le “ricadute” del decentramento e dell`autonomia

Transcript

le “ricadute” del decentramento e dell`autonomia
LE “RICADUTE” DEL DECENTRAMENTO E DELL’AUTONOMIA
SCOLASTICA IN MATERIA DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE
Sommario: 1. Premessa – 2. La scuola come sta cambiando e dove si trova – 3. Le ricadute: a) sull’autonomia
delle scuole – 4. (segue)… b) sul modo di intendere le “norme generali sull’istruzione” – 5. (segue)… c) sul
rapporto tra scuola pubblica e scuola privata (in particolare sulla parità scolastica) – 6. (segue)… d) sulla clausola
“senza oneri per lo Stato” – 7. (segue)… e) sull’istruzione e sulla formazione professionale – 8. (segue)… f) sul
diritto allo studio – 9. Fine.
1. PREMESSA
Una difficoltà, prima di tutto, grava su quanti, oggi, vogliono farsi interpreti (iure condito) del mondo della
scuola: la consapevolezza di essere chiamati a ragionare e discutere in assenza, per grande parte, di un quadro
normativo dato e sufficientemente stabilizzato. E ciò sia per eccesso, che per difetto di normazione.
Sotto il primo profilo, eccesso di normazione, è un fatto indiscutibile che dopo ottant’anni di torpore e di
sostanziale acquiescenza all’assetto voluto da Gentile (seppur aggiustato e qua e là accomodato1) si è messo mano
(recte: si è tentato e si è stati tentati di metter mano) due volte in meno di tre anni al sistema scolastico con velleità
di organica razionalizzazione: prima, con la riforma Berlinguer 2, lasciata inattuata, quindi, con la (contro)riforma
Moratti, di cui è difficile prevedere esiti e durata3.
Non è di certo questo il luogo per soffermarsi sul paradosso di una legge (L. 30/2000) i cui regolamenti di
attuazione sono stati paralizzati nel nome di un disegno di legge (A.S. n. 1306; A.C. n. 3387, divenuto poi la legge n.
53/2003) del quale, non ancora entrata in vigore, è stata avviata la sperimentazione e, soprattutto, sul metodo di
imporre a co lpi di maggioranza, e non sulla base di un consenso diffuso, riforme di luoghi strategici
dell’ordinamento inevitabilmente rimessi alla disponibilità della futura maggioranza: grande instabilità, scarso
confronto dialettico, nessun tempo per metabolizzare il nuovo sono ottimi motivi per provare che se si vuole
“che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi” (come insegnava Tancredi a don Fabrizio ne Il Gattopardo).
Dall’altra parte, e siamo al secondo profilo, quello della carenza normativa, il quadro che segue è altrettanto
noto, per lo meno tra gli specialisti del settore:
1) a tuttora, la L. n. 53/2003 attende la definizione del secondo ciclo di istruzione, e, quindi, è
doppiamente incompiuta4: manca il disegno del sistema dei licei e manca il disegno della c.d. seconda gamba della
riforma, relativa all’istruzione e alla formazione professionale. In particolare, lo Stato non ha ancora fissato né le
nuove norme generali sull’istruzione secondaria (di competenza statale esclusiva), né i nuovi principi fondamentali
dell’istruzione secondaria (materia di competenza concorrente), né i livelli essenziali delle prestazioni quali limite
(minimo di garanzia) alla legislazione regionale in materia di istruzione e formazione professionale;
2) non essendo delineata dallo Stato la struttura essenziale del sistema educativo di istruzione e
formazione, le funzioni delle regioni rimangono, in punto di diritto o in linea di fatto 5, sospese: la
programmazione regionale dell’istruzione nonchè la disciplina dell’istruzione e della formazione sono lasciate a se
stesse o, il che è lo stesso, la titolarità delle funzioni è privata delle condizioni perché sia (possa essere) esercitata;
3) alle regioni spetta definire una quota-parte dell’orario scolastico obbligatorio, quello relativa agli
“aspetti di interesse specifico delle stesse” (quota regionale dei piani di studio personalizzati: art. 2, lett. l), l. n.
M. Gigante, L’amministrazione della scuola, Milano, 1988, pp. 141-176 mette in luce le contraddizioni implicite, fin dalla nascita, nella stessa
riforma Gentile: da un lato, l’idea nobile dell’istruzione classica e della sua funzione di formazione delle élites dirigenti, il
ridimensionamento dell’intervento statale e l’incoraggiamento dell’iniziativa privata; dall’altro, lo statalismo dalle radici filosofiche, la
concezione autoritaria della libertà (“che è valore, è selezione, è gerarchia”), le esigenze politiche del regime di raggiungere le masse per
realizzare la fascistizzazione della società. Il primo liberismo fu ben presto superato, la riforma ritoccata, il giudizio sulla riforma
riformulato (“Mussolini in un primo momento aveva definito la riforma Gentile 'come la più fascista delle riforme', successivamente finì
per considerarla 'un errore dovuto ai tempi e alla forma mentis dell’allora ministro'”: p. 158).
2 L. 10 febbraio 2000, n. 30, Legge quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione.
3 L. 28 marzo 2003, n. 53, Delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in
materia di istruzione e formazione professionale; D.lgs. 19 febbraio 2004, n. 59, Definizione delle norme generali relative alla scuola
dell'infanzia e al primo ciclo dell'istruzione, a norma dell'articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53.
4 Il governo ha, finora, esercitato la delega parlamentare (L. n. 53/2003) solo relativamente alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo di
istruzione (D.lgs. n. 59/2004).
5 Cfr. art. 1, comma 2, L. n. 131/2003, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18
ottobre 2001.
1
1
53/2003), ma fino a quando lo Stato non avrà chiarito l’entità di tale quota la previsione è destinata a rimanere
sulla carta 6;
4) il ritardo nell’attuazione complessiva del nuovo disegno costituzionale (penso soprattutto alla
realizzazione dell’autonomia finanziaria delle regioni di cui all’art. 119) si traduce nella pervasiva affermazione del
principio di continuità, quindi, nella conservazione dell’esistente: così il Giudice delle leggi dichiara
l’incostituzionalità di norme statali riconosciute invasive della competenza legislativa e amministrativa regionale –
alludo alla sent. 13/2004 che ha sottratto allo Stato (agli uffici scolastici regionali, in quanto uffici periferici del
Ministero) il potere di definire le dotazioni organiche del personale docente della scuola affidandolo alle regioni 7
–, ma, per ragioni di tenuta, prescrive che debbano continuare, benché illegittime, ad operare, “fino a quando le
singole regioni si saranno dotate di una disciplina e di un apparato istituzionale idoneo a svolgere la funzione di
distribuire gli insegnanti tra le istituzioni scolastiche nel proprio ambito territoriale secondo i tempi e i modi
necessari ad evitare soluzioni di continuità del servizio, disagi agli alunni e al personale e carenze nel
funzionamento delle istituzioni scolastiche”. Sennonché, a parte la difficoltà teorica dell’ultrattività di disposizioni
dichiarate incostituzionali (e, quindi private di efficacia fin dall’inizio, ma “a data incerta” 8), non dipende dalle
regioni darsi un tale apparato istituzionale, quanto dallo Stato provvedere, in particolare, all’effettivo
trasferimento delle strutture e, in generale, delle risorse necessarie ad affrontare le nuove competenze (secondo il
principio del finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite o conferite formalizzato nel quarto
comma del riformato art. 1199).
Verrebbe da sospendere prudenzialmente il giudizio, in attesa degli sviluppi a venire.
Ma potrebbe anche scegliersi, e questa è la via da percorrere, di considerare la riforma scolastica e
l’insieme dei problemi in gioco, amministrativi e costituzionali, da un punto di vista che consenta il dibattito, al di
là di impossibili divinazioni o di troppo facili rinvii.
Proviamo a guardare il problema e i suoi oggetti dall’alto. A considerare i contenuti delle riforme non per
le singole regole (bisognevoli di integrazioni) o per il dato storico delle singole regole (naturalmente perfettibili), ma
secondo i principi ai quali sono sottese, per l’eccedenza deontologica o assiologica (evoco l’efficace definizione di
Modugno) che hanno quei principi che hanno ispirato le recenti riforme. Solo così sarà possibile dare un senso,
questa volta sì sufficientemente orientativo, alle diverse definizioni normative di cui si fa costantemente uso; solo
così, a prescindere dai vuoti o dalle superfetazioni legislative, riusciremo a cogliere e a comprendere il senso
autentico, direi quasi, il nocciolo di verità essenziale (la quiddità) dei vari istituti ai quali costantemente ci riferiamo
e alle loro ricadute: in particolare, all’autonomia scolastica; alle norme generali sull’istruzione; al tipo dei rapporti
tra scuola pubblica e scuola privata; alle nuove sfide regionali in materia di istruzione e formazione professionale
e di diritto allo studio.
2. LA SCUOLA: COME STA CAMBIANDO E DOVE SI TROVA
Se lo spazio lo consentisse, sarebbe proficuo considerare nel dettaglio (mentre lo faremo solo per cenni)
la scuola sotto due prospettive: diacronica (una sorta di progressione cronologica, di immagini in movimento) e
sincronica (non più un filmato, bensì un fermo immagine).
Facendone una specie di rappresentazione evolutiva, indagando le linee di sviluppo della scuola, si
deduce non solo come il modello è cambiato, ma anche il “verso” di un siffatto cambiamento: si è passati da un
modello accentrato, statocentrico, monopolista ad uno organizzato su diversi livelli di competenza: Stato, regioni,
(province, comuni), singoli istituti.
In quest’arco di tempo i fattori di maggiore (non già esclusiva 10) incidenza sono stati:
Lo Stato dovrebbe aggiornare il D.M. n. 234/2000 (Regolamento, recante norme in materia di curricoli nell'autonomia delle istituzioni
scolastiche, ai sensi dell'art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275); chiarire la gravosità dell’impegno
regionale: altro è intendere la quota delle regioni come “curvatura regionale” degli insegnamenti (appartenenti alle classi di concorso)
nazionali, altro è intenderla come possibilità di introdurre discipline di interesse locale del tutto diverse; precisare quale è lo stato giuridico
(dal reclutamento alla retribuzione) di chi insegna le “materie regionali”; trasferire le risorse necessarie.
7 Sulla sentenza n. 13/2004 v. i commenti a prima lettura di R. Dickmann, La Corte amplia la portata del principio di continuità, in
federalismi.it; A. Poggi, Un altro pezzo del “mosaico”: una sentenza importante per la definizione dei contenuti della competenza
legislativa concorrente delle Regioni in materia di istruzione, ibidem; P. Milazzo, La Corte costituzionale interviene sul riparto di
competenze legislative in materia di istruzione e “raffina” il principio di continuità, in www. giurcost.org.
8 Cfr. LU. Mazzarolli, Il giudice delle leggi tra predeterminazione costituzionale e creatività, Padova, 2000, pp. 131-187.
9 Le risorse destinate a comuni, province, città metropolitane, regioni “consentono di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro
attribuite”.
10 Oltre alle innovazioni normative che ricordo nel testo ce ne sono state anche altre, di altro genere, non meno importanti, come, ad
esempio, l’istituzione della nuova scuola media unica nel 1962 (L. n. 1859/1962) e delle scuole materne statali nel 1968 (L. n. 444/1968); la
liberalizzazione degli accessi universitari (L. n. 910/1969); la riforma della scuola elementare nel 1990 (L. n. 198/1990); la riforma degli
esami di maturità (L. n. 425/1997).
6
2
a) il primo decentramento amministrativo (dal Ministero ai Provveditorati) e il primo decentramento
regionalistico (trasferimento alle neonate regioni delle competenze in ordine all’istruzione artigiana e
professionale, all’assistenza e all’edilizia scolastica) 11;
b) la sperimentazione, latrice, quanto agli esiti, di differenziazione organizzativa, quanto all’allocazione
dei poteri decisionali, di policentrismo autonomistico 12;
c) l’introduzione degli organi collegiali di democrazia partecipativa destinati ad accogliere, a vari livelli, i
rappresentanti delle diverse categorie di soggetti della comunità scolastica (alunni, genitori, docenti), per
realizzare il coordinamento scuola-famiglia nei compiti di formazione della persona13;
d) il riordino del Ministero della pubblica istruzione nel segno dello snellimento degli apparati ministeriali
e degli organi periferici nazionali 14;
e) il secondo decentramento amministrativo e costituzionale 15;
f) infine, l’apertura ad una reale autonomia scolastica16.
In poche parole, il cammino della scuola ha seguito due direttrici fondamentali, progressivamente
avverando il processo del decentramento (dal centro alla periferia) degli apparati (federalismo, a chi piace questa
parola17) e il processo autonomistico degli istituti, secondo il criterio della sussidiarietà, rispettivamente, verticale
e orizzontale.
Dall’altro lato, la fotografia degli odierni rapporti tra Stato, regioni, enti locali, scuole è impressa, come
noto, nel nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione ed è su questo che deve fermarsi l’attenzione.
La scelta del regionalismo dai forti connotati autonomistici operata con la revisione della Carta
fondamentale del 2001 ha molto più che elevato a rango costituzionale l’attribuzione alle regioni e agli enti locali
di potestà normative e organizzative su aspetti determinati del servizio dell’istruzione: ha consegnato loro, salve le
norme generali sull’istruzione e il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni 18, l’intera area dell’istruzione 19. In
particolare, 1) la Repubblica che gestisce l’istruzione è costituita da una pluralità di soggetti pubblici e non più solo
dallo Stato; 2) indubbiamente allo Stato spetta dettare in via esclusiva le “norme generali sull’istruzione”, ma, da
un lato, per la prima volta alle regioni viene attribuita potestà legislativa concorrente (residuale) in materia di
istruzione e potestà legislativa esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale e di diritto allo
studio 20, dall’altro, sia in materia di “istruzione” che di “norme generali sull’istruzione”, ciascuna regione può
negoziare “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”21; 3) infine, per il nuovo art. 118, spezzato
definitivamente il principio del parallelismo tra la funzione legislativa e la funzione amministrativa, tutte i compiti
Relativamente all’istruzione artigiana e professionale v. D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 10 e la L. n. 845 del 21 dicembre 1978; all’assistenza
scolastica D.P.R. 14 gennaio 1972, n. 3 e D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616; all’edilizia scolastica il D.P.R. 15 gennaio 1972 n. 8 e la L. 5
settembre 1973 n. 412.
12 Cfr. D.P.R. 31 maggio 1974, n. 419.
13 V. specialmente Legge (delega) 30 luglio 1973, n. 477 e Decreti delegati 31 maggio 1974 nn. 416, 417, 418, 419, 420.
14 Cfr. D.lgs. 30 luglio 1999 n. 300 e D.P.R. 6 novembre 2000, n. 347.
15 Cfr. L. n. 59/1997 e D.lgs. n. 112/1998; L. cost. n. 1/1999 e n. 3/2001.
16 V. art. 4 L. 24 dicembre 1993 n. 537; art. 21 L. 15 marzo 1997, n. 59; D.P.R. 8 marzo 1999 n. 275. I cardini della riforma consistono
nell’aver disposto l’estensione della personalità giuridica a tutte le istituzioni scolastiche; nell’averle dotate di autonomia organizzativa,
didattica, di ricerca e di sviluppo, negoziale, finanziaria; nell’aver attribuito ai capi di istituto la qualifica dirigenziale.
17 Per vero, preferisco parlare di regionalismo (che, se si vuole, si può qualificare estremo) perché non credo che a tutt’oggi la forma
italiana di Stato possa dirsi, in senso tecnico, di tipo federale.
18 Art. 117, comma 2, lettere m) e n), Cost..
19 Sarebbe interessante ripetere passo a passo il cammino che ha portato a questo risultato e figurare gli esiti che ancora hanno da venire
(cfr. L. n. 131/2003 e il disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa, promossa da Berlusconi – Bossi – La Loggia, sulla c.d.
devoluzione, già approvata in prima deliberazione sia dal Senato, A.S. n. 1187, che dalla Camera, A.C. n. 3461). Al di là di questi aspetti
particolari, non può sfuggire che il vero cuore della riforma costituzionale sta nel fatto che i compiti in materia di istruzione non sono più
delegati (ogni delega implica che il delegante conservi la titolarità della funzione delegata), ma diventano originariamente propri della regione.
20 Art. 117, comma 3 e 4, Cost..
21 Art. 116, commi 3 e 4, Cost. Il quadro che ne esce non è di facile lettura. La medesima materia è disciplinata da (e fra) quattro differenti
livelli normativi (rectius: concorrono tre diversi tipi di potestà legislativa dello Stato e delle regioni uniti alla potestà autonomistica, nel senso
etimologico di potestà normativa, delle istituzioni scolastiche): lo Stato detta le “norme generali sull’istruzione” (potestà legislativa
esclusiva) e, sempre che non coincidano con esse, i principi fondamentali dell’istruzione (potestà concorrente); le regioni, entro il quadro
normativo statale, regolano l’istruzione e, in via esclusiva, l’istruzione e la formazione professionale e tutto quanto non espressamente
riservato alla legislazione dello Stato (in primo luogo, il diritto allo studio); infine (last but not least), è fatta salva l’autonomia degli istituti
scolastici. F. Nuzzaci, Natura e limiti dell’autonomia scolastica: dalla legge 59/97 alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in Riv. giur. scuola, 2002,
p. 407 rileva che “la distinzione tra norme generali e principi fondamentali non è agevole (i principi esprimerebbero dei valori fondanti
deducibili in via di astrazione da un complesso di disposizioni settoriali; le norme generali tradurrebbero in contenuto prescrittivo tali
principi), finendo col risolversi, in via di fatto, in una qualificazione volta per volta operata dal legislatore”. Difficoltà interpretative
ulteriori sono poi poste, da un lato, dal regionalismo asimmetrico o differenziato di cui all’art. 116 Cost., e, dal lato opposto, dalle materie
di carattere trasversale attribuite in via esclusiva allo Stato, capaci di legittimarne l’intervento anche negli ambiti, dei quali formalmente non
è attributario, compresi nel comma 3 o 4 dell’art. 117 (v., per es., le materie di cui al secondo comma dell’art. 117, lettere c); m); s). Quanto
si è detto vale per le regioni ordinarie e, per le regioni speciali, sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, nella parte in cui da tale riforma
discendano forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite (v. art. 10, L. cost. n. 3/2001).
11
3
amministrativi sono attribuiti, in linea di principio, ai comuni, sia nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato
e delle regioni, sia nelle materie di legislazione concorrente fra lo Stato e le regioni, a meno che, “per assicurarne
l’esercizio unitario, siano [conferiti] a province, città metropolitane, regioni, Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
Ciascuno di questi tre punti svela, muovendo dall’oggetto particolare dell’istruzione, l’essenza di tutta la
riforma: l’affermazione del pluralismo paritario e del valore della (possibilità della) diversità attraverso,
rispettivamente, 1) l’equiparazione dei soggetti istituzionali, fra i quali lo Stato, primus inter pares, perde la posizione
di gerarchia o preminenza (art. 114); 2) il potenziamento della legge regionale rispetto alla legge statale grazie
all’inversione del criterio attributivo delle materie di competenza concorrente; all’introduzione della potestà
esclusiva; all’identità dei limiti (costituzione, ordinamento comunitario, obblighi internazionali) da osservare (art.
117); 3) l’allocazione dell’amministrazione al livello ottimale di governo secondo i citati criteri dell’art. 118 e
l’obbligo per la Repubblica di favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento
di attività di interesse generale”.
Di queste premesse, è necessario valutare, per lampi di flash, gli effetti, passando in rassegna le singole
questioni.
3. LE RICADUTE : A) SULL’AUTONOMIA DELLE SCUOLE
Le ricadute sul sistema del progressivo affacciarsi del nuovo modello di scuola sono particolarmente
interessanti e consentono di dare nuova luce a disposizioni preesistenti e nuove.
Per ragioni di brevità le elencherò per punti e schematicamente, facendo salvi tutti i doverosi
approfondimenti del caso22:
a) l’autonomia delle scuole. La scuola, come accennato, è parte e partecipe, causa ed effetto, del graduale
evolvere dell’ordinamento generale e dell’ordinamento scolastico verso strutture meno burocratizzate e più vicine
agli interessi dei fruitori finale del servizio, l’alunno e la famiglia.
La scuola statale (e, per estensione, quella paritaria 23) ha autonomia organizzativa, “finalizzata alla
realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla
integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al
coordinamento con il contesto del territorio”24; autonomia didattica, “finalizzata al perseguimento degli obiettivi
generali del sistema nazionale di istruzione, nel rispetto della ilbertà di insegnamento, della libertà di scelta
educativa da parte delle famiglie e del diritto di apprendere”25; autonomia di ricerca, sperimentazione e
sviluppo26; autonomia negoziale27; autonomia finanziaria e di gestione28. Può contare su un nutrito strumentario
per attuarla, contrassegnando, sul piano dell’offerta formativa, la propria identità: può definire curricula d’istituto
(necessari e opzionali) con cui integrare quelli obbligatori fissati a livello nazionale e regionale; articolare in
maniera modulare il monte ore annuale di ciascuna materia; creare unità di insegnamento non coincidenti con
l’unità oraria delle lezioni; promuovere la flessibilità del gruppo classe; aggregare le discipline in aree e ambiti;
adattare agli obiettivi il calendario scolastico; adottare accordi di rete; foggiare progetti destinati all’innovazione 29.
Al di là del limite (anche retorico) delle formule legislative e dello iato fra ideale e reale30, la dottrina
assente nel cogliere il prius caratterizzante (i.e.: i principi, appunto) che emerge dai provvedimenti sull’autonomia
scolastica.
Si osserva che alla base del riconoscimento dell’autonomia è “l’idea che, nel sistema dell’istruzione,
debbano avere prevalenza non gli apparati amministrativi, ma gli istituti, all’interno dei quali si svolge l’attività di
insegnamento, e che costituiscono il risvolto, sul piano istituzionale, di una comunità di docenti, studenti e
Me ne sono occupato nel mio lavoro dedicato alla scuola (Scuola pubblica e scuola privata. Gli oneri per lo Stato, Parte prima, Torino, 2003 e
Parte seconda, 2004), al quale mi permetto di fare rinvio.
23 V. art. 2, comma 3, D.P.R. n. 275/1999.
24 V. art. 21, comma 8, L. n. 59/1997 e art. 5 D.P.R. n. 275/1999.
25 V. art. 21, comma 9, L. ult. cit. e art. 4 D.P.R. ult. cit.
26 V. art. 21, comma 10, L. ult. cit. e art. 6 D.P.R. ult. cit.
27 V. artt. 31-56 D.M. n. 44/2001.
28 V. art. 21, commi 5, 6, 10, L. 59/1997 e D.M. n. 44/2001.
29 V. art. 21 L. n. 59/1997 e D.P.R. n. 275/1999.
30 Per esempio, sull’autonomia e sui suoi risultati è critico L. Pedrazzi, Scuola: senza obbligo di oneri per lo Stato, in Il Mulino, 2002, 160, al quale
“pare che sperimentazioni e autonomia introducano un moto ondoso di superficie, ma non cambino le correnti che condizionano la
navigazione da porto a porto, né forniscano sistemi di guida alle singole navicelle che cercano di solcare il grande mare dell’insegnamento
e dell’apprendimento. Per le sue origini storiche, profondamente intrecciate con la vicenda risorgimentale, l’impianto scolastico italiano è
infatti unitario e centralistico; carattere confermato e accresciuto dal regime fascista; è sfuggito anche alle correzioni studiate dai padri
costituenti in una direzione pluralistica (…)”; similmente N. Bottani, Insegnanti al timone? Fatti e parole dell’autonomia scolastica, Bologna, 2002,
pp. 207 ss..
22
4
genitori” 31; che “col mutare del rapporto tra Stato e società e di quello tra scuola e Stato, ci si è andati lentamente
rendendo conto del fatto che lo Stato non può essere responsabile dell’istruzione. Lo è la scuola, in quanto corpo
dotato di autonomia”32; che “non spetta allo Stato istruire, ma (…) è la scuola come tale a istruire” 33; che
l’autonomia implica “l’abbandono dell’idea di un’unica scuola statale di matrice ministeriale, determinata
'dall’alto', per cedere il passo all’idea di diverse e multiformi scuole statali che si autodeterminano 'dal basso',
attraverso i propri organi collegiali rappresentativi di ciascuna comunità scolastica (…)” 34; che “il sistema
scolastico si sta trasformando da sistema statale a sistema che fornisce un servizio pubblico, in cui l’autonomia
sembra apparire come reale garanzia del pluralismo e dell’efficienza”35.
Nell’ordine dell’autonomia, lo Stato non gestisce, ma fissa l’architettura essenziale del servizio e i livelli
unitari della sua fruizione, valuta e controlla 36; l’amministrazione scolastica, centrale e periferica, si snellisce
secondo i criteri di efficienza, efficacia, economicità; la (rectius: ogni) scuola si organizza e amministra il suo
patrimonio umano e strumentale.
Le (indubbie) difficoltà di coordinamento fra i vari soggetti titolari di compiti nel campo dell’istruzione
(Stato, regioni, enti locali, istituti scolastici) non sono che il segno e il prezzo della transizione: il nuovo che
avanza nel vecchio che cerca di resistergli.
4. (SEGUE) … B) SUL MODO DI INTENDERE LE “NORME GENERALI SULL ’ISTRUZIONE ”
Nel rinnovato contesto dei rapporti Stato-regioni il segno distintivo peculiare proprio delle “norme
generali sull’istruzione”, per quanto possa sembrare banale (o tautologico) dirlo, deve essere quello della generalità.
A ragione Mastropasqua ebbe a scrivere che “più che di norme generali sull’istruzione si sarebbe dovuto parlare
di norme sull’istruzione in generale (...) intendendosi escludere con ciò una normazione statale sull’istruzione
troppo analitica e particolareggiata”. In antitesi col modello scolastico statocentrico, conformemente al passaggio
dalla scuola del Ministero alla scuola dell’autonomia, le norme generali sull’istruzione devono limitarsi a) a porre
le linee essenziali del sistema, da sviluppare e realizzare nel rispetto, da un lato, del nuovo ordine delle
competenze dello Stato e delle regioni e, dall’altro, del principio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche; b) a
definire le omogeneità su tutto il territorio nazionale (non dei “tipi scolastici” preconfezionati, ma) dei livelli di
apprendimento; c) ad assicurare i passaggi dal circuito dell’istruzione a quello della formazione e fra gli istituti (di
istruzione e di formazione) professionali appartenenti a diverse regioni, ciascuna ormai esclusivamente
competente in materia; d) a prevedere parametri di valutazione nazionali; e) a fissare i livelli essenziali delle
prestazioni in materia di istruzione e formazione; f) a stabilire le condizioni minime per il riconoscimento del
valore legale dei titoli di studio o delle attività e dei crediti formativi.
Ciò, è bene ripeterlo, in maniera coerente con la filosofia dell’autonomia scolastica e con il conseguente
(seppur non semplice) transito da un sistema che consentiva alla scuola il minimo grado di partecipazione
A. Pajno, Art. 135, in G. Falcon (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna, 1998, p. 444. L’autore, perspicuamente, continua osservando
che l’autonomia “suppone l’abbandono del modello 'ministeriale', che è un tipico modello verticale, ed il passaggio ad un modello
orizzontale, formato da un insieme di comunità scolastiche, nelle quali si fa istruzione, ricerca, formazione, attraverso modelli flessibili, in
vista del raggiungimento di obiettivi generali, secondo standard di qualità, fissati da un centro dotato di funzioni strategiche e finalmente
liberato da compiti di gestione. Sotto questo profilo, l’autonomia delle istituzioni scolastiche tende non soltanto al superamento del
modello burocratico ministeriale, ma anche ad abbandonare quella prospettiva che fa della scuola un corpo che deve sempre appoggiarsi ad
un ente territoriale, in qualche modo incapace di reggersi senza stampelle (Cassese)”.
32 S. Cassese, “Plaidoyer” per un’autentica autonomia delle scuole, in Foro it., 1990, V, p. 150.
33 U. Pototschnig, Un nuovo rapporto fra amministrazione e scuola, in Riv. giur. scuola, 1975, p. 250.
34 M. Renna, Le scuole paritarie nel sistema nazionale di istruzione, in Dir. amm., 2002, pp. 662-663. M. Carneroli, La scuola del futuro tra
Stato e autonomia (locale e funzionale), in PoL. dir., 2000, p. 325, commentando l’evoluzione del quadro normativo, scrive che esso
“sembra essere, in definitiva, l’espressione di un processo di riforma diretto a superare l’immagine della scuola tradizionale, standardizzata
da ritmi sempre uguali e dall’uniformità della sua organizzazione e del suo funzionamento, per passare ad un modello in cui la maggior
parte delle politiche scolastiche vengono riservate alle singole scuole, garantendo quell’esigenza di diversità che sempre più reclama di
affiancarsi al bisogno di (conservare la comunque indispensabile) unità ed uniformità del processo educativo”. Sul nuovo rapporto centroperiferia nella scuola pubblica e per un esame dei possibili modelli attuativi dell’autonomia v. A. Pajno – G. Chiosso – G. Bertagna,
L’autonomia delle scuole, Brescia 1997, specie pp. 133-138 e pp. 284-291, ove si descrivono i tre “paradigmi” “policentrico”,
“neocentralistico decentrato”, “sistemico-bilanciato”.
35 I. Loiodice, Costituzione scolastica: servizio scolastico unico ed autonomia delle scuole, in Amministrazione e politica, 1996, p. 44.
36 Riporto par pari le “Dichiarazioni programmatiche del ministro Letizia Moratti” del 18 e 19 luglio 2001 relativamente al suo progetto di
riforma (in www.istruzione.it): “intendiamo ridefinire il ruolo dello Stato centrale. Serve un sistema organizzato su tre livelli: nazionale,
regionale e dei singoli istituti, con un centro che indirizzi e governi, ma senza più compiti di gestione, secondo i principi del federalismo
solidale. Al centro va riservata la definizione dei curricula nazionali (…). [Essi] potranno essere integrati dalle regioni e dagli istituti
scolastici, e in questo modo sarà possibile l’apporto delle diversità e delle ricchezze regionali e locali. Serve, altresì, un centro che valuti il
funzionamento delle scuole e i livelli di apprendimento degli studenti. Occorre per questo un servizio nazionale di valutazione del sistema
scolastico nel suo complesso, autonomo e indipendente, che definisca gli standard di qualità delle scuole e operi sui livelli finali di
preparazione degli studenti (…)”.
31
5
decisionale (a causa della formulazione di programmi ministeriali analitici) ad un sistema in cui la scuola è
chiamata a raggiungere in piena autonomia didattico-organizzativa gli obiettivi di istruzione-formazione fissati
dalla legge sia nazionale che regionale37: nel Piano dell’offerta formativa si integrano i tre livelli di definizione dei
curricula scolastici nazionale, regionale, d’istituto.
Un tanto consente di affrontare, d’altro canto, anche il contrasto (apparente) tra prima e seconda parte
della Costituzione, segnatamente tra l’art. 33 Cost. secondo cui le “norme generali sull’istruzione” devono essere
dettate dalla Repubblica, e il riscritto art. 117 che rimette tale compito allo Stato.
La conclusione di interpretare restrittivamente Repubblica con Stato svuoterebbe, ictu oculi, il significato del
decentramento, oltre che la stessa lettera dell’attuale art. 114. L’antinomia va, piuttosto, superata tenendo conto
della necessità di evitare, da un lato, che la potestà esclusiva dello Stato di dettare le “norme generali
sull’istruzione” schiacci la potestà concorrente della regione in materia di istruzione, riducendola, di fatto, a
potestà attuativa; dall’altro, che tale potestà concorrente delle regioni vanifichi l’autonomia delle istituzioni
scolastiche. Se ne deve dedurre che l’art. 33, riferendo la potestà normativa in materia di norme generali alla
Repubblica, cede di fronte al nuovo art. 117 solo relativamente alla posizione delle linee guida essenziali sulla
scuola che esigono unitarietà su tutto il territorio nazionale e che, pertanto, non possono che essere dettate dallo
Stato centrale; ciò non significa, peraltro, che spetta allo Stato dettare tutte le norme sull’istruzione aventi
contenuto generale.
Diversamente detto, l’art. 33, interpretato come ellissi che condensa il dire che, nella materia istruzione,
non solo lo Stato, ma lo Stato e le regioni e gli enti locali (la Repubblica, appunto), nonché le singole scuole,
hanno, in proprio, competenze costituzionalmente garantite, si pone a baluardo contro le ingerenze fra i diversi
livelli normativi: le norme generali sull’istruzione dettate dallo Stato non possono essere più che l’intelaiatura
essenziale del sistema d’istruzione nazionale; le norme dettate dalle regioni, a loro volta, devono essere generali
nel senso di (e per) non neutralizzare l’autonomia delle scuole.
In definitiva, il requisito della generalità delle norme sull’istruzione assume una funzione diversa nell’art.
33 e nell’art. 117 e secondo questa doppia accezione va considerato: nella prima disposizione serve a garantire i
contenuti dei diversi livelli di competenza normativa, nella seconda l’uniformità delle linee portanti del sistemascuola su tutto il territorio della Repubblica38.
5. (SEGUE ) …
C) SUL RAPPORTO TRA SCUOLA PUBBLICA E SCUOLA PRIVATA
PARTICOLARE SULLA PARITÀ SCOLASTICA)
(IN
Le premesse poco sopra esposte (evoluzione del modello scolastico; attuazione della sussidiarietà non
solo verticale, ma anche orizzontale; pluralismo istituzionale) conducono a risolvere, coerentemente, la questione
se le norme generali dell’istruzione riguardino solo la scuola statale o anche quella non statale.
Sul punto si sono registrate le posizioni più diverse. Un primo orientamento ritiene che esse riguardino
solo la scuola statale 39; un altro solo l’istruzione privata 40; un terzo l’istruzione impartita sia dalle scuole pubbliche
che da quelle private41.
A quest’ultima tesi ritengo preferibile aderire: perché se non è più lo Stato ad istruire, ma le scuole;
perché se costituzionalmente le scuole private hanno la stessa dignità delle scuole non statali; perché se,
testualmente, “il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e
degli enti locali” e si riconosce che le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico (art. 1, l. n. 62/2000), allora è
corretto concludere che l’istruzione è un traguardo unitario e vari possono essere solo i modi per raggiungerlo 42.
V. art. 7, commi 1 e 2, e art. 2, comma 1, lett. l), L. n. 53/2003.
Del resto, già prima della revisione costituzionale c’era una dottrina, invero minoritaria, che riteneva che anche le regioni potessero
concorrere a dettare le norme generali sull’istruzione: v. S. De Simone, Il diritto scolastico nella Costituzione italiana, Milano, 1968, p. 43; V.
Zangara, I diritti di libertà della scuola, in Ras. dir. pubbl., 1959, 414-416; U. Pototschnig, Insegnamento, istruzione, scuola, in Giur. cost., 1961, p. 421
scriveva che le norme generali sull’istruzione “non sono affatto da intendere come una rivendicazione, da parte dello Stato persona, della
sua sovranità nel campo dell’istruzione, a danno anche delle altrui posizioni di libertà e di autonomia, ma piuttosto, al contrario, come il
tentativo fatto dalla Costituzione di una – se così si può dire - 'destatalizzazione' dell’istruzione per mezzo di norme generali fissate dalla
Repubblica (dove 'Repubblica' si oppone proprio al termine 'Stato', contro l’opinione comune (…)”.
39 V. per tutti V. Crisafulli, Libertà di scuola e libertà di insegnamento. Nota a Corte cost., sent. n. 36/1958, in Giur. cost., 1958, p. 487 e,
in modo ancora più netto, ID., Nota a Corte cost., sent. 8 luglio 1957, n. 114, in Giur. cost., 1957, p. 1047.
40 V. F. Staderini, Osservazioni in tema di “norme generali sull’istruzione”, in Riv. giur. scuola, 1968, p. 623 e ID. La disciplina
costituzionale della scuola privata con particolare riferimento all’istruzione universitaria, in Rass. parL., 1972, p. 110.
41 V. U. Pototschnig, Insegnamento ..., op. cit., p. 417; N. Daniele, La pubblica istruzione 2 , Milano, 2001, p. 799, nt. 54; S. Fois, La disciplina della
libertà della scuola privata, in Rass. parL., 1959, I, p. 154; S. De Simone, Sistema del diritto scolastico, Milano, 1978, p. 174.
42 È il nucleo essenziale della tesi della natura oggettivamente pubblica del servizio dell’istruzione espressa da U. Pototschnig, Insegnamento
..., op. cit., p. 351.
37
38
6
Differenti sono anche gli strumenti per raccordare la diversità e ricondurla all’unità: in entrata, le norme generali
sull’istruzione; in uscita, la parità, l’esame di Stato, i controlli dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema
di istruzione.
Perciò, allora, è corretto concludere che le norme generali sull’istruzione si rivolgono alle scuole degli
enti pubblici e a quelle gestite dai privati non meno che alle scuole statali. Altro non è che una forma di garanzia
del pluralismo paritario pubblico-privato: nella prospettiva che qui si assume, pensare alle norme generali
sull’istruzione come dirette a definire la scuola indipendentemente dalla natura del soggetto gestore significa
gettare le basi (o meglio valorizzare le basi costituzionali) per affermare la pari dignità tra la scuola pubblica e la
scuola privata.
Per questa via, non c’è (più) contraddizione fra chi ritiene che “l’art. 33 non garantisce la libertà di creare
organizzazioni che non meritano l’appellativo di scuola o di istituto di istruzione secondo lo Stato e le norme
generali dello Stato” e chi rivendica “che lo Stato non può chiedere che i cittadini e gli enti titolari di diritti di
libertà attinenti al campo scolastico, nell’esplicazione delle rispettive situazioni giuridiche, si adeguino a un
conformismo statalistico”43: le norme generali stabiliscono il discrimine fra scuola e altro da essa, e lo fanno nel
rispetto dei principi dell’autonomia delle scuole pubbliche; della libertà di quelle private (paritarie e no); della
reciprocità o comunicabilità fra le scuole statali e le scuole paritarie 44.
Parità e autonomia si somigliano: considerate nell’idea che le anima, rifuggono il modello burocraticoministeriale, mettono al centro l’istruzione, premiano, entro una cornice comune, la varietà di forme e di
caratterizzazioni organizzative e didattiche.
La libertà della scuola, intesa come diritto dei privati di istituire scuole riconosciute capaci di concorrere al
servizio dell’istruzione con la stessa dignità delle scuole statali, nasce con la Costituzione, si alimenta con la
fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 36 del 195845 e, dopo lunga astinenza, cresce nella coscienza
istituzionale, con la pronuncia costituzionale n. 454 del 1994 e con la legge sulla parità n. 62/2000.
Indubbiamente, deve ancora maturare46; tuttavia, cominciare a prendere sul serio le disposizioni della
Costituzione vuol dire accorgersi di quanto sia urgente superare le tracce del passato per costruire il nuovo47; in
V., rispettivamente, C. Esposito, Contenuti e limiti della libertà di istituire scuole (Nota a Corte cost., sent. n. 36/1958), in Giur. cost., 1958, p. 493
e V. Zangara, I diritti di libertà …, op. cit., p. 408. Concorda col primo autore anche G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale 11, Milano,
1976, p. 446; col secondo N. Daniele, Istituzioni di diritto scolastico2, Milano, 1981, p. 254; L. Balucani, Profili sistematici dell’ordinamento scolastico,
Roma, 1974, p. 61; A. Valentini, In tema di provvedimenti di chiusura di scuole private, in Giur. cost., 1960, p. 334.
44 “Nessun dubbio che il diritto di enti e privati di istituire proprie scuole non può essere inteso come limitato alle scuole aventi struttura
identica o analoga a quelle statali; ma pure nessun dubbio sul fatto che le iniziative di enti e privati possono beneficiare del riconoscimento
e della garanzia di cui all’art. 33, terzo comma solo se e nella misura in cui si configurano come 'scuole'”: così U. Pototschnig, Insegnamento
…, op. cit., pp. 458-459 dal quale, in parte, ho tratto la contrapposizione di opinioni ricordata nel testo.
45 La sentenza terminava con la fiduciosa speranza che un intervento organico del legislatore nel settore della scuola non statale
provvedesse “con la auspicabile sollecitudine ad eliminare la lacuna provocata dalla non aderenza alla Costituzione della disciplina oggi in
vigore” (v. Giur. cost., 1958, 497).
46 La parità, come l’autonomia e come ogni altro principio, indica una direzione e richiede movimento, non è stasi, ma presuppone fasi
successive e graduali di realizzazione e compimento.
47 Se si accoglie l’accezione rigorosa di libertà della scuola e si conviene che, in virtù di essa, i privati hanno il diritto di aprire scuole nonché di
ottenere, soddisfatte le condizioni di legge, la parità e che tale diritto non può essere affievolito dall’amministrazione attraverso atti a
contenuto discrezionale, sarebbe difficile non ravvisare l’incostituzionalità della gran parte della disciplina sulla scuola non statale, di
derivazione precostituzionale, recepita dal testo unico sull’istruzione del 1994. Per esempio: dell’art. 344 laddove prescrive la personalità
giuridica al soggetto che aspira alla parificazione (di scuole elementari) e dell’art. 356 laddove chiede, ai fini del pareggiamento (delle scuole
secondarie), che il gestore abbia la natura di ente pubblico o ecclesiastico, con esclusione, rispetto al parametro dell’art. 33 Cost., nell’un
caso delle persone fisiche, nell’altro delle persone fisiche e delle persone giuridiche private (cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, II,
Padova, 1976, p. 1185); degli artt. 346, 352, 355, 356 se devono (continuare a) essere letti nel senso che obbligano alla perfetta coincidenza
didattica della scuola privata con le corrispondenti scuole statali (una siffatta omogeneità oggi è stata superata anche per le scuole statali
con la previsione di tre livelli, nazionale, regionale e di istituto, di definizione dei curricoli scolastici); degli artt. 357, 358, 359 i quali,
connotando il riconoscimento legale e il pareggiamento come concessione, consentono all’amministrazione valutazioni ampiamente
discrezionali. A ciò si aggiunga che è stata dichiarata incostituzionale l’autorizzazione all’apertura delle scuole non statali di grado
secondario e sostituita con la c.d. prassi della “presa d’atto” (sentenza n. 36/1958) e che, per evitare quell’effetto, l’autorizzazione
all’apertura delle scuole elementari (art. 350) è stata riformata nel 1990 (art. 14 L. n. 148/1990). Posto che “le scuole elementari non statali
si distinguono in scuole parificate, scuole sussidiate e scuole private autorizzate” (art. 343) e che le scuole non statali di grado secondario
possono essere meramente private (già autorizzate), legalmente riconosciute o pareggiate, si deve concludere che tutti gli istituti relativi alle
scuole private, alla loro apertura (autorizzazione) o alla loro parificazione (parificazione, riconoscimento legale, pareggiamento),
supinamente ereditati dal passato e fatti rientrare nel testo unico del 1994, sono o sono stati investiti da rilievi di incostituzionalità; nessuno
di essi è nato per garantire il pluralismo scolastico, essendo, anzi, espressione della concezione statalista della scuola (la parificazione, poi,
non può neppure essere considerata in parallelo con il pareggiamento e il riconoscimento legale, non essendo le scuole parificate altro che
le scuole a sgravio a denominazione cambiata, come tali deputate ad assolvere le funzioni alle quali queste erano destinate); nessuno può
rappresentare gli obiettivi di parità fissati dalla Costituzione e, quindi, essere tenuto presente nella ricerca delle linee dello sviluppo futuro
della scuola che sia costituzionalmente conforme. A. Mura, Istruzione privata, in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, pp. 5-9, dopo aver ricordato
che “la giurisprudenza non ha dubbi nel ritenere che la situazione soggettiva di chi aspiri al pareggiamento o al riconoscimento legale di
una propria scuola non sia un diritto soggettivo perfetto, ma un interesse legittimo, assoggettato a una potestà amministrativa
43
7
particolare, guardare alla strada che ha condotto alla legge sulla parità scolastica induce a pronosticare (già ad
intravedere), a partire da questa, la prossima costituzione di un servizio scolastico integrato.
Non mancano gli aspetti di perplessità. In due punti, almeno, pare che la riforma e la controriforma non
siano ancora pienamente compiute (nelle idee-guida, ovviamente, essendo la realizzazione puntuale attualmente
in progress).
Sotto un primo profilo, le norme generali sull’istruzione che si sono ricordate formalmente continuano a
riguardare solo la scuola statale, facendo mancare quel disegno unitario sul pianeta-scuola che, pure, la legge sulla
parità rivendicava48: di conseguenza, non resta che ricorrere alla lettura sistematica delle varie fonti legislative o
contare su quelle (poche) disposizioni che estendono espressamente l’oggetto della disciplina alla scuola privata49.
Il secondo profilo manifesta, invece, le resistenze maggiori della tradizione senza essere, a tutt’oggi,
superato: il sistema, pur integrato in via interpretativa, continua a trascurare la scuola non paritaria, come se essa,
anche nel disegno costituzionale, fosse destinata esclusivamente ad un ruolo gregario, con l’unica eccezione
rappresentata dal rilievo assegnato, nell’istruzione di grado preparatorio, alla scuola materna autorizzata (i.e., non
paritaria)50. Il manifesto di questa contraddizione è la stessa legge sulla parità scolastica che, esordendo con
l’affermare che “il sistema nazionale di istruzione (…) è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie
private e degli enti locali” (art. 1, comma 1), sceglie la strada (se non della diffidenza) dell’indifferenza rispetto alle
scuole non paritarie. Non credo che la scansione del secondo, terzo, quarto comma dell’art. 33 Cost. possa
autorizzare questa lettura minimalista, benché sia maggioritaria anche fra coloro che hanno da sempre
dimostrato, verso la scuola privata, sensibilità lungimirante.
6. (SEGUE) … D) SULLA CLAUSOLA “SENZA ONERI PER LO STATO”
Anche i termini della questione del divieto del finanziamento della scuola non privata mi pare possano
essere riconsiderati.
Prefigurandosi una relazione di tipo unitario tra scuola pubblica e scuola privata, mi pare congruo
prevedere che possa darsi vita ad un sistema integrato di istruzione di cui siano parte, anche sotto il profilo
dell’organizzazione della rete scolastica, tanto le scuole statali, quanto quelle non statali.
Sarebbe, allora, difficile sostenere la ragionevolezza di un divieto che escludesse queste ultime in termini
assoluti dalle risorse statali, secondo la lettera dell’ultimo inciso dell’art. 33, terzo comma, Cost.; il quale inciso,
viceversa, si limiterebbe a vietare di sovvenzionare quelle iniziative private che, per mantenere il massimo grado
di libertà, scelgono di non aderire ad alcuna forma di integrazione o collaborazione col sistema d’istruzione
pubblico51.
Tradotta col divieto (relativo) di assunzione (solo) di impegni che non siano diretti a realizzare il servizio
scolastico integrato, la clausola “senza oneri per lo Stato” trova l’armonia del sistema: rispetto al diritto
all’istruzione e ai principi del pluralismo e della libera scelta della scuola; rispetto alla garanzia della piena libertà
della scuola privata; rispetto al dovere della Repubblica di istituire scuole per tutti gli ordini e i gradi e alle
necessarie (tante) risorse di cui abbisogna.
V’è di più. In ragione delle nuove competenze attribuite alle regioni in materia scolastica, attinenti sia agli
aspetti (esterni) organizzativi dell’istruzione, che alla definizione dei contenuti dell’insegnamento (quota regionale
discrezionale (…)”, conclude affermando che “il panorama cambia se l’attenzione si sposta all’idea di parità che emerge dall’art. 33,
comma 4, Cost.”.
48 V. art. 1 L. n. 62/2000; con l’approvazione di tale legge, peraltro, la Camera aveva impegnato il governo “ad individuare e adottare [in
sede di attuazione della L. n. 30 del 2000 i provvedimenti necessari per raccordare le disposizioni in materia di parità scolastica con quelle
in materia di riordino dei cicli” e con le “disposizioni sull’autonomia didattica e organizzativa delle istituzioni scolastiche”.
49 V., per esempio, art. 2, commi 3 e 4, D.P.R. n. 275/1999 che destina anche alle scuole paritarie, “in coerenza con le loro finalità”, gli
strumenti dell’autonomia scolastica previsti per gli istituti statali.
50 V., per es., art. 1, comma 13, L. 62/2000; art. 1, comma 2, L. 247/2000; D.M. 8 ottobre 2001, n. 147.
51 Per citare solo gli interventi più recenti, favorevoli al finanziamento delle scuole private facendo leva sull’argomento del servizio
pubblico integrato, v. M. Renna, Le scuole paritarie …, op. cit., P. 647; F. Donati, Pubblico e privato nel sistema di istruzione privato, in Le Regioni,
1999, p. 537; P. Caretti, Brevi osservazioni su una “mancata” sentenza della Corte in materia di rapporti tra pubblico e privato nel settore della scuola, ivi,
1998, p. 1357; M. Gigante, L’istruzione, op. cit., p. 532; S. Sicardi, Pubblico e privato nell’ambito dell’istruzione, in R. Ferrara – S. Sicardi (a cura
di), Itinerari e vicende del diritto pubblico in Italia. Amministrativisti e costituzionalisti a confronto, Padova, 1998, p. 195; G. Massei, Scuola statale –
scuola non statale, in Iustitia, 1999, pp. 58-71; P. Cavana, Diritto allo studio e parità scolastica, in Iustitia, 1999, p. 72; E. Minnei, Scuola pubblica …,
op. cit., pp. 553-581; A. Sandulli, Il sistema nazionale di istruzione , Bologna, 2003, pp. 300-325; R. Morzenti Pellegrini, Istruzione e formazione
nella nuova amministrazione decentrata della Repubblica. Analisi ricostruttiva e prospettive, Milano, 2004, pp. 382-395; ritiene, invece,
costituzionalmente illegittimi sia il servizio scolastico integrato sia il finanziamento pubblico di esso G. Cimbalo, La scuola tra servizio
pubblico e principio di sussidiarietà. Legge sulla parità scolastica e libertà delle scuole private confessionali, Torino, 1999, p. 247.
8
dei piani di studio 52), si potrebbe fondatamente ritenere che la (pretesa) perentorietà del divieto dei finanziamenti
alle scuole private, per il carattere di assoluta specialità rispetto ai principi del sistema, sia di stretta interpretazione,
inidoneo, dunque, a vincolare soggetti (le regioni) diversi da quelli testualmente menzionati (lo Stato)53;
altrettanto legittimamente si potrebbe credere che, per la tassatività delle materie riservate in via esclusiva allo
Stato e per la generalità della competenza residuale delle regioni, queste, nella loro autonomia politica, possano
decidere di finanziare le scuole private o di introdurre misure economiche per l’integrazione dei servizi scolastici
pubblici e privati54.
Conformemente all’autentico spirito federalistico, l’esercizio delle nuove competenze legislative 55
potrebbe aprire a soluzioni organizzative diversificate sul territorio e, nei contenuti, innovative: le regioni, con
legge, avrebbero modo di introdurre ed incentivare forme di integrazione fra la scuola pubblica e quella privata;
di sovvenzionare la diversificazione dell’offerta dell’istruzione e della formazione; di premiare le strutture di
eccellenza e all’avanguardia o in difficoltà ma meritevoli di interesse 56. D’altra parte, non uniformandosi la legge
regionale al (sedicente) divieto statale di sovvenzionare la scuola privata, non solo la regione, ma anche gli altri
enti della Repubblica, nell’esercizio delle loro competenze (regolamentari e amministrative 57), potrebbero mettere
a bilancio l’attivazione di strumenti per rafforzare il sistema delle scuole pubbliche e private, con una sorta di
effetto efficacemente descritto “a cascata”58.
7. (SEGUE) … E) SULL’ISTRUZIONE E SULLA FORMAZIONE PROFESSIONALE
In materia di istruzione e formazione professionale è necessario resistere alla tentazione di appiattire
supinamente il ciclo delle riforme sugli esiti del passato. E’ utile, a tal riguardo, spendere qualche parola in più.
La storia racconta di un’attuazione costituzionale problematica e del difficile inquadramento sistematico
dell’istruzione tecnica, dell’istruzione professionale, della formazione professionale. Sono, a ben vedere, due
aspetti della stessa medaglia, accomunati dalla riluttanza dello Stato a cedere alle regioni quella potestà legislativoamministrativa sulla materia “istruzione artigiana e professionale” della quale, pure, era stato privato59.
L’art. 2, comma 1, lett. i), L. n. 53/2003 (ma v. anche l’art. 7, comma 1) attribuisce alle regioni il potere di definire una quota regionale
dei piani di studio.
53 Ipotizzando che il divieto degli oneri “per lo Stato” sia da leggere come divieto di oneri “per la Repubblica”, si dovrebbe ammettere che
per due volte nello stesso articolo il legislatore costituente è stato improprio nell’utilizzare il sostantivo “Stato” o l’aggettivo derivato: nel
secondo comma, perché, invece che alle “scuole statali”, avrebbe dovuto riferirsi alle “scuole pubbliche ” e nel terzo, perché, invece di
“Stato”, avrebbe dovuto scrivere “Repubblica”, con il risultato curioso che sarebbe da ritenersi del tutto casuale l’esatta accezione di
“Stato” del sesto comma, con riguardo alle leggi relative all’autonomia universitaria, e che rimarrebbe del tutto dubbio il significato da
attribuire al termine “Repubblica” usato nel primo periodo del secondo comma. A questo punto, però, adottando direttamente un criterio
di tipo atomistico, è più coerente concludere che a “Stato” e a “Repubblica” debba essere attribuito il significato che di volta in volta si
presta ad essere il più congruo con l’istituto preso in considerazione o con il relativo contesto.
54 La clausola de qua, dunque, se intesa come un divieto assoluto, è sì regola costituzionale, ma, in questa veste, non ammette interpretazione
praeter verba (riguarda solo lo Stato); non è estensibile alle regioni che scelgano di aiutare le scuole private integrate con le pubbliche in un
sistema scolastico unitario; ricalcitra, per gli stessi motivi, anche ad essere configurata come prescrizione costituzionale da cui derivare una
(sorta di) implicita “norma generale sull’istruzione” o implicito principio fondamentale vincolante la legislazione regionale concorrente in
materia di istruzione; non vincola le regioni (né gli enti locali) che scelgano di sovvenzionare la diversità dell’offerta formativa anche di
origine privata; costituisce, invece, principio costituzionale inderogabile (che, se si vuole, assurge a regola generale o principio
fondamentale) se intesa come norma di economia pubblica a presidio del sistema integrato di istruzione.
55 Ex art. 117, commi tre e quattro, o ex art. 116, comma 3, Cost..
56 Non mancano, di certo, agganci con la tradizione, se solo si ricorda, per esempio, che in Sicilia sono esistite fin dagli anni Quaranta (v.
L. reg. Sicilia 23 settembre 1947, n. 13, poi abrogata dalla L. reg. n. 38/1975) scuole sussidiarie, istituite dai privati per tutte le classi
elementari, nei luoghi distanti almeno due chilometri dalla più vicina scuola pubblica, aiutate dalla regione mediante corresponsione agli
insegnanti di un’indennità fissa, per il periodo di effettivo servizio, pari alla metà dello stipendio iniziale del maestro di ruolo.
57 V. F. Staderini, Diritto degli enti locali, Padova, 2003, specie pp. 3-102.
58 È il compimento, munito del placet costituzionale, di quanto già hanno fatto, prima della riforma, le regioni (ed i comuni) più
intraprendenti e sensibili alle istanze della scuola, fra consensi e critiche diffuse (anche organizzate nella forma della creazione di comitati a
difesa della scuola pubblica, attivi nelle sedi giurisdizionali o nella promozione di referendum abrogativi regionali): una rassegna dettagliata
delle iniziative delle regioni dell’Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, Veneto e dei comuni di Verona, Bologna, Roma, Pesaro,
rappresentanti tutte, a loro modo, casi “pilota”, è in G. Cimbalo, La scuola tra servizio pubblico …, op. cit., pp. 69-197. L’autore, a commento,
scrive che dalla “stratificazione per fasi della legislazione delle regioni a statuto ordinario in materia di diritto allo studio e finanziamento
delle scuole private emerge un contrasto interistituzionale di fatto verificatosi tra l’attività legislativa del Parlamento nazionale e quella dei
Consigli regionali finalizzato a due obiettivi di fondo: l’allargamento dei poteri legislativi delle regioni; l’uso della legislazione regionale per
incidere sull’attività del legislatore nazionale al fine di condizionarne ed orientarne le scelte con una evidente forzatura del dettato
costituzionale” (p. 164); relativamente all’autonomia comunale, sempre con riguardo a prima della modifica costituzionale, osserva che
essa “si va estendendo ben al di là della delega di funzioni, di cui al D.lgs. n. 112/1998, alimentando un effetto 'a cascata' per il quale
quanto più ci si allontana dalla norma statale e si va verso la 'periferia' del sistema istituzionale tanto più si abbandona il riferimento
costituzionale del divieto di finanziamento alla scuola statale, errata corrige: privata, sancito dall’art. 33, comma 3, Cost. (p. 186).
59 V. art. 117 Cost. nel testo originario.
52
9
Fino al 2001, le definizioni dell’ambito di competenza regionale sono del tutto riduttivistiche e, per
converso, massimo l’impegno a far rientrare l’insegnamento tecnico-professionale nell’alveo dell’istruzione
riservata allo Stato: l’effetto è la perdurante difficoltà di raccordare il sistema formativo statale legato al mondo
della scuola con quello regionale legato al mondo del lavoro.
In astratto due erano le possibili interpretazioni dell’art. 117 Cost. Esse si aprivano a forbice,
contraddicendosi in pieno: per la prima, l’istruzione professionale e artigiana si esauriva nella organizzazione di
corsi di addestramento e riqualificazione professionale extrascolastici, estranei all’ordinamento scolastico vero e
proprio e non finalizzati al rilascio di titoli di studio; per l’altra, l’intero settore dell’istruzione professionale statale
doveva essere costituzionalmente trasferito alla competenza regionale. Prevalse, come noto, la prima,
conformemente all’opinione di quanti sostenevano che, in luogo dell’espressione “istruzione artigiana e
professionale”, sarebbe stata più corretta quella di “formazione professionale dei lavoratori”, come è usata
nell’art. 35.
Il legislatore nazionale segnò progressivamente la linea di demarcazione fra la formazione professionale di
competenza regionale e l’istruzione tecnico professionale riservata allo Stato. Senza soluzione di continuità: dalla
legge-quadro sull’istruzione professionale del 197860, che mantiene ferma la legittimazione per i soli istituti
professionali statali (e, naturalmente, per i “corrispondenti” istituti privati) a rilasciare diplomi di istruzione
secondaria di secondo grado, negando valore di titolo di studio agli attestati di qualifica conseguiti al termine della
frequenza dei corsi regionali (art. 8) 61, fino al decreto legislativo n. 112/1998, che, ai fini del conferimento alle
regioni di compiti e funzioni amministrative, espunta dalla definizione di “formazione professionale” la
formazione impartita dagli istituti professionali nel cui ambito funzionano corsi di studio di durata quinquennale
per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore (v. artt. 141) 62. Il tutto, sul presupposto della
progressiva assimilazione al grado di istruzione secondario, prima degli istituti tecnici, poi degli istituti
professionali statali, con, per entrambi, la possibilità di rilasciare un titolo di studio (maturità tecnica e maturità
professionale) idoneo ad aprire l’accesso alle facoltà universitarie 63, e con il pretesto della conservazione dello status
quo ante fino alla riforma del sistema nazionale dell’istruzione o, quanto meno, dell’istruzione secondaria64.
Per ripetere le parole della Corte costituzionale, “l’istruzione artigiana e professionale si distingue
dall’istruzione in senso lato [rectius: in senso proprio] di competenza statale in quanto, mentre la seconda ha di
mira la complessiva formazione della personalità, la prima si caratterizza per la diretta finalizzazione
all’acquisizione di nozioni necessarie sul piano operativo per l’immediato esercizio di attività tecnico-pratiche,
anche se non riconducibili ai concetti tradizionali di arti e mestieri” 65.
Con la fine degli anni Novanta la formazione professionale è stata oggetto di un complessivo
ripensamento nel senso della valorizzazione e dell’interazione col sistema scolastico: dal riordino avviato con la l.
n. 196 del 1997 all’obbligo di frequenza di attività formative in percorsi anche integrati di istruzione e
È la L. 21 dicembre 1978, n. 845. La tendenza può essere fatta risalire già all’art. 35 del D.P.R. n. 24 luglio 1977, n. 616 (e prima ancora
agli artt. 1, D.P.R. n. 10/1972 e 34 L. n. 118/1971).
61 La giurisprudenza, nel frattempo, chiariva che né i diplomi di qualifica professionali delle scuole statali, né gli attestati di qualifica
rilasciati dalle regioni costituiscono titoli di studio secondario.
62 Infatti, l’art. 142 , comma 1, lett. i) conserva allo Stato le funzioni in materia di istituzione e autorizzazione di attività formative idonee
per il conseguimento di un titolo di studio o diploma di istruzione secondaria superiore, universitaria o postuniversitaria.
Con il D.P.C.M. 14 marzo 2000, in G.U. 10 giugno 2000, n. 34 si è provveduto a individuare e trasferire alle regioni gli istituti professionali
svolgenti corsi di durata infraquinquennale e con il D.P.C.M. 26 maggio 2000, in G.U. 13 ottobre 2000, n. 240 le relative risorse umane,
finanziarie, strumentali e organizzative.
63 Per quanto di difficile attivazione per l’onerosità dell’esame integrativo, è anche prevista la possibilità del passaggio sia fra classe non
sperimentale e classe sperimentale degli istituti professionali, sia da istituto professionale all’istituto tecnico o ad altro istituto di istruzione
secondaria superiore.
64 La legislazione segue la strada di un progressivo allontanamento dal modello di scuola ideato da Gentile e dai suoi punti fondanti (il
ridimensionamento del ruolo della scuola in materia di istruzione tecnica, la creazione di un sistema di formazione professionale
extrascolastica parallelo a quello scolastico, il restringimento dell’area dell’istruzione e della scolarità, tendenzialmente, agli insegnamenti di
tipo umanistico). La base comune per ribaltare l’impostazione gentiliana è rappresentata, per l’intera area tecnico-professionale, dalla L. 15
giugno 1931, n. 889: partendo da essa, lo Stato convoglia ben presto nel sistema scolastico, prima l’istruzione tecnica, fissando in cinque
anni la normale durata del corso di studi degli istituti tecnici (D.L. lgt. 7 settembre 1945, n. 816), poi, per tappe successive, quella
professionale, consentendo l’istituzione di scuole d’istruzione tecnica con ordinamento speciale, cioè gli istituti professionali (R.D.L. 21
settembre 1938, n. 2038) e la trasformazione degli istituti professionali in scuole secondarie di cultura generale (L. 27 ottobre 1969, n. 754
e successive modificazioni). Così che, se normalmente gli istituti professionali rilasciano diplomi di qualifica, al termine dei corsi
sperimentali, gli alunni possono sostenere anche l’esame di Stato per conseguire la maturità professionale. Come è stato osservato (da L.
Calcerano – G. Martinez y Cabrera, Scuola (ordini e gradi), in Enc. dir., XLI, 1989, P. 914) “il piano di studi degli istituti professionali con i
corsi sperimentali ha assunto la peculiare caratteristica di procedere dal particolare al generale, dallo specifico professionalizzante
all’integrazione 'culturale' seguendo un percorso capovolto rispetto a quello degli istituti tecnici”.
65 Corte cost., sentenza n. 89/1977, in Riv. giur. scuola, 1979, p. 33; v. anche Corte cost., sentenza n. 696/1988, in Cons. Stato, 1988, II, p.
1132.
60
10
formazione66; dalla riforma dei cicli scolastici del 2000 67 alla controriforma del 200368 che prevede, al termine del
primo ciclo di otto anni (comprendente le scuole primaria e secondaria di primo grado), un secondo ciclo
costituito dal sistema dei licei e, appunto, dal sistema dell’istruzione e della formazione professionale.
Quest’ultimo, dunque, “diventa la 'seconda gamba' del sistema educativo nazionale”, salva la possibilità sia di
cambiare indirizzo all’interno dei licei sia di passare dal sistema scolastico a quello della formazione o viceversa69.
Come più volte ribadito, per effetto della legge costituzionale n. 3 del 2001, alle regioni è stata attribuita
potestà legislativa esclusiva (o residuale) nella materia dell’istruzione e della formazione professionale (art. 117,
commi terzo e quarto): la conseguenza dovrebbe essere (ma il condizionale è d’obbligo) che l’istruzione
professionale attualmente impartita negli istituti statali venga ad esse integralmente trasferita 70.
Posto che il nuovo assetto rimane tutto da costruire, qualche punto fermo è bene che resti precisato:
a) indipendentemente da quanto accadrà, di sicuro la competenza (esclusiva) regionale non può più
essere circoscritta alla formazione, in senso stretto, come è definita ai sensi dell’art. 35 Cost. (formazione
professionale al servizio del lavoro e dell’occupazione): essa sicuramente riguarda anche l’istruzione professionale,
cioè, propriamente il settore scolastico professionale;
b) ciò esige una radicale revisione dell’attuale stato di cose che porti le regioni a gestire le nuove
competenze; che porti a rifondare organicamente gli attuali istituti tecnici, professionali, di formazione
professionale; che porti a equilibrare i rapporti tra Stato e regioni sul tema dell’istruzione tecnica e professionale.
Soprattutto contro la tentazione onnivora dello Stato di eludere i contenuti delle riforme, moltiplicando gli
indirizzi dei nascituri licei artistici, economici, tecnologici con effetto espropriativo delle competenze regionali;
c) non solo va salvaguardata la posizione delle regioni, ma il sistema va ricostruito, cogliendo il
significato della pari dignità delle due gambe e il superamento del pregiudizio (di antica matrice gentiliana)
incentrato sul primato degli studi umanistici e sulla minorità dell’istruzione-formazione tecnico professionale.
Va, infine, fatto constatare che le novità relative alle due gambe del sistema educativo nazionale così
come quelle legate all’autonomie hanno l’effetto di temperare, in un duplice senso, il tradizionale principio del
valore legale dei titoli di studio. Innanzi tutto e specificamente, in virtù della previsione, nel caso di mancato
conseguimento del diploma o della qualifica, della certificazione, a cura delle singole istituzioni scolastiche e
formative, delle competenze acquisite in base al percorso didattico svolto o alle esercitazioni pratiche, alle
esperienze maturate, agli stage realizzati in Italia o all’estero (si tratta di crediti formativi certificati che possono
essere fatti valere ai fini della ripresa degli studi o per l’ingresso nel mondo del lavoro)71. In secondo luogo,
perché ogni scuola può scegliere di arricchire il suo prestigio, nella comparazione con le altre, affiancando la
certificazione istituzionale obbligatoria (titoli di studio, titoli intermedi, certificati delle abilità acquisite,
accreditamenti), con ulteriori certificazioni di qualità volontarie, richieste nell’esercizio dei poteri dell’autonomia,
specie rispondenti ai requisiti espressi dalla normativa UNI EN ISO 9001/2000 (Vision) o rilasciate ai sensi di
quest’ultima.
8. (SEGUE) … F) SUL DIRITTO ALLO STUDIO
Fino alla riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, il legislatore regionale, forte del fatto
che in sede nazionale la materia dell’assistenza scolastica 72 era stata definita in termini ben più ampi di quelli che la
V. art. 68 L. 17 maggio 1999, n. 144 e il relativo regolamento di attuazione (D.P.R. 12 luglio 2000, n. 257).
L. 10 febbraio 2000, n. 30.
68 L. n. 53/2003 che abroga espressamente (art. 7) le leggi nn. 30/2000 e 9/1999.
69 Cito dalla relazione di accompagnamento al D.D.L. A.S. n. 1606 divento la L. n. 53/2003. Secondo un percorso modulare, chi
frequenterà la formazione professionale, dopo la qualifica professionale, potrà proseguire e ottenere un diploma professionale e,
successivamente, se lo desidera, accedere all’anno integrativo che gli permetterà di iscriversi all’università o ai corsi di istruzione e
formazione superiore (Ifts). Cfr. G. Meloni, Il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, in Quad. cost., 2003, p. 378.
70 Allo Stato, al quale è riservata “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, (art. 117,
comma 2, lett. m), fermo restando la competenza regionale, spetta definire le linee essenziali affinché dai percorsi del sistema
dell’istruzione e della formazione professionale possano discendere profili educativi, culturali e professionali ai quali conseguono titoli e
qualifiche professionali di differente livello, valevoli su tutto il territorio nazionale: per il coordinamento fra il ruolo dello Stato e quello
delle regioni v., della L. n. 53/2003, in particolare, l’art 2, comma 1, lett. h), l’art. 7 comma 1, lett. c) e comma 2. Dunque, dal combinato
disposto della Costituzione riformata e della legge di riforma dei cicli scolastici si possono identificare “due sistemi educativi: uno 'di
istruzione', a legislazione concorrente tra Stato e Regioni, salvo che per le 'norme generali' ed i 'principi' che restano alla legislazione
esclusiva dello Stato; e uno 'di istruzione e formazione professionale' a legislazione esclusiva regionale, salvo che per i L.e.p., che
competono allo Stato”: così G. Bertagna, Istruzione e formazione dopo la modifica del Titolo V della Costituzione. Osservazioni al Documento di Astrid,
in www.edscuola.it.
71 Cfr. l’art. 2, comma 1, lett. i), L. 28 marzo 2003, n. 53; sulla scia dell’art. 1, comma 4, L. 20 gennaio 1999, n. 9 (abrogata) e dell’art. 4,
comma 5, L. 10 febbraio 2000, n. 30 (abrogata).
72 Come per tutte le materie di cui al vecchio art. 117, si trattava di competenza legislativa concorrente e, quindi, da svolgere, fra gli altri,
nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi (cornice) dello Stato. Alla competenza legislativa corrispondevano, ex art. 118 primo
66
67
11
lettera poteva far supporre73, concepì una legislazione di respiro via via sempre più vasto, che finì col dare
all’assistenza scolastica prima i confini del diritto allo studio, poi, a farli collidere con quelli, “proibiti”,
dell’istruzione e dell’organizzazione dell’istruzione.
Invero, nonostante il regionalismo avesse ancora i connotati della prima Costituzione, maturò un
processo di riforma vivace, in alcuni casi anche di contrapposizione con lo Stato, dentro gli organi rappresentativi
e in seno alla società civile74, capace di segnalarsi per l’adozione di soluzioni d’avanguardia, di orientare il
legislatore nazionale e di autoalimentarsi, quanto meno per effetto mimetico: ricordo l’introduzione dei buon
scuola regionali, le originalissime, per quanto prodromiche, forme di integrazione tra sistema di istruzione
pubblico e sistema di istruzione privato, la sperimentazione di forme di partecipazione convenzionata,
specialmente nel campo dell’istruzione dell’infanzia, che non solo anticipano ma superano, in prospettiva, i timidi
riferimento contenuti in questo senso nella legge statale sulla parità scolastica: non sistema nazionale di
istruzione, ma sistema integrato di istruzione.
Con la riforma costituzionale del 2001, le regioni hanno guadagnato, in materia di diritto allo studio, un
ruolo assolutamente primario: hanno acquistato su di essa, nel contesto dell’inversione del criterio di attribuzione
delle funzioni, competenza legislativa esclusiva (insieme alla potestà concorrente in materia di istruzione).
Stante l’estrema duttilità della definizione dei diversi livelli normativi, il nuovo testo dell’art. 117 Cost.
può, a ragione, essere considerato, se non una norma in bianco, una norma in itinere, che solo il tempo e la prassi
(o la consuetudine) applicativa riusciranno a precisare, e c’è da aspettarsi che le regioni, o alcune regioni “pilota”,
sapranno cogliere l’occasione dei nuovi poteri per proseguire nella direzione già seguita.
Penso alle leggi che le regioni dovranno adottare e vedo testi organici in cui il diritto allo studio si articola
nelle forme più varie e negli strumenti più diversi, a beneficio della scuola dell’infanzia fino all’educazione degli
adulti: dall’assistenza di fronte a situazioni di disagio personale, familiare o economico alla previsione di misure
per incentivare l’eccellenza, dalle borse di studio alla ricerca di soluzioni sinergiche con gli operatori privati, fino
alle misure di sostegno dell’innovazione tecnologica75. L’obiezione che in questo modo si mette in crisi il
principio di uguaglianza non ha credito, sia perché l’asimmetria del regionalismo ha radici nel nuovo testo
costituzionale, sia perché lo Stato deve determinare i livelli essenziali delle prestazioni 76 concernenti il diritto
all’istruzione e allo studio che la legislazione regionale è tenuta a garantire77.
comma (vecchio testo), le funzioni amministrative, secondo il noto principio del parallelismo delle funzioni. Tali funzioni furono trasferite
dal decreto delegato n. 3/1972 e ampliate dal successivo decreto n. 616/1977. In realtà, il legislatore delegato (dalla L. 382/1975), con il
D.P.R. n. 616/1977 si avvalse in larghissima misura dell’eccezione di cui alla seconda parte del primo comma dell’art. 118 e attribuì ai
comuni la quasi totalità delle funzioni, riservando alla regione la sola assistenza scolastica universitaria e le funzioni di indirizzo,
coordinamento e controllo sulla attività dei comuni, stabilendo, nel contempo, che esse dovessero svolgersi “secondo le modalità previste
dalla legge regionale” (art. 45, comma 1, D.P.R. n. 616/1977, oggi art. 327, comma 2 T.U. n. 297/1994).
73 V. l’art. 1 D.P.R. 14 gennaio 1972, n. 3; successivamente, l’art. 42 D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, oggi, l’art. 327 del T.U. n. 297/1994.
Quest’ultimo dispone che “le funzioni amministrative relative alla materia [dell’assistenza scolastica] concernono tutte le strutture, i servizi
e le attività destinate a facilitare mediante erogazione e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali o collettivi, a favore degli
alunni di istituzioni scolastiche pubbliche o private, anche se adulti, l’assolvimento dell’obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e
meritevoli ancorché privi di mezzi, la prosecuzione degli studi. Le funzioni suddette concernono fra l’altro: gli interventi di assistenza
medico psichica; l’assistenza ai minorati psico-fisici; l’erogazione gratuita dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari”. L’ampiezza
della definizione si intuisce, nel primo comma, dalla formulazione in termini finalistici (il fine è l’attuazione del diritto all’istruzione) e, nel
secondo comma, dal carattere semplicemente esemplificativo delle indicazioni dei possibili contenuti, come risulta dall’uso delle parole
“fra l’altro”. L’art. 42 L. cit., dunque, a) segna il superamento dell’idea individualistica e meramente assistenziale dei mezzi per l’attuazione
del diritto allo studio, quella fondata sullo stato di bisogno dei beneficiari ed essenzialmente destinata alla rimozione delle condizioni di
disagio; infatti, b) in perfetta aderenza al secondo comma dell’art. 34 Cost., sopprime il riferimento allo stato di bisogno per gli alunni della
scuola dell’obbligo (la gratuità del servizio esula dalle condizioni economiche degli utenti); e c) prescinde da tale requisito per un ampio
spettro d’interventi che, affiancando la tradizionale assistenza scolastica materiale (art. 42, comma 1), costituiscono la cosiddetta assistenza
scolastica educativa (art. 42, comma 2).
74 Alludo ai “casi” sollevati dalle leggi sul diritto allo studio della Lombardia, del Veneto, del Piemonte, della Liguria, dell’Emilia Romagna
(dirette alla costituzione di un servizio scolastico integrato pubblico privato); alle decisioni della Corte costituzionale (Emilia Romagna); ai
rinvii o alle osservazioni del commissario del governo presso la regione (Lombardia e Veneto); al ricorso instaurato davanti alla Corte
costituzionale e poi ritirato dal governo (Lombardia); alla richiesta di referendum abrogativi nazionali e regionali, alla loro celebrazione a
livello regionale (Veneto e Liguria).
75 Così è nella prima legge regionale adottata a Costituzione variata, la L.R. n. 12 del 30 giugno 2003 dell’Emilia Romagna, recante Norme
per l’uguaglianza delle opportunità di accesso al sapere, per ognuno e per tutto l’arco della vita, attraverso il rafforzamento dell’istruzione e della formazione
professionale, anche in integrazione tra di loro.
76 Art. 117, comma 2, lett. m), Cost..
77 D’altro canto, come è stato rilevato (da L. Antonini, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000, 3), “il paradosso del metodo implicato nel
regionalismo dell’uniformità è stato quello di non essere riuscito, nonostante vari decenni di applicazione, a garantire l’unificazione delle
condizioni di vita del Paese”, mentre (p. 94) “la convinzione che l’eguaglianza richieda l’uniformità o che tra federalismo e stato-sociale
esista un conflitto insanabile può risultare smentita dalla possibilità di creare forme di risposta alle necessità sociali più efficaci di quelle
ipotizzabili in base ad una politica uniforme su tutto il territorio nazionale”; v. anche G. Pitruzzella, Il pluralismo della scuola e nella scuola, in
Studi in onore di F. Benvenuti, IV, Modena, 1996, p. 1382, il quale riassume il quadro constatando che “ormai è normalmente riconosciuto
che le politiche pubbliche nel campo dell’istruzione non sono state in grado di produrre effettiva eguaglianza di opportunità”.
12
9. FINE
Avendo assecondato la suggestione dei principi ed il fascino delle loro potenzialità, mi pare giusto
concludere guardando alle nuove norme costituzionali sulla scuola come a norme – con lo stesso sguardo che fu
di Umberto Pototschnig – che non già fissano l’ordinamento della scuola, ma che, in modo dinamico, sono dirette a
fissare le condizioni per lo sviluppo della scuola.
Nessuno è o deve sentirsi escluso, posto che, in definitiva, il punto (l’obiettivo) non è tanto di allocare o
gestire competenze, quanto di predisporre un servizio finalizzato - leggo l’esordio dell’art. 1 della L. n. 53/2003 –
“a favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana”.
Enrico Minnei
Assegnista di ricerca, Università di Padova
13