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Interrogato sui sei anni trascorsi alla scrittura del suo romanzo “In Cold Blood”, Trunan Capote così disse: “L’expérience a servi à rehausser le sentiment que j’ai du tragique de la vie”. Truman CAPOTE. “ La mia opinione è che perché il genere di romanzo-verità abbia interamente successo l’autore dovrebbe non apparire nell’opera (...) io penso che l’unica cosa più difficile nel mio libro dal punto di vista tecnico sia stato scriverlo senza mai apparire e tuttavia, allo stesso tempo, creare l’assoluta credibilità”. Truman CAPOTE in George PLIMPTON, The Story Behind a Nonfiction Novel, “The New York Times”, 16 gennaio 1966. In Cold Blood di Truman CAPOTE, da un caso di sordida cronaca nera al romanzo sociologico. //////////////////////////////////////////// In Cold Blood. Quadro sinottico. Nella notte tra il 14 e il 15 novembre 1959 nello Stato del Kansas, a Holcomb, una tranquilla zona periferica della cittadina di Garden City, “un confuso agglomerato di costruzioni diviso al centro dai binari della Ferrovia Santa Fe, un borgo qualsiasi delimitato a sud da un tratto del fiume Arkansas, a nord da un’autostrada, la Route 50, a est e a ovest da praterie e campi di grano”1, quattro membri della famiglia Clutter sono uccisi a sangue freddo e il movente resta a lungo sconosciuto. I due assassini rapinatori dichiararono di essersi introdotti nella dimora dei Clutter certi di trovare una cassaforte contenente migliaia di dollari ma era a tutti noto che Herbert W. Clutter, benché socialmente benestante, non aveva l’abitudine di custodire dentro casa somme di denaro consistenti e difatti i due giovani assassini, Perry Smith e Dick Hickock, ricercati come principali sospettati e arrestati il 30 dicembre a Las Vegas dalla polizia locale assistita da agenti dell’ufficio investigativo del Kansas (K.B.I. Kansas Bureau of Investigation), subito dopo l’arresto, interrogati confermarono che il bottino della rapina consisteva in un’esigua somma di denaro tra i quaranta e i cinquanta dollari, in una radiolina a transistor Zenith grigia e in un binocolo trovato sul tavolo di lavoro dell’Ufficio di Herbert W. Clutter. Questi ultimi due oggetti di cui i due assassini si erano disfatti in Messico furono poi rintracciati in un banco di pegno dall’agente del K.B.I. Harold Nye, mentre gli altri arnesi che erano serviti durante la rapina, e cioè una pila elettrica, un rotolo di corda bianca di nailon “robusta come filo di ferro e non molto spessa”(T. Capote, A sangue freddo, p.51) di circa 90 metri, e quel che restava del nastro adesivo impiegato per legare e ridurre al silenzio le vittime, furono rinvenuti e recuperati con l’aiuto di Virgil Pietz, impiegato alle autostrade della contea, non molto lontano dall’autostrada in direzione est, sepolti in una fossa poco profonda con all’interno anche le cartucce vuote., Invece il fucile, usato nel massacro e di proprietà di Dick “un Savage calibro 12 modello 300; il calcio era adorno di uno stormo di fagiani in volo, delicatamente incisi”(Ibidem, p.197), ripulito del sangue, fu ritrovato a casa dei genitori di Dick così come, “tranquillamente appoggiato al muro di cucina” (Ibid., p.295) e il coltello da caccia di Dick nascosto in una scatola di attrezzi per la pesca fu rinvenuto dall’agente investigatore Harold Nye e dagli altri agenti del KBI che avevano fatto visita ai genitori Hickock per sapere come e dove il loro figlio aveva trascorso la giornata di domenica 15 novembre. I guanti di pelle che i due balordi assassini avevano usato e la camicia 1 Truman Capote, A sangue freddo, Garzanti editore, Milano, decima ristampa: settembre 2004, p.13 1 macchiata di sangue di Dick erano stati bruciati in un’area abitualmente utilizzata per parcheggiare e per farei picnic quando i due complici avevano deciso di dirigersi a est, verso Kansas City e Olathe. I due autori dell’orrendo crimine, rei confessi, furono condannati alla pena di morte. Di ricorso in ricorso l’esecuzione della pena capitale avvenne il 14 aprile 1965, in una notte buia e piovosa, con un cane lontano che non smetteva di abbaiare. All’epoca del grave fatto di sangue Truman CAPOTE, pseudonimo di Truman Streckfus Persons (New Orleans, 30 settembre 1924-Bel Air, 25 agosto 1984), svolgeva la professione di giornalista-cronista al New Yorker, tempio della letteratura americana. A vent’anni, nel 1944, Capote era stato assunto all’ufficio grafico del giornale come fattorino con il compito di temperare le matite e di correre “con la sua mantella” in giro a consegnare copie di libri, manoscritti e bozze di articoli a più di trenta redattori impegnati a leggere ogni cosa che scrivevano i giornalisti. Lo scrittore Brendan Gill lo ricorda nel suo libro sul “New Yorker” “svolazzava su e giù per i corridoi del giornale, quando, con grande stupore di coloro i quali frequentavano il giornale, si scoprì che Capote era un vero scrittore, fece sentire a disagio molti” (Brendan GILL, in George PLIMPTON, Truman Capote, Ed. Garzanti, Milano, 2004, p.44). Nei ritagli di tempo Truman scriveva racconti che sottoponeva alla lettura di direttori e redattori che lavoravano al giornale e che restavano affascinati dal suo talento e dalla sua professionalità. A sole diciannove anni Truman non appariva un dilettante e non aveva bisogno di tutor. Intanto cominciò a frequentare la casa di Leo LERMAN, redattore al giornale, che di domenica sera soleva organizzare delle feste frequentate da ballerini, gente del mondo letterario e artistico in genere. C’erano Marcel Duchamp, Maria Callas, William Faulkner, Rudy Nureyev ed altri che non andavano per bere o per mangiare ma per vedersi e per parlarsi e poi si usciva a cena. New York all’epoca era davvero un posto eccitante ed era affascinato coloro che ricoprivano funzioni di alta responsabilità all’interno delle riviste più seguite quali Harper’s Bazaar e cioè George Davis, Leo Lerman e Mary Louise Aswell, direttrice della redazione narrativa anche se quando fece il suo ingresso in quella cinica realtà a passo di danza nutriva a tratti un sentimento di paura. La pubblicazione nel gennaio del 1948 del suo primo romanzo, Altre voci e altre stanze, edito dall’editore Random House, fece andare in estasi il ventitreenne Truman. E nonostante alcune recensioni non del tutto entusiastiche, il giovane scrittore si convinse che avrebbe continuato a scrivere. Sulla quarta di copertina, Truman, mollemente abbandonato su un divano provenzale francese, sembrava un elfo sperduto. Harold Halma scattò quella fotografia raffigurante Truman disteso “terribilmente giovane e vulnerabile” e non pensò che potesse provocare tanto clamore, uno scandalo. Fu un colpo di genio. Truman diventò così uno scrittore famoso e di successo. Quando uscì il libro c’era chi come Walcott Gibbs andava su e giù per i corridoi del giornale dicendo: “Quel ragazzino sa scrivere! Quel ragazzino sa scrivere!”. Gibbs era impressionato dal fatto che quella persona per la quale non aveva provato altro che disprezzo, un fattorino-garzone addetto a temperare le matite dei redattori nei corridoi del prestigioso New Yorker, in realtà fosse un genio. Una reazione positiva venne da Diana Trilling, critico di narrativa che scrisse un articolo apparso il 31 gennaio 1948 sul giornale The Nation “ le capacità di Truman descrittive ed evocative, la sua abilità nel piegare la lingua alle atmosfere poetiche, il suo orecchio per il dialetto e per i vari ritmi del parlato sarebbero comunque straordinarie e che in un autore così giovane tale perizia rappresenta una forma di genialità”. 2 Nell’intervista che Truman fece al “The Paris Review” nel 1957 lo scrittore statunitense non condivide, il parere di numerosi critici sulle influenze letterarie che Faulkner, Welty e McCullers avrebbero esercitato sulle sue prime opere. Pur ritenendosi un grande ammiratore di tutti e tre, non crede che abbiano molto in comune gli uni con gli altri, o con lui, a parte il fatto di essere nati tutti nel Sud e ribadisce la sua passione per Flaubert, Jane Austen, Henry James, Maupassant, Rilke, Proust, Shaw e James Agee. Per anni Truman aveva avuto un’attrazione per il palcoscenico e avrebbe voluto essere un ballerino di tip-tap. Poi gli venne anche il desiderio di suonare la chitarra e cantare nei locali s’interessava anche alla pittura ma alla fine si convinse di non avere il talento per queste forme artistiche. La prima persona che l’aveva davvero aiutato fu, stranamente, un’insegnante, una professoressa di inglese, Catherine Wood, che sostenne le sue ambizioni in tutti i modi e alla quale sarà sempre grato. Ma sulla sua carriera Capote aveva le idee chiare da quando aveva otto anni pensava che il suo futuro era nella scrittura. Marie Rudisill, sua zia, aveva intuito che il nipote avrebbe fatto lo scrittore. Truman stesso nell’intervista di Gloria Steinem, “McCall’s”, novembre 1967, confessò che “scrivere è sempre stata la mia ossessione, era semplicemente una cosa che dovevo fare, e non capisco neanche io esattamente perché dovesse essere così. Era come se fossi un’ostrica e qualcuno mi avesse infilato a forza un granello di sabbia nella conchiglia; un granello di sabbia di cui non ero al corrente..”. Anche il cugino Jennings Faulk Carter confermò che Truman voleva scrivere. “Aveva un quaderno tascabile in cui annotava delle piccole scene. Vedeva passeggiando nei boschi una scena particolarmente bella di un albero che allungava i rami sopra un ruscello e lui si fermava proprio per scrivere la descrizione. In un vecchio baule che teneva sotto il letto della zia Sook ci metteva le sue carte, aveva una piccola chiave e chiudeva il coperchio del baule dopo avercele messe dentro” (Jennings Faulk Carter, in George Plimpton, Truman Capote, ibid., pp.21-22). Nel 1958 Truman pubblicò il delizioso Colazione da Tiffany che lo consacrò scrittore di prima grandezza e che gli valse l’incoraggiamento di Margarita Smith, redattrice della sezione narrativa di “Mademoiselle”, di Mary Louise Aswell di Harper’s Bazaar e di Robert Linscott della Randon House. Era quindi uno scrittore di successo e re dei salotti newyorchesi. Apprezzato confidente, allegro e sagace, lo scrittore statunitense costruì molto della sua fortuna letteraria e della sua leggenda sulla vanità e la mondanità. Non mancava mai nei salotti e sugli yacht più esclusivi. Era molto ambizioso e, come sua mamma Lillie Mae Fault, detta Nina, ci teneva a essere accettato in società. Voleva come lei appartenere alla café society e perseguiva questo scopo con determinazione. Dava molti ricevimenti e amava organizzare cocktail party fin da tenera età come racconta suo cugino Jennings Faulk Carter: “mentre era in seconda elementare, Truman apprese che avrebbe dovuto lasciare Monroeville per andare su al Nord con la madre. Disse che voleva dare una festa così grandiosa che tutti si sarebbero ricordati di lui. Decise di fare una festa di venerdì sera, cosa inaudita, perché i bambini non partecipavano a feste serali. Truman riuscì a fare a modo suo. Ci si buttò a tutto vapore. Inventò decine di giochi. Truman era una pentola in ebollizione..” (Jennings Faulk Carter, in George Plimpton, ibid., p.25). A New York dove si era trasferito con la mamma, Truman diventa ben presto il beniamino dei ricconi. Uno di loro, il banchiere Kenneth Guinness, disse di lui a sua moglie Slim Keith: “Teniamolo qua, possiamo metterlo sulla mensola del caminetto”. Era un ninnolo e Truman ne era consapevole: “Sono un fenomeno da baraccone. Le persone non mi vogliono bene. Sono affascinate da me, ma non mi vogliono bene”. L’anno in cui Truman Capote raggiunge il punto più alto di vanità e di fama é il 1966 quando decise di dare il suo ballo in maschera in bianco e nero. Affitta la più bella sala da ballo del Plaza di New York per la notte tra il 28 e il 29 novembre, il posto che per lui aveva sufficiente classe ed eleganza. Il ballo fu uno dei suoi capolavori e passò tutta l’estate a progettarlo. Quella fu la festa più bella della storia, la festa del secolo. Tutta New York ne parlava e c’era il mondo intero e nessuno voleva essere lasciato fuori. Per la giornalista mondana Aileen Mehle “fu la 3 festa più abbagliante in cui fosse mai stata, quasi tutti i costumi erano stupendi e la trovata delle maschere fu brillante e molto divertente” (Aileen Mahle, in George Plimpton, ibid., p.245). Truman era praticamente radioso, lusingato ed emozionato per la presenza delle donne dal collo di cigno davvero incantevoli, Marella Agnelli, Babe Paley e Gloria Guinness, a vederle si rimaneva quasi storditi dal loro fascino e dall’eccitazione. Per Aileen Mehle “c’era una meravigliosa, frenetica allegria in quel party. Truman era il direttore del circo. Era davvero irrefrenabile. Saltellava e rimbalzava da un tavolo all’altro dicendo: “Non è splendido? Non ci stiamo divertendo da pazzi? Adoro questa festa” (Aileen Mehle, in G. Plimpton, ibid., p.255). Per Joel Schumacher, regista cinematografico, il ballo faceva pensare alla Fiera della Vanità di Thackeray, “persone ricche e inconsapevoli che si vestono eleganti e danzano sull’orlo dell’abisso con gli scheletri. È stato come il barbecue dai Wilkes all’inizio di Via col vento, tutta quella gente intenta a celebrare un rito sociale mentre sotto il loro naso divampava la guerra civile. Ecco cosa rappresenta il ballo di Truman. A quella festa non succedeva nulla tranne questo: gente che fingeva di baciarsi sulle guance perché non voleva rovinarsi il trucco o doversi raddrizzare la maschera” (Joel Schumacher in George Plimpton, ibid., p.259). Per lui ogni artista con una propria dignità dovrebbe mantenere il rispetto di se stesso e quando si parlava di Truman Capote si parlava di un grande scrittore americano e non di una persona col talento di divertire, trattato come un pechinese, seduto sui cuscini ricamati perché tutti potessero dire ma che carino, ma che birichino! Il ballo delle celebrità non poteva avere la precedenza rispetto alla sua arte. Il critico e saggista Norman Podhoretz non solo rimase stupito ma esterrefatto per come il mondo reagì a quel ballo. Era il primo party del genere a essere pubblicizzato con tanta enfasi e non ricordava nessuna festa, prima o dopo, trattata a quel modo dal Times. Chiunque percepì che quella festa rappresentava un punto di svolta nella storia culturale e sociale di New York o persino degli Stati Uniti nel senso che la lista degli invitati incarnava la confluenza dell’ambiente alla moda, del mondo letterario e del mondo politico. Per Jane Gunther “Truman, all’inizio, desiderava ardentemente far parte del mondo del denaro e del potere. Il suo modo di accedervi fu accattivarsi le donne di quell’ambiente. Non credo che volesse entrare in quel mondo per poterne scrivere. Credo fosse piuttosto un modo per colmare qualche terribile mancanza che avvertiva dentro di sé” (Jane Gunther, in G.Plimpton, ibidem, p.276). Joe Petrocik ricorda che “l’anno prima di morire, Truman iniziò a parlare di un altro ballo che voleva organizzare. Era uno dei suoi piccoli sogni irrangiungibili, ma ne parlava frequentemente. Aveva intenzione di tenerlo ad Assunciòn, in Paraguay. Era assolutamente convinto che tutti quelli che voleva invitare non ci fossero mai stati, e che sarebbero venuti. Il ballo in maschera richiedeva dai convitati un abito da aristocrazia paraguayana attorno al 1860 e le maschere fino a mezzanotte” (Joe Petrocik, in G. Plimpton, Ibid., pp.261-2). La verità è che Truman amava il successo, il potere e il prestigio. Per John Barry Ryan “Truman ha avuto un ruolo nel processo di trasformazione dell’alta società nello jet set e come lo jet set si è trasformato in quella spaventosa accozzaglia che oggi ritroviamo sulle copertine di People. Era un momento in cui la buona società tradizionale era intollerabilmente chiusa e noiosa. La maggior parte della gente di teatro e di cinema era noiosa. Truman non era noioso. Era eloquente, brillante, buon osservatore, spiritoso, incredibilmente socievole” (John Barry Ryan in G. Plimpton, ibidem, pp.277-8). Per lo scrittore Dotson Rader “a New York e in misura minore, a Londra, Parigi e nelle altre capitali, il prestigio si fonda in gran parte sulla promozione degli artisti. Una volta che hai tanto denaro devi comprare il prestigio sociale. L’unico modo di farlo è comprare il gusto, spendere cinquanta, cento milioni di dollari in arte. È volgare ma è quello che ti dà tono. Poi c’è la questione dei party. Alla tua festa non puoi avere soltanto gente con i soldi; sono tutti noiosi. Devi avere Truman o Tennessee o un regista o qualcuno che sappia parlare di qualcos’altro che non sia il problema della servitù e il prezzo degli immobili. In questo modo vengono coltivati gli artisti. E poiché l’arte americana è largamente il prodotto di omosessuali ed ebrei, a prescindere da quanto tu possa essere antisemita o antigay, lo devi nascondere almeno finché non esci dalla stanza. Senza di loro sei socialmente morto. Gli artisti forniscono l’imprimatur, convalidano il tuo gusto. Perciò anche se Truman era ostentatamente un gay, era un artista che in termini di conferma sociale aveva troppa influenza. In effetti, dopo il ballo in bianco e nero, in questo paese divenne un arbitro della società” (Dotson Rader in G. Plimpton, Ibid., pp.279-80). Norman Podhoretz scrisse nella sua autobiografia Making it di aver conosciuto persone che con suo grande stupore erano infatuate dei 4 ricchi e dei nobili. “Quell’attrazione per l’alta società era alquanto comune fra gli omosessuali. Truman evidentemente aveva intenzione di trarne qualcosa come scrittore, ma non credo che fosse un intento molto profondo o serio. Era, per lui, come per gli altri, una forma di piccolo snobismo contagioso per chi, venendo da piccole città o da origini di cui non era troppo fiero non riusciva proprio a liberarsi dall’idea che le persone migliori fossero quelle ricche, alla moda, con un titolo” (Norman Podhoretz in G. Plimpton, ibidem, p.281). Ora se “la celebrità era per Truman essenziale” come diceva John Knowles e “averlo nella propria cerchia era cosa ambita in società, un’onorificenza” secondo Kenneth Jay Lane, Truman stesso sapeva un’altra cosa e cioè che certe persone uccidono con la spada e certe altre con le parole. Secondo alcuni Capote frequentò il bel mondo per vendicarsi di come quel mondo aveva trattato sua madre che ne era stata sempre attratta. E così per anni Capote raccolse appunti per il romanzo proustiano che doveva mettere alla berlina la jet society, Preghiere esaudite, il libro che metteva in piazza tutti i loro segreti, le cose che gli avevano confessato anche quelle più intime e personali. Quel libro non fu mai completato e la pubblicazione di alcuni brani sulla rivista Esquire bastarono a isolarlo e a bandirlo. I personaggi, scrittori, artisti e i suoi cigni, così Capote chiamava le sue amiche dai lunghi colli modiglianeschi, le preziose Babe Paley, Marella Agnelli, Gloria Vanderbilt e Lee Radziwill, la sorella di Jacqueline Kennedy, si sentirono traditi, gli voltarono le spalle. Sono gli anni in cui Truman precipita in un abisso di polemiche e di abbandoni. C’era chi come Marella Agnelli, a qual punto aveva paura di Truman, temeva che potesse ancora ferirla. Truman era distrutto, si sentiva solo, era entrato in una depressione colossale. Kate Harrington raccontò che “Truman passò molte, molte settimane in una specie di letargo. Non voleva alzarsi dal suo letto, non apriva mai le tende. Era così sconvolto che piangeva, entrava e usciva da quello stato in cui si trova una persona dopo aver fatto una cosa tremenda, che le causa rimorso..Sprofondò nel bere e nella droga. Gli erano rimaste alcune persone fedeli tra le quali Joanne Carson” (Kate Harrington in G. Plimpton, Ibidem, p.334). Truman Capote diventò un relitto umano. Ingrassato, paranoico, cocainomane, beveva martini sin dalla mattina presto, rubava vodka dai frigoriferi dei pochi amici rimasti e bagnava il letto, era trasandato e c’era chi lo vedeva in giro con una tremenda giacca del pigiama. Truman che era sempre stato un amante del ben vestire era diventato scoordinato e trascurato. Per Peal Kazim Bell “il declino di Truman ebbe inizio perché, dopo aver finito il suo vero e unico capolavoro In Cold Blood, sentiva di non poter più scrivere nulla di simile” (Peal Kazim Bell in G. Plimpton, Ibidem, p.376). L’artista Don Bachardy pensò che fosse assolutamente impossibile la voce secondo la quale Truman era diventato alcolizzato. “Era così disciplinato, così rigoroso di natura che non avrebbe mai permesso a una dipendenza di soverchiarlo” (Don Bachardy in G. Plimpton, Ibidem, p.377). Robert Fizdale nel vedere Truman restò di sasso, l’incontro con lo scrittore fu abbastanza traumatico. “Aveva la lingua come quella di un vecchio che tendeva a penzolare fuori dalla bocca. Sembrava proprio malmesso. Era curioso di tutto e raccontava storie maliziose, ma c’era in lui qualcosa di proustianamente triste” (Robert Fizdale in G. Plimpton, Ibidem, p.380). Succedeva che di tanto in tanto Truman svenisse all’improvviso e John Knowles capì che l’amico trovava difficoltà ad orientarsi. Ospite da lui, “quella notte Truman cadde dal letto almeno quindici volte, il suo respiro diventò terribilmente sottile e affannoso al punto da temere che morisse…Era tormentato. Soffriva di depressione e di allucinazioni. Vedeva delle cose, ladri nell’appartamento che prendevano gioielli e tutti i contanti che aveva con sé…Era fuori di testa e si provocava delle crisi epilettiche facendo uso di droghe e alcol. Perse i sensi diverse volte nell’atrio del Plaza, per strada e lo trovarono disteso sulla via pubblica” (John Knowles in G. Plimpton, Ibidem, pp.380-1). Col passare del tempo Truman perdeva quasi del tutto il controllo di sé, insultava le persone e si faceva cacciare fuori dai bar. Creava scandalo ovunque e le poche persone che gli stavano attorno cominciavano ad aver paura di lui. Kenneth Jay Lane notò che “era 5 ingrassato e stava diventando un po’ sgradevole, sembrava non piacesse più neanche a se stesso. Aveva esaurito i pettegolezzi” (Kenneth Jay Lane in G. Plimpton, Ibidem, p.382). Per l’amico-nemico Norman Mailer “le compagnie che Truman frequentava contribuivano alla sua distruzione. Forse la sua vita con quelle sue esperienze è stata un trionfo. All’inizio aveva un meraviglioso senso di ironia riguardo a se stesso. Si rendeva conto di essere un piccolo Truman e gli piaceva. Era contento di quello che era riuscito a combinare e di quello che sapeva fare. Ma come a tutte le cose accadde che non era più in grado di controllarle ed è allora che ciò che gli mancava rafforzò le sue intime incertezze. Dalla pubblicazione del suo racconto La côte Basque sulla rivista Esquire in poi, Truman non si riprese mai dagli affronti che subì” (Norman Mailer in G. Plimpton, ibidem, p.383). Non avendo più niente da dire, Truman Capote cercava un modo per smentire la frase di Scott Fitzgerald secondo la quale non c’è una seconda possibilità nella vita di uno scrittore americano Il 25 agosto 1984 Truman Capote muore a casa di Joanna Carson presso cui si era trasferito per rimettersi in forma. I suoi primi libri Altre voci e altre stanze e Colazione da Tiffany avevano dato a Truman Capote notorietà e apprezzamenti dal mondo letterario americano e non solo ma il bestseller cui ambiva tardava, il grande appuntamento con il suo capolavoro era stato fissato ad una data precisa: il 15 novembre 1959 quando in un posto remoto del Kansas un’intera famiglia di agricoltori, padre, madre e due figli adolescenti, fu brutalmente sterminata senza apparente motivo. Capote aveva sviluppato una teoria sulla “non-fiction novel” che possiamo chiamare anche il ” romanzo documento”, e cioè che “si potesse forzare il giornalismo, il reportage, a produrre una nuova forma d’arte: il romanzo documento”, supportato dal fatto che parecchi bravissimi giornalisti, Rebecca West, per esempio, Joseph Mitchell e Lillian Ross, avevano dimostrato la possibilità del reportage letterario” (Intervista di George Plimpton, “The New York Times Book Review”, 16 gennaio 1966). In sostanza Truman cercava un soggetto che gli permettesse d’illustrare questa teoria, qualcosa che scaturisse da un servizio giornalistico o da un’inchiesta radiotelevisiva con cui realizzare il suo capolavoro. Un giorno apprende della terrificante notizia del massacro della famiglia Clutter leggendo un breve articolo del New York Times del 16 novembre 1959. Truman vede l’occasione per un servizio giornalistico approfondito e originale e pensa subito di scrivere sull’accaduto un romanzo-verità, si rende subito conto che lo studio di un fatto simile poteva fornire l’ampio orizzonte di cui aveva bisogno per scrivere il libro che valeva. “In più l’omicidio era un tema che difficilmente si sarebbe sbiadito e avvizzito con il tempo” (Intervista di G. Plimpton, 16 gennaio 1966). A Shawn, redattore capo del New Yorker non interessavano i numerosi crimini perpetrati nello stato del Kansas. Gli interessava vedere l’effetto di un omicidio, la storia di come una cittadina del Midwesr reagisce a una catastrofe senza precedente; così il massacro a scapito dell’intera famiglia Clutter a Holcomb di cui avevano letto il resoconto sulle pagine del New York Times del 16 novembre 1959 apparve subito come l’occasione da prendere al volo per fare un’indagine com’era nelle intenzioni del giornale. Ottenuta l’autorizzazione della direzione del giornale a scrivere un articolo sulla strage di Holcomb, Truman Capote parte per il Kansas accompagnato dalla sua amica e scrittrice Nelle Harper Lee con uno stato d’animo tra la curiosità e un forte senso di paura dal momento che era noto che la situazione laggiù era molto tesa. La popolazione di quella pacifica e operosa comunità aveva reagito incredula e smarrita, non poteva pensare che una tragedia così incredibile e spaventosa si fosse abbattuta su Herbert W. CLUTTER, un ricco coltivatore di grano che gestiva la sua proprietà con passione e amore, un vero gentiluomo, “non l’avevano mai visto atteggiarsi a signorotto o approfittarsi di qualcosa o venir meno a una promessa “ ( T. Capote, A sangue freddo, ibid., p.50) e sulla sua famiglia amata, rispettata da tutti e profondamente umana, aperta ai problemi di quanti erano socialmente sfavoriti. Uno stupore che scivolava nello sgomento e che faceva sentire ognuno dei duecentosettanta abitanti insicuro, nessuno riusciva a dormire e molti avevano provveduto a cambiare le serrature ai portoni. Tutti avevano terribilmente paura ed era 6 condivisa da molti l’ipotesi che gli assassini fossero due e che non appartenessero alla Contea Finney. Ma la paura che Truman provava trattandosi di un luogo sconosciuto, del tutto estraneo geograficamente e umanamente, sotto la pressione di una strage irrisolta, lo fecero ritornare indietro sulle sue decisioni, anzi tutto ciò rendeva la sfida ancora più interessante e intrigante. Dopo qualche breve riflessione Truman Capote decide quindi di andare in Kansas per vedere direttamente che cosa stava succedendo. Partì con Nelle Harper Lee, sua amica d’infanzia, “una donna di talento, coraggiosa e con un calore che si comunica istantaneamente alla magiior parte delle persone, per quanto siano sospettose o scostanti. Di recente aveva finito di scrivere il suo primo romanzo, To Kill a mockingbird( nelle versione italiana Il buio oltre la siepe) e, sentendosi inoperosa, disse che l’avrebbe accompagnato nel ruolo di assistente ricercatrice” (Intervista di G. Plimpton, ibidem, 16 gennaio 1966). Dopo qualche iniziale difficoltà di sistemazione e d’integrazione nella cittadina di Holcomb i due amici entrano in contatto con la popolazione del piccolo villaggio, simpatizzano con la gente e per due o tre volte sono a cena dai Dewey, dove si parlò di tutto tranne che dell’indagine. L’incontro di Capote al Palazzo di giustizia a Garden City con Alvin Dewey, lo sceriffo incaricato di fare luce sugli autori dell’efferato, agghiacciante e multiplo delitto, fu negativo perché le notizie sulle inclinazioni di Truman l’avevano preceduto. Alvin Dewey ricorda che in quell’occasione Truman “portava un cappellino, un ampio cappotto di stretta che strascicava sul pavimento e montone e una lunga sciarpa piuttosto poi una specie di mocassini” (Alvin Dewey in G. Plimpton, Ibid., altri tre agenti del KBI andarono a p.162). Anche Harold Nye e gli conoscere Truman che “era arrivato in paese per scrivere un libro. Si presentò in una specie di giacca da camera rosa, di seta con il pizzo, e passeggiava con le mani sui fianchi mentre ci spiegava come avrebbe scritto quel libro. C’era anche Nelle Harper Lee, una persona assolutamente fantastica, molto simpatica. Invece Truman non gli fece un’impressione granché buona” (Harold Ney, G. Plimpton, Ibidem, p.163). Da subito Truman CAPOTE si mette al lavoro cercando di condurre un’inchiesta minuziosa quanto oggettiva sull’affaire Clutter in tutti i suoi possibili sviluppi. Nelle Harper Lee fu di grande aiuto a Truman nei due mesi circa che restò accanto a lui. “Venne a parecchi colloqui; lei batteva a macchina i suoi appunti ed io li tenevo per consultarli. Quando la gente del posto era molto diffidente, lei fu estremamente utile stringendo amicizia con le mogli dei personaggi che volevo intervistare. Stabilì rapporti amichevoli con le signore che andavano in chiesa” (Intervista di G. Plimpton, ibidem, p.190). Dopo circa un mese il gelo dell’accoglienza si attenuò. La maggior parte delle persone si mostrò meno stanca e meno spaventata. L’atteggiamento della popolazione di quella piccola comunità cambiò anche in coincidenza del fatto che i due presunti assassini Dick Hickock e Perry Smith furono arrestati. Fu allora che Capote fece la maggior parte delle prime interviste. In questo periodo Capote per mesi fece ricerche comparative su omicidi e psicologia criminale. “E poi non sapevo nulla sui delitti e criminali quando iniziai il libro” (Intervista di G. Plimpton, ibidem, p.191). In verità aveva cominciato da piccolo ad allenarsi a trascrivere conversazioni senza l’uso del registratore. ” Lo facevo chiedendo a un amico di leggermi dei passi di un libro che più tardi avrei trascritto per vedere quanto riuscivo ad avvicinarmi all’originale. Mi veniva naturalmente facile, ma dopo questi esercizi per un anno e mezzo, un paio di ore al giorno, ero in grado di arrivare al 95 per cento di precisione” (Intervista di G. Plimpton, Ibidem, p.192). All’inizio la collaborazione con Alvin Dewey andò a rilento. Truman iniziò a chiamarlo Foxy, perfido, perché Alvin non collaborava. Truman gli puntualizzò che era venuto fin lì a fare un servizio sui Clutter e che non gli importava davvero se il caso era risolto o no. Per Alvin la soluzione del caso era assolutamente importante e per conoscere meglio lo scrittore Al Dewey iniziò a leggere i libri di Truman e così diventarono buoni amici Dobbiamo riconoscere che Capote non ha mai lesinato i suoi sforzi. Per quattro anni s’impegnò alacremente e con continuità a 7 raccogliere parole, discorsi, testimonianze, a incontrare vicini e amici dei Clutter, ogni persona che conosceva le vittime e che poteva contribuire a ben riassumere il contesto all’epoca dell’efferato massacro. Ascoltò testimoni e inquirenti, lesse e studiò con attenzione i verbali, le relazioni della polizia e la Deposizione, un corposo documento di settantotto pagine, dove erano riportate le ammissioni di responsabilità che i due incriminati, ascoltati separatamente e a voce avevano fatto ad Alvin Dewey e Clarence Duntz con le loro diverse ricostruzioni dei fatti che poi erano state trascritte dallo stenografo del tribunale della Contea Finney. Dopo l’arresto dei presunti assassini, Capote poté far loro visita in carcere interrogando anche le loro famiglie e stabilì con uno dei due, Perry Smith, considerato la mente del fatto criminoso, una lunga e ambigua relazione troppo intima che lo porterà a sentirsi in colpa per quello che si apprestava a fare: raccontare una tragica storia per essere apprezzato e aspettare un’esecuzione per aumentarne il successo. L’incontro con Perry l’aveva particolarmente colpito avendo visto in questo giovane delinquente quello che lui stesso sarebbe potuto diventare senza la letteratura. Ora, tutti quelli che lo conoscevano pensavano che Capote, piccolo di statura, omosessuale con la voce di falsetto e i suoi modi pungenti e senza scrupoli avrebbe desistito dal suo intento ma, invece, noncurante delle sensazioni e delle reazioni che poteva suscitare al suo arrivo in Kansas tra i bianchi reazionari del sud degli Stati Uniti il suo look particolare e stravagante (indossava, infatti, una sciarpa azzurrina da donna), decise di legare la sua popolarità a quell’incredibile storia con la scrittura del suo libro più famoso e affascinante In Cold Blood. Lo scrittore condusse un intenso e prezioso lavoro investigativo. Ci vollero sei anni per finire quel capolavoro. Alvin DEWEY, uno dei detective, dice che “ Truman vedeva se stesso in Perry Smith. La loro infanzia era stata molto simile ed erano più o meno della stessa altezza e corporatura”. Perry Smith era uno dei due assassini, l’altro era Dick Hickock. Capote diventò loro amico e in particolare di Perry di cui diceva che era “ come se fossero stati allevati insieme nella stessa casa e che io ne ero uscito dalla porta davanti, e lui, dalla porta di dietro”, e dopo queste esperienze secondo i suoi colleghi di lavoro Truman non era più lo stesso. In Cold Blood è generalmente considerato il suo capolavoro ma è anche il suo canto del cigno perché dopo la pubblicazione del suo libro, non scrisse più testi altrettanto validi. Truman CAPOTE scivolerà nella depressione, nell’alcol e nella droga. CAPOTE si proponeva di scrivere, seguendo l’esempio di G. Flaubert, un libro obiettivo e impersonale, dove l’autore è ovunque e da nessuna parte, escludeva di apparire come personaggio o persino come narratore. Per lo scrittore Emmanuel CARRERE, Capote ha potuto conseguire quest’obiettivo solo al prezzo di uno sbalorditivo imbroglio. Gli omicidi, le vite degli assassini e delle vittime fino a quando le loro strade s’incrociano, poi la fuga degli assassini fino al loro arresto, tutto ciò poteva essere raccontato senza problemi, senza una sua implicazione personale, ma tra il momento del loro arresto e quello della loro impiccagione, trascorsero cinque anni raccontati nel libro e Capote sempre più trovava difficoltà a tenersi da parte, nascondersi. Nel corso delle sue continue visite egli era diventato l’amico di Dick e soprattutto di Perry la cui vita gli era molto cara perciò, era umanamente difficile per Truman Capote continuare a tenere la cronaca in modo asettico, specialmente negli ultimi due anni quando i due giovani omicidi furono giudicati responsabili dello sterminio della famiglia Cutter e condannati a morte. Per i diversi ricorsi presentati l’esecuzione della sentenza era stata rinviata e Capote assicurava loro che avrebbe fatto tutto il possibile per salvare le loro vite e cercato i migliori avvocati disponibili nella regione. In verità, nonostante il vero affetto e attrazione che provava per Perry, Capote sapeva che la loro condanna a morte era la migliore conclusione possibile per il suo libro, che In Cold Blood era il suo capolavoro e nella speranza di porre fine alla sua attesa era giunto persino ad accendere ceri in chiesa perché infine fossero impiccati (pare che quando fu certa la notizia dell’esecuzione lo scrittore inscenò un balletto). 8 Dick e Perry sono giustiziati e Capote che assiste all’impiccagione del solo Dick, è stata l’ultima persona che hanno abbracciato prima di salire sul patibolo. Il suo libro in cui è descritta questa scena fu pubblicato alcuni mesi più tardi ed ebbe grandissimo successo. Truman CAPOTE aveva ottenuto quello che voleva: scrivere un capolavoro, essere apprezzato come uno dei più grandi scrittori della letteratura mondiale. Ed è ugualmente così che Capote ha svelato la parte nascosta della sua personalità mondana: la manipolazione machiavellica. Capote è un dandy, il classico intellettuale cinico, distaccato, edonista, raffinato e, quel che più conta è un assoluto esibizionista. È il classico personaggio da party della New York classista, da invitare sempre e comunque: dirà sicuramente qualcosa di interessante, irriverente e provocatorio. Quasi fosse un soprammobile chic, un tocco di arredamento pop in mezzo ad un mondo fondamentalmente depresso. E depresso, ovviamente, lo è anche lui in apparenza, forse anche in realtà, un personaggio odioso e rinchiuso nella corazza della maschera da lui stesso cucita per permettergli di stare al mondo. Più realisticamente, una persona incapace di stare al mondo in modo normale, e un voyeur, un baudelairiano flaneur. Lo scrittore americano divide la sua storia in quattro parti. Nella prima parte dal titolo “Gli ultimi a vederli vivi”, Truman CAPOTE racconta gli ultimi giorni della famiglia Clutter soffermandosi in modo particolare su Nancy, la figlia diciassettenne dei Clutter, “la beniamina del villaggio” (A Sangue freddo, op. cit., p.17), “una ragazzina intelligente, che adorava gli animali, a cui piaceva leggere, cucinare, cucire, ballare, andare a cavallo, una ragazza benvoluta da tutti, graziosa e virginale, che riteneva divertente civettare ma era nondimeno innamorata veramente e sinceramente solo di Bobby” (Ibidem, p.102). La comunità diceva di lei: “Di certo il suo tratto più spiccato: la capacità che sorreggeva tutte le altre, le veniva dal padre: un acuto senso dell’organizzazione. Ogni momento era predisposto; sapeva sempre, esattamente, cosa doveva fare a ogni ora, e per quanto sarebbe stata impegnata” (A sangue freddo, op. cit. pp. 29-30). Quel tragico sabato tutta la famiglia era indaffarata e occupata in una moltitudine di attività. L’autore descrive così la dimora dei Clutter “situata in fondo a un lungo viale ombreggiato da due file di olmi cinesi, quella bellissima casa bianca, solida e spaziosa(quattordici stanze distribuite su due piani), circondata da un ampio prato ben curato di erba Bermuda, era molto ammirata a Holcomb: una casa che la gente additava ad esempio” (Ibidem, p. 19). Parallelamente si seguono i movimenti dei due giovani assassini. I due teppistelli malviventi e nullafacenti Perry Smith e Dick (Richard) Hickock sono appena usciti dalla prigione con l’obbligo di non far ritorno nello Stato del Kansas e s’incontrano invece nelle strette vicinanze di Holcomb per meglio definire gli ultimi dettagli dell’imminente colpo e organizzare dopo la rapina la loro fuga verso il Messico. Nella seconda parte l’interesse di Capote è tutto rivolto ai personaggi di Perry Smith e di Dick Hickock le cui vite non furono che una successione d’insuccessi anche se i due erano convinti di avere le capacità giuste per riuscire nonostante non avessero ricevuto dal loro “entourage” familiare e dai loro genitori alcun appoggio e sostegno né materiale né psicologico. Nel descrivere la vita errante di Perry e di Dick il racconto comincia a somigliare a un Polar. Capote nella sua attenta e scrupolosa inchiesta interroga i due presunti assassini come le rispettive famiglie alla ricerca del “perché” del crimine a loro attribuito e arriva a dare qualche ”risposta” nella terza parte del libro. Dick vede l’ingiustizia dilagante in ogni cosa e dappertutto, si ritiene una vittima sociale e del sogno americano, vuole la parte che gli spetta di diritto. La personalità di Perry sembra più complessa. Nel suo caso si tratta di un profondo stato depressivo e di delusione nei confronti di una realtà che sente come ingiusta e penalizzante perché non riconosce il suo talento, le sue capacità e qualità e i suoi presunti meriti. Si ritiene la vera mente dell’azione criminale commessa e non nega la sua responsabilità di due dei quattro omicidi su istigazione però del suo complice. Se Perry agisce e poi si pente per il crimine commesso, Dick vuole agire ma non vuole essere implicato. Contrariamente a Dick, Perry non si sente a suo agio e a 9 volte si trova nella situazione di spettatore di se stesso, quando, per esempio, mette sotto sopra la stanza di Nancy e trova “una borsettina, quasi una borsetta da bambola e dentro c’era un dollaro d’argento che gli sfuggì di mano e rotolò sul pavimento”2. S’inginocchiò per raccoglierlo sotto una sedia e in quel momento Perry dice: ”Mi vedevo in un film balordo. Ciò mi disgustava. Ero semplicemente nauseato. Dick parlava della cassaforte di un ricco ed ero lì a strisciare per terra per rubare un dollaro. Ed io 2 strisciavo per prenderlo” . L’ultima e quarta parte del libro termina con la messa a morte per impiccagione dei due criminali psicopatici in un granaio che chiamavano” l’angolo buio”. La loro vita quotidiana in prigione dove fra l’altro incontrano Lowell Lee Andrew, un brillante giovane di corporatura robusta e imponente che ha ucciso tutta la sua famiglia senza alcun apparente motivo, fa luce sulle motivazioni che hanno spinto agli atti criminali. Quanto a Dick passa gran parte del suo tempo a sfogliare libri di diritto cercando un mezzo di difesa e ragioni per rinviare il processo con una serie di ricorsi che si riveleranno inefficaci. Il racconto alterna spiegazioni sugli ingranaggi della giustizia americana nella delicata scelta dei giurati popolari fino al processo vero e proprio raccontato con una certa suspense, e la vita quotidiana dei prigionieri sostenuti in modo inatteso dalla loro famiglia o da amici persi di vista. L’esecuzione capitale con le sue considerazioni sulla pena estrema, descritta in modo clinico, è un capolavoro d’orrore realistico confermato dalle ultime parole e pentimenti dei condannati. Dick dice che egli va ”verso un mondo migliore” poi, col suo affascinante sorriso, come per sottolineare la cosa, stringe la mano ai quattro agenti del K.B.I. Roy Church, Clarence Duntz, Harold Nye e lo stesso Alvin Dewey. Era come se salutasse gli intervenuti al suo stesso funerale” 3 mentre Perry si confonde in scuse. Contrariamente all’esecuzione di Dick Hickock che considerava sicuramente meritata (la condanna a morte dei due giovani criminali era vista come una sorta di freno alla criminalità violenta che in quell’epoca storica si stava affermando e allargando in gran parte del territorio americano, Alvin Dewey giudicava Dick “un piccolo truffatore(…). Un essere vuoto e senza un minimo valore”)4, quella successiva di Perry Smith turbò molto l’investigatore Dewey che uscì dalla sala adibita all’impiccagione alquanto scosso e umanamente commosso. L’esecuzione dei condannati aveva provocato in lui una diversa reazione perché Perry “aveva qualcosa in sé, un’aura di un animale scacciato, l’andatura di una creatura ferita”5. Alvin Dewey riusciva a guardarlo ”con una certa misura di comprensione, perché la vita di Perry Smith non era stato un letto di rose, ma una misera, laida, solitaria corsa verso un miraggio dopo l’altro” (Ibidem, p.283). Alvin Dewey non poté non ricordare il suo primo incontro con Perry nella stanza degli interrogatori alla Sede Centrale della Polizia di Las Vegas: “Quell’uomo-bambino, quasi un nanerottolo, seduto sulla sedia metallica, i piccoli piedi negli stivaletti che non sfioravano neppure il pavimento. E ora, quando Dewey riaprì gli occhi, furono quegli stessi piedi da bambino che pendevano, oscillanti” (Ibidem). “Ma la comprensione di Dewey non era abbastanza profonda da accogliere perdono o clemenza. Sperava di vedere Perry e il suo complice impiccati—impiccati schiena contro schiena” (Ibidem, p. 283). 2 Ibidem, p.276. Ibidem, p. 386 4 Ibidem, p.388 3 10 “ Uno scrittore dovrebbe avere tutti i suoi colori, tutte le sue capacità a disposizione sulla medesima tavolozza per poterli mescolare (e nei casi opportuni applicarli simultaneamente”). Truman CAPOTE, Music for Chameleons, Penguin Classics, 2000, p. XVIII. (Musica per camaleonti, traduzione di Mariapaola Dettore, Ed. Garzanti, Milano, 2004, p. 15. In Cold Blood, vero romanzo sociologico: un approccio molto originale. Truman CAPOTE con il suo In Cold Blood, testo ben documentato e nel contempo romanzo di costume, Polar e meticoloso reportage letterario, inventa un nuovo genere letterario, il romanzo di non-fiction. Servendosi di un’enorme mole di dettagli, di testimonianze e di osservazioni, lo scrittore ricostruisce ciò che era successo. Vero romanzo sociologico, In Cold Blood ci fa penetrare nel Kansas degli anni sessanta e nella vita quotidiana dell’operosa e tranquilla famiglia Clutter, una famiglia di proprietari terrieri tra le più benestanti della regione amata, semplice e generosa. Herbert Clutter, la mattina di sabato, mentre era intento a fare il consueto giro nella sua proprietà posta “vicino all’argine del fiume dove sorgeva un boschetto di alberi da frutta, peschi, peri, ciliegi e meli” (Ibidem, p.23), una sorta di vero paradiso sulla terra aveva permesso a numerosi cacciatori di fagiani venuti dall’Oklaoma di andare in tutta tranquillità sul suo terreno e di prendere tutta la selvaggina che volevano senza pretendere i diritti di caccia. Il capo-famiglia Clutter non aveva nemici, era assai stimato dai suoi amici e vicini che ne apprezzavano l’equanimità, l’onestà e la sincera attenzione che mostrava verso le persone che non avevano un lavoro, come quando assunse senza battere ciglio, nell’autunno del 1949, Floyd Wells, allora diciannovenne senza un’occupazione, che gli si era proposto come bracciante alla Fattoria River Valley. Per tutto un anno in cui restò alle sue dipendenze, Wells non ebbe mai nulla da ridire. Il nuovo assunto era molto contento di com’era trattato da tutta la famiglia, in particolare modo dal signor Clutter : “mi trattava benissimo. Come trattava tutti quelli che lavoravano per lui; per esempio se si era un po’ a corto prima del giorno della paga, ti dava sempre un cinque o dieci dollari. Pagava dei buoni salari e se te lo meritavi era pronto a darti una gratifica…Il signor Clutter e tutta la sua famiglia mi piacevano molto e ricordo che a Natale mi aveva regalato un portamonete nero con dentro cinquanta dollari” (A Sangue Freddo, op., cit., pp. 186, 189). Herbert Clutter era come si diceva un buon datore di lavoro conosciuto tra l’altro perché pagava bene i braccianti apprendisti agricoli che assumeva per aiutarlo nella tenuta della sua proprietà che era orgoglioso di gestire pur con tutta una serie di difficoltà di natura ambientale e climatica. In quella zona si alternavano frequenti e improvvisi rovesci temporaleschi a inverni freddi e nevosi e a lunghi periodi di siccità che producevano gravi danni in particolare alle colture di grano e causavano la perdita di diverse centinaia di capi di bestiame. Insomma stagioni magre si alternavano a periodi floridi. La grande forza del libro di Capote con il suo enorme successo di pubblico e di vendita ancora oggi indiscusso (In Cold Blood figura tra i cinquanta libri che bisogna assolutamente aver letto) si spiega non solo e non tanto per l’estrema fedeltà alla veridicità dei fatti riferiti ma anche e soprattutto per il modo con cui lo scrittore americano li racconta senza mai prendere una posizione né giudicare, in una narrazione quasi di stile giornalistico (e non sarebbe potuto essere altrimenti data la professione di Capote che malgrado i suoi successi in ambito letterario si considerava innanzitutto un cronista-giornalista). Truman CAPOTE cerca di evitare così due scogli: quello della spiegazione psicologica dei comportamenti da un lato e quello della discussione sulla pena di morte, dall’altro. Restando imparzialmente distante dal racconto, l’autore vuole presentare i fatti lasciando al lettore la possibilità di elaborare le conclusioni, d’estrapolare il “perché” dal “come” al fine di tentare di spiegare quanto di orrendo e drammatico era accaduto nella Fattoria dei Clutter. La sua scrittura limitata ai fatti e quindi descrittiva, il suo stile attento ai particolari, la sua meticolosità e precisione riguardo al contesto e ai fatti riproposti 11 nella loro brutale integrità, senza mescolarvi né morale né metafisica, non lascia libero il lettore di provare simpatia o antipatia verso i protagonisti di questo terribile fatto di cronaca che all’epoca fece tanto scalpore in America e non solo. La malvagità e la sofferenza sono presentate senza compiacimento, ma in modo lucido e distaccato “ Era mezzogiorno nel cuore del deserto di Mojave. Seduto su di una valigia di vimini, Perry suonava un’armonica a bocca. Dick era in piedi sul ciglio di un’autostrada buia, la Strada 66, gli occhi fissi sul vuoto assoluto come se l’intensità e il fervore del suo sguardo potessero costringere gli automobilisti a fermarsi. Pochi lo esaudivano e nessuno si fermava per accogliere i due autostoppisti(…)Aspettavano un viaggiatore solitario con una macchina decente e del denaro nel portamonete: uno sconosciuto da derubare, strangolare e abbandonare nel deserto” (Ibidem, pp.181-182). Tutti i personaggi dei libri di Capote sono improntati a una profonda sensibilità ma anche a una certa fragilità che non lascia indifferenti i lettori. I suoi personaggi, Dick e Perry inclusi, sono individui che sono spesso feriti intimamente e che cercano di vivere la loro vita con il timore di essere relegati ai margini della società. In realtà Truman CAPOTE è interessato fortemente alla psicologia dei due giovani omicidi e parla del loro passato tracciando un ritratto dei due compagni di sventura nello stesso tempo terrificante e tenero . È attratto dal personaggio di Perry e la sua particolare simpatia diventa “passione” man mano che ha la possibilità di fargli visita e di ascoltare le sue risposte a una serie incessante di domande sulla sua vita passata. Capote finisce per “reumanizzare” i due presunti colpevoli che in verità sono dei “mostri”. I due giovani criminali hanno caratteristiche inquietanti ma anche una vivacità di spirito e d’intelligenza che li rende interessanti. Lo scrittore, grazie al suo modo di raccontare la storia, è riuscito a suscitare in molti lettori emozioni contraddittorie che vanno al di là del buon senso. La storia raccontata da Truman CAPOTE non è costruita su di un’inchiesta poliziesca il cui intreccio e mistero della conclusione ci spingono ai confini del thrilling. Il comune lettore non gira le pagine del libro nell’attesa di scoprire l’identità dei colpevoli, di poter infine capire ciò che è accaduto. No. C’è certamente la volontà di ricostruire ciò che è esattamente successo nella dimora dei Clutter quella tragica notte tra 14 e 15 novembre 1959, ma questa non è la cosa più importante, giacché nello sfogliare le pagine del romanzo, molti lettori sperano che questa inchiesta resti insoluta, in parte perché si sa che nulla di tutto ciò che sarà fatto potrà riparare la drammatica fine delle quattro persone massacrate a bruciapelo e senza un chiaro movente, ma soprattutto perché è difficile detestare i due personaggi delinquenti, i “cattivi” della storia. Perry e Dick, i due spavaldi e indifferenti assassini sono da criticare per il loro modo di voltare le spalle alle loro malefatte senza apparente pentimento, ma possiamo veramente odiarli? Essi certo ci turbano per molti aspetti e ci riesce molto difficile accettare i loro comportamenti ambigui e le loro terribili decisioni, anche perché in alcune situazioni sembrano persone quasi normali. Dick ha un viso irregolare che pareva formato da parti in disaccordo, ” i suoi lineamenti non perfettamente allineati erano la conseguenza di un incidente d’auto, avvenuto nel 1950, lasciandogli il lato sinistro del viso sensibilmente più basso del destro” (Ibidem, p.44) e le gambe di Perry sono atrofizzate a causa di un vecchio incidente in motocicletta avvenuto nel 1952 che lo aveva reso claudicante con le gambe tozze e rigide al punto che quando restava seduto in macchina o sulla sedia per più tempo aveva bisogno di ben massaggiarle e strofinare le ginocchia per non sentire più male e per muoversi più agevolmente ed era costretto a fare spesso uso di aspirine. Salvo le loro deformità fisiche, i due malviventi potrebbero essere confusi nella folla della gente comune. Truman CAPOTE ce li fa conoscere per certi versi come persone normali, con sogni, desideri, talento e qualità, con famiglia e amici, che hanno vissuto esperienze dolorose ma anche momenti di felicità (assai pochi, in verità), con ricordi, con azioni di cui vergognarsi e con segreti. Ciò che 12 manca assolutamente loro sono i rimorsi, i pentimenti, e soprattutto non pensano in termini di bene e di male. Queste valutazioni sono inserite nelle precise conclusioni dell’indagine legale sui due autori del delitto, affidata prima al dottor V. Mitchell JONES, medico specializzato nel campo della psichiatria e per due anni direttore del Padiglione Dillon, reparto riservato ai pazzi criminali presso l’Ospedale di Stato di Larned e poi confermata dallo stimato dottor Joseph SATTEN, esperto di psichiatria legale presso la clinica Menninger di Topeka (Kansas) e autore dell’acuto articolo dal titolo “Delitto senza motivo apparente—Studio sulla disgregazione della personalità”, apparso sull’American Journal of Psychiatry (Luglio 1960). Il dottor SATTEN sostiene che per quanto riguarda Dick Hickock “egli ha scarsa stima di sé e segretamente si sente inferiore agli altri e sessualmente inadeguato. Tali sensazioni appaiono compensate da sogni di ricchezza e di potenza, con la tendenza a gloriarsi delle proprie gesta, scatenandosi in eccessi quando dispone di denaro(…)È a disagio nei rapporti con gli altri e ha una capacità patologica di crearsi e mantenere affetti personali. Riassumendo, quest’uomo presenta caratteristiche tipiche di quello che psichiatricamente verrebbe definito un grave disordine della personalità (…)Si tratta, comunque, di un individuo impulsivo, che tende ad agire senza pensare alle conseguenze per sé o per gli altri” (Ibid., p. 337). Per quanto riguarda Perry Smith, il dottor SATTEN concorda col suo collega dott. Jones nel riconoscere che “l’infanzia di Perry fu caratterizzata dalla brutalità e dalla mancanza di cure da parte di entrambi i genitori e che è cresciuto senza un orientamento, senza affetto e senza mai assimilare un preciso senso dei valori morali(…). Nella strutturazione della sua personalità spiccano -a suo parere - due caratteristiche particolarmente patologiche. La prima è il suo atteggiamento paranoico verso il mondo esterno. È sospettoso, diffida degli altri, tende a pensare che gli altri facciano delle discriminazioni a suo svantaggio(…); la seconda è un’ira scarsamente controllata, accesa dalla minima impressione di essere ingannato, disprezzato o ritenuto inferiore. Per lo più le sue collere, nel passato, si sono dirette contro i simboli dell’autorità: il padre, il fratello, il sergente dell’esercito, il funzionario addetto ai rilasci sulla parola, e in varie occasioni l’hanno spinto ad assumere un atteggiamento violento e aggressivo(…) Rivolta contro se stesso quest’ira precipita nell’idea del suicidio. Ha scarsa capacità di organizzare il ragionamento, non appare in grado di riassumere i suoi pensieri(…)inoltre alcuni dei suoi ragionamenti riflettono un atteggiamento magico che trascura la realtà(…) Il suo distacco emotivo e la sua indifferenza in certi campi sono un’altra prova della sua anormalità mentale” (Ibid., p.340). Circa la domanda sulla capacità di intendere e di volere dei due al momento del reato, i tre medici specialisti sono concordi nell’affermare senza il minimo dubbio che sia Dick Eugene Hickock sia Perry Edward Smith erano consapevoli delle loro azioni al momento dell’esecuzione del delitto loro ascritto. Quest’ultima e netta conclusione fu quella decisiva e pesò molto sullo svolgimento del processo e sul verdetto di colpevolezza e condanna a morte dei due giovani criminali perché, di fatto, toglieva ai due avvocati difensori, il signor Arthur Fleming e il signor Harrison Smith, la possibilità di poter fare riferimento al regolamento M’Naghten, “quell’antica importazione britannica secondo la quale se l’accusato conosce la natura della sua azione, e sa che è deplorevole, allora egli è mentalmente capace e responsabile delle proprie azioni”(Ibid., p.307) Dei due criminali, Perry è certamente quello che maggiormente stupisce e dunque il più pericoloso. Nella prima parte del capolavoro di Truman CAPOTE leggiamo che”Dick si convinse che Perry era uno di quegli esseri rari, un assassino nato, perfettamente sano, ma privo di coscienza, capace, con o senza un motivo, di ammazzare con il massimo sangue freddo”( Ibid., p.71) ma ci presenta ugualmente i suoi sogni, la parte sensibile e artistica del suo essere: “il giovanotto era un instancabile ideatore di viaggi, ne aveva fatto un numero considerevole: in Alaska, alle Hawaii, in Giappone, a Hong-Kong. Adesso, grazie ad una lettera, a un invito a prendere parte a un colpo, Egli(Perry) si trovava lì con tutto ciò che aveva con sé: una valigia di cartone, una chitarra e due scatoloni di libri e di cartine geografiche, fogli di canzoni, poemi e vecchie lettere che pesavano un quarto di tonnellata” (Ibid., p.25). Ci si sente particolarmente colpiti da questo personaggio doppio e spaventoso per molti aspetti ma che porta con sé nei suoi faticosi spostamenti tonnellate di ricordi. “ Maniaco di dizionari, amante dei 13 vocaboli difficili, si era dedicato a migliorare la grammatica e ad ampliare il lessico del suo compagno fin da quando erano stati chiusi nella stessa cella al Penitenziario di Stato del Kansas” (Ibidem, p.34); amava la musica e il canto e sognava di trovarsi in un locale notturno di Las Vegas, tra l’altro sua città natale, davanti a un vasto pubblico. Perry sapeva suonare parecchi strumenti ma non poteva mai staccarsi dalla sua vecchia chitarra Gibson, “il suo bene più prezioso” (Ibidem, p.127), “la si lucida, ci si adatta la propria voce, la si tratta come fosse una ragazza che ci interessi sul serio…bé, diventa una cosa sacra”(Ibidem, p.148). Per quanto riguarda Dick egli non aveva sensibilità per la musica, per la poesia, ma “la sua prosaicità, il suo dogmatismo su ogni argomento erano i motivi principali che attiravano Perry perché gli facevano apparire Dick così diverso da lui, così intensamente solido, invulnerabile, assolutamente mascolino” (Ibidem, p.28). Dick è prevedibile giacché è essenzialmente motivato dal denaro mentre Perry è un sognatore che coltivava fin dall’infanzia il sogno di viaggiare, “ di scendere in profondità attraverso acque sconosciute, di tuffarsi verso una verde oscurità marina, sgusciando oltre le squamose sentinelle dagli occhi voraci di uno scafo che si profilava più avanti, un galeone spagnolo, un carico affondato di brillanti e perle, di traboccanti casse d’oro” (Ibidem.). E anche se Perry è certamente il più pericoloso dei due, il più astuto e inaffidabile è proprio Dick che si è legato d’amicizia con Perry unicamente per calcolo: “Dick era giunto alla conclusione che valesse la pena legarsi d’amicizia con Perry, aveva cominciato a stare dietro al suo amico, ad adularlo, a fingere di credere a tutte quelle storie di tesori sepolti e di condividere la sua brama di spiagge e di porti cose che non attiravano per nulla Dick che desiderava una vita tranquilla, con un’azienda sua, una casa, un cavallo su cui galoppare, un’auto nuova e un mucchio di pollastrelle bionde” e soprattutto dal giorno in cui Perry gli parlò di un omicidio” raccontando come semplicemente per il piacere di farlo, aveva ucciso un negro a Las Vegas con una catena di bicicletta”( Ibid., p.71). Dick pensa al denaro e alle donne. La crudezza e la bellicosità con cui Dick annunciava il suo parere su ogni cosa attraevano, comunque Perry e lo affascinavano “quasi aveva fatto rinascere la sua fede in Dick, il duro, assolutamente mascolino, dogmatico, deciso, a cui un tempo Perry aveva concesso di essere il capo” (Ibidem, p. 147). L’uno e l’altro erano stati precedentemente in prigione per un’infelice e fortuita concatenazione di avvenimenti vittime nel contempo della loro eccentrica personalità e delle loro istintive e folli scelte. Perry amava millantare di aver ucciso un uomo perché così pensava di essere rispettato dagli altri reclusi, di salvare la pelle. Questa sua falsa attribuzione di un delitto aveva spinto Dick a sceglierlo come complice per il colpo alla Fattoria dei Clutter che riteneva essere senza problemi di sorta perché aveva ben costruito il piano. In Cold Blood non è un romanzo giallo, è un racconto di fatti reali, di personaggi che sono realmente esistiti e che sono morti come Capote ce li ha raccontati. È una storia che suscita molti interrogativi ancora oggi a più di mezzo secolo di distanza, una storia che coinvolge e sconvolge. È un romanzo sull’animo umano in tutta la sua complessità, con gli orrori di cui esso è capace. É una saggia mescolanza d’impressioni dello scrittore statunitense, di ritrasmissione fedele dei pensieri dei due assassini con stile romanzato. Truman CAPOTE analizza il fatto di cronaca nera, l’affaire Clutter, inserendolo all’interno di una realtà fatta di paesaggi aridi, di estese pianure pianeggiate a grano, con un cielo azzurro intenso e un clima fresco e puro tipicamente autunnale delle montagne che incombono sul villaggio di Holcomb e di un’America profonda radicata nei suoi convincimenti e sicura dei suoi valori fondamentali. Partendo da uno dei tanti fatti atroci e strazianti che trovano quotidianamente posto nelle pagine dei giornali americani di provincia e nelle testate nazionali più importanti, Truman CAPOTE ha saputo creare un vero capolavoro portando il lettore a chiedersi cosa significa essere uomo e tracciando un ritratto di sé ossessionato dalla ricerca di risposte che non avrà mai e che lo spingono anche a manipolare alcuni elementi del fatto, (Capote non avrebbe mai potuto sapere esattamente ciò che pensavano Dick e Perry segnatamente durante la loro fuga verso l’America del sud). Lo scrittore dallo stile brillante ha l’animo oscuro come quello dei due protagonisti del libro. Ma sono 14 nel contempo queste cose che fanno de In Cold Blood l’opera più importante di Truman CAPOTE, quella che eclissa il leggero suo Breakfast at Tiffany’s (Colazione da Tiffany, nella versione tradotta italiana) o ancora l’incompiuto Answered Prayers: The Unfinished Novel (Preghiere esaudite, nella versione italiana). Malgrado le poche scene frutto dell’immaginazione dell’autore la storia resta affascinante e sconvolgente. A questo proposito ci preme riportare lo stupore che seguì la lettura di Harold Nye delle bozze di alcune pagine del libro In Cold Blood riguardanti il viaggio che il detective del KBI fece a Las Vegas per cercare prove sugli assassini. “Quello che Truman aveva scritto era inesatto. Era tutto romanzato ed io, essendo un giovane agente, mi offesi per il fatto che non aveva detto la verità. Così rifiutai di approvare il testo del libro che mi aveva mandato. Truman ed io discutemmo animatamente..Quello che aveva fatto era prendere la signora che gestiva la piccola casa di appartamenti di Las Vegas e svilupparla come un personaggio diverso. Il suo scopo non era la precisione. Stava cambiando i fatti. Non stava più scrivendo della nostra indagine. Scriveva di questi due tipi che viaggiavano per il paese, che uscivano di prigione e ammazzavano quattro persone sulla base di una falsa pista. Di ciò che avevo fatto a Las Vegas, le persone con cui avevo parlato là, niente di tutto questo era riferito in modo veritiero…Io avevo creduto che sarebbe stato un libro sui fatti, e non lo era. Era un libro di finzione” (Harold Nye in G. Plimpton, ibidem, p.168). Anche Duane West, pubblico ministero al processo Clutter, é risentita per il fatto che nel suo libro Truman descrive il suo ruolo in modo ingannevole. “Il libro lascia intendere che non avessi poi tanto a che fare con il caso. In realtà ho condotto tutta l’indagine, ho lavorato con gli investigatori e preparato il materiale per il processo. Io pronunciai la dichiarazione d’apertura alla giuria. Truman prese una parte di ciò che dissi e la attribuì al signor Green” (Duane West in G. Plimpton, ibidem, p.210). Circa il fatto che Truman faccia apparire il signor Dewey come un eroe, Duane West ci tiene ad affermare che Dewey non fu assolutamente un eroe della situazione. “Al era una brava persona, un bravo sceriffo, un bravo rappresentante delle forze dell’ordine, ma è fastidioso quando uno che ha fatto il lavoro vero viene quasi ignorato. Quando da quel carcere arrivarono le informazioni su Hickock e Smith, Dewey tendeva a scartare l’idea. Avrebbe dovuto andare lui a controllare, invece rimase qui e mandammo Nye e Roy Ben Church a verificare la cosa. Fu Rich Rohleder, il vice capo della polizia di qui, a fare le prime indagini al momento del delitto” (Duane West in G. Plimpton, ibidem, p.212). Un’altra inesattezza anche se di poco conto ma comunque importante riguarda il comportamento assunto da Alvin Dewey durante l’esecuzione capitale di Dick e Perry nel capannone del penitenziario. Lo stesso Alvin Dewey ci tiene a precisare che “sul libro Truman scrisse che io, durante l’esecuzione, avevo chiuso gli occhi, ma non era vero. Avevo visto tutto. Dopo aver visto come era ridotta la figlia dei Clutter, sarei stato capace di tirare la leva io stesso” (Al Dewey, G. Plimpton, ibidem, p.179). Certo il lavoro letterario in sé è sbalorditivo ma l’argomento raggela e mette a disagio chiunque, Truman in primis, è turbato e nel contempo attratto da questo vile e ripugnante fatto di cronaca criminale. Questa incredibile storia ha profondamente e durevolmente scosso lo scrittore che cercava di trovare risposte sulla vita, sulla morte, sul destino dei protagonisti. Capote non ci dà le risposte che il lettore attendeva, resta al di fuori della storia per porsi da osservatore di fronte all’avvenimento sì da dare al lettore l’immagine di un paese, l’America, alle prese con il recupero dei valori umani fondamentali in crisi. Nei due film sullo scrittore realizzati quasi in contemporanea, “Truman Capote” (2005) e “Infamous” (2006) non ci sorprende vedere che lo scrittore americano non sia presente nelle scene. Questo perché i due registi hanno voluto asserire l’assoluta e sincera volontà dell’autore de In Cold Blood di non lasciarsi compromettere non solo nel tracciare un profilo fisico e morale dei protagonisti dell’affaire per quanto possibile veritiero ma anche nell’esprimere valutazioni personali sulla delicata questione della pena di morte in America o sulle scelte religiose degli abitanti di Holcomb. 15 L’autore non giudica, infatti, gli assassini del massacro della famiglia Clutter che sono presentati in qualche modo come vittime del loro destino, si concentra essenzialmente sui protagonisti, li descrive con estrema minuzia di particolari lasciando al lettore il compito di fare collegamenti tra di essi e lo svolgimento dei fatti. Modificando i codici d’investigazione propri della polizia, frastornato da nuovi sviluppi e da personaggi poco conosciuti, Capote, con la sua disarmante semplicità, decide di portare avanti un’analisi più di natura psicanalitica che strettamente legata ai fatti. Tutti i pensieri dei due omicidi sono decrittati, le loro storie personali passate al vaglio per meglio comprendere il perché dell’azione criminale. Alla fine lo scrittore non traccia alcun ritratto tipo degli assassini: ciascuno di loro due ha agito dietro un improvviso impulso e con questa considerazione Capote vuole dirci che l’uomo in sé è un puro predatore e che non c’è alcuna vera spiegazione per gli atti di un criminale assassino; le risposte sono da ricercare nell’essenza stessa dell’uomo. C’è da rilevare altresì che questo visione pessimistica e per certi aspetti fatalistica si manifesta pure attraverso la linearità dell’azione, la banalità di certe scene e immagini e la disumanità ostentata dei criminali. Un po’ come in No Country For Old Men, gli uomini ”giusti” sono più testimoni passivi dell’intreccio e dello svolgimento dell’inchiesta che reali motori nella progressione delle investigazioni dando una spiacevole sensazione d’inutilità del bene mentre il male prospera e in nessun momento è messo in difficoltà. Questo inesorabile progresso di un mondo assurdo termina con l’esecuzione della pena capitale per l’omicida. Molto probabilmente il grande scrittore americano, Truman CAPOTE si è interessato al caso di Perry e di Dick per esprimere una severa critica alla società capitalistica e cinica del secondo dopoguerra caratterizzata dal lusso sontuoso e da una disuguaglianza sociale considerevole che emarginava una larga parte di giovani esclusi dal benessere e desiderosi di cambiamento, di rinnovamento. Forse i due loschi assassini Perry e Dick erano da catalogare tra quelli che si consideravano vittime di uno sfavorevole destino e di una società profondamente ingiusta che non dava ai suoi figli uguali possibilità di affermarsi. C’è da aggiungere che la sensazione di abbandono e di esclusione riguarda anche le relazioni che i due hanno con la famiglia e gli amici. A differenza dei genitori di Dick che fanno visita al loro figlio in carcere nel Penitenziario di Stato della Contea Finney in attesa che il processo contro i responsabili dell’omicidio plurimo dei Clutter fosse istruito, né il padre di Perry né la sorella unici parenti in vita andavano a trovarlo in carcere. Il padre Tex John SMITH presumibilmente era alla ricerca dell’oro da qualche parte dell’Alaska e la sorella non ne voleva sapere perché aveva paura del fratello e agli investigatori che si erano fatti vivi per informarla della strage della famiglia Clutter a Holcomb per la quale Perry era fortemente indiziato, aveva chiesto espressamente di non voler comunicare al fratello il suo attuale indirizzo. Perry Smith era praticamente solo, “come un individuo coperto di piaghe. Uno con cui solo un pazzo vorrebbe avere qualcosa a che fare” (Ibid., p. 299), e sentiva la mancanza di Dick poiché dal momento dell’arresto non aveva potuto comunicare con lui. Il suo desiderio era di parlare con Dick, essere con lui. “Dick non era più la dura roccia che un tempo gli era parso, dogmatico, virile, un vero uomo d’acciaio; si era rivelato parecchio debole e vuoto, un vigliacco. Pure, di tutte le persone al mondo, era quello a cui si sentiva più vicino in quel momento perché almeno erano della stessa specie, fratelli della razza di Caino” (Ibidem). D’altronde, la vita per i familiari di Perry non era stata un “letto di rose” (Ibid., p.214) : “Sua madre, un’alcolizzata morta soffocata dal suo stesso vomito. Fern-Joy, sua sorella, si era buttata dalla finestra di un albergo a San Francisco, dal quindicesimo piano, Una carissima ragazza, piena di talento, una magnifica ballerina che sapeva anche cantare. Jemmy, il primo dei fratelli che un giorno, dominato dal convincimento del continuo tradimento aveva spinto sua moglie al suicidio e il giorno dopo si era ammazzato” (Ibid., p.132). “ Solo la minore delle sorelle, Barbara-Bobo aveva avuto un’esistenza normale, si era sposata, aveva cominciato a farsi una famiglia” (Ibidem). 16 Un giorno di metà febbraio, però, Perry riceve una lettera inaspettata da parte di Don Cullivan, un giovane militare conosciuto sotto le armi quando entrambi erano stati assegnati alla 761° Compagnia Genieri a Fort Lewis, Washington. Nella lettera erano ricordati atti di cui Perry era stato protagonista e venivano esaltate le sue capacità creative, era altresì riconosciuto il fatto che Perry svolgeva bene i suoi compiti e che teneva ad andare d’accordo con tutti. Don Cullivan asseriva di essere rimasto di sasso quando aveva letto che il suo amico si trovava in guai grossi e che era stato arrestato perché riconosciuto autore dell’omicidio dell’intera famiglia dei Clutter e incredulo, offriva la sua disponibilità a testimoniare a suo favore. Il colpo fallito tragicamente, non fa che aumentare le riflessioni amare di Perry Smith, le sue incertezze e paure tanto che dopo pochi giorni dall’eccidio chiede al suo amico e complice Dick in modo insistente se c’era “qualcosa di sbagliato in loro due. Per fare quel che avevano fatto(…) dentro di me—prosegue Perry—giù giù in fondo non avrei mai creduto di poterla fare. Una cosa simile”( Ibid., p.129). Poi aggiunge:” Sai cos’è che mi sta veramente nello stomaco. Per quell’altra faccenda? È che non riesco a crederci(…) che uno possa cavarsela dopo un fatto del genere. Non vedo come sia possibile. Fare quel che abbiamo fatto. E avere la sicurezza al cento per cento di passarla liscia” (Ibid., p.131). Si finisce per provare una certa compassione per questi due terribili personaggi, soprattutto per Perry che attraversava “momenti di debolezza, attimi in cui ricordava certe cose” (Ibid., p. 132). Voci e ansie che Dick subito soffocava sbottando: “Ora basta, chiudi il becco” (Ibid., p.131). Vedere due uomini che uccidono senza un’apparente ragione, senza capire il loro delittuoso gesto, mette i brividi lungo la schiena, ma suscita anche un sentimento di pietà. Hanno fallito nella realizzazione di se stessi e nel rapporto con la loro famiglia rimasta indifferente alla loro richiesta di aiuto e di sostegno. Il loro destino é irrimediabilmente segnato. Già dall’inizio la loro più grande sfortuna era stata quella d’incontrarsi, chiusi nella stessa cella del Penitenziario di Stato a Lansing, erano diventati amici e insieme avevano organizzato, una volta usciti di prigione la rapina presso la dimora della famiglia Clutter che avrà quell’epilogo tragico e atroce del massacro di tutti i membri presenti nella Fattoria River Walley. Per Dick, il colpo perfetto, che aveva preparato nei minimi particolari (aveva una piantina della casa dei Clutter), era “una robetta sicura come l’oro” (Ibid., p.268) e insisteva che non ci dovevano essere testimoni. Dick diceva, infatti : ”Entreremo là dentro e li spappoleremo tutti contro i muri” (Ibid., p. 51). “Niente testimoni-- rammentò sorridente e con vanità a Perry per il quale” poteva accadere l’imprevedibile, le cose possono mettersi in un modo diverso” (Ibid., p.51) “niente può andare storto. No. Perché il piano era di Dick, dal primo passo al silenzio finale, congegnato senza una grinza”(Ibidem). È pura follia pensare che per quaranta o cinquanta dollari un’intera famiglia laboriosa, onesta, generosa, moralmente e socialmente sensibile ai problemi della propria tranquilla comunità come era unanimemente considerata la famiglia dei Clutter, sia stata barbaramente decimata mentre si apprestava a celebrare il Santo Natale. La follia umana non conosce limiti e non può avere attenuanti. Essa è da studiare attentamente e in ogni momento bisogna condannare ogni azione delittuosa dell’uomo e la sua malvagità senza “ma” e senza “se”. Truman CAPOTE, però, nel suo romanzo parte da un fatto realmente accaduto racconta l’orrore senza mai esprimere giudizi o condanne. Si era trasferito a Holcomb, luogo della strage, e per diversi anni si era impegnato a seguire l’inchiesta da vicino, a porre domande e a raccontare l’affaire Clutter da freddo e scrupoloso “inviato speciale” del giornale per il quale lavorava. È forse nel modo come racconta l’avvenimento delittuoso che risiede la forza e l’interesse del suo libro. Mai si vede Truman CAPOTE, mai si sente, mai esprime direttamente i suoi convincimenti, s’intuiscono, non fa che dare un taglio da romanzo al massacro della famiglia Clutter, agli interrogatori, ai processi, alla forca. Il lettore si ritrova così completamente coinvolto da spettatore impotente nella storia, nel cuore di tutto, nel punto di vista dei due giovani assassini, il tutto condotto con rigore, freddezza e suspense. 17 Lo scrittore é nello stesso tempo distante dal dramma e a volte familiare, con uno sguardo sull’altro sorprendentemente vicino e lontano. Insomma, il lettore legge nella ricostruzione del fatto criminale una certa ambiguità. Truman CAPOTE è a metà strada tra l’attività del romanziere e quella del giornalista. Del romanziere per la qualità della scrittura, la linearità del racconto, del giornalista per il lavoro d’indagine e di ricostruzione cronologicamente esatto. Dopo il loro arresto, il processo e la lunga carcerazione nel “viale della Morte”, i due criminali sono rigorosamente osservati e anche le loro più piccole malefatte sono prese interamente in considerazione. Sappiamo così che la loro fine è imminente e percepiamo anche che l’autore del libro non lo speri, li fa esistere minuto dopo minuto, riga dopo riga, dando loro più visibilità che alle vittime. Egli ha difficoltà nel giudicare un uomo non importa di quale crimine si sia macchiato, ancor più quando questo giudizio porta alla morte e fa riflettere sulla responsabilità, la libertà dell’uomo. Il suo atteggiamento di fronte al fatto in sé è di neutralità assoluta giacché ha scelto la funzione di testimone, sforzandosi di essere un “observateur invisible” anche se leggiamo tra le righe che anche il più orrendo dei delitti merita di essere considerato con uno sguardo più umano. La scelta adottata dallo scrittore d’inquadrare l’argomento da un’ottica lontana e distaccata gli permette di seguire meglio la struttura del romanzo autorizza una grande flessibilità spazio-temporale e non incoraggia la manifestazione di un giudizio. L’eccentrico scrittore cede il posto al reporter quando seduto sui banchi del tribunale ascolta misurato, rattristato e pensoso il pronunciamento della sentenza di condanna. Il reporter Capote assiste all’impiccagione di Dick con la stessa tensione emotiva manifestata dai poliziotti, ma non sopporta quella di Perry Smith ed è costretto a lasciare il “capannone”. Ora se da un lato la presenza di Capote al provvedimento di condanna di Dick sottolinea la solennità dell’istante presentando la sentenza come necessaria e sostanzialmente giusta sul piano strettamente procedurale e normativo, dall’altro, quando si tratta della cerimonia dell’impiccagione di Perry, il suo viso distrutto è il segno più evidente di un legame che va al di là di un sentimento di affetto che si ha verso una persona cara e amica. A questo riguardo c’è da osservare che mentre nel romanzo In Cold Blood le tracce della presenza dell’autore sono minime, nei due film biografici esse hanno più ampiezza permettendo alla soggettività di avere più rilievo, soprattutto per quanto attiene alle scene in carcere. In questo modo i due “biopics” tentano di riempire i vuoti narrativi e di sviluppare alcune sequenze arricchendo così la storia del quadruplo assassinio dei membri della famiglia Clutter e della scrittura del capolavoro di Capote. Sguardi incrociati: In Cold Capote che ispira tre film: Miller (2005); 2. Infamous di Cold Blood di Richard Brooks Blood, il libro cult di Truman 1)Truman Capote, di Bennett Douglas McGrath (2006); 3. In (1967). Con il libro di Truman CAPOTE nasce il romanzo non-fictionnel. Il lettore contemporaneo non è quello del 1965 e il testo di Capote non è più il solo a illustrare i tragici avvenimenti di Holcomb. Nel 1967, In Cold Blood è adattato per il cinema dal regista e sceneggiatore Richard Brooks. Il film molto fedele al testo fu in 18 parte girato nei luoghi del dramma. Nel 1988, quattro anni dopo la morte di Capote, Gerald Clarke pubblica la biografia ufficiale dell’autore dal titolo Capote. Nel 1996, In Cold Blood è adattato per la televisione e due anni più tardi, lo scrittore e attore George Plimpton pubblica un’altra biografia più incisiva di quella di Clarke. Le due biografie servono da base a due film biografici: Capote, diretto da Bennett MILLER nel 2005 e Infamous di Douglas McGRATH nel 2006. Questi differenti testi, narrativi e cinematografici, offrono parecchi spunti di riflessione su quel periodo storico. Comunque è una strana coincidenza che nello stesso periodo siano stati girati e consegnati a un pubblico vasto quanto curioso e interessato due film quasi del tutto identici su Truman Capote e sul suo indiscusso capolavoro letterario In Cold Blood. Entrambi i film cominciano la produzione nello stesso periodo e sono pronti nel 2005 ma il primo a uscire nelle sale cinematografiche sarà Truman Capote che vede come protagonista il brillante e compianto Philip Seymour Hoffman, trionfatore agli Oscar del 2005. Il film, fratello gemello del precedente, dal titolo Infamous del regista e sceneggiatore Douglas McGRATH è certamente più originale e lezioso. Se Truman Capote di Bennett MILLER tende a esaltare il dramma interiore dello scrittore, il processo creativo e il confronto tra pietà e dovere giornalistico, Infamous, adattamento cinematografico del libro di George Plimpton intitolato “Truman Capote: In Which Various Friends, Enemies, Acquaintances and Detractors Recall His Turbulent Career”(1997), si concentra sulla perdita di prestigio e sul crollo psicologico dello scrittore che seguirono alla pubblicazione di In Cold Blood, il romanzo chiave della carriera di Truman Capote. Douglas McGRATH mette in scena le interviste ai personaggi che hanno popolato la vita dello scrittore e, attraverso le loro testimonianze, propone un Truman più intimo, pettegolo, a tratti invidioso, con i suoi modi raffinati da dandy e la sua eccentricità che tanto contrastava con l’America del profondo Sud. La prima parte descrive Truman Capote prima di conoscere la tragedia dei Clutter. È uno scrittore apprezzato, allegro, che denota acume e perspicacia e che, al culmine della carriera, aspira a vincere il premio Pulitzer. La seconda parte, certamente tragica, si concentra sul rapporto con i due assassini e sulla descrizione della tragedia. Perry Smith, certamente la mente del massacro, diventa un’ossessione per lo scrittore. Cercando di ricostruire l’avvenimento, Truman s’identifica con lui, se ne innamora perdutamente. Entrambi non hanno conosciuto il padre, hanno visto la madre uccidersi e sono omosessuali. Se Truman è accettato grazie al suo talento, Perry si nasconde dietro la violenza. Infamous descrive quel momento di passaggio che cambierà Truman Capote per sempre e lo porterà alla depressione: il momento in cui riscopre i suoi fantasmi e si rende conto di appartenere a un mondo sfavillante e civettuolo che tanto lo attira ma che non sa nulla di lui. Più che la biografia di un uomo In Cold Blood/Infamous è la testimonianza di come tutti noi abbiamo dentro una parte oscura, espressione di ciò che abbiamo sofferto e di ciò che non vogliamo ammettere. Il regista Douglas McGRATH invidia Bennett Miller per la scelta dell’attore Hoffman ma il suo protagonista non è da meno, Toby Jones offre un’eccellente interpretazione come del resto tutti i colleghi del cast e cioè Isabella Rossellini, Sigourney Weaver, Sandra Bullock, Jeff Daniels e Daniel Craig . L’anno successivo alla pubblicazione del libro In Cold Blood, Richard BROOKS aveva firmato in qualità di regista e di sceneggiatore l’adattamento cinematografico del romanzo eponimo di T. Capote, una delle opere letterarie americane tra le più importanti del XX secolo, con le eccellenti interpretazioni di Robert BLAKE e di Scott WILSON. Un film impegnato che denunciava intelligentemente ciò che esisteva da sempre negli Stati Uniti, la pena capitale. Il successo del libro era stato folgorante e i produttori hollywoodiani avevano acquistato 19 immediatamente i diritti sul testo poiché pensavano di realizzare un prodotto commerciale lucroso, a colori, con attori noti e apprezzati come Paul Newman e Steve Mc Queen. Truman CAPOTE impose, però, le sue volontà e scelse di affidare a Richard Brooks, regista ampiamente stimato per i suoi film seri e impegnati, la regia del lungometraggio. I due uomini si capivano perfettamente e concordavano che il film fosse girato in bianco e nero con attori sconosciuti al fine di sottolineare l’aspetto veritiero dell’intreccio a scapito dei teatri di posa. Nonostante le pressioni, il film fu realizzato facendo ricorso a un budget contenuto. Richard Brooks ritrovò con il suo film una seconda giovinezza e sperimentò nuove tecniche narrative. Affidò la responsabilità della fotografia a Conrad HALL che riuscì a fare miracoli giocando sul chiaroscuro, rafforzando così l’aspetto raggelante e tenebroso del racconto. L’originale musica del grande Quincy JONES evocava l’angoscia e il turbamento dei personaggi principali la cui interpretazione risultava magnifica e profondamente inquietante. Fedele al libro di Capote, R. Brooks lancia una riflessione convincente sulla barbarie umana e sulla relatività dell’atto criminale e oppone il crimine assurdo di una violenza privata inaudita e che fa venire i brividi lungo la schiena al crimine di Stato, implacabile nella sua logica amministrativa. È chiaramente impossibile restituire tutta la ricchezza del libro in un film di due ore, ma c’è da dire che R. Brooks è riuscito a esprimere l’essenziale, ponendo l’accento sulla dimensione assurda e vana della pena di morte, condividendo con Truman l’approccio profondamente umano che lo scrittore aveva manifestato nei confronti di quei due giovani scioperati che si erano macchiati di un’azione delittuosa e insensata senza capire il perché e, in modo particolare, di Perry Smith che, benché autore di quattro assassini, è dei due il più sensibile e il più sconcertante. Blake rende perfettamente conto della personalità ambigua e complessa di questo personaggio che incarna a meraviglia un ” assassin de circonstances”, un uomo sognatore dal passato tortuoso che commette l’irreparabile senza capire perché. Due sono i sogni ricorrenti che accompagnano la vita di Perry fin da ragazzino: sogna di trovarsi in Africa mentre cammina in una giungla, a un tratto si ferma davanti ad un albero bellissimo, ”dalle foglie azzurre ed è tutto coperto di brillanti grossi come arance”(A Sangue Freddo, ibidem, p.112). È là per raccoglierli ma sa che appena cercherà di prenderne, appena allungherà la mano, un serpente gli piomberà addosso e lo stritolerà per poi inghiottirlo cominciando dai piedi. Perry sogna anche mentre é chiuso in carcere, “un enorme uccello giallo, dalla testa di pappagallo, angelo vendicatore, che aggrediva i suoi nemici. Era venuto a soccorrerlo in momenti di pericolo mortale: Mi sollevò in alto e andammo su, su, vedevo la piazza sotto di me, gli uomini che correvano, gridavano, lo sceriffo che ci sparava, tutti furibondi, perché ero libero, stavo volando, stavo meglio di tutti loro” (A Sangue Freddo, ibidem, p.306). Nel raccontare questi e altri sogni-visioni al suo amico e complice Dick, Perry non poteva non rendersi conto del disinteresse del suo compare che lo giudicava un”bravo ragazzo” anche se un po’ “maniaco di sé”, un “sentimentale” e troppo “sognatore”. Non poteva però tollerare che qualcuno lo irridesse rendendo ridicolo “quel pappagallo che aveva cominciato a volare nei suoi sogni quando lui aveva sette anni, un ragazzino mezzo sangue, detestato e pieno di rancore, ospite di un orfanotrofio in California diretto da suore: istitutrici velate che lo frustavano quando bagnava il letto e lo picchiavano con una pila elettrica”.(A sangue freddo, ibidem., p.112). “Quel pappagallo, un uccello più alto di Gesù, giallo come un girasole, una sorta di angelo guerriero che con il becco aveva accecato prima quelle suore e poi, avvolgendolo nelle sue ali, lo aveva portato via verso il paradiso” (A Sangue Freddo, Ibidem, p.113 ). Richard BROOKS ha paura di questo mondo senz’anima ed è convinto che l’incoscienza e l’egoismo dell’America capitalistica abbiano creato questa nuova razza di mostri, capaci, come Perry Smith, di dichiarare a proposito di Herbert W. Clutter, sua vittima, con una disarmante 20 sincerità: “Trovo il tipo molto simpatico, cortese, fino a quando gli tagliai la gola” (A Sangue Freddo, ibidem, p.280). Dietro la macchina da presa di questo vecchio umanista di sinistra, la storia di Perry Smith e di Douglas Hickock che massacrano un’innocente famiglia del Kansas per quaranta dollari, un transistor e un binocolo diventa un noir angosciante che penetra lentamente ma inesorabilmente nel tessuto più intimo di una Nazione che si vuole pura e radiosa. Sembra di vivere in piena crisi degli anni ’30; in modo particolare quando Perry e Dick accolgono nella loro macchina, una Chevrolet modello 56 rubata, due autostoppisti diretti a Sweetwater nel Texas, un ragazzo di nome Bill che sopravvive insieme a suo nonno molto malato di nome Johnny raccogliendo lungo le strade lattine e bottiglie di Coca-Cola vuote e abbandonate per poi rivenderle a tre centesimi l’una. “L’autore, nel suo libro, deve essere come Dio nell’universo, presente ovunque, e visibile in nessuna parte”. Gustave FLAUBERT, Correspondance, Lettera del 2 dicembre 1852, Tome 2, Ed. Gall., Parigi, 1980. In Cold Blood, il romanzo capolavoro di Truman CAPOTE che oscilla tra reportage e opera di fiction. Truman CAPOTE non è il solo scrittore che si è ispirato a un fatto di cronaca. Un buon numero di letterati ha rielaborato un avvenimento di cronaca realmente successo in forma di romanzo facendone un testo a carattere letterario. Tra i tanti ricordiamo James ELLROY con il romanzo Dalhia nera 1, Gustave FLAUBERT con Madame Bovary, 2, Henri Beyle, detto STENDHAL con Le Rouge et Le Noir, 3, Emmanuel CARRERE con L’adversaire, 4, Jacques CHESSEX con il suo Un ebreo come esempio 5, e non ultimo Truman CAPOTE con In Cold Blood in cui lo scrittore statunitense procede a una vera inchiesta, interrogando tutti i protagonisti dell’atroce fatto ci sangue che ha visto soccombere i quattro membri della famiglia Clutter (il padre Herbert, la madre Bonnie, il figlio Kenyon e la figlia Nancy), gli amici delle vittime, gli abitanti del tranquillo villaggio di Holcomb, inquirenti e colpevoli, spulciando così tutte le fonti d’informazione. ____________________ 1. Il romanzo è tratto da un fatto realmente accaduto a Los Angeles nel 1947. Il famoso omicidio della Dalia Nera, un caso tuttora irrisolto. Lee e Dwight sono due giovani poliziotti con un recente passato nel pugilato. Noti per le loro gesta sono usati anche dalla politica locale per la loro “medianicità”. I due sono sinceri amici, nonostante siano innamorati della stessa donna di nome Kay. Elisabeth è una ragazza di provincia con il sogno di diventare un’attrice di successo. Pur di entrare nel mondo fatato del cinema, comincia a frequentare locali equivoci, persone equivoche. Sarà trovata morta in un terreno alla periferia della città. Il suo corpo è in uno stato orribile, la gente capisce che non è uno dei tanti fatti di cronaca. I due amici poliziotti si buttano a capofitto sul caso più inquietante della storia californiana e risolvere il caso diventa un’ossessione. I due giovani poliziotti rischiano di perdersi nel labirinto delle menzogne e malvagità. Los Angeles degli anni ’40 appare una metropoli corrotta e perversa. L’autore scrive questa storia con uno stile tagliente, ironico e coinvolgente, un’atmosfera cupa e ricca di suspense. 2. Gustave FLAUBERT con il romanzo Madame BOVARY (1857) si ispira a un fatto di cronaca apparso sulle pagine di un giornale. Eugène Delamare, di professione medico, sposa in seconde nozze Delphine Couturier, una donna più giovane di lui che lo tradisce, fa debiti e muore lasciandogli una bambina. In seguito a questo fatto, Flaubert inventa il personaggio di Emma Bovary, una donna sognatrice, dall’immaginazione romantica fino al ridicolo, influenzata dalle cattive letture fatte in gioventù in collegio. Emma sposa il medico Charles Bovary che è al suo secondo matrimonio. La mediocrità di quest’uomo a livello professionale e personale e della vita provinciale monotona e meschina, spinge la donna a evadere e a cercare altrove nuove sensazioni, nuovi amori corrispondenti al suo universo stupidamente libresco. Dapprima si lega al giovane apprendista notaio Léon Dupuis, i cui modi romantici la seducono e poi inizia con Rodolphe Boulanger, un signorotto dai modi dandy una sfrenata passione. Ma anche quest’ultimo come il precedente, impressionato per gli eccessi passionali di Emma rompe brutalmente con lei dopo alcuni mesi un legame eccessivamente passionale 21 e esaltato. Finisce così per distruggersi e rovinare suo marito sul piano finanziario nonostante la nascita di una bambina che lei abbandona molto presto alla cura di una balia di sua conoscenza. La storia termina con il suicidio di Emma sopraffatta dai debiti e dai sensi di colpa lasciando il “povero” Charles in una tremenda solitudine. 3. Le Rouge et le Noir è pubblicato nell’autunno del 1830. Questo romanzo ha come sottotitolo significativo “cronache del 1830) ma in realtà i fatti si svolgono sotto il regno di Charles X (1824-1830). Stendhal si è ispirato a due fatti di cronaca, l’affaire Lafargue, un uomo che ha ucciso la sua amante e l’affaire Berthet, un ex seminarista diventato l’amante poi l’assassino di una donna di cui è stato precettore. È la prima volta che uno scrittore del XIX secolo riprende un fatto d’attualità di cui Stendhal aveva letto nel 1827 il resoconto sulla “Gazette des Tribunaux”. In Le Rouge et le Noir lo scrittore ripropone una situazione che corrisponde perfettamente a quella che è ricostruita nel processo, a partire dalle condizioni sociali dei personaggi, dei rapporti che l’inchiesta aveva messo in evidenza tra il protagonista, i suoi precettori e le donne della sua vita fino allo svolgimento preciso dei fatti. La storia è centrata su Julien SOREL, figlio di un contadino, che si è arricchito e che possiede una falegnameria a Verrières, “l’une des plus jolies de la Franche-Comté”. Il giovane Sorel è troppo delicato e troppo intellettuale per vivere nel suo modesto ambito di origine. Sognatore non accetta il suo stato, Julien non si sente apprezzato da un padre villano e brutale, le sue letture preferite sono il Mémorial de Sainte-Hélène e les Confessions de J.J. Rousseau e aspira alla gloria. Se avesse vissuto sotto Napoleone di cui venera il mito, avrebbe tentato la carriera militare ma egli vive sotto la Restaurazione e allora conta sulla carriera ecclesiastica: “Aujourd’hui on voit des prêtres de quarante ans avoir cent mille francs d’appointements (stipendio), c’est-à-dire trois fois autant que les fameux généraux de division de Napoléon”. Julien diventa così precettore dei figli del sindaco di Verrières e l’amante della moglie, Madame de Rênal. Per evitare lo scandalo, Julien è obbligato a entrare nel seminario di Besançon. Il Direttore, l’abbate Pirard, nel momento in cui è costretto a lasciare la direzione del seminario, raccomanda Julien presso il marchese de la Mole affinché gli offra il posto di segretario a Parigi. Julien entra, di fatto, nell’alta società parigina vicino alla corte di Charles X, durante l’ultimo periodo della Restaurazione. Stendhal descrive la noia e la monotonia che regnano nei salotti parigini dell’epoca e che riproducono i riti de l’Ancien Régime: è un’atmosfera che favorisce il tumultuoso rapporto d’amore tra Julien e la figlia del marchese, Mathilde de la Mole. Vincendo l’orgoglio della ragazza, Julien è a un passo dal successo tanto agognato: il marchese deve accettare il matrimonio anche perché Mathilde è in attesa di un bambino e organizza la nobilitazione e il successo nel “rouge” di Julien che è nominato tenente degli ussari. Una lettera di Madame de Rênal al marchese de la Mole, nella quale Julien è denunciato come un “miserabile seduttore” distrugge il sogno e suscita sconvolgenti reazioni. Julien compra una pistola, si reca a Verrières e spara su Madame de Rênal in chiesa. Julien è arrestato, processato e poi condannato a morte. Nella sua tensione tra l’orgoglio e l’ipocrisia, il personaggio stendhaliano incarna il malessere del mondo postnapoleonico e la consapevolezza di non trovarvi posto. Tutti questi elementi sono messi in risalto durante il processo contro Julien, quando questi finisce per provocare la sua condanna definitiva. Invece di pentirsi del suo gesto Julien provoca i giudici accusando la società di averlo destinato all’ipocrisia. Dopo l’esecuzione Mathilde recupera la testa di Julien e la fa seppellire in una grotta che fa ornare con marmi italiani; quanto a Madame de Rênal, lei muore tre giorni più tardi “abbracciando i suoi figli”. Con Le Rouge et le Noir Stendhal intende offrire un quadro realista della società francese della sua epoca. Per essere fedele alla verità egli s’ispira a fatti di cronaca tratti da articoli giornalistici, introduce nei suoi romanzi una serie di ”petits faits vrais” che danno l’idea di autenticità: precisioni storiche e topografiche, orari, costumi, dettagli tratti dalla vita di tutti i giorni. Sull’interesse per la realtà concreta e per i rapporti tra l’individuo e la società, Stendhal e Honoré de Balzac sono molto vicini e possono essere definiti come i “secrétaires de la société française”. Per entrambi la missione dello scrittore non è di “copiare la natura ma di esprimerla” nel senso di rendere più comprensibile la realtà di cui si definiscono attenti testimoni. 4. Il 9 gennaio 1993, nella regione di Gex, in territorio francese ma di fatto appartenente alla periferia residenziale di Ginevra, succede una tragedia familiare. Il personaggio centrale della vicenda, Jean-Claude Romand che viveva sotto falsa identità, uccide sua moglie, i suoi due figli e i genitori. Diceva di essere medico e di lavorare presso l’OMS (mentiva da diciotto anni), tutti credevano che fosse veramente un medico invece trascorreva le sue giornate nei caffè o passeggiava nei boschi dei monti Jura, Questo fatto di cronaca vera scuote talmente lo scrittore Emmanuel CARRERE che lo spinge a raccogliere notizie e atti processuali per capirne le motivazioni di fondo. Emmanuel CARRERE cerca di farci capire ciò che avrebbe spinto quest’uomo, Jean-Claude Romand, a commettere molteplici atti delittuosi tragici e irreparabili. Scrive un testo “L’adversaire” nel quale segue il processo di Romand scambiando con lui regolarmente una serie di lettere ed entrando così nella vita più intima e personale del falso medico che a forza di menzogne e di viltà aveva finito per perdere la sua vita e la sua anima. CARRERE ci descrive un giovane ordinario, intelligente che ha costruito la sua vita sulle menzogne su un’escalation di falsità e di messe in scena che lo faranno diventare un mostro insensibile e spietato. Sul punto di essere scoperto Jean-Claude Romand preferisce sopprimere coloro di cui non poteva sopportare lo sguardo e il giudizio. 22 La scrittura è essenziale senza considerazioni moralistiche né personali, ne risulta un testo molto sconcertante, atroce e luciferino. Un mondo di bugie costruito con lucida follia. Come il libro anche l’omonimo film con la regia di Nicole Garcia riprende le atmosfere cupe e strazianti del romanzo e un che di agghiacciante paralizza lo spettatore. 5. La storia è vera, succede a Payerne, in Svizzera, nell’aprile del 1942. Payerne è un grosso borgo, rurale che prima della guerra era prospero, ma ora la gente, ridotta in miseria, è malcontenta, povera, alle prese con atti di stupro, ubriachezza. La colpa di tutto ciò è attribuita agli ebrei parassiti che si arricchiscono a spese di chi li ospita. Il pastore Philippe Lugrin, antisemita convinto, tiene comizi tra i disoccupati, i piccoli contadini rovinati nei caffè. La delegazione tedesca lo finanzia. Joseph Bloch, l’ebreo retto, onesto, buon padre di famiglia diventa il “capro espiatorio” perfetto: se la sua “esecuzione” è accettata dalla gente, si potranno fare fuori tutti quei luridi porci. La polizia indaga sulla scomparsa di Bloch molto probabilmente eliminato. Alcuni abitanti del Cantone di Vaud confessano l’omicidio, Lugrin, più astuto, ripara in Germania con il rimpianto di non aver segnalato altri ebrei ai suoi “amici”. Gli autori succitati hanno in comune uno sguardo attento e affascinato sulla tragedia umana, sulla svolta assurda che a volte prende la vita di un individuo. L’impossibilità totale di comprendere un atto, un’azione, di entrare nell’animo dell’altro, ha portato questi e altri scrittori in diverse epoche storiche verso la Letteratura al fine di svolgere di nuovo il filo della vita ricreandola con la penna e cercando un senso. Truman CAPOTE costruisce la sua storia sui fatti, sulle testimonianze pazientemente raccolte, cercando di restare fedele a ciò che era successo nella notte tra il 14 e il 15 novembre del 1959 nella fattoria di Herbert Clutter a Holcomb, ascoltando le parole dei personaggi, dei testimoni e di quanti amici e conoscenti avevano avuto rapporti di lavoro con i Clutter. Per avere dell’accaduto un quadro quanto più possibile vero, l’autore prende il tempo che gli serve per studiare tutti i protagonisti, il loro ambito familiare e sociale e per riflettere dettagliatamente sulle conseguenze che il crimine ha determinato in quella comunità di cittadini che tranquilla non lo è più dopo l’insensato e criminale massacro. Occorrerà attendere l’esecuzione capitale dei due ritenuti colpevoli perché gli abitanti della regione ritornino a vivere pacificamente e a superare le loro ansie e accresciute paure. Quando Capote si lancia nella scrittura di questo docu-fiction, sa tutti gli antecedenti dei due giovani criminali, sa tutto delle loro irragionevoli e illogiche spiegazioni e dei vari momenti della loro folle fuga. In Cold Blood è certamente un libro innovatore poiché lo scrittore americano inserisce un fatto di cronaca nel quadro e nello stile del romanzo. Con questa tecnica chiamata “roman non-roman” Truman Capote mescola abilmente il senso di distacco proprio del giornalista e uno stile narrativo tipico del romanzo. E così operando Capote realizza un capolavoro costruito sulla preziosa raccolta di testimonianze, permettendoci nello stesso tempo di conoscere il mondo e l’intimità di quanti gravitano attorno all’affaire Clutter. All’inizio (prima parte del libro) l’autore ci fa condividere l’intimità delle vittime, i Clutter, onesti proprietari terrieri di Garden City, ci svela la vita, le aspirazioni, i segreti di quest’ordinaria e operosa famiglia del Kansas e ce la rende familiare. Ma, attenzione, l’atmosfera è lontana dall’essere rassicurante poiché simultaneamente ci mostra la macchina di Dick e di Perry, una berlina nera Chevrolet del 1949 che si avvicina facendo temere il peggio. Questo esempio dimostra assai bene che In Cold Blood è più che una relazione obiettiva sui fatti. Truman CAPOTE ha saputo creare una tensione drammatica propria del romanzo, l’incontro tra la ricca famiglia Clutter e i due ex pregiudicati ridotti al verde si annuncia tragico. L’autore alterna continuamente i punti di vista dei vari personaggi e dà al libro un aspetto molto dinamico. Si passa facilmente dalla diffidenza degli abitanti di Garden City all’indifferenza dei due assassini lanciati in una folle corsa attraverso gli Stati Uniti e il Messico. E paradossalmente le scene in cui appaiono i due assassini hanno spesso un tono alquanto leggero. Sono due teppistelli 23 che vivono di vagabondaggi, alla giornata e Perry Smith rincorre i suoi sogni di viaggi esotici e di cacce ai tesori nascosti del mare. Nel leggere il racconto del massacro perpetrato a danno della famiglia Clutter (terza parte del libro) si provano gli stessi sentimenti degli abitanti di Holcomb: incredulità davanti a questo gratuito crimine, repulsione, orrore. Ci si rende rapidamente conto che il caso Clutter non era isolato e che altri massacri o atti delittuosi avevano avuto luogo nello stesso paese, nella Contea Finney. I più anziani ricordavano quando lo sceriffo Orlie Hefner fu centrato dritto al cuore da Walter Tunif. Quest’ultimo lavorava nell’azienda agricola di Finnup. Fu visto fuggire a cavallo e dirigersi a est lungo il fiume, ma la fuga durò poco perché la mattina dopo il tragico assassinio Walter Tunif fu acciuffato e ucciso. L’agente di polizia Alvin Dewey, incaricato di trovare i responsabili della strage dei Clutter, aveva già in passato avuto contatto con il crimine nella Contea Finney e segnatamente nel 1947 si era occupato dell’omicidio di Mary Kay Finley, una donna bianca di quarant’anni, di professione cameriera, colpita a morte con il collo di una bottiglia di birra rotta in una stanza dell’albergo Copeland di Garden City, da un indiano Creek di trentadue anni di nome John Carlyle Polk; in data 1.11.1952 due operai delle ferrovie avevano rapinato e ucciso un vecchio agricoltore; il 17.6.1956 un marito ubriaco aveva picchiato e preso a calci la moglie fino a ucciderla; un ultimo episodio si era verificato a Stevens Park quando il signor Mooney di passaggio in città, era andato in un gabinetto per uomini e Wilmer Lee Stebbins, un ragazzo di vent’anni del posto, dopo averlo rapinato, lo aveva buttato a terra facendogli battere violentemente la testa contro il pavimento in cemento. Il giovane sosteneva che il signor Mooney gli aveva fatto una proposta indecente e amorale, il successivo comportamento del giovane che seppellisce e diseppellisce il cadavere del forestiero è particolarmente scioccante. Grazie al suo lungo e scrupoloso lavoro di raccolta d’informazioni Truman CAPOTE descrive nei minimi particolari ogni città, casa e luogo e il lettore é realmente dentro l’azione, la segue e la contempla come se anche lui fosse presente: si vede il Kansas, si sentono gli odori della fattoria, si resta abbagliati dal sorgere del sole dell’alba. Il romanzo è come un puzzle in cui ogni personaggio anche quello poco rilevante aiuta a definire meglio la situazione raccontata che è complessa e il lettore passa dall’odio alla pietà, dal dubbio alla comprensione del vissuto dei due giovani assassini per poi tornare a dubitare. Molti hanno criticato la volontà dell’autore di apparire distante e distaccato dal tema affrontato. Nuovi e inediti documenti recentemente divulgati relativi all’inchiesta riguardante il massacro della famiglia Clutter e i metodi usati da Truman CAPOTE nel ricostruirlo nel suo In Cold Blood, hanno rilevato la presenza d’incongruenze e di contraddizioni ancor prima che manipolazioni. Da questi documenti inediti e aggiornati dal KBI, sembrerebbe che lo scrittore Capote abbia abusato di qualche libertà rispetto allo svolgimento reale dei fatti raccontati nel suo romanzo capolavoro, al fine di dare una buona immagine delle persone a lui care, in modo particolare dello sceriffo del KBI, il signor Alvin DEWEY, uno dei personaggi chiave del libro. Nella versione di Capote Dewey è uno sceriffo brillante e il KBI, una squadra di polizia esemplare. Durante la scrittura del libro Capote ha avuto accesso ai documenti e al fascicolo del KBI e lo stesso Alvin ha collaborato attivamente con lo scrittore fornendogli tra l’altro il diario della diciassettenne Nancy Clutter, “ una giovane acqua, vitale, gioiosa” (Ibid., p.236), sul quale erano scritte le ultime parole della ragazza prima dell’irruzione inattesa quanto brutale dei due balordi criminali nella Fattoria River Valley. Ora i documenti pubblicati dal Wall Street Journal (13 settembre 2012) indicano che l’Ufficio del KBI è stato meno reattivo rispetto a com’è detto e scritto nel libro In Cold Blood. E cioè risulta che un informatore aveva fornito a Dewey la notizia circa l’identità degli autori della strage a Holcomb ma che lo stesso capo-inchiesta Alvin Dewey aveva atteso ben cinque giorni prima di arrestare i presunti assassini, poiché riteneva in modo erroneo che Richard Hickock e Perry Smith non potevano aver commesso il quadruplo massacro che era dovuto, secondo lui, a una disputa particolarmente accesa tra vicini e perciò voleva indagare meglio in quella direzione. Sia il KBI e Dewey hanno sempre sostenuto la versione di Capote, considerata la migliore prova dell’esattezza 24 del racconto. D’altronde l’autore in un’intervista nel 1966 aveva giurato che non aveva fatto che raccontare la realtà e che tutto era “perfettamente fattuale”. C’è da aggiungere altresì che Ron Nye, figlio di Edward Nye, uno dei quattro agenti del KBI che avevano indagato sull’affaire Clutter ha ritrovato nell’ottobre 2012 interessanti documenti sull’affaire Clutter che suo padre custodiva in casa. Ron che spesso accompagnava il padre nei viaggi alla sede centrale del KBI negli anni successivi alla chiusura del fascicolo Clutter, aveva osservato che suo padre esaminava minuziosamente casi già chiusi e lasciava istruzioni ai segretari sui documenti-files che voleva fossero fotocopiati. Il sogno di Harold Nye era di scrivere una memoria verità sui molti casi che aveva investigato, compresi la strage dei Clutter. In particolare Edward Nye voleva correggere quelle che riteneva inesattezze nel libro di Truman Capote. Harold Nye morì nel 2003 senza aver mai scritto il suo resoconto. Tra i documenti ritrovati in casa da Ron figurano diverse fotografie della scena del crimine, lettere, appunti e soprattutto una copia de In Cold Blood che Capote aveva dedicato a Harold e una pagina che porta l’autografo di Nelle Harper Lee, autrice del romanzo “To Kill a Mockingbird”, nella versione italiana Il buio oltre la siepe, e grande amica d’infanzia che aveva accompagnato Truman in Kansas. Il testo letteralmente recita: “Per Harold Nye, con affettuosa ammirazione, Nelle Harper Lee” (15 gennaio 1960). Quando Ron Nye scoprì questi elementi inediti stava attraversando un periodo molto difficile dal punto di vista finanziario e decise di vendere l’integralità dei documenti tramite la società Vintage Memorabilia di Gary McAvoy. Il procuratore generale del Kansas intervenne prontamente sulla delicata questione e invitò il direttore dell’agenzia a togliere dal commercio i documenti che appartenevano allo Stato del Kansas. Vintage era in disaccordo poiché i documenti in possesso dell’agenzia erano stati consegnati a McAvoy dallo stesso Ron e quindi rappresentavano una proprietà personale. L’Ufficio del procuratore generale era particolarmente interessato ai taccuini stenografati e richiese espressamente la pagina con l’autografo della scrittrice Harper Lee. Il direttore dell’agenzia capì subito la natura incendiaria dei documenti suddetti, ma rinunciò alla vendita all’asta degli stessi dopo aver tolto volontariamente dal mercato le foto della scena del crimine consegnandole al KBI. Sulla questione dei documenti inediti ritrovati intervengono anche le due figlie sopravvissute dei Clutter Evianna e Beverly, che all’epoca della strage della loro famiglia non abitavano già più con i loro genitori (Evianna, la figlia maggiore, all’epoca dell’eccidio, era sposata e madre di un bimbo di dieci mesi e abitava nell’Illinois del nord, Beverly, la secondogenita non stava più alla Fattoria River Valley; viveva a Kansas City, dove seguiva dei corsi d’infermiera in attesa di sposarsi), rompendo una linea di silenzio che durava da più di cinquant’anni, e dicendo che avrebbero fatto causa se Vintage avesse venduto le fotografie della scena del crimine. È ampiamente nota la presa di posizione delle due figlie nei confronti di Capote e del suo romanzo. Difatti subito dopo la pubblicazione del libro rilasciarono una dichiarazione assai ferma e risentita definendo Truman Capote disonesto e il suo libro che grossolanamente aveva messo in falsa luce la loro famiglia “un romanzo a sensazione che gli aveva dato profitti”. La discussione è parzialmente finita con il ritiro dalla vendita di alcuni documenti tra i quali la confessione di uno degli assassini mentre la disputa giuridica che vede Vintage contro la giustizia del Kansas è destinata a continuare al fine di stabilire in modo definitivo se i succitati documenti possono essere venduti all’asta o se appartenenti al KBI devono essere classificati parte integrante del fascicolo “Affaire CLUTTER”. È facile prevedere che sul libro di Capote e sull’affaire Clutter ci saranno altre occasioni di approfondimento e di polemiche. Il direttore di Vintage il signor Gary McAvoy dichiara, infatti, che nei mesi o anni che verranno, ci si occuperà ancora di In Cold Blood e informa che di recente è stato destinatario di un pacco contenente i diari di prigione di Perry Smith inviato dalla famiglia di un personaggio che era stato all’epoca del fatto criminale al servizio dell’ordine pubblico del Kansas e che aveva fatto amicizia con Perry dietro le sbarre. 25 Senza aver approfondito la cosa, McAvoy dice che il diario offre nuovi spunti di riflessione sulla questione ancora irrisolta e cioè se Dick Hickock sparò quella notte e a chi o se fu Perry Smith a uccidere a sangue freddo due o tutti i quattro residenti della Fattoria River Valley a Holcomb. Secondo altri è proprio questa “démarche narrative” che assicura al libro di Capote grande e duraturo successo. Non solo l’autore statunitense applica lo stesso metodo alle vittime e ai colpevoli ma è facile vedere nel libro di Capote una sorta di catarsi, un processo di liberazione da esperienze traumatizzanti e assurde. Anche perché gli assassini non hanno altra finalità che la rapina, impossessarsi dell’ingente somma di denaro che i due delinquenti credono sia custodita nell’ufficio di Herbert Clutter. Il loro non è altro che un atto brutale attraverso il quale trasferiscono tutte le loro frustrazioni e le loro paure verso vittime totalmente estranee al loro profondo disagio. Nel tracciare il contorto percorso di vita di Dick e di Perry, due giovani nullafacenti che aspirano a trovare una via d’uscita che sia favorevole e definitiva alla loro banale e avvilente esistenza, Dick appare un individuo risoluto con l’idea fissa di compiere il ”colpo” perfetto che gli permetterà di affrancarsi dai suoi miseri inganni e truffe come gli assegni senza alcuna copertura. Quando incontra Perry che si vanta di aver ucciso un uomo di colore intravede la possibilità di architettare un “colpo” formidabile a rischio zero servendosi di Perry che è in grado di premere il grilletto del suo fucile nel momento opportuno. Perry Smith, dal canto suo, è un giovane istruito, dalla personalità complessa. Maltrattato dai suoi genitori durante la sua difficile giovinezza, con un fisico sgraziato, “i piedi piccoli, chiusi in corti stivaletti neri con borchie di acciaio, si sarebbero agevolmente infilati nelle scarpine da ballo di una fragile damigella; quando si alzò non era più alto di un bambino di dodici anni su quelle gambette misere che apparivano grottescamente inadeguate al torso massiccio che sostenevano, sembrò non più un robusto camionista ma un fantino a riposo…” (Ibid., pp. 26-27), sogna di fuggire da una società alla quale rimprovera di non avergli dato le opportunità di affermarsi. Questi due personaggi a parte i tatuaggi (Dick aveva “il muso tatuato di un gatto, blu e sogghignante, che copriva la sua mano destra; una rosa azzurra sulla spalla; sulle braccia e il torso, la testa di un drago con un teschio umano tra le mascelle spalancate; donnine nude dal seno ricolmo; un demoni etto che brandiva un forcone;,,,un mazzo di fiori dedicato a Papà-Mamma, un cuore che commemorava l’idillio tra Dick e Carol, la ragazza che aveva sposato a diciannove anni e dalla quale si era separata sei anni dopo..” (Ibidem, pp. 43-44), Perry si era fatti riprodurre “sull’avambraccio sinistro il disegno di un serpente e un pugnale” (Ibid., p.158) e la cura quasi ossessiva per l’igiene del proprio corpo avevano caratteri così diversi al punto che spesso sembrano l’uno contro l’altro. La loro netta diversità di vedute si manifesta fin da quando si fermano a Emporia per comprare delle calze da donna occorrenti per la rapina. Per Dick le calze bianche o nere che fossero non erano necessarie, anzi superflue perché nella rapina che aveva in mente e il cui piano era stato da lui a lungo preparato nei minimi particolari, non ci sarebbero stati sopravvissuti per testimoniare. Perry non è d’accordo perché teme che possa essere riconosciuto. Quando poi si trattò, durante la fuga verso il Messico, di decidere se far salire sulla loro macchina due autostoppisti: un giovane ragazzo di nome Bill e suo nonno Johnny in precarie condizioni di salute che erano diretti verso il Texas per ricongiungersi con Jackson la sorella del nonno, Perry è dell’opinione di dar loro un passaggio, “il suo grande cuore lo tormentava continuamente perché prendesse su gli individui più malconci” (Ibidem, p.239) mentre Dick “era riluttante; non era contrario alla collaborazione con gli autostoppisti sempre che avessero l’aria di potersi pagare il passaggio” (Ibidem). Infine Dick acconsentì e li fece salire in macchina con l’intento di farli scendere quanto prima perché temeva per la sua incolumità. In quest’occasione i due compari alterano i toni della voce e volano parole e frasi offensive dirette principalmente a Dick che si era fermato e aveva deciso di sbattere fuori il nonno molto malato. Perry dopo aver guardato il vecchio, ancora sonnolento, stordito, sordo e il ragazzino che ricambiò l’occhiata, calmo, senza supplicare, senza 26 chiedere nulla, rammentò se stesso a quell’età e i suoi vagabondaggi con un vecchio, e intervenne pesantemente e in malo modo apostrofando il suo compagno di sventure con questa frase: ”Sei proprio uno schifoso bastardo. Buttali fuori se vuoi, ma scendo anch’io” (Ibidem, p.241). Pur tuttavia i due assassini convivono all’interno di una logica distruttrice e che trova la sua realizzazione nel massacro dei membri della famiglia Clutter. Mai l’autore prova a dare spiegazione ai fatti raccontati. Capote non condanna né giustifica niente. Si limita a raccontare questo crudele fatto di cronaca optando per l’assunzione dello stesso distacco che il medico legale mette in atto quando è incaricato di eseguire l’autopsia di un cadavere. Forse per non dover soffrire o per paura di scoprire di avere punti di convergenza con gli assassini che lo rimanderebbero verso i suoi “fantômes”. “ La mia opinione è che perché il genere di romanzo-verità abbia interamente successo l’autore dovrebbe non apparire nell’opera..io penso che l’unica cosa più difficile nel mio libro dal punto di vista tecnico sia stato scriverlo senza mai apparire e tuttavia, allo stesso tempo, creare l’assoluta credibilità”. Truman CAPOTE in George PLIMPTON, The Story Behind a Nonfiction Novel, “The New York Times”, 16 gennaio 1966. In Cold Blood o la ricerca di un nuovo genere di romanzo. “In Cold Blood: A True Account of a Multiple Murder and its consequences” apparve in quattro puntate sul New Yorker nel 1965 prima di essere pubblicato in volume nel 1966. Truman CAPOTE voleva associare il rigoroso quanto esclusivo attaccamento ai fatti proprio del giornalista alle strategie narrative del romanziere al fine di dare luogo a un genere nuovo, il romanzo “non-fictionnel”. Il successo fulmineo quanto inatteso del suo libro non impedì un’accoglienza critica contrastata. Per l’amico e scrittore Norman MAILER il testo di Capote segnava il fallimento dell’immaginazione. A suo parere In Cold Blood, di cui non fu un grande ammiratore, “è un libro maledettamente buono, scritto splendidamente ma con dei limiti. Quando l’ho letto sono rimasto insoddisfatto. Non sopportavo quel maledetto New Yorker, sempre pronto a imporre la sua visione rigida a qualsiasi cosa. Era troppo scarno. Alla fine non arrivai a sapere abbastanza di quei due assassini. Era troppo influenzato con il comportamentismo. Penso che In Cold Blood sia la descrizione di un delitto dall’esterno e che Truman abbia deciso troppo in fretta che tutto era ereditario, che gli assassini erano geneticamente condizionati e determinati ad agire in quel modo” (Norman Mailer in G. Plimpton, ibidem, p.204). Per Douane West “il libro non ha alcun valore di riscatto sociale. La faccenda di una nuova forma d’arte- il romanzo documento- è un cumulo di spazzatura. Penso lo stesso anche del film. Ritengo che fosse venuto qui semplicemente per fare soldi. Non credo che il libro sia stato un importante contributo alla grande letteratura americana” (Douane West in G. Plimpton, Ibidem, p.210). Ci fu anche qualcuno che gridò allo sciacallaggio di Capote nei confronti dei due assassini e fomentò un’aspra polemica quando, all’indomani della decisione dell’imminente impiccagione dei due giovani assassini Dick e Perry, Kenneth Tynan incontrò a una festa di Jean Stein Truman che saltava su e giù per la contentezza, battendo le mani e dicendo: Non sto più nella pelle! Non sto più nella pelle dalla gioia! Ken nella sua recensione sul libro di Truman apparsa sull’Observer inglese rese conto di questo strano e irresponsabile comportamento e precisò che “per la prima volta un influente scrittore è arrivato ad avere un ruolo privilegiato di confidente di due criminali in procinto di morire e che, secondo lo scrivente, ha fatto meno di quanto avrebbe potuto per salvarli concludendo che nessuna prosa, per quanto immortale, vale una vita umana” (Kathleen Tynan in G. Plimpton, ibidem, p.205). Immediatamente dopo la pubblicazione della recensione la polemica divampò. Il critico 27 letterario Diana Trilling recensì positivamente In Cold Blood per la Partisan Review. L’intera storia l’aveva affascinata. Truman aveva fatto un buon lavoro di reportage. Precisò tra l’altro che Kenneth Tynan che aveva attaccato ferocemente Truman perché colpevole, a suo parere, di non essersi impegnato per salvare Perry e Dick dalla pena capitale aveva scritto un bel po’ di cattiverie su Truman ed era rimasta nauseata quando aveva letto l’accusa a Truman di fare soldi alle spalle di quei poveri delinquenti. “Se a Truman Capote capitava di scrivere un libro di grande successo e guadagnava molto denaro da quella storia, per lei andava bene: è una ricompensa per il suo talento e la sua capacità di fare un lavoro eccellente. L’obbligo morale che Truman doveva avere era quello di essere attento a come trattava i fatti” (Diana Trilling in G. Plimpton, Ibidem, pp. 207/8). Diana Trilling concludeva la sua recensione dicendo che, pur non essendo d’accordo sull’uso della pena capitale, in questo caso, considerava giustificata la pena di morte: “erano assassini perversi, brutali e non provava la minima solidarietà nei loro confronti, che era ciò che invece Truman cercava di suscitare” (Diana Trilling, ibidem, p.208). Lo scrittore e premio Nobel per la letteratura, J. M. Gustave Le Clézio vedeva nel romanzo di Capote il segno di un possibile rinnovamento della letteratura moderna. Nel 1966 Le Clézio così scriveva sullo scrittore americano: “Occorre allo scrittore un pretesto, quasi un alibi, per osare scrivere un libro che parli degli uomini e non più di uno sconosciuto individuo che gli somigli. Egli ha bisogno di giustificarsi per scrivere un libro dove sono presenti tutti gli elementi della vita sociale, le passioni, il denaro, il crimine, l’amore, la politica, la morte” (L’articolo dal titolo “Une Révolution de la conscience” è riprodotto sulla rivista Magazine Littéraire di Gennaio 2007, N°460, con il titolo “Truman CAPOTE, une icône américaine”). Questo pretesto Truman CAPOTE l’aveva trovato in un breve articolo del New York Times nel quale era raccontato il quadruplo omicidio perpetrato a Holcomb nel Kansas. Il primo abbozzo narrativo di In Cold Blood si trova in un articolo del New York Times apparso il 16 novembre 1959 quando vi si leggeva che le informazioni inerenti al fatto criminale erano abbondanti ma che non erano utili a comprendere appieno le responsabilità dei colpevoli rei confessi. La polizia non spiegava né gli avvenimenti né i legami che potevano esserci tra gli assassini e le vittime. Quest’assenza di comprensione dei fatti si coglie perfettamente nel film di Richard Brooks quando l’ispettore Alvin Dewey così dice: “The murders are no mystery, only the motive”( Sugli assassini non c’è alcun dubbio, il problema è di avere chiaro il movente). La ricerca di Capote ha origine da questo vuoto. Lo scrittore statunitense si dedica alla scrittura del suo unico capolavoro non tanto per scoprire gli autori dell’orrendo crimine quanto per comprendere e descrivere l’accaduto nella sua totalità. Secondo il filosofo Paul RICOEUR questa “pre-comprensione del mondo dell’azione” è un indispensabile preliminare alla composizione poetica. Paul Ricoeur chiama “mimèsis 1” la capacità di identificare l’azione in generale attraverso tratti strutturali e “mimèsis 2” la configurazione narrativa dell’azione. Il passaggio dal primo stadio al secondo permette di trasformare le varie tappe degli avvenimenti in una storia. La storia, così configurata dopo i passaggi di “mimèsis1” e di “mimèsis2”, diventa un testo narrativo solo dopo la ricezione del lettore che assume con il suo fare(azione del leggere) l’unità del percorso creativo. Paul Ricoeur è convinto che “ci debba essere un’intersezione tra il mondo del testo e il mondo del lettore”(Cfr. Paul RICOEUR, Temps et récit, tome 1, Éd. Du Seuil, Paris, 1983). Ricoeur non fa distinzione tra il racconto storico e il racconto di fiction e sembra condividere la teoria dei “mondi testuali” elaborata da Peter STOCKWELL nel 2002 in Cognitive Poetics, an Introduction, secondo la quale gli elementi del mondo reale hanno una loro contropartita nel mondo testuale. Il principio che regola la costruzione della 28 contropartita nel mondo testuale è quello della distanza tra il mondo reale e quello testuale. Come per Ricoeur, l’adeguamento tra il mondo testuale e quello referenziale non sembra essere un elemento pertinente al processo di rappresentazione. Anche il semiologo Roland BARTHES s’interroga sull’esistenza di una formale dicotomia tra il racconto “fictionnel” e il racconto storico. Ne “Le Discours de l’histoire”, Le Bruissement de la langue, Essais Critique IV, Éd. du Seuil, Paris, 1967, tenuto conto dell’esistenza di un tratto specifico o di un’indubbia pertinenza, l’illustre critico francese, morto prematuramente nel 1980 in seguito ad un banale incidente d’auto, si chiede in che cosa consista la differenza della narrazione di avvenimenti passati dalla narrazione fantastica e in quale luogo del sistema discorsivo e a quale livello dell’enunciazione porre questo elemento. Gérard GENETTE si mantiene prudente nell’affrontare la questione. In Cold Blood, la familiarità di Truman Capote con il tema trattato, (passò sei anni a raccogliere una valanga di testimonianze e di documenti, e con gli attori del massacro assassini, amici e famiglia delle vittime) gli permette di svelare parecchi dettagli che si potrebbero credere frutto dell’immaginazione di un romanziere, ciò che rende la distinzione tra i due tipi di racconto difficile e complessa. Genette, però, ammette che i numerosi dialoghi riportati con grande precisione, i verbi utilizzati per illustrare i processi mentali in numero congruo e lo stile indiretto libero evocano la completezza dell’informazione (si leggano, per esempio, le conversazioni tra Dick e Perry nel capitolo 2). Davanti alla difficoltà di trovare segnali oggettivi, Genette formula l’ipotesi di una fertilizzazione/contaminazione mutua tra i due tipi di racconti che sfociano in un processo d’ibridazione. Indizi di finzione si troverebbero nel romanzo giornalistico. A questo riguardo Genette concorda con la tesi di Searle quando sostiene che “ogni fiction é una simulazione non seria di asserzioni di non-fiction”, riconoscendo l’esistenza di un continuum tra i due tipi di racconti. Per effetto dell’esistenza di un minimo scarto tra i due tipi di racconto troviamo una serie di termini che vanno dal “factual”, combinazione di “fiction” e di “actual”, a “faction”, termine poco appropriato in ragione della sua polisemia. In In Cold Blood la quasi assenza di soggettività e la totale assenza di centro empatico danno così luogo a un nuovo rapporto con il Testo. Jean MOUTON nel suo saggio dal titolo “Littérature et sang-froid” del 1967 precisa che “noi lettori siamo introdotti all’interno del libro di Capote non come operai la cui collaborazione è sollecitata dal suo autore ma come personaggi che partecipano essi stessi all’azione o la subiscono”. S’inaugura dunque un nuovo patto di lettura che condivide con la biografia il tentativo di cogliere la realtà. Secondo Elena ORTELLS MONTON, autrice di un interessantissimo saggio dal titolo Ficciòn y no-ficcion: la unidad literaria en la obra de Truman Capote, Cuadernos de Filologia N°XXXII, 1999, sono possibili differenti letture del capolavoro di Capote: “In una lettura superficiale, In Cold Blood si presenta come una storia di assassini in cui l’apprensione è suscitata dal “come” e dal “perché” e non dal “chi”. A un livello più profondo, si affrontano molti temi di cui si è discusso in altri testi di finzione: la morte, la malinconia, la perdita dell’innocenza e che assumono in questo romanzo le dimensioni di una grande tragedia, quella che vede le due Americhe del Nord e del Sud l’una contro l’altra opposte. Il romanzo prende tutto il suo senso solo quando il lettore se ne appropria ed entra in sintonia con l’insieme dell’opera. 29 Dai primi anni novanta in poi, seguendo le orme di Truman Capote e di Norman Mailer, un numero sempre crescente di scrittori di varie generazioni, nazionalità e formazione culturale condividono lo stesso desiderio di realtà, di “vraie vie”. Privilegiando il romanzo-verità, l’inchiesta, il resoconto narrativo, la narrazione di nonfiction, scritture che spesso mescolano liberamente la ricostruzione dei fatti storici con l’invenzione, si ritorna a considerare che la realtà, che dà peso e valore all’esistenza, non è sterile e priva di interesse ma merita attenzione, anche se da qualche tempo, si è caricata d’incertezze e d’intense paure. La motivazione è forse da ricercare nel fatto che si è assottigliato o quasi svanito il confine tra fittizio e immaginario, tra vero e finto, e testi letterari in alcuni casi possono essere considerati anche i reportage giornalistici o testimonianze sul campo. Già lo sosteneva lo scrittore di origine iraniana Salman RUSHDIE alcuni anni fa quando affermava che “la narrativa dice la verità in un’epoca in cui le persone cui è demandato di dire la verità inventano storie”. Sulla stessa linea troviamo anche Babelia, supplemento letterario del quotidiano spagnolo “El Paìs” quando aprendo il servizio con un titolo assai significativo, Novelas de Verdad, esprimeva il concetto che “la fiction si aggrappa alla realtà e che i libri più interessanti dell’anno 2014 prendono spunto dalla storia e dalla cronaca”. Gli esempi evocati dal curatore del servizio sono molti. Javier Cercas è il primo per il quale “la realtà è sempre stata il carburante della finzione, tutto parte da lì”. “Il mio ideale- continua Cercas- è utilizzare tutte le esperienze storiche combinando la geometria e il rigore di Flaubert con la libertà, la flessibilità e la pluralità del modello di Cervantes”. Quando parliamo di non-fiction creativa ( secondo la definizione di Wu Ming) il pensiero va necessariamente a Emmanuel Carrère, autore di Limonov e del recente L’adversaire che da anni sperimenta più di altri le potenzialità del reale dentro la scrittura narrativa in prima persona seguendo le teorie care a Truman Capote e all’altro scrittore francese, Jean Echenoz al quale si devono ricostruzioni romanzesche di storie e vite realmente vissute come quella del musicista e compositore Ravel o quella del pianista Max Delmarc. Ora, per quanto riguarda la letteratura americana, uno scrittore tra i più autorevoli, in odor di premio Nobel è certamente Philip Roth che in prima persona entra nella materia viva della contemporaneità. Già nell’intervista fatta a George Plimpton apparsa sul “The Review” del 16 gennaio 1966, Truman New York Times Book Capote sottolineava che pochi scrittori di alto livello si erano cimentati nel giornalismo se non marginalmente e come lavoro di routine cui dedicarsi quando mancava la creatività o come mezzo per fare denaro rapidamente. Tali scrittori ritenevano di essere capaci di inventare storie con personaggi e temi propri senza fare riferimenti ai fatti reali e considerando, di fatto, il giornalismo una forma negletta di letteratura. Contro questo immotivato atteggiamento si collocano le teorie di Capote sul “romanzo documento”, una forma narrativa che fa uso di tutte le tecniche dell’arte del romanzo pur rimanendo impeccabilmente veritiera. Per molti suoi avversari queste teorie erano poco più di uno stratagemma letterario per nascondere la mancanza di immaginazione. Fu questa presa di posizione critica severa che spinse Truman Capote a orientarsi verso il genere del reportage e a essere orgoglioso di aver inventato quella combinazione di giornalismo e narrativa facendoli confluire. Non c’era niente di veramente eccezionale nel massacro dei Clutter ma Capote e la direzione del New Yorker erano convinti che quella tragedia fosse l’occasione di dimostrare che un grande reportage poteva diventare uno straordinario romanzo. E fu così che Truman Capote si mise al lavoro per scrivere il suo bestseller, In Cold Blood, il libro che gli mancava per essere riconosciuto come uno dei più grandi scrittori americani del XX secolo. 30 Per Capote come per altri c’è un intreccio inevitabile tra motivazioni private e la scelta di affrontare argomenti di pubblica attualità e ciò denota anche il desiderio di non staccarsi dalla realtà. Prof. Raffaele FRANGIONE 31