Anime rotte - Cefa Onlus
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Anime rotte - Cefa Onlus
Anime rotte di Monica Rana alluminio antimonio carbonato di rame carbonato di sodio clorato di bario clorato di potassio cloruro rameico fosforo magnesio mercurio nitrato di stronzio nitrato di potassio ossalato di sodio ossido di zinco pece PVC solfato di rame ammoniacale zinco zolfo 1 No, non siamo a scuola. Non è importante che ne ricordi le formule molecolari. Non ti parlerò di sistemi di sintesi, punti di fusione, legami, della reattività e solubilità degli elementi, dell’interazione tra energia e materia. Non ne so praticamente nulla nemmeno io, sebbene tutti questi nomi – che rappresentano solo uno stralcio da un elenco lungo più del doppio – istintivamente mi fanno un po’ impressione. Non trovi anche tu? Presi così indecifrati severi tacitiani - mi danno l’idea di essere sostanze molto pericolose. Presumo sia necessario aver studiato diligentemente e per un certo lasso di tempo al fine di maneggiarle come si deve. Bisogna infilarsi il camice bianco, le mascherine e i guanti di lattice - come quelli che nelle fiction del dopo cena vedi indossati dai paladini della chirurgia d’emergenza o della polizia scientifica - che se capita di superare la quantità indicata anche solo di un’inezia, se si sbaglia ampolla… boom! Tutti i morti col lenzuolo bianco in testa in prima pagina. Dei feriti gravi nemmeno i nomi. Lo scandalo. L’inchiesta. I funerali di stato, magari. E il processo come ennesimo intrattenimento televisivo. Tu, di chimica, a scuola hai fatto due anni e non andavi nemmeno tanto male. Copiavi. Eri un maghetto degli appunti organizzati a fisarmonica nella manica del maglione di lana che faceva i pallini. Nonostante tutto ti sei diplomato benino, ti sei preso una laurea in legge e ora lavori quattordici ore al giorno scommettendo tutto ciò che hai sulla promessa di una dorata carriera. Sei un uomo di successo, tu! Sempre ben rasato, la manicure impeccabile, la cravatta annodata con gusto seguendo le altalenanti mode del nodo – andava piccolo, poi grande, ora di nuovo minuscolo. 2 Mentre sudi sul tapis roulant parli di lavoro, delle scelte di governo che condividi ma anche di tutti quei grulli con cui hai spartito le pene dell’università che sono già diventati Qualcuno solo per il fatto di essere ammanicati con gli illustri della politica locale e che tutto questo non è mica bello, della mafia che non molla e dello Stato che fa finta di non sapere e del didietro della tua segretaria fasciato in eleganti tubini longuette che non ti riesce proprio di non fissare. Ti rallegri di un matrimonio che sembra perfetto. Fai vanto del viaggio alle Isole Vergini e della villetta a schiera che paghi col mutuo di trent’anni. Hai un figlio cui la domenica insegni a tirare calci al pallone. Quando urla “goal” ti senti felice, realizzato. Esausto. Ora, prima di uscire, ascoltami: torna alla prima pagina, allo spauracchio di quei misteriosi nomi. Prendili e incorporali uno ad uno, come lo zucchero al rosso dell’uovo, poi la farina, il cacao e la scorza d’arancia grattugiata, fai come facevano ogni domenica le mani instancabili di tua nonna; amalgamali, annusali. Inumidisci un guanto di crine sotto l’acqua, tuffalo dentro questo tortino bombarolo e strofina la schiena nuda di tua moglie. Amala, se riesci. Fatti la barba, indossa la camicia con i gemelli e il Rolex pagato a rate. Guardati allo specchio. Contempla ogni tua impresa, un’ultima volta prima di uscire. “Ehi, allora… Quanto ti ci vuole ancora?” “Arrivo, cara! “Sbrigati, sei sempre l’ultimo!” 3 Vai, corri. Sorridile. Scendi in giardino, guarda in alto, indica col dito, sorridile ancora, fai pure una foto col telefonino. Che ti resti un bel ricordo, di una notte così speciale. Spettacolare. “Papà…” Prendilo in braccio, ha paura. Ciò nondimeno tuo figlio è attratto da tutti quei colori: il verde del bario squarcia il cielo, il rosso porpora dello stronzio fa piovere lacrime di commozione. Stringilo forte il tuo bambino. Di più. Intanto che applaudi questa tua fetta di cielo in festa scambiando gesti affettuosi e buoni auspici persino coi vicini, il cane terrorizzato sotto al letto o nel cantuccio più difeso della casa, il criceto impazzito sulla ruota - sei del tutto indifferente a ciò che avviene sotto un’altra fetta di cielo. Beatamente inconsapevole. Allora, chiudi gli occhi. Per un istante, rifletti. Solca i mari della tua preesistenza e di ciò che esisterà dopo di te. Recati altrove. Nei luoghi dove l’ordine sociale è capovolto e la legge collassa finendo per coprire, favorire e rafforzare la barbarie, legittimare il mercimonio della dignità umana. Qui - in questo luogo che è altro, ossia opposta medesimezza - c’è fango. E’ la stagione delle piogge. Le strade esalano fumi di curcuma e zenzero. Qui hanno tutti degli occhi grandissimi. Nitidi e neri. Affamàti, ti frugano dentro. Ti inquietano. E tu, non ce la fai a sottrarti al senso di colpa. Qui i bambini dai tre anni e mezzo in su fabbricano i tuoi fuochi d’artificio, quelli che acclami a Ferragosto e a 4 Capodanno, alla Festa del Redentore o che calchi col dito sfogliando l’ultima pagina di Alì Babà e i 40 ladroni, prima di mettere a nanna il tuo sacro figlio. Qui, questi piccoli macilenti indifesi schiavi, lavorano per dodici ore al giorno, arrotolando e imballando. Imputridendo. Qui c’è Rupali: una bimbetta di età approssimativa perché la sua nascita non è stata registrata. Veste di arancio ogni giorno e ogni notte vede in sogno la sua mamma, sagoma opaca in un teatrino delle ombre. Rupali lavora in un cantiere lordo e buio, un ex deposito di carbone. Modella a mani nude una miscela di polvere da sparo, corrosiva. Col tempo la pelle delle sue minuscole dita si è consumata. Piaghe di carne viva sopra a vecchie cicatrici. Tracce dolorose. Le lesioni di Rupali bruciano aspre. Ma soprattutto, la angustiano: ci vuole troppo tempo affinché si rimarginino nei termini imposti dalla natura del suo fragile tenace corpo. Ella sa che se per qualche giorno non lavorasse la licenzierebbero. E per lei sarebbe la fine. No, non può permettersi di essere licenziata! Rupali è vittima di un vincolo da debito. Suo padre è morto in circostanze poco chiare e sua madre è stata costretta a consegnarla in schiavitù a garanzia di un debito da lui malauguratamente ereditato. Qui funziona così: gli usurai rivendicano il diritto di proprietà sui figli dei contraenti il debito o di coloro a cui è andato in successione unitamente ad una bisaccia di riso. Qui è normale: se stai male e non lavori non puoi estinguere il tuo debito. E mentre attorno la morte ti coglie 5 con la prontezza di un felino, la tua schiavitù può durare per tutta la vita, passare ai tuoi figli, ai figli dei tuoi figli giacché il requisito di vessazione persiste. Non muore. Qui sei condannato, di generazione in generazione. Sicché, al fine di sfuggire alle tremende conseguenze del licenziamento, sulla carne viva Rupali applica un carbone ardente o una sigaretta accesa. Per cauterizzare e sopravvivere. Col tempo i suoi polpastrelli sono diventati una massa di tessuto cicatriziale. Muschio galvanizzato. Frattanto, i composti chimici le si sono fissati nei polmoni e le stanno avvelenando il sangue. Rupali e tutti i suoi piccoli compagni di lavoro, che ogni giorno a centinaia vengono stipati nei pullman della schiavitù e che tanto assomigliano alle nostre creature occhi immensi, desiderio di vivere e tanta, tanta voglia di mamma - diventano presto malati cronici di un male incurabile: l’inconsapevolezza. Quella di tutti coloro che come te in questo istante stanno mirando una policroma fetta di cielo. Soltanto la propria piccola fetta. Rupali ogni giorno si alza da un sonno sottile di sogni rubati al firmamento, sale sul pullman e durante il tragitto alla sua fabbrica di fuochi d’artificio smette di sperare per trasformarsi in una delle nostre tante anime rotte: minuzia sbiadita sotto una fetta di cielo buio. Pensaci. 6