Dalla Terra alla Luna - Istituto di Istruzione Superiore "Aldo Moro"

Transcript

Dalla Terra alla Luna - Istituto di Istruzione Superiore "Aldo Moro"
ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE
ALDO MORO
Liceo Scientifico
Istituto Tecnico
Via Gallo Pecca n. 4/6 - 10086 Rivarolo Canavese
Tel 0124 454511 - Cod. Fiscale 85502120018
E-mail: [email protected] Url: www.istitutomoro.it
ANNO SCOLASTICO 2015/2016
ESAME DI STATO
Andrea Dorin
Classe 5^C
Sezione Scientifica
Dalla Terra alla Luna
Una storia di uomini, scienza e ingegneria
L’astronauta Buzz Aldrin sul suolo lunare
Introduzione/riassunto
Questo lavoro è nato dal personale desiderio di approfondire la storia di un’avventura che mi ha
sempre profondamente affascinato: lo sbarco sulla Luna del 20 luglio 1969.
L’argomento da trattare è molto ampio, per cui, dopo un riassunto riguardante il contesto storico, le
vicissitudini e le personalità (solo alcune tra le tante) che hanno contribuito all’impresa, mi soffermerò
con più attenzione sull’esperienza stessa della missione, sul successo ingegneristico che l’ha
permessa e sugli aspetti scientifici più importanti.
La storia di questa impresa umana affonda le sue radici nell’immaginario degli uomini, che nei secoli
hanno sempre cercato di superare i propri limiti e le frontiere naturali che sbarravano loro la strada.
Alcuni lo hanno fatto realmente, come Cristoforo Colombo, altri si sono limitati a usare
l’immaginazione, come Jules Verne nei suoi libri, tra i quali il celebre “Dalla Terra alla Luna”, un titolo
divenuto best seller e che io, come omaggio, ho preso a prestito per nominare questa piccola opera.
Introduction/abstract
This work has its source in my personal desire to study in detail the story of an adventure that has
ever fascinated me deeply: the landing on the Moon in July 20 th 1969.
The topic is really broad, therefore after a brief overview about the historical contest, the events and
people (only some of the many) who contributed to the achievement, I focus my attention on the
mission, the engineering success and the more important scientific aspects.
The history of that venture originates from the imagination of men, who over the centuries have
always tried to overcome their limits and the natural borders that hindered their walk. While some
people have really overcome their limits, like Cristoforo Colombo, other people have used the
imagination, like Jules Verne did in his famous novel “From the Earth to the Moon”, a title which
became a bestseller. I have borrowed this title as a tribute to him to title my humble school work.
La Luna/The Moon
1
IlSaturn
razzo V,
Saturno
il razzoVche portò l'uomo sulla Luna
CAPITOLO 1
La storia che portò ad un’impresa straordinaria
1.1 Situazione storica
Gli anni della corsa alla Luna si inseriscono nel più vasto contesto storico della Guerra Fredda (19451991), uno scenario nel quale il blocco dei paesi occidentali, capeggiati dagli Stati Uniti, si confrontò
a livello politico, economico e ideologico con il rivale blocco comunista, guidato dall’ Unione
Sovietica.
In una tale situazione divenne un passo inevitabile la sfida anche sul piano tecnologico tra le due
fazioni contendenti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra i settori tecnologici più all’avanguardia
spiccava quello aereonautico, con lo sviluppo (principalmente in Germania) dei motori a reazione e
dei missili teleguidati, capaci di trasportare bombe a centinaia di chilometri dal luogo di partenza.
Queste tecnologie avevano ovviamente attirato l’attenzione dei governi dei paesi vincitori, che presto
si organizzarono per sfruttarle in ambito bellico e civile. Durante gli anni ‘50 si susseguirono
esperimenti sia in USA che in URSS con i razzi V2, i primi veri missili della storia, sviluppati
dall’ingegnere tedesco Wernher von Braun durante la guerra. Il missile era il primo strumento
concepito dall’uomo capace di valicare la soglia della troposfera per spingersi oltre i confini della
Terra, là dove nessuno si era mai potuto avventurare. Con il nobile obiettivo dell’esplorazione e della
ricerca scientifica il 2 aprile 1958 (quando peraltro la corsa all’esplorazione spaziale era già iniziata)
il presidente americano D. Eisenhower trasformò la NACA (un ente pubblico fondato nel 1915 per
promuovere la ricerca aereonautica) in NASA (National Aeronautics and Space Administration).
Il 4 ottobre 1957 segnò l’inizio ufficiale della corsa allo spazio, con il lancio da parte dei sovietici dello
Sputnik 1, il primo satellite artificiale in orbita intorno alla Terra. L’evento suscitò subito grande
apprensione negli Stati Uniti, la cui classe politica temette la crescita di prestigio dell’URSS agli occhi
del mondo e il sopravanzamento tecnologico sovietico sugli americani. Da questo momento vi fu un
susseguirsi di imprese da ambo le parti per aggiudicarsi il primato nella tecnologia spaziale: il lancio
dello sputnik 2 con a bordo la cagnolina Laika (3 novembre 1957), primo essere vivente ad essere
entrato in orbita intorno al nostro pianeta; il lancio dell’ Explorer 1(31 gennaio 1958),il primo satellite
americano progettato sotto la supervisione di James Van Allen, il fisico che scoprì grazie a tale
2
missione le fasce ricche di particelle cariche che circondano la Terra e che da lui prendono il nome;
il volo suborbitale del primate Gordo, primo animale lanciato nello spazio dagli Stati Uniti (13
dicembre 1958); il lancio del Project SCORE americano (18 dicembre 1958), il primo satellite per le
telecomunicazioni; ecc.
Questi e altri successi spianarono la strada al lancio del primo uomo nello spazio: il 12 aprile 1961
il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin divenne il primo essere umano ad abbandonare l’atmosfera
terrestre e ad orbitare intorno alla Terra per 88 minuti, godendo di un panorama precluso da sempre
all’umanità intera; divenne storica la sua frase: “Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né
confini”.
Il volo di Gagarin fu un evento epocale e ancora una volta i sovietici sorpresero gli americani nella
competizione per lo spazio. Gli Stati Uniti risposero meno di un mese dopo all’impresa russa: il 5
maggio 1961 l’astronauta Alan Shepard, alloggiato nella capsula Freedom 7 (missione Mercury 3),
riuscì a compiere un volo suborbitale raggiungendo un’altezza si 186 km, senza avere la velocità
sufficiente per entrare in orbita. Il volo durò 15 minuti e rispetto alla missione di Gagarin fu
tecnologicamente meno significativa, ma con il superamento dei 100 km d’altezza dal suolo (il
confine tra il cielo e lo spazio) rappresentò per la NASA l’inizio dei voli umani nello spazio.
La sera stessa del lancio, il presidente degli Stati Uniti J.F. Kennedy ricevette dallo Space Task
Group, un comitato destinato allo studio dei programmi spaziali, un documento che descriveva le
linee guida di una missione umana sulla Luna. Tre settimane dopo, il 25 maggio 1961, in una famosa
conferenza stampa a Washington, il giovane presidente annunciò alla nazione l’inizio del programma
spaziale Apollo:
“ …I believe that this nation should commit itself to achieving the goal, before this decade is out, of
landing a man on the Moon and returning him safely to the Earth. No single space project in this
period will be more impressive to mankind, or more important in the long-range exploration of
space; and none will be so difficult or expensive to accomplish…”
“ …credo che questo paese debba impegnarsi a realizzare l'obiettivo, prima che finisca questo
decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra. Non ci sarà
in questo periodo nessun progetto spaziale più impressionante per l'umanità, o più importante
nell'esplorazione a lungo raggio dello spazio; e nessuno sarà così difficile e costoso da
realizzare…”
J.F. Kennedy
E pochi mesi dopo, il 12 settembre 1961, in un altro importante discorso, affermò:
“We choose to go to the Moon! ... We choose to go to the Moon in this decade and do the other
things, not because they are easy, but because they are hard; because that goal will serve to
organize and measure the best of our energies and skills, because that challenge is one that we
are willing to accept, one we are unwilling to postpone, and one we intend to win ...”
“Abbiamo scelto di andare sulla Luna!... Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio e
fare le altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili; perché questo obiettivo servirà
per organizzare e misurare il meglio delle nostre energie e competenze, perché questa è la sfida
che siamo disposti ad accettare, quello che non siamo disposti a rimandare, l'obiettivo che
abbiamo intenzione di vincere...”
J.F. Kennedy
3
Kennedy sapeva che stava chiedendo al Congresso americano (la camera dei rappresentanti
politici) e al suo popolo uno stanziamento di fondi colossale per il programma spaziale (che
raggiunse nel giro di dieci anni la cifra di 25 miliardi di dollari), ma ormai la strada era aperta e la
meta delineata.
1.2 Le prime missioni nello spazio: il programma Mercury
Il primo programma americano di esplorazione spaziale con equipaggio umano fu il progetto Mercury
(dal nome del dio greco-romano del commercio e dei viaggi). Il programma venne lanciato il 26
novembre 1958 e aveva come obiettivo immettere in volo suborbitale e orbitale dei satelliti e
successivamente una capsula con all’interno un pilota. L’organizzazione del programma prevedeva
che la NASA avrebbe gestito la realizzazione delle navicelle, delle strutture di volo e di rientro, oltre
a provvedere all’addestramento degli astronauti; i lanci sarebbero stati effettuati da Cape Canaveral
in Florida presso il J.F. Kennedy Space Center (nominato così dopo la morte del presidente
Kennedy) con un razzo Redstone dell’esercito e il suo derivato Atlas, mentre la U.S. Navy si sarebbe
occupata di recuperare la capsula ammarata nell’oceano dopo il rientro dallo spazio. Nel 1961 i primi
sette astronauti (“i Magnifici Sette”), vestiti con attillate tute spaziali argentate, vennero
scenograficamente presentati alla stampa; essi erano tutti piloti collaudatori d’élite provenienti dai
ranghi della U.S. Air Force. In totale furono eseguite 26 missioni, tre lanci fallirono e in 4 casi vi fu
un successo solo parziale della missione; il programma (che si concluse il 12 giugno 1963) riuscì a
portare in orbita i primi satelliti americani, permise ad Alan Shepard di raggiungere lo spazio e a
John Glenn di essere il primo americano a rimanere in orbita intorno alla Terra.
“I Magnifici Sette”
Il razzo Redstone
1.3 I primi vettori
Il razzo Redstone fu il primo missile balistico americano e venne adottato dalla NASA come primo
vettore per i propri esperimenti. Il missile è un proiettile a propulsione autonoma, autoguidato o
4
teleguidato, capace di percorrere una traiettoria; tale apparecchio è dotato di una propulsione a
razzo (endoreattore [1]) e può avere uno o più stadi, ovvero una o più riserve di combustibile con
relativi motori annessi. Si definisce missile balistico un missile a medio-lungo raggio che percorre la
maggior parte della sua traiettoria seguendo le leggi della balistica, cioè in assenza di propulsione e
senza la possibilità di continue manovre correttive della rotta preimpostata.
Il Redstone fu sviluppato per conto dell’ U.S. Army sotto la supervisione di Wernher von Braun,
inventore del razzo V2; il missile americano fu concepito a partire dai progetti del V2 e il suo scopo
era quello di trasportare su un obiettivo una testata esplosiva (generalmente nucleare). Esso venne
lanciato per la prima volta il 20 agosto 1953: aveva una lunghezza di 21,03 metri, un diametro
massimo di 1,78 metri e sviluppava una spinta di 34 000 kgf (= 333 540 N).
Da questo razzo ne derivarono molti altri, tra i quali lo SM-65 Atlas, che fu utilizzato in ambito
spaziale per la prima volta con il lancio del Project SCORE, il primo satellite per le telecomunicazioni.
Esso, nelle prime versioni, aveva una lunghezza di 22,9 metri, un diametro di 3,05 metri e sviluppava
una spinta di 158 757 kgf (= 1 557 406 N).
La capsula progettata per le missioni Mercury era decisamente piccola (tanto che i primi astronauti
che vi entrarono furono soprannominati “carne in scatola”) poiché aveva dimensioni e pesi molto
contenuti in funzione dei vettori usati (ancora relativamente piccoli rispetto a quelli successivi):
altezza 3,51 metri, diametro 1,89 metri, volume 1,7 m³. Essa disponeva di un computer di bordo, ma
era gestita completamente dal centro di controllo a terra.
[1] Il funzionamento in linea generale dell’endoreattore verrà affrontato nel capitolo sul Saturno V.
1.4 Lo studio su come raggiungere la Luna
Lo studio sul modo di inviare un equipaggio umano sulla Luna fu svolto dallo Space Task Group, in
collaborazione con altri ingegneri e tecnici della NASA; l’idea cardine era quella di inviare un
equipaggio di tre uomini alloggiati in una capsula sufficientemente grande da permettere loro di
muoversi senza tute e di poter sopravvivere per almeno due settimane. La navicella doveva essere
dotata di strumenti per volare nello spazio anche senza dipendere dal centro di controllo a terra, e
doveva potersi posare sulla Luna e ripartire. Si procedette a perfezionare un progetto modulare:
l’equipaggio avrebbe viaggiato in un modulo di comando (CM, Command Module), l’unica parte a
tronco di cono che sarebbe rientrata sulla Terra; i motori, le riserve di ossigeno e le altre servitù
sarebbero state collocate nel modulo di servizio (SM, Service Module) da sganciare prima del rientro
a terra. Si pose fin da subito il problema del lancio, a proposito della scelta del lanciatore e dello
svolgimento della missione; alcuni proposero di lanciare diverse sezioni del veicolo per farle poi
congiungere con un appuntamento in orbita terrestre (EOR, Earth Orbit Rendezvous) prima di
proseguire il viaggio verso la Luna. L’altra idea era quella di realizzare un volo diretto Terra-Luna,
5
senza appuntamenti orbitali; quest’ultimo piano richiedeva però la disponibilità di un vettore enorme
e potente, dalle dimensioni sproporzionate rispetto alla minuscola capsula Apollo.
Nel maggio 1961 Jim Webb, amministratore della NASA, presentò il progetto di questo razzo lunare
denominato ‘’Nova’’: 110 metri d’altezza, 15 metri di diametro, una capacità di carico di 180
tonnellate e la possibilità di sviluppare una spinta di 5 milioni di kgf (circa 49 milioni di Newton);
questo razzo avrebbe avuto delle caratteristiche nettamente superiori a qualunque altro vettore mai
costruito (se si pensa che nel 1961 il lanciatore più potente era l’Atlas), ma successivamente venne
realizzata una sua versione ridotta: il Saturno V.
L’uomo che permise di risolvere il dilemma su come effettuare il viaggio fu John Houbolt, un
ingegnere della NASA a capo della divisione di meccanica teorica di Langley, in Virginia. Egli
sviluppò la tecnica del congiungimento lunare, il Lunar Orbit Rendezvous (LOR): nel modulo di
comando (CM) avrebbero viaggiato gli astronauti, nel modulo di sevizio (SM) sarebbero stati
alloggiati i motori e i servizi, mentre un modulo lunare (LEM, Lunar Exploration Module) sarebbe
servito per scendere sulla Luna. Tutti insieme sarebbero stati lanciati in orbita terrestre da un unico
razzo e, da lì, il motore del terzo stadio si sarebbe acceso una seconda volta e li avrebbe spinti verso
la Luna; poi esso si sarebbe sganciato appena il ‘’treno spaziale’’ fosse entrato in orbita lunare.
Successivamente due dei tre astronauti sarebbero passati dal CM al LEM e si sarebbero sganciati
per scendere sulla superficie lunare, mentre il terzo sarebbe rimasto in orbita nel CM; dopo la
permanenza sulla Luna, i due sarebbero risaliti sul LEM e solo una parte di esso (il modulo abitato,
senza il motore principale e le zampe d’atterraggio) sarebbe risalita in orbita per ricongiungersi al
CM. Quindi, sganciato il LEM, la navicella avrebbe acceso il motore SPS (quello del modulo di
servizio) per tornare sulla Terra; prima del rientro in atmosfera il CM avrebbe sganciato il SM e poi
sarebbe ammarato nell’oceano.
Questo piano risultò essere la soluzione ottimale, poiché permetteva di alleggerire il più possibile il
carico utile e di utilizzare un lanciatore grande metà del Nova, di risparmiare sulla protezione termica
(che sarebbe stata applicata solo al modulo destinato al rientro) e di costruire un LEM ottimizzato
per il volo lunare, senza bisogno di particolari protezioni (dato che la Luna è priva di atmosfera).
1.5 Il programma Gemini
Dopo il discorso nel quale Kennedy aveva annunciato alla nazione il programma lunare (25 maggio
1961), alla NASA ci si rese conto che erano necessari progetti ben più ambiziosi del Mercury per
portare l’uomo sulla Luna: furono così avviati i programmi Apollo e Gemini.
Con l’inizio di questi due nuovi programmi si rese necessaria l’assunzione di nuovi astronauti; così
vennero indetti due nuovi bandi nel 1962-1963 e furono selezionati 23 nuovi candidati (9+14), tra i
quali i futuri uomini del primo sbarco sulla Luna: Neil Armstrong, Edwin “Buzz” Aldrin e Michael Collins.
Gemini (ovvero gemelli, con riferimento alla costellazione e al fatto che la navicella ospitava due
astronauti), benché fosse stato avviato successivamente rispetto al programma Apollo, fu concepito
con lo scopo di sviluppare le tecniche e le tecnologie necessarie ai viaggi spaziali avanzati,
impiegate poi nell’altro programma. Le capsule costruite per questo programma erano esternamente
simili alle Mercury, ma lo spazio interno era superiore del 50 % per poter ospitare due astronauti e
permettere loro di aprire in volo il portello per uscire nello spazio. Alla costruzione di questa capsula
contribuì particolarmente l’astronauta Gus Grissom (tanto che gli altri astronauti chiamarono la
Gemini “Gusmobile”), il quale, al rientro dal suo volo nello spazio con la Mercury alla fine del luglio
1961, aveva rischiato la vita per l’apertura errata e prematura del portellone dopo l’ammaraggio
nell’oceano. Egli si sentiva probabilmente responsabile per l’incidente, anche se rifiutava
categoricamente le critiche di chi, nella NASA, pensava fosse stato lui ad aprire in modo maldestro
il portellone, provocando l’affondamento della navicella. A causa di questo evento il progetto del
portello venne migliorato in modo che potesse aprirsi in pochi millisecondi in caso di emergenza.
L’interno dell’astronave, come già detto, fu ampliato e reso un po’ più adatto alla conformazione
fisica degli astronauti, anche se aumentò considerevolmente il numero degli interruttori e delle spie
6
(circa 220), posizionate praticamente ovunque (anche alle spalle dei piloti, che potevano azionarle
osservandole con degli specchietti retrovisori). Nel frattempo (nel periodo che va dal 1958 al 1963)
erano stati sviluppati dei nuovi lanciatori impiegati poi nel nuovo programma: il Titan I e il Titan II. Il
secondo di questi due missili balistici (progettati sempre in ambito militare) venne scelto e adattato
al lancio di capsule spaziali; esso si rivelò un vettore spaziale molto affidabile e utilizzava un nuovo
propellente liquido non criogenico che poteva rimanere stivato nel missile, mentre per altri vettori
precedenti, che utilizzavano l’ossigeno liquido a bassa temperatura come ossidante nel carburante,
era necessario conservare con accuratezza il propellente in un luogo a parte e rifornire rapidamente
il missile al momento del lancio (con ovvi rischi d’incidente e complicazioni nella manutenzione).
I progetti per questo programma vennero avviati nel 1962-1963 e il primo lancio senza equipaggio
venne effettuato l’8 aprile 1964 (missione Gemini 1); a questo seguì un ulteriore lancio senza
equipaggio per testare lo scudo termico (missione Gemini 2). Il 23 marzo 1965 ( a cinque giorni dalla
prima storica passeggiata spaziale compiuta dal cosmonauta sovietico Aleksey Leonov), con il lancio
della Gemini 3 con equipaggio umano a bordo, fu inaugurata una serie di 10 voli orbitali pilotati nei
quali furono sperimentate le tecniche di congiungimento in orbita di due veicoli (rendezvous) e furono
compiute le prime passeggiate spaziali americane (dette “EVA”, Extra Vehicular Activity), la prima
delle quali fu compiuta dall’astronauta Edward White durante la missione Gemini 4 nel luglio 1965.
Ci furono due iniziali tentativi fallimentari di rendezvous tra navicella e uno stadio del razzo vettore
(Gemini 4) o un satellite (Gemini 5), ma il primo ad avere successo avvenne il 15 dicembre 1965 tra
le navette Gemini 6 e Gemini 7: l’ottima manovrabilità dei veicoli (con la possibilità di variare la
velocità di 3 centimetri al secondo) permise di modificare le traiettorie di avvicinamento in modo
molto preciso e Gemini 6 riuscì ad avvicinarsi a 30 centimetri da Gemini 7, senza contatto. Nella
successiva missione Gemini 8 (16 marzo 1966) venne compiuto il primo rendezvous con aggancio
della storia: la navicella con equipaggio (il comandante era Neil Armstrong) si avvicinò ad un satellite
lanciato appositamente per la missione (denominato Agena) e si agganciò ad esso in orbita intorno
alla Terra; tale missione rischiò però di tramutarsi in tragedia allorché uno degli ugelli di controllo
dell’assetto del veicolo rimase bloccato in posizione aperta e la navicella iniziò a girare
vorticosamente senza controllo: a quel punto (dopo lo sgancio dal satellite), al limite della perdita dei
sensi e con il rischio di un cedimento strutturale, Armstrong riuscì a spegnere a uno a uno i motori
di assetto e a far rientrare la capsula in atmosfera. Le successive 4 missioni (Gemini 9,10,11,12)
perfezionarono le manovre di congiungimento in orbita (non senza errori o problemi tecnici risolti di
volta in volta), dando un importante contributo alla corsa per la Luna. Il programma si concluse
ufficialmente il 1° febbraio 1967.
Nella foto a fianco: Neil Armstrong e David Scott a bordo della
Gemini 8 appena messa in sicurezza dopo l’ammaraggio
d’emergenza nell’oceano Pacifico.
7
1.6 Il programma Apollo
Il programma Apollo, varato nel 1961, iniziò veramente e si delineò come progetto lunare solo dopo
il discorso di Kennedy del 25 maggio 1961. I primi lanci del programma avvennero tra il 1961 e il
1966, tutti senza equipaggio; il loro obiettivo era testare i razzi vettori e le apparecchiature, nonché
immettere in orbita alcuni satelliti. Solo a partire dal 1967 iniziò la fase dei voli con equipaggio.
Il 27 gennaio 1967 l’astronauta “Gus” Grissom entrò nell’abitacolo dell’Apollo 1; rispetto alle capsule
Mercury e Gemini lo spazio era decisamente aumentato: si poteva stare in piedi, erano presenti tre
cuccette sostenute da montanti in mezzo alla capsula e tutto intorno agli astronauti, oltre alla
strumentazione, c’erano ben 5 finestrini. In questo spazio avrebbero dovuto poter vivere e lavorare
tre persone per almeno due settimane, mangiando cibo disidratato da sacchetti di plastica e bevendo
acqua sterile da flaconcini, dormendo legati sopra e sotto le cuccette, lavandosi con fazzoletti
umidificati, urinando nello spazio attraverso un tubo flessibile e defecando dentro bustine di plastica
appoggiate al sedere… Il tutto in viaggio per la Luna.
L’Apollo era una vera astronave, dotata di computer con i quali l’equipaggio poteva calcolare
posizione e velocità, navigando anche autonomamente nello spazio per andare e tornare dalla Luna.
Questo veicolo, con i suoi 2 milioni di pezzi, era il concentrato della migliore tecnologia americana:
tutti i sistemi, dall’impianto di condizionamento all’elettronica, dalle batterie per l’energia ai
paracadute erano il meglio del meglio.
Quella mattina del gennaio 1967 a Cape Canaveral Grissom entrò insieme ai suoi due compagni
Edward White e Roger Chaffee nella capsula per effettuare il test “plugs out”: sostanzialmente si
sarebbe simulato il funzionamento della navicella al decollo, prima di effettuarlo realmente. Alle
14.42 gli astronauti furono chiusi nell’abitacolo e i tecnici iniziarono a pomparvi dentro ossigeno puro
a una pressione superiore a quella atmosferica: tale procedura era applicata per attenuare gli effetti
di un’eventuale fuga di ossigeno nello spazio e per tenere bloccato il portello che si apriva verso
l’interno. Il test però non riusciva a iniziare a causa di problemi con i sistemi di comunicazione. Alle
18.31 dalla navicella giunse una comunicazione disperata: “Fuoco in cabina!”; 17 secondi dopo fu
lanciato l’ultimo messaggio terminato con un grido di dolore: l’aria satura di ossigeno aveva
accelerato la propagazione delle fiamme e l’elevata pressione aveva impedito di aprire il portello. I
corpi dei tre astronauti furono ritrovati carbonizzati e l’evento provocò sgomento in tutto il paese: era
il più grave incidente nella corsa allo spazio mai avvenuto fino ad allora.
La commissione d’inchiesta istituita per il caso rilevò
dei cavi scoperti che per un cortocircuito o una scintilla
avevano innescato l’incendio; immediatamente si
procedette alla riprogettazione della capsula.
Nei mesi successivi si lavorò alacremente per
risolvere i vari problemi tecnici e per testare il nuovo
lanciatore che avrebbe portato l’uomo sulla Luna: il
razzo Saturno V. Vennero eseguiti tre test senza piloti
a bordo, il primo dei quali fu l’Apollo 4, decollato il 9
novembre 1967 sul Saturno V con l’obiettivo di rilevare
diversi parametri utili alle missioni future, tra cui la
resistenza dello scudo termico della capsula ad un
rientro ad alta velocità; seguirono Apollo 5 (decollato il
22 gennaio 1968, doveva testare la manovrabilità del
LEM in orbita terrestre) e Apollo 6, che fu lanciato il 4
EVA dell'astronauta David Scott durante la missione aprile 1968 per l’abilitazione finale del razzo Saturno
Apollo 9
V, il quale subì durante il decollo le cosiddette
oscillazioni pogo: l’erogazione del combustibile e la
combustione nei motori a razzo non è perfettamente uniforme e si creano delle violente oscillazioni
che, se entrano in risonanza con altre parti del razzo, possono compromettere l’intera struttura. Nel
8
caso della missione Apollo 6 le oscillazioni pogo non furono così devastanti e, nonostante si fosse
verificato un problema ad un motore, il razzo fu dichiarato idoneo per le missioni con equipaggio.
L’ 11 ottobre 1968 finalmente venne lanciato l’Apollo 7 con equipaggio a bordo: gli astronauti Walter
Schirra, Donn Eisele e Walter Cunningham furono scelti per la missione che consisteva nell’orbitare
intorno alla Terra per 11 giorni testando le strumentazioni della navicella, la sua capacità di
rendezvous in orbita e la resistenza dell’equipaggio; fu un pieno successo.
La successiva missione Apollo 8 fece storia: essa aveva come obiettivo allontanarsi dall’orbita
terrestre per entrare in quella lunare, orbitare per 20 ore intorno alla Luna e poi rientrare sulla Terra.
I piloti dell’equipaggio, formato dagli astronauti Lovell, Anders e Borman, decollarono il 21 dicembre
1968 e furono i primi esseri umani a vedere concretamente la faccia nascosta della Luna,
sorvolandola nel silenzio profondo dello spazio (le comunicazioni radio con la Terra sono impossibili
dal lato nascosto della Luna); durante il loro volo, nella notte della vigilia di Natale, in diretta televisiva
con l’intero pianeta, centinaia di milioni di persone videro le immagini sfocate dei tre astronauti che
a 380 000 km di distanza lessero i primi versetti sulla creazione del mondo tratti dalla Genesi; poi
conclusero salutando: ”Dall’equipaggio dell’Apollo 8 intorno alla Luna, Dio benedica tutti voi sulla
nostra cara vecchia Terra”. Il rientro avvenne con successo il 27 dicembre 1968.
La missione Apollo 9 partì il 3 marzo 1969, con a bordo gli astronauti McDivitt, Scott e Schweickart;
essa servì per testare il Lunar Excursion Module (LEM) in orbita terrestre: McDivitt e Schweickart
entrarono nel modulo lunare e lo pilotarono sganciandosi e allontanandosi di oltre 200 km (113 miglia
nautiche per l’esattezza, con 1 nautical mile = 1852 metri) dal modulo di comando. Con l’operazione
di rendezvous in orbita (riaggancio al CM) del LEM e la validazione degli ultimi elementi
dell’equipaggiamento per l’allunaggio la missione fu considerata un successo.
Apollo 10 decollò il 18 maggio 1969; l’equipaggio era composto dagli astronauti Cernan, Stafford e
Young. L’obiettivo della missione era testare in orbita lunare il LEM: Stafford e Cernan sorvolarono
la superficie lunare avvicinandosi a soli 15,6 km dal suolo e facendo numerose riprese del Mare
della Tranquillità, il luogo che era stato scelto per il primo allunaggio. Durante il ritorno a Terra la
navicella dell’Apollo 10 raggiunse una velocità di 11,082 km/s nel rientro in atmosfera: ancora oggi
è il record assoluto di velocità per un veicolo con equipaggio di rientro dallo spazio.
Gli sfortunati astronauti dell’Apollo 1, da sinistra a destra: “Gus” Grissom, Edward White e Roger Chaffee. L’essere
umano ha raggiunto la Luna anche grazie al loro sacrificio.
9
CAPITOLO 2
La missione Apollo 11
2.1 Gli astronauti
Gli astronauti che formarono l’equipaggio della missione Apollo 11 furono: Neil Armstrong, Buzz
Aldrin e Michael Collins.
Neil Armstrong (Wapakoneta, 5 agosto 1930 – Cincinnati, 25 agosto 2012) fu il comandante della
missione e il primo uomo a mettere piede sulla Luna. Egli mostrò fin da piccolo una grande passione
per il volo e partecipò come pilota da caccia alla guerra di Corea (1950-1953) nei ranghi della U.S.
Navy. Successivamente si laureò in ingegneria aereonautica e iniziò a lavorare come collaudatore
di velivoli sperimentali (in particolare l’aviorazzo X-15) alla Edwards Air Force Base in California per
conto della NACA (divenuta dal 1958 NASA). Si candidò come astronauta nel 1962 e fu selezionato
per partecipare alle missioni Gemini. Comandò la missione Gemini 8 (portandosi con sé un
frammento del “Flyer”, l’aereo dei fratelli Wright) e fece parte della riserva alla missione Gemini 11,
svolgendo il ruolo di “capsule comunicator” (addetto alla comunicazione) dalla base a terra. Dopo
l’impresa lunare si congedò dalla NASA (1971) e si dedicò all’insegnamento presso la facoltà
d’ingegneria aereospaziale dell’università di Cincinnati fino al 1979. Collaborò in diversi consigli
d’amministrazione presso varie aziende e partecipò alle commissioni d’inchiesta sugli eventi relativi
alla missione Apollo 13 e quella dello Space Shuttle Challenger. Nella sua vita privata si sposò due
volte ed ebbe 3 figli; fatta eccezione per alcuni spot pubblicitari, cercò sempre di vivere un’esistenza
fuori dai riflettori e fece molta beneficenza. Neil Armstrong si è spento il 25 agosto 2012, a 82 anni,
fra la commozione di tutto il mondo.
Buzz Aldrin nacque a Montclair il 20 gennaio 1930 come Edwin Eugene Aldrin, ma dal 1988 ha
assunto come primo nome il suo storico soprannome “Buzz”; egli fu il pilota del LEM “Eagle” e il
secondo uomo a camminare sulla Luna. Aldrin studiò all’accademia militare di West Point e partecipò
alla guerra di Corea come pilota da caccia; successivamente ottenne un dottorato in astronautica al
Massachusetts Institute of Technology. Fu selezionato come astronauta nel 1963 e partecipò alle
missioni Gemini 12 e Apollo 11; dopo l’avventura lunare di congedò dalla NASA (1971) e tornò a
lavorare per l’aereonautica militare. Nella sua vita ha partecipato a numerose manifestazioni, ha
scritto un’autobiografia (“Return to Earth”) e come i suo colleghi dell’Apollo 11 ha ricevuto numerose
onorificenze.
Michael Collins (Roma, 31 ottobre 1930) fu il pilota del modulo di comando e servizio (CMS) della
missione. Figlio di un diplomatico, si laureò all’accademia di West Point divenendo pilota; fu
selezionato per divenire astronauta nel 1963. Partecipò alle missioni Gemini 10 e Apollo 11; nella
missione dell’Apollo lui non toccò il suolo lunare, rimanendo in orbita in attesa del rendezvous del
LEM al CMS. Dopo il rientro si congedò dalla NASA nel 1970 e scrisse un libro sulla sua esperienza
(“Carryng the Fire”). Nella sua vita ha ricevuto numerose onorificenze e alla morte del collega Neil
Armstrong lo ha ricordato con parole di profonda stima: “Era il migliore, e mi mancherà terribilmente”.
2.2 Prima della missione
Dopo i successi ottenuti nelle precedenti quattro missioni con equipaggio, la NASA decise che
l’Apollo 11 sarebbe stata la missione del primo sbarco. Il ciclo di addestramento al quale furono
sottoposti nei mesi antecedenti al lancio gli astronauti fu molto intenso, ma tutti notarono che i tre,
nonostante il lavoro instancabile, non sembravano formare un equipaggio coeso e umanamente
unito. Arrivavano ai simulatori separatamente, pranzavano a tavoli diversi e, secondo gli istruttori
della NASA, sembravano comportarsi l’un con l’altro da “amabili estranei”. I tre non hanno mai
smentito, ma nei libri che hanno pubblicato dopo la missione hanno scritto di essere stati
semplicemente delle persone introverse messe sotto una grande pressione psicologica, intente
esclusivamente ad addestrarsi al meglio per ogni singolo evento della missione.
10
Secondo una tradizione in voga presso la NASA, gli equipaggi destinati allo spazio potevano
scegliere un nome alla propria navicella: Michael Collins diede il nome di “Eagle” (“Aquila”) al LEM
con cui i suoi compagni sarebbero atterrati sulla superficie lunare, mentre il CSM fu denominato
“Columbia” in ricordo della “Columbiad”, il gigantesco cannone che nel romanzo di Jules Verne spara
la navicella verso la Luna.
L’equipaggio di riserva della missione, formato dagli astronauti Lovell, Anders e Haise, aveva il
compito, insieme a un team di supporto formato da 9 membri (scienziati e ingegneri selezionati per
la future missioni nello spazio), di comunicare attivamente con l’equipaggio della missione,
svolgendo simulazioni a terra per capire eventuali problemi durante lo svolgimento dell’impresa e
comunicare le possibili soluzioni.
Gli astronauti dell’Apollo 11, da sinistra a
destra: Neil Armstrong, Michael Collins,
Buzz Aldrin.
2.3 Il viaggio verso la Luna
Alle prime luci dell’alba del 16 luglio 1969, gli astronauti
con indosso le loro tute bianche si diressero verso la
sommità del complesso di lancio 39A del Kennedy
Space Center per entrare nella capsula Apollo installata
in cima al poderoso razzo Saturno V, alto 110,6 metri.
Alle ore 9:32 locali (13:32:00 UTC, ovvero secondo il
fuso orario di riferimento universale misurato con gli
orologi atomici), dopo il conto alla rovescia, una luce
accecante nascose i primi 60 metri della torre di lancio;
la spinta generata dai cinque motori F-1 del primo stadio
(S-IC) del Saturn V era talmente grande (circa 34,5
milioni di newton) che le vibrazioni del terreno erano
chiaramente percepibili fino a 80 miglia di distanza
(circa 130 km dalla rampa di lancio) e tutti i sismografi
degli Stati Uniti continentali poterono avvertire un lieve
sisma. Il mostruoso vettore iniziò lentamente ad alzarsi,
impiegando 12 secondi per lasciare la torre di lancio e
bruciando 15 tonnellate di carburante al secondo per
spingere in cielo le sue quasi 3000 tonnellate
(comprendenti per lo più carburante); a 130 metri di
Il decollo del Saturno V
11
altezza il vettore iniziò una manovra di allineamento con la corretta traiettoria di volo per poi seguire
un programma di beccheggio predefinito (oscillazione lungo l’asse trasversale del veicolo),
impostato in base all’intensità dei venti della Florida in quel mese. Mentre il razzo saliva,
l’accelerazione continuava ad aumentare per due ragioni: la riduzione della massa del carburante e
la resa migliore dei motori F-1 nell’aria rarefatta dell’alta atmosfera. Dopo 135 sec il motore centrale
veniva spento e gli altri motori continuavano a funzionare fino all’esaurimento del carburante o
dell’ossidante.
Il primo stadio bruciò per 2 minuti e mezzo circa, portando il razzo a 68 Km di quota ed una velocità
di 9920 Km/h, bruciando 2.000.000 Kg di carburante; in questa fase gli astronauti sopportarono
un’accelerazione massima pari a quasi 4 g.
Un milione di persone intorno alla base
assistette al lancio, e centinaia di milioni lo
videro in diretta televisiva in tutto il mondo.
Dopo il distacco del primo stadio del Saturno V
e dell’interstadio (elemento strutturale di
congiungimento tra due parti del razzo), che
avvenne grazie alla spinta di otto piccoli
retrorazzi, si accesero i 5 motori J-2 del
secondo stadio (S-II) che bruciarono per 6
minuti e mezzo, portando il razzo a 176 Km di
altitudine e a 25182 Km/h, velocità molto vicina
a quella orbitale finale. Circa 38 secondi dopo
l’accensione del secondo stadio cambiò la
modalità di guida del Saturno V: il computer di
bordo passò dall’esecuzione di una traiettoria
programmata ad una modalità detta Iterative
Distacco dell’interstadio (fotografato durante il lancio
dell’ Apollo 6)
Guidance Mode, in cui valutava in tempo reale
la migliore traiettoria verso il raggiungimento
dell’orbita (ottimizzata per l’uso del carburante) e inviava di conseguenza segnali di controllo ai
motori. In caso di malfunzionamento, l’equipaggio era stato addestrato per prendere il controllo
manuale del razzo.
Cinque sensori posti nella parte bassa di entrambi i serbatoi dell’S-II (il serbatoio dell’idrogeno e
quello dell’ossigeno) venivano attivati durante il volo dell’S-II: il loro scopo era determinare l’esatto
momento per lo spegnimento e la separazione dello stadio (che avveniva quando due di questi
sensori rilevavano un basso livello di carburante o ossidante). Un secondo dopo lo spegnimento dei
motori avveniva la separazione vera e propria, seguita dopo pochi secondi dall’accensione del terzo
stadio.
Retrorazzi a carburante solido posizionati sull’interstadio, spingevano indietro lo stadio ormai
esaurito. L’S-II, come già prima il primo stadio, proseguiva lungo una traiettoria balistica per poi
precipitare nell’Oceano.
Avvenuto il distacco del secondo stadio si accese il terzo (S-IVB, la sigla indica quarto, ma in realtà
era il terzo), il quale bruciò una prima volta per 2 minuti e mezzo circa, spegnendosi 11 minuti e 40
secondi dopo il lancio, quando il razzo si trovava in un’orbita circolare (detta “di parcheggio”)
compresa tra i 183 e i 186 Km di altezza (dati NASA) con una velocità di 7790 m/s (28044 Km/h).
L’S-IVB rimase agganciato al CSM in attesa di essere riacceso dopo un orbita e mezzo per la TLI
(Trans Lunar Injection): nel corso di questo periodo l’equipaggio e il personale del Controllo Missione
a terra (nella base di Houston) provvidero alla verifica di tutti i sistemi.
Due ore e 44 minuti dopo il lancio il terzo stadio fu riacceso e sospinse la capsula Apollo verso la
Luna, secondo la traiettoria prestabilita (Trans Lunar Injection). Durante il viaggio avvenne lo
12
sganciamento del CSM (modulo di comando unito a quello di servizio) dal terzo stadio: nella parte
alta del S-IVB era custodito il LEM, per cui il CSM ruotò di 180° rispetto alla posizione iniziale e
agganciò con la parte alta della CM il modulo lunare. Successivamente il treno lunare (CSM + LEM)
si allontanò dall’ S-IVB (destinato a inserirsi in orbita solare).
Le quattro fasi:
Distacco dal terzo stadio
Rotazione del CSM
Aggancio del LEM
Allontanamento dal terzo stadio
La capsula dell’Apollo 11 continuò il suo viaggio verso la Luna lungo 384 000 km, girando
lentamente, ma costantemente, su se stessa per poter distribuire il calore solare in modo uniforme
13
sulla superficie metallica, evitando che tra le parti in ombra e quelle illuminate si potesse formare
una differenza di temperatura fino a 150 °C, con possibili effetti devastanti sull’integrità strutturale e
sulla strumentazione di bordo. Durante il viaggio translunare fu trasmessa in tutto il mondo la prima
diretta televisiva dall’Apollo 11.
Il 17 luglio venne acceso per tre secondi il motore del modulo di servizio per effettuare un correzione
della traiettoria; erano previste altre correzioni durante il viaggio, ma il lancio era stato un tale
successo che non furono necessarie.
Il 18 luglio Armstrong e Aldrin indossarono le loro tute ed entrarono attraverso il tunnel di
collegamento CM-LEM nel modulo lunare Eagle adeguatamente pressurizzato; da lì fu trasmessa
la seconda diretta televisiva nella quale gli astronauti mostrarono l’interno del LEM e la complessità
della strumentazione. Dopo 2 ore trascorse nell’Eagle i due uomini rientrarono nel Columbia per
concedersi un po’ di riposo.
Il 19 luglio l’Apollo 11 giunse in prossimità della Luna e gli astronauti eseguirono l’inserimento in
orbita selenocentrica senza il supporto del centro di controllo a terra di Houston, poiché si trovavano
sul lato nascosto del satellite e le comunicazioni erano interrotte (il periodo d’interruzione dei contatti
radio durava 34 minuti). Fu necessario accendere il motore di servizio per 357,5 secondi per inserirsi
inizialmente in un orbita ellittica compresa tra le 69 e le 190 miglia nautiche (tra i 128 e i 352 km),
poi, con un’ulteriore accensione di 17 secondi la distanza orbitale si ridusse a un intervallo compreso
tra le 62 e le 70,5 miglia nautiche (115-130 km circa). L’abbassamento dell’orbita si rese necessario
per giungere ad una distanza tale dalla superficie lunare da permettere al LEM di atterrare e
successivamente riagganciarsi al CSM per il ritorno verso la Terra.
2.4 L’allunaggio
Alle 19.27 UTC (14.27 a Houston) del 20 luglio
iniziò la fase cruciale della missione: venne
pressurizzata nuovamente la cabina dell’Eagle e
gli astronauti Armstrong e Aldrin vi presero posto
per effettuare la loro straordinaria discesa
lunare. Gli ultimi controlli della strumentazione
durarono più di due ore e mezza, ma alla fine
tutto risultò a posto; a 100 ore e 12 minuti dal
decollo, durante la tredicesima rivoluzione
intorno alla Luna (quando erano ancora sul lato
nascosto), il LEM si sganciò dal CSM per iniziare
la discesa… Armstrong comunicò a Houston:
“Aquila [Eagle] ha messo le ali”.
Dopo un ultimo controllo visivo da parte di Collins
(rimasto sul Columbia), che verificò come
l’esterno del LEM fosse nella configurazione
opportuna per l’atterraggio (con le 4 gambe
dispiegate), Aldrin accese per 30 secondi il
motore e iniziò la discesa motorizzata in
un’orbita più bassa. Il breve impulso dato dal
Il LEM Eagle fotografato dal Columbia
motore permise di passare da un orbita quasi
circolare (115-130 km sopra la superficie lunare) ad una fortemente ellittica compresa tra i 15 km
(perilunio) e i 110 km (apolunio); questo passaggio permise di avvicinarsi alla superficie lunare con
un piccolo dispendio di carburante. Poco dopo iniziò, a partire dal punto di perilunio, la fase di
frenata: mentre il LEM volava ancora parallelo al terreno, il motore iniziò a rallentarlo da una velocità
di 1695 m/s ad una di circa 150 m/s; nell’eseguire ciò il radar d’atterraggio agganciò il suolo e iniziò
a trasmettere dati relativi all’altitudine e alla velocità, cosicché gli astronauti potevano verificare se
stavano percorrendo la giusta traiettoria impostata nel computer. Dopo 4 minuti dall’inizio della
14
discesa motorizzata, il computer di bordo (tra i più all’avanguardia dell’epoca, con una memoria
interna di appena 6 MB e un’unità di calcolo da 2 MHz) comunicò: “allarme 1202”. Armstrong chiese
spiegazioni al controllo missione e a Houston ci fu un attimo di panico, ma fortunatamente
l’ingegnere Stephen Bales, addetto al controllo missione, si ricordò che quell’allarme, verificatosi
durante una simulazione, indicava un sovraccarico di dati da elaborare per il computer (si scoprì in
seguito che il radar di rendez-vous con il CM era rimasto acceso per sbaglio, fornendo dati inutili in
quel momento). Consapevole che tale allarme non pregiudicava la missione, Bales diede il via libera
per andare avanti e lo riconfermò per tutte le volte (ben 5) in cui venne segnalato un allarme a bordo.
Successivamente, a un’altitudine di circa 700 metri, iniziò la fase di puntamento vera e propria, nella
quale gli astronauti cercarono di individuare la zona di atterraggio, orientandosi grazie a dei punti di
riferimento al suolo che avevano imparato a memoria durante le simulazioni.
Fasi di discesa del LEM.
Durante questa fase, mentre gli astronauti osservavano l’orizzonte lunare attraverso una scala
graduata sul finestrino e controllavano i dati del computer, Armstrong si accorse che ciò che vedeva
non corrispondeva alle previsioni: invece di osservare una liscia pianura priva di ostacoli, si stavano
avvicinando ad una zona piena di massi e crateri, inadatta ad atterrare. A quel punto, compreso che
il LEM era “andato lungo” (in gergo aeronautico: mancare il punto d’atterraggio) e poiché ormai si
trovavano a poche centinaia di metri dal suolo (circa 300 m), Armstrong disinserì il pilota automatico
e prese il controllo manuale dell’Eagle per farlo atterrare in un luogo sicuro; a Houston, intanto, il
personale del controllo missione stimò, attraverso i computer, che il LEM era 6 km fuori bersaglio
(con 10 km di errore la missione sarebbe stata automaticamente abortita). Nel frattempo l’Eagle
continuò la sua discesa: tra i 90 e i 60 metri dal suolo la velocità calò drasticamente, per poi
aumentare rapidamente e diminuire ancora. Durante quei minuti il cuore di Neil Armstrong, noto per
essere un uomo dal sangue freddo, superò i 150 battiti al minuto; ma, nonostante questo, con una
calma sovraumana, l’astronauta chiese al compagno Aldrin quanto combustibile restasse: 8 % fu la
risposta, quasi nulla. A 30 metri dal suolo si accese una spia rossa: mancavano 90 secondi alla fine
del carburante. A Houston iniziò il conto alla rovescia: nelle trasmissioni tra il centro di controllo e il
LEM si udiva solo più la scansione del tempo, prima 60, poi 30 secondi… Proprio a quel punto
Armstrong riuscì a intravedere una piccola area priva di ostacoli: sarebbe atterrato lì.
15
“30 piedi [10 metri circa], solleviamo polvere” disse Aldrin alla radio; “portalo giù, Neil, portalo giù”
pregavano tutti alla base in un silenzio surreale. Finalmente Aldrin: “Luce di contatto”… Le zampe
dell’Eagle toccarono la superficie e “Buzz” si affrettò a spegnere il motore. Erano le ore 20:17:40
UTC (15:17:40 ora di Houston) e mancavano solo più dieci secondi prima della fine del carburante.
Dopo un breve scambio di sguardi tra i due uomini, Armstrong comunicò al centro di controllo:
“Houston, Tranquillity Base here. The Eagle has landed”
“Houston, qui Base della Tranquillità. L’Aquila è atterrata”
La risposta ad Armstrong giunse dal futuro astronauta della missione Apollo 16 Charlie Duke, allora
incaricato dei contatti con la missione: “Roger vi riceviamo – Qui abbiamo un gran numero di ragazzi
che stavano diventando blu: adesso possono respirare di nuovo! Grazie tante.”
Alla base di Houston scoppiò una gioia immensa: dopo quasi un decennio di sforzi e sacrifici, due
esseri umani erano atterrati sulla Luna. La notizia si diffuse rapidamente in mondovisione: fu una
festa planetaria.
Secondo il programma i due astronauti avrebbero dovuto riposare per un periodo di quattro ore
prima di compiere la loro EVA (l’attività extra veicolare) sulla superficie lunare: ma i due, desiderosi
di uscire dal LEM, alle ore 22:12 UTC (17:12 a Houston) chiesero il permesso di anticipare la
passeggiata lunare; poiché il medico a Terra che controllava i parametri vitali di Neil e Buzz disse
che non c’erano problemi, fu dato l’OK ai preparativi per l’attività. La preparazione all’uscita
dall’Eagle durò più di quattro ore, ma alla fine, dopo qualche difficoltà ad uscire dal portello (a causa
dell’ingombro della tuta e dello zaino di supporto vitale), Neil iniziò a scendere i gradini del LEM,
attivando la telecamera esterna che trasmetteva la diretta televisiva e commentando ciò che vedeva
relativo alla superficie (“A grana fine, quasi come polvere ”).
Alle ore 02:56 UTC del 21 luglio 1969 (04:56 ora italiana, 21:56 del 20 luglio ora di Houston) Neil
Armstrong compì il primo passo di un essere umano su un altro corpo celeste e disse:
“That's one small step for a man, one giant leap for mankind.”
“Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità.”
In quel momento si stima che circa 600 milioni di persone nel mondo assistettero a quell’evento
epocale, forse il più grande avvenimento nella storia del genere umano dalla scoperta del fuoco.
Circa venti minuti dopo uscì anche Buzz Aldrin, il quale commentò: “Magnifica desolazione”.
I due uomini iniziarono subito a
raccogliere campioni di rocce,
scattando foto alla superficie tutto
intorno e al LEM (per poter
constatare
come
si
era
comportata la struttura del modulo
a contatto con il terreno lunare). A
circa mezzora dallo sbarco giunse
una telefonata dal presidente
Nixon, il quale si complimentò per
il successo conseguito dai due
coraggiosi astronauti, che nel
frattempo avevano faticosamente
piantato la bandiera americana,
tenuta
aperta
da
un’asta
orizzontale,
in
un
mondo
senz’aria.
Armstrong si prepara a compiere il primo passo sulla Luna.
16
Essi spostarono anche la
telecamera esterna per poter
inquadrare l’Eagle, che si
stagliava
sull’orizzonte
lunare.
Il lavoro principale dei due
astronauti, oltre alla raccolta
dei campioni, consisteva nel
posizionare a un centinaio di
metri dal modulo lunare un
gruppo
di
strumenti
(chiamato EASEP, ovvero
Buzz Aldrin in piedi vicino alla bandiera americana
Early
Apollo
Scientific
Experiments Package) per eseguire esperimenti e rilevazioni scientifiche: un sismografo, un
rilevatore di polveri, un foglio di alluminio per raccogliere le particelle provenienti dal Sole (recuperato
per le analisi in laboratorio), un’ antenna radio per trasmettere i dati a terra e un riflettore di raggi
laser (usato per misurare con accuratezza la
distanza Terra-Luna).
Armstrong e Aldrin saltellarono sulla
superficie lunare (dove l’accelerazione di
gravità è 1,62 m/s2 , circa un sesto di quella
terrestre) fino a una distanza di un centinaio
di metri dal LEM, scattando foto e cercando
di riconoscere i vari tipi di roccia presenti,
grazie alla preparazione in geologia che
avevano
dovuto
compiere
durante
l’addestramento. Inoltre essi depositarono sul
terreno dei medaglioni commemorativi con i
nomi degli astronauti che avevano perso la
vita nella tragedia dell’Apollo 1 e in altri
incidenti occorsi negli anni precedenti, più un
disco in silicio contenente messaggi di saluto
da 73 paesi diversi e i nomi dei dirigenti degli
Stati Uniti e della NASA.
Neil, nelle sue memorie, raccontò che
Buzz Aldrin cammina sulla Luna
durante l’ EVA, fermandosi per un istante ad
osservare la Terra immersa nel nero dello spazio, alzò il pollice e nascose la sagoma del pianeta:
disse che non si era mai sentito così piccolo davanti all’immensità del cosmo.
Dopo un’ora e 33 minuti di attività extra veicolare
Aldrin rientrò nel LEM, seguito 41 minuti dopo da
Armstrong, il quale passò in tutto 2 ore e 31 minuti
sulla superficie del satellite naturale.
A destra: Armstrong, fotografato da Aldrin, lavora vicino
alle zampe dell’Eagle.
17
2.5 Il decollo dalla Luna e il ritorno sulla Terra
Dopo la conclusione delle attività extra veicolari, Neil e Buzz,
rientrati nel modulo pressurizzato, passarono un periodo di
riposo, nel quale mangiarono e dormirono, prima di prepararsi
al ritorno in orbita lunare per l’appuntamento con il CM. In tutto
questo tempo Collins era rimasto sul Columbia in orbita intorno
alla Luna, godendo della solitudine più estrema mai provata da
un uomo, poiché si trovava da solo a 400 000 km dalla Madre
Terra, culla della vita e del genere umano.
Sul LEM furono caricati circa 21 kg (46 libbre, dati NASA) di
materiale lunare, mentre gli zaini di supporto vitale, gli scarponi
lunari e le attrezzature non più utili furono lasciati sul terreno
Neil Armstrong all’interno del LEM
vicino al modulo, per alleggerire il carico da trasportare in
orbita. Prima della partenza vennero immesse nel computer le coordinate precise del modulo lunare,
affinché si potesse calcolare la traiettoria corretta per il rendezvous orbitale con il modulo di
comando.
Alle 17:53 UTC del 21 luglio i due astronauti decollarono dalla Luna dopo aver trascorso 21 ore e
36 minuti sulla sua superficie: la parte superiore del LEM (lo stadio di ascesa), con la cabina dove
alloggiava l’equipaggio, si alzò dal suolo lunare grazie al suo endoreattore, mentre lo stadio di
discesa con le zampe d’atterraggio (e relativo motore) rimase al suolo, fungendo da rampa di lancio.
Su una delle zampe della parte del LEM abbandonata rimase una placca con il disegno dei due
emisferi terrestri, accompagnato dalle firme degli astronauti e del presidente Nixon, oltre che da
un’iscrizione: “ Here men from planet Earth first set foot upon the Moon July 1969 A.D. We came in
peace for all mankind” [“Qui uomini dal pianeta Terra fecero il primo passo sulla Luna Luglio 1969
d.C. Siamo venuti in pace per tutta l'umanità”].
Una curiosità: prima del decollo, l’interruttore che permetteva di gestire il sistema idraulico (che
portava il carburante al motore) uscì di sede, rischiando di impedire la risalita in orbita dei due uomini;
dopo alcune ore di lavoro, seguendo i consigli di Houston, i due riuscirono a risolvere il problema e,
secondo i resoconti, ciò fu possibile grazie ad una penna di Aldrin con cui premettero il tasto uscito
di sede.
Dopo il decollo, entrarono dapprima in un orbita fortemente ellittica compresa tra i 20 km e i 100 km
circa (11-55 miglia nautiche), poi in un orbita sempre più vicina a quella circolare del CM, compresa
tra i 105 km e i 135 km circa (57-72 miglia nautiche). Quando si trovarono abbastanza vicini da
pilotare a vista, il LEM si avvicinò al CM e riuscì a ricongiungersi (ore 17:35 del 21 luglio) ad esso
dopo due tentativi, grazie alla perizia di Collins nel manovrare il Columbia per avvicinarsi senza urti
all’altro veicolo. Neil e Buzz rientrarono nel CM e quattro ore dopo l’Eagle venne abbandonato in
orbita lunare; sempre il 21 luglio, dopo 59 ore in orbita intorno alla Luna, il Columbia accese il motore
per 2 minuti e mezzo e si inserì in una traiettoria Luna-Terra. Una seconda accensione del motore
per circa 11 secondi si rese necessaria per una piccola correzione in volo; il viaggio di ritorno si
svolse senza particolari problemi e 44 ore dopo aver lasciato l’orbita selenocentrica iniziò la
procedura di rientro: il SM (modulo di servizio) fu abbandonato prima del rientro (si sarebbe
disintegrato in atmosfera prima di giungere a terra) e il CM, orientato con la base rivolta verso il
basso per schermare al meglio il calore generato dall’attrito
con l’aria, iniziò la rapida discesa verso l’oceano Pacifico.
L’ammaraggio avvenne il 24 luglio alle ore 16:50:35 UTC a
sud-est delle Hawaii, a circa 24 km dalla nave di recupero,
la portaerei USS Hornet. Dopo essere stati tratti in salvo, i
componenti dell’equipaggio dell’Apollo 11 passarono un
breve periodo di quarantena, dopo il quale intrapresero
diversi viaggi cerimoniali in tutti gli Stati Uniti, osannati e
celebrati da folle di persone.
Il CM ammarato nell’oceano Pacifico
18
CAPITOLO 3
Gli aspetti scientifici basilari
L’allontanamento dalla Terra e l’immissione di una navicella spaziale in orbita lunare ha richiesto
studi accurati di astrodinamica, per consentire al mezzo di raggiungere l’obiettivo in tempi brevi e
con consumi di carburante accettabili.
3.1 Cos’è un’orbita e come funziona
Si definisce orbita la traiettoria descritta dal moto di un corpo in movimento intorno a un altro corpo;
il termine è particolarmente usato per indicare la traiettoria di un corpo animato da moto centrale, e
quindi in astronomia con riferimento al moto dei pianeti intorno al Sole o dei satelliti intorno a un
pianeta e in astronautica con riferimento al moto di satelliti artificiali terrestri e di veicoli spaziali in
genere. A Giovanni Keplero è dovuta la precisazione della dinamica delle orbite planetarie,
condensate nelle sue tre leggi del moto dei pianeti:
1) le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi (1609);
2) i raggi vettori, r, che uniscono i pianeti al Sole descrivono aree uguali in tempi uguali (1609), quindi
i pianeti non si muovono alla stessa velocità lungo tutta l’orbita, ma sono più veloci quando sono più
vicini al Sole (al perielio) e più lenti quando sono più lontani (all’afelio);
3) i quadrati dei periodi di rivoluzione intorno al Sole sono proporzionali ai cubi dei semiassi
maggiori, a, delle orbite (1619):
Nella figura qui sopra è rappresentata un'orbita ellittica, con indicati i suoi parametri caratteristici: semiasse maggiore (a),
semiasse minore (b), semi-distanza focale (c), eccentricità (e).
Tra questi parametri esistono le relazioni seguenti:
19
La Terra ha un’orbita ellittica intorno al Sole con un’eccentricità molto piccola (0,0167), tanto che i
due fuochi sono entrambi racchiusi nel volume della stella.
Nel 1687 venne pubblicata l’opera “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” nella quale Isaac
Newton riuscì a spiegare come i corpi massivi (dalle mele ai pianeti) interagiscono tra di loro e
formulò i principi della dinamica, interpretando in base ad essi le leggi di Keplero e deducendo che
il Sole esercita su un pianeta una forza proporzionale alla massa del pianeta e inversamente
proporzionale al quadrato della sua distanza dal Sole. Newton dedusse poi che tale forza F non si
limita al Sole e ai pianeti e che due corpi qualsiasi si attirano reciprocamente con una forza
proporzionale al prodotto delle masse m1 e m2 e inversamente proporzionale al quadrato della loro
distanza r, secondo la legge della gravitazione universale:
Con G = 6,674 x 10-11 N m2 kg−2 costante di gravitazione universale.
Lo studio del moto di due punti materiali (punti ideali in cui si immagina concentrata tutta la massa
di un corpo) isolati nello spazio e sottoposti pertanto solo alla reciproca attrazione newtoniana
riconduce come caso particolare al moto ellittico descritto dalle leggi di Keplero. Se i due corpi hanno
massa tra loro confrontabile, si studia il movimento dei due corpi intorno al comune centro di massa.
Se uno dei due corpi ha massa molto maggiore dell’altro, come nel caso di un pianeta T e un satellite
artificiale (o una navicella spaziale) S, si può studiare il moto di S intorno a T e porre in T la massa
totale del sistema, somma della massa M del pianeta e della massa m del satellite. L’equazione del
moto di S è in questo caso (tralascio la dimostrazione):
Dove r è il raggio vettore che congiunge T a S.
Newton riuscì a dimostrare con la sua teoria della gravitazione universale e con i dati astronomici in
suo possesso che le orbite dei corpi celesti soggetti alla forza di gravità sono delle sezioni coniche,
ipotizzando una propagazione istantanea di tale forza (alla fine del 1600 non era ancora stato
concepito il concetto di campo gravitazionale, una perturbazione dello spazio, sede di forze, che si
manifestano quando una massa esploratrice ne può subire l’azione).
All’inizio del 1900 Albert Einstein fu in grado di dimostrare che la gravità è dovuta alla curvatura
dello spazio-tempo (la struttura quadridimensionale teorica oggi accettata dell’universo, formato
dalle tre dimensioni spaziali e dal tempo), rendendo non più necessaria l'ipotesi di una gravità che
si propaga istantaneamente. La teoria della relatività è molto più precisa nel descrivere la natura e
nel prevedere il moto dei corpi celesti rispetto alla teoria newtoniana; ad esempio la teoria di Einstein
descrive meglio il moto orbitale di Mercurio, poiché il pianeta, molto vicino al Sole, è soggetto ad un
campo gravitazionale molto forte e percorre la sua orbita ad elevata velocità, facendo sì che i calcoli
fatti secondo la teoria di Newton non spieghino in modo efficace la precessione del perielio
dell’orbita. Inoltre la Relatività generale spiega il fenomeno della deviazione della luce stellare (la
luce è costituita da particelle dette quanti di luce o fotoni, prive di massa) in presenza di una fonte di
attrazione gravitazionale lungo la traiettoria del raggio luminoso.
Secondo Einstein le orbite seguono traiettorie geodetiche (usate nella geometria analitica, esse sono
linee tracciate sopra una superficie e tali che in ogni loro punto la normale ad esse coincida con la
normale alla superficie in quel punto; per esempio le geodetiche della superficie sferica sono le
circonferenze massime) che si avvicinano di molto ai calcoli di Newton. Per questo motivo la legge
di Newton è ancora utilizzata in molti contesti, poiché è una buona approssimazione ed è molto più
facile da usare.
20
3.2 Il moto dei corpi orbitanti
Un veicolo spaziale può entrare in orbita intorno a un corpo celeste solo se il lanciatore imprime ad
esso una velocità sufficiente, detta “prima velocità cosmica”; in particolare tale velocità è necessaria
per inserirsi nell’orbita più elementare: quella circolare. Modellizzando la situazione si deve porre
l’uguaglianza tra la forza di attrazione gravitazionale, che tende a far precipitare il veicolo, e la forza
centrifuga (uguale in modulo alla forza centripeta e determinata dal moto circolare compiuto dal
mezzo intorno alla sorgente gravitazionale), che tende ad allontanarlo dal corpo celeste:
m è la massa del corpo in orbita, v la prima velocità cosmica, R la distanza dal centro del corpo
celeste ed M la sua massa. Dalla precedente si ricava:
Dove
è la costante gravitazionale planetaria del corpo celeste.
Se un veicolo spaziale teorico deve allontanarsi dall’orbita terrestre necessita di una velocità minima
iniziale (senza ulteriore propulsione) detta “velocità di fuga” (o “seconda velocità cosmica”).
Sulla superficie della Terra la velocità di fuga è pari a circa 11,2 km/s, mentre a 9000 km dalla
superficie è circa 7,1 km/s: è possibile ottenere tale velocità con un'accelerazione continua dalla
superficie fino a quell'altezza, oltre la quale l'oggetto si potrà allontanare indefinitamente dalla Terra
anche senza propulsione. Per calcolare la velocità di fuga da una grande sorgente gravitazionale
come un pianeta si utilizza la legge di conservazione dell’energia meccanica:
(1/2)mv2
è l’energia cinetica del corpo mentre
-G(Mm/r) corrisponde alla sua energia
v
potenziale gravitazionale. Risolvendo rispetto a f si ha infine:
La velocità di fuga è una limite teorico e una navicella spaziale non necessita di una tale velocità
iniziale poiché essa non riceve solo un impulso iniziale
(
), ma riceve una spinta
costante erogata dall’apparato propulsivo.
21
3.3 Le tipologie di orbita
Un’orbita può essere circolare, ellittica, parabolica o iperbolica.
L’orbita si definisce circolare quando la sua eccentricità è uguale a 0 e i due fuochi coincidono.
Quando l’eccentricità è maggiore di 0, ma inferiore a 1, allora l’orbita è ellittica.
Se l’eccentricità eguaglia e supera 1, allora l’orbita si presenta aperta; in particolare con e=1 la
traiettoria è parabolica, se e>1 allora è iperbolica.
Durante la missione Apollo 11 la navicella si
immise in un’orbita lievemente ellittica intorno
alla Terra (definita orbita di parcheggio), fece una
volta e mezzo il giro del globo e poi, ad un punto
dell’orbita prestabilito, riaccese i motori del terzo
stadio del razzo Saturno V e si spinse verso la
Luna, immettendosi in un’orbita ellittica
selenocentrica. La manovra di fuga dalla Luna
per il ritorno fu la stessa, ma a sospingere la
navicella c’era solo più il motore del modulo di
servizio, più che sufficiente ad allontanarsi dalla
gravità lunare. L’intero viaggio, sia all’andata che
al ritorno, è facilmente descrivibile come un
grande otto allungato.
A sinistra: un disegno che rappresenta i vari tipi di
orbita in funzione dell’eccentricità.
Sotto: un disegno che esemplifica il viaggio compiuto
verso la Luna.
22
CAPITOLO 4
Il Saturno V
4.1 Il razzo in generale e le sue parti
Il Saturno V è stato uno dei più grandi veicoli mai costruiti dall’uomo, con i suoi 110,6 metri d’altezza
(come un palazzo di 36 piani) e una massa di 2,8 milioni di chilogrammi. Il razzo fu sviluppato sotto
la supervisione di Wernher von Braun (direttore del Marshall Space Flight Center, centro della NASA
per la ricerca e lo sviluppo della tecnologia missilistica) ed era suddiviso in tre stadi che costituivano
altrettanti serbatoi di carburante con relativi motori annessi.
Lo scopo del vettore era permettere a una navicella spaziale di arrivare in orbita lunare e tornare
indietro sulla Terra; per fare ciò il Saturno V fu concepito e progettato per poter trasportare in orbita
bassa intorno alla Terra un carico utile di almeno 118 tonnellate e un carico di 43,5 tonnellate intorno
alla Luna, ma erano necessari i motori più
potenti mai costruiti e moltissimo
carburante
per
raggiungere
questo
obiettivo.
La velocità massima che si poteva
raggiungere volando sospinti da questo
razzo era di circa 7800 m/s (oltre 28000
km/h), in orbita terrestre.
Il primo stadio era alto 42 metri e pesava
circa 2 milioni di chilogrammi, perlopiù
costituiti dal propellente: cherosene super
raffinato e ossigeno liquido. Tale stadio
aveva cinque motori F-1 disposti a croce
che generavano una spinta al decollo di
quasi 34,5 milioni di newton; la forza che
imprimevano questi motori era tale da
creare lievi oscillazioni del terreno
Schema del Saturno V
percepibili a molti chilometri di distanza,
mentre l’onda d’urto provocata dalla loro
accensione poteva provocare seri danni alle persone in un raggio di 3 km dalla rampa di lancio.
Il secondo stadio era alto 26 metri ed era separato dal primo da un interstadio, che al decollo fungeva
da copertura per i suoi 5 motori J-2, i quali, a circa 6 minuti e mezzo dal lancio, si accendevano e
bruciavano per 2 minuti e mezzo (imprimendo una spinta di cica 5 milioni di newton). Il propellente
contenuto in tale stadio era l’idrogeno liquido usato insieme all’ossigeno liquido, separati all’interno
della struttura da una sottile paratia.
Il terzo stadio, più piccolo degli altri due, aveva un solo motore J-2 che veniva acceso per completare
l’immissione in orbita della navicella Apollo e aveva la possibilità di riaccendersi una seconda volta
per inserire la capsula e il LEM in una traiettoria Terra-Luna. Esso aveva la stessa tipologia di
propellente del secondo stadio.
4.2 Cosa trasportava il Saturno V
In cima al terzo stadio si trovava la navicella Apollo, formata da modulo di comando e dal modulo di
servizio. All’interno della parte superiore di questo stadio si trovava il LEM, il modulo lunare, occultato
alla vista al momento del decollo perché contenuto nella struttura stessa del razzo vettore.
Il LEM era un veicolo progettato appositamente per lo sbarco lunare: esso non disponeva di scudo
termico e non aveva una forma aerodinamica (inutili dato che sulla Luna non c’è aria che possa
provocare attrito), aveva una struttura complessivamente molto leggera (pesava circa 16 tonnellate
23
per un’altezza di 7 metri) e disponeva di due stadi con due motori annessi. Il primo stadio era quello
necessario all’atterraggio sulla Luna, mentre il secondo serviva per il decollo dal suolo lunare.
4.3 L’endoreattore nei razzi in generale
Semplice modello di funzionamento di un endoreattore
L’endoreattore è la tipologia di motore
utilizzato dai razzi. Esso si basa sul terzo
principio della dinamica secondo il quale ad
ogni azione corrisponde una reazione uguale
e contraria (si ricordi che azione e reazione
non possono mai equilibrarsi perché
agiscono su corpi diversi).
In questo tipo di motore la propulsione
avviene in tre fasi, a seconda della
trasformazione di energia avvenuta.
Nei razzi come il Saturno V il primo tipo di
energia è quella chimica contenuta nel
propellente del razzo: il combustibile e il
comburente. Il combustibile (che nel caso dei
razzi Saturno si trattava di cherosene
altamente raffinato o idrogeno liquido,
estremamente energetici), viene immesso
nella camera di combustione dove
avvengono reazioni di ossido-riduzione con
l’ossidante (generalmente ossigeno liquido):
tali reazioni provocano la trasformazione di
energia chimica in energia termica,
provocando l’espulsione violenta di gas; parte
dell’energia termica viene convertita in
energia cinetica che dà luogo al moto del
razzo. I motori F-1 e J-2 erano motori di
questo tipo.
Qui a sinistra: Wernher von Braun
vicino ai motori F-1 del Saturno V.
24
Conclusione
Lo sbarco sulla Luna è stato uno degli avvenimenti più importanti della storia dell’umanità, un trionfo
pacifico del coraggio, della determinazione e dell’intelligenza umana. Molti libri ed articoli sono stati
scritti su questa impresa, ma probabilmente nessuno di loro basterebbe per rendere grazie alle
persone che hanno reso possibile tutto questo.
Oggi l’uomo può alzare lo sguardo con orgoglio verso il nostro grande satellite naturale e pensare
che anche lassù, a 400 mila chilometri da casa, degli esseri umani hanno osato avventurarsi; nella
vita quegli uomini impavidi hanno saputo tradurre in realtà una celebre frase del poeta Gabriele
d’Annunzio:
“MEMENTO AUDERE SEMPER”
[Ricorda di osare sempre]
25
Idice
Introduzione…………………………………………………………………………………………………… 1
CAPITOLO 1: La storia che portò ad un’impresa straordinaria…………………………………………. 2
1.1 Situazione storica………………………………………………………………………………………… 2
1.2 Le prime missioni nello spazio: il programma Mercury…………………………………………….... 4
1.3 I primi vettori…………………………………………………………………………………………….... 4
1.4 Lo studio su come raggiungere la Luna……………………………………………………………….. 5
1.5 Il programma Gemini…………………………………………………………………………………….. 6
1.6 Il programma Apollo……………………………………………………………………………………… 8
CAPITOLO 2: La missione Apollo 11……………………………………………………………………… 10
2.1 Gli astronauti……………………………………………………………………………………………. 10
2.2 Prima della missione……………………………………………………………………………………. 10
2.3 Il viaggio verso la Luna…………………………………………………………………………......… 11
2.4 L’allunaggio………………………………………………………………………………………………..14
2.5 Il decollo dalla Luna e il ritorno sulla Terra……………………………………………………………..18
CAPITOLO 3: Gli aspetti scientifici basilari…………………………………………………………………19
3.1 Cos’è un’orbita e come funziona………………………………………………………………………. 19
3.2 Il moto dei corpi orbitanti…………………………………………………………………………………21
3.3 Le tipologie di orbita………………………………………………………………………………………22
CAPITOLO 4: Il Saturno V……………………………………………………………………………………23
4.1 Il razzo in generale e le sue parti…………………………………………………………………….... 23
4.2 Cosa trasportava il Saturno V…………………………………………………………………………..23
4.3 L’endoreattore nei razzi in generale……………………………………………………………………24
CONCLUSIONE………………………………………………………………………………………………25
26
Bibliografia
M. Spagnulo e E. Perozzi - “Lo spazio oltre la Terra – Viaggio verso il futuro”- libro
divulgativo dell’Agenzia Spaziale Italiana - Giunti 2009;
- Charles Murray e Catherine Bly Cox - “Apollo” - edizione 2004 (per le fasi della missione
Apollo 11, dalla traduzione online del blog “Tr@nquillity Base”);
- D. Gasparri - “Sognando il sistema solare” - lulu.com 2012 (appunti online per il Saturno V)
- Mark A. Berthow -“Sistemi missilistici strategici e difensivi USA”- Osprey 2011 (per i primi
razzi);
- Paul A. Tipler - “Invito alla fisica”- Zanichelli 1991
- Isabella Riva e Marco Tadini -“Tutto fisica”- DeAgostini 2011
Sitografia
-
- www.nasa.gov/mission_pages
- http://www.treccani.it/enciclopedia/
- https://it.wikipedia.org/wiki/
- http://nssdc.gsfc.nasa.gov/nmc/spacecraftDisplay.do?id=1969-059C
- https://www.nasa.gov/mission_pages/apollo/missions/apollo11.html
- http://www.siamoandatisullaluna.com/troppa-perfezione.html
Filmografia
-
https://www.youtube.com/watch?v=BGZuL9UeSCE (Video tratto dal documentario Ulisse-Il
piacere della scoperta)
27