Come ho vissuto la morte di mia madre

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Come ho vissuto la morte di mia madre
Grazia Valente
Come ho vissuto la morte di mia madre
Come ho vissuto la morte di mia madre
Premessa
Sulla pagina di un quotidiano dedicata alla cronaca, in data 23 giugno 2003 è apparsa la notizia di
un ragazzo psicolabile che ha vegliato per mesi il corpo della madre morta e, quando è stato
scoperto, si è tolto la vita.
Partendo da questo caso-limite è nata l’idea di raccontare come avevo vissuto la morte di mia
madre. Questo testo è stato scritto nel 2004, circa cinque anni dopo la sua morte.
“Ti ho baciata in fronte. Qualcuno, non so chi, si è
alzato, mi ha offerto la seggiola. Ti ho guardato
intensamente. Credo che mai prima, in tutta la vita,
ti avessi guardato così”.
(da “Lettera a mia madre” di Georges Simenon)
Alla morte di mia madre avevo 62 anni. Da allora sono trascorsi quasi cinque anni.
Ricordo benissimo quel momento. Era una splendida giornata di metà ottobre. Mia madre è
mancata a mezzogiorno. Dopo il pianto e lo sgomento iniziali (la “ragione” sapeva che sarebbe
successo, ma il “cuore” non voleva accettarlo) l’ho lasciata nel suo lettino, nell’appartamento tre
piani sotto al mio. La stanza era piena di sole, ho accostato le persiane.
Ricordo di aver mangiato, insieme al mio compagno (oggi mio marito.) del prosciutto cotto e del
formaggio. Non avvertivo alcuna stanchezza, anche se l’avevo assistita, nell’ultima settimana,
notte e giorno.
I giorni successivi al lutto appaiono confusi nel mio ricordo. So di essere andata dal parrucchiere,
forse il giorno dopo. Volevo essere a posto, per il funerale. O forse volevo ricominciare a
occuparmi di me stessa. Ricordo che dal parrucchiere dovevo fare fatica a trattenere le lacrime.
Guardandomi allo specchio mi vedevo diversa, estranea. Non facevo che pensare a lei, ma nello
stesso tempo avvertivo con piacere il passaggio del pettine e del phon sui capelli.
Dicevo che i giorni successivi appaiono confusi al mio ricordo, sovraccarichi com’erano di cose da
fare: dall’organizzazione del funerale allo sgombero dell’appartamento, con tutto quello che
comportava. Alternavo gli scoppi di pianto alle necessarie incombenze. Non ricordo di essermi
sentita così “sdoppiata” come in quei giorni. Ho cercato di non soffermarmi mai troppo con la
memoria su quel periodo. Mi sentivo debolissima e insieme coraggiosa, stanchissima ed efficiente
nello stesso tempo. O almeno, così si è fissato il mio ricordo.
Non credo vi sia contraddizione, ma rammento che nei giorni che seguirono dormivo, dormivo
tanto. Non so se per la stanchezza che si era andata accumulando, o per una fuga dal reale. So
però che dormivo interi pomeriggi e anche tutta la notte, senza mai svegliarmi. Somigliava più a un
letargo, che a un vero sonno. Non ricordo esattamente quanto tempo è durato questo mio stato. Mi
sembra sia stato abbastanza lungo, non soltanto qualche giorno.
Non sono credente, ma agnostica. Qualche volta mi sono chiesta se l’esserlo, credente, mi
avrebbe aiutato a superare meglio quel dolore. Forse sì. Ma si tratta di una domanda inutile, come
tutte quelle che iniziano con il “se”.
Non so se vi sia qualcosa di preciso, di concreto. che mi abbia aiutato a superare il lutto. Credo
che l’aiuto maggiore mi sia venuto proprio da lei, da mia madre. Capivo che non mi avrebbe voluta
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così sofferente. Sentivo in un certo senso come se la sua vita, sia pure in modo diverso,
continuasse nella mia. Un po’ come se lei fosse diventata me.
Ho avvertito la presenza amorevole dell’uomo con cui vivevo, innanzitutto. Lo sentivo come
l’architrave del mio pericolante edificio psichico. Era una vicinanza che si era già manifestata
durante la malattia di mia madre, dandomi la forza per affrontarla. E che ora continuava, in modo
silenzioso, ma di cui avvertivo la forte carica affettiva.
Ho sentito anche la vicinanza di altre persone, amiche di mia madre o mie e sue insieme. Non era
facile in quel periodo (sto parlando delle settimane immediatamente successive) riuscire a parlarmi
senza che io scoppiassi in lacrime. Credo fosse imbarazzante, per loro. Ma hanno continuato a
telefonarmi, e ancora le ringrazio.
Un aiuto credo mi sia venuto anche dal fatto di avere una mia casa, un’altra persona di cui dovermi
occupare. Le incombenze quotidiane, come fare la spesa, tenere in ordine la casa, erano le cose
che mi costringevano a pensare ad altro. Tutto doveva continuare come sempre. Avvertivo questa
necessità, la sentivo come una salvezza. Se qualcuna delle mie passioni extradomestiche, come
leggere, scrivere, abbia contribuito ad alleviare il dolore, credo sia avvenuto inconsciamente. Non
ricordo nulla di particolare, in proposito.
Il fatto poi di non avere né fratelli né sorelle né figli ha, credo, accentuato in me il senso della
perdita. Adesso ero sola. Mi sentivo come se non esistesse più un “prima” né un “dopo”. Ed era
stato anche il fatto di non aver avuto figli a rendere così stretto il legame con mia madre. Forse il
mio senso materno si era anche un poco riversato su di lei, se non sempre, certamente negli ultimi
anni quando, essendo rimasta vedova, era diventata psicologicamente più fragile. Ero figlia e
madre insieme, per lei.
C’è chi vive il lutto come se avesse subito un’ingiustizia. Per me non è stato così. Forse, ingiusto
mi è parso quel cancro che l’ha fatta tanto soffrire, e dal quale ingenuamente si riteneva immune,
perché – diceva a volte – “nella nostra famiglia nessuno è morto di cancro”.
Certamente non ho vissuto la morte di mia madre con sentimenti di rabbia, ma neanche di
tranquilla rassegnazione. Il dolore seppelliva ogni altro sentimento, azzerava tutto, dominava su
tutto.
Ho avvertivo anche, perché negarlo?, un senso di liberazione. Negli ultimi giorni la sua sofferenza
fisica e psichica era diventata insopportabile. Volevo solo che finisse. .Non importava come, anche
se sapevo bene come sarebbe finita. Sì, la liberazione doveva avvenire soprattutto per lei, ma
sarebbe avvenuta anche per me, che ero legata a lei in modo così stretto.
Con gli oggetti appartenuti a mia madre ho avuto un rapporto contraddittorio. Avrei voluto disfarmi
di tutto. Era come se da quegli oggetti non potesse venirmi altro che dolore. Non li avvertivo –
come ho sentito dire da qualcuno – “sacri”. Al contrario. Erano diventati inutili, assurdi, anche
crudeli, perché essi esistevano ancora mentre lei non c’era più. Era come se mi si proponesse un
osceno baratto, loro al posto di lei. Ma io volevo lei, non loro.
Alcune sue cose le ho vendute, molte le ho regalate. Tra gli oggetti che ho conservato c’è il suo
anello di fidanzamento, che non portava più al dito ma cui teneva tanto, e poi una teiera di
porcellana, senza coperchio. Era un regalo di nozze. Altri oggetti, come i suoi occhiali, li ho
conservati in una borsa, che non ho più aperto da allora. Un suo cappotto l’ho indossato per
qualche anno, senza disagio, ma con tenerezza.
Le fotografie non riesco ancora a guardarle serenamente. Quando ho cercato di farlo, la
commozione è stata troppo forte. Quella che invece guardo spesso è la stessa che si trova sul
marmo del loculo, al cimitero, e che le somiglia molto. Non riesco però a lasciarla in vista. La tengo
in un cassetto. Mi sembra che non potrò mai metterla in cornice.
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Credo di aver superato il trauma dopo qualche mese. Il dolore è andato via via attenuandosi,
potevo parlare di lei senza piangere – questa è stata la prima “tappa”, la prima conquista. La sua
assenza però non è stata ancora colmata né penso lo sarà mai. Anche se penso a lei ogni giorno
in modo abbastanza sereno, a volte la invoco come una bambina.
Rimorsi, rimpianti? Ne esistono sempre, se si va a scavare. Per tanto che si faccia, si potrebbe
sempre fare di più. Per tanto bene che si voglia, si potrebbe sempre volerne di più.
Sì, ho qualche rimorso. Primo fra tutti, quello di non essere stata con lei quanto avrebbe voluto.
Una volta mi chiese di fermarmi a farle compagnia. Le risposti: “devo studiare”. E lei: “Studia un po’
anche tua mamma!”.
Questo è un piccolo rimorso, ma ve ne sono altri. Non mi sento però di parlarne.
Dopo la morte di mia madre, scossa dall’aver dovuto disfare la sua casa in breve tempo e quindi
nell’aver visto la dispersione delle sue cose, ho desiderato di liberarmi di tanti oggetti superflui che
avevo nella mia casa. Sentivo il peso degli oggetti, come se mi schiacciassero. Pensavo: via, via
tutto! E’ una sensazione che ancora permane. Ho così incominciato a disfarmi di tutto ciò che era
possibile. Sento tuttora questo bisogno di essenzialità , di leggerezza, accompagnato dal profondo
disagio che mi provoca il pensiero di mani estranee che svuoteranno i miei cassetti, i miei armadi.
Penso che arriverò, sia pure gradualmente, se ne avrò il tempo, a distruggere anche le fotografie.
Sarà “l’ultimo atto”.
A volte ho la sensazione che lei mi veda, altre volte invece che davvero non esiste più.
Può succedere che senta interiormente la sua voce che mi dà consigli, magari su cose banali,
molto pratiche (come avveniva nella realtà). Succede quando ho dei dubbi su che cosa fare. E così
in modo automatico, la sua voce mi scioglie dal dubbio, sempre in direzione del mio benessere.
Certe volte, per consolarmi, penso che forse non mi voleva così bene come cercava di far credere,
a me, agli altri e forse anche a se stessa. Avevo notato certe sue piccole gelosie nei miei confronti,
qualche invidia di cui – sono certa – si pentiva subito. E così questo pensiero, che tenta di
immiserire la figura di mia madre, è come se riuscisse a darmi conforto per un momento, ma poi
finisce col rattristarmi ulteriormente. Perché, su quella ideale bilancia del dare e dell’avere, ciò che
lei mi ha dato getta sul piatto il peso maggiore.
Sono contenta, una o due notti prima che morisse, di averla abbracciata dicendole che le volevo
bene, che gliene avevo sempre voluto. Avrei voluto farlo prima, ma mi tratteneva il pensiero che
potesse interpretare questo mio abbandono come il mio congedo verso di lei morente. Forse lo
avrà pensato, anzi, è probabile. Ma non sono pentita. Mai ci siamo sentite tanto vicine.
Ma non voglio parlare di lei come di un essere eccezionale. Detesto questo tipo di retorica. Dirò
soltanto – e tutta la sua vita lo prova – che era una donna coraggiosa, forte e fragile nello stesso
tempo. Insieme condividevamo tante cose, e adesso avverto concretamente la mia somiglianza
con lei. O forse è solo il mio desiderio di sentirla vicina, a creare questa illusione.
Come me, non era morbosamente legata al passato, anche se spesso rievocava momenti di vita
con mio padre, molto lontani nel tempo o anche più recenti. Viveva però soprattutto nel presente,
immersa nell’attualità. E spesso parlavamo di questo, quando eravamo insieme. E con lei si poteva
parlare di tanti argomenti, conservava una grande curiosità verso ciò che accadeva. Aveva sempre
domande da porre. Era aggiornata, seguiva gli avvenimenti politici, vedeva telegiornali di diverse
reti, anche più volte nel corso della giornata. Da me voleva gli approfondimenti perché – con suo
grande rammarico – non era più in grado di leggere i giornali a causa della forte miopia.
I ricordi “involontari” che ho di lei sono come fotogrammi: lei che scende le scale appoggiandosi
delicatamente alla ringhiera; lei mentre dispone il tonno in scatola nel piatto; i suoi piedi,
piccolissimi (portava il numero 34) quando, in qualche negozio, la aiutavo a calzare le scarpe; il
suo gesto di togliersi gli occhiali; le sue mani quando stendeva la biancheria (la potevo vedere
quando ero affacciata al mio balcone).
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Non ho mai voluto registrare la sua voce. Sentivo che sarebbe stato come toccare i fili dell’alta
tensione, riascoltarla dopo.
I ricordi volontari cerco di evitarli. Sono scene di vita che mi fanno troppo male, comprendono
anche la sua malattia. E’ materia incandescente. Penso che, quando la sofferenza fisica e
psicologica raggiunge certi livelli, la morte appaia veramente come una via d’uscita.
Ho ben presenti gli ultimi suoi giorni di vita, ma – assolutamente – non ne voglio parlare.
Durante il periodo della sua malattia tenevo un diario, per ragioni cliniche.. Ce l’ho ancora. Non l’ho
mai riaperto.
Il pensiero della morte, dopo la sua scomparsa, si è acuito. E’ come se quel sottile diaframma che
si interponeva tra me e quel pensiero si fosse rotto. Adesso ci penso quasi quotidianamente, ma
continuando a vivere e ad apprezzare la vita. Però, si è sovvertita la “scala delle priorità”. Alcune
cose non hanno davvero più molta importanza. Anzi, molte cose. In alcuni momenti, mi sembra di
stare facendo dei preparativi per un viaggio. Anche se, ovviamente, non credo nell’aldilà. Ma la
sensazione è questa. E’ sempre presente in me questo bisogno di lasciare tutto in ordine. Che
contiene anche in sé il desiderio di lasciare meno tracce possibili.
A volte penso alla mia casa abitata da altri e mi viene quasi da sorridere. Non ne capisco il perché,
ma è così.
La morte che desidero vorrei a volte che fosse rapidissima, altre che mi lasciasse il tempo per
congedarmi. Mi auguro, alla fine, che sia dignitosa.
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Associazion
e Maria
Bianchi
Firmato digitalmente da
Associazione Maria
Bianchi
ND: CN = Associazione
Maria Bianchi, C = IT
Data: 2011.04.01
19:37:56 +02'00'
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