CALVIno AmerICAno - Casa editrice Le Lettere

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CALVIno AmerICAno - Casa editrice Le Lettere
Alessandro Raveggi
Calvino americano
Identità e viaggio nel Nuovo Mondo
Le Lettere
INDICE
Abbreviazioni................................................................p. 9
Ringraziamenti..............................................................» 10
I. Allegorie di viaggio.............................................» 11
Allegorie e miti dell’America, p. 19 - La strategia
geografica nell’America di Calvino, p. 26 - Forme
che persistono attraverso i cambiamenti. Palomar nel
Massachusetts, p. 39.
II. Specchi profondi...................................................» 44
Un soggetto desiderante, tra le rovine e le selve messicane, p. 52 - I tempi e le forme ridondanti del Messico, p. 58 - Imperatori e re, cannibalismi e sacrifici.
Il viaggio come introiezione, p. 71 - Dimenticare per
ricordare l’identità. L’insegnamento di un intellettuale messicano, p. 78.
III.Ponti analogici.....................................................» 81
Due Lectures differenti e affini, in un cambiamento
epocale, p. 84 - La spirale. Il terzo tempo della letteratura come mediazione, p. 87 - Il cavolo di Cirano.
Analogia e comunità di tutti gli esseri, p. 98 - Una terza via, una terza città possibile, p. 106.
IV. Città del desiderio............................................... »109
Perché si ama la città? Città invisibili, città invivibili,
p. 110 - Come si ama la città? Un erotismo intermit-7-
tente, p. 114 - Chi si ama nella città? Calvino e Fuentes, sull’identità nazionale, p. 122 - Due testimoni e
attori del desiderio della città, p. 134.
V. Ritorni a casa........................................................ p.140
Narrazione nazionale ambigua o viaggio contrappuntistico. Due modelli, p. 142 - «Entropologia», collezione e residenza in viaggio. Tre categorie del viaggiare in Calvino, p. 154 - Il viaggio di un cosmopolita
italiano, p. 166.
Bibliografia................................................................. »171
-8-
II.
SPECCHI PROFONDI*
Si potrebbe considerare ora di riproporre lo stesso metodo
di viaggio fatto trapelare nel caso degli Stati Uniti, circoscrivendo il legame tra Calvino e l’altra America, quella latinoamericana: per relazioni umane e per dimensioni spaziali. Per
relazioni umane, si può citare da subito lo storico messicano
Fernando Benítez, conosciuto a l’Avana nel 1964. È l’amico
messicano al quale Calvino in uno spagnolo stentato annunciava per lettera l’imminenza e tutta l’emozione di un nuovo
viaggio in Messico, nel 19761. Quindi, arrivando alla letteratura, segnaleremo una certa predilezione, non senza eccezioni, per gli scrittori argentini: Julio Cortázar, Jorge Luis
Borges, Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares, Juan Carlos
Onetti e non ultimo Macedonio Fernández, che Calvino volle proporre a Einaudi senza successo. Mentre potremmo citare l’uruguaiano originalissimo Felisberto Hernández, scrittore di culto pubblicato grazie a Calvino nel 1974, i cubani
* Questo capitolo è l’adattamento di un saggio in spagnolo pubblicato col titolo Si una noche de invierno un viajero conquistara las Américas.
Calvino y la experiencia de la alteridad mexicana, in F. Ibarra, M. Lamberti,
(a cura di), Italia y los italianos: lengua, literatura e historia, Universidad
Nacional Autonoma de México, México 2011, pp. 11-30.
1
Cfr. Lettera a Fernando Benítez, Parigi - 5 febbraio 1976, in Lettere,
pp. 1295-1296.
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Lezama Lima, Calvert Casey e Norberto Fuentes. Ma vedremo come l’incontro con gli scrittori latinoamericani passi attraverso l’esemplarità che Calvino trasmette ad alcuni autori
a lui successivi: come i più recenti Carlos Fuentes, «Carlos el
Embajador»2 proprio nella lettera a Benítez, il Fuentes messicano che, come vedremo, rilegge il nostro come fautore di
una poetica della differenza nella ricerca di un’identità. E
anche ricordiamo, ancora più vicini a noi, Sergio Pitol, lettore delle Lezioni americane nel suo Pasión por la trama, che
definiva il panorama culturale di Calvino come «felizmente
ecuménico»3, e Juan Villoro che legge Le città invisibili per
rileggere la propria città, Città del Messico, e Sotto il sole
giaguaro per comprendere la passione smodata dei messicani
per le pietanze e i chiles piccanti4. La lista di autori latinoamericani che si intrecciano con il nostro sarebbe infinita e
meriterebbe uno studio a parte5. Tra tutti, il riferimento di
Calvino a Borges è ovviamente quello notoriamente più frequentato – distribuito nei saggi da quelli più giovanili sino
a Lezioni americane – e non si tratterà qui di enumerarne le
occorrenze. Ci basti ricordare un discorso pronunciato da
Calvino al Ministero della Pubblica Istruzione nel 1984, in
occasione di una visita a Roma dell’argentino, in cui il nostro
dichiarò il motivo d’accoglienza di Borges in Italia, partendo
Ivi, p. 1296.
S. Pitol, Calvino y la montaña mágica, in Pasión por la trama, Huerga y Fierro, Madrid 1999, p. 131.
4
Cfr. J. Villoro, Safari accidental, Joaquin Mortiz, México 2005; Id.,
La ciudad es el cielo del metro, in R. Gallo, (a cura di), México D.F. Lectura
para paseantes, Turner, Madrid 2005.
5
Cfr. A. Melis, Calvino y la literatura hispanoamericana: el paradigma
rioplatense y el paradigma andino, in AA., Borges, Calvino, la literatura: Coloquio Internacional, a cura di Université de Poitiers. Centre de recherches
latino-américaine, Fundamentos, Madrid 1996, pp. 39-48. Cfr. anche un
libro pensato per un pubblico latinoamericano, contenente molti saggi di
studiosi di lingua spagnola: N. Bottiglieri, I luoghi di Calvino. Guida alla
lettura di Italo Calvino, Edizioni dell’Università di Cassino, Cassino 2001.
2
3
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ancora una volta dalla propria esperienza personale. Il «motivo d’adesione più generale», diceva Calvino, è quello di «aver
riconosciuto in Borges un’idea di letteratura come mondo
costruito e governato dall’intelletto»6, mentre nello specifico
è l’insegnamento borgesiano dell’economia dell’espressione
scritta che faceva dell’argentino un maestro, la capacità cioè
di condensare nello scrivere breve una plurivocità di sensi
e mondi. Se poi l’ontologia borgesiana eleggeva la scrittura
a unica materia del mondo, questa stessa aveva per Calvino
un fondo etico: un «forte impatto sull’immaginazione»7 e sul
vissuto personale e collettivo. Il nostro autore si rifletteva
qui chiaramente in Borges, il Borges che giocava coi mondi,
ma attraverso una scrittura cristallina. Così come si rifletteva
certo in Cortázar, autore seppur non totalmente amato, nelle
sue due anime: quell’anima legata al caso e all’improbabilità, al gioco, e quell’anima geometrizzante, impegnata a costruire architetture linguistiche esatte, nell’impossibilità d’istituire un vero e proprio discrimine tra un’immaginazione
instancabilmente eccedente in sviamenti e una imagery ordinante – i due demoni di Cortázar, il «demone del gratuito»
e il «demone del sistematico»8, che si intrecciavano in quel
«pensare per immagini», un descrivere forme che nascondono però «una logica di connessioni e contrapposizioni e
ribaltamenti»9, proprio come nella logica palomariana.
Chiudendo al momento la carrellata sommaria di autori latinoamericani in cui Calvino si rifletteva (Borges e
Cortázar) e per i quali fu specchio a suo volta (Fuentes, Pitol
6
I gomitoli di Jorge Luis, in «La Repubblica», 16 ottobre 1984, poi
come “Jorge Luis Borges”, in Perché leggere i classici, Mondadori, Milano
1991, quindi in Saggi, I, p. 1293.
7
Ivi, p. 1297.
8
Nota in J. Cortázar, Storie di cronopios e di fama, Einaudi, Torino
1971, quindi Julio Cortázar, Storie di cronopios e di fama, in Saggi, I, p. 1303.
9
L’uomo che lottò con una scala, in «La Repubblica», 14 febbraio
1984, quindi In memoria di Julio Cortázar, in Saggi, I, p. 1308.
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e Villoro), passiamo, come promesso, alla dimensione spaziale del viaggio. Consideriamo così un viaggio a mio avviso
altrettanto importante rispetto a quello statunitense, il viaggio di Calvino in Messico. Ho scelto qui di privilegiare questo paese perché l’esperienza intellettuale dell’autore, concretizzatasi ricordiamolo nei due viaggi americani nel 1964
e nel 1976, potrebbe esser presa a modello, e ci è utile per
intendere e approfondire la traveling theory dell’identità di
Calvino, con riferimento a quelle Americhe plurivoche come
terra di futuro, ma anche di un passato, specchio profondo e
comune. Questo ulteriore viaggio transoceanico di Calvino,
se ricordiamo specialmente saggi, prose e memorie scritte
dalla fine degli anni Settanta agli inizi degli Ottanta, non ci
mostra solo l’esperienza autobiografica d’un intellettuale italiano nei confronti di quello che, a prima lettura, potrebbe
parere l’estraneo ed esotico panorama messicano, ma un’esperienza di limite del linguaggio e resistenza dell’umano
come limite e scopo della letteratura, nella permanenza di un
punto di vista singolare e qualitativo, di fronte all’abisso di
un’alterità variegata, che però si farà anche intima, profonda,
come quella dello specchio già incontrato negli Stati Uniti,
perché alterità nostra.
Il Messico di Calvino segna anche una tappa fondamentale e postrema d’una ricerca letteraria, che passa dalla figura
quasi tragica del Signor Palomar, nella sua volontà caparbia
di fissare lo sguardo per descrivere la varietà di un campo
universale, o meglio su di un prato universale che riguarda
anche le culture, come quel prato infinito fatto di differenze,
di tipologie di foglie, di sottoinsieme e diversità, oscillante
tra l’idea di un «universo come cosmo regolare e ordinato» e
quella di un «universo come proliferazione caotica»10. Un’alternativa aperta tra ordine e caso, cosmo ordinato e caos
10
Il prato infinito, in Palomar, Einaudi, Torino 1983, quindi in Romanzi e Racconti, II, p. 900.
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indifferenziato, verso la quale Calvino direziona la capacità
della letteratura, come quando, attraverso una solo provvisoria poetica dei cinque sensi, traccia il racconto di Sapore
sapere o (meglio conosciuto come) Sotto il sole giaguaro, che
si lega agli episodi di Palomar attraverso l’importante traitd’union della conferenza Written and Unwritten World del
1983. Chi scrive questa conferenza, chi parla attraverso le
descrizioni di Palomar, chi si confronta con il Messico della
cucina ambigua e vertiginosa di Sapore sapere, tenta a mio
avviso di rilanciare un percorso che contiene come la recondita «volontà di rianimare il soggetto storico», anche se non
il Soggetto centrato dello storicismo hegeliano, ma un soggetto decentrato ed etnografico, che emerge nel confronto
con le culture incontrate nel viaggio, «e di indurlo ad urtarsi
con la storia»11, tuttavia una storia come mosaico di storie,
al plurale, di culture emergenti e ricombinantesi in nuove
nebulose d’umanità. Dove la distanza è annullata e la prossimità ricercata, in una dialettica di timore per la dispersione
e slancio verso una nuova comunione, terrore entropico e
desiderio utopico.
L’esplorazione messicana di Calvino sarà così lo spazio
ideale per affrontare un viaggio interiore e collettivo con
una mappa d’ordine ideale, con un disegno che sia aperto,
così come un’antica cartografia è disegnata a partire da una
«spinta soggettiva», diceva sempre l’autore nel già citato Il
viandante nella mappa, anche in una «operazione che sembra
basata sull’oggettività più neutra quale la cartografia»12. Le
mappe delle letteratura sono così esse stesse ideali mappe
di viaggio aperte perché, come Calvino indicava in Lezioni
americane, il nostro vivere ed esperire nel linguaggio è colpito sempre più da una peste del linguaggio, prodotta dal
bombardamento dei media, generando non solo l’omologa-
C. Calligaris, Italo Calvino, Mursia, Milano 1973, p. 109.
Il viandante nella mappa, cit., p. 430.
11
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zione linguistica, ma soprattutto «la perdita di forma» della
nostra esistenza, nella vita delle persone e nella storia delle
nazioni, ridotte tutte «informi, casuali, confuse, senza principio né fine»13. È l’universo ridotto a puro segno d’equivalenze che dà alla letteratura il compito, al limite del linguaggio, di essere forma aperta e incessante bisogno: forma di
uno stato del desiderio, come si potrebbe citare da Ti con
zero, una «tensione verso il fuori l’altrove l’altrimenti»14. Se
la nuova comunicazione mondiale porta al pericolo di una
indifferenziazione senza forma di soggetti e culture, la speranza di rompere questa crosta non sarà però l’accesso diretto al mondo. Se c’è qualcosa che sempre sfugge, secondo
Calvino, alla crosta del linguaggio e che rende necessario il
rilancio, questo è un’affermazione del non rappresentabile,
del «vulcano da cui dilaga la colata di lava» o quel «ribollente cratere dell’alterità»15, che troviamo già nel 1960 nel saggio Il mare dell’oggettività. L’avvicinarsi con timore a questa
non-rappresentabile alterità del fuori potrà consentire d’individuare però la resistenza di un punto di vista singolare,
potrà riattivare la varietà e differenziazione, nell’anonimo
vivere contemporaneo.
Considerava Calvino, già nel saggio Cibernetica e fantasmi
del 1968, che la battaglia che ingaggia la letteratura è quella di
«uno sforzo per uscire fuori dai confini del linguaggio» perché
«è dall’orlo estremo del dicibile che essa si protende»16. Al di
13
Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti,
Milano 1988 (postumo), quindi in Saggi, I, pp. 678-679.
14
Priscilla, in T con zero, Einaudi, Torino 1967, quindi in Romanzi e
Racconti, II, p. 280.
15
Il mare dell’oggettività, in «Il menabò di letteratura», 2, Einaudi,
Torino 1960, poi in Una pietra sopra, cit., quindi in Saggi, I, pp. 54-55.
16
Cibernetica e fantasmi (appunti sulla narrativa come processo combinatorio), in «Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana», fasc.
XXI, 1967-1968, succ. come Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in «Nuova Corrente», 46-47, 1968, poi in Una pietra sopra, cit.,
quindi in Saggi, I, p. 217, corsivo mio.
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là di quel margine, di quell’orlo del dicibile e del conoscibile
che incontriamo anche nell’esperienza del viaggio tra culture differenti, persiste quella che Calvino chiama la forza del
mito, origine primordiale della narrazione, che si contrappone al linguaggio, ma che anche scuote come un tremore di
vento la foresta dei segni, nell’azione del non-detto «mare del
non dicibile»17, il risultato e residuo di un’interdizione originaria con la quale la letteratura si confronta: «un vuoto di
linguaggio», scriveva ancora Calvino, «la traccia d’un tabù,
d’una proibizione di parlare di qualcosa», di una «interdizione attuale o antica», che proprio la letteratura ha il compito di
fronteggiare, nello scavalcare «le barriere delle interdizioni»18.
Quest’esperienza dell’interdizione e la conseguente necessità
di comprendere un abisso informale nella forma, emergerà
evidentemente nell’esplorazione messicana di Calvino, come
quella di un’alterità traumatica contro la quale si scontra il
linguaggio, ma dalla cui esperienza si traccia una mappa del
soggetto all’interno del linguaggio stesso, che altrimenti può
divenire prigione di pietra, labirinto asfissiante, foresta fitta di
segno che vince il desiderio di un fuori.
Il Messico è in parte così un «vulcano sulfureo troppo
incandescente per potervi fissare lo sguardo»19, un vulcano
che minaccia il viaggiatore, così come aveva minacciato il
conservatorismo tutto rivolto a una misura passata di Emilio
Cecchi, nel suo libro Messico, per il quale Calvino scrisse
una prefazione all’edizione del 1985. Il rapporto di Calvino
col Messico pare così il rapporto esposto e fragile di un io
conservato e intessuto nelle parole, che vorrebbe cancellarsi
per scrivere in modo diverso, come il Silas Flannery di Se una
notte d’inverno un viaggiatore, pur preservando un’identità
di fronte a quella che Calvino chiamava, proprio nel prologo
Ivi, p. 218.
Ibidem.
19
Cecchi e i pesci-drago, in «La Repubblica», 14 luglio 1984, quindi
Ricordo di Emilio Cecchi, in Saggi, I, p. 1039.
17
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al libro di Cecchi, una «alterità profonda dell’America»20, alterità che il viaggiatore incontra lungo il suo cammino verso
le Americhe e dove, ribadiva, si compie «un itinerario anche
interiore», in cui «alla fine il viaggiatore deve ritrovarsi, poco
o tanto, cambiato»21. Calvino non sarà però per quelle terre messicane soltanto viaggiatore e osservatore, etnografo,
ma anche collezionista ed archeologo, in cerca del «contesto
in cui la letteratura prende senso»22, dopo la fine di quello
sguardo storicista che abbiamo incontrato nelle memorie dagli Stati Uniti, inteso come metodologia volta ad affermare
la centralità del soggetto Uomo, come scriveva in Lo sguardo
dell’archeologo, testo del 1972 pensato per un progetto di
rivista (mai realizzata) assieme a Gianni Celati, Guido Neri
e Carlo Ginzburg23.
Calvino in quella sede proponeva un metodo d’osservazione del mondo caratterizzato da un’attenta estrazione
di oggetti dal paesaggio, anche attraverso una necessaria
«estraniazione del senso»24. Un metodo di osservazione ancor più necessario di fronte a uno scenario in cui, continuava in quella sede, l’umanità è tramutata nel «genere umano dei grandi numeri in crescita esponenziale sul pianeta,
è l’esplosione della metropoli, è la fine dell’eurocentrismo
economico-ideologico, è il rifiuto da parte degli esclusi, degli inarticolati, degli omessi d’accettare una storia per loro
fondata sull’espulsione, l’obliterazione, la cancellazione dei
ruoli»25. È in questo nuovo contesto globale, al bordo di un
caos indifferenziato, ma anche di fronte al pluralismo delle
Prefazione in E. Cecchi, Messico, Adelphi, Milano 1985, pp. xvi.
Ivi, p. xiv.
22
Lo sguardo dell’archeologo, inedito 1972, poi in Una pietra sopra,
cit., quindi in Saggi, I, p. 327.
23
Cfr. sul rapporto tra Celati e Calvino, M. Rizzante, Il geografo e il
viaggiatore. Variazioni su I. Calvino e G. Celati, Metauro, Fossombrone 1993.
24
Lo sguardo dell’archeologo, cit., p. 327.
25
Ivi, p. 329.
20
21
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culture, che il viaggio di Calvino in terra messicana assume
un senso rilevante di vertigine intellettuale.
Un soggetto desiderante, tra le rovine e le selve messicane
Questa lettura del Messico calviniano corregge forse l’incompiuta immagine dell’autore italiano come jongleur di
combinatorie e mondi cristallini, di sentieri che si biforcano, una narrativa di scatole cinesi, in cui giocare a perdersi,
dopo che l’Autore, l’Io e il Soggetto umano sono dissolti nella foresta dei segni. Stare in una foresta di segni è altrettanto
poco auspicabile, così come stare in un ordito troppo ordinato e geometrico, entrambi trappole offerte dalla complessità: c’è sì quindi, nell’idea di scrittura in Calvino, la volontà
di contemplare il disordine in una figurazione razionale, ma
c’è anche l’intenzione o meglio l’«accanimento a trovare la
via d’uscita»26, come scriveva in La sfida al labirinto. L’uscita
non è certo un’uscita di sicurezza, il fuori rappresenta sia un
spazio irrappresentabile, «un’immagine negativa, entropica,
dove forme e distinzioni si vanno perdendo, per staticità o
degradazione», sia lo spazio di un obiettivo utopico, quello
dello «spiraglio di un inaccessibile ordine di grandezza»27,
una seconda uscita, magari più angusta.
L’America messicana, come in parte la statunitense,
contiene nei propri spazi un fuori da intendersi come caos
originario, una realtà ribollente al di là del linguaggio del
labirinto, una natura non solo ridondante, ma spesso muta
e indifferente, che si oppone al linguaggio umano pur modificandolo internamente, quell’abisso silenzioso del «ponte
26
La sfida al labirinto, in «il menabò 5», Einaudi, Torino 1962, poi in
Una pietra sopra, cit., quindi in Saggi, I, p. 122.
27
M. Barenghi, Una storia, un diario, un trattato (o quasi), in Italo
Calvino: le linee e i margini, il Mulino, Bologna 2007, p. 154.
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gettato sull’abisso»28 che troviamo in Palomar. Però l’abisso
è, a ben vedere, in Calvino, anche l’inferno del presente, il
rivolgimento delle esistenze nell’atrofia del linguaggio irriflesso e opaco, la resa al labirinto che per inerzia e morte termica rappresenta anche l’atrofia del desideri, appiattimento
prodotto dall’entropia comunicativa. Sono due concezioni
di abisso presenti in Calvino: se quest’ultimo è un magma indifferenziato di una seconda natura leopardiana che è assuefazione al segno, il primo è un caos naturale e universale che
sta al di là della Storia. Rispetto a questa dualità, quell’invito
di Lo sguardo dell’archeologo, nella tendenza del viaggiatorearcheologo di «metter[si] dalla parte del fuori, degli oggetti,
dei meccanismi, dei linguaggi»29, comporta costantemente il
desiderio recondito del viaggiatore di trovare in questo fuori
una difesa, un’intimità che faccia resistenza da una parte alla
marea del non-detto, e dall’altra allo stesso tessuto del labirinto scritto, delle interpretazioni: resistenza a una foresta
naturale fagocitante quanto alla foresta dei segni che sogna il
controllo assoluto, tra le quali alternative il soggetto è preso,
come vedremo anche nel caso delle rovine di Tula per il Signor Palomar in Messico.
Parliamo di viaggiatore, quindi, come potremmo parlare di un punto di vista umano decentrato, così come di
un soggetto nel linguaggio, la cui topologia è rintracciabile
proprio in uno spazio di soglia, di fessura, tra il labirinto dei
segni e il silenzio del non-detto, tra la molteplicità dei segni
e l’insignificanza di un segno vuoto dal quale parte la sfida
formale del letterario come sfida del desiderio. Il non-detto è
la potenzialità di ciò che deve, e forse non può, essere scritto.
Si manifesta attraverso dei vuoti, dei silenzi, delle afasie, di
fronte a degli oggetti che spesso rappresentano, prendendo
in considerazione ciò che Lacan ha chiamato la Cosa, «una
Palomar, cit., quindi in Romanzi e Racconti, II, p. 895.
Lo sguardo dell’archeologo, cit., p. 325.
28
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alterità che si scava» nell’intimo del soggetto, «un fuori che
si manifesta da dentro. Un’intimità, una prossimità che si rivela come un’esteriorità indomabile, straniera, non inglobabile nell’identità dell’io»30. L’abisso dal non-detto manifesta
così un «Altro preistorico impossibile da dimenticare», un
perturbante «estraneo a me pur stando al centro di me»31, e
che definisce il soggetto come soggetto desiderante. Il soggetto in Calvino è sì scritto da sempre nell’ordine simbolico
e alfabetico del linguaggio, come nell’ontologia borgesiana,
è un soggetto pertanto lacanianamente cancellato, barrato,
non è un Io centrale, trascendentale o individuale, detentore
del linguaggio. Allo stesso tempo, però, resiste come soggetto desiderante, fessura di un desiderio del fuori, desiderio di
superare il labirinto, nel riconoscere uno sguardo nell’abisso
dell’alterità, conservando così intatta la forza di questo desiderio. Che in Calvino significa «conservare la capacità di desiderare», di valutare «il senso della mancanza come stimolo,
la limitazione intesa come impulso produttivo»32.
In riferimento ancora a Lacan, lo spazio per un punto
di vista singolare in Calvino pare così diviso tra due registri, come tra due mondi non necessariamente opposti. Da
un lato il Simbolico come Grande Altro, come alterità dove
il soggetto rappresenta se stesso, inteso non come luogo
«di impulsi selvatici che l’Io debba addomesticare», bensì
come «luogo dove una verità traumatica libera la propria
voce»33, simbolico del labirinto e della mappa che preten30
M. Recalcati, La morte nel corpo. Sul Perturbante di Freud, in L’universale e il singolare, Marcos y Marcos, Milano 1996, p. 69.
31
J. Lacan, Le Séminaire. Livre VII: l’étique de la psychanalyse, Seuil,
Paris 1986, trad. it. di G. B. Contri, Il Seminario: libro VII. L’etica della
psicanalisi, Einaudi, Torino 1994, p. 89.
32
M. Barenghi, La forma dei desideri, in Italo Calvino: le linee e i
margini, cit., p. 116.
33
S. Žižek, How to Read Lacan, Granta Books, London 2006, trad.
it. di M. Nijhuis, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo,
Bollati Boringhieri, Milano 2009, p. 25.
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de d’organizzare il caos esterno che continuamente riaffiora. Dall’altro, abbiamo il registro di quello che Lacan, non
senza ambiguità, ha chiamato il Reale, l’abisso silenzioso del
non-detto e del non rappresentabile, l’impossibile «impasse
della formalizzazione»34 linguistica che sfida continuamente l’apprensione simbolica e rilancia così il desiderio. E in
questo duello asimmetrico, il soggetto è metaforicamente
considerabile, come Žižek ha scritto, un effetto-risposta del
Reale, alla richiesta del mondo scritto di controllo assoluto,
«la risposta del Reale alla domanda posta dal Grande Altro,
l’ordine simbolico»35.
«Scriviamo», e quindi borgesianamente siamo, avrebbe
potuto far eco Calvino dalle pagine di Mondo scritto e mondo non scritto, «per rendere possibile al mondo non scritto
di esprimersi attraverso di noi», perché «dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca di uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio»36. Il soggetto è ciò che fa
sentire nel linguaggio l’effetto del Reale come fondo vitale
nel linguaggio, serbatoio di potenzialità, «la spinta di un inespresso ordine di emozioni, che sarebbe improprio definire
irrazionali»37 e che spazza via l’alternativa troppo limitata
tra rigorismo e irrazionalismo, intellettualismo e vitalismo
nell’autore. Nella scrittura quindi «siamo sempre alla caccia
di qualcosa di nascosto o di solo potenziale o ipotetico, di
cui seguiamo le tracce che affiorano sulla superficie del suolo», e in questa ricerca desiderante una potenzialità prefor J. Lacan, Le Séminaire, Livre XX. Encore, Seuil, Paris 1975, p. 85.
S. Žižek, The Sublime Object of the Ideology, Verso, London 1989,
p. 178.
36
The Written and the Unwritten World, conferenza letta alla New
York University come James Lecture, succ. in «The New York Review of
Books», 12 maggio 1983, pp. 38-39, poi come Mondo scritto e mondo non
scritto in «Lettera internazionale», II, 4-5, primavera-estate 1985, quindi in
Saggi, II, p. 1875.
37
C. Garboli, Identità in Calvino, in La stanza separata, Mondadori,
Milano 1969, p. 209.
34
35
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male, «la parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile»,
il significante a un vuoto di significato, «alla cosa assente, alla
cosa desiderata o temuta» al centro di una struttura d’ordine, e in questa dinamica del desiderio, la scrittura può rappresentare «un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto»38,
dove il soggetto scompare dal campo come Uomo, quello
con maiuscola di Lo sguardo dell’archeologo, per riapparire
come un arabesco, una frattura, una menda nel tappeto. Ma
il desiderio di questo soggetto-menda, in Calvino, non sarà
così solo desiderio di un fuori, ma sarà anche un desiderio
inter-soggettivo e analogico, dipendendo da una catena di
sguardi per i quali siamo alternativamente soggetti e oggetti del desiderio. Un desiderio inteso come reciprocità, non
solo come attrazione verso l’altro, ma anche come direzione
e riconoscimento reciproco. Se allora, riprendendo il Calvino recensore di Estudios di Ortega y Gasset, l’amore è un
qualcosa che «fa sentire uniti all’oggetto nonostante la distanza», e l’«amare una cosa significa impegnarsi per farla
esistere, non ammettere, per quanto dipende da noi, la possibilità d’un universo privo di quell’oggetto»39, il desiderio è
inter-soggettivo in quanto noi dipendiamo altrettanto dallo
sguardo altrui per differenziarcene, per far esistere ed esistere a nostra volta.
Questa topologia del soggetto, soggetto che desidera,
sarà necessaria per comprendere il Messico di Calvino e
un’idea di identità in viaggio nell’autore stesso. Siamo difronte all’esplorazione di un punto di vista preso in un labirinto
di segni e osservazioni di rituali estranei che sembrano sacrificarlo, cancellarlo, in un panorama di immagini barocche,
nell’ambiente impervio e rigoglioso, in cui ogni osservazione
su d’un oggetto o organismo che si staglia sul panorama è
Lezioni americane, cit., p. 694.
Se amore non è desiderio, in «La Repubblica», 13-14 giugno 1982,
quindi in Saggi, II, p. 2063.
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un’osservazione sulla forma e l’informale disordine naturale, che suggerisce però anche un principio di identità nella
differenza. Inoltre, possiamo trovare ancora un approccio
implicito all’identità europea (e, diremmo, italiana) nel rapporto con lo specchio mutuo delle Americhe, già incontrato
nel Capitolo I. Senza però che Calvino cada nei miti esotici
dell’Alterità dei trend post-coloniali, o della nomadologia
postmoderna o del multiculturalismo relativista, perché innanzitutto ci rivela «una concezione più antropologica che
formalistica della letteratura»40, includendo il trauma di un
incontro con una esteriorità intima, nel confronto con altre
culture inscritte nel panorama più vasto dell’umanità.
Ricordando ancora Mondo scritto e mondo non scritto,
questa letteratura come spazio di sguardo per il soggetto
desiderante è la terza via tra l’idea di un’ontologia radicale della scrittura – la visione forse un po’ stereotipata della
semiotica e dello strutturalismo che affermerebbe: «esiste
solo il linguaggio»41 – e l’idea di scrittura che resta al bordo
di ciò che può essere detto, allargando sempre più la sua
mappa per tentativi e slanci, per conquistare spazi contro il
Reale, un mondo non scritto tanto solido quando ineffabile, «una muta sfinge di pietra» che condiziona «un deserto
di parole come sabbia trasportata dal vento»42. Tra queste
due vie, il soggetto nella rete simbolica, in quanto potenza
del desiderio, detto à la Blanchot come «pensiero che pensa più di quanto non pensi»43, è una possibilità costante di
apertura. Come fa, tornando ancora in Messico, l’immagine preziosa per il nostro discorso del tessuto navajo esaltato
A. Asor Rosa, Il triangolo dei Narcisi, in «La Repubblica», 21 gennaio 1998, p. 33. Cfr. anche Stile Calvino. Cinque studi, Einaudi, Torino
2001.
41
Mondo scritto e mondo non scritto, cit., p. 1867.
42
Ibidem.
43
M. Blanchot, L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, trad. it. di
R. Ferrara, L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977, p. 72.
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da Emilio Cecchi, in cui l’artigiano, lasciando «una frattura,
una menda», si proibisce «deliberatamente, una perfezione
troppo aritmetica e bloccata»44 e ciò lo fa per salvarsi l’anima, un’interiorità, conservando così, come scopo della scrittura in Mondo scritto e mondo non scritto, proprio «la forza
del desiderio»45, in un movimento metonimico che ricorda
il lemma borgesiano: L’oggetto del desiderio è un altro desiderio. Continuando a desiderare, conservare intatta la forza
del desiderio, direbbe Calvino, rovesciando in parte la formula dell’autore argentino: «quando affrontiamo l’oggetto
del nostro desiderio, la soddisfazione è data più dal danzarvi
attorno che dall’appropinquarvisi direttamente»46, più dallo
sviamento che dalla conquista.
I tempi e le forme ridondanti del Messico
Il viaggio messicano di Calvino è all’insegna della maschera autobiografica. Perché Calvino si trasfigura nel viaggiatore delle delizie vertiginose di Oaxaca e dei bassorilievi di
Monte Albán di Sotto il sole giaguaro. O si presenta come il
collezionista di impressioni vertiginose tra Oaxaca e i templi
immersi nella selva di Palenque di Collezione di sabbia. Oppure ancora si nasconde nel più evidente alter-ego tragico
dell’osservatore Palomar, mentre cammina tra le rovine di
Tula. Scopriamo così la maschera di un viaggiatore che in
quanto turista è assai schivo e infastidito dalle dinamiche del
turismo, ma anche quella di un attento interprete ossessionato dai segni scolpiti sulla pietra che devono venir interpretati
all’infinito per sussistere. Vediamo un osservatore imparziale
e accorato a un tempo, abbagliato dal sangue, dalla carne
E. Cecchi, Messico, cit., p. 51.
Mondo scritto e mondo non scritto, cit., p. 1875.
46
S. Žižek, Leggere Lacan, cit., p. 95.
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