Opere di D`Annunzio lette ed analizzate: Il Piacere (P) L`innocente (I

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Opere di D`Annunzio lette ed analizzate: Il Piacere (P) L`innocente (I
Opere di D’Annunzio lette ed analizzate:
Il Piacere (P)
L’innocente (I)
Il Trionfo della Morte (TM)
Le vergini delle rocce ( VR)
La città morta (CM)
Il Fuoco (Fc)
Forse Che Si Forse Che No (F)
Il libro segreto (LS)
ARTE E MORTE, “SORELLE ETERNALI”
Alla scoperta del segreto di D’Annunzio
È davvero strano trovare la continua, ossessiva, incessante presenza della morte nelle opere di
D’Annunzio, universalmente associato a parole come vitalismo, panismo, superomismo. Il poeta ha
scritto il Trionfo della morte, ma non è mai riuscito a scrivere il “Trionfo della vita”, sebbene
l’avesse in programma. Amore e Morte sono sempre insieme, in tutta la sua produzione, da
L’Innocente a La figlia di Iorio, dal Fuoco a La città morta, testi che si spiegano a vicenda e che
sono tutti impregnati di un senso di disfacimento.
Memorabile l’incipit del Piacere, che contiene una sorta di messaggio subliminale: «L’anno
moriva, assai dolcemente….» (P, libro primo, I). Un continuo senso di angoscia domina il
Notturno, la cui scena più celebre è forse quella della visita al cadavere dell’amico Miraglia, steso
sul letto dell’obitorio. L’ultima lirica di D’Annunzio è dedicata ai suoi cani morti, che rosicchiano i
loro stessi ossi. La sua ultima opera significativa, Il libro segreto, era intitolato Il libro segreto di
Gabriele D’Annunzio tentato di morire ed uscì listato a lutto. Il testo si apre con il tentato suicidio
del poeta, e proprio la presenza ossessiva della morte nella vita appare come l’elemento unificante
della vicenda biografica dannunziana. «Nel nascere» si legge proprio all’inizio, «io fui come
impagliato dalla morte; sicchè non diedi grido». Rievocando alcuni fatti vissuti da bambino, egli
scrive: «Son tentato di chiamare studi di morte questi eventi della mia fanciullezza. [...] Avevo nove
anni. A quindici mi avvenne di voler morire». E in un altro frammento confessa di essere ricorso
cinque volte al farmaco letale, al sonno senza sogni (LS, Via crucis).
Sembra quindi che il poeta della Vita, dell’attività continua e frenetica, delle esperienze intense ed
inimitabili, sia vissuto continuamente ossessionato dalla paura della morte. La Vita, con la sua
promessa di bellezza, di felicità, di grandezza, con le sue chimere, gli appariva sempre insidiata dal
nulla («O vastità! O dismisura, misurata dalla cassa d’abete e dalla fossa!», LS, Regimen hinc
animi).
D’Annunzio confessa, in un appunto del 25 dicembre 1932, che c’è stato un momento della sua vita
in cui questa verità gli è apparsa in tutta la sua terribile evidenza: «Ma perché non posso né potrò
mai dimenticare l’ora quando per la prima volta le mie mani apparvero cadaveriche al mio sguardo
fisso?» (LS, Regimen). A giudicare da queste parole, l’impatto con la realtà della morte è avvenuto a
un’età piuttosto precoce. Il destino fatale che attende ogni uomo gli sembrava un’atroce limitazione
e una vera e propria ingiustizia, tanto da fargli disprezzare la stessa immagine superomistica che
dava di sé e che di sé veniva recepita da tutti: «Pur essendo così vasto e sempre teso in tanto diversi
sforzi, io abomino la strettezza del mio vivere, odio il mio vivere chiamato inimitabile, maledico
l’ingiustizia che mi mozza e tronca, mi altera e mutila, mi storce e frange» (LS, Via crucis).
Dunque il grido di Maya, «Ah perché non è infinito/ come il desiderio, il potere/ umano?», diventa
del tutto comprensibile: a che serve infatti un vivere inimitabile, se poi si viene umiliati da un
destino avverso?
Vi è una risposta molto precisa: l’uomo è fatto per la morte e la morte è il nulla. Gli dei (come il
poeta scrive nella lirica Il Gombo di Alcyone) hanno inflitto questo castigo «agli uomini obliosi del
sacro/ limite imposto all’ansia/ del loro desiderio immortale». Immortale il desiderio, mortali gli
uomini.
La persistenza del tema della morte ci fa ritenere che non sia del tutto esatto parlare di due periodi
in D’Annunzio, uno solare e uno notturno. In realtà luce ed ombra (con il netto prevalere della
seconda sulla prima) stanno sempre insieme in tutta la sua produzione. Anzi, proprio la morte è il
centro dell’arte del poeta, e il suo stesso estetismo le è strettamente legato. L’esaltazione dell’arte
come unica ragione di vita non è solo una posa, un’adesione alle idee e alle mode della letteratura
francese e inglese dell’epoca, o un tentativo di ritagliarsi, da poeta, uno status particolare in una
società dominata dall’interesse materiale. L’estetismo di D’Annunzio ha ragioni più profonde,
esistenziali. L’Arte è infatti da lui definita come sorella eternale della Morte, e solo Arte e Morte
possono riuscire ad abbracciare la Vita, a bloccarla, a darle una qualche eternità, come il poeta
dichiara nella già citata lirica Il Gombo, in questi versi illuminanti: «Poi che non val la possa/ della
Vita a comprendere tanta/ Bellezza, ecco la Morte/ che braccia più vaste possiede/ e silenzi più
intenti/ e rapidità più sicura;/ ecco la Morte e l’Arte/ che è la sua sorella eternale:// quella che anco
rapisce/ la Vita e la toglie per sempre/ all’inganno del Tempo/ e nuda s’innalza tra l’Ombra/ e la
luce, e le dona/ col ritmo il novello respiro:/ ecco la Morte e l’Arte/ apparsemi nel cerchio fatale».
Morte e Arte sono dunque sorelle, alleate contro l’inganno del tempo. A partire da questo centro
ideologico, tutta l’arte di D’Annunzio si illumina di una luce nuova. E’ come se in essa vi sia una
profondità segreta, terribile, seria, molto differente e lontana dalla superficie scintillante dei versi e
dalle pose eroiche e vitalistiche del Vate. Sotto la superficie c’è un lurido orrore della morte da cui,
per reazione, tutto dipende. Lo scrivere incessante, il continuo rinnovarsi, l’agire, il cantare il suo
canto spiegato furono dunque solo una sorta di rito magico, un esorcismo della morte?
“Sembra che la morte sia dappertutto”
«Non v’è scopo, non v’è meta, non fine nell’universo, e non v’è Dio» (LS, Regimen).
Ripudiata una visione religiosa del mondo, D’Annunzio matura una sorta di misticismo senza Dio.
Secondo la sua visione, il nulla è la sostanza e l’approdo di tutto, e la morte l’unica realtà certa, «il
teschio cavo che non vede nulla:/ di dura luce indistruttibilmente/ dentato, o Drosis, per tritare il
nulla» (LS, Regimen). In questa prospettiva l’uomo finisce con l’essere inabissato nel e dal Nulla,
prigioniero di un eterno ritorno, costretto a condurre un’esistenza intrappolata in una dimensione
ciclica e senza meta. Una situazione, questa, castrante e alienante, che limita inesorabilmente il
processo evolutivo dello spirito umano, condannandolo a ripetersi, e che soprattutto frustra
l’inspiegabile desiderio d’eternità presente nel cuore.
Immagini atroci, inquietanti o disgustose di morte sono molto presenti nella produzione di
D’Annunzio. Un sentimento di orrore sembra pervadere tutte le opere del poeta e la morte vi entra e
vi si mescola secondo modalità diverse.
A volte accade che particolari funebri vengano presentati in modo assolutamente inaspettato. Nel
Piacere Elena convince Andrea Sperelli a comprare un orologio che è «una piccola testa di morto
scolpita nell’avorio sulla cui fronte è inciso il motto: RUIT HORA. […] Quel gioiello mortuario,
offerta d’un artefice misterioso alla sua donna, aveva dovuto segnar le ore dell’ebbrezza e col suo
simbolo ammonire gli spiriti amanti» (P, libro primo, III).
Sempre all’interno di questo romanzo, si riscontra una presenza macabra anche quando Lord
Heathfield, marito di Elena, fa vedere ad Andrea i disegni di un artista morto giovane in un
manicomio. Vi sono immagini oscene di un erotismo macabro: un priapo, uno scheletro, una danza
di «scheletri muliebri, in un ciel notturno, guidati da una Morte flagellatrice»; «erano spaventevoli;
parevano il sogno d’un becchino torturato dalla satiriasi; si svolgevano come una paurosa danza
macabra e priapica; rappresentavano cento variazioni d’un sol motivo, cento episodi d’un solo
dramma. E le dramatis personae erano due: un priapo e uno scheletro, un phalluse un rictus» (P,
libro quarto, I).
Un espediente simile viene usato nel Fuoco, dove la morte si manifesta in modo improvviso, come
quando si narra del giro in gondola dei due protagonisti assieme al loro fedele servitore Zorzi: la
Foscarina intravede sulla superficie dell’acqua la carcassa di un cane morto. D’Annunzio insiste
senza ritegno sui particolari più crudi: «Una carogna gonfia e giallastra galleggiava presso il rosso
muro di mattone nelle cui fenditure tremolavano le erbe e i fiori, figli della ruina e del vento» (Fc,
parte II).
A titolo d’esempio si può citare anche il passo de La Città Morta in cui il personaggio di
Alessandro racconta quello che ha visto durante una cavalcata. Immagini vivide e serene si
trasformano immediatamente, nel loro contrario: «Tutte le campagne sono coperte di fiori selvatici
che muoiono; e il canto delle allodole riempie tutto il cielo. Ah che meraviglia! Non avevo mai
udito un canto cosi impetuoso. Migliaia di allodole, una moltitudine senza numero … Balzavano da
ogni parte si scagliavano verso il cielo … Una è caduta all’improvviso ai piedi del mio cavallo,
pesante come una pietra, ed è rimasta là, morta, fulminata dalla sua ebbrezza per aver cantato con
troppa gioia. L’ho raccolta eccola» (CM, atto primo, scena IV).
A volte parole e immagini appartenenti al campo semantico della morte possono apparire
improvvisamente e del tutto inattese, all’interno di una sequenza descrittiva:
«Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era un tramonto paonazzo e cinereo, un po’ lugubre, che a
poco a poco si stendeva su Roma come un velario greve. Intorno alla fontana della piazza Barberini
i fanali già ardevano, con fiammelle pallidissime, come ceri intorno a un feretro» (P, libro
primo,IV).
Proprio nel Piacere, questa tecnica viene riproposta all’inizio del secondo libro, quando Andrea
Sperelli, nel mezzo di una crisi spirituale, contempla il tramonto sul mare. Improvvisamente
D’Annunzio mette il lettore di fronte ad un’immagine atroce: «Vapori sanguigni e maligni ardevano
all’orizzonte, gittando sprazzi di sangue e d’oro sul fosco delle acque. […] E per quella luce tragica
un corteo funebre di vele triangolari nereggiava su l’ultimo limite. Erano vele d’una tinta
indescrivibile, sinistre come le insegne della morte; segnate di croci e di figure tenebrose; parevano
vele di navigli che portassero cadaveri di appestati… Un senso umano di terrore e di dolore
incombeva su quel mare, un accasciamento d’agonia gravava su quell’aria» (P, libro secondo,I).
Qui siamo di fronte ad una vera e propria allucinazione macabra.
Colpisce, in particolare, il ricorso ad immagini funebri in momenti in cui sembra trionfare la vita e
la gioia dei sensi. Nel Piacere, ad esempio, quando inaspettatamente, durante la scena di una
chiacchierata leggera tra amici a tavola, compare un mazzo di crisantemi: «Clara Green sfogliava
nel suo piatto i crisantemi, in silenzio, poiché il vin bianco e leggiere le si era convertito nelle vene
in un languor triste» (P, libro terzo,I).
Ancor più significativa è la scena, nel Fuoco, dell’amplesso tra Stelio e Foscarina, dove l’uomo
percepisce la calda umidità letale della donna e un rombo di morte. Poi, come di consueto, le
immagini si fanno ancor più macabre: «La donna gli pesava sopra con tutto il suo peso, lo teneva
allacciato e coperto […] con una stretta che non si allentava mai, indissolubile come quella del
cadavere quando le sue braccia s’irrigidiscono intorno al vivente» (Fc, parte II).
Spesso queste immagini di morte ricorrono all’interno di poesie e parabole, costantemente evocate
con maestria dai personaggi dei romanzi.
In apertura proprio del Fuoco, dopo la dichiarazione d’amore del protagonista Stelio Èffrena alla
sua amante, ecco dei versi citati dalla Foscarina che terminano con la ripetizione in anafora per ben
tre volte del nome Ade: « E le dirai: -O madre,mi chiama nel regno profondo/ Ade; mi chiama lungi
dal giorno a regnare su l’Ombre/ Ade; mi chiama solo al suo insaziabile amore/ Ade » (Fc, parte I).
Nello stesso romanzo, D’Annunzio fa raccontare a Stelio Èffrena la parabola del vetraio muranese
Dardi Seguso, l’artista impegnato in una gara contro il tempo e contro la morte. La sua vita infatti è
appesa ad un filo, esile come il filo rosso che egli si allaccia al collo per ricordarsi sempre il
possibile destino. E’ una storia tragica di amore e morte, che si conclude con il suicidio dell’amante
del Seguso e la morte del vetraio. Il commento di Stelio (che ha raccontato questa storia per
intrattenere piacevolmente Lady Mirta e Foscarina) è laconico: «V’è forse qualche somiglianza tra
la mia audacia e quella del Muranese. Credo che anche io dovrei portare intorno al collo un filo di
scarlatto, per ammonimento» (Fc, parte II).
D’Annunzio inoltre ricorre ai versi di altri poeti per inserire all’interno dei suoi romanzi immagini e
riflessioni sulla morte. Nel Piacere, ad esempio, quando Andrea Sperelli e la sua amante si recano
al cimitero a visitare la tomba del poeta Percy Bysshe Shelley, D’Annunzio sorprende il lettore
citandone versi sulla morte e sullo scorrere inesorabile del tempo che tutto scolora: «La Morte è qui,
e la Morte è là; da per tutto la Morte è all’opera; intorno a noi, in noi, sopra di noi, sotto di noi è la
Morte; e noi non siamo che Morte. La Morte ha messo la sua impronta e il suo suggello su tutto ciò
che noi siamo,e su tutto ciò che sentiamo e su tutto ciò che conosciamo e temiamo» (P, libro
quarto, II).
La stessa cosa accade nel Trionfo della morte, dove D’Annunzio prende in prestito stavolta i versi
del poeta Alfred Tennyson: «Cari come i baci ricordati dopo la morte; - dolci come quelli
immaginati da una fantasia senza speranza – su labbra che sono per altri; profondi come l’amore, come il primo amore, e selvaggi di rimpianto; - o Morte nella Vita i giorni che non sono più!» (TM,
libro secondo, X).
Qui la morte diviene l’altra faccia della medaglia della vita, una sorta di suo contrappunto. La Morte
è nella Vita. Si vive in compagnia della morte. Rovesciando Epicuro, se ci siamo noi, c’è anche la
morte.
“Il cor sentì che il giorno era più breve”
Nel Trionfo della morte cogliamo questa riflessione di Giorgio Aurispa, fatta proprio all’inizio
dell’avventura nell’eremo con Ippolita: «Sono già quindici giorni e nulla è mutato in me. Sempre
un’ansietà, sempre un’inquietudine, sempre uno scontento! Siamo appena al principio e già io
veggo la fine. Come dunque godere dell’ora che passa?» (TM, libro terzo, VII).
Questo tema è particolarmente sentito e presente in D’Annunzio: in modo ossessivo e ripetuto il
tempo è presentato come un nemico che distrugge tutto e rende vana la vita. Tutto sfiorisce tra le
mani dell’uomo, l’istante, anche quello meraviglioso, passa presto e non si può fermare.
D’Annunzio usa proprio la metafora dei fiori appassiti per darcene l’immagine. Sempre nel Trionfo
della morte, nel momento in cui i due protagonisti stanno per lasciare l’albergo di Albano, «Ippolita
raccolse tutti i suoi fiori già appassiti nei bicchieri» (TM, libro primo, VI). Quei fiori sono il
simbolo degli attimi di felicità già morti, appartenenti ad un passato irrevocabile.
Fermiamoci in questo romanzo per sentire l’inconsistenza degli attimi fuggenti che divorano
letteralmente le vite dei personaggi, caratterizzati da una perenne infelicità che va a sfociare in una
tristezza e malinconia assolute.
Ecco ancora le sensazioni di Giorgio e Ippolita al termine della vacanza ad Albano: «Ancora un
frammento del loro amore e del loro essere cadeva nell’abisso del tempo, distrutto. Giorgio disse:
“Anche questo è passato”. […] Ed ascoltarono il romore eguale e continuo che facevano i selciatori
nella strada battendo le selci. Quel romore accorante aumentò la loro pena. […] Quegli urti
cadenzati acuivano in lui il sentimento della fugacità del tempo, ch’egli aveva già altre volte
esperimentato ascoltando le vibrazioni del pendolo» (TM, libro primo, VII). Tutto rimanda
all’ossessivo battere del pendolo e questa consapevolezza rende la gioia impossibile: «E quando le
immagini si diradarono e la conscienza senza più seguirle si ripiegò su se stessa, ambedue trovarono
in fondo una sola ineffabile angoscia: il rimpianto dei giorni irrimediabilmente perduti trascinava
dietro di sé, nel tempo, una immensa rete oscura, tutta piena di cose morte. […] Il loro amore aveva
dietro di sé un lungo passato» (TM, libro primo, IV).
Per Giorgio Aurispa contemplare gli istanti belli vissuti nel passato significa contemplare una
specie di cimitero. Dopo aver riletto le vecchie lettere scritte ad Ippolita le giudica come epitaffi in
un cimitero, perché parlano di sentimenti, turbamenti, sensazioni che non sono più: «Come gli
epitaffi danno un’idea grossolana e falsa delle persone morte, cosi quelle lettere mal
rappresentavano i diversi stati pe’ quali l’animo dell’amante era passato» (TM, libro primo, IV).
Il passato è passato, e non c’è alcun modo di farlo tornare in vita.
La progressiva consapevolezza del lento disfacimento del corpo e della mente, tratto caratteristico
dei personaggi dannunziani, è esemplare nella figura di Radiana nel Fuoco, la contessa di Glanegg,
prigioniera del tempo, la quale «quando in un mattino troppo chiaro si accorse che era venuto per lei
il tempo di sfiorire, risolse di accomiatarsi dal mondo perché gli uomini non assistessero al
deperimento e allo sfacelo della sua bellezza illustre. [...] Si dice che nella casa non vi sia uno
specchio e ch’ella abbia dimenticato il suo volto» (Fc, parte II). In questo caso il personaggio non è
squisitamente il frutto della fervida immaginazione dello scrittore. E’ noto che il poeta nella sua
villa del Vittoriale coprì tutti gli specchi perché aveva paura di assistere al proprio disfacimento.
Viene facile citare, a proposito del rapporto Morte-Tempo, due celebri liriche di Alcyone. La prima
è La Sabbia del Tempo, in cui l’appressarsi della morte viene rappresentato proprio attraverso il
giorno, che diventa sempre più corto e breve, e dall’immagine dell’ombra che cresce e invade il
giorno. Molto efficace è l’immagine della sabbia che scivola tra le mani, come in una clessidra della
vita che non si ferma davanti a nulla.
L’altra lirica è Nella belletta, nella quale D’Annunzio ci presenta immagini e sensazioni di
disfacimento e morte. L’importanza di quest’ultima nel componimento è anche dettata dall’unica
rima, che è proprio data dalla parola morte posta in chiusura delle due terzine. In una «dolcigna afa
di morte» tutto si sfa, marcisce, diventa nulla.
Se il passato è solo un cimitero, se il presente sfugge di mano e muore di continuo, il futuro è
annuncio di morte: «Egli pensò alla fuga degli anni, la catena ribadita per sempre dell’abitudine,
l’immensurabile tristezza dell’amore divenuto un vizio stanco. Vide se stesso, nel futuro, legato a
quella carne come il servo al suo ferro, privo di volontà e di pensiero, instupidito e vacuo; e la
concubina sfiorire, invecchiare, abbandonarsi senza resistenza all’opera lenta del tempo, lasciar
cadere dalle sue mani inerti il velo lacerato delle illusioni ma conservar tuttavia il suo potere fatale;
e la casa deserta, desolata, silenziosa, aspettante l’estrema visitatrice morte» (TM, libro quinto, II).
La morte è davvero l’unica realtà certa per D’Annunzio.
“Laudata sii per la tua pura morte”
Ma la morte è concepita e presentata da D’Annunzio anche come colei che ha la capacità di portare
la realtà in un’altra dimensione e come unica possibilità di dare purezza eterna a ciò che si ama di
più. Archetipo fondamentale, essa rappresenta la tappa necessaria all’elevazione spirituale. E’ una
forma di idealizzazione estetica. Essa ha inoltre la funzione di fissare in eterno ciò che invece si
corromperebbe e si rovinerebbe.
Questa concezione è espressa nel Piacere, quando Andrea Sperelli viene a conoscenza della morte
di Donna Ippolita, per il cui amore aveva rischiato di rimanere ucciso in duello: «Gli piaceva che la
sua avventura terminasse cosi, per sempre. Quella donna non posseduta, pel cui acquisto egli era
stato sul punto di rimanere ucciso,quella donna quasi sconosciuta gli si levava unica intatta su le
cime dello spirito, nella divina idealità della morte» (P, libro terzo, II).
Allo stesso modo Giorgio Aurispa, nel Trionfo della morte, guarda alla morte di Ippolita,
considerata come unica possibilità di purificazione e salvezza: «Io penso che morta ella raggiungerà
la suprema espressione della sua bellezza. Morta! -E se ella morisse? Ella diventerebbe materia di
pensiero una pura idealità. Io l’amerei oltre vita,senza gelosia, con un dolore pacato ed eguale»
(TM, libro terzo,VII).
Le contraddizioni della realtà, le disarmonie, le gelosie, le paure, per Aurispa svanirebbero solo a
patto di annientare la realtà, in questo modo trasferita in un orizzonte puro, sublime e definitivo:
«Da un’esistenza precaria e imperfetta ella entrerebbe in una esistenza completa e definitiva,
abbandonando per sempre la sua carne inferma, debole e lussuriosa. Distruggere per possedere- non
ha altro mezzo colui che cerca l’amore nell’Assoluto”» (TM, libro quarto, III).
Le riflessioni e le aspirazioni di Giorgio Aurispa, tornano nel personaggio di Leonardo de La Città
Morta, che uccide la sorella Bianca Maria; con la morte ogni cosa risulta purificata e circondata da
un alone di bellezza: «Io ho abbassato le palpebre su i suoi occhi… ah più dolci d’un fiore su un
fiore. E ogni macchia è scomparsa dalla mia anima; io sono divenuto puro, tutto puro. Tutta la
santità del mio amore primo è tornata alla mia anima come un torrente di luce. Guardala, guardala!
Ella è perfetta; ora ella è perfetta. Ora ella può essere adorata come una creatura divina» (CM, atto
quinto, scena unica).
La realtà deve essere distrutta. Questa distruzione si ottiene con l’eliminazione violenta, ma può
capitare che la realtà stessa s’incammini spontaneamente verso la “pura morte”, che si tolga di
mezzo da sola, e in questo caso è da laudare, secondo l’espressione de La sera fiesolana.
Non è raro trovare in D’Annunzio figure femminili che per rendere felice il proprio amante (il quale
deve poter essere libero per espandere il proprio genio e per compiere la propria missione) sono
disposte a farsi da parte, a scomparire. E’ questa la convinzione di Foscarina, comunicata a Stelio:
«Bisogna che io muoia, amico mio dolce, bisogna che io muoia!- disse la donna, dopo un lungo
silenzio, con una voce straziante, sollevando la faccia dal cuscino dov’ella l’aveva premuta per
domare la convulsione di voluttà e di dolore che le avevano date le carezze improvvisi e furenti»
(Fc, parte II).
Analogamente alla Foscarina, anche Donna Maria, nel Piacere, sente su di sè un bisogno di morte:
«Io morirò amico mio. Vado a morire lontana da te, sola sola. Tu non mi chiuderai gli occhi… Ella
gli parlava della sua fine con un sorriso profondo, pieno di certezza rassegnata» (P, libro quarto, II).
Questa breve rassegna, necessariamente lacunosa, voleva dare un’idea di come tutti i personaggi di
D’Annunzio sentano il fiato della morte sul collo. C’è chi la teme, chi l’accarezza, chi arditamente
la sfida, chi la domina. L’impudenza e il coraggio si lasciano attraversare e fiaccare dal sentimento
del tempo e della morte. Una fine ardentemente attesa è vista come unica salvezza e soluzione
all’immutabilità dell’esistere.
L’esorcismo della morte
La produzione di D’Annunzio è caratterizzata dalla continua, ossessiva presenza della morte, così
come la sua vita: la sua ultima opera, Il libro segreto, annunciato come “la rivelazione della sua
vita”, è tutto impregnato di una meditazione sulla morte. In particolare, in un frammento dedicato
agli amici morti, il poeta esprime tutta la propria angoscia in quanto essi si sono ormai «adeguati al
nulla» ed è dunque «impossibile è raggiungerli, ricongiungersi co’ loro spiriti». Alla fine di un
sempre più angoscioso climax arriva, come un grido di morte, un verso ripreso da Ovidio: «Me
luridus occupat horror». Poi continua: «Carpe diem? Disciplina ascetica? Attrarre ogni cosa ogni
evento ogni apparenza nella mia arte, nelle mie arti: questa è la mia legge» (LS, Regimen hinc
animi).
Il messaggio espresso da queste parole è chiaro: l’unico modo per reagire all’horror ed esorcizzare
la morte è darsi completamente all’Arte, attrarre tutto in essa.
Ci sono due frammenti del Libro segreto che possono essere considerati la chiave di lettura per
capire fino in fondo D’Annunzio. Essi sono quasi identici, tanto che la loro ripetizione può
sembrare una svista dell’autore, ma non è così; nel primo il poeta scrive: «Ora che so alfine qual sia
la vera essenza dell’arte, ora ch’io posseggo la compiuta maestria, ora non ho se non il mattino di
domani per cantare: e per illudermi d’esser lieto!» (LS, Regimen). Nel secondo vi sono delle
significative varianti: è passato un giorno, e quindi il poeta non ha «se non il vespro di domani per
cantare il novo mio “Canto novo”, e per illudermi d’esser lieto» (LS, Regimen). I due frammenti
dicono chiaramente che, di fronte al tempo che passa, l’unico antidoto è cantare. L’Arte è un
rimedio per la dissoluzione, garantisce l’illusione Cantare, esprimersi è allora una vera e propria
necessità esistenziale: «L’espressione è il mio modo di vivere, esprimermi esprimere è vivere» (LS,
Regimen).
Bisogna essere felici, bisogna illudersi di esserlo. E’ l’unico modo per sopravvivere, l’unico
antidoto al suicidio. Questa felicità illusoria D’Annunzio non la cerca solo per sé, ma sente come il
bisogno di donarla agli altri, coinvolgendoli nella sua illusione, nella sua capacità di produrre
illusioni. Il poeta affida ai personaggi delle suo opere il compito di esplicitare il suo pensiero.
Nel Fuoco la Foscarina loda Stelio per la sua capacità di essere Imaginifico, generatore di
immagini, di favole che regalano momenti di felicità. Ed è proprio questo l’obiettivo della visita del
giovane a Foscarina e Lady Myrta: le due donne sono il volto dell’infelicità, l’una perché sente la
propria giovinezza svanire e con essa l’amore di Stelio; l’altra perché ha un corpo da vecchia in cui
è intrappolato un cuore giovenile e quindi non può più dare realtà ai propri sogni.
Quando l’Imaginifico arriva, per un’ora fa dimenticare alle due infelici il resto del mondo,
allietandole con le sue storie, coinvolgendole nella sua illusione di felicità. Per intrattenerle elenca
le qualità di Donovan, il suo preferito tra i cani da caccia di Lady Myrta, alla quale inoltre racconta
le vicende di Gog, un levriero che ella gli aveva precedentemente donato, che è rimasto storpio
durante una battuta di caccia ma ha continuato a seguire fedelmente il suo padrone. Stelio inoltre
racconta alle due donne la lunga storia di Dardi Seguso e Perdilanza, mettendo in campo tutta la sua
abilità affabulatoria.
L’Imaginifico, con il solo aiuto delle parole, è riuscito a rendere felici le due donne: «Ecco che, con
la sua presenza, aveva portato in mezzo al consueto lavoro un’animazione insolita, il lieto ardore
del gioco ch’egli proseguiva nella sua vita perpetuamente». Stelio gioca nella propria vita e gioca
per la vita degli altri. È l’animatore, capace di accendere «di bellezza e di passione gli attimi
fuggitivi» e di comunicare «per contagio il fervore della sua vitalità ai prossimi», sollevando gli
spiriti «a una sfera superiore» (Fc, parte II).
Vita e Arte si mescolano continuamente insieme; è lo stesso concetto che D’Annunzio esprime nella
lirica Consolazione, facente parte del Poema paradisiaco. Il poeta immagina di andare a trovare sua
madre, ormai vecchia, e di invitarla a passeggiare con lui nel giardino. Tutta la lirica è incentrata sul
tentativo di D’Annunzio di illudere sua madre sul tempo che passa e distoglierla dalle cattive cose,
attraverso la creazione continua di immagini che dovrebbero distrarla e renderla felice almeno per
un po’. Per esempio, egli comporrà per lei un canto al cembalo, così «tutto sarà come al tempo
lontano» (v. 65). Quella di D’Annunzio è una vera e propria strategia, come egli stesso confessa in
un altro frammento sempre del Libro segreto: « Se vieni con me per un sentiere che tu hai passato
cento volte, il sentiere ti sembra novo» (LS, Regimen).
Anche Andrea Sperelli eccelle nell’arte di illudere: questa capacità gli è riconosciuta da Maria, che,
conquistata dalla sua abilità, gli confessa: «Mi sembra che tutte queste cose non sieno fuori di me,
ma che tu l’abbia create nell’anima mia, per la mia gioia. Ho questa illusione in me, profonda, ogni
volta che io sono innanzi a uno spettacolo di bellezza e che tu mi sei vicino» (P, libro terzo, IV).
Maria è consapevole del fatto che il giovane è un perfetto creatore di illusioni, e che ciò che sta
vivendo non è reale, ma confessa, nello stesso tempo, che tutto questo la rende felice.
Le parole di Maria ricordano un altro frammento del Libro segreto in cui D’Annunzio riporta un
colloquio tra lui e una sua amante; ella gli chiede: «Ariel, come puoi tu dare tanta felicità? Tanta
tanta felicità». Lui risponde: «Perché sono tanto infelice, tanto tanto infelice» (LS, Regimen).
Questo frammento è una preziosissima conferma: dietro l’Imaginifico, dietro il pirotecnico
animatore, si nasconde un uomo profondamente infelice. La vita di D’Annunzio è stata una
continua finzione, un disperato tentativo di salvarsi grazie all’Arte. Infatti confessa, sempre ne
Libro segreto: «Dinanzi ai visitatori agli indagatori ai testimoni la mia cupa tristezza ha il volto e il
gesto di una allegrezza quasi frenetica. Chi mai mi vide ‘triste’? Chi mi vede triste? […] La mia
gioia palese è l’esaltazione e l’esasperazione del mio coraggio. E non di rado mi avviene che dal
mio studio di nascondermi nasca una singolarissima gioia intima, quasi a compensarmi dello sforzo
[…] la vera alchimia spirtale […] Alludo alla facoltà di creare da una qualsiasi cosa contraria una
perfetta cosa contraria: alla virtù di conciliare l’inconciliabile e di dominare l’indomato, di asservire
l’indocile e di servirmene con eleganza accorta» (LS, Regimen). In queste parole si nasconde il
grande segreto di D’Annunzio: dietro le sue immagini di vita, di gioia, di allegrezza frenetica c’è
sempre una cupa tristezza, cioè l’esatto contrario. La sua vita passa nell’esercizio di nascondersi e
nel faticoso tentativo di conciliare gli opposti.
Forti di questa rivelazione, possiamo forse reinterpretare dei celebri brani dannunziani, come La
pioggia nel pineto: questa poesia è universalmente considerata una dimostrazione del suo vitalismo
panico, ovvero la volontà di fondersi e identificarsi gioiosamente con la vita vegetale e provare tutte
le esperienze possibili in una vita oltreumana. Tuttavia, la metamorfosi con la natura, evocata dal
ritmo travolgente della strofa dannunziana, è finalizzata a creare la favola bella che illude. Siamo
quindi di fronte a un potente esorcismo della morte, a un tentativo di nascondere la cupa tristezza
con l’apparente vitalismo della lirica.
Ne troviamo conferma in un passo del Trionfo della morte, dove Giorgio Aurispa esprime la sua
idea di vita superiore: «Camminare tra le creature vegetali come tra una moltitudine di intelligenze:
sorprenderne il pensiero occulto e indovinare il sentimento muto che regna sotto le scorze; rendere
successivamente il mio essere conforme a ciascuno di quegli essere e sostituire successivamente
alla mia anima gracile e obliqua ciascuna di quelle anime semplici e forti […] mutarmi infime, per
una laboriosa metamorfosi ideale, nell’albero eretto che assorbe con le radici gli invisibili fermenti
sotterranei ed imita con l’agitazione delle sue cime il verbo del mare. Non è questa forse una vita
superiore?» (TM, libro terzo, II).
La situazione di Giorgio Aurispa è la stessa de La pioggia nel pineto: egli, che sta vivendo una
delle sue ricorrenti crisi e cerca di fronteggiare la sua debolezza, si lascia sopravvincere da una
specie di ebrietà panica e si abbandona al sogno. Poco dopo, però, realizza di non avere davvero
contatto con la natura e che «è impossibile all’uomo comunicare con le cose. L’uomo potrà
infondere nelle apparenze create tutta la sua sostanza, ma non riceverà mai nulla in cambio» (TM,
libro terzo, II). Questa è appunto la coscienza della favola bella con la quale si illude se stessi e gli
altri. E questa favola nasce dalla depressione.
D’Annunzio ci appare dunque come un uomo che non riesce a vedere la vita senza la morte, che
non riesce a essere felice senza quell’illusione che egli sa creare grazie alla sua capacità alchemica
di mescolare l’inconciliabile. La sua opera, e quell’opera particolare che fu la sua vita, è il frutto dei
«prodigiosi capricci del genio bizzarro preposto a vestire gli scheletri» (LS, Regimen). Al fondo
della sua arte, come della sua vita, c’è sempre un inevitabile senso di morte.
È a Stelio Èffrena che D’Annunzio affida il compito di esplicitare il suo obiettivo: «Io penso che
ogni uomo d’intelletto possa, oggi come sempre, nella vita creare la propria favola bella» (Fc, parte
II). È in questa frase la chiave della vita del poeta, la spiegazione del suo pensiero, ciò che ci fa
capire il senso della creazione di una sorta di illusione universale.
Verso «finzioni gigantesche»
Nel 1898, D’Annunzio concepisce il cosiddetto teatro grande o teatro totale, un progetto che fa
scalpore nel mondo dello spettacolo: è la costruzione di un teatro all'aperto per rappresentazioni di
opere classiche e di tragedie moderne, allo scopo di riproporre i moduli del teatro antico al posto del
realismo imperante nel teatro borghese contemporaneo, con il quale coinvolgere un pubblico più
ampio, anche poco preparato a livello culturale. Un antenato disegno di cinema, pubblicità e
televisione.
Forse all’origine del progetto c’era anche il desiderio di estendere universalmente quell’illusione
che era solito creare per sé e per le persone più vicine a lui. D’Annunzio voleva essere colui che
porta il sogno nella carcere cotidiana dove tutti servono e soffrono; voleva essere la figura del poeta
che esorcizza il dolore non solo per se stesso, ma anche per gli altri, per il popolo. Questo
programma fa la sua comparsa nelle opere di D’Annunzio, per la prima volta, con il personaggio di
Stelio Effrena. Il protagonista del Fuoco è alla ricerca «della più esatta espressione, verso
l’impronta del più alto stile» (Fc, parte I), per riuscire al meglio a portare l’illusione nella mente di
tutti. È sempre pronto a prendere quello che le persone vogliono avere, anche inconsciamente, e
trasformarlo in arte: si appropria dei desideri impossibili e li rende possibili con l’immaginazione.
Nella scena durante la quale Stelio tiene un discorso davanti all’alta società Veneziana si genera una
sorta di “comunicazione elettrica”, stabilita tra il dicitore e l’uditorio. Il giovane poeta, in balìa di un
ignoto potere, abolisce i confini della sua persona e la sua voce acquista la “pienezza di un coro”.
Egli è il tramite «pel quale la Bellezza porgeva agli uomini… il dono divino dell’oblio» e «per
un’ora quegli uomini dovevano contemplare il mondo con occhi diversi, dovevano sentire pensare e
sognare con un’altra anima» (Fc, parte I).
Il compito dell’artista diventa quello, come del resto si afferma anche nelle Vergini delle rocce, di
difendere il proprio sogno e di regalarlo agli altri. I poeti, in particolar modo, saranno coloro che
avranno la funzione di generare delle finzioni gigantesche, perché «sola nell’universo la poesia è
verità» e consente la «vittoria sulla vita» (Fc, parte I). L’Arte si configura come colei che trionfa
sulle inquietudini e i tedii dei giorni comuni. Essa riesce a creare un felice intervallo in cui non si
pensa più ai dolori e ai bisogni quotidiani. Sembra di poter modificare addirittura il destino.
D’Annunzio pensa allora di portare questo dono a infinite moltitudini, che vorrebbe convogliare in
profondi teatri. Queste moltitudini condividono con lui un bisogno di verità e bellezza e soprattutto
un bisogno di liberazione: «Il popolo consiste di tutti coloro i quali sentono un oscuro bisogno di
elevarsi, per mezzo della Finzione, fuor della carcere cotidiana in cui servono e soffrono» (Fc, parte
I).
Cosa fornirà l’arte futura? «Una meravigliosa trasfigurazione della vita» che per qualche attimo
interrompe l’angoscia umana, placa la sete e dona l’oblio. D’Annunzio scriverà nel Libro segreto
che «la menzogna è la druda dell’oblio» (LS, Regimen hinc animi). Per sopravvivere al dolore
bisogna mentire e, per raggiungere una falsa perfezione per l’anima, è opportuno che chiunque
venga trascinato nella Finzione.
Qui D’Annunzio è molto attuale. I profondi teatri nei quali dovevano essere addensate le
moltitudini si sono perfettamente realizzati, però in un modo ancora più efficace: non è il popolo a
muoversi verso il teatro, ma è il teatro a raggiungere il popolo. Attraverso la televisione entrano
quotidianamente nelle case quelle gigantesche finzioni che il poeta sognava e che moltiplicano
enormemente quelle ore di felice intervallo che consente di dimenticare il carcere costituito dalla
vita di tutti i giorni. Non è un caso che D’Annunzio si coinvolse con entusiasmo in tutte le nuove
opportunità che offriva al suo genio la nascente società di massa. Si occupò, infatti, di pubblicità, di
marketing, di cinema.
Il progetto dannunziano è perfettamente funzionale, già fin da allora, a quella che viene definita
“ideologia del post-moderno” che, come si legge nella raccolta di saggi del filosofo Massimo
Borghesi Secolarizzazione e nichilismo (2005, Cantagalli), costituisce «l’ultimo tentativo di
chiudere il mondo in se stesso, di de-finirne la perfetta compattezza, la rotondità senza smagliature.
[…] Il soggetto è libero dallo stato di costrizione in cui lo tiene la realtà data, ma è libero in
negativo, e come tale fluttuante, poiché nulla v’è che lo tenga. Ma proprio questa libertà, proprio
questo fluttuare trasmette all’ironista un certo entusiasmo, nel senso che s’ubriaca come degli
infiniti possibili e, dovesse consolarsi di tutto quanto va in rovina, può sempre far fondo alle riserve
enormi della possibilità».
Quella post-moderna, spiega ancora Borghesi, è una visione estetica della realtà, in cui essa «perde i
contorni rigidi, collocandosi su un piano in cui non si distingue più nettamente dalla fantasia». Non
era forse questo l’obiettivo di D’Annunzio? Non voleva portare se stesso e gli altri in un mondo
onirico in cui i confini con il mondo vero si fanno tenui e la realtà tende a farsi virtuale? Tutto
diventa una gigantesca favola bella e in questa «affabulazione del mondo viene ad accadere ogni
aspetto drammatico dell’esistenza. L’atarassia post-moderna rende insensibile il cuore mediante la
moltiplicazione, estenuante, degli stimoli, dissolvendo l’impatto con la realtà. Il ‘principio del
piacere’, elevato a criterio supremo, richiede la rimozione del dolore e della morte, la loro
trasfigurazione ‘estetica’» (Borghesi, cit.).
Il fare della vita un’opera d’arte acquista, a questo punto, un significato ben più profondo di quello
letterale: se l’Arte è sorella eternale della Morte allora questa metamorfosi diventa un
combattimento, per tutti, contro la paura di scomparire nell’abisso, spoglio da qualsiasi illusione.
«L’elevazione all’Uno […] avviene ora non mediante la ragione ma, grazie al suo superamento, in
direzione di un mondo onirico, di sogno» (Borghesi, cit.).
D’Annunzio, creatore di immagini come di idoli e donatore di speranza, sembra dare vita nelle sue
opere a un neopaganesimo che ha, come principio, l’autoredenzione: la liberazione dell’uomo da
ogni costrizione della realtà e dell’Essere. In effetti, perseguendo per sé e per tutti la chiusura
onirica del mondo, «impedisce alla genuina domanda religiosa di emergere», diffondendo un
nichilismo gaio che non considera il nulla come l’abisso in cui finisce, senza alcun senso, la vita
umana, ma come un contenitore da riempire nelle forme più strane e varie. La persona vincente è,
dunque, l’Imaginifico, l’animatore, l’attore che sa fingere una parte, l’homo-ludens. Il mondo come
favola è concepito come luogo della salvezza. L’Arte sembra essere riuscita definitivamente a
imbrigliare la Vita.
Ars longa, vita brevis
L’Illusione non dura e l’unica a trionfare veramente è la Morte, che può essere solo dimenticata,
rimossa, esorcizzata, ma mai sconfitta. La morte dell’artista è un’immagine ricorrente in
D’Annunzio, che ha il suo culmine nella celebre rappresentazione del funerale di Wagner, a
conclusione del Fuoco. Il grande musicista è definito da Stelio Effrena come «colui che aveva
trasformato in infinito canto per la religione degli uomini le forze dell’Universo» (Fc, parte II). Ma
la figura del creatore barbarico appare al giovane poeta in tutto il suo deperimento: i capelli
bianchi, il corpo immobile, accasciato… C’è come un senso di rassegnazione di fronte al potere
immenso della Morte che, per contrasto, porta ad una forma di attività febbrile, alla riaffermazione
del proprio credo: «Il verso è tutto e può tutto. […] Può rappresentare il sopraumano, il
soprannaturale, l’oltramirabile; […] può infine raggiungere l’Assoluto» (P, Libro Secondo, I). Di
nuovo l’esorcismo. Ma un po’ tutta la produzione di D’Annunzio, come abbiamo visto, è un grande
esorcismo della morte.
Il poeta sfidava il suo lettore: «Certo io non vorrò mai raccontare – dichiara in un frammento del
Libro segreto- quel che so e che voi ignorate ne conoscerete mai. Io ve lo dico senza rancore e
senza orgoglio, pacatamente: mai». Ma forse il suo segreto era proprio quell’orrore della morte che
lo accompagnava in ogni istante, e tutte le immagini più vivide e vitali nascevano come reazione a
quell’orrore.
In uno dei frammenti della sezione Via Crucis, D’Annunzio collega alle pulsioni suicide della sua
fanciullezza «l’impresa della Cornucopia»: il motto «io ho quel che ho donato», incorniciato da una
o due Cornucopie. Cosa restava, appunto, al poeta? Quell’Illusione che per tutta la vita aveva voluto
donare anche agli altri.
La sezione Regimen hinc animi del Libro segreto si apre con un pensiero del 21 Settembre 1898, nel
quale D’Annunzio dice di avere alcune schegge di legno dei cipressi piantati da Michelangelo
presso le terme di Diocleziano e aggiunge: «Se io ne facessi uno scrigno, che cosa vi chiuderei?
Forse l’altro mio cuore; forse il libro che non ho scritto: il libro dell’altra mia vita».
Cipressi michelangioleschi. Morte e Arte. Le sorelle eternali, alle quali D’Annunzio affidava il
segreto della sua vita.
Elena Brozzi
Pierpaolo Moroni
Laura Sorgato
Cecilia Stassi