Francesco JAMONTE

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Francesco JAMONTE
Francesco Jamonte
ANNOTAZIONI PER UNA STORIA DELL’ORNATO EDILIZIO
URBANO A ROMA TRA XVIII E XIX SECOLO *
Premessa
Commentando le proprie esperienze di tecnico vissute a Roma, ancora nel
1856 un importante funzionario municipale si lamentava che “se prendi in mano la pianta topografica e vuoi tirare due linee rette per tracciare nel mezzo
una larga strada, intoppi ad ogni passo in palazzi colossali o pregevoli per disegno, in chiese sontuose ricche di pitture e sculture, in fontane, obelischi e antichi ruderi della romana grandezza” 1. Ciò che in quegli stessi anni era possibile pianificare per l’ammodernamento della struttura urbana di altre città come
Parigi, Vienna o Firenze, per Roma restava cosa semplicemente inconcepibile:
la città, quella ammirata da tanti osservatori italiani e stranieri più per le bellezze ereditate dal passato che per i moderni costumi di governo, si era come
fermata nel tempo 2. Se infatti era incontestabile che “la città di Roma presenta
tali ostacoli per la sua fisionomia monumentale, che difficilmente potrebbero
in essa attuarsi progetti messi in opera altrove” 3, nulla sembrava costituire un
alibi sufficiente per giustificare il grave ritardo con cui l’amministrazione pontificia affrontava i problemi della gestione e dello sviluppo urbano.
Incontaminata la prepotente immagine della città barocca in un impianto
che ancora Paolo III, Gregorio XIII e Sisto V avevano delineato intorno alle
vestigia di Roma antica, la politica per la città era rimasta congelata a modelli legislativi e amministrativi cinque-seicenteschi fin quasi alle soglie del XIX
secolo. Solo a seguito del breve, ma comunque traumatico, periodo dell’occupazione napoleonica, si erano registrati dei segnali di risveglio da parte
delle istituzioni 4, che però sarebbero risultati talmente tardivi da non produr*
Abbreviazioni: Bull. rom.= Bullarium romanum privilegiorum ac diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio […] opera et studio Caroli Cocquelines, Roma, 1743;
ASR= ARCHIVIO DI STATO DI ROMA.
1
L. DALL’OLIO, Di alcuni allineamenti e allargamenti delle strade e piazze della città. Proposta di Luigi Dall’Olio già conservatore dell’acque e strade, Roma, s.n.t., 1865.
2
I. INSOLERA, Roma moderna, Torino, Einaudi, 1971, p. 11.
3
L. DALL’OLIO, Di alcuni allineamenti, cit.
4
Prendendo avvio dalla costituzione di Pio VII Post diuturnas del 30 ottobre 1800, che
prefigurava le grandi linee di riforma dell’apparato burocratico pontificio, con i motu proprio
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re effetti tangibili prima della crisi politica del settembre 1870, culminata
con l’annessione di Roma al Regno sabaudo 5. Anche nel clima moderatamente riformativo di quegli anni, la formula di utilizzare “le antiche istituzioni comprovate da lunga esperienza” insieme alle “invenzioni poi nuove
che i cambiamenti dei tempi esigevano” 6 avrebbe continuato a dominare nel
segno della continuità e della tradizione: persino uno strumento, tutto sommato evoluto, come il Regolamento edilizio e di pubblico ornato del 1864,
non sarebbe sfuggito a questa regola, affiancando disposizioni del tutto nuove con altre già contemplate in statuti e bandi antichi di secoli.
Saranno proprio il retaggio di queste esperienze pregresse e il ruolo che
esse potevano assumere nella formazione dei moderni strumenti di pianificazione territoriale e regolamentazione edilizia che solleciteranno da questo
momento in poi il nostro interesse, spingendoci indietro negli anni a ricercarne origini e finalità. Considerando il Settecento come ideale cerniera temporale, tenteremo di interpretare le istanze riformatrici dell’Ottocento, alla
luce di tutto quello che precedentemente aveva caratterizzato la politica pontificia per la gestione della città. Esaminando le più semplici norme sul costruire, così come argomenti complessi quali i limiti giuridici per l’edificabilità dei suoli, l’obiettivo sarà quello di valutare gli specifici presupposti
legislativi e metodologici, affinandoli progressivamente nel confronto con il
mondo sommerso, spesso misconosciuto, della pratica quotidiana.
Decoro e ornato a Roma tra il XV e il XVIII secolo
Per quasi tutto il XVIII secolo la legislazione in materia di edilità per Roma
si mantiene saldamente agganciata a due costituzioni pontificie: la De edificiis et jure congrui emanata da Gregorio XIII il primo ottobre 1574 7 e la Sacerdotalis et Regie Urbis di Innocenzo XII, risalente al 28 novembre 1692 8.
Definendo rispettivamente la disciplina generale di salvaguardia del decoro
del 6 luglio 1817, del 23 ottobre 1817 e del 10 dicembre 1818 sarebbero state realizzate le
condizioni per un radicale rinnovamento della magistratura delle strade, cioè dell’istituzione
maggiormente implicata nello sviluppo edilizio urbano (R. FELICI, La Reverenda Camera apostolica. Studio storico-giuridico, Roma, Tip. Poliglotta Vaticana, 1940, V, III).
5
Molte disposizioni normative varate dal governo pontificio, come il Regolamento edilizio e di pubblico ornato del 1864 e quello sull’altezza delle fabbriche del 1866, avrebbero tuttavia costituito il punto di partenza normativo dell’edilizia romana post unitaria (E. PALLOTTINO, Tutela e restauro delle Fabbriche. I regolamenti edilizi a Roma dal 1864 al 1920, in Roma
Capitale. 1870-1911. Architettura e urbanistica. Uso e trasformazione della città storica, a
cura di G. Ciucci e V. Fraticelli, Roma, Marsilio, 1984, pp. 86-102).
6
N.M. NICOLAI, Sulla Presidenza delle Acque e Strade e sua giurisdizione economica, Roma, Stamp. Rev. Cam. Ap., 1829, p. 20.
7
Bull. rom., V, II, XXXIII.
8
Bull. rom., IX, XXXVI.
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urbano e l’organizzazione istituzionale del Tribunale delle strade, questo tessuto legislativo, ancorché antiquato, appare nel complesso ben radicato nella
cultura romana e comunque destinato a recitare un ruolo importante di fronte
alla complessità dei fenomeni di crescita e trasformazione urbana. Al di là dei
mutati presupposti politici ed economici che la rendono, almeno nel Settecento, parzialmente inattuale, vale la pena richiamare alcuni elementi cardine della bolla gregoriana, perché in essi dimorerà fino alle soglie dell’Ottocento
ogni riferimento utile a comprendere le strategie e le finalità governative per
la tutela dell’ordine edilizio urbano.
In primo luogo sembra indispensabile capire a cosa si ispiravano i principi
di “decoro” e “ornamento” di Roma richiamati da Gregorio XIII e quali significati potevano assumere nel linguaggio settecentesco. Profonde erano ovviamente le distonie tra pratica giuridica e pensiero estetico, laddove quest’ultimo
arrivava a definire come decoro architettonico “quella ragione, la quale secondo l’uso speciale degli edifici, ne regola la mole, la forma, la magnificenza, la
mediocrità, la robustezza, la gentilezza, la sontuosità, la semplicità” 9. Difendere e propugnare valori come questi, in una realtà urbana e sociale come quella
di Roma, era moralmente un compito imperativo, anche se i percorsi non potevano essere sempre lineari da un punto di vista programmatico, così come non
potevano certamente risultare agevoli nel confronto con la realtà operativa.
La lunga gestazione di una materia come questa, suscettibile più di altre
alle mutazioni ideologiche, politiche ed economiche dettate dai tempi, ci costringe a esaminare il problema nell’arco di uno spettro temporale molto vasto, che postuliamo iniziare, almeno per la fase storica di riferimento, nella
prima metà del XV secolo. Già infatti al tempo di Martino V 10 e Sisto IV 11 troviamo espliciti richiami a questi argomenti, laddove la vigilanza sull’edilizia
romana, finora affidata a magistrature municipali, si avviava a entrare nell’orbita della Camera apostolica. Questo processo, destinato a scuotere le
istituzioni capitoline a fronte di un degrado urbano sempre più preoccupante,
aveva sì alleviato quello che appariva come un vero e proprio stato di calamità sociale, un “grande sconcio”, una “rovina invero disdicevole” 12, senza
F. MILIZIA, Roma delle belle arti del disegno, Bassano del Grappa, Remondini, 1787, p. 8.
Bolla Etsi in cunctarum del 31 marzo 1425 (Bull. rom., III, II, XV).
11
Bolla Etsi de cunctarum del 30 giugno 1480 (ivi, III, II, XXV).
12
In questi termini la bolla di Martino V denunciava come “taluni abitanti e residenti nell’Ur9
10
be si comportano pure da egoisti e con riprovevole temerarietà ed aggiungendo malanno a malanno osano sconsideratamente e sacrilegamente occupare, devastare, alienare e ridurre a proprio uso
vie, strade, piazze, luoghi pubblici, privati ed ecclesiastici, dei quali non si fanno alcuno scrupolo
di disporre a proprio comodo, insensibili ad intendere quanto siffatti eccessi siano nocivi alla salute del corpo, alla purezza dell’aria e alla salvezza delle anime” (C. D’ONOFRIO, Visitiamo Roma
nel Quattrocento. La città degli umanisti, Roma, Romana Società Editrice, 1989, p. 17).
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però riuscire a ottenere risultati definitivi e soprattutto omogenei sul territorio. Riconquistare un avamposto di legalità contro ogni tipologia di abuso
era stato l’obiettivo più urgente perseguito dai pontefici dopo il ritorno della
Santa Sede da Avignone; tuttavia il ricorso sistematico a interventi di natura
straordinaria, quali le demolizioni forzose di portici o recinti abusivi, non poteva mirare che a una condizione di stentata “decenza” per un abitato in parte
molto deteriorato e di modesta qualità. In tale contesto, anche l’anatema lanciato da Pio II contro coloro che distruggevano e “riducevano in calce” edifici rappresentativi dell’identità storica locale 13 suonava come una misura di
salvaguardia per un patrimonio in progressivo disfacimento, certo non sufficiente ad associare l’imperativo di conservare con il dovere di risanare e riqualificare.
Già però con Sisto IV la strategia pontificia aveva acquisito caratteri nuovi, tanto che proprio in quell’epoca aveva iniziato ad affermarsi, a livello legislativo, il principio dell’operare ob decorem et venustatis Urbis 14. Sotto
questa formula l’intervento governativo si disponeva non soltanto a organizzare in maniera più sistematica la vigilanza sull’attività edilizia dei cittadini,
e a programmare campagne di espropri e di “gettiti” per potenziare l’impianto viario preesistente 15, ma perfino a guidare l’iniziativa privata nel processo
di rinnovamento e sostituzione delle case, sia di quelle mutilate dalle demolizioni, sia di quelle in stato di rovina o di abbandono 16. Emergeva, in sostanza, una tensione nuova, votata al superamento di tattiche meramente
conservative e volta a “ornare” e “abbellire” la città, non solo con nuove e
più grandi strade o piazze, ma anche con edifici, se non grandiosi, almeno
“decorosi” in termini di immagine pubblica. In questo contesto, la direttiva
di sollecitare all’accorpamento di più case adiacenti per farne nuove più
grandi 17 appare già in sé foriera di importanti trasformazioni tipologiche in
un tessuto edilizio in partenza molto frammentato.
Da quello che possiamo osservare, uno dei più evidenti limiti della bolla
sistina era quello di non riconoscere canoni precisi al “decoro” edilizio cui
aspirava, ma di limitarsi a prescrivere per le nuove costruzioni solo l’osser-
Bolla Quod Almam Nostra Urbem del 28 aprile 1462 (Bull. rom., III, II, XV).
Bolla Etsi de cunctarum, cit., exordium.
15
P. SCAVIZZI, Le condizioni per lo sviluppo dell’attività edilizia a Roma nel secolo XVII: la
legislazione, «Istituto di studi romani», XVII-2, 1969, pp. 160-171).
16
Parte dei provvedimenti contenuti nella bolla sistina erano peraltro già in embrione negli
Statuti dei maestri di strade del 1410 (C. SCACCIA SCARAFONI, L’antico statuto dei magistri
stratarum e altri documenti relativi a quella magistratura, «Archivio della Società romana di
storia patria», L, 1927, pp. 239-308) e del 1425 (E. RE, Maestri di strada, «Archivio della Società romana di storia patria», XLIII, 1920, pp. 5-109).
17
Bolla Etsi de cunctarum, cit., par. 1.
13
14
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vanza degli Statuta Urbis 18, senza dubbio efficaci come regolamenti di polizia urbana, ma poveri di indicazioni tecniche per l’edilizia. Che la prevalente preoccupazione del legislatore fosse quella di assicurare tempi brevi alla sostituzione di tanti edifici danneggiati o pericolanti, non sembra giustificare l’assenza di una programmazione sulla qualità degli interventi, che un
regolamento d’applicazione alla legge avrebbe certo potuto garantire: evitando di codificare regole sul costruire, tutto veniva demandato ai poteri discrezionali del Camerario e dei magistri stratarum, peraltro molto assorbiti
dall’incombenza di avviare le procedure di requisizione giudiziaria e vigilare
sulle pratiche di vendita forzosa.
L’azione legislativa promossa verso la fine del XVI secolo da Gregorio
XIII venne fondata sul perfezionamento dei meccanismi ideati dai predecessori, ma anche su una situazione politica ed economica evidentemente più
favorevole 19. Si veniva a organizzare intorno al principio dello jure congrui,
già prefigurato nelle sue linee generali da Sisto IV, un progetto sviluppato in
senso evoluto, tanto nella pianificazione delle opere pubbliche, quanto nel
controllo sulle dinamiche del mercato edilizio e sulla stessa qualità degli insediamenti abitativi e residenziali. Pure nei limiti di una certa astrattezza retorica, il testo gregoriano precisava i termini di quello che poteva definirsi
un patto di coazione tra utilità pubblica e interesse privato, che aveva come
fine ultimo e comune il costruire “ad maiorem Urbis ornamentum” secondo
caratteri degni di una capitale quale era Roma. Il progetto di governo veniva
a esprimersi su due livelli operativi: attraverso l’azione coercitiva degli
amministratori camerali, mediante il “gettito” di case e l’acquisizione forzosa di aree 20 destinate a usi pubblici 21 e, in alternativa, mettendo in essere l’istituto dell’“acquisto coattivo” 22, attraverso il quale poteva essere l’iniziatiGli statuti della città di Roma, Roma s.e., 1880, III, pp. 187-271.
Il termine jure congrui sarebbe entrato nel linguaggio comune dal tempo di Alessandro VI
che, per favorire l’urbanizzazione della via Alessandrina “directa a Castro Sancti Angeli ad Plateam Sancti Petri”, estese a quella zona i benefici della costituzione di Sisto IV (Bull. Rom., IV, III).
20
Ai sensi della bolla gregoriana era competenza del camerario (dopo il 1692 del chierico
presidente delle strade) e dei maestri delle strade “cogere dominos domorum, & locorum quorumlibet, tam ecclesiasticos quam saeculares ut vendant Conservatoribus, aut Sindico eiusdem
Urbis domos… pretio Magistris paedictis statuendo” (bolla Etsi de cunctarum, cit., par. 1).
21
Tra le azioni coercitive finalizzate all’utilità pubblica, di particolare rilievo deve essere
considerato l’obbligo di costruire o comunque recintare i suoli urbani non edificati o le case in
stato di rovina (bolla De Aedificiis et jure congrui, cit., III).
22
Nel linguaggio giuridico del tempo in luogo del termine “acquisto” si usava quello di
“retratto” con le seguenti accezioni: “retratto prelativo dicesi… quando il vicino nella compra
fatta di una casa da un estraneo vuole essere preferito ad oggetto di fabricare ob ornatum Urbis; retratto coattivo è quando il padrone di casa, del suolo, o area non ha venduto, né vuol
vendere ad un estraneo, e tuttavia è costretto a vendere al vicino il quale vuol fabricare ob ornatum urbis” (G. MASI, Teoria e pratica dell’architettura civile, Roma, Fulgoni, 1788, p. 226).
18
19
C. RE,
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va privata a farsi promotrice interessata di interventi per “l’abbellimento
della città”.
In questi termini l’azione pubblica poteva conseguire in prospettiva almeno tre risultati: svolgere un ruolo attivo all’interno del mercato edilizio, vigilare in termini più incisivi sulla qualità dei manufatti e infine, delegando ai
cittadini buona parte delle iniziative edificatorie, alleggerire i bilanci camerali dall’impegno economico diretto all’acquisizione dei beni di partenza
e alla loro trasformazione 23. D’altra parte tra i vantaggi offerti a coloro che si
impegnavano in nuove edificazioni, la possibilità di acquisire aree pubbliche
ai lotti di proprietà 24, e quella, altrettanto rilevante, di poter forzare alla vendita i vicinali padroni di immobili fatiscenti, erano senza dubbio richiami notevoli all’investimento edilizio. Per beneficiare di queste prerogative, compresa la manu regia concessa in occasione di vendite coatte, il proprietario
doveva però impegnarsi, come premesso, a edificare ad maiorem Urbis ornamentum: in termini contrattuali ciò equivaleva a una serie di patti che, oltre a determinare gli oneri per l’acquisto del bene di partenza, suolo o casa
che fosse, prefiggevano l’obbligo di definire preventivamente l’entità minima delle risorse economiche da investire nella costruzione, nonché il rispetto dei limiti spaziali e temporali imposti da magistrati e architetti pubblici. In confronto con la bolla sistina, l’uso del termine “ornamento”, alternativo a quello di “decoro”, alludeva implicitamente a una evoluzione negli
obiettivi prefissi. E se i canoni dell’ornato edilizio urbano restavano ancora
aleatori e non regolati da norme, è significativo che venisse comunque avvertita la necessità di ottenere precise garanzie sulla qualità dei progetti, seppure sotto l’aspetto di impegno finanziario. Naturalmente la complessità di
un tale meccanismo procedurale, non a caso risultato di una gestazione lunghissima, poteva ammettere abusi e speculazioni di ogni genere, che i magi23
Per accedere ai benefici dello jure congrui, segnatamente al retratto coattivo, si ritenevano indispensabili i seguenti requisiti: “1. la vicinanza; 2. l’obbligo di fabbricare dentro il
termine da prescriversi dai maestri delle strade col deposito del prezzo secondo la stima, e di
più una quinta parte; 3. l’ornato pubblico risultante dal futuro edificio, non bastando la sola
vicinanza; 4. che il futuro edificio cada in parte nella casa retraente, e in parte nella retraenda;
5. che quegli il quale intenta il retratto della vicina casa abitata dal proprio padrone, incominci
l’edifizio prima nel proprio suolo; 6. che la casa retraente sia annessa, almeno da due lati alla
casa, al suolo o all’area retraenda; finalmente, che l’edificio da costruirsi nell’una o nell’altra
casa, o sito retraente, o retraendo, sia per essere insigne in guisa tale, che il suo valore quadruplichi il prezzo della casa retraenda” (ivi, p. 227).
24
Tra queste meritano particolare citazione i vicoli intermedi o intercapedini che spesso si
frapponevano tra casa e casa come aree di confine in luogo di un muro comune e la cui sopravvivenza traeva origine ancora dal diritto romano. La costituzione di Gregorio XIII, consentendo l’annessione di tali vicoli al confinante più sollecito ad edificare, dichiarava esser lecito
a chiunque servirsi del muro del vicino e al medesimo appoggiare la sua fabbrica (bolla De
Aedificiis et jure congrui, cit., III).
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 113
strati edilizi erano chiamati a dirimere in sede normativa prima ancora che
giudiziaria 25.
Nel bene e nel male, il processo avviato dalla bolla gregoriana e programmato per il medio-lungo termine avrebbe prodotto effetti notevoli per
molti anni a venire, costituendo un traino importante per l’incremento nella
produzione insediativa che si sarebbe registrato a Roma tra la fine del XVI e i
primi decenni del XVII secolo, ma anche un porto sicuro nei periodi di parziale
stasi del mercato edilizio, come quello che avrebbe caratterizzato, appunto,
buona parte del Settecento. Dal profilo già in origine fortemente discriminatorio, i vantaggi della bolla gregoriana si sarebbero progressivamente condensati verso un’utenza sempre più selezionata, costituita da caste fortemente privilegiate e potenti enti religiosi. Del resto, la fitta casistica di vertenze di quest’epoca dimostra ampiamente come una strumentalizzazione avveduta dello
jure congrui da parte dell’autorità costituita poteva convertirsi in benefici
esclusivi per determinate categorie di soggetti, ma anche in strumenti efficaci
per ottemperare all’esercizio di governo con paternalistica moderazione 26.
Resta il fatto che fin quasi alle soglie del XIX secolo, il sistema legislativo
pontificio non solo ritenne superfluo elaborare un adeguato ricambio alla
legge di Gregorio XIII, ma neanche di modificarne l’assetto in funzione dei
mutamenti politici ed economici intervenuti nel frattempo. La straordinaria
longevità della De Aedificiis può trovare, almeno in parte, una logica spiegazione nella riluttanza degli organi di governo a cambiare un meccanismo tutto sommato affidabile e collaudato anche nei suoi più minuti sincronismi.
Elementi fondamentali di questo sistema erano da un lato l’istituto della
concessio fili, codificato nelle sue linee generali in seno allo jure congui,
dall’altro le prerogative discrezionali assegnate alla magistratura delle strade. Vincolando ogni nuova costruzione a una specifica licenza della magistratura, ogni iniziativa edificatoria poteva infatti essere pianificata tanto per
correggere localmente i profili stradali, quanto per organizzare i volumi co-
A tale proposito meritano speciale menzione gli editti emanati “in essecutione della bolla De Aedificiis et jure congrui da Gregorio XIII per l’ornamento della Città”, dei quali ci sono
pervenuti tre esemplari datati rispettivamente 5 giugno 1611, 7 agosto 1628 e 2 settembre
1658 (ASR, Bandi, Collezione II, reg. 446).
26
Un repertorio di “grazie speciali” concesse dal pontefice o dagli stessi magistrati in materia di jure congrui è valutabile nella lettura tanto di documenti straordinari, quali i chirografi
pontifici, come quelli contenuti negli archivi della Presidenza delle strade (ASR, Presidenza
delle strade, reg. 28), quanto nella documentazione relativa alle lettere patenti, con particolare
riguardo ai rescritti delle suppliche inoltrate al magistrato (ASR, Presidenza delle strade, regg.
42-73). Solitamente i provvedimenti si manifestavano con sostanziose agevolazioni sul costo
del suolo pubblico o con l’affievolimento delle tasse di concessione, ma non di rado venivano
concesse deroghe a prescrizioni altrimenti vincolanti, quali l’obbligo della vicinanza con l’immobile da espropriare.
25
114 Francesco Jamonte
struiti secondo caratteristiche di “ordine e bona simetria”. In pratica, potendo considerare il confine tra suolo pubblico e privato non immutabile al
momento di una nuova costruzione, la magistratura edilizia aveva l’autorità
di disporre l’arretramento o l’avanzamento dei profili perimetrali “tirandone
il filo” rispetto a un tracciato preordinato, che poteva essere quello delle case vicine o altro più opportuno. Si configurava così il sottile equilibrio di un
sistema per mezzo del quale era possibile modificare localmente il disegno
urbano, attraverso una moltitudine di piccoli correttivi successivi, la cui sequenza spazio-temporale dettava in ultimo i ritmi rigenerativi del tessuto urbano. Le tracce più significative di quella che è stata definita efficacemente
“la poetica del ritocco dei fili stradali” 27 si riconoscono, al di là dei patti di
compravendita immobiliare, nelle lettere patenti del Tribunale delle strade 28:
il corpo di questi atti amministrativi, redatti per definire i termini tecnicogiuridici delle concessioni edilizie, costituisce l’osservatorio ideale per saggiare l’efficacia di un sistema che per secoli ha governato le trasformazioni
edilizie di Roma.
La concessio fili: struttura e procedure
È bene premettere subito che, a differenza delle moderne licenze edilizie,
dove si esaminano in dettaglio le caratteristiche tecniche del fabbricato, oltre
che dell’area in cui esso dovrà insistere, per tutto il XVIII secolo il disposto
delle lettere patenti mantenne come tema principale la definizione geometrica dei profili perimetrali rispetto alla strada pubblica. Limiti giurisdizionali
vistosi, che poi erano quelli imposti dal regime legislativo del tempo, si manifestavano sia nel testo della licenza che negli elaborati a essa connessi. Tra
questi documenti spiccavano per importanza la “pianta dei nuovi fili” 29 e la
“relazione” dell’architetto sottomaestro: se la prima, nulla più di uno stilizzato rilievo planimetrico, costituiva un documento sussidiario alla patente, il
testo della seconda, desunto dai verbali di sopralluogo, si convertiva generalmente nel tessuto dispositivo della licenza finale.
Restauro urbano e restauro architettonico, in Roma Capitale, cit., pp. 51-55.
Per quanto riguarda la città di Roma, la parte più cospicua della documentazione tra il
XVI e il XIX secolo è conservata presso l’Archivio di Stato; alcune annate intermedie tuttavia
sono reperibili presso l’Archivio storico capitolino (1586-1633) e l’Archivio Doria Pamphili
(1641-1664).
29
Esemplari di questi elaborati si trovano in genere allegati ai memoriali, non di rado affiancati da disegni presentati dallo stesso proprietario (ASR, Presidenza delle strade, Memoriali): in sede di registrazione nei libri camerali, si usava spesso ricopiare le piante, anche se in
forma grafica semplificata, per lasciarne memoria ufficiale (ASR, Presidenza delle strade, Lettere patenti).
27
28
P. MARCONI,
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 115
Entrando nel merito delle procedure concessorie, emergono degli aspetti
che dissipano molti dubbi sul reale profilo dell’azione pubblica nei confronti
dell’iniziativa privata. In primo luogo è evidente come i funzionari camerali,
nell’impossibilità di usare strumenti più incisivi, potevano legare l’autorizzazione a costruire principalmente a vincoli di natura dimensionale e che questi
avevano come oggetto esclusivo il rapporto instaurato tra edificio ed intorno
urbano. Secondo questa logica, il passaggio dallo stato di fatto a quello di progetto era scandito da tre elementi di valutazione: la lunghezza delle partite di
muro da fare, la superficie di suolo eventualmente da cedere o acquisire per allineare i prospetti e l’ampiezza risultante dei settori stradali antistanti l’edificio. Rispetto a una licenza edilizia in senso evoluto, appare innanzitutto stridente il prevalere di un’ottica per così dire “bidimensionale”, ovvero limitata
al piano di spiccato, rispetto a una visione comprendente quella terza dimensione che avrebbe portato a “conoscere giuridicamente” l’altezza o almeno il
numero dei piani del fabbricato 30. Un altro aspetto anomalo, almeno secondo
la lettura che proponiamo, è lo scarso rilievo attribuito nelle licenze alle caratteristiche strutturali, tecnologiche ed estetiche dei manufatti, soprattutto pensando alle conseguenze che esse potevano avere sul decoro e l’incolumità pubblica. Pur rappresentati alla stregua di oggetti autonomi e non come parti di un
disegno d’insieme, gli elementi di prospetto quali ornati di portoni o finestre,
ringhiere, mignani o passetti erano gli unici ad essere sommariamente classificati per materiali componenti (di legno, di travertino) e tipologia strutturale 31.
Il contenuto delle licenze appare costantemente di basso profilo dispositivo: generici divieti di “imporre servitù” e ovvi inviti a risanare le selciate
danneggiate durante i lavori potevano al massimo affiancarsi all’obbligo di
rimuovere “speroni, risalti ed altro dei prospetti antichi” 32 nel caso di nuove
30
Alla luce della bolla gregoriana competeva tuttavia al camerario e ai maestri di strade vigilare che i prospetti si elevassero “ad eam altitudinem, quae proxima aedificia proximosque
muros aequet, vel aliam, quam ipsi praescripserint” (bolla De Aedificiis et jure congrui, cit., III).
31
Anche sotto questo profilo il testo delle patenti risultava estremamente avaro di dettagli:
nel caso delle ringhiere, per esempio, veniva prescritto il numero di modelli da murare sotto il
pavimento, ma non le dimensioni dei profilati o il loro posizionamento in opera. Solo per le
selciate e in genere per le opere stradali, il testo della patente entrava nel merito della qualità
dei materiali da utilizzare e dei processi di posa in opera (F. JAMONTE, Processi di trasformazione architettonica nell’edilizia abitativa romana del XVIII secolo, «Rivista storica del Lazio», 5,
1996, pp. 179-224).
32
Questa norma sarebbe sopravvissuta nel tempo, fino a comparire nel regolamento edilizio
e di pubblico ornato del 1864, laddove viene precisato che “nel concedere permessi di costruzione, alzamenti e restauri delle facciate delle fabbriche […] si ordinerà la remozione degli eccessivi sporti di veroni, delle ringhiere, delle banchine e delle inferriate delle finestre dei piani
terreni […] come ancora verrà ordinata la remozione degli esterni gradini e cordonate, dei banchi esterni di pietra o di muro e degli abbaini delle cantine e degli altri luoghi sotterranei protratti ad occupare qualche parte di suolo stradale” (G.B. FLORIO, Raccolta completa dei regolamenti edilizi e di norme di edilità riguardanti la città di Roma, Roma, SAIGE, 1931, p. 8).
116 Francesco Jamonte
edificazioni, comunque sempre a misure di salvaguardia della viabilità stradale. Per il resto, le minuziose campagne di misurazione eseguite dagli architetti pubblici erano chiaramente finalizzate a verificare che l’ampiezza delle
strade, se carrozzabili, non fosse inferiore a un minimo tollerabile 33, mentre
nulla dimostra che i dati raccolti fossero considerati utili al proporzionamento degli alzati, anche laddove larghezza stradale e distacco tra gli edifici
tendevano a coincidere nelle stesse entità dimensionali 34.
Pur nella loro lacunosità, i contenuti delle lettere patenti erano coerenti a
un disposto normativo che, oltre a una serie di chirografi pontifici, faceva capo a un corpo di bandi e di editti emanati dalla magistratura delle strade a
partire dal XV secolo. Tra le fonti scritte, uno dei riferimenti principali era
senz’altro rappresentato dai bandi generali dei maestri di strade 35, sorta di
proto-regolamenti edilizi in cui venivano riepilogate le norme di polizia urbana messe in atto dalla magistratura edilizia. In essi veniva ricordato il divieto di “murare, o far murare, alcun luogo publico, né facciate che siano su
strade, senza licenza nostra e senza che sia dato il filo” e riassunte le direttive concernenti la gestione dei cantieri in aree pubbliche. Ma è certo singolare che sia un documento di natura fiscale a tramandarci notizie più puntuali
sulla consistenza della normativa tecnica. È infatti dalla cosiddetta Tassa Innocenziana 36 che abbiamo modo di apprendere, per esempio, che la richiesta
di filo pubblico doveva essere inoltrata per qualsiasi manufatto costruito in
corrispondenza del piano stradale, dai “portoni con suoi aggetti sopra” agli
“speroni di sostegno o muri a scarpa” 37 e finanche ai gradini e alle scalinate,
oppure che la “qualità dell’aggetto e ornamento” di un’opera era valutata in
Operando su un campione di lettere patenti rilasciate dalla magistratura nel corso del
Settecento, è emerso che l’ampiezza minima per una strada urbana era fissata intorno ai 15
palmi romani. In città le arterie più importanti erano calibrate sui 35 e i 25 palmi, mentre per
strade di minore importanza una media accettabile si attestava tra i 24 e i 20 palmi di larghezza. Solo nei casi di vicoli ciechi o semplici spazi inedificati tra fabbricato e fabbricato,
si arrivava a tollerare distacchi di appena 12 palmi (F. JAMONTE, Processi di trasformazione,
cit., p. 192).
34
“Dovendosi fabbricare una casa privata nel suolo libero incontro ad altra casa privata di
simil natura devesi osservare la distanza di piedi 12 fra la nuova casa e quella del vicino […]
s’intende questa distanza fra i muri delle case nella parte anteriore, non già lateralmente o nella parte posteriore” (G. MASI, Teoria e pratica, cit., p. 226).
35
Bandi di questo tenore vennero emanati dai magistrati delle strade il 5 giugno 1648, il
14 luglio 1673 e il 20 settembre 1681 (ASR, Bandi, Collezione II, b. 446). La capacità di legiferare dei maestri delle strade traeva origine dallo jus edicendi che gli ediles esercitavano
per applicare equamente le norme dello jus civile (G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro fino ai giorni nostri, Venezia, 1840-1879).
36
Tassa, da osservarsi nel Tribunale delle strade del 6 maggio 1693 (ASR, Bandi, Collezione II, b. 446).
37
Ibidem.
33
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 117
termini diversi ai fini della tassazione. Le discriminanti individuate in sede
fiscale confermano che il costruire secondo le “regole di buon arte” fosse in
qualche maniera recepito a livello normativo: la realizzazione di uno sperone
di sostegno, per esempio, era tassata secondo una dimensione standard del
manufatto, che corrispondeva a un preciso modello statico 38, addizionabile in
muri continui “a scarpa” per coprire grandi superfici. Pur sforzandoci di attribuire un profilo degno alle fonti normative citate, bisogna comunque riconoscere che esse non potevano costituire da sole uno strumento credibile per
fissare delle regole generali, a meno che non fossero integrate da pratiche
consuetudinarie, ovvero da regole non scritte, ma comunque consolidate per
lunga tradizione. Si ha motivo di credere che sia lo jus edicendi, ereditato
dalle antiche magistrature edilizie, a costituire ancora nel Settecento la fonte
più importante tanto della giurisprudenza specializzata quanto, sotto forma
di jus consuetudinis, della pratica amministrativa quotidiana. Mutando col
tempo il profilo della magistratura, la pratica consuetudinaria veniva a costituire una particolare dote degli architetti sottomaestri, i quali, forti di una conoscenza altamente qualificata della città e delle tradizioni architettoniche
romane, sembravano i funzionari più indicati a far valere “l’uso di buon arte”
nelle more di salvaguardia del pubblico decoro. Vera o falsa che sia tale ipotesi, è piuttosto evidente che nella pratica amministrativa, laddove la normativa ordinaria manifestava delle lacune, subentrava “qualche altra cosa” di
cui non vi è testimonianza diretta.
Tracce evidenti di queste facoltà esercitate dagli architetti pubblici e messe al servizio dei magistrati superiori in grado le troviamo ovunque nell’attività del Tribunale delle strade, e in particolare nella disciplina della concessione dei fili, in cui la tutela dell’ornato cittadino trovava argomenti di
identificazione con la pianificazione degli allineamenti stradali. Vediamo di
riassumerne gli aspetti salienti 39.
Qualsiasi persona o ente avesse avuto l’intenzione di costruire o ricostruire fabbricati, doveva inoltrarne istanza motivata, in forma di memoriale,
al presidente delle strade, per ottenerne una specifica patente. All’atto di concessione si perveniva attraverso un iter che, partendo dal verbale di sopralluogo dell’architetto sottomaestro, trovava il suo compimento nella determinazione delle tasse di concessione da parte del chierico presidente 40. Il
La lunghezza di dieci palmi e la larghezza al piede di due, indicata dalla tassa innocenziana per uno sperone ordinario, corrisponde ai canoni di proporzionamento statico prescritti nei trattati di architettura coevi (F. MILIZIA, Principi di architettura civile, Bassano
del Grappa, stampa Remondini, 1785, III, p. 160).
39
F. JAMONTE, Processi di trasformazione architettonica, cit.
40
L’onerosità “di qualsivoglia licenza di filo publico” era stabilita dalla tassa innocenziana; in essa veniva precisato, tra l’altro, anche il costo del suolo pubblico a scopi edifica38
118 Francesco Jamonte
provvedimento di concessione, in forma di lettera patente, veniva redatto, registrato e spedito all’interessato a cura del notaio del Tribunale delle strade.
Osserviamo che il percorso burocratico sin qui descritto nella sua generalità
variava sensibilmente a seconda delle situazioni, seguendo uno sviluppo ordinario, oppure itinerari amministrativi più complessi. La via ordinaria, che
poteva essere sbrigata dai maestri e dagli architetti delle strade, veniva percorsa quando i profili del nuovo fabbricato restavano invariati oppure quando le modifiche risultavano minime e comunque fisiologiche all’allineamento con i prospetti contigui. La facoltà di cedere al privato aree di grandi
dimensioni era però esercitata direttamente dal presidente delle strade che,
accogliendo l’istanza, doveva logicamente sottoscrivere un atto di alienazione vero e proprio da integrare alla licenza 41. In queste circostanze la
materia diventava più articolata, soprattutto perché la richiesta di incorporare
sito pubblico poteva anche non derivare da semplici motivi di allineamento,
ma da personali esigenze del proprietario. Le argomentazioni addotte nei
memoriali potevano essere le più disparate: dalla necessità di usare un certo
sito per “ringrossare e fortificare i muri” di una casa esistente, a quella di acquisirlo per migliorarne l’accessibilità, fino alla richiesta di recintare e annettere alla proprietà settori marginali di strada, per sottrarli a un presunto degrado materiale o sociale 42. In ogni caso esaminato, il rigetto dell’istanza non
precludeva il ricorso al giudizio pontificio, con buone possibilità che la richiesta venisse accolta “per grazia speciale” e notificata al presidente “vive
vocis oraculo” o tramite chirografo.
Inoltrandoci ora nella pratica operativa, esamineremo una casistica di situazioni rappresentative tratte da un repertorio di documenti settecenteschi:
in tale ambito troveranno espressione anche alcuni casi atipici, che sembrano
ben raffigurare la vasta gamma di soluzioni che potevano di volta in volta essere proposte per coniugare l’interesse pubblico con quello privato.
tori, fissato per le aree urbane “in scudi uno il palmo, più o meno e a seconda la qualità de
siti”. Secondo questo tariffario ufficiale il prezzo del suolo pubblico incideva di 100 scudi
per ogni canna architettonica quadra, ciò quando il prezzo di mercato del suolo in aree urbane mediamente qualificate sembra attestarsi, ancora nel XVIII secolo, intorno ai 20 scudi.
In realtà confrontando questi numeri con quelli desunti della pratica amministrativa, osserviamo che di rado veniva applicata una tariffa superiore ai 10 scudi per canna quadrata (ivi,
p. 195).
41
Nei registri di lettere patenti del Tribunale delle strade del XVIII secolo, il provvedimento di concessione a firma del presidente precedeva il testo della licenza del maestro delle
strade territorialmente competente (F. JAMONTE, Processi di trasformazione, cit., p. 180).
42
In casi come questi, il presidente delle strade poteva anche orientarsi ad autorizzare la
semplice occupazione di suolo pubblico in via continuativa ma non definitiva, attraverso
speciali permessi che indicava come revocabili, soprattutto in caso di infrazione al divieto
di edificare (ivi, p. 184).
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 119
La politica dei suoli per gli allineamenti delle strade
Le circostanze che concorrono nel 1760 alla parziale rettificazione della
strada dell’Arco di San Vito sintetizzano la dinamica di un processo dove la
sequenza aritmica di interventi edilizi privati diviene occasione per ridefinire
il tracciato di uno dei più antichi percorsi della città. Per intercessione del
pontefice Clemente XIII, il proprietario in questione ottenne la donazione di
una piccola rientranza della strada per procedere alla riedificazione di alcune
case “intra lineam, et iuxta regulam statuendam ab architecto viarum” 43. Ligio agli ordini ricevuti, l’architetto del rione Monti, Giovanni Francesco Fiori, procedette senz’altro alla valutazione tecnica dell’intervento, elaborando
una “pianta dei nuovi fili” impostata in maniera da calibrare l’allineamento
in progetto in funzione di una generale ridefinizione del fronte stradale. Per
“formare buono e decente prospetto in detta strada ad ornato della Città” 44,
l’architetto pubblico non avrebbe tuttavia scelto la soluzione più immediata,
ovvero quella di adeguare il prospetto al vecchio allineamento: pianificando
un profilo stradale diverso, il tentativo era quello di spingere i vicini all’emulazione, creando un tacito “invito” a costruire. Il messaggio sarebbe stato
puntualmente raccolto poco più tardi 45, forse sperando in analoghe agevolazioni o forse temendo di incorrere nella vendita coatta 46. Il risultato ottenuto
raccordando i due interventi, comunque provvisorio rispetto all’intero fronte
stradale, è valutabile in una seconda pianta dei fili 47: la tortuosità della strada
era stata molto attenuata dall’avanzamento dei due edifici, assumendo un
tracciato tendenzialmente rettilineo.
Il caso esaminato, che rappresenta l’ideale teorico che si voleva perseguire “tirando il filo” delle nuove costruzioni, induce qualche ulteriore considerazione. In primo luogo sembra evidente che, dipendendo unicamente
dall’iniziativa privata, la concatenazione degli interventi non era affatto automatica e richiedeva tempi lunghi se non lunghissimi di attuazione, anche
ricorrendo a procedure coattive. In secondo luogo, visto all’opera un archi-
43
L’istanza, risalente al febbraio 1760, venne presentata dal Conservatorio della Ss. Concezione delle Viperesche (ASR, Presidenza delle strade, Memoriali, reg. 202, n. 175).
44
ASR, Presidenza delle strade, Lettere patenti, reg. 65, p. 179r.
45
I proprietari in questione erano i religiosi della Basilica Liberiana che fecero istanza
“per poter mettere nella stessa linea anche la loro casa”, prevedendo che altrimenti “resterebbe sepolta… innalzata che sarà la nuova Fabrica del Conservatorio” (ASR, Presidenza delle
strade, Memoriali, reg. 202, n. 189).
46
La normativa attinente lo jure congrui, basata sul dettato della bolla gregoriana del 1574
prevedeva, come è noto, la possibilità di accedere all’acquisizione forzosa di immobili fatiscenti o in stato di abbandono, per i vicini che s’impegnavano a edificare ob ornatum urbis
(bolla De Aedificiis et jure congrui, cit., III).
47
ASR, Presidenza delle strade, Lettere patenti, reg. 65, p. 200r.
120 Francesco Jamonte
tetto sottomaestro nella sua attività quotidiana, bisogna dire che il suo contributo poteva essere molto più incisivo in sede giudiziaria, soprattutto nel momento in cui il pontefice era chiamato a mediare tra le parti in causa. Fra le
tante situazioni degne di menzione, il provvedimento di Benedetto XIV del
febbraio 1744 è emblematico di come una procedura concessoria poteva divenire occasione non solo per ridisegnare i profili e la viabilità di una piazza
importante come quella avanti il ponte Sant’Angelo, ma anche per contribuire attivamente alla composizione degli alzati, pensandoli in termini di quinte
urbane ridotte in “miglior forma e bona simmetria” 48.
Diradamento e riqualificazione edilizia
La politica dei suoli intentata dalla magistratura delle strade non si limitava alla cessione di aree alla proprietà privata: l’altra faccia della medaglia
era rappresentata dai casi in cui erano le aree edificabili a essere accorpate
alla strada. A tali risoluzioni si perveniva dietro determinazione della magistratura edilizia, che giustificava il provvedimento con le stesse motivazioni
di allineamento che altrove comportavano la concessione di aree pubbliche.
Erano eventualità piuttosto rare, che non di rado innescavano una sorta di
legge di compensazione tra aree da cedere e da acquisire, al fine di non penalizzare troppo la proprietà nel diritto di edificazione e non gravare oltre
misura sui fondi pubblici destinati all’ampliamento delle strade. La soluzione proposta per piazza della Chiesa Nuova da un chirografo di Benedetto
XIV del 1743 49 dimostra come lo jure congrui fosse anche uno strumento idoneo a forzare determinate situazioni, soprattutto quando la posta in gioco era
quella di ampliare e ridisegnare in forme preordinate un ambiente urbano già
molto caratterizzato. Prendendo avvio da quanto già fatto per la Congregazione di San Filippo Neri da Urbano VIII nel 1627, si consentiva ai religiosi
della Chiesa Nuova di avvalersi dei benefici della bolla gregoriana per acquistare un edificio non contiguo, come prescriveva la legge, ma antistante la
proprietà, a condizione che il profilo del futuro fabbricato venisse arretrato
“onde perfezionarsi l’ornato di detta piazza più ampio et in simetria”. Anche
in questo caso, come nel precedente, l’edificio avrebbe dovuto avere caratteri “di concertato e conveniente prospetto et da farsi coll’istesso ordine et architettura […] delle case che fanno angolo dall’altra parte”.
A prescindere dai problemi di allineamento, poteva essere lo stesso privato proprietario a rinunciare volontariamente a edificare aree sgombrate da
Chirografo emanato da Benedetto XIV il 18 febbraio 1744 in favore della chiesa Collegiata dei Santi Celso e Giuliano (ASR, Disegni e piante, Collezione II, c. 80, n. 74).
49
Chirografo del 6 aprile 1743 (ASR, Disegni e piante, Collezione I, c. 81, n. 289).
48
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 121
demolizioni. Pur non dovendo soggiacere ad altri vincoli di fabbricabilità oltre quelli dei fili, alcune circostanze dimostrano come questa prerogativa poteva risultare conveniente quando il diradamento edilizio e la riqualificazione ambientale erano riconosciuti come mezzi per migliorare la redditività
di un bene o il suo pregio.
Un caso particolarmente interessante, oltre che studiato a livelli molto
qualificati 50, risale alla metà del secolo: esso ha come oggetto un nuovo insediamento nella popolare contrada di Schiavonia, presso il porto di Ripetta.
Decisa a ricostruire una serie di immobili in grave stato di degrado esistenti
nella zona, la Congregazione di San Girolamo degli Schiavoni si fece promotrice di un intervento non limitato alla semplice sostituzione edilizia 51, ma
anche volto ad influire marcatamente sui fattori ambientali locali. Il progetto
esibito a Benedetto XIV 52 prevedeva di “gettar a terra quelle casette, già cadenti finora abitate da persone di cattiva qualità” e farvi al loro posto “nuova
fabrica di case abitabili da persone oneste” con la prospettiva di acquistare,
in virtù dello jure congrui, altre casette adiacenti da accorpare a quelle di
proprietà: in cambio del sostegno pontificio, si offrivano parte delle aree disponibili “per aprire una nuova strada, che dalla piazza di Monte d’Oro… vada a sboccare nella strada di Schiavonia” 53. Mettere in bilancio non solo i notevoli oneri di acquisizione, liberazione e ricostruzione delle aree, ma anche
la perdita economica derivante dalla cessione al pubblico di parte del suolo
edificabile, era una scelta gestionale da interpretare col desiderio di migliorare l’accessibilità delle abitazioni, decongestionando un edificato troppo intensivo per essere anche ben valutato dal mercato immobiliare. Con la consulenza di un architetto esperto e smaliziato, l’imprenditore dimostrava di sapersi ben districare nel sistema normativo, ottimizzando i vantaggi derivanti
dallo jure congrui e conseguendo, nel contempo, non indifferenti agevolazioni fiscali, barattate con il costo del suolo ceduto. Ottenuta l’approvazione del
pontefice il 22 marzo 1752 54 e portati a termine i lavori, il tempo dimostrerà
50
G. CURCIO, Casamenti di persone oneste: un intervento di risanamento urbano di Nicola
Michetti, «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’architettura», 13, 1991, pp. 65-80.
51
All’atto di presentazione della nuova supplica, il cantiere era già in piena attività per la
ricostruzione delle case. Il 9 giugno 1751 era stata infatti registrata una lettera patente che autorizzava la Congregazione a riedificare i prospetti della casa d’affitto “nella strada che dagli
Otto Cantoni tende al vicolo degli Schiavoni” (ASR, Presidenza delle strade, Lettere patenti,
reg. 64, p. 154), così come il 2 luglio dello stesso anno era stato verbalizzato un atto di Accessus giudiziario relativo all’area da demolirsi e alle case confinanti (ASR, Notai del Tribunale
delle acque e strade, Istromenti, b. 152, p. 691).
52
ASR, Disegni e piante, Collezione I, c. 80, n. 260.
53
ASR, Presidenza delle strade, Memoriali, reg. 200, n. 228.
54
Sin dall’udienza del 22 marzo 1752 il pontefice concederà il proprio benestare alla realizzazione del progetto “tam pro novis edificis, quam pro aperitione novae viae”, ordinando
122 Francesco Jamonte
che la strategia era vincente, visto che già pochi anni dopo tutti i caseggiati
risulteranno ben locati 55. Nella toponomastica cittadina la strada in questione
avrebbe successivamente preso il nome di “vicolo Novo”.
Se quello illustrato ha tutti i caratteri di un progetto imprenditoriale ben
congegnato, l’edificazione parziale del suolo di proprietà poteva non avere fini speculativi ma derivare più semplicemente dal desiderio di valorizzare, con
un intorno più degno, sedi di rappresentanza o aristocratiche dimore. A mero
titolo di esempio, la creazione di “decenti piazze” in luogo di edifici di nessun
interesse per la proprietà, rispettivamente davanti al Palazzo Lancellotti in
Banchi 56 e al monastero di Santa Francesca Romana a Tor de Specchi 57, erano
operazioni mirate ad accrescere il prestigio e la funzionalità di un edificio
principale, mantenendo comunque la proprietà del suolo non edificato. In entrambi i casi si sarebbe resa necessaria una speciale deroga alla bolla gregoriana, onde ovviare all’obbligo di recintare o comunque delimitare in maniera
ben visibile il confine con la strada pubblica: per tali occasioni vennero posti
in opera, lungo il perimetro, “sassi piani di pietra” con impressa l’effigie del
proprietario. Un particolare curioso, oltre che chiarificatore dei complessi
meccanismi che regolavano da secoli la vita cittadina, è constatare come queste due piazze private verranno assimilate col tempo dalla struttura viaria pubblica, prendendo rispettivamente i nomi di piazza dei Matriciani e di Santa
Francesca Romana.
“Usque ad sidera, usque ad infera”: le istituzioni e il diritto di edificare
Uno degli elementi di valutazione più interessanti emersi dall’esame documentario fin qui proposto è il ridottissimo margine di manovra che le nor-
al presidente delle strade di concedere le opportune licenze gratuitamente, ovvero liberando la
Congregazione dall’onere di dovere corrispondere tasse di concessione e altri emolumenti
previsti per le pratiche amministrative (Ibidem).
55
L’ingente impegno economico del cantiere costringerà la Congregazione a sfrondare
dalle sue proprietà gli immobili “senza speranza di aumento di piggioni, qualora non se li fosse fatto mutar faccia con ampliatione, e superedificazione” e a contrarre importanti debiti. Ma
già nel 1764 i nuovi caseggiati sarebbero stati completamente affittati, con rendite aumentate
di oltre un terzo (ASR, Assegne dei beni, b. 68), cosa che avrebbe man mano contribuito all’ammortamento della cifra investita. Anche il programmato risanamento del quartiere avrebbe avuto buon esito, diventando un fattore incentivante e ad effetto emulativo per la riqualificazione dell’intera area (G. CURCIO, Casamenti di persone oneste, cit., p. 74).
56
Sulla vertenza in esame si veda: ASR, Presidenza delle strade, Memoriali, b. 200, n. 161;
ASR, Lettere patenti, b. 65, p. 41; ASR, Notai del Tribunale delle acque e strade, Istromenti, b.
152, pp. 618 sgg., pp. 651 sgg.
57
Sulla vertenza in esame si veda: ASR, Presidenza delle strade, Lettere patenti, b. 65, p. 20;
ASR, Notai del Tribunale delle acque e strade, Istromenti, b. 155, pp. 589 sgg.; ivi, pp. 651 sgg.
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 123
me di diritto pubblico in vigore nel XVIII secolo mostrano di avere per tutelare e nello stesso tempo limitare lo jus edificandi connaturato alla proprietà
edilizia. L’evoluzione del concetto di utilità pubblica verso un significato più
marcatamente sociale è un processo ancora lontano dall’essere avviato e che
nel secolo successivo dovrà subire una lunga e difficile gestazione, prima di
produrre i primi effetti sul tessuto edilizio capitolino. Sarebbe quindi vano
aspettarsi, almeno nell’epoca che stiamo considerando, qualsiasi norma di
carattere generale, capace di vincolare, per esempio, l’altezza dei nuovi fabbricati alle caratteristiche del sito, in quanto, fatte salve le norme di diritto
privato sulle distanze e le servitù tra vicinali, ovvero il corpo di “leggi, che
sparse si trovano nella giurisprudenza, e che hanno relazione con l’architettura civile” 58, il suolo di proprietà si considerava edificabile senza limitazioni, “usque ad sidera, usque ad infera”. Non di rado, però, le cause civili prefiguravano situazioni dove alla salvaguardia dei diritti individuali si sovrapponevano questioni di interesse collettivo che avevano come oggetto la “cattiva qualità dell’aria” oppure l’eccessivo addensamento edilizio. In quest’ottica l’arbitrato extragiudiziale esercitato dal pontefice travalicava i limiti di
una causa civile, coinvolgendo ambiti urbani anche molto vasti.
Le circostanze che vedono intervenire Alessandro VII nella lite tra i religiosi di San Carlo ai Catinari e le monache di Sant’Anna 59 ci portano indietro di diversi anni, ma concorrono a chiarire come, nonostante le lacune del
sistema legislativo, fossero avvertite e tenute in molta considerazione problematiche che oggi definiremmo di tutela ambientale. L’oggetto della lite
era il distacco tra un edificio preesistente e un edificio conventuale in via di
costruzione, che l’attore della causa denunciava essere troppo esiguo rispetto
alle altezze dei fabbricati in opera. Dopo aver bloccato per anni un cantiere
considerato molto importante, la vertenza venne portata al giudizio di una
speciale commissione tecnica nominata dal pontefice con l’incarico di accertare i fatti, eseguendo una serie di accurate misurazioni. Fatte le dovute verifiche e calcolate perfino le inclinate tra le linee di gronda, i periti avrebbero
concluso che il monastero “non riceve nocumento considerabile quanto al
corso de venti salutiferi”. Prendendo atto dei risultati della perizia, il papa
avrebbe comunque sollecitato i costruttori a scelte progettuali meno penalizzanti per le case circostanti. Alla composizione della vertenza in sede giurisprudenziale sarebbe seguita una regolare licenza dei maestri delle strade 60,
che avrebbe autorizzato l’occupazione del suolo pubblico per il cantiere e
Teoria e pratica, cit., p. 226.
Chirografo di Alessandro VII del 17 aprile 1660 (ASR, Disegni e piante, Collezione II, c.
84, n. 477).
60
ASR, Presidenza delle strade, Lettere patenti, reg. 45, pp. 144v-145r.
58
59
G. MASI,
124 Francesco Jamonte
contabilizzato l’area di sedime dei nuovi edifici, senza fare alcun riferimento
alla disposizione dei volumi fabbricabili.
In una cultura ancora incapace di determinare limiti di legge ai valori
della fabbricabilità territoriale e fondiaria per contenere l’addensamento
edilizio e il sovrappopolamento, ma pur sensibile a garantire la benefica
“azione del sole e dei venti salutiferi”, anche le caratteristiche di “panoramicità” potevano assumere, seppure eccezionalmente, aspetti di notevole
rilevanza. A tale proposito, le vicende che si verificano tra la fine del XVII e
l’inizio del XVIII secolo per l’area di Montecitorio rappresentano un modello di pianificazione edilizia tanto evoluto, quanto isolato nel contesto cittadino. I lineamenti della vicenda sono noti 61: le disposizioni varate tra il
1698 e il 1699 62 da Innocenzo XII per la nuova sede della Curia, che limitavano giudizialmente le altezze dei fabbricati circostanti, costituivano nel
cuore della città un regime di vigilanza sulle nuove edificazioni altrove improponibile, tanto è vero che, ancora nel 1700, questo sistema sarebbe stato
capace di bloccare la costruzione di una nuova chiesa sulla piazza perché
la sua presenza “haveria fatto danno al prospetto della Curia”. Attenta alla
tutela del decoro in una parte della città tanto rappresentativa, l’autorità
pontificia non avrebbe esitato, successivamente, a indirizzare le iniziative
edificatorie dei vicinali verso criteri di ornato desunti da un repertorio
internazionale di particolare pregio 63. Ottenuto dal papa il mandato speciale di vigilare sul rispetto delle misure di salvaguardia, il Tribunale delle
strade ebbe modo di esercitare quest’ufficio in più occasioni. Ancora nel
1735 sarebbe stato prescritto di uniformare l’altezza e la “qualità d’ornato
di fenestre, dadi e cornicione” di alcune case nella strada dell’Archetto a
61
Sull’argomento si veda in particolare: G. CURCIO, L’area di Montecitorio: la città pubblica e la città privata nella Roma della prima metà del Settecento, in L’architettura da Clemente XI a Benedetto IV, a cura di E. de Benedetti, Roma, Palombi, 1989, pp. 157-194.
62
Già con chirografo del 6 agosto 1698 Innocenzo XII aveva inteso “per ovviare e removere ogni pregiudizio che il Palazzo di Monte Citorio potesse mai ricevere, particolarmente
nell’impedirsegli le sue vedute, l’aria e venti salutiferi di Tramontana […] prohibire nell’adiacenza del medesimo palazzo e delle sue piazze, e strade circonvicine ogn’elevatione di fabrica, che gli diminuisse l’ornato, commodo e decoro” (G. CURCIO, L’area di Montecitorio, cit., p.
160). Successivamente venne stabilito che “tanto dalla parte dietro la Chiesa, e Monastero di
Campo Marzo quanto dall’altra verso il Duca di Poli, e di Palombara, e da qualsivoglia altra
parte […] non debbano, e possano verso il cielo accedere e superare la linea visuale che produce l’occhio di un uomo di giusta misura situato con i proprij piedi nelli ripiani delle quattro
fenestre del detto secondo piano […] e che detta visualità debba essere orizzontalmente livellare […] e liberamente dilatarsi nei contorni verso Prati, ne’ prospetti Vaticani, di Monte Mario, e Fortezza di Castel Sant’Angelo in modo che […] si possa commodamente scoprire il
cordone di travertino, che cinge il maschio della detta Fortezza” (ASR, Camerale I, Giustificazioni di Tesoreria, reg. 249).
63
G. CURCIO, L’area di Montecitorio, cit., p. 179.
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 125
quelle dei fabbricati circostanti: misura questa apparentemente logica, ma
che al tempo non derivava da alcuna norma di carattere generale.
Epilogo: l’istituzione del regolamento edilizio e di pubblico ornato
Il “caso” di Montecitorio, come in fondo l’insieme delle vicende fin qui
esaminate, contiene in embrione gli elementi caratterizzanti un dibattito tra
classe politica, imprenditori e tecnici che solo dopo molti anni troverà una
sua maturazione compiuta. Ancora all’inizio del XIX secolo il problema del
“decoro” e dello “ornato” cittadino restava una spina nel fianco delle istituzioni, a fronte di un livello qualitativo, estetico e costruttivo dell’edilizia privata sempre più scadente, caratterizzato dalla diffusione di costruzioni realizzate con pochi mezzi economici e di certi edifici, destinati alla emergente
classe borghese, contaminati dalle “bizzarrie inconcepibili” di una decorazione volgare e pretenziosa, estranea alla tradizione romana 64. A questi
problemi se ne aggiungevano altri ugualmente molto gravi, come il dilagare
delle sopraelevazioni, che oltre a mettere a repentaglio la staticità dei fabbricati, contribuiva a disperderne i valori estetici originali, con l’aggravante deprecabile di affidarne la progettazione a persone non qualificate 65.
Un primo passo concreto verso il cambiamento si deve ricercare negli
editti del 9 maggio e del 22 giugno 1826, attraverso i quali s’introduceva un
giudizio di merito sul disegno dei nuovi fabbricati “onde resti provveduto
non solo alla solidità, ma benanche all’ornato della città” 66. In forza di questi
provvedimenti, esenzioni fiscali erano concesse a quei proprietari che “per
edificar case di nuovo, o accrescere le già esistenti con ampliarne i piani, e
sovrapporne altri, o finalmente ridurli abitabili ove tali non siano”, sottoponevano un disegno dello “stato antico” e un disegno “di progetto” 67 all’approvazione di una commissione costituita da tre accademici di San Luca della classe d’architettura. Compito di tale commissione era quello di verificare
L’indole dell’architettura nel secolo XIX, Roma, Tip. Cam. Ap., 1834.
Nella prefazione della sua proposta per l’istituzione di una commissione d’ornato, l’architetto Giulio Camporese avrebbe denunciato come i progetti potevano essere elaborati perfino da capomastri “i quali senza dottrina, e senza disciplina, curandosi solo di soddisfare sollecitamente la volontà di colui che li comanda, non vigilati, non diretti, non danno alle opere né
centro, né compostezza” (F. GIOVANNETTI-S. PASQUALI, Ornato pubblico e rinnovo delle fabbriche, 1826-1870, in Roma Capitale, cit., pp. 56-85).
66
L. GALLO, L’edilizia cittadina romana e le ricerche d’archivio, «Ricerche di Storia dell’arte», 1978-1979, 7, pp. 82-83.
67
Il disegno poteva essere redatto da un architetto o anche da un semplice capo mastro
muratore. La presentazione dei disegni di progetto era disciplinata dall’articolo terzo dell’editto del 9 maggio e dall’articolo primo di quello del 22 giugno (ASR, Prefettura generale acque e strade, b. 43, c. 117).
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65
G. SERVI,
126 Francesco Jamonte
che il fabbricato fosse progettato secondo “la necessaria solidità e, nelle forme, tutta quella purezza di stile, di cui l’edifizio è capace”: solo dopo avere
ottenuto questo benestare il proprietario poteva avanzare l’istanza di esenzione dalla tassa al presidente delle strade 68. Veniva a cadere il primo baluardo
del vecchio sistema, consistente nel legare il permesso di costruzione a una
semplice determinazione dei fili stradali, astenendosi da qualsiasi valutazione strutturale ed estetica sul fabbricato in progetto. E con esso cadeva anche
quella bizzarra logica “bidimensionale” che aveva caratterizzato per tanto
tempo i disegni allegati alle patenti: questo permetteva finalmente di “vedere” il progetto degli alzati, mettendo a confronto diretto il vecchio con il
nuovo, allo scopo di valutarne la conformità estetica e strutturale.
Pur abbattendo alcuni di quegli ostacoli che per tanto tempo avevano impedito di vigilare con maggiore severità sull’attività edilizia dei cittadini, la
nuova normativa non soddisfaceva appieno le proposte di coloro che ne erano stati i promotori, primo fra tutti l’accademico Giulio Camporese. Già nel
1825 questi aveva elaborato una proposta per regolamentare le materie di
“decoro” e di “ornato” nell’Urbe 69, che aveva come primo fondamento la
creazione di una commissione di architetti articolata in due sezioni: la prima
demandata “al conservamento, pulizia, riparazione, decenza, sicurezza delle
fabbriche esistenti”, l’altra a vigilare “sulle opere nuove”, in modo che
“chiunque vuol fabbricare, operare dei cangiamenti, innalzare, demolire, deve presentare il suo progetto alla Commissione, la quale esaminandolo, lo
approva, lo riforma secondo che può offendere il decoro della città […] o
arrecare danni in avvenire”. Le due commissioni riunite avrebbero dovuto
anche predisporre “progetti annuali di miglioramento per il fabbricato interno alla città, cominciando dalla riforma e abolizione di ciò che può offendere
il decoro pubblico”. Mentre l’attività del primo organismo poteva ricondursi
a quella esercitata in passato dagli uffici camerali, quella del secondo era un
modello, almeno per Roma, totalmente nuovo, che si ispirava alle Commissions des Embellissements napoleoniche e a quelle “Commissioni di ornato
pubblico” che già erano attive in alcune parti d’Italia 70. Se la pubblicazione
68
Le istanze vennero inoltrate alla Presidenza delle strade fino al 1833 (ASR, Presidenza
delle strade, Vie urbane 1822-1833, regg. 128-182), poi alla Prefettura generale di acque e
strade, che ne ereditò per un certo periodo le funzioni (ASR, ivi, sez. 2, tit. b. Fabbriche urbane,
bb. 42-46). Dopo il 1847, con il trasferimento delle competenze agli organi amministrativi
municipali, ricettore istituzionale delle domande divenne il senatore di Roma.
69
ASR, Camerlengato II, IV, b. 168/440, pos. 1.
70
Durante l’occupazione francese non vennero mai istituite delle commissioni d’ornato a
Roma, al contrario di altre città dell’Italia settentrionale, tra le quali Milano (G. ROMANELLI, La
Commissione d’Ornato: da Napoleone al Lombardo veneto, in Le macchine imperfette. Architettura, programma, istituzioni nel XIX secolo, Roma, Morachiello Teyssot, 1980, pp. 129-145).
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 127
dei due editti del 1826 sembrava per il momento vanificare gli effetti del vivace dibattito seguito alla proposta di Camporese, nuove voci, e tra queste
quelle di personalità quali Giuseppe Valadier 71 e Antonio Sarti 72, si sarebbero
unite alle altre per spingere le istituzioni verso riforme più decise. Sarebbe
stato però necessario attendere il 1847 perché, con il trasferimento di competenze dalla Prefettura generale delle acque e strade 73 al senatore di Roma, si
creassero i presupposti per una nuova svolta. A fronte di una situazione in
costante degenerazione 74, tra enormi difficoltà e dopo tanti progetti destinati
a rimanere irrealizzati, il 30 aprile 1864 venne finalmente alla luce il Regolamento edilizio e di pubblico ornato per la città di Roma 75.
“Antiche istituzioni” ed “invenzioni poi nuove”: questa era la miscela di
sempre, questa ancora la soluzione proposta dal legislatore. Dal punto di vista
istituzionale, il primo elemento di novità era costituito dalla creazione di una
“Deputazione speciale edilizia” 76 investita da compiti consultivi in materia di
71
Sul modello delle leggi francesi, Valadier proponeva che ogni proprietario “che voglia fabbricare, rimodernare, ampliare, demolire e fare nuovi prospetti” venisse obbligato a presentare i
relativi disegni al giudizio della Commissione generale di Antichità e Belle arti (F. GIOVANNETTIS. PASQUALI, Ornato pubblico, cit., pp. 62-63). La commissione doveva anche essere delegata al
compito di “progettare un Piano generale della sistemazione delle strade interne della Città, per
allinearle, allargarle ove meritano, e dove, senza sognare, possa con facilità eseguirsi” (ASR, Camerlengato II, b. 168/440, pos. 22).
72
Famoso è l’atteggiamento polemico assunto da questo architetto nel 1828, quando fece approvare dai tre accademici incaricati i disegni dei prospetti di Palazzo Lozzano, aggiungendo
agli elaborati prescritti, che rappresentavano lo stato antico e di progetto, una tavola supplementare contenente la descrizione delle mostre alle finestre e del cornicione. Con questa iniziativa
personale, s’intendeva esprimere il proprio dissenso professionale verso coloro che demandavano ai capomastri la definizione dei paramenti ornamentali (F. GIOVANNETTI-S. PASQUALI, Ornato
pubblico, cit., p. 70).
73
La Prefettura generale delle acque e strade assunse, nel periodo tra il 1833 e il 1847, le
funzioni che erano state dell’antica Presidenza delle strade (F. GIOVANNETTI-S. PASQUALI, Ornato
pubblico, cit., p. 58).
74
D. TAMBLÉ, Un regolamento di polizia edilizia per la pubblica sicurezza a Roma nel 1847.
Gaspare Servi architetto della Direzione di polizia, «Storia dell’urbanistica», 1995, pp. 73-80).
75
Regolamento edilizio e di pubblico ornato per la città di Roma, approvato da Pio IX il 30
aprile 1864. Il Regolamento si articolava in dieci titoli: Titolo I: Della Deputazione speciale edilizia; Titolo II: Della costruzione e ripartizione delle fabbriche; Titolo III: Della numerazione civica, e delle iscrizioni e pitture sulle case e porte esterne; Titolo IV: Delle discipline relative alle
strade e piazze, e alla sicurezza e comodità di transito; Titolo V: Delle discipline relative all’incolumità ed al comodo degli abitanti; Titolo VI: Dei pubblici giardini e passeggi; Titolo VII: Della
nettezza pubblica; Titolo VIII: Delle latrine; Titolo IX: Della competenza, della procedura, e delle
multe; Titolo X: Disposizioni transitorie (G.B. FLORIO, Raccolta, cit., pp. 6 sgg.).
76
La Deputazione speciale edilizia era composta di sei membri, oltre il senatore di Roma,
che aveva funzione di presidente, il segretario comunale e l’ingegnere capo del Municipio. I
componenti della commissione erano eletti dal Consiglio comunale tra i propri membri e tra “intelligenti e zelanti cittadini che non facciano parte del Consiglio, avendo però in vista quelli che
sono abilitati all’esercizio delle professioni, sia d’ingegnere civile, sia di architetto” (G.B. FLORIO,
Raccolta, p. 6, cit.).
128 Francesco Jamonte
concessioni, a sostegno degli uffici tecnici comunali. Fermo restando che a questi ultimi competeva rilasciare “permessi di costruzione e riparazione di fabbriche” e al Consiglio comunale autorizzare la concessione di aree pubbliche, la
Deputazione era investita dell’onere di indicare “quelle modificazioni e discipline che stimerà conducenti allo scopo della pubblica utilità e dell’ornato”. Individuando gli strumenti operativi per assolvere a queste funzioni, il Regolamento
riconosceva nella raccolta di elementi conoscitivi e nella pianificazione delle
trasformazioni edilizie su scala urbana le priorità assolute da attribuire al programma. Se infatti, tra i vincoli imposti ai proprietari in occasione di nuove edificazioni, continuava a mantenersi “l’obbligo di avanzare o ritirare i muri sulla
linea disegnata nella pianta topografica”, secondo il logoro stereotipo della concessio fili, qualsiasi intervento doveva essere ora registrato in una “pianta topografica di generale sistemazione delle strade e piazze” 77. Questo elaborato, che
doveva essere approntato dalla Deputazione entro il 1866 78, si sarebbe dovuto
evolvere in una “carta generale dei fili”, ovvero in uno strumento di pianificazione degli allineamenti stradali esteso all’intero territorio urbano, cui ogni progetto presentato all’amministrazione municipale era tenuto a uniformarsi. Ciò
che per secoli era stato lasciato al giudizio non sempre lungimirante dei magistrati edilizi e, soprattutto, quello che era sempre stato considerato per ambiti
urbani estremamente circoscritti, diventava materia da inquadrare in un contesto
generale finalmente obiettivo. Per la prima volta, in luogo del frammentario
collage di piante dei fili, si parlava di un loro quadro sinottico generale, su cui
registrare le modificazioni addotte man mano sul tessuto urbano, dando così
agio alle autorità competenti di valutare le conseguenze di ogni intervento, dall’apertura o chiusura di un’arteria viaria al suo semplice ridimensionamento.
Delegando al giudizio della Deputazione le discipline “della pubblica utilità
e dell’ornato” del singolo edificio, il Regolamento non tralasciava di dettare
delle regole generali per il decoro delle “fabbriche esistenti” e dei “muri di cinta” che presentavano “un aspetto non conveniente al decoro della città”, prescrivendo per essi “il restauro degli intonachi, la nuova imbiancatura, o altri miglioramenti, avuto riguardo all’entità e al pregio degli edifizi e delle contrade” 79.
G.B. FLORIO, Raccolta, cit., p. 8.
Non è dato sapere con certezza se questo elaborato sia mai stato realizzato. C’è chi ipotizza
(F. GIOVANNETTI-S. PASQUALI, Ornato pubblico, cit., p. 78) che alcuni disegni rinvenuti tra le licenze edilizie rilasciate in quegli anni siano degli estratti di una mappa con queste caratteristiche.
79
Queste disposizioni, contenute nell’art. 24 del Regolamento, furono oggetto di furiose
polemiche tra chi, non limitandosi al mero rifacimento di intonaci o imbiancature esistenti,
ampliava l’uso del pennello anche ai bugnati, pietre da taglio, rivestimenti a cortina e chi viceversa predicava la semplice pulizia delle murature con “[…] stracci imbevuti di soluzioni acidule” (E. PALLOTTINO, Tutela e restauro delle Fabbriche. I regolamenti edilizi a Roma dal
1864 al 1920, in Roma Capitale, cit., p. 87).
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78
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 129
Anche questa era una disposizione che non aveva riscontri nel passato e che
avrebbe pesato in maniera non indifferente sull’immagine cittadina. Sempre a
tutela di un generale stato di decoro, anche la rimozione dai prospetti delle case di tutto quel sottobosco di “sporti dei veroni […], ringhiere […], banchine
[…], inferriate nei piani terreni […], esterni gradini e cordonate […], banchi
esterni di pietra o di muro […], abbaini delle cantine” 80 e archi di comunicazione tra le fabbriche 81 acquistava un profilo diverso. In passato, nell’impossibilità di impedirne la diffusione selvaggia si era arrivati a tollerarli, perfino a
legalizzarli: ora questo vociante e precario mondo si avviava a scomparire definitivamente dalla città.
Nel suo complesso, il Regolamento istituiva una serie di provvedimenti
che contribuivano ad amplificare la capacità impositiva delle pubbliche autorità e a scardinare molte di quelle barriere giurisdizionali che in passato
avevano protetto oltre ogni logica e buon senso lo jus edificandi della proprietà privata. In particolare, gli uffici tecnici venivano finalmente investiti
della responsabilità di verificare la solidità strutturale dell’edificio e il rispetto delle norme igieniche 82, dai sistemi per lo smaltimento delle acque
bianche e nere 83 agli impianti sanitari 84. La mutazione dei rapporti tra cittadino e autorità costituita era la premessa per una vigilanza sempre più pressante sull’attività edilizia, ponendo i proprietari nella condizione di dover
soggiacere a precise regole comportamentali anche “dentro” le loro case, ovvero in quel mondo, finora seminascosto, che però costituiva la naturale
proiezione della vita collettiva.
Un problema rimaneva insoluto ed era quello di regolamentare le altezze
dei fabbricati secondo una regola razionale, applicabile in maniera sistematica sul territorio e con discriminanti che non fossero quelle forzatamente selettive adottate, quasi due secoli prima, per la Curia innocenziana.
Regolamento edilizio e di pubblico ornato, art. XIV (G.B. FLORIO, Raccolta, cit., p. 8).
Ivi, p. 9.
82
“Le fabbriche nuove non potranno essere abitate, e quelle in cui siensi eseguiti restauri o
ampliazioni non potranno di nuovo abitarsi, se i proprietari non ne avranno ottenuto l’assenso
della Magistratura; dalla quale verrà accordato solo quando la deputazione speciale edilizia,
con l’intervento dei periti, anche sanitari, avrà verificato il perfetto asciugamento dei muri, e
la stabilità e la salubrità dell’edifizio” (ivi, p. 10).
83
“Sono obbligati i proprietari delle fabbriche a raccogliere entro canali orizzontali le acque delle gronde dei tetti, a farle discendere rinchiuse in tubi verticali al piano della strada, e,
dove esistono pubbliche cloache, ad immettervele a proprie spese col mezzo di chiavichette”
(ivi, p. 9).
84
A questo argomento, che per la prima volta veniva affrontato dalla normativa edilizia, il
Regolamento dedicava l’intero Titolo VII, nel quale venivano resi obbligatori ai proprietari la
realizzazione “di appartati e ben conformati cessi ed acquai, per mezzo dei quali abbiano libero scolo nei sotterranei e nelle pubbliche cloache le materie immonde […]”, lo “spurgo regolare delle latrine” e quello “dei bracci d’immissione nelle pubbliche cloache” (ivi, pp. 12-15).
80
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130 Francesco Jamonte
La nuova normativa, solo annunciata dall’articolo 13 del Regolamento, si sarebbe concretizzata, il 15 dicembre 1866, nel “Regolamento sull’altezza delle fabbriche” 85. In questo documento veniva definito “il massimo limite di
elevazione delle fronti delle fabbriche di privata proprietà sul piano delle
strade o piazze all’interno di Roma” comparandolo alla larghezza delle strade 86. Lasciando ovvi margini discrezionali per “edifizi di scopo grandioso, e
di carattere monumentale” 87, il decreto fissava delle norme di tutela
fondamentali sull’esistente, prima fra tutte il divieto di costruire “piani o attici nelle fabbriche di classici autori, e in palazzi e nelle case, che pel carattere
e stile che le distingue, meritino per la storia dell’arte di essere conservate
nelle loro integrità” 88.
Costruito dopo tante vicissitudini e al prezzo di una gestazione tanto faticosa, il nuovo tessuto normativo avrebbe avuto comunque breve vita. Il 30
settembre 1870, dieci giorni dopo la breccia di Porta Pia, la giunta provvisoria insediata dal generale Cadorna avrebbe approvato l’istituzione di
“una commissione di architetti e ingegneri che si occupi di progetti per l’ampliazione ed abbellimento della Città” 89. Ma questa è già un’altra storia.
Regolamento sull’altezza delle fabbriche e sull’ampiezza de’ cortili nell’interno della
città di Roma, approvato da Pio IX il 21 novembre e varato dal Campidoglio il 15 dicembre
1866 (ivi, pp. 26-28).
86
Ibidem.
87
“Ove trattasi di edifizi di scopo grandioso, e di carattere monumentale da erigersi nelle
grandi piazze, sarà facoltà della magistratura proporre e del pubblico Consiglio di concedere il
permesso di maggiore elevazione” (G.B. FLORIO, Raccolta, cit., p. 27).
88
Ibidem.
89
I. INSOLERA, Roma moderna, cit., p. 20.
85
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 131
Figura 1. La logica dei nuovi allineamenti stradali nel confronto tra piante dei fili
contigue (ASR, Presidenza delle Strade, Memoriali, reg. 202, n. 175; ibidem, n. 189).
132 Francesco Jamonte
Figura 2. Chirografo di Benedetto XVI del 18 febbraio 1744 in favore della Chiesa
Collegiata dei Santi Celso e Giuliano (ASR, Disegni e piante, Collezione II, c. 80, n. 74).
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 133
Figura 3. Chirografo di Benedetto XIV del 6 aprile 1743 per la piazza della Chiesa
Nuova (ASR, Disegni e piante, Collezione I, c. 81, n. 289).
134 Francesco Jamonte
Figura 4. Progetto per l’apertura del vicolo Nuovo, nella contrada di Schiavonia
(ASR, Disegni e piante, Collezione I, c. 80, n. 260).
Annotazioni per una storia dell’ornato edilizio urbano a Roma 135
Figura 5. Chirografo di Alessandro VII del 17 aprile 1660 per il convento di San
Carlo ai Catinari (ASR, Disegni e piante, Collezione II, c. 84, n. 477).
136 Francesco Jamonte
Figura 6. Edilizia circostante la Curia Innocenziana (ASR, Ospizio di San Michele, c.
371, n. 31).