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IL MARGINE
ISSN 2037-4240
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno 33 (2013)
n. 7
Francesco Ghia
Stefano Pezzè
IL TEMPO
OPPORTUNO
DI PAPA
FRANCESCO
LA CULTURA
AI TEMPI
DELLA SECONDA
REPUBBLICA
Urbano Tocci
Piergiorgio Cattani
MOVIMENTI
TETTONICI
NEL SISTEMA
PARTITICO
TEDESCO
LAVORO
E RESPONSABILITÀ
NOI NON TACEREMO,
ANCORA
IL MARGINE 7
LUGLIO-SETTEMBRE 2013
Francesco Ghia
3
Il tempo opportuno di papa Francesco
Urbano Tocci
9
Movimenti tettonici
nel sistema partitico tedesco
Stefano Pezzè
26
La cultura ai tempi
della Seconda Repubblica.
Il ventennio conformista di Giorgio Ieranò
Piergiorgio Cattani
31
Lavoro e responsabilità.
Un libro di Donata Borgonovo Re
sulla Costituzione italiana
38
Noi non taceremo, ancora.
Parole dense, silenzi fecondi, immagini
reali, pratiche nuove
per un’altra democrazia.
Scuola estiva di formazione politica
Terzolas, 28 agosto – 1 settembre 2013
Novità dalla Casa editrice Il Margine (http://www.il-margine.it)
Maurizio Abbà, Paolo De Benedetti, Anche Dio ha i suoi guai. Dialogo sulla genesi, 120 pp., 13 euro.
Dio e la Creazione, il Diluvio e la Torre di Babele, la chiamata di Abramo,
la scala di Giacobbe e la sua lotta con l'Altro: sono alcune delle pagine bibliche
che il grande, acuto esploratore delle Scritture Paolo De Benedetti – sul confine
tra ebraismo e cristianesimo, tra Antico e Nuovo Testamento – scandaglia in dialogo profondo e appassionato con il pastore Maurizio Abbà, della Chiesa valdese.
Un'insolita ricerca, con scoperte e provocazioni spesso sorprendenti, per ripensare
la nostra immagine tradizionale di Dio. La religione è una scala che l'uomo lancia
per tentare di raggiungere Dio, invece per la fede è Dio stesso che va e viene continuamente su una scala per raggiungere l'essere umano.
Il Margine 33 (2013), n. 7
Molti di noi, penso, sarebbero oggi disposti a sottoscrivere la frase di
Kant con riferimento agli inizi del ministero petrino di papa Francesco. In
molti infatti abbiamo vissuto – e stiamo vivendo – questi inizi esattamente
come un kairòs, un tempo propizio e opportuno. Un tempo nel quale
l’ecclesia semper reformanda sembra non essere un mero slogan per dare
voce a un’ansia di rinnovamento delle strutture e delle prassi ecclesiali, ma
esprimere profondamente l’essenza stessa della Chiesa.
Il tempo opportuno
di papa Francesco
FRANCESCO GHIA
La riforma del papato come presupposto per una riforma della curia
S
e mi si chiedesse, sentenziava il grande filosofo Immanuel Kant, qual è
il tempo più propizio nella vita della Chiesa, risponderei certamente e
senza indugio che è il tempo presente, ossia il tempo toccatoci in sorte di
vivere.
Naturalmente, per comprendere appieno il senso di tale affermazione,
occorre inquadrarla su un orizzonte nel quale il tempo di cui qui si parla non
è il tempo storico, cronologico (ciò che i greci chiamavano il krònos), ma il
tempo dell’azione profonda, ovvero il kairòs, quel tempo opportuno la cui
più limpida descrizione è fornita, come è noto, dall’incipit del capitolo terzo
del libro del Qohelet:
«Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace».
3
In un primo momento lo abbiamo per lo più compreso quasi solo epidermicamente, ora cominciamo a vederne per intero la portata dirompente e
profetica: se c’è un aspetto che risulterà epocale nel pontificato di Bergoglio, questo è rappresentato dall’aver anteposto, in quanto condizione previa, la riforma del papato alla riforma della curia.
Come si sa, la riforma della curia romana è stato uno dei nodi irrisolti
del Vaticano II; ardentemente desiderata e auspicata con tutte le forze da
Paolo VI, essa si è prima arenata sugli scogli della resistenza al cambiamento figlia del principio di autoconservazione tipico di ogni struttura istituzionale consolidata, poi si è definitivamente abissata per effetto della disastrosa
“opusdeizzazione” della Chiesa operata dal pontificato wojtyliano (i cui
danni non sono certo cancellati – né possono essere obliati – dalla elevazione agli onori degli altari di papa Giovanni Paolo II…).
Opusdeizzazione che – iuxta naturam suam – ha significato certamente
una “managerializzazione” delle strutture di governo e la sostituzione progressiva del concetto di riforma della curia con quello, molto più agevolmente dirigibile dall’alto, di uno spoil-system vòlto a rimuovere dagli incarichi delicati gli uomini meno “fedeli alla linea”. Il processo, iniziato dal papa
polacco, è proseguito inerzialmente anche con il pontificato di Ratzinger,
giungendo però con esso al suo punto di collasso. La visione ecclesiologica
di tipo essenzialmente ascetico-monastico portata avanti da Benedetto XVI
si è infatti tradotta, dal punto di vista politico, in una enfatizzazione quasi
parossistica del ruolo monarchico del papato, con il corollario della divaricazione sempre più netta tra ruolo regnante e ruolo di governo (per cui il sovrano regna, ma non governa). Lo strapotere, abnorme e illogico, assunto in
misura crescente dalle ultime segreterie di stato (gestite dai piemontesi Sodano e Bertone), tutt’altro che estranee agli scandali che hanno investito ne-
4
gli ultimi anni la vita della Chiesa cattolica, dimostra quanto un tale modello
organizzativo non fosse più, sotto nessun aspetto, sostenibile. Le dimissioni
di Ratzinger lo hanno sancito come meglio non si poteva.
Ben lo ha compreso, fin dal primo istante della sua nomina, Jorge Bergoglio. Solo adesso, forse, cominciamo a intravedere meglio il significato di
quel suo insistere sulla denominazione di «vescovo di Roma» in luogo di
«papa» o «sommo pontefice». Si trattava cioè di “disincrostare” la figura del
papato da tutte le sedimentazioni improprie che ne hanno impedito, negli
ultimi trentacinque anni, una realizzazione nello spirito autentico del Vaticano II; si trattava quindi di liberare la figura del papato di tutti gli orpelli e
quindi di quell’aura di sacralità, di diafana intangibilità che ne aveva ammantato i contorni.
Non c’era – e non c’è – dunque altra via, per riformare la curia romana,
che quella di cominciare a riformare il papato. Di restituire a esso la sua
funzione e il suo ministero, ovvero appunto il suo essere la forma più alta di
episcopato. Si trattava cioè di “relativizzare” il papato, non nel senso di togliergli valore, ma al contrario di restituirglielo, conferendogli quella funzione di servizio e di vicariato che, conformemente al dettato evangelico, ha
ogni forma di servizio all’interno della Chiesa:
«Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete
tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il
Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato» (Mt 23, 8-12).
No, decisamente la via scelta da papa Francesco per riformare la Chiesa
è, ancorché forse l’unica possibile, tutt’altro che semplice. Come sottrarsi
alle seduzioni della “papolatria” che, complici anche le insidie umane, troppo umane, della società mediatica, falsano e pregiudicano l’interpretazione
autentica del ruolo “diaconale” del ministero petrino? Come riuscire a riformare la Chiesa restando consapevoli che, se da un lato essa è la mediatrice del volto santo di Cristo, dall’altro lato può compiere tale mediazione solo servendosi del volto non santo, ma peccatore, degli uomini?
I «discorsi di Santa Marta», ben più che le encicliche o i discorsi ufficiali (in verità rari, data la propensione di papa Francesco alle improvvisazioni fuori-spartito) finiranno per essere il documento storicamente più significativo per comprendere nella sua più autentica profondità il ministero
bergogliano. Essi dimostrano come Bergoglio sia, rispetto a tali seduzioni,
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assolutamente avvertito, nella logica di quel fiducioso abbandono all’«ecco,
faccio nuove tutte le cose» che mai dovrebbe mancare nella vita della Chiesa.
Una ecclesiologia del barrio
Era importante cominciare. Avviare il cammino. Papa Francesco lo ha
fatto con coraggio e parrhesia evangelica. Non bisognerà mai dimenticarsene anche quando – e certamente ciò prima o poi avverrà, perché così deve
essere «sotto il cielo», come ci ammonisce il citato Qohelet – qualche suo
gesto o parola dovesse deludere o infastidire la nostra impazienza, che vorrebbe arrivare subito alla conclusione (una Chiesa davvero evangelica e fedele all’insegnamento del Maestro), saltando tutte le tappe intermedie delle
faticose, snervanti mediazioni di compromesso…
Se vogliamo bene a qualcuno, non bisogna mai mitizzarlo, pena il suo
relegarlo nel cantuccio dei tanti idoletti esornativi che arredano, del tutto
inutilmente, la nostra esistenza quotidiana. Da parte nostra, quindi, ci guarderemo dalla tentazione, letteralmente diabolica, di mitizzare papa Francesco. Sapendo, ancora una volta con Kant, che è assai difficile raddrizzare un
legno storto; ovvero, fuor di metafora, sapendo che la riforma della struttura
della Chiesa si fa, inevitabilmente, con gli uomini reperibili all’interno di
quella stessa struttura e che essa quindi camminerà spessissimo, non senza il
rischio di inciampare, su gambe maldestre o malferme. Teniamo conto inoltre che quella struttura è fatta di uomini che appaiono sempre più limitati in
quantità e sempre più modesti in termini di qualità personali, tanto da poter
dubitare (e il dubbio è certezza, se parliamo della Chiesa italiana) che si tratti di un gruppo all’interno del quale sia ancora possibile esprimere una classe dirigente degna di questo nome. Si può certo fare appello alla partecipazione o al sacerdozio comune dei fedeli: per il momento però, nella norma e
nella realtà, il clero è ancora al centro. E questa centralità scarica responsabilità su spalle sempre più esili e inadeguate.
L’aspetto importante, dunque, della riforma della Chiesa avviata da papa Francesco consiste però nell’invito, implicito nel gesto riformatore, a non
aver paura del cambiamento. Molte parole e azioni (sulla povertà, sulla sobrietà, sulla tirannia del dinero, sullo IOR, per giungere infine al profetico
atto penitenziale compiuto a Lampedusa) sono un richiamo alla speranza, a
uscire dal «centro» per recarsi alla «periferia».
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Ora, il tema della periferia è davvero, a quanto fin qui è stato dato di
vedere, l’elemento più innovativo della ecclesiologia bergogliana. La definirei una ecclesiologia del «barrio».
Chi è stato in America Latina sa quanto importante sia lì, nei contesti
megapolitani, il concetto di barrio. Esso rappresenta molto di più di quanto
rappresenti il quartiere delle nostre metropoli europee. È propriamente un
microcosmo, una città nella città, un luogo di identità e di riconoscimento.
Nel barrio le facce degli estranei, di coloro che provengono da “fuori”, vengono immediatamente percepite.
Tuttavia, l’aspetto sociologicamente interessante del barrio è che tale
estraneità non è generalmente vissuta secondo le dinamiche tradizionali
dell’in-or-out, del «sei dei nostri» o «non sei dei nostri», tipiche piuttosto
delle mentalità campanilistiche che ammorbano le nostre società europee.
L’estraneo non è tanto lo straniero, quindi il potenziale nemico, ma il forestiero, colui che proviene da fuori e che va invitato a entrare. Non è dunque
solo per la miseria, per il fatto che «tanto non c’è nulla da rubare», che,
spesso, nel barrio le case non hanno le porte chiuse con le serrature a doppia
o tripla mandata a cui la nostra paura ci ha ormai costretti… È piuttosto la
consapevolezza che, come si legge nel Deuteronomio, il forestiero va amato
e accolto perché tutti quanti noi siamo stati o siamo ancora forestieri.
Solo chi è «ai margini» può realmente e autenticamente accogliere, in
un atto di reciproco riconoscimento e identificazione, gli altri «marginali».
La Chiesa che papa Francesco ha in mente mi sembra proprio essere la
Chiesa del barrio. Una Chiesa fatta di forestieri che amano e accolgono altri
forestieri e che, così facendo, estirpa e sradica la malerba del principio
esclusivistico (extra ecclesiam nulla salus) che tante disgrazie ha arrecato
alla vita del cristianesimo. Una Chiesa che si volge alle «periferie della storia» non per generosa e paternalistica concessione («noi, dal centro, veniamo da voi alle periferie»), o, come oggi si ama dire con un’espressione presa
a prestito dall’informatica, per un’operazione di down-load (dal sistema centrale alle unità locali e periferiche), ma perché «periferia» essa stessa. E «periferia» significa attenzione privilegiata per i marginalizzati dalla società
dell’efficientismo e del profitto, per i senza-lavoro, i senza-speranza, i senza-futuro… Significa, come ha detto Francesco alla favela di Varginha, a
Rio de Janeiro, «bussare a ogni porta, dire “buongiorno”, chiedere un bicchiere di acqua fresca, prendere un “cafezinho”, parlare come ad amici di
casa, ascoltare il cuore di ciascuno, dei genitori, dei figli, dei nonni…».
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Una rivoluzione copernicana. O, per meglio dire, una autentica rivoluzione cristiana: non è forse vero che Cristo non si è limitato a predicare che
il Regno è dei poveri, degli ultimi, degli umiliati e offesi, ma si è fatto in tutto e per tutto come loro: povero, ultimo, umiliato e offeso?
Ora non abbiamo più alibi…
Il secolare e inveterato modello gerarchico-centralistico della Chiesa si
è tal punto insinuato nelle pieghe del pensiero che persino i più progressisti
tra noi sono spesso portati a immaginare una riforma della Chiesa possibile
solo nella forma di un movimento dall’alto verso il basso. E quindi, siccome
molto difficilmente le strutture sono ben disposte ad auto-riformarsi, la ecclesia è diventata non semper, ma nunquam reformanda.
Chi non ha mai fatto esperienza, a vari livelli della vita ecclesiale, di
come molto spesso i più clericocentrici, i più resistenti al cambiamento, i più
strenui e rigidi difensori del principio anti-evangelico del semper idem, del
«si è sempre fatto così», i più inflessibili cani da guardia della ortodossia e
di una certa ortoprassi non siano i vescovi o i presbiteri, ma in realtà proprio
i laici? Chi non ha mai fatto esperienza, a vari livelli della vita ecclesiale, di
come molto spesso siano proprio i laici a difettare della virtù del coraggio,
della fantasia della sperimentazione, della volontà di studio e di analisi? Che
poi manchino gli spazi per esercitare questo coraggio e questa fantasia sarà
anche vero, ma non è una buona ragione per non tentare…
Se questa è dunque l’ecclesiologia di papa Francesco, non ci sono più
scuse, ora i laici non hanno più alibi. L’ecclesiologia del barrio è
l’ecclesiologia di chi, non importa se nella condizione di laico o di presbitero, e non importa quale ministero ricopra e quale vocazione segua, non
aspetta, per aprire la porta, che qualcuno venga a bussare. No, la lascia preventivamente aperta.
Solo così la riforma della Chiesa iniziata da papa Francesco sarà realmente possibile e potremo anche noi ripetere con Kant e il Qohelet che il
tempo più propizio per la vita della Chiesa è proprio questo che qui e ora
stiamo vivendo, e che c’è «un tempo per demolire e un tempo per costruire»…
8
Il Margine 33 (2013), n. 7
Movimenti tettonici
nel sistema partitico tedesco
URBANO TOCCI
S
i legge spesso che i risultati delle prossime elezioni federali tedesche
saranno decisivi per il futuro dell’Europa, considerato il ruolo guida
giocato ormai in solitaria dalla Germania. In particolare i governi dei Paesi
in crisi del sud Europa diffondono un’attesa colma di speranza nel 22 settembre prossimo, quando la Merkel, liberata da quella fastidiosa incombenza che è il processo di legittimazione popolare, potrà finalmente mettere in
atto le politiche di espansione e di crescita al livello europeo reclamate a
gran voce dai paesi in recessione.
Gettando uno sguardo realistico si tratta di aspettative largamente infondate, diffuse dai governi per guadagnare tempo e per celare la loro impotenza nella speranza che, prima o poi, la buona congiuntura mondiale1 risollevi anche i loro paesi dalla crisi.
Questo attendismo che, con larga probabilità, sarà pagato a caro prezzo,
è reso possibile dal periodo di calma preelettorale voluto dalla Merkel: la
cancelliera preferisce infatti evitare ogni dubbio sulla bontà delle sue ricette
economiche ed è disposta, come nel caso di Cipro o del Portogallo, a esperire soluzioni poco ortodosse e a sopportare financo perdite economiche per la
Germania purché questi casi non affollino le pagine dei giornali2.
È anche probabile che questo periodo di calma si prolunghi fino alle
prossime elezioni europee3, in considerazione dei nuovi poteri guadagnati
1
2
3
Il FMI prevede per il 2014 una crescita globale superiore al 4%.
http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2012/02/weodata/download.aspx
Per questo l’Italia dopo le scorse elezioni sarebbe potuta restare tranquillamente senza
governo fino a settembre. I richiami all’urgenza e alla responsabilità della destra e di
Napolitano erano, al solito, meramente strumentali.
Si tratterebbe di un paio di mesi: il nuovo governo tedesco non sarà infatti operativo
prima del gennaio 2014, mentre le elezioni europee si terranno in primavera.
9
dal parlamento con il trattato di Lisbona. Ma le linee guida della politica
economica tedesca non muteranno e, nel breve periodo, potrebbero financo
inasprirsi.
Nelle pagine che seguono vorrei esaminare da una parte le reazioni dinamiche che si sono sviluppate nel sistema dei partiti come conseguenza
dalle scelte della Merkel, senza dubbio il principale attore del panorama politico tedesco, dall’altra i due principali possibili esiti elettorali, ovvero la
prosecuzione dell’attuale maggioranza o la riproposizione delle grandi intese, esiti che vedrebbero entrambi la riconferma della candidata uscente, che
si è mossa, nei limiti del possibile, in sintonia con gli umori dell’elettorato
tedesco, interpretandone il desiderio di sicurezza e stabilità e portandolo a
credere che le politiche di accumulazione del capitale applicate nei decenni
passati siano la base della prosperità tedesca e non abbiano che disastrose
alternative.
La “CDU light” e la fine dell’eccezionalismo della Merkel
Il più grande lascito della Merkel, insieme alla rivoluzione copernicana
nella politica della Germania nei confronti dell’Europa, passata da federalista (centrata sul metodo comunitario) a confederalista (centrata sul metodo
intergovernativo)4, è la costruzione di quella che il giovane Augstein5 definisce una “CDU light”, un partito che è riuscito a occupare stabilmente il
centro dello schieramento politico rendendo superflua la SPD.
Questa definizione era da me in prima istanza ampiamente condivisa e
peraltro valutavo positivamente il processo messo in atto6, nella misura in
cui consentiva alla democrazia cristiana tedesca di accompagnare il cammino di modernizzazione della Germania nello scorso decennio, invece di
ostacolarlo come fatto dai partiti di destra nei paesi mediterranei. Nel corso
di quest’anno ho progressivamente rivisitato il mio giudizio sull’enigmatica
cancelliera. Concordo ancora con l’affermazione di Augstein che la principale abilità politica della Merkel sia quella di non palesare in nessun caso i
4
Il rapporto della Germania con l’Europa presenta opportunità e rischi che meriterebbero
di essere trattati in un altro articolo.
5
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/jakob-augstein-ueber-150-jahre-spd-keinelinken-nirgends-a-900785.html. Jakob Augstein è uno dei più quotati columnist ed editorialisti tedeschi, con un ruolo fra quello di Eugenio Scalfari e quello di Gad Lerner.
6
Una questione morale, in “Il Margine”, n. 7/2012.
10
proprî veri obiettivi per il mantenimento del potere, ma l’analisi politica non
può limitarsi a velati giudizi morali su una metodologia senza cercare di capire perché un attore politico scelga di seguire un dato metodo e le sue implicazioni. Comprendo come l’ossessiva prudenza della maggior parte7 dei
commentatori tedeschi sia dettata dal desiderio di evitare qualsiasi accusa di
essere politicamente scorretti8, ma da “straniero” posso permettermi alcune
riflessioni sulla storia politica di Frau Merkel che in Germania sarebbero
giudicate sconvenienti.
La trasformazione della CDU può infatti, secondo il mio punto di vista,
essere inserita in un quadro più vasto, la cui cifra non è solo l’occupazione
del potere, accarezzando gli umori dell’elettorato e inseguendo i sondaggi
(la critica che viene usualmente mossa alla Merkel sia da destra che da sinistra), ma una vera e propria “blairizzazione” del partito: non un generico annacquamento dei suoi temi tradizionali, ma un allontanamento, negli spazi
resi di volta in volta disponibili dall’attualità politica e dall’evoluzione culturale del paese, dalla dottrina sociale della Chiesa in direzione di valori e di
una Weltanschauung più anglosassone.
Il punto di partenza delle mie riflessioni è che le cicatrici della cortina
di ferro permangono anche nel cuore dell’Europa e non solo nelle nazioni
più periferiche. Una visione comune diffusa nei paesi dell’est rimprovera ai
loro cugini dell’ovest una politica di appeasement nei confronti della dittatura sovietica – quella stessa politica cui noi occidentali diamo un giudizio positivo sotto il nome di “distensione”. In quegli stessi anni il soft-power degli
Stati Uniti si è dispiegato in pieno, rendendo, nell’immaginario collettivo,
gli USA il paese delle opportunità e il baluardo della libertà, l’indiscusso
modello da imitare economicamente e socialmente. Al crollo dell’URSS la
scommessa di Kohl e Mitterrand fu d’incorporare il più rapidamente possi-
7
Una delle pochissime eccezioni è Gunter Graß che, protetto dallo status conferitogli dalla sua posizione di premio Nobel, ha iniziato una riflessione sull’argomento nel dibattito
con
Peer
Steinbrück
del
27
giugno
scorso:
http://www.sueddeutsche.de/politik/diskussion-mit-peer-steinbrueck-guenter-grasskritisiert-kanzlerin-merkel-1.1706901
8
In proposito basti considerare le velate accuse di razzismo rivolte a Gertrud Höhler, ex
consigliera politica dell’ex cancelliere Kohl, allorquando nel libro “La padrina” ascrisse gli odierni successi politici della cancelliera alle peculiari abilità sociali sviluppate
sotto la dittatura. Die Patin: Wie Angela Merkel Deutschland umbaut, Orell Füssli
Verlag, 2012. Libro fra l’altro pubblicato in Svizzera, dopo numerosi rifiuti ricevuti
dall’autrice da parte di editori tedeschi.
11
bile all’interno dell’Europa i Paesi che si erano liberati dal giogo delle dittature, per suggellare i nuovi rapporti di forza creatisi sul piano continentale e
globale. La ripresa degli scambi commerciali avrebbe, con quella visione di
puro meccanicismo economicista che ha guidato la costruzione dell’Europa
fino ad oggi, gradualmente ricreato la fiducia fra le élites dell’ovest e
dell’ex-est. Non essendo la realtà semplice come i modelli con cui la interpretiamo, questo processo si sviluppa però più lentamente di quando auspicato, per cui in una situazione d’incertezza e di scelta il riflesso automatico
delle classi dirigenti dell’est è ancor oggi quello di rivolgersi al modello e ai
consigli del grande fratello americano. Paradigmatico di questo meccanismo
è stato il comportamento di tutti i Paesi dell’est allo scoppio della seconda
crisi irachena, Paesi che s’iscrissero nella “coalizione dei volenterosi” desiderosi di dare una parvenza di legittimazione alla seconda campagna americana in Iraq, isolando così Francia e Germania e permettendo a Rumsfeld di
dividere l’Unione Europea in “Nuova Europa” (i buoni amici di Bush) e
“Vecchia Europa” (i cattivi che pensano che esista un interesse europeo non
necessariamente coincidente con quello degli USA).
Nella Germania riunificata, per non creare ulteriori divisioni fra i cittadini dell’ovest ed i neo cittadini dell’est del Paese e per non spezzare
l’isolamento culturale intorno alla Linke, il partito erede del regime comunista della DDR, il dato di fatto che i cittadini dell’ex Germania est nati dopo
la fine della guerra9 avessero punti in comune con quelli di tutti gli altri Paesi ex-comunisti non è mai stato sufficientemente tematizzato.
Si è così di fatto costituita una “eccezionalità” della cancelliera, per cui
eventuali affinità fra lei, Tusk, i Vàclav (Havel e Klaus) e tutti gli altri leader della “Nuova Europa” non possono neanche essere concepite. Tuttavia
bisognerebbe iniziare a farlo, per comprendere l’evoluzione che la Merkel
ha impresso alla CDU, e per il tramite di questa all’intera Germania, con il
progressivo abbandono delle “radici cristiane”10 a favore di una visione più
liberale del mondo –sia sul piano economico che sul piano valoriale11.
9
Considero la costruzione dell’antifaschistischer Schutzwall (muro di protezione antifascista) lo spartiacque della DDR: i nati prima della fine della guerra avevano vissuto in
pieno la propaganda nazista prima e sovietica poi con la loro retorica antianglosassone, ma per i nati dopo il 1945 e quindi adolescenti nel 1961 fu la costruzione del muro
a costituire l’esperienza politica fondativa.
10
Processo che fra l’altro sta aumentando sempre più lo iato col partito fratello bavarese,
la CSU, molto legato sia ai valori tradizionali che alla dottrina sociale della Chiesa.
Anche se va aggiunto che questa dicotomia non ha poi rilevanti effetti, visto il prag-
12
Consideriamo a esempio alcune scelte critiche prese dalla Merkel durante la sua vita politica, che hanno avuto conseguenze quasi esiziali, come
la lettera aperta al Washington Post12 prima delle elezioni del 2002, in cui
criticava aspramente la linea non interventista del cancelliere Schröder sulla
guerra in Iraq e appoggiava senza tentennamenti, all’unisono con i politici
est-europei, le politiche interventiste dell’amministrazione Bush. Scelta pagata a carissimo prezzo, considerato che l’opposizione alla terza guerra del
Golfo costituì uno dei cavalli di battaglia elettorali della SPD che portarono
alla risicatissima rielezione di Schröder nel settembre dello stesso anno (per
poco più di 5.000 voti). Vi è poi la tentata riforma delle tasse secondo il
“modello Kirchhoff”13: una flat-tax fra il 15 ed il 25%, secondo il modello
applicato con successo dall’Estonia e da altri paesi dell’est, che avrebbe
comportato14 un forte squilibrio nelle finanze tedesche e cospicui benefici
per le classi più abbienti. O ancora il nucleare, che – ricordiamolo – è sempre e in ogni caso un tema di politica estera e di difesa e non certamente un
tema di politica economica ed energetica, a proposito del quale le convinzioni nucleariste della cancelliera15, che portarono all’abbandono del piano
della precedente coalizione rosso-verde per l’uscita dal nucleare, furono pagate dal partito con una serie di sconfitte post-Fukushima.
Le va poi dato atto che con la nonchalance tipica dei grandi politici fece in tutti questi casi rapidissimi dietrofront per riconquistare l’elettorato.
Varò così un nuovo piano d’uscita dal nucleare, anche se criticato come timido dalle chiese protestanti, sfilando ai verdi la loro carta migliore. Di flatmatismo dei partiti tedeschi che li porta, con pochissime eccezioni, a trovare comunque un accordo quando si tratta di andare al governo.
11
Qui gioca probabilmente un ruolo non solo il pragmatismo della cancelliera, la quale si
rende perfettamente conto dell’inutilità di tentare un ritorno al passato sui temi di morale bioetica e dei risultati disastrosi che una tale politica avrebbe sul piano elettorale,
ma anche il suo essere donna e protestante.
12
Schroeder Doesn’t Speak for All Germans, 20 febbraio 2003:
http://www.washingtonpost.com/ac2/wp-dyn/A32835-2003Feb19?language=printer
13
Dal nome del suo proponente, giudice emerito della corte costituzionale, che sarebbe
dovuto diventare ministro delle finanze di un governo di destra.
14
Secondo i calcoli dell’autorevole Deutsche Institut für Wirtschaftsforschung (DIW), il
più grande istituto di ricerca economico indipendente (pubblico) della Germania,
membro della Leibniz-Gemeinschaft.
15
Illuminante in proposito il libro da lei scritto come ministro dell’ambiente, Il prezzo
della sopravvivenza, in cui difendeva il nucleare come il prezzo necessario per assicurare la sopravvivenza della Germania: Der Preis des Überlebens, Stuttgart 1997.
13
tax non si è più parlato, la guerra in Libia è stata fatta senza la partecipazione del suo governo. Possiamo dire che la cancelliera, per metodo, saggia i
limiti di accettabilità del paese, li sposta leggermente in avanti e lavora per
porre le condizioni che permetteranno in futuro l’implementazione delle politiche da lei auspicate.
Lo stesso è avvenuto nella gestione della crisi bancaria quando, nel caso greco, con una difesa del capitale privato più ideologicamente coerente di
quella dello stesso Regno Unito si decise di non salvare solo le banche e il
risparmio privato, come fatto dall’Islanda16, ma anche gli incauti grandi
azionisti delle banche, che hanno coscientemente corso grandi rischi nella
consapevolezza che eventuali perdite sarebbero state ripianate degli Stati a
spese dei contribuenti. Dando vita così al più grande “trasferimento di risorse” legalizzato della storia recente ed additando alle opinioni pubbliche le
presunte colpe delle amministrazioni pubbliche invece che i fallimenti reali
dell’oligopolio bancario privato. O ancor più nel caso dell’abbandono della
tradizione federalista in politica europea, altro grandissimo tema su cui s’è
allontanata dalla tradizione cristiano-democratica appoggiando le richieste
inglesi di riduzione del bilancio europeo (quindi anche dei trasferimenti ai
Paesi del sud del continente) e di svuotamento progressivo delle competenze
reali della Commissione Europea. Scelte impensabili qualche anno fa, preparate da una campagna mediatica di stampo leghista contro gli sprechi di
Bruxelles e dei sud-europei pigri. Scelte più volte criticate, ad esempio, da
Wolfgang Schäuble, attuale ministro delle finanze e già ministro degli interni di Kohl, che rappresenta l’animo europeista della vecchia democrazia cristiana.
Non sto lanciando tesi complottiste speculari a quelle di Günther Lachmann e Ralf Georg Reuth, che nel loro discusso best seller17 accusano la
cancelliera di connivenze con la Russia, anche se tali tesi dopo lo scoppio
dello scandalo Prism troverebbero terreno fertile. Sono invece persuaso che
si possa tracciare un parallelismo fra il tentativo in corso in Germania di
creare un islam europeo18, che sappia coniugare e conciliare le istanze di
questa grande religione con la tradizione laica europea, e il quindicennio
16
In Svezia e nel Regno Unito no, anche se i finanziamenti pubblici non sono stati completamente a fondo perduto e lo stato è diventato azionista delle principali banche dei
due regni. http://marconiada.blog.ilsole24ore.com/2008/10/la-statalizzazi.html
17
Das erste Leben der Angela M. (La prima vita di Angela M.), ed. Papir.
18
Incarnato dall’ex presidente Wulff, poi travolto da uno scandalo generato da una fuga di
notizie.
14
Schröder/Merkel, che può essere letto come il tentativo di conciliare l’altra
grande ideologia odierna, il liberismo thatcheriano, con la tradizione cristiana e sociale dell’occidente europeo.
Un partito superfluo: la SPD satellite della Merkel
Romano Prodi, alla scuola della Rosa Bianca del 2011, indicò come
campo di studio più interessante degli ultimi anni la risposta dell’economia
tedesca alla sfida del liberismo di marca anglosassone e di come la prima si
fosse modernizzata assumendo al suo interno elementi del secondo – la trasformazione del sistema finanziario, ad esempio. Quello che non specificò
(perché probabilmente implicito nel suo discorso) fu che tale adattamento
comportava anche un adeguamento nelle sovrastrutture partitiche e nei loro
leader. Per questo il processo di blairizzazione della CDU non è un unicum,
né sul piano europeo né sul piano tedesco, e ha riguardato tutti i partiti di
massa19 dell’Europa occidentale, sia democristiani che socialisti. Qualche
anno prima che la cancelliera facesse “perdere la C” cristiana alla CDU toccava alla SPD di Schröder “perdere la S” socialista e “blairizzarsi”, a esempio con il rifiuto della reintroduzione della patrimoniale abolita da Kohl nel
1996, l’abbassamento dell’aliquota fiscale massima dal 45 al 42% e le riforme Hartz del mercato del lavoro. Scelte politiche pienamente condivise e
confermate da Peer Steinbrück, attuale candidato socialdemocratico alla carica di cancelliere ed ex ministro delle finanze della Merkel, il cui obiettivo
è stato fin dall’inizio della campagna elettorale di fare da junior partner alla
cancelliera in una nuova Grosse Koalition.
Esito fortemente voluto anche dalla Merkel, che avrebbe potuto, secondo lo schema già messo in atto dopo il vertice europeo di primavera
dell’anno scorso20, implementare politiche europee meno restrittive addos19
Si potrebbe aprire un dibattito se la strada della Merkel non fosse obbligatoria per non
far fare alla DC tedesca la fine di quella italiana, travolta dagli scandali, o di quella
olandese, che dopo 33 anni di ininterrotto governo è ridotta al 5% avendo perso metà
elettori a favore di un partito liberale di stampo anglosassone che insieme agli inglesi
ha chiesto tagli draconiani al bilancio e quindi al futuro dell’Unione Europea, ma ci
spingeremmo oltre lo scopo di questo articolo.
20
Nel giugno del 2012 Monti e Rajoy “imposero” alla Merkel che i Paesi in regola con gli
impegni presi nell’ambito delle procedure del semestre europeo potessero accedere
agli aiuti dell’European Stability Mechanism senza misure aggiuntive di riequilibrio
15
sando, agli occhi dell’opinione pubblica interna, la responsabilità di misure
impopolari agli alleati socialdemocratici, riducendo in questo modo la SPD
al 20% e rendendo financo possibile una quarta legislatura consecutiva con
un governo democristiano21.
Oltre alla già citata affinità ideologico-programmatica, due altre motivazioni vengono di solito utilizzate per giustificare questa rischiosissima
scelta della SPD: esse sono di natura generazionale ed europeista.
La prima tiene conto dell’età anagrafica della classe dirigente del partito, che non avrà una seconda chance di tornare al governo. Una nomenclatura che ha già governato con i democristiani con reciproca soddisfazione e
con cui ha creato rapporti di fiducia, desiderosa di ripetere quell’esperienza
che giudica molto positivamente. Classe dirigente che invita quindi a prendere atto di come mandare la popolarissima “madre della patria”
all’opposizione sia praticamente impossibile e convenga quindi applicare
l’antico adagio che se non puoi sconfiggerli è meglio unirti a loro.
Più complessa la motivazione europeista, che postula l’esistenza di un
patto con la cancelliera per l’elezione di Martin Schulz – presidente del Parlamento Europeo, noto per le critiche alle politiche economiche della Merkel
– al ruolo di presidente della Commissione, elezione che darebbe la possibilità di iniziare a discutere di una revisione dei trattati in senso federalista arrivando persino alla comunitarizzazione ufficiale (e non surrettizia attraverso la Banca Centrale Europea, come accade ora) di parte del debito pubblico
degli Stati membri. Riforma che darebbe a Schulz una visibilità tale da permettergli una candidatura alla cancelleria nel 2021, dopo il nuovo ciclo
Grosse Koalition-governo di destra.
Purtroppo personalmente non credo molto alla possibilità che Schulz
diventi presidente della Commissione, anche se a Bruxelles se ne parla diffusamente: diffido del “buon rendere” in politica e non vedo perché i democristiani dovrebbero rafforzare un pericoloso avversario. Mi sembra piutto-
finanziario. La Merkel riuscì a “vendere” questo compromesso, durissimamente criticato in patria, come responsabilità dei socialdemocratici, che nella votazione parlamentare del giorno precedente avevano condizionato il consenso della Germania a
qualunque decisione del Consiglio Europeo all’approvazione di un “patto per la crescita”, permettendo così a Monti e Rajoy di legare il loro consenso al “patto per la crescita” ad altre misure, mettendo così in scacco la Germania.
21
Quattro legislature consecutive sotto lo stesso cancelliere non sarebbero una novità nel
sistema tedesco caratterizzato da una forte continuità. Già Kohl restò al governo per
ben 16 anni.
16
sto di essere di fronte al tipico specchietto per le allodole, creato per rabbonire gli esasperati elettori socialdemocratici, dando un senso in un paradiso
lontano al sacrificio del loro voto odierno. Un modo per tentare di arginare
la nota tattica dell’“astensionismo asimmetrico”22 con cui la Merkel vuole
rivincere le elezioni. Senza considerare che le nazioni euroscettiche molto
difficilmente permetteranno l’elezione di un presidente della Commissione
tedesco, federalista e di alto profilo, perfino se si dovesse realmente arrivare
a candidature espresse dai partiti prima delle prossime elezioni europee in
modo da dare ai candidati una forte legittimazione popolare, come proposto
dai Verdi.
Le reazioni a destra:
l’FDP da lista civetta a corrente esterna dalla CDU
Come sempre entrare in conclave da papa espone al rischio di uscirne
cardinale e così la prospettiva della Große Koalition, data sicuramente vincente fino all’inizio di maggio, ha innescato una serie di reazioni all’interno
del sistema politico tedesco, da parte di coloro che paventano un tale esito
elettorale, che oggi la rendono a mio avviso meno probabile di una prosecuzione dell’attuale governo.
Avevo scritto che uno dei grossi segnali della tornata elettorale regionale del 2012 era la resurrezione del Partito liberale (FDP), trend che si è rafforzato nel corso dell’anno. L’aumento di voti non era però dovuto a una
maggiore stima o fiducia dell’elettorato tedesco nei confronti del partito,
quanto al fatto che il complicato sistema elettorale nei Länder dà un peso
specifico superiore a un voto disgiunto CDU-FDP che a un voto unico
CDU23, per cui malgrado le smentite ufficiali i quadri democristiani fanno
incessantemente campagna per un voto disgiunto a favore dei liberali «per
aumentare la rappresentatività del parlamento» (un argomento che non viene
22
Se votare CDU o SPD porta allo stesso risultato, molti elettori troveranno inutile votare
e si asterranno. Considerato che il cancelliere eletto sarà democristiano la maggior parte degli astenuti proverrà dalle file della SPD.
23
Il sistema elettorale tedesco è simile a quello italiano del 1993, che prevedeva 3/4 dei
seggi assegnati in maniera maggioritaria ed 1/4 in maniera proporzionale con lo scorporo dei voti. Non prendendo i liberali alcun mandato diretto, i loro risultati nel proporzionale non soggiacciono ad alcuno scorporo.
17
però applicato nei confronti degli altri partiti minori). Il partito liberale si
configurava in questo contesto quale vera e propria lista civetta della CDU24.
Questa distorsione era presente anche nella legge elettorale federale, e
una sua correzione era stata più volte sollecitata dalla Corte Costituzionale
di Karlsruhe, alla quale i partiti (con l’eccezione dei Verdi e della Linke)
hanno tradizionalmente risposto con modifiche formali senza risolvere il
problema. Per le coincidenze della storia proprio nel momento in cui questo
meccanismo avrebbe favorito un rientro della FDP in parlamento, facendo
naufragare il progetto delle Grandi Intese, la Merkel ha fatto approvare lo
scorso maggio una nuova legge elettorale con un meccanismo che assicura
una ripartizione completamente proporzionale, fra i partiti che supereranno
la soglia del 5% o otterranno almeno tre mandati diretti, dei seggi in parlamento, malgrado questa nuovo dispositivo faccia perdere alla CDU il suo
vantaggio tradizionale.
L’attuale aumento dei voti dei liberali, che gli attuali sondaggi danno
intorno al 5% ma che io vedo invece fra il 7 e l’8%. è invece dovuto a ragioni più realmente politiche: se ci fossero i numeri per una maggioranza
con loro, la Merkel non potrebbe giustificare una Große Koalition, percepita
come una soluzione innaturale legittimata solo da uno stato di emergenza, e
sarebbe obbligata alla prosecuzione dell’attuale esperienza di governo.
Quindi parte degli elettori democristiani che si oppongono a ogni prospettiva di creazione di meccanismi di trasferimento automatici dalla Germania ai
Paesi mediterranei voteranno liberale per scongiurare l’ipotesi delle grandi
intese, configurando così la FDP come una “corrente esterna” della CDU.
È vero che parte di questo elettorato ha trovato rappresentanza in Alternative für Deutschland, il partito anti-euro fondato da una serie di serissimi
e stimatissimi professori di area culturale democristiana, ma la maggior parte dei tedeschi è da una parte ben conscia dei benefici dell’euro e dall’altra
non crede che AfD possa mai superare la soglia di sbarramento del 5% e
giocare un qualsivoglia ruolo. Per favorire realisticamente politiche antinflazioniste in Germania e deflazioniste nel sud Europa bisognerebbe votare
FDP, partito cui AfD potrebbe togliere voti preziosi. Se fossimo in Italia
parleremmo di un “partito di disturbo”, come i Radicali negli anni Settanta o
il partito di Giannino nelle scorse elezioni. Per fortuna siamo in Germania e
24
Nelle elezioni dello scorso gennaio in Bassa Sassonia sarebbero bastati 2.000 voti in più
“prestati” dalla CDU alla FDP per capovolgere il risultato elettorale.
http://www.wahlrecht.de/news/2013/landtagswahl-niedersachsen-2013.html#mehrheit
18
questi trucchetti politici non si applicano. Anche se la parabola politicomediatica dei Pirati, che 5Stelle farebbe bene a studiare con attenzione, potrebbe a supporre proprio l’esistenza di fenomeni di questo tipo.
Le reazioni a sinistra:
i Verdi come partito di massa
Il superamento della crisi di crescita dei Verdi è sicuramente la notizia
più importante di questi mesi. Dopo la vittoria in Baden Württemberg e
l’elezione del primo presidente di regione, il partito si era visto abilmente
sfilare dalla Merkel, con la scelta dell’uscita dal nucleare, la sua carta vincente e si trovava costretto a crescere rapidamente da partito tematico centrato sull’ambientalismo a partito generalista. Visto il successo ottenuto
presso l’elettorato moderato in Baden Württemberg la soluzione naturale è
stata confermare l’attenzione verso questo elettorato riassunta nel tranquillizzante motto: “faremo le stesse cose ma meglio”25.
La disfatta di Berlino – dove, nelle elezioni del settembre 2011, si
aspettavano quasi il 30% dei consensi e invece ottennero il 17%, guadagnando solo il 5% sulle precedenti elezioni – gettò il partito in stato di choc,
impedendogli di portare a termine le trattative con i socialdemocratici per la
costruzione di un nuovo governo della città-stato26, choc che però lasciò invariata la strategia di accreditamento nei confronti dell’elettorato moderato
senza produrre un’analisi delle cause della crescita inferiore alle aspettative.
In realtà, escludendo la parentesi di Fukushima, dal 2009 i Verdi stavano progressivamente perdendo il contatto con l’elettorato giovanile che prima li votava in massa: appoggiando la Sehr Große Koalition27 erano sempre
più visti come omologhi e non più alternativi al sistema lasciando così spazio ai Pirati. Erano passati dallo stato di “partito di lotta e di governo” a
quello di partito di “non lotta e non governo”: con l’ala sinistra (i cosiddetti
25
Dichiarazione di Winfried Kretchmann, primo ministro del Baden Württemberg:
http://www.badische-zeitung.de/ettenheim/die-welt-ein-stueck-besser-machen-47821474.html
26
Praticamente un unicum: i Verdi sono infatti conosciuti per la loro estrema pragmaticità
e la loro voglia di modificare il reale per cui rarissimamente rinunciano a
un’esperienza di governo. 5Stelle avrebbe come al solito moltissimo da imparare.
27
Il patto tacito fra SPD, CDU e Verdi per votare i provvedimenti di politica europea della Merkel ogniqualvolta alla cancelliera mancano i voti del suo stesso partito.
19
Fundis, fondamentalisti) sempre più emarginati nelle scelte del partito e
l’ala destra (i cosiddetti Realos, realisti) sempre più frustrati dal vedere allontanarsi la prospettiva di un loro ritorno al governo nazionale e alla marginalizzazione del partito nel gioco politico.
È in momenti di crisi come questi che emerge la solidità di un partito
basato sul comune sentire della propria base e non su personalismi mediatici. Ho partecipato, restandone profondamente impressionato, alla fase di
elaborazione programmatica preelettorale e ho capito perché i Verdi guadagnano regolarmente il loro mezzo punto l’anno. Ogni sezione locale (quella
di Bruxelles ha un centinaio di iscritti) è stata divisa in gruppi di lavoro ricalcanti le aree tematiche della bozza di programma elaborata al livello federale. Questi gruppi di lavoro si sono incontrati e confrontati, con teutonica
regolarità, almeno una volta la settimana per circa tre mesi e ogni mese i
progressi venivano discussi nell’assemblea di sezione. Alla fine sono stati
votati alcuni emendamenti28 da proporre e due delegati (rigorosamente un
uomo e una donna) da inviare all’assemblea federale (Parteitag)29. Questo
laborioso lavoro ha permesso il coinvolgimento dei partecipanti, ha migliorato il programma ma soprattutto ha prodotto in ognuno di noi una particolareggiata conoscenza delle tematiche affrontate nel singoli gruppi di lavoro e
una penetrazione capillare del programma nella sua interezza. Conoscenza
questa che si sta rivelando oltremodo utile in campagna elettorale.
Inoltre l’assemblea federale ha avuto modo di rappresentare lo scontento diffuso nel partito su di una linea che andava vieppiù appiattendosi
sull’alleato socialdemocratico che da parte sua si preparava, come già detto,
alle grandi intese. Date per perse le elezioni federali, la maggior parte dei
delegati trovava utile differenziarsi dai partiti della futura Große Koalition e
28
29
Per la cronaca due dei nostri emendamenti (l’abolizione del trattato separato per
l’Euratom e la comunitarizzazione di parte degli spread) sono stati accolti e inseriti nel
programma elettorale.
Ça va sans dire che le decisioni d’indirizzo generale vengono prese da delegati eletti
nelle sezioni. Alla votazione per l’elezione di questi delegati partecipano i soli iscritti e
per essere iscritti bisogna essere presentati e devolvere, dichiarazione dei redditi alla
mano, l`1% dei proprî introiti al partito: decisioni importanti non possono essere lasciate agli umori di chi decide estemporaneamente di partecipare perché la sera prima
si è infervorato guardando un talk-show, ma devono essere prese da chi ha responsabilmente e continuativamente partecipato alla vita del partito. Tutto poi appare leggero
e informale, ma come sempre in Germania il controllo sociale retrostante è fortissimo.
20
sfruttare l’occasione per testare sul mercato politico un tema che connotasse
il partito dopo l’uscita dal nucleare.
Il tema prescelto, la redistribuzione della ricchezza, è deflagrato come
una bomba sul mercato politico del Paese. Innanzitutto perché nessuno pensava a un così repentino e ampio cambio di maggioranza interna dai Realos
ai Fundis. Poi perché era da tempo che nessuno nella ricca Germania osava
proporre dei correttivi all’aumento della forbice retributiva, non limitandosi
a un cahier de doléances ma prevedendo misure concrete come l’aumento
sistematico delle tasse ai più abbienti affinché lo Stato possa erogare più
servizi; riaffermando come lo Stato abbia funzioni che vanno oltre la difesa
e il monopolio della violenza e che per esercitare appieno queste funzioni
debba essere dotato di risorse economiche adeguate.
La svolta è reale per i suoi probabili futuri impatti anche al livello europeo. I Verdi guardano con orrore al “partito leggero” di stampo veltroniano e credono nella funzione educativa del partito e della società. Sono inoltre convinti della superiorità etica dei proprî iscritti, che si prefiggono, come
obiettivo minimo, di salvare il mondo dall’effetto serra. Il che ne fa un partito con una profondissima autostima e una forte attrazione nei confronti di
aree culturali meno forti. Come hanno fatto diventare pensiero dominante e
condiviso in Germania e in nord Europa la necessità della raccolta differenziata dei rifiuti, di città a misura d’uomo con arie verdi e isole pedonali, del
passaggio alle energie rinnovabili, così vogliono rendere mainstream il concetto che un buon cittadino voglia uno Stato che funzioni e offra a tutti pari
opportunità e per il raggiungimento di questi obiettivi sia pronto a contribuire proporzionalmente al suo reddito. Chi non lo fa non è buon cittadino, è un
incolto e maleducato con atteggiamenti riprovevoli.
Per citare il compianto Padoa Schioppa: «Le tasse? Bellissime. Un modo civile di contribuire ai servizi»30. Come contro Padoa-Schioppa, anche
nei confronti dei Verdi si sono subito levati altissimi lai da parte della stampa e degli altri partiti, profetizzando un crollo di coloro che vogliono “mettere le mani nelle tasche degli onesti tedeschi per mandare soldi ai pigri mediterranei”. Crollo che non solo non c’è stato, ma il partito ha addirittura lievemente guadagnato nei sondaggi.
I contraccolpi sulla SPD:
una speranza per il futuro
Il combinato disposto della rinascita della FDP anche a livello federale,
che rende ormai possibile una riconferma dell’attuale coalizione relegando
la SPD all’opposizione, e della nuova assertività dei Verdi, che mirano ad
occupare un tema che ha sempre un notevole appeal nei confronti degli elettori socialdemocratici e minaccia di eroderne il consenso, ha dato una, speriamo, salutare scossa al partito. Il moltiplicarsi dei sondaggi che pronosticano la SPD sotto la soglia del 25% dei voti, lo spartiacque fra una sconfitta
e una disfatta31, sta spezzando l’isolamento dell’ala di centro-sinistra e dei
quarantenni, che soffrono da tempo l’egemonia al livello nazionale dell’ala
destra e la mancanza di prospettive personali. La base e i quadri si rendono
conto che accettare una strategia che sostanzialmente riconfermi il dato disastroso delle scorse elezioni significa condannarsi alla marginalità per un
lungo periodo e chiedono ormai apertamente un pronunciamento che precluda alla dirigenza la possibilità di partecipare a un governo di grandi intese dopo le elezioni32, grandi intese immancabilmente presentate come senza
alternative dalla dirigenza di osservanza schröderiana.
In effetti alternative esistono sempre, e dalla paura può nascere il coraggio di seguire nuovi sentieri. Se la SPD si rifiutasse di partecipare alle
grandi intese si aprirebbero tre possibili scenari.
* Un governo di minoranza CDU-liberali. È la disastrosa strada percorsa in Assia dopo le elezioni regionali del 2008, quando il voto contrario
di 4 franchi tiratori rese impossibile una maggioranza di sinistra con la Linke. Siccome per la legge tedesca dopo la drammatica esperienza della repubblica di Weimar non è possibile una vacanza di poteri, il governo uscente resta in carica fino a quando non venga eletto il successore. Nel caso specifico il democristiano Roland Koch continuò a governare per circa un anno,
fino a quando non si giunse allo scioglimento del parlamento regionale e a
nuove elezioni, che egli stesso vinse con amplissimo margine additando
31
32
30
https://www.youtube.com/watch?v=xXmltxRBZvg
21
Otto anni fa, alla fine dell’era Schröder, la SPD aveva il 35% dei voti e dal 1957 non
era mai scesa sotto il 30%. Il 23% del 2009 fu considerato un dato non significativo
dovuto all’esperienza della Große Koalition.
Ad esempio Henrik Hering, presidente del partito in Palatinato: “A Frau Merkel non
riesce di governare bene, ma riesce benissimo di ridurre gli alleati ai minimi termini”:
http://www.welt.de/politik/deutschland/article117571893/SPDler-misstrauen-demMerkel-Fan-Gabriel.html
22
all’elettorato l’inaffidabilità di una socialdemocrazia dilaniata dalle lotte fra
correnti (la SPD perse più di un terzo dei voti).
Nella situazione odierna potremmo avere un parlamento senza una
chiara maggioranza di destra o di sinistra, con Frau Merkel che resta in carica fino al momento a lei più favorevole per indire nuove elezioni.
* Una coalizione Nero-Verde. Esperienze di governi che riuniscano i
partiti borghesi33 sono state fatte sia sotto forma di alleanze fra la CDU e i
Verdi che come coalizioni “giamaicane” con la partecipazione dei liberali, a
Amburgo e nella Saar.
Malgrado i Realos lavorino dai tempi della “Pizza connection”34 per
una simile costellazione anche livello federale e il dibattito nel partito riemerga periodicamente, questa possibilità non è mai stata realmente presa in
considerazione per queste elezioni: se la Merkel avesse una maggioranza
stabile non avrebbe bisogno dei Verdi, se non l’avesse la dirigenza della
SPD farebbe volentieri da stampella alla CDU. In più le esperienze precedenti non hanno mai portato molta fortuna ai Verdi: chi vota Verde, del resto, vuole un cambiamento e un governo con la CDU è sinonimo di continuità. A mio avviso, dal punto di vista dell’immagine, i Verdi dovrebbero
accettare un’alleanza di governo con la democrazia cristiana solo con
quest’ultima come partner di minoranza, come fa la SPD nei confronti della
sinistra.
In ogni caso il partito si è preparato anche all’eventualità che la SPD in
un sussulto di responsabilità rifiuti un’alleanza con la CDU e la Merkel intavoli negoziati con i Verdi: il tema della forte redistribuzione sociale della
ricchezza è stato scelto anche per rendere praticamente inaccettabili per la
Democrazia Cristiana le condizioni che i Verdi proporrebbero per la stipula
di un contratto di coalizione35. Se poi l’Unione accettasse condizioni così
drastiche la coalizione potrebbe essere presentata agli elettori dei Verdi co-
33
I Verdi, che venivano accusati sia da destra che da sinistra di essere il partito dei figli
viziati della buona borghesia, hanno accettato questa provocazione ed iniziato a definirsi come partito borghese che rappresenta i veri interessi della classe media, contro i
democristiani che rappresentano ormai solo gli interessi della grande industria
34
A metà degli anni Novanta membri delle sezioni giovanili della CDU e dei Verdi iniziarono a incontrarsi informalmente in una pizzeria per affrontare temi politici comuni.
35
Alla fine dei negoziati per la formazione di un governo in Germania si usa stipulare un
vero e proprio Koalitionsvertrag, anche se ovviamente privo di un valore legale vincolante.
23
me una grande vittoria. Ma a mio avviso i tempi per un simile governo non
sono maturi.
* Un governo di minoranza Rosso-Verde. Questo scenario vuole riprodurre a livello federale la positiva esperienza della Westfalia, dove Hannelore Kraft ha guidato per un anno una maggioranza tollerata dalla Sinistra.
La differenza fra i due casi è che mentre in Westfalia dopo la prima votazione basta una maggioranza relativa per eleggere il presidente della regione, per eleggere un nuovo cancelliere serve una maggioranza assoluta.
Dopo le elezioni italiane abbiamo visto quanto sia difficile con queste costrizioni fondare un governo di minoranza: come per eleggere Bersani sarebbero stati necessari i voti di 5Stelle, in Germania servirebbero i voti favorevoli della Linke36.
Il rischio, oltremodo reale, è che l’opposizione interna dell’ala destra
della socialdemocrazia si concretizzi nel voto di franchi tiratori riproducendo non l’esperienza positiva della Westfalia ma quella distruttiva dell’Assia.
Anche i Realos avrebbero non pochi mal di pancia in un governo con la
Linke, ma costituirebbero un problema minore sia per l’elevata disciplina di
partito che ha sempre caratterizzato i Verdi sia al momento del voto sia al
momento di assumere responsabilità di governo.
Per inciso, considerando le motivazioni meramente tattiche e non politiche della SPD di un patto di governo con la sinistra, nel breve periodo questa coalizione probabilmente gelerebbe le speranze di quanti si aspettano un
cambiamento delle politiche europee della Germania. Il governo sarebbe instabile, stretto fra i condizionamenti della Linke e il desiderio della SPD avere sondaggi favorevoli per poter convocare nuove elezioni e così liberarsi
dello sgradito socio di minoranza. Come fatto l’anno scorso in Westfalia.
Per questo la SPD non potrebbe prestare il fianco a critiche di debolezza di
fronte ai partner europei e chiederebbe un rispetto dei trattati europei e del
patto di stabilità più stringente rispetto a quello praticato dalla Merkel.
Questa rischiosissima strategia ha a mio avviso scarse possibilità di
concretizzarsi; se ne parla dunque esclusivamente per influenzare le intenzioni di voto degli elettori: i socialdemocratici per far credere che un voto
espresso nei loro confronti non è un voto dato alla Merkel, i democristiani
36
Si parlerebbe comunque di governo di minoranza Rosso-Verde e non di governo con la
Sinistra fino a quando quest’ultima non esprimesse proprî ministri all’interno della
compagine di governo –anche se non capisco perché la Linke dovrebbe votare a favore
senza ottenere ministri in cambio.
24
Il Margine 33 (2013), n. 7
per agitare lo spauracchio del pericolo comunista e orientare verso di loro
gli elettori centristi.
Sono fortemente persuaso che l’unico modo che SPD e Verdi hanno di
tornare al potere è di cooptare con un vero accordo politico e non esclusivamente tattico i 5 milioni di voti della Sinistra. Anche se questa è
un’opzione alla quale l’elettorato della Germania ovest andrebbe preparato.
Per tale motivo credo che più che guardare ai risultati delle elezioni federali – che, a meno dell’emergere di grossi scandali, considero perse - occorra guardare all’Assia, in cui si vota per il governo regionale lo stesso
giorno delle elezioni federali.
Come nel 2008, in questo Land tradizionalmente rosso, governato da
quasi vent’anni dalla democrazia cristiana per le lotte intestine della socialdemocrazia locale, la Sinistra potrebbe superare lo sbarramento del 5% rendendo impossibile qualunque maggioranza tradizionale. A quel punto la
SPD avrebbe la possibilità di scegliere se ancorarsi al passato all’interno di
grandi intese con la CDU o fare da precursore tentando vie nuove da esperire in futuro anche al livello nazionale, come fece nel 1983 quando toccò
proprio a Holger Börner, che aveva pessimi rapporti personali e politici con
i Verdi, di trovare il coraggio di fondare il primo gabinetto rosso-verde con
Joschka Fischer come ministro dell’energia e dell’ambiente.
Il dinamismo del sistema politico tedesco in cui, a differenza dell’Italia
della seconda repubblica, non cambiano gattopardescamente i nomi dei partiti affinché restino inamovibili le nomenklature e le politiche esperite, ma in
cui c’è un ricambio delle classi dirigenti e con loro dei modelli di sviluppo
proposti, rappresenta un altro esempio della divaricazione progressiva dei
cammini dei due Stati dalla fine della guerra fredda in poi. Malgrado ciò,
come in Italia anche in Germania il nodo di fondo da sciogliere per far riprendere un cammino di sviluppo ai singoli Paesi e all’Europa nel suo complesso, è se le dirigenza dei partiti socialisti e democratici sarà all’altezza di
rispondere alle richieste di cambiamento provenienti dai suoi elettori o preferirà conservare tranquille rendite di posizione.
25
La cultura ai tempi
della Seconda Repubblica
Il ventennio conformista di Giorgio Ieranò
STEFANO PEZZÈ
I
l ventennio conformista di Giorgio Ieranò è un bel libro. Lo è non tanto
perché sia ben scritto o ben documentato – aspetti che, peraltro, costituiscono un’ossatura quanto mai robusta – ma è un bel libro principalmente
perché arriva al momento giusto.
Il lasso di tempo preso in considerazione è chiaro fin dal sottotitolo
(Tic, luoghi comuni e mode culturali degli Italiani ai tempi della Seconda
Repubblica) e l’obiettivo centrale è la confutazione di una serie di stereotipi
venutisi a creare, appunto, nell’ultimo ventennio; stereotipi che costituiscono quella che Ieranò definisce una nuova vulgata, la quale si è imposta come
la versione ufficiale senza, generalmente, porsi il problema di giustificarsi
con riferimenti storicamente attendibili; Volendo parafrasare Kuhn, si è verificato un cambiamento di paradigma culturale, al quale è però mancata la
fisiologica discussione su quali fossero i nuovi valori da condividere.
Nel pamphlet, il profilo dell’imputato viene delineato fin
dall’Introduzione (p. 8):
«l’italiano che lamenta i “cinquant’anni di egemonia della sinistra”, inveisce contro
il “culturame” della “casta dei radical-chic”, disprezza il “buonismo” e depreca il
politically correct. Si è affermato il neo-liberista che pronuncia con orrore parole
come “statalismo” o “assistenzialismo” e inneggia invece alla “flessibilità” e alla
“meritocrazia”. Si è fatto strada il cantore dell’efficientismo imprenditoriale, il retore della “cultura del fare”, che chiama “bamboccioni” i giovani disoccupati e “fannulloni” gli impiegati statali».
26
Chi scrive questo articolo è nato pochissimi anni prima dell’inizio di
questa rivoluzione culturale1, e non nega di provare una certa simpatia per,
se non tutta, almeno una parte della descrizione sopraccitata. È del resto
comprensibile che chi vive nell’assoluta incertezza riguardo al proprio futuro possa indignarsi di fronte alla porchetta dell’Inps di Roma, e la tentazione
di fare di tutta l’erba un fascio trova, in un mood del genere, terreno più che
fertile per germogliare; da qui all’inneggiare alla meritocrazia il passo è breve, e in questo senso Il ventennio conformista può fungere da antidoto contro le generalizzazioni e, appunto, i conformismi del nostro tempo.
Quando Vittorio Sereni si trovò a parlare del rapporto con il proprio
maestro Antonio Banfi, per descrivere la condizione culturale in cui versavano lui e i propri amici (parliamo della metà degli anni Trenta) usò queste
parole: «imbevuti quasi senza averne coscienza di idealismo, di estetismo,
magari di fascismo respirato con l’aria»2. Sereni aveva nove anni appena
compiuti quando le camicie nere marciarono su Roma. Egli si svincolò dal
magistero culturale di Croce e dalla dittatura fascista grazie all’azione di un
maestro, e di maestri c’è bisogno a tutt’oggi, forse più di prima. Ieranò nel
suo libro ha il merito di non imporre un proprio punto di vista, ma solo di
indagare con la precisione e la puntualità che avrebbero meritato tutta una
serie di fenomeni la cui genesi è generalmente collocabile all’inizio degli
anni Novanta. Per questo Il ventennio conformista dovrebbero leggerlo tutti,
sia a destra che a sinistra: non perché si pretenda di trovarci una rivelazione
o la verità assoluta – benché almeno sul versante della verità storica il libro
faccia chiarezza su più di una questione – ma perché esso trasmette una forma mentis trasversale e senza preconcetti ideologici, quella dello storico e
del filologo, della verifica delle fonti e dell’attenzione certosina ai dettagli.
Si è parlato di destra e sinistra, una delle dicotomie più popolari in Italia nell’ultimo ventennio: il libro parte proprio dall’assunto che la Storia al
giorno d’oggi sia stata fortemente mistificata dall’intellighenzia di sinistra (o
“comunista”, secondo la definizione di “uomo di sinistra” negli ultimi
vent’anni) negli anni, grosso modo, tra il Dopoguerra e Mani Pulite. Nella
1
La definizione non è casuale, ma mutuata da un altro fortunato pamphlet pubblicato pochi anni fa: C. Giunta, L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, Bologna, Il Mulino 2008; posto che Giunta – che, come Ieranò, insegna all’Università di
Trento – riconduce la rivoluzione culturale all’avvento dei nuovi media, il suo libro
potrebbe tranquillamente essere letto in concomitanza con quello qui recensito.
2
V. Sereni, Presentazione di A. Banfi, Ricerche sull’amor famigliare e tre scritti inediti,
Urbino, Argalìa editore, 1965, p. 7 (corsivo mio).
27
prima parte, intitolata appunto Riscrivere la storia, Ieranò esamina svariati
esempi di “revisionismo storico”; lo fa con il piglio del filologo, ma senza
mai perdere una patina di ironia che rende il libro godibilissimo. La carrellata comincia con la rivalutazione di figure storiche tradizionalmente losche
quali Catilina e Nerone, personaggi (secondo la nuova vulgata) amatissimi
dal popolo e di grande rispetto per la cosa pubblica, che per invidia
dell’establishment (Cicerone e il Senato) vennero tolti di mezzo con
l’inganno: Catilina, in particolare, subì anche una persecuzione giudiziaria
da parte del suo antagonista (la magistratura era rossa anche nel I secolo
a.C., pare). Pazienza se gli venne poi in mente di organizzare una congiura:
a mali estremi, estremi rimedi. Si procede poi con l’elezione a simbolo politico di Alberto da Giussano, eroe di Legnano e padano ante litteram: purtroppo, così come la Padania, anch’egli immaginario.
Il libro prosegue con altri esempi: e se alcuni sono dedicati a temi di
dominio pubblico (la critica verso l’“insabbiamento” delle foibe, i comunisti
che avrebbero volontariamente escluso l’eccidio di Cefalonia dai manuali di
storia, la volontà di rendere gloria postuma ai ragazzi di Salò), altri non hanno avuto grandissima notorietà (non hanno raggiunto chi scrive, se non altro) ma sono sintomatici del mutato sentire comune. Alcune “chicche” sono
davvero interessanti: che dire, ad esempio, dell’intervista al “Fatto Quotidiano” (!) in cui Alessandro Sallusti rende onore alla memoria di suo nonno
Biagio, fascista “costretto” a condannare a morte Aldo Pucher, assassino
partigiano, alla fine della Repubblica di Salò? Ieranò dimostra con filologica
cura («Filologia, lavoro pulito. Come quello del radiologo in medicina»3,
ancora Sereni) che nell’intervista non c’è quasi nulla di vero, dal nome del
partigiano (Giancarlo Puecher), al fatto che non fosse imputato per omicidio, al fatto che il processo si sia tenuto nel dicembre 1943 (ben lontano dalla fine della Repubblica di Salò), al fatto che nonno Biagio quel giorno
avesse ordinato tre condanne a morte, una in più della richiesta del pubblico
ministero. L’aspetto sconcertante non è tanto che Sallusti abbia inventato di
sana pianta gran parte della sua apologia – siamo ormai abituati a boutades
ben peggiori – ma piuttosto che il giornalista autore dell’intervista non si sia
posto il benché minimo problema di verificare ciò che stava per riportare
sulle colonne del suo giornale (tra l’altro dichiaratamente antiberlusconiano). Un simile atteggiamento è sintomatico della mutata percezione della
storia del nostro Paese: da dovunque provenga o dovunque giunga, una ver3
V. Sereni, Gli immediati dintorni, Milano, Il Saggiatore 1962, p. 75.
28
sione che include un partigiano cattivo può ormai risultare attendibile senza
nessun bisogno di verificarne l’autenticità o l’attendibilità.
Lo stesso fenomeno si trova anche in un altro dei casi analizzati nel libro: un caso senz’altro di nicchia, ma altrettanto significativo (oltre che
spassoso): la denuncia, da parte di Don Backy, di un presunto complotto
comunista vòlto all’epurazione dei cantanti melodici in favore di cantautori
impegnati alla Venditti o De Gregori, «che per carità, erano pure bravi, ma
erano soprattutto funzionali ad un progetto». Ora, sorvolando sul fatto che i
melodici furono talmente osteggiati dalla casta comunista che il solo Little
Tony raggiunse i 15 milioni di dischi venduti4, ovvero la cifra di vendite (in
vita) stimata per Lucio Dalla, Fabrizio De André e Francesco De Gregori
messi assieme, è evidente che la polemica ha radici più profonde: abbiamo
avuto complotti ebraici (i Protocolli dei savi anziani di Sion ebbero cinque
edizioni in Italia tra 1921 e 1938), complotti massonici, possiamo anche
permetterci un complotto rosso ai danni di onesti cantanti, rei solamente di
non scrivere canzoni abbastanza ideologiche per il periodo. Sicuramente in
Italia tendiamo a vedere più congiure di quante in realtà ce ne siano, il che è
uno dei motivi per cui illazioni su una di esse possono avere diffusione senza incontrare particolari difficoltà.
La cultura dopo questo ventennio
Altri motivi vengono considerati nella seconda parte del libro, Rifondare la cultura. In essa si ripresenta un repertorio, ma non più di distorsioni
storiografiche, bensì di peregrini aspetti della cultura di oggi – ma, ovviamente, sempre considerando l’ultimo ventennio come periodo interessato.
Per una sessantina di pagine, dunque, si avvicendano esempi di una cultura
che è profondamente mutata, e i sintomi della quale sono già stati in parte
ricordati nella descrizione dell’italiano medio. Ma accanto alla polemica
contro il culturame e il politically correct, contro il buonismo sinistroide e lo
stato assistenzialista reo di mortificare il singolo e il talento personale, ecco
alcuni fenomeni che potevano essere sfuggiti, come la «beatificazione» di
Oriana Fallaci, quella che assurse a paladina dei “conformati” all’indomani
dell’11 settembre, con un articolo al vetriolo contro i pericoli provenienti dal
4
mondo islamico. Oriana Fallaci che lancia strali ai musulmani, che fa del
turpiloquio la base su cui erigere la propria prosa, che ce l’ha coi gay e gli
abortisti. Ma anche Oriana Fallaci figlia di un partigiano e a sua volta vedetta per Giustizia e Libertà. Mah, errori di gioventù.
Accanto all’autrice di Insciallah, altri scrittori hanno riscosso successo
per via di uno stile che non le manda a dire, scrittori «che chiamano i neri
“negri” e i “diversamente abili” storpi». Scrittori come Alessandro Piperno o
Pietrangelo Buttafuoco; il primo Premio Strega 2012, il secondo editorialista
per “La Repubblica” nonostante la dichiarata fede berlusconiana: «ulteriore
testimonianza di come certi vezzi siano del tutto bipartisan». E in effetti,
cosa c’è di più bipartisan di un governo di larghe intese? La tendenza alla
trasversalità che traspare dal libro (che è uno dei motivi per cui Ieranò, giustamente, non dà la colpa a Berlusconi, per quanto ne riconosca un non indifferente grado di responsabilità) trova la sua perfetta manifestazione anche
in politica.
Per questi motivi Il ventennio conformista è arrivato al momento giusto, perché la citazione di Sereni a proposito della filologia aveva un seguito: «Capire questo a diciotto, vent’anni può salvare dall’estetismo inconsapevole e da altre varie forme di vaghezza». Il libro di Ieranò è un libro che
ghigna sardonico verso le approssimazioni e i facili entusiasmi dei “conformati”, col piglio un po’ salottiero dello studioso che il latino e il greco li sa
benissimo e irride chi si infervora per la messa in latino, benché ampiamente
digiuno della lingua di Cicerone (in questo senso, l’ultimo capitolo del libro
è assolutamente splendido). L’invettiva si rivolge prevalentemente a figure
politiche e culturali di destra (Berlusconi, Bondi, Ferrara), anche se l’autore
raccoglie scalpi illustri anche dalla sinistra più “riformatrice” (e tendente a
destra: Renzi, Ichino). Non tutto quello che c’è nel libro è ovviamente oro
colato, ma esso ha il grande merito di trasmettere la forma mentis corretta:
rifuggire la superficialità, andare oltre l’apparenza, non conformarsi ad un
credo.
Nell’epilogo si mostra come nella transizione tra Berlusconi e Monti (il
libro è uscito alla fine del 2012) la sostanza non sia granché cambiata; al più
è cambiata la forma. È da auspicare che questo libro venga letto trasversalmente, senza tuttavia alcun preconcetto; l’ha pur sempre scritto un filologo,
leggerlo può aiutare a salvarci «dall’estetismo inconsapevole e da altre varie
forme di vaghezza».
http://scuola.repubblica.it/contributo/little-tony-50-anni-dicarriera/250/?id_contrib=1273/
29
30
Il Margine 33 (2013), n. 7
Lavoro e responsabilità
Un libro di Donata Borgonovo Re
sulla Costituzione italiana
PIERGIORGIO CATTANI
A
Trento è stato appena inaugurato un nuovo quartiere, progettato da
Renzo Piano, a ridosso del fiume Adige, sorto al posto di un grande
stabilimento della Michelin. Palazzi moderni e autonomi dal punto di vista
energetico sorgono vicini al Muse, l’avveniristico Museo della scienza,
anch’esso a firma di Piano con enormi vetrate e ampi pannelli fotovoltaici.
Un sogno realizzato in tempi difficili. La crisi rallenta le vendite degli immobili e oggi “le Albere” (questo il nome del quartiere) è purtroppo una città fantasma: uffici, abitazioni, spazi verdi, strade sono vuoti. Si popoleranno,
naturalmente, ma percorrere il muto viale principale, solamente pedonabile,
è un’esperienza davvero strana. Il viale è intitolato alla Costituzione. Anche
questo mi sembra un segno dei tempi.
Oggi si parla tanto della Costituzione della Repubblica Italiana. Si procede però a slogan, a partire dall’ormai abusata frase di Benigni che parla
della “Costituzione più bella del mondo”. Intanto si procede a cambiarla,
oppure la si vuole difendere a tutti costi da un interminabile assedio. La nostra Carta fondamentale è poco conosciuta, in primis dai nostri rappresentanti in Parlamento. Che poi sono quelli che dovrebbero riammodernarla. La
Costituzione è una strada vuota, un quartiere ormai disabitato. Non è nuova,
si è piano piano spopolata. Adesso vorrebbero rifarla, non dico dalle fondamenta, ma di sicuro dai muri portanti.
Mentre la Costituzione “materiale” ha preso il posto di quella formale
con un presidente Napolitano a fare da primo ministro ombra, mentre si susseguono proposte di “grande riforma” esce, per le edizioni “il Margine”, un
libro dedicato proprio al testo su cui è sorta la nostra democrazia.
L’autrice, Donata Borgonovo Re, ricercatrice di diritto privato presso il
dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Trento, non ha voluto
31
scrivere l’ennesimo trattato – forse troppi ne hanno prodotti costituzionalisti
di varie matrici politiche – utile agli addetti ai lavori, ma si è concentrata
nella presentazione e nel commento dei pilastri fondamentali. Un testo “al
servizio dei cittadini” per offrire loro spunti per una “cittadinanza consapevole” perché conscia dei propri diritti e doveri, dei propri limiti e prerogative. Dei propri, ma anche di quelli delle istituzioni nella cui cornice si può
esercitare la responsabilità di cittadino. Ciò deriva dalla particolare sensibilità di Borgonovo Re – che ha ricoperto pure la carica di Difensore civico della Provincia autonoma di Trento – da sempre impegnata nei movimenti e
nelle associazioni più attive non solo nel difendere la Costituzione ma nel
divulgarne i contenuti. Ogni sede è idonea a questo compito negletto dai cittadini italiani (mentre è abitudine sparare contro la Carta, rea di essere vecchia e superata): la strada, la piazza, la scuola, l’Università. Borgonovo abita
questi luoghi, è voce instancabile, docente appassionata che intende la politica nella sua accezione più ampia, una politica che parte dall’incontro personale. Questo impegno può generare ulteriore azione concreta ma pure può
condurre alla stesura di un libro.
Una guida nel purgatorio italiano
Le quattro stelle della Costituzione, questo il titolo del volume, scelto
in tempi non sospetti (prima cioè dello strepitoso successo del movimento di
Beppe Grillo), richiama le quattro parole chiave scelte dall’autrice per condurre dentro il testo e per orientare il lettore attraverso gli innumerevoli
spunti che la nostra Carta offre anche a una lettura superficiale. Borgonovo
Re però riesce nella difficile impresa di presentare i contenuti fondamentali
della Costituzione e di rintracciare, evidenziandoli con perizia, particolari
poco noti ma illuminanti. Per fare questo si affida a molteplici citazioni dei
padri e delle madri costituenti: Dossetti, Moro, Anselmi, Ruini, Fanfani… e
soprattutto Piero Calamandrei, statista dimenticato troppo presto. Fa piacere
vedere Calamandrei nel posto di protagonista che gli compete ma che è stato
da subito negletto dalle “convergenze parallele” della tradizione cattolica e
di quella comunista, alleate nel far dimenticare l’apporto degli azionisti di
cui Calamandrei era uno dei leader.
Occorrono dunque quattro stelle, non cinque. Quattro stelle simili a
quelle che Dante vede nel cielo azzurro del Purgatorio, appena uscito dalla
caligine e dall’oscurità dell’Inferno. Sta per venire giorno e, alzando lo
32
sguardo dalla riva del mare, il poeta riesce a scorgere le quattro stelle indicanti le quattro virtù cardinali: giustizia, prudenza, fortezza e temperanza.
Esse sono fonte di speranza, in attesa che giunga finalmente il sole a illuminare il paesaggio. Le quattro stelle della Costituzione sono invece sovranità,
democrazia, solidarietà, eguaglianza. Concetti che possono orientare durante
il viaggio nel purgatorio in cui sembra essersi trasformata la nostra Italia.
Non siamo ancora all’inferno ma certo viviamo un tempo di contrappasso
rispetto a quegli italici “vizi capitali” che almeno da Machiavelli in poi sono
il familismo, il particolarismo, la mancanza di senso di appartenenza a una
nazione, la scarsissima coscienza civile. Questo libro aiuta a superare questo
stato di cose e, come auspica l’autrice nella sua prefazione, a «conquistare
nuovi appassionati e nuovi estimatori della Carta fondamentale, guidandoli
nell’esplorazione dei suoi principi» (p. 14).
Prima di accennare a tre elementi significativi tra i moltissimi che si
possono desumere da più di duecento intense pagine, due note riguardanti lo
spirito generale che anima il libro e la particolare situazione politica che il
nostro Paese sta vivendo in questi mesi.
Borgonovo Re ha una visione molto alta del compito del cittadino. Una
visione che affonda le sue radici nella grande tradizione democratica europea che dai primordi in Grecia all’autogoverno dei comuni nel medioevo
italiano, dalla rivoluzione francese alla riflessione novecentesca del personalismo cristiano e del cattolicesimo democratico, giunge fino a noi, trovandoci però sovente stanchi e disillusi. Una situazione perfettamente delineata da
una citazione, proposta nel volume, in cui Gustavo Zagrebelsky avverte:
«La democrazia, come un lavoro, stanca. L’oppressione dispotica suscita reazione e
ribellione. La democrazia, invece, stanchezza. … La democrazia non promette nulla
a nessuno, ma richiese molto a tutti. Non è un idolo, ma un ideale corrispondente a
un’idea di dignità umana» (p. 135).
Questione di dignità dunque: vengono in mente la centralità della persona nella nostra Costituzione ma pure la frase, ancora una volta di Calamandrei, che sintetizza le motivazioni ideali della Resistenza al fascismo:
«ci siamo ribellati non per odio, ma per dignità». Se prevale la disaffezione,
lentamente langue la democrazia stessa. Lo aveva già colto Platone,
nell’Apologia di Socrate: «La pena che i buoni devono scontare per
l’indifferenza alla cosa pubblica è quella di essere governati dai malvagi».
Verità forse banale, ma sempre dimenticata.
33
In attesa della “grande riforma”
In secondo luogo, una breve riflessione sull’attuale temperie politica.
«Oggi pomeriggio al Senato primo sì alle riforme costituzionali. Un passo
avanti per la necessaria riforma della politica. Rispettando i tempi». Con
questo annuncio, lanciato in rete con un tweet in una sera di luglio, il presidente del consiglio Enrico Letta si felicitava del fatto che il Senato aveva
appena votato a favore al disegno di legge costituzionale che prevede
l’istituzione di un comitato di quaranta saggi allo scopo di proporre e quindi
varare le cosiddette “riforme costituzionali”. I poteri del comitato, molto
ampi, aggireranno le procedure di revisione previste dalla Carta all’articolo
138, giudicate troppo lunghe e complesse rispetto all’urgenza del momento.
Occorre cambiare subito, ora. Tempo massimo: 18 mesi. Adesso si fa
sul serio. Si dovrebbe procedere a tappe forzate. Il 22 luglio sono finiti i lavori della Commissione per le riforme costituzionali, il gruppo informale di
“saggi” che dovrebbero poi stendere una relazione finale da consegnare, entro ottobre di quest’anno, al Comitato dei 40 che per l’autunno entrerà in carica dopo l’approvazione definitiva della legge costituzionale varata dal Governo. Poi il Comitato in 4 mesi dovrebbe approvare la bozza definitiva della “grande riforma” da sottoporre al primo voto delle Camere, previsto per
maggio 2014. La seconda lettura del provvedimento dovrebbe avvenire entro l’ottobre 2014. In un batter d’occhio la Costituzione verrà ampiamente
trasformata.
Quante volte abbiamo sentito questi discorsi. Almeno da quarant’anni.
Un periodo di tempo in cui in Italia è successo davvero di tutto – cambiamenti politici, sociali, economici, di costume e di stili di vita – ma sempre
ecco ripetere che ogni male del Paese potrebbe essere risolto con la “grande
riforma” della Costituzione. Un mantra accompagnato sempre, come dimostrato dal professor Ieranò nel suo documentato libro Il ventennio conformista, da una sorta di revisionismo storico e politico incentrato su presunte necessità di una “pacificazione nazionale”, di concludere la “guerra civile simulata”, di mettere tra parentesi i valori della Resistenza per dare onore ai
“ragazzi di Salò” caduti perché credevano nei loro ideali. Oggi questo revisionismo deve parlare di un altro ventennio, quello berlusconiano, per favorire un’altra pacificazione, quella nientemeno che tra la magistratura e la politica. Ecco allora i cambiamenti della Costituzione.
Il declino ormai trentennale cui ci stiamo abituando deriverebbe proprio dal fatto che questo necessario ammodernamento delle istituzioni deve
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ancora arrivare. L’anomalia italiana starebbe tutta in questa incapacità di
riforma. I presunti “statisti” – da Craxi a D’Alema a Berlusconi – sarebbero
quelli che più di altri hanno insistito sulla necessità della profonda revisione
della Costituzione. Sarebbero loro i veri riformatori. E in che direzione vorrebbero far andare l’Italia? Sempre nella stessa. Ossia: più potere
all’esecutivo, elezione diretta del Capo dello Stato, riduzione dei parlamentari ma soprattutto delle prerogative del Parlamento, già che ci siamo riforma della giustizia e magari (meglio non mettere limiti alla provvidenza) rivedere certi articoli della Carta viziati da un linguaggio troppo pacifista, solidarista, comunitario. Tutto in nome dei valori liberali e democratici. Se veramente si riuscisse a cambiare la Costituzione – così sostengono i fautori
della modifica – i problemi dell’Italia comincerebbero a risolversi.
Certamente dietro a questi tentativi c’è pure una volontà positiva di
rinnovamento: sarebbe sterile una difesa a priori della Carta, trincerandosi
nell’affermazione secondo cui “altre sono le priorità”. Già i padri costituenti
più avveduti avevano messo in conto possibili cambiamenti. Ancora Piero
Calamandrei, nel discorso tenuto il 4 marzo 1947 in Assemblea costituente,
diceva chiaramente: «Credete voi che si possa continuare a governare
l’Italia con una struttura di governo parlamentare come sarà quella proposta
dal progetto di Costituzione?» Soltanto una maggioranza omogenea avrebbe
garantito stabilità di governo, ma il giurista facilmente prevedeva che così
non sarebbe stato e quindi suggeriva di trovare «appositi espedienti costituzionali per rendere più stabili e durature le coalizioni, fondandole
sull’approvazione di un programma particolareggiato sul quale possano
lealmente accordarsi in anticipo i vari partiti coalizzati» (pp. 50-51).
In questa annotazione però sembrano celarsi una critica al sistema elettorale del proporzionale puro e l’indicazione di un primato del programma
di governo sulle alchimie dei partiti. Sappiamo che poi è avvenuto il contrario. Le riforme costituzionali oggi in campo potrebbero apportare cambiamenti utili, come per esempio il superamento del bicameralismo perfetto. È
il clima generale tuttavia che fa destare più di una preoccupazione:
l’inquietante incompetenza dei nostri parlamentari, unita all’incoscienza velleitaria di dover cambiare tutto, può portare a una revisione pasticciata e incongruente. Non parliamo poi della perdurante anomalia berlusconiana.
Leggendo il libro di Donata Borgonovo Re ritroviamo una conferma di
questo discorso. Al di là delle diverse opinioni politiche infatti ciò che segna
il nostro presente è la mancanza di conoscenza e di consapevolezza delle
inedite possibilità che ancora la Costituzione del 1948 potrebbe offrire.
35
Lavoro, partiti, responsabilità degli eletti
Affrontiamo adesso il primo dei tre spunti che mi preme evidenziare,
pescandoli dalle molte suggestioni del volume. Come è noto, il fondamento
su cui poggia la nostra Repubblica democratica è il lavoro. Il primo articolo
della Costituzione è uno degli elementi più caratteristici dell’intera Carta,
alternativamente visto come un debito pagato alla tradizione comunista oppure come un lungimirante principio valido forse oggi ancora più di ieri.
Certo è che nell’Assemblea Costituente le idee sembrano essere state
molto chiare. Il lavoro è «il titolo essenziale, fondamentale per la partecipazione alla vita politica» (Amintore Fanfani, Commissione dei 75, 24 gennaio
1947). Si tratta però di sottolineare come il lavoro qui inteso non sia solamente la professione svolta, l’occupazione, il mestiere necessari per sopravvivere. Scrive l’autrice: «Dobbiamo considerare il lavoro nella sua accezione più ampia … nel senso dell’impegno, dello sforzo, dell’applicazione,
dell’attenzione, della cura: la democrazia si fonda sull’onesta, paziente e
competente dedizione che ciascuna persona pone nelle sue azioni» (p. 88).
Il lavoro come «liberazione dell’uomo dal bisogno». Meuccio Ruini,
nella relazione finale della Commissione dei 75 scrive: «Si può dire oggi
che la repubblica sarà di democrazia e riforme economiche o non sarà» (p.
93). Riscontriamo dunque una precisa consapevolezza di non voler parlare
astrattamente del lavoro o di lavoratori quanto della necessità di permettere
al cittadino di esplicare, attraverso l’opera del suo ingegno e della sua fatica,
i diritti e doveri individuali e collettivi. L’articolo 1 trova così quasi una sua
continuazione nell’articolo 3 in cui si chiama la Repubblica a rimuovere gli
ostacoli che impediscono la reale attuazione dei principi contenuti nella Costituzione stessa. Il lavoro quindi diventa un diritto.
Seguendo l’insegnamento del premio Nobel indiano Amartya Sen, si
potrebbe dire che la fondazione sul lavoro della nostra democrazia implica il
compito di garantire a ogni cittadino la “capacità” di essere libero dal bisogno, di condurre l’esistenza secondo le proprie convinzioni, di partecipare
alla vita pubblica, di concorrere al progresso del paese intero.
Veniamo al secondo aspetto su cui mi vorrei velocemente soffermare.
Ricominciamo da Calamandrei: «Una democrazia non può essere tale se non
sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si
scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici». In una democrazia tutto deve essere democratico: la scuola, i sindacati, la polizia, le procedure di elezione dei magistrati... ovviamente i partiti.
36
Il Margine 33 (2013), n. 7
Si è detto molte volte che la causa di gran parte dei mali della politica italiana sia da rintracciarsi nella mancata attuazione dell’articolo 49. Così abbiamo potuto assistere alla nascita di partiti-azienda e di partiti-setta, privi di
qualsiasi democrazia interna e di possibilità di controllo da parte dei propri
(numerosi) elettori e dei propri (più o meno inesistenti) iscritti.
Tuttavia, annota con chiarezza ma quasi con rimpianto Borgonovo Re,
«la Costituzione non riserva alcuna disciplina» volta ad attuare all’interno
dei partiti questo metodo democratico. (p. 101) Si è preferito invece lasciare
la più ampia libertà possibile di associazionismo per i cittadini che poi decideranno alle elezioni a chi affidare il proprio voto. A distanza di decenni
possiamo dire che la mancanza di democraticità interna dei partiti e di una
normativa generale sulla loro attività (in molti altri paesi, dalla Germania
alla Francia agli Stati Uniti, le regole del gioco della politica sono stabilite a
livello legislativo e istituzionale) ha nuociuto grandemente all’Italia, impedendo per esempio l’introduzione di procedure valide per tutti nella selezione dei candidati (le primarie) oppure permettendo a gruppi dichiaratamente
fascisti di poter partecipare alle elezioni, oppure ancora favorendo il dilagare
della corruzione all’interno dei partiti.
Si è privilegiata la libertà del partito e del singolo deputato. Ecco il terzo punto saliente che emerge dal libro, ossia il chiaro sostegno dell’autrice
del principio contenuto nell’articolo 67: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione e l’esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
L’importanza di questo principio (vedi pp. 120-123) risiede nel fatto che
ogni eletto è chiamato a una grandissima responsabilità, quella di obbedire
alla propria coscienza e mai a un singolo leader. Una responsabilità che lo
porta a essere libero nelle sue decisioni, svincolato sia da una dimensione
politica sia da una territoriale, ma pure, soprattutto, dallo stesso mandato ricevuto dai propri elettori: in questo senso un onorevole non può essere semplicemente il megafono dei cittadini, non è un semplice cittadino/portavoce
di una forza politica particolare oppure di istanze specifiche. No, deve rappresentare tutta la nazione e, per quanto possibile, pensare esclusivamente al
bene comune. Ancora una volta la nostra Costituzione impone a tutti una
responsabilità da coltivare insieme.
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Noi non taceremo, ancora
Parole dense, silenzi fecondi, immagini reali,
pratiche nuove per un’altra democrazia.
Scuola estiva di formazione politica
Terzolas, 28 agosto – 1 settembre 2013
«N
oi non taceremo, noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza.
La Rosa Bianca non vi darà pace», scrivevano nel quarto volantino i giovani della Rosa Bianca tedesca. Altre parole da far riecheggiare le
ritroviamo tra gli scritti di Hans Scholl: «Dalle macerie risorge alla luce il
nuovo spirito. Ma il quotidiano è contraddizione. Macerie e luce nello stesso
tempo». È un invito alla memoria e a tracciare nuovi itinerari a 70 anni dal
martirio della Weisse Rose.
Per la “Scuola” della Rosa Bianca avevamo immaginato altri titoli, ma i
diversi avvenimenti e gli sconvolgimenti degli ultimi mesi ci hanno spinto a
rivedere l’impostazione, rimettendoci in gioco alla ricerca di parole, silenzi,
immagini significative che provino a fornire sguardi differenti sul reale che
ci circonda. I contenuti e le riflessioni di tanti testimoni con cui abbiamo
condiviso tratti del nostro cammino ci hanno offerto un forte stimolo a ripartire dalle radici senza abbandonare lo sguardo sull’oggi, con le sue forti contraddizioni, ma da cui è possibile ripartire, verso nuovi scenari e nuove prospettive su cui attivarsi per un mondo diverso possibile alla luce di pratiche
di impegno civile ed ecclesiale e rivolto a percorsi di giustizia e di speranza.
Ci si potrebbe aprire una strada nuova o un vecchio sentiero che si risvela offrendoci nuove possibilità, percorsi alternativi o vie per andare di
lato, oppure potrebbe essere la stessa strada di sempre, sempre antica e sempre nuova.
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Programma
(*: in attesa di conferma - aggiornamenti sul sito www.rosabianca.org)
Mercoledì 28 agosto
Pomeriggio: arrivi ed accoglienza
Ore 21: Serata di suoni, Curly Frog & the Bluesbringers: alle radici del ritmo
Giovedì 29 agosto
ore 8: Meditazioni in libertà. La parola e il silenzio, a cura di fr. MichaelDavide Semeraro* monaco benedettino
ore 10: Relazione introduttiva. L’Angelo della realtà: visioni, obiezioni,
scelte (Grazia Villa, presidente Rosa Bianca). Dibattito assembleare
ore 15: Sessione sulla Chiesa. La Chiesa di Francesco e… Chiara. Appunti
per una chiesa sinodale (Vania De Luca giornalista RAI, vaticanista;
Franco Ferrari presidente associazione Viandanti; Franca Filippone,
gruppi Donne CdB e non solo)
ore 18: Libri – aperitivo sul prato: Al pozzo di Giacobbe di Paolo Valente;
Bambini Proibiti di Marina Frigerio*; Figlia di tante lacrime di Patrizia Belli
ore 21: Serata del racconto. Idolatria del potere e seduzione del male (Agnes
Heller filosofa, sfuggita all’Olocausto, dissidente ed esiliata, dialoga
con Francesco Comina e Luca Bizzarri*)
Venerdì 30 agosto
ore 8: Meditazioni in libertà. Le icone: il vangelo dello sguardo, a cura di fr.
MichaelDavide Semeraro* monaco benedettino
ore 9.30: Laboratori-workshop-focus. La visione degli angeli nell’arte (laboratorio di editing multimediale con Nadia Scardeoni*); Giovani e cittadinanza europea: emigranti, nomadi o apolidi del lavoro (workshop Proiezione video con Irene Giuntella, Davide Banis, Davide Vavassori,
Cecilia Magatti, Maria G. Magatti); Tutto quello che volevate sapere
sulla finanza e non avete mai osato chiedere (laboratorio interattivo
con Carlo Benetti); La propagazione della menzogna come strumento
di informazione (focus di approfondimento con Vittorio Sammarco ); Il
linguaggio del corpo: silenzi, parole, gesti (focus di approfondimento
con Claudia Ossati).
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ore 17: Inter-vista vespertina: C’è spazio per una finanza etica/mutualistica?
Dialogo con Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di Sorveglianza
di Banca Intesa-Sanpaolo, con introduzione di Franco Dalla Sega, docente di Economia Aziendale, Università Cattolica del Sacro Cuore;
Michele Andreaus, docente di Economia Aziendale, Università di Trento)
ore 21: Serata di visioni. Dare forma alla realtà: il cinema neomoderno
(Luca Malavasi, ricercatore Università degli Studi di Genova)
Sabato 31 agosto
ore 8: Meditazioni in libertà. Liturgia: pratica di popolo, a cura di fr. MichaelDavide Semeraro* monaco benedettino
ore 9.30: Sessione sull’economia (parte seconda). La sfida dei beni comuni:
ben-essere/ben-fare, econo-mia/econo-nostra, ri-sorse/ri-sorgere (Giuliana Martirani, docente di Geografia Politica ed Economica Università
di Napoli); Nuove pratiche di economia alternativa (Pietro Comper,
imprenditore)
ore 15: Sessione sulla politica (parte prima). Un altro modo di fare politica:
realtà, possibilità, sogni, gesti profetici (Margherita Silvestrini, assessore ai servizi sociali del Comune di Gallarate; Carla Mantelli, segretaria cittadina del Partito Democratico di Parma; Bruno Magatti, assessore alle Politiche Sociali e alla Solidarietà del Comune di Como; Ilaria
Vietina, assessore con delega sulle Politiche Formative, Politiche Giovanili, Pari Opportunità del Comune di Lucca; Dimitri Melli, Sindaco
del Comune di Pegognaga-MN)
ore 18: Die Weiße Rose: una memoria pericolosa. La Rosa Bianca non vi
lascerà in pace: Spettacolo teatrale a cura degli scout del clan Help di
Merano
ore 21: Serata dell’azione. Prendiamo la parola contro il razzismo. Incontro-dibattito con Kossì A. Komla Ebri, medico e scrittore
Domenica 1 settembre
ore 8.30: Celebrazione eucaristica
ore 9.30: Sessione sulla politica (parte seconda). La forza di una politica disarmata, il coraggio di una democrazia liberata (sono stati invitati:
Florian Kronbichler, deputato di Sinistra Ecologia e Libertà; Guglielmo
Minervini, assessore Politiche Giovanili, Trasparenza e Legalità, Re-
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gione Puglia; Laura Puppato*, senatrice del Partito Democratico; Michele Nicoletti, deputato del Partito Democratico
Note organizzative e modalità di iscrizione
Vista la partecipazione di diversi nuclei familiari potrà essere reso disponibile un servizio di accoglienza e cura per i bambini e le bambine a seguito delle famiglie.
Per ogni altra informazione sulla associazione è possibile consultare il
sito www.rosabianca.org.
Per adesioni e informazioni: [email protected] o via telefono 331 3494283 (preferibilmente ore serali).
La sede della Scuola è presso il Convento di Terzolas (Trento), in val di
Sole, a 60 km da Trento, a 755 m.s.m. di altitudine.
È prevista una quota per il pernottamento e i pasti, e una per
l’iscrizione alla scuola.
Costo pernottamento e pasti:
* dalla cena del 28 agosto al pranzo del primo settembre, pensione
completa (a persona): camera tripla e quadrupla € 200; camera doppia €
250; camera doppia uso singola € 350. Per i giovani al di sotto dei 30 anni è
previsto uno sconto del 15%. I posti sono limitati: dopo l’esaurimento si verificherà l’eventuale disponibilità di posti presso altre strutture vicine, e in
tal caso i prezzi potrebbero subire delle variazioni. Per completare
l’adesione si deve inviare una caparra.
* settimana completa, dalla cena del 25 agosto al pranzo del primo settembre, pensione completa (a persona): € 370 in camera doppia, € 500 in
camera singola.
Per eventuali esigenze specifiche di sistemazione (es. bambini/ragazzi)
sono stati concordati prezzi speciali per il soggiorno al Convento: bimbi fino
a 3 anni gratis, dai 4 ai 10 anni - 50%, dagli 11 ai 14 anni -30%.
La caparra è di € 75 a persona è da inviare dopo aver ricevuto conferma
della disponibilità dei posti per il soggiorno tramite bonifico sul C/C della
Banca Popolare di Bergamo intestato a La Rosa Bianca (IBAN IT61 W
05428 10900 000000003145) specificando come causale: Scuola Rosa
Bianca-Margine e il vostro nome.
Iscrizione scuola:
25 euro (10 per gli studenti o per la partecipazione giornaliera). La quota è obbligatoria per tutti: ogni incontro dell’associazione è interamente autofinanziato.
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editore della rivista:
A SS OC IA ZI O NE
OSC A R
R O ME R O
Fondata nel 1980 e già
presieduta da Agostino
Bitteleri, Vincenzo Passerini, Silvano Zucal, Paolo
Ghezzi, Paolo Faes, Alberto Conci.
Presidente: Piergiorgio
Cattani. Vicepresidente:
Claudio Fontanari. Segretaria: Veronica Salvetti
I L MA R G IN E
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Fondato nel 1981 e già
diretto da Paolo Ghezzi,
Giampiero Girardi, Michele Nicoletti.
Direttore:
Emanuele
Curzel. Vicedirettore:
Francesco Ghia. Responsabile a norma di
legge: Paolo Ghezzi.
Amministrazione: Luciano Gottardi. In redazione vi sono anche:
Fabio Olivetti, Leonardo Paris, Pierangelo
Santini, Silvano Zucal.
Altri collaboratori: Roberto Antolini, Celestina Antonacci, Renzo Apruzzese,
Anita Bertoldi, Omar Brino, Vereno Brugiatelli,
Paolo Calabrò, Fabio Caneri, Monica Cianciullo,
Giovanni Colombo, Alberto Conci, Francesco Comina, Mattia Coser, Dario
Betti, Fulvio De Giorgi,
Eugen Galasso, Lucia
Galvagni, Luigi Giorgi,
Paolo Grigolli, Fabrizio
Mandreoli, Paolo Marangon, Milena Mariani, Silvio Mengotto, Giuseppe
Morotti, Walter Nardon,
Michele Nicoletti, Vincenzo Passerini, Lorenzo
Perego, Enrico Peyretti,
Matteo Prodi, Federico
Premi, Chiara Turrini, Mauro Stenico, Urbano Tocci,
Grazia Villa.
Una copia € 2,00 - abbonamento annuo €
20, annuo + pdf euro
22, solo pdf euro 8,
estero € 30, via aerea €
35. I versamenti vanno
effettuati sul c.c.p. n.
10285385 intestato a:
«Il Margine», c.p. 359 38122 Trento o c.c.b.
Bancoposta
(IBAN
IT97 D076 0101 8000
0100 4299 887). Estero:
BIC: BPPIITRRXXX.
S
gnore, abbiate pietà del cristiano che dubita,
dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato
della vita che si imbarca solo, nella notte, sotto
un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari dell’antica speranza.
Joris-Karl Huysmans, Controcorrente, 1884
Autorizzazione Tribunale
di Trento n. 326 del
10.1.1981.
Codice fiscale e partita iva
01843950229.
Redazione e amministrazione: «Il Margine», c.p. 359, 38122
Trento.
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2013.
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a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35
- “Centro Paolino”, via
Perini 153 - “La Rivisteria” via San Vigilio 23 “Benigni” via Belenzani
52 - a Rovereto presso
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Periodico mensile - Anno 33, n. 7, luglio-settembre 2013 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb.
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