CAMPIONI DEL MONDO - Alessandro Luigi Perna
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CAMPIONI DEL MONDO - Alessandro Luigi Perna
CAMPIONI DEL MONDO Storia fotografica della nazionale italiana dalle origini al 1982 Fondazione Museo del Calcio (Federazione Italiana Giuoco Calcio) (Nella foto: la prima volta della nazionale italiana con la divisa ufficiale – Arena di Milano, 1911) STORIA DELLA MOSTRA La mostra è stata realizzata nel 2002 in corrispondenza con i mondiali di calcio in Giappone – Corea del Sud con le immagini degli archivi della Fondazione Museo del Calcio della Federazione Italiana Giuoco Calcio con sede al Centro Tecnico della Nazionale di Coverciano a Firenze – la massima istituzione culturale per quanto riguarda la documentazione iconografica sulla nazionale italiana nel nostro paese. La produzione è stata finanziata dal Centro Culturale Cascina Grande del Comune di Rozzano come conseguenza di un progetto di collaborazione tra istituzioni pubbliche e privati finalizzato alla realizzazione di eventi culturali e di comunicazione con risorse anche limitate. Curatore dei testi della mostra è Gigi Garanzini, uno dei più importanti giornalisti sportivi italiani, attualmente conduttore radiofonico per Radio 24 e collaboratore del quotidiano La Stampa. Nel corso degli anni ’90 è stato conduttore di trasmissioni televisive sportive per la Rai e per Mediaset. Alla conferenza stampa e inaugurazione della mostra nel 2002 sono intervenuti Enzo Bearzot, l’allenatore che condusse l’Italia in Spagna nel 1982 alla vittoria dei mondiali, Giuseppe Bergomi, il più giovane dei calciatori che andò in Spagna, e Tarcisio Burgnich, eroe dei mitici mondiali italiani in Messico nel 1970. CREDITI DELLA MOSTRA • • Prodotta da: Centro Culturale Cascina Grande del Comune di Rozzano In collaborazione con: Fondazione Museo del Calcio (Federazione Italiana Giuoco Calcio) • Con il patrocinio della: Provincia di Milano - Assessorato allo Sport • Ideazione e cura di: Alessandro Perna • Testi di: Gigi Garanzini CARATTERISTICHE TECNICHE DELLA MOSTRA • • • • Nb. N°98 immagini col. e b/n - 5 (110x150), 4 (120x90), 89 (50x60) Pannelli fotografici di forex 3 mm. N°5 pannelli di testo 60x80 di introduzione alla mo stra e alle sezioni in forex 3 mm. Pannelli da produrre: titolo – colofon E’ possibile coinvolgere Rai Sport / Istituto Luce per la proiezione di filmati storici CAMPIONI NEL MONDO STORIA FOTOGRAFICA DELLA NAZIONALE ITALIANA DI CALCIO DALLE ORIGINI AL 1982. Quasi 100 anni di storia. Di gol e di parate, di vittorie e di sconfitte che sono diventate memoria storica, patrimonio genetico di un popolo che di pane e pallone vive da più tempo di quanto non si creda. Cento immagini. Per raccontare un percorso attraverso cui sono passati i nostri nonni, i padri, generazioni di tifosi, di appassionati, di semplici curiosi. Edite e inedite. Celeberrime e sconosciute. Che raccontano imprese, protagonisti, folle anonime quanto trepidamente partecipi di un gioco che, per fortuna, è riuscito a lungo a rimanere sport prima di degenerare in business. E’ stato quello scorso, e già fa un certo effetto doverlo chiamare così, il secolo del pallone. Di tante altre cose, si capisce, splendide e orrende. Ma il calcio, che prima non c’era, semplicemente non esisteva, nel giro di pochi anni ha affascinato i popoli di ogni continente. Li ha conquistati, li ha stregati, li ha appesi a un dribbling piuttosto che a una rovesciata senza distinzione di censo, di tradizione, di latitudine. Chissà se un sondaggio – vero- riuscirà mai a stabilire se è più conosciuto nel mondo il nome di Kennedy, o di Shakespeare, o di Beethoven, piuttosto che di Pelè, Maradona o Paolo Rossi. Di sicuro, per noi malati del gioco più bello che mai sia stato inventato potrà essere un problema ricordare, per quanto celebri, il nome di un ministro, uno scrittore, un musicista: non certo snocciolare gli undici del ’70, o dell’82, forse anche del ’34 e del ’38. Il settanta. La notte del 19 giugno. Quella in cui nessuno ci disse di uscire, di pigiare sui clacson, di stanare dalle soffitte una vecchia bandiera prima di tuffarci nelle fontane. Ci ritrovammo in strada perché quei supplementari ci avevano tolto l’aria, perché il piatto destro di Rivera andava pur diviso con qualcuno. Fu una scelta tanto obbligata quanto assolutamente spontanea, così bella da diventare rito. Chi ha qualcosa più di vent’anni, anche poco, non potrà non ricordare i memorabili replay dell’82, quelle quattro torride serate in cui c’era più gente nelle piazze che nelle case perché l’Italia aveva battuto l’Argentina, poi il Brasile, poi la Polonia e infine la Germania. Non è più accaduto. Chissà se tornerà ad accadere. C’è mancato poco, davvero molto poco, prima nel ’90 poi a maggior ragione nel ’94. Ma non troverete queste immagini nella rassegna, né altre successive. Per due buone ragioni. La prima è che abbiamo scelto di ricordare semmai gli antesignani dell’epopea azzurra, di aiutarvi a scoprire i momenti magici e gli attori, protagonisti e non, di tanti, tanti anni fa. Per poi fermarci all’estate dell’82, e chiudere con il trionfo più bello anche perché più inatteso, insperato. Rispettando e insieme coltivando sino in fondo la suggestione dei vent’anni da quella data fatidica. Chi penserà anche ad un pizzico, abbondante, di scaramanzia per l’avventura che va a ricominciare non sarà certamente fuori strada. La seconda è che le immagini parlano. E raccontano che l’ Italia di Madrid segna il confine tra calcio antico e moderno. Non certo da un punto di vista tecnico, o tattico, ma come fruizione, come prodotto, come pacchetto televisivo arredato e corredato, vivisezionato, a gioco lungo inflazionato. Gli azzurri di Bearzot sono stati gli ultimi di un’ epoca ancora consegnata all’ obbiettivo. Poi ha incominciato ad averla vinta lo strapotere delle telecamere. 1910-1930 PRIMI SQUARCI D’AZZURRO L’Italia del pallone nasce all’ Arena di Milano il 15 maggio 1910. Se interessa l’ora del primo calcio, sono le 15,30 del meridiano di Greenwich. Peccato non sia azzurra la maglia, ma bianca, con un colletto a due punte che sa più di camicia che di casacca. Diventerà del colore d’ordinanza, con un enorme stemma sabaudo, l’anno successivo sempre all’Arena con l’Ungheria. C’è giusto un fotografo, quel lontano primo giorno di scuola, le telecamere sono ben al di là da venire: sarà per questo che nessuno pretende l’inno di Mameli cantato più o meno a squarciagola. In compenso ci sono quattromila persone, che si divertono come matte ai sei gol rifilati alla Francia. E c’è in panchina nelle vesti di selezionatore un signore che di cognome fa Meazza, soltanto omonimo e non parente del sciur Pepin che da lì a vent’anni l’Italia la farà grande per davvero. Per il momento siamo ai tempi eroici. Renzo De Vecchi, che diventerà il figlio di Dio, ha soltanto sedici anni quando viene precettato, all’ultimo istante, per una trasferta a Budapest. Parte in fretta e furia in calzoni corti, perché così vestivano i ragazzi di allora, e al banchetto successivo alla partita –6-1 per loro- non ha che le stesse braghette da sfoggiare. Mentre avversari e dignitari della splendida Budapest di quegli anni sono in abito rigorosamente da sera. Gli avversari di quelle prime sfide sono Francia, Svizzera, Ungheria. Alle Olimpiadi del ’12 l’Italia va fuori dalla Finlandia, ma con molta dignità. A guidarla c’è già un giovanissimo Vittorio Pozzo, l’uomo che la porterà ai trionfi mondiali degli anni ’30. Dopo la lunga pausa bellica, e qualche periodo di alternanza sulla panchina perché Pozzo per fare il CT prende le ferie dalla Pirelli e non vuole una lira ( né mai la vorrà, più o meno sulla falsariga di quanto accade oggi), gli azzurri cominciano pian piano ad ampliare gli orizzonti. Agli avversari degli inizi si sono aggiunti Austria, Spagna, Cecoslovacchia. Sono fioriti i primi campioni, Baloncieri, Rosetta, Caligaris, quel Fulvio Bernardini che cinquant’anni più tardi diventerà commissario tecnico. E poi Combi, Levratto, e allo spirare degli anni ’20 i primi oriundi, argentini e uruguagi di chiare origini nostrane. Un nome per tutti, quello di Mumo Orsi, grande ala sinistra italo-argentina che la Juve compra a peso d’oro e d’oro ricopre: ottomila lire al mese, appartamento e automobile con chaffeur, una follia per quei tempi. Alle Olimpiadi del ’24 l’Italia viene eliminata nei quarti dalla Svizzera, nel ’28 in semifinale dall’Uruguay che da lì a due anni ospiterà, e vincerà, la prima coppa del Mondo. Ma la squadra è cresciuta. Si è evoluta tatticamente, ha assorbito senza traumi la rivoluzione del ’29 che non è quella nata dal crollo di Wall Street bensì dall’introduzione del fuorigioco, è circondata da una passione popolare via via più partecipe, cui non è ovviamente estraneo il nazionalismo spinto dell’epoca che da lì a pochi anni diventerà autarchia. Quando agli albori del ‘30 Vittorio Pozzo lancia due giovani mezzeali di talento superiore, l’alessandrino Ferrari e il milanese Meazza, la squadra è davvero pronta per il decollo. Passano quattro mesi. Il pomeriggio dell’11 maggio, a Budapest, l’Italia ottiene la più prestigiosa vittoria all’estero di tutti i tempi. Cinque a zero all’Ungheria, maestra della grande scuola calcistica danubiana, con la regia del vecchio Baloncieri e tre gol del giovane Meazza. La sera stessa i giornali di Budapest uscirono in edizione straordinaria, listati a lutto per la disfatta. Chissà se ripubblicarono una foto di De Vecchi con i calzoni corti. 1930-1942 GLI ANNI DELLA LEGGENDA Due titoli mondiali, una medaglia d’oro olimpica, una lunga serie di prestigiose vittorie in casa e fuori. Persino una sconfitta, allo stadio londinese di Higbury nel ’34, celebrata alla stregua di un trionfo per le circostanze eroiche in cui maturò. Tutto cominciò a San Siro nel febbraio del ’31, con la prima vittoria sull’Austria. Era un avversario-tabu, a sfatarlo pensarono prima Meazza e poi Orsi, che si permise di sbagliare un rigore nel finale. Non era ancora la squadra che da lì a tre anni avrebbe vinto il suo primo titolo, ma tassello dopo tassello Pozzo vi si stava avvicinando. Combi-RosettaCaligaris. Cominciava così, come una filastrocca, la formazione azzurra, che nel ’38 sarebbe poi diventata Olivieri-Foni-Rava e nell’82 Zoff-Gentile-Cabrini. Quasi un monocolore juventino, visto che otto di questi nove erano colonne bianconere e il solo Olivieri, della Lucchese, rappresentava il resto d’Italia. Ma scendendo per le formazioni c’erano poi folte rappresentanze di Inter, Bologna, Roma, le ali della Triestina nel ’38, un laziale solo che però di nome e cognome faceva Silvio Piola. Le rivalità esistevano anche allora, a maggior ragione nel primo quinquennio del ’30 che vide la Juventus vincere cinque scudetti consecutivi. Ma la Nazionale veniva prima di tutto. Ed è inevitabile, quanto assai poco lusinghiero per i giorni nostri, mettere a confronto le sofferenze di Pozzo, tramandate in pagine bellissime come si conviene ad un uomo che nel frattempo era diventato giornalista a La Stampa, ogni volta che gli toccava di lasciar fuori un fedelissimo, e le manfrine di oggi per dosare col bilancino i minuti di una partecipazione straordinaria in maglia azzurra. Grecia, Stati Uniti, Spagna, Austria e Cecoslovacchia le tappe del mondiale italiano. Segnato da qualche inevitabile favoritismo, arbitrale e ambientale, come sempre è accaduto nella storia dei mondiali vinti dalla squadra di casa. Tutto il contrario di quanto accadde invece in Francia, nel ’38, allorchè gli azzurri dovettero fare i conti anche con una profonda ostilità ambientale dovuta all’alleanza con la Germania hitleriana che il regime aveva stretto nel frattempo. Eppure, cominciata tra i fischi e i “macaronì” di Marsiglia nella gara inaugurale con la Norvegia, e proseguita sulla stessa falsariga contro Francia e Brasile, la marcia trionfale si chiuse tra gli applausi convinti dei parigini dello stadio di Colombes, tale era stata la qualità del calcio azzurro durante il cammino e poi in finale contro l’Ungheria. Nel frattempo l’Italia aveva vinto anche il torneo olimpico di Berlino del ’36, battendo in finale l’Austria con due gol dell’eroe di quei giorni, l’ala con gli occhiali, Annibale Frossi. E subito prima e subito dopo, nel marzo del ’35 e nel maggio del ’37, aveva violato gli altri due santuari della scuola danubiana, 2-1 a Vienna e 1-0 a Praga. Tre gol firmati da Silvio Piola. Successi che non ebbero una minima parte dell’eco che si riverberò dalla sconfitta londinese di Higbury, novembre ’34. Era la prima partita sul campo dei maestri britannici. Ceresoli parò un rigore al primo minuto, incassò tre gol imparabili nei dodici successivi e ne evitò con miracoli vari un’ altra mezza dozzina almeno. In dieci dal terzo minuto per una frattura al piede destro di Luisito Monti (allora i cambi non c’erano e gli zoppi finivano all’ala, non Monti che finì dritto all’ospedale) gli azzurri non solo riuscirono a resistere alla bufera ma nel finale, dopo i due gol di Meazza, andarono più volte vicini al pareggio. A dispetto di due titoli mondiali, Pozzo custodì nel cuore quella battaglia persa come la più bella delle imprese dei suoi ragazzi. 1946-1966 A SPASSO TRA LE ROVINE Ad alleviare le fatiche e gli stenti degli italiani nella lunga fase di ricostruzione dalle rovine della guerra provvedono le imprese di Bartali e Coppi. E quelle del grande Torino, non certo della nazionale, anche se in realtà l’identificazione è pressochè assoluta: come nel maggio del ’47, a Torino, allorchè Pozzo veste d’azzurro dieci granata su undici e con loro ha ragione dell’Ungheria. Il guaio è che con la prima maglia sulla pelle quello guidato da Valentino Mazzola è uno squadrone imbattibile: con la seconda no. Il 16 maggio del ’48 i granata vestiti d’azzurro subiscono dagli inglesi una memorabile lezione a domicilio. Lo zero a quattro aperto dal gol impossibile di Mortensen, è rimasto nell’immaginario calcistico come l’unica macchia nel cammino leggendario di una squadra che, da lì ad un anno, sarebbe scomparsa nel rogo di Superga. Al di là della tragedia, umana e sportiva, in quella primavera del ’49 comincia per la nazionale il periodo più nero. Nelle cinque edizioni successive del mondiale quattro eliminazioni al primo turno e, per soprammercato, l’onta di una eliminazione nella fase di qualificazione. Le tappe della via crucis del calcio azzurro, scandite da una babele di commissari tecnici veri e presunti, da manovre e intrighi federali da basso impero, dall’inutile impiego di oriundi che già avevano vestito le maglie delle loro vere nazionali, si chiamano San Paolo del Brasile nel ’50, Losanna e Basilea nel ’54, Santiago del Cile nel ’62, Sunderland e Middlesbrough nel ’66. Nel bel mezzo, l’eliminazione dal torneo svedese del ’58 in un girone con Portogallo e Irlanda del nord. In Brasile ci fu fatale la Svezia, in Svizzera i padroni di casa, in Cile ancora i padroni di casa, con la partecipazione straordinaria di un arbitro, l’inglese Aston, che vide soltanto i falli di reazione di Ferrini e David, e non i calci e i pugni dei picchiatori cileni guidati da Lionel Sanchez. In Inghilterra, dopo una marcia d’avvicinamento trionfale che prometteva glorie d’altri tempi, nientemeno che la Corea. E se nel ’50 tutto era stato compromesso in partenza da un interminabile viaggio in nave che aveva almeno una spiegazione, il terrore dell’aereo dopo Superga, sedici anni più tardi, assai più modestamente, l’errore decisivo fu di un CT, Mondino Fabbri, che mandò in campo Bulgarelli con ginocchio a rischio in un’epoca in cui ancora non erano contemplati i cambi. Davvero pochi gli squarci d’azzurro in quel ventennio, in cui pure il livello del calcio di club era qualitativamente molto alto: basti pensare alla Juventus dei primi e degli ultimi anni ‘50, al Milan del Gre-No-Li e poi di Schiaffino, a Milan e Inter dei primi anni ’60. Con grandi stranieri quasi sempre in vesti di leader, certo, ma anche con eccellenti covate nostrane mai valorizzate a dovere. Così, scorrendo l’albo d’oro dell’epoca, non saltano all’occhio che una vittoria a Stoccarda nel ’55, firmata da Frignani e Pivatelli contro i campioni del mondo in carica, e due batoste rifilate al Brasile, entrambe a San Siro, nel ’56 e nel ’63. Con tre gol del fiorentino Virgili nel primo caso, e quelli di Sormani, Mazzola e Bulgarelli nel secondo. Poco per compensare, al di là dei disastri mondiali, gli altri rovesci che punteggiarono quell’infelice epoca azzurra. Le ripetute batoste dalla grande Ungheria del colonnello Puskas, dalla Jugoslavia in casa e fuori, dalla Cecoslovacchia, da Russia e Inghilterra, persino dalla declinante Austria. Si andò avanti per anni a scrivere che solo chi cade può risorgere. Una volta toccato finalmente il fondo, martedì 19 luglio del ’66 contro la Corea, scoprimmo che per fortuna era vero. 1967–1982 VERSO IL TETTO DEL MONDO Avviata da un triestino, Ferruccio Valcareggi, la resurrezione del calcio azzurro fu completata e poi santificata da un friulano, Enzo Bearzot. L’infelice gestione di Rivera a Messico ’70 e quella felicissima di Paolo Rossi a Spagna ’82 servono ad illustrare la differenza tra i due. A parità di cocciutaggine, il primo, presto o tardi, finiva per dar retta a qualcuno: il secondo no. Con Valcareggi arrivò il primo trofeo dell’Italia del dopoguerra, il titolo europeo del ’68. Dalle ceneri coreane sopravvissero i giocatori di maggior talento: ma al loro servizio arrivarono uomini vocati alla corsa o al sacrificio, meglio ancora se ad entrambi. I Domenghini, i Bertini, la regia mobile di De Sisti, la modernissima interpretazione del ruolo di libero che dava il cagliaritano Cera. E poi Gigirriva, si capisce, il fuoriclasse, il trascinatore che due tibie avrebbe immolato sull’altare azzurro, chiudendo anzitempo una carriera sensazionale con 42 partite e 35 gol, quando ancora gli avversari non si chiamavano Estonia né Slovenia. Paradossalmente il grande Riva fallì, quasi del tutto, proprio l’appuntamento più atteso, il mondiale messicano che anticipò, in un certo senso, il trionfo spagnolo di dodici anni più tardi, con quell’avvio così stentato e quel crescendo nella fase ad eliminazione diretta. Quel giugno del ’70 è rimasto e resterà nella nostra memoria per le emozioni di segno opposto, violente quanto irripetibili, che vivemmo nel giro di quattro giorni: dalla gioia più sfrenata dei supplementari con la Germania alla delusione più cupa della finale col Brasile. Con il supplemento dell’incredulità di non veder sbucare Rivera dal sottopassaggio nel secondo tempo, abituati com’eravamo alla staffetta con Mazzola. Sull’uno a uno, quando tutto era ancora possibile. Per questo, che è entrato di diritto a far parte dei grandi misteri della storia d’Italia, finì a pomodori il rientro degli azzurri a Fiumicino. Accoglienza replicata quattro anni più tardi al ritorno dal mondiale tedesco, dopo la precoce eliminazione dalla Polonia. Ma quell’Italia, che pure aveva illuso un po’ tutti sei mesi prima andando per la prima volta a vincere a Wembley, era in realtà alla fine di un ciclo logorante e non più in grado, tra ruggini e lacerazioni aambientali, di reggere un torneo mondiale. Toccò a Bearzot rinnovare in prospettiva, dopo un breve interregno con Fulvio Bernardini. E al vecio riuscì, nel giro di poche amichevoli, il giusto dosaggio tra la nuova scuola olandese che suggeriva giocatori eclettici e la nostra che continuava comunque a sfornare gli specialisti di ruolo. In Argentina andò una nazionale più bella, più fresca, a gioco lungo più fatua, prima ancora di essere condannata dagli errori di Zoff. In Spagna, quattro anni più tardi, una squadra più matura, più pratica, più convinta di sé. Si trattava di trovarla per intero, quella convinzione. Arrivò dall’esterno, dalle critiche feroci quanto legittime per un girone iniziale tra l’imbarazzante e l’inverecondo. Il resto lo fece Bearzot, attirando su di sé i fulmini che piovevano da ogni dove e così motivando ulteriormente i giocatori, che già gli volevano bene come ad un fratello maggiore. Per dividere quel mondiale esattamente a metà gli azzurri, già ben diversamente tonici rispetto a Polonia, Perù e Camerun, stentarono ancora nel primo tempo con gli argentini. Per poi farli a fettine nel secondo, proseguire con un Brasile che pareva aver già vinto quel mondiale, e a cui pareggiare sarebbe bastato, la Polonia, e in finale la Germania. Una marcia trionfale tanto disinvolta da aver l’aria della formalità. Con l’Italia di quei primi di luglio di vent’anni fa nessuna squadra avrebbe avuto scampo. Fosse pure arrivata da Marte.