in gola imbronciato gonfiato ingrugnito, prese la strada verso
170 il suo paese. Dove furono ricevuti dal re e dalla regina, che erano usciti per sei miglia dal loro
territorio per incontrarlo, con quel piacere che ha il carcerato quando riceve il decreto d’impiccagione, al vedere la bella prova fatta dal figlio pazzo che era andato tanto in giro in cerca di una
colomba bianca e s’era portato dietro una cornacchia nera; tuttavia, non potendo farne a meno,
rinunciarono al regno in favore degli sposi e misero il treppiede d’oro su quella faccia di carbone.
Ora, mentre si preparavano feste incredibili e banchetti da stordire e i cuochi spennavano
papere, scannavano maialini, scuoiavano caprette, lardellavano arrosti11, schiumavano pignati12,
trituravano polpette, farcivano capponi e preparavano mille altri ghiotti bocconi, se ne venne a
una finestrella della cucina una bella colomba e disse:
Cuoco della cucina,
che fa il re con la saracena?
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A questo il cuoco fece poco caso; ma, ritornata la colomba un’altra e una terza volta a fare la
stessa cosa, corse a tavola a raccontarlo come una cosa incredibile; e la signora, sentita la musica,
9. giaietto: una varietà di carbon fossile
compatta e nera.
10.pietra di paragone: varietà di diaspro di
colore nero opaco, usata in oreficeria per
valutare la percentuale di metallo prezioso
contenuta in un oggetto d’oro.
11.lardellavano arrosti: farcivano la carne
con pezzetti di lardo.
12.schiumavano pignati: toglievano la schiuma dai pentoloni di terracotta.
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diede ordine che, catturata immediatamente la colomba, in quello stesso momento se ne facesse
un pasticcio.
Il cuoco, andato a eseguire questo compito, tanto fece che riuscì ad acchiapparla e, eseguiti
gli ordini di Ovettobrutto e mentre la scaldava per spennarla, gettò quell’acqua e quelle penne
in un vaso su un terrazzino, dove dopo neanche tre giorni nacque un bell’alberello di cedri, che,
cresciuto in pochissimo tempo, fu visto dal re, affacciandosi a una finestra che dava da quella parte,
e, perché non l’aveva mai visto, chiamò il cuoco e gli chiese quando e da chi fosse stato piantato.
E, sentito da mastro Cucchiarone tutta la faccenda, cominciò a sospettare qualcosa e così
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ordinò che, pena la vita, nessuno lo toccasse, anzi fosse coltivato con tutte le cure possibili. E, dopo
pochi giorni, spuntarono tre bellissimi cedri come quelli che gli aveva dato l’orca, quando furono
cresciuti li fece cogliere e, chiuso in una camera con una grande tazza d’acqua e con lo stesso
coltello che portava sempre al fianco, cominciò a tagliare. E gli accadde con la prima e la seconda
fata la stessa cosa che gli era successa l’altra volta, alla fine tagliò il terzo cedro e, dato da bere alla
fata che n’era uscita e come lei gli aveva chiesto, gli rimase tra le braccia quella stessa fanciulla
che aveva lasciato sull’albero e da lei sentì tutto il male fatto dalla schiava.
E ora chi può raccontare anche una piccola parte della felicità che provò il re per questa buona
sorte? chi può raccontare i suoi gongolii, i suoi saltelli, i suoi compiacimenti, le sue gioie? pensa
200 che nuotava nella dolcezza, non stava più nella pelle, andava in saeculorum e in solluccorum e,
dopo averla strizzata tra le braccia la fece vestire di tutto punto e, prendendola per la mano, la
portò in mezzo alla sala dove erano tutti i cortigiani e la gente del suo paese per onorare le feste
e, chiamandoli uno per uno, gli chiese: «Ditemi: chi facesse male a questa bella signora che pena
meriterebbe?».
A questa domanda c’era chi rispondeva che avrebbe meritato una collana di corda, chi un’attribuzione di sassi, chi un contrappunto di martellate sulla pellaccia della pancia, chi un sorso di
scamonea13, chi un gioiello di pietre e chi una cosa e chi un’altra.
Alla fine chiamò la regina e le fece la stessa domanda e lei rispose: «Meritare essere bruciata
e cenere dal castello essere gettata!». E, sentite queste parole, il re le disse: «Tu hai scritto il tuo
210 destino con la tua penna! ti sei data l’accetta sul piede! e ti sei forgiata le catene, hai affilato il coltello, hai liquefatto il veleno, perché nessuno ha fatto più male di te, cagna di cagna, giudeo14! ma
sai che questa è quella bella ragazza che hai trapassato con lo spillone? ma sai che questa è la bella
colomba che hai fatto sgozzare e cuocere in padella? che te ne pare, Cecca, di questo cavalluccio?
svegliati, perché non è un colpo! hai fatto cacca bella! chi fa male male aspetta, chi cucina frasche
mangia fumo». E mentre diceva queste parole la fece prendere di peso e mettere vivissima su una
grande catasta di legna e, quando fu ridotta in cenere, la sparpagliarono dalla cima del castello nel
vento, confermando quel proverbio
non vada scalzo chi semina spine.
(da G. Basile, Lo cunto de li cunti, Quinta giornata, Nono passatempo,
trad. it. di M. Rak, Milano, Garzanti, 1987.)
13.scamonea: (o scammonéa) pianta dalle proprietà purgative.
14.giudeo: il termine è usato come imprecazione.
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verso l’ esame Prima prova. A - Analisi del testo
1. C o m p r e n s i o n e
1.1 Perché il principe non vuole prendere moglie?
1.2 Come dev’essere la donna di cui all’improvviso egli
dichiara di non poter fare a meno?
1.3 Che cosa succede alla donna mentre il principe è
assente?
1.4 Qual è la sorte finale della schiava traditrice?
chezza di similitudini e di metafore. Qual è la funzione
e l’effetto di questo proliferare di immagini?
2.3 Molto spesso il narratore introduce delle massime
di saggezza popolare. Sottolineale nel testo e prova a
ricostruire il pensiero della voce narrante.
2.4 La fiaba è tutta giocata sul tema della metamorfosi.
Illustra, citando dal testo, questo aspetto.
e approfondimenti
2.1 Lo stile di Basile è caratterizzato dal gusto della ripetizione. Ogni concetto è ribadito più volte. Prova a schedare
occorrenze simili e a spiegarne l’effetto.
3.1 Conosci altre fiabe che abbiano per tema una metamorfosi femminile? Raccontale.
2.2 Un’altra caratteristica dello stile di Basile è la ric-
3.2 La fiaba di Basile può essere considerata un prodotto esemplare del gusto barocco: perché?
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3. I nterpretazione complessiva
2. An a l i s i