«Identità in transito» o «lacerazione identitaria»?

Transcript

«Identità in transito» o «lacerazione identitaria»?
 «Identità in transito» o «lacerazione identitaria»?
Il dolore dello sradicamento e sue ripercussioni
nell’esperienza migratoria
CHIARA ROSSO
(da :“Les voyageurs” di Bruno Catalano) 1 La patria non è che un accampamento nel deserto. (Cioran, Histoire et Utopie) Introduzione
La storica e sociologa Delia Frigessi (1993) scrive che il termine tedesco di Heimweh «dolore
della casa» sembra comparire per la prima volta in una comunicazione epistolare del 1559 dello
statista svizzero Ludwig Pfyffer a proposito della morte di un soldato. Nostalgia è l’equivalente
greco di Heimweh .Cento anni dopo sarà un altro svizzero, il medico Johannes Hefer a disquisire sul
concetto di nostalgia che diventa malattia. L’etnopsichiatra Roberto Beneduce (1993, 142) attira la
nostra attenzione sul paradosso epistemologico dell’idea di nostalgia nelle cui maglie si lascia
cadere ogni uomo «che voglia essere ad uno stesso tempo soggetto ed oggetto, soggetto della
memoria ed oggetto privilegiato del proprio ricordo, delle sue immagini lontane, ricorrendo
all’esercizio infinito della sua volontà di ricordare».
Sulle parole di Beneduce possiamo allora pensare a diverse sfumature di nostalgia. E’
racchiusa nella valigia di ogni emigrante la nostalgia come ‘colonna sonora’ dalle drammatiche
tonalità dello sradicamento o quella che come una bussola è in grado di orientare il cammino, sulla
scia delle origini. Si tinge di malattia invece quella che basta a sé stessa, sostituendosi a qualsiasi
altro investimento e che si configura come una zattera alla deriva, strenua difesa dell’emigrante su
cui l’Io derelitto del viaggiatore sopravvissuto alla devastazione dello sradicamento, ma non più
integro, s’illude di navigare. Egli va invece solcando il vuoto di una terra sommersa, al di là di ogni
possibile approdo.
Nostalgia e migrazione intrecciano così i loro destini. La migrazione rinvia etimologicamente
alla radice latina ME-ARE la quale significa «passare». L’esperienza migratoria del «radicarsi» o
dello «sradicarsi» rispetto ad un luogo è un fenomeno sfuggente (Raison,1980) che evoca un
ripetuto scenario di perdita e di trasformazione, come ricorda Virginia De Micco (2011) nei suoi
studi sulle tematiche migratorie. Come curanti ed operatori nel campo della salute mentale ci
interroghiamo sugli aspetti multiformi dello scacco migratorio e dunque sulle declinazioni
patologiche della nostalgia: osserviamo come «l’identità in transito» di chi si confronti con
sradicamenti ripetuti possa sfociare verso una «identità lacerata». Ødegaard (1932) un pioniere nel
campo dell’emigrazione rifletteva sulla personalità premorbosa del cosiddetto «emigrante alienato»
e cioè se si dovesse pensare ad una vulnerabilità psichica individuale sollecitata dal processo
migratorio oppure se la migrazione già di per sé stessa comportasse un trauma culturale: la tendenza
attuale è quella di considerare entrambi gli aspetti presenti.
E nella realtà odierna come potremmo inquadrare l’emigrante? L’antropologo Ugo Fabietti
(2012) suggerisce di abbandonare il «paradigma» dell’emigrante europeo del XIX secolo o degli
inizi del ‘900 in partenza per le Americhe. Da qualche decennio ormai, coloro che decidevano od
erano costretti a stabilirsi nel territorio ospite hanno lasciato lo spazio a nuovi scenari. L’emigrante
2 di ieri è diventato il migrante 1di oggi, egli si sposta velocemente negli spazi geografici ed in quelli
virtuali con una frequenza inimmaginabile rispetto al passato, figlio di una nuova dimensione
transnazionale della cultura.
Virginia De Micco (2011, 2) sottolineando le connessioni tra psicoanalisi ed emigrazione
evidenzia come la: «dimensione di passaggio e la ricomposizione di confini psichici, relazionali,
culturali che la psicoanalisi incontra nel suo stesso movimento di dispiegamento teorico e clinico,
la rendono molto vicina ad un movimento migratorio (…) – del resto la psicoanalisi è – “implicata”
profondamente nei nuovi contesti sociali e culturali attraversati da processi di trasformazione sul
piano antropologico…». Nella migrazione viene sollecitata la coerenza strutturale tra l’interno del
mondo psichico del migrante e lo spazio geografico occupato. Quali «luoghi» vengono attraversati e
quale vertigine accompagna questi attraversamenti? L’antropologo Marc Augé (2009) nelle sue
considerazioni sulla surmodernità sottolinea come il luogo antropologico indichi un elemento
simbolizzato e significativo rispetto alla storia umana da cui è investito, ne sono un esempio la
chiesa o la piazza di un paese. Esso si contrappone al nonluogo, anonimo e spersonalizzato come
possono essere l’aeroporto o il centro commerciale. Analogamente, pur utilizzando altri termini,
anche Il filosofo Merleau-Ponty (2003) nei suoi studi sulla percezione distingue ed identifica spazio
geometrico e spazio antropologico, quest’ultimo inteso come uno spazio esistenziale. L’ottica
antropologica dunque si intreccia a quella psicodinamica in cui tempo, spazio e luogo, appaiono
essere gli elementi fondanti l’identità individuale.
In questo lavoro rifletto su alcuni aspetti concernenti la psicopatologia dell’emigrazione e in
particolar modo sullo sconvolgimento delle dimensioni spazio-temporali e linguistiche riscontrate a
più riprese nei pazienti coinvolti in processi migratori. Gli psicoanalisti Amati Mehler (e colleghi)
nel loro libro La Babele dell’inconscio (2003, 1) si interrogano sulle ripercussioni psichiche del
cambiamento di lingua connesso al movimento migratorio. In un passaggio dell’opera essi citano
una frase pronunciata da Lawrence d’Arabia: «chi possiede due lingue perde la sua anima» ed è
interessante notare come, a questo proposito, gli Autori considerino eccessiva l’inquietudine
relativa alla «perdita dell’anima» evocata dall’eroe inglese, in linea con l’ideologia nazionalista
tipica dell’epoca coloniale, mentre sottolineano gli indubbi vantaggi apportati dall’acquisizione del
bilinguismo e del multilinguismo. Tuttavia la frase di Lawrence nella sua tonalità melanconica desta
la mia attenzione; la pluralità di lingue e di culture possono infatti, a mio avviso, suscitare un
disorientamento «dell’animo» per una sorta di «equivoco spazio-temporale». Il soggetto occupa un
dato spazio ma nel contempo è «abitato» da diverse temporalità che lo rinviano a un altrove. Il
conflitto o l’equivoco spazio-temporale possono anche incarnarsi nella sofferenza somatica e il
corpo diventa allora teatro di uno strappo identitario tra più storie e culture non integrabili ma
soprattutto non rappresentabili. Lo psichiatra Risso (1964) definisce la perturbazione indotta dalla
migrazione come un microtrauma quotidiano e un processo conflittuale permanente.
Vorrei anche sottolineare la vertigine che coglie il migrante quando il «vuoto» è dettato da
una perdita eccessiva e si realizza uno scenario in cui campeggia la presenza dell’assenza e dove
non è tanto l’oggetto a perdersi quanto è il soggetto che si perde in sé stesso scivolando verso una
1
D’ora in avanti utilizzeremo solo questa locuzione di «migrante».
3 deriva melanconica2. In questo caso si intrecciano varie condizioni in cui il trauma migratorio
riattiva una vulnerabilità narcisistica preesistente e il migrante mi appare in qualche modo
espropriato da sé stesso e proiettato in una sorta di nonluogo interno, adattando l’immagine
antropologica di Marc Augé alla dimensione psicodinamica, un nonluogo sospeso nella
inconciliabilità delle diverse culture che si mischiano e nel contempo si dissolvono.
Alle origini della psicopatologia dell’emigrazione:
etnopsichiatria e psichiatria transculturale
etnopsicoanalisi,
Quando l’oggetto di osservazione è pluridisciplinare, come la psicopatologia
dell’emigrazione, esso diventa difficile da circoscrivere e da indagare, si corre il rischio di venire
distolti da una corrente piuttosto che da un’altra perdendo così la necessaria visione d’insieme. Il
problema della metodologia diventa centrale ed anima un ricco dibattito. La psicoanalista Sophie
De Mijolla-Mellor (2004,28) osserva come a fianco della nozione di «pluridisciplinare» e di
«interdisciplinare» vi sia anche quella di «transdisciplinare»: «Non ci si interesserà alla linea di
confine (pluridisciplinare) e ai punti di contatto tra le varie discipline (interdisciplinare) ma si
cercherà di porre come oggetto un ambito che possa “attraversare” diverse discipline” . Come è il
caso del «transdisciplinare». L’immagine del non luogo di Augé, traghettabile dal campo
antropologico a quello psicoanalitico, potrebbe rappresentare a mio avviso un esempio di
«transdisciplinare».
L’etnopsicoanalisi appare come il tentativo di unire varie discipline quali la psichiatria, la
psicoanalisi, l’etnologia e l’antropologia per studiare il rapporto tra malattia e la cultura originaria
in cui essa si sviluppa. Dal 1951 in poi, grazie all’etnologo e psicoanalista Georges Devereux, il
termine di etnopsicoanalisi subentra a quello precedente di etnopsichiatria. Già nell’antichità si
poneva il problema dell’esistenza di malattie specifiche nelle differenti culture, ne è un esempio la
disquisizione tra Ippocrate ed Erodoto (Roudinesco, 1977, 271) a proposito della malattia degli
Sciti, antica popolazione della Russia meridionale.3 Tale disquisizione costituisce la premessa del
pensiero psicopatologico occidentale sospeso tra razionalità e magia. Con la diffusione delle idee di
Pinel e di Mesmer nel XIX secolo si anima il dibattito della psichiatria dinamica tra il versante
medico e quello magico-antropologico. Lo psichiatra Emil Kraepelin, il primo a classificare i
disturbi mentali nelle differenti culture, può essere considerato il fondatore dell’etnopsichiatria. Egli
pubblica i suoi studi, condotti a Giava e a Singapore all’inizio del novecento, nell’ambito della
psichiatria comparata. L’etnopsichiatria si diffonde in seguito con la medicina coloniale militare
2
Penso alle sofferenze narcisistico-identitarie descritte da Roussillon (1999, 2006) oppure ancora alle depressioni
essenziali, senza oggetto, come quelle che accompagnano i quadri psicosomatici descritti da Smadja (2001)e la loro
relazione con esperienze traumatiche su cui riflette la Ferruta (2010) nella sua introduzione al libro di Smadja.
3
Nel suo Trattato Delle arie delle acque e dei luoghi Ippocrate attribuisce l’impotenza sessuale e il travestirsi da
donne da parte di alcuni ricchi Sciti come una conseguenza della lesione degli organi genitali dovuta ad una eccessiva
pratica cavallerizza mentre Erodoto evoca un’origine sacra del disturbo che si trasmetterebbe da una generazione
all’altra.
4 anglofona in India e con quella francofona nella maggioranza dei paesi africani. Geza Roheim,
discepolo kleiniano di Freud e etnologo per passione, dà un nuovo impulso all’etnopsichiatria ma
sarà George Devereux, allievo del’etnologo Marcel Mauss ad unificare le due aree, quella
etnologica e quella psichiatrica (dove confluiscono anche l’antropologia e la psicoanalisi) sotto la
denominazione di etnopsicoanalisi.
A proposito di metodologia, Devereux (1972) approfondisce un metodo pluridisciplinare che
definisce complementarista traendo ispirazione dalle acquisizioni dell’epoca nel campo della fisica
quantistica (Schinaia, 2004); ci riferiamo alla coesistenza di due teorie esplicative relative alla luce,
quella ondulatoria e quella corpuscolare e agli studi di Werner Heisemberg e di Niels Bohr (1964,
45) sul principio di indeterminazione4 (Michel-Jones, 1986, 87). Devereux, nei suoi Saggi di
etnopsichiatria generale (1973,23) così si esprime in proposito: «C’è una differenza metodologica
fondamentale tra l’imprestare puro e semplice delle tecniche e la fecondazione reciproca dei
concetti. Le scienze davvero interdisciplinari sono prodotti di una fecondazione reciproca dei
concetti chiave che sottendono ciascuna delle scienze che le costituiscono». Mi rendo conto di
toccare una questione complessa, perché se nel senso inteso da Devereux il concetto di
fecondazione tra le varie discipline pare opporsi a quello di contaminazione intesa come alterazione,
la contaminazione d’altra parte potrebbe avere anche un significato di «costruzione», come segnala
Lucio Russo (2004) in un articolo dedicato a questo tema. Ritornando quindi alle definizioni
proposte dalla De Mijolla, la nozione di transdisciplinare occuperebbe in tale contesto una posizione
intermedia, rispettando l’ indipendenza dei campi attraversati in favore di una loro inter-dipendenza.
In sintesi, sul piano metodologico, il metodo complementarista espresso da Devereux implica che
l’analisi scientifica secondo un’ottica psichiatrica (o psicoanalitica) escluda la contemporaneità di
una analisi scientifica da un punto di vista etnologico e viceversa, per non incorrere nel rischio di
una confusione riduttivistica. Entrambe le indagini però, separatamente, concorrono a dare un
quadro più completo dell’oggetto osservato.
Dalla seconda metà del 900’ in poi, la complessità nell’adottare una metodologia
pluridisciplinare e la difficoltà incontrata nel coniugare aspetti diversi di campi affini hanno fatto sì
che né Roheim né Devereux abbiano formato discepoli o scuole di pensiero, come sostengono
alcuni esperti in materia tra cui Mellina (2001) e Roudinesco, (op.cit., 273). Quest’ultima sottolinea
infatti che l’antropologia psicoanalitica, nell’idea originaria dei suoi fondatori: «Abbia cessato di
esistere con loro per slittare sia sul versante della magia e della medicina tradizionale che su
quello della militanza anti occidentale» o, ancora, sia stata attratta dal magnete di un radicalismo
culturale, ostile alla psicoanalisi. Non dimentichiamo tuttavia l’importante contributo di alcune
4
Ricordiamo che George Devereux ungherese di nascita, figura eclettica e poliglotta, arriva a Parigi nel 1926 per
compiere studi di fisica presso il laboratorio di Marie Curie, prima di dedicarsi alle scienze umane. Riportiamo un
passaggio del libro di Niels Bohr (1964) Physique atomique et connaissance humaine su cui si basa la nozione di
complementarismo. «Informazioni ottenute sul comportamento di un solo e stesso atomo in determinate condizioni di
esperienza che si escludono reciprocamente possono essere descritte come complementariste: benché sia impossibile
raccogliere in una immagine unica descritta con concetti di uso quotidiano esse rappresentano ciascuna aspetti
ugualmente essenziali di tutto ciò che si può apprendere in questo campo sull’oggetto in questione».
5 figure carismatiche come quella di Tobin Nathan, allievo di Devereux, a cui dobbiamo un ulteriore
sviluppo clinico e teorico della etnopsicoanalisi in Francia.5 La Psichiatria Transculturale, infine,
nasce in Canada nel 1957 con Eric Wittkover che istituisce una sezione così intitolata, all’interno
del Dipartimento di Psichiatria presso la Mc Gill University a Montreal. La PT indica un campo di
indagine simile a quello della etnopsicoanalisi, ricorda Sergio Mellina, specialista di Psichiatria
multiculturale nella sua panoramica sull’argomento. La scuola canadese a cui appartengono
Murphy, Wintrob e altri psichiatri antropologi operanti sul campo dà un notevole contributo allo
studio della stregoneria (Witchcraft) nella seconda metà del XXI secolo. Essa si struttura anche
nell’intento di reagire alle contestazioni dell’epistemologo viennese Karl Raimund Popper che
riteneva la psicoanalisi una non-scienza. Dagli anni ‘50 in poi, sorgono sparsi per il mondo, centri
di studio ed équipe pluridisciplinari operanti in vari contesti culturali. Oltre alla realtà canadese,
ricordiamo gli studi dello psichiatra francese Collomb6 sulle patologie psicosomatiche a Dakar in
Senegal, mentre Devereux approfondisce gli usi e costumi dei Sedang Moi in Vietnam e dei
Mohave7 in Arizona.
E in Italia? Anche in Italia vi sono stati illustri pionieri della transculturalità come Ernesto de
Martino (1958) a cui dobbiamo importanti riflessioni sul mondo magico-rituale dell’Italia del sud e
Michele Risso (1964) di cui ricordiamo gli scritti relativi agli immigrati italiani in Svizzera. Eppure,
per una sorta di clamorosa rimozione collettiva italiana del proprio passato migratorio, queste
figure, contrariamente à ciò che è avvenuto altrove, non sono mai state abbastanza valorizzate.
Concordiamo con quanto scrive Mellina (2001,10): «Verrebbe da chiedersi perché la psichiatria
italiana nello studiare la diversità degli immigrati degli altri giunti nel nostro paese, ritenga
propedeutico e imprescindibile compitare nelle transculturalità altrui, dimenticando di possedere
sufficienti nozioni etnopsichiatriche fornite dagli emigrati di casa propria». Senza addentrarsi nei
dettagli è importante segnalare come molti Servizi di Salute Mentale8 nel territorio italiano si siano
5
Tobie Nathan fonda il «Centre Georges Devereux», Centro Universitario di aiuto psicologico per le famiglie dei
migranti, a Parigi. (Paris VIII)
6
Negli anni 60’ Henri Collomb coordinò un’équipe multidisciplinare di cui facevano parte psicoanalisti, etnologi,
antropologi ed altre figure, in grado di affiancare i guaritori locali su temi connessi alla Stregoneria. Collomb e
Colleghi approfondirono gli aspetti psicodinamici in campo depressivo e psicosomatico. Ad Ortigues dobbiamo
l’elaborazione del concetto di Oedipe africain, relativo alle dinamiche gruppali.
7
Dall’esperienza con i Mohave ne scaturì il libro «Reality and Dream» (1969) accolto con grande entusiasmo
dall’antropologa Margaret Mead e fonte di preziose informazioni sulla cultura degli indiani nordamericani. Si tratta di
un resoconto originale del trattamento psicoterapico di un indiano delle pianure. Una curiosità: Il regista francese
Arnaud Desplechin si ispira a questo libro per girare un film negli USA, in programmazione per il 2013, dal titolo:
AKA (Also Known As) Jimmy Picard, con l’attore Benicio del Toro.
8
Non è possibile elencare qui le varie realtà esistenti, ci limitiamo a segnalare la presenza del «Centro di psichiatria
multietnica Georges Devereux», (Istituto di Psichiatria P. Ottonello, Università di Bologna), fondato dallo psichiatra
Alberto Merini e colleghi negli anni ’90 e a cui abbiamo fatto riferimento per la raccolta di informazioni utili alla
stesura di questo scritto. Inoltre tra gli Autori italiani non citati nel mio lavoro e che, a partire dagli anni ’70, 80’, hanno
approfondito questo argomento, vorrei ricordare in particolare Piero Coppo e Lelia Pisani, Salvatore Inglese e Giuseppe
Cardamone.
6 sensibilizzati alle tematiche migratorie negli ultimi venti anni e attrezzati di conseguenza con
progetti formativi e clinici.
Il presente migratorio: tra culture «ibride» e pensiero «meticcio»
Sconfinerò un poco nel campo antropologico senza tuttavia avere la pretesa di dipanare la
complessa matassa culturale che fa da cornice a questo scritto poiché mi sembra importante
soffermarmi su due nozioni dell’antropologia contemporanea che ben si prestano ad inquadrare il
fenomeno sfuggente della migrazione. Alludo ai concetti di cultura ibrida e di pensiero meticcio che
vengono approfonditi da Fabietti e Coll.(2012,149-151) nel loro testo «Dal tribale al globale». Se
infatti il termine ibrido rimanda di per sé stesso all’idea di una cultura supposta come pura, gli
Autori ricordano prontamente che non esistono in realtà culture «pure» e che le culture, immerse in
un flusso dinamico si influenzano l’una coll’altra attraverso un processo di traffico delle culture,
metafora quest’ultima che esprime: «l’intensità e la rapidità che caratterizzano l’incontro fra
culture nella contemporaneità (…) e anche quelle molteplici e complesse dinamiche caratterizzanti
fenomeni di ibridazione (culturale) (…) e di cui abbiamo quasi sempre una percezione parziale,
sovente contraddittoria, a volte banale e talvolta assolutamente “misteriosa”». La cultura ibrida,
spinta ad una costante riformulazione di sé stessa, sviluppa allora un pensiero meticcio. Potremmo
definire quest’ultimo come un concetto alimentato dalla dialettica, del «locale» e del «globale».
Dialettica secondo la quale una «cultura vede trasformati i propri valori e significati (locali) in
rapporto a ciò che le giunge dall’esterno. Questo “esterno” non si configura però come un’altra
cultura (per esempio una cultura limitrofa) ma come un insieme di fenomeni che interessano
indistintamente tutte (o quasi tutte) le culture» (Fabietti, ibid., 153). Ad esempio un fenomeno
«globale» che si infiltra nelle varie realtà ‘locali’è rappresentato dal mercato degli elettrodomestici
o dalla diffusione della televisione.9
La cultura, attraversata da processi di «ibridazione culturale» in questa epoca di
globalizzazione, si è profondamente evoluta e non sarebbe più rappresentabile come un contenitore
statico nella maniera in cui l’intendeva l’antropologia classica di Tylor10. In altre parole, ci troviamo
di fronte a «un mondo globale e dei mondi locali», come sottolinea Geertz (1999) e dunque di
fronte ad una cultura intesa come transnazionale e rappresentata da delle «strutture di significato
che viaggiano su reti di comunicazione sociale non interamente situate in un singolo territorio»
(Hannerz, 1998, 322, in Fabietti, 164).
L’antropologo statunitense di origine indiana Appadurai (1996), infine, introduce la nozione
di etno-rama o panorama etnico per designare le nuove configurazioni identitarie e gli attuali
9
Un intreccio tra «locale» e «globale» come frutto dell’ibridazione culturale è rappresentato dall’episodio citato
dall’antropologo Remo Guidieri e riportato da Fabietti (op. cit., 153). Pare che a Singapore, scrive Guidieri, i feticci
vengano messi in frigo onde conservarne meglio le proprietà (!)
10
Riporto al definizione di cultura di E.B.Tylor: «La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è
quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra
capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società» (Tylor, 1970 [1871] p.1).
7 scenari socioculturali. Il panorama etnico dunque, esprime l’idea di delocalizzazione culturale e di
deterritorializzazione11 in quanto vi è uno scorporamento tra individuo, cultura e luogo.
Alla luce di questi riferimenti antropologici pensiamo che proprio lo scorporamento appena
descritto si riverberi su quanto noi possiamo, come curanti, offrire ai nostri pazienti migranti.
Innanzitutto vi è una distinzione da fare tra coloro che afferiscono ai Servizi pubblici di Salute
Mentale con problematiche più prettamente psichiatriche o psico-sociali e spesso in condizioni di
urgenza e quelli che possono permettersi di accedere a prestazioni private in campo psicoterapico
e/o psicoanalitico. Un elemento comune con cui in ogni caso ci confrontiamo è che spesso il
migrante odierno incarna la contraddizione di essere presente ma non appartenente ad un territorio,
con tutte le conseguenze che questo fatto implica (Fabietti, op. cit). Egli infatti più che «radicarsi»
tende a passare nel paese ospite per un periodo più o meno definito e con scopi svariati come ad
esempio quello di accumulare risorse onde mantenere le famiglie d’origine rimaste in patria oppure
ancora transita per motivi di studio o di specializzazione professionale (pensiamo agli studenti
ERASMUS e più in generale anche all’aumento della mobilità intraeuropea, tralasciando in questa
sede il problema dei clandestini). Quello che qui vorrei sottolineare è che il nuovo scenario
migratorio si intreccia a quello più classico realizzando un panorama complesso, di non facile
orientamento. Entrambi tuttavia, lo «straniero» di un tempo o il migrante di oggi,nella loro
indefinibilità o nel loro essere inafferrabili conservano un alone inquietante nella mentalità
collettiva. Del resto Zygmunt Bauman, imprestando a Sartre l’espressione di viscosità, descrive così
l’esperienza dell’incontro con lo «straniero»: «Entrare in contatto col viscoso significa rischiare di
dissolversi in esso» (J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. in Bauman, 2010). Ad un altro livello di
riflessione, non potremmo dunque chiederci con Fabietti (op, cit., 172) se: «questo straniero, questo
viscoso e ineliminabile “altro da noi” (l’extracomunitario, il clandestino, il rom…) è, nella
situazione di crisi che sta attraversando oggi l’Occidente, figura evocatrice più della “precarietà
del noi” che non della presenza degli “altri tra noi”»?
Siamo però consapevoli che le configurazioni individuali e collettive mutano più velocemente
di una volta e che «(…) all’ombra della globalizzazione e delle culture transnazionali si
riformulano le identità individuali e collettive» (Fabietti, ibid., 175). Ma qual’è dunque la
riformulazione della identità in transito del migrante e quali sono i margini per lo sviluppo di un
pensiero meticcio? Vediamo adesso aspetti più propriamente psicodinamici, relativi alla identità,
alle turbe linguistiche e alle difese implicate nello stress migratorio come quella regressiva o quella
legata alla somatizzazione.
Quale identità per il migrante? Ricadute su temporalità e linguaggio
Il termine di identità, come ricorda anche il filosofo Maffettone (2002), non è mai stato
trattato da Freud in modo sistematico eccetto che nel Progetto per una psicologia dove egli descrive
uno «stato di identità» secondo un’ottica più tecnica, nell’ambito dell’organizzazione neuronale dei
11
Appadurai parla anche di «panorami» tecnologici, finanziari, mediatici e via dicendo, inoltre sottolinea come la
deterritorializzazione in particolare sarebbe al centro non solo di scambi sul piano culturale quanto di fondamentalismi e
rivendicazioni identitarie per far fronte alla minaccia di «perdita di identità».
8 processi di pensiero. Nei suoi scritti sulla filosofia sociale (Totem e Tabù, Il disagio della civiltà
solo per citarne alcuni) Freud accorda invece un certo peso al concetto di «identificazione»,
concetto che, scrive Maffettone (32-33): «(…) ha una funzione fondamentale alla luce della
filogenesi e dell’ontogenesi del soggetto, soprattutto se consideriamo il soggetto come parte di un
gruppo o di un collettivo (…) e costituisce una forma primitiva anzi la forma più originaria della
libido individuale». Nella mia osservazione il concetto di identità potrebbe includere per estensione
quello di identificazione e di soggettività distinguendosi da quello di «identità etnica», appartenente
all’area etno-antropologica dove il campo si allarga dall’individuo alla società.
La migrazione comporta un cambiamento radicale e provoca una crisi che può sfociare in una
catastrofe o al contrario tradursi in una evoluzione arricchente e creativa, nel senso di una rinascita
rigeneratrice, come sottolineano gli psicoanalisti argentini Léon e Rebeca Grinberg (1990).
L’attacco al sentimento di identità proviene da più fronti, nella misura in cui vengono messi in crisi
i «vincoli» che lo compongono: quello spaziale che indica il rapporto tra le varie parti del sé e le
relazioni oggettuali interiorizzate, il vincolo temporale che unisce le diverse rappresentazioni di sé
nel tempo conferendo un senso di continuità all’individuo tra passato presente e futuro ed infine il
vincolo di integrazione sociale che sta alla base del senso di appartenenza al contesto sociale. Le
difese attuate nelle condizioni di stress migratorio, segnalano la compromissione di questi vincoli.
Nel 1967 Georges Devereux, in un articolo psicoanalitico ricco di riferimenti etno-antropologici,
offre l’esempio di una difesa basata sulla rinuncia all’identità. Tale rinuncia si declina nelle forme
estreme di destrutturazione psicotica, oppure nel mascheramento nevrotico fino allo sviluppo di un
falso Sé. In questo articolo Devereux, che tra l’altro aveva cambiato il proprio nome (il suo vero
nome era Georg Dobò) mostra come in certe circostanze, sia proprio l’occultamento della identità
originaria quella che permette all’ individuo di sopravvivere, seppur nell’ombra, anche se questa
operazione si traduce in una «sottrazione» di identità. Lo studioso Vincenzo Russo (2009, 80)
ricorda d’altronde che la storia della soggettività del migrante sia «spazialmente possibile solo nel
paese di destinazione (e) si costruisca interamente per sottrazione ed inferiorizzazione». Alcuni
meccanismi mimetici del resto, come l’adozione da parte del migrante di tratti camaleontici che gli
consentano un buon adattamento al nuovo contesto operano, a livello profondo, una distorsione
dell’identità originaria. «… Nelle società multiculturali (…) i disagi identitari appaiono molteplici
e laceranti, spesso “occultati” in maschere di perfetta integrazione mentre le identità nomadi
faticano a trovare un luogo psichico in cui abitare ed uno spazio simbolico in cui radicarsi», come
a questo proposito sottolinea anche la De Micco (2004, 185).
Sul piano clinico il «trauma» della migrazione si accompagna a dilatazioni e o deformazione
anche minime della temporalità sul filo di una memoria variamente sollecitata dalle vicissitudini
migratorie. Come osserviamo nel trattamento terapeutico, potremmo dire che la disarticolazione
spazio-temporale si esprima nella tendenza del migrante a sostare oltremodo, quasi ad installarsi in
una regressione12 di tipo temporale da cui egli fatica ad uscire. La regressione rappresenta, di
12
Il termine «regressione», di cui non esiste una definizione psicoanalitica precisa e che introduce essenzialmente il
concetto di temporalità, compare per la prima volta nel 1900, ne L’interpretazione dei sogni. Freud distingue una R.
topica, all’interno dell’apparato psichico, una R. formale quando si sostituiscono modi primitivi di espressione a quelli
abituali ed infine una R. temporale, verso formazioni psichiche anteriori. Benché questi tre tipi di R. siano tra loro
connessi e si influenzino a vicenda possiamo talvolta notare il prevalere dell’uno sugli altri. (A.De Mijolla, 2002)
9 norma, l’articolazione tra la temporalità (e simbolizzazione) del processo secondario e
l’atemporalità dell’inconscio ed esprime la necessità di ridurre lo iato interno delle temporalità che
ci abitano. A proposito di questo iato, Roussillon (1999,37) ricorda come al di là della ‘cronologia
personale’ che scandisce la nostra elaborazione secondaria non riusciamo a sottrarci all’incessante
confronto interno con la logica primaria della atemporalità, una logica che «disconosce il tempo».
Egli dunque individua nella regressione l’occasione per produrre «pensieri intermedi» (o
formazioni di pensiero scaturiti dalle sollecitazioni degli ‘eteromorfismi’ che ci attraversano) nel
tentativo di riunire gli imperativi categorici della nostra simbolizzazione primaria con quella
secondaria. Sappiamo inoltre che il fenomeno della regressione è parte integrante e necessario di
ogni processo terapeutico di cui rappresenta una delle tappe (regressione terapeutica). Quello che
vorrei evidenziare qui è che il migrante in ragione delle sue vicissitudini, viene tagliato fuori da una
consueta armonia spazio-temporale e incappa in una sorta di sospensione identitaria. Catturato nelle
maglie di una «erranza permanente» investe, come già abbiamo visto, dei nonluoghi interni: non è
né qui né altrove mentre la sua memoria si scompagina inseguendo una temporalità sfasata.
(Roussillon evoca a questo proposito l’idea dell’uccisione del tempo, 1999, 41).
Attilio, giovane emigrante con più di una nazionalità residente in Italia da alcuni anni, è
combattuto tra l’accettare una allettante proposta lavorativa che lo porterebbe in un altro
paese straniero e far ritorno all’amato paese della sua infanzia. L’attuale realtà del paese
d’infanzia dove le condizioni di vita sono estremamente precarie pare totalmente offuscata
dalla memoria di un passato felice che domina la mente di Attilio non consentendogli la
formulazione di «pensieri intermedi», Attilio è ostaggio di una regressione temporale tarata
sulla memoria di un aspetto del passato e le temporalità consce ed inconsce si sovrappongono
in un intreccio confusivo. L’affrontare i vari piani psichici nel corso del trattamento analitico
permetterà ad Attilio di uscire dallo stallo regressivo, potendo distinguere e separare il ricordo
del passato dal progetto di realtà, che ora può iscriversi in una temporalità in movimento. La
dolorosa reintegrazione dei ricordi apre l’accesso ad una riformulazione identitaria che tiene
conto non solo delle difficoltà psicologiche di Attilio ma anche delle caratteristiche della sua
peculiare biografia che diventa oggetto di una nuova «ricollocazione» psichica ed esistenziale.
Nelle sedute i ricordi riconducono Attilio alle sicure coordinate di un paese natio interno
rispetto al suo «spaesamento» nell’incontro con una alterità che per Attilio migrante è ancor più
perturbante, poiché se «L’incontro con l’altro è sempre traumatico», come scrive Tobin Nathan, per
il migrante si tratterà di una alterità al quadrato che pone il problema, di certo non soltanto
linguistico, della traducibilità nel dibattersi tra lingua materna e lingua «matrigna». Amati Mehler e
Coll. (2003) approfondiscono quest’ultimo argomento a partire dalla teorizzazione freudiana della
rappresentazione di cosa e di parola. Sappiamo che lo sviluppo dell’individuo è condizionato
dall’impronta delle prime percezioni del bambino nella relazione con la madre e dunque la
rappresentazione di cosa indica la traccia mnesica originaria in rapporto con la cosa concreta. Si
costituisce così il sistema di rappresentazione inconscia, regno delle immagini e della dimensione
visiva, mentre l’acquisizione della parola segnala il passaggio dal processo primario inconscio a
quello secondario conscio dove domina la sensorialità acustica. In sintesi, la rappresentazione
inconscia sarebbe costituita dalla sola rappresentazione di cosa mentre la rappresentazione
10 conscia si baserebbe sulla rappresentazione di cosa più quella di parola. Cosa accade allora nel
multilinguismo o nel bilinguismo? Lo iato tra le temporalità che ci abitano è anche lo iato tra le due
simbolizzazioni quella del processo primario – dunque della rappresentazione di cosa – e quella del
processo secondario – cioè della rappresentazione di parola e di cosa. Ora, nel multilingue vi
sarebbero più rappresentazioni di parola per una stessa cosa e in condizioni di lutto non elaborabile
dei vari passaggi migratori può accadere che il dolore dello sradicamento scompagini il gioco
linguistico della rappresentazione di parola, la quale non è più distinguibile dalla rappresentazione
di cosa; il collasso delle rappresentazioni simboliche allora fa sì che la parola si «cosifichi»
diventando tutt’uno con la «cosa concreta».
Alicia è una giovane donna nordafricana in cura per uno stato depressivo. Se nei primi
tempi del suo arrivo il citron (limone in francese) che profuma del paese di origine e che cresce
nel giardino di sua nonna, è diverso eppure simile da quel limone in vendita nelle bancarelle
della fredda città europea in cui ora ella vive, ad un certo punto dell’acme depressivo il citronlimone perde ogni significato, non rinviando più ad alcuna appartenenza e trasformandosi in
un oggetto quasi persecutorio.
Lo stallo linguistico e il disinvestimento del linguaggio può tradursi in una sofferenza che si
incista nel corpo quando si disgreghino i sistemi di simbolizzazione. La difesa regressiva del
migrante si esprime allora con somatizzazioni e il corpo malato che sostituisce la parola,
rappresenta l’unica identità possibile. La fissazione somatica13 esprime del resto un tentativo di
ancoraggio, seppur patologico, di fronte di un vuoto interno divenuto intollerabile.
Riflessioni conclusive
Addomesticare il vuoto: la soluzione artistica di Bruno Catalano, uno «scultore
della migrazione»
Tempo, vuoto, spazio e assenza. Ho riflettuto (etno) psicoanaliticamente su questi termini
indagandone le reciproche connessioni e seguendo alcune tracce. La vastità del tema lascia però sul
campo molte questioni irrisolte ed una certa non saturazione riguardo ai quesiti in gioco. Ciò che
non è descrivibile con le parole può però, talvolta, trovare un canale espressivo attraverso la
rappresentazione artistica. Penso alle opere di uno ‘scultore della migrazione’, l’italo-francese
Bruno Catalano, opere di cui riporto due immagini nel mio lavoro. Egli scolpisce bronzi di
grandezza naturale ispirati a viaggiatori o migranti in cammino. Tutte le sue figure, con una valigia
alla mano, esprimono un’idea di movimento. La spettacolarità di questi bronzi sta nel combinare la
13
La difesa regressiva somatica si apparenta a mio avviso alle cosiddette “nevrosi da indennizzo”che ho potuto
riscontrare nei servizi di Salute Mentale della Svizzera francese (Cantone di Vaud), dove il proliferare delle richieste di
invalidità permanente a seguito di traumi fisici per incidenti professionali, da parte di lavoratori emigrati, non era
correlato con l’effettivo tasso di guarigione clinica dei disturbi in causa. Era come se l’insulto somatico innescasse una
richiesta (inesauribile) di risarcimento per un danno più psichico che corporeo ed in rapporto con aspetti non elaborati
del trauma migratorio.
11 presenza materica della scultura con il vuoto, un vuoto estesamente rappresentato. Esso infatti
sembra ‘spinto’ agli estremi: la figura è scavata al suo interno, quasi dematerializzata, le membra
appaiono sospese nel vuoto tanto che l’osservatore si chiede come l’opera possa stare in piedi. Un
secondo sguardo alla scultura ci illumina a questo proposito: su uno dei suoi versanti si profila un
sottilissimo filo bronzeo di continuità ‘suggellato’ dalla presenza della valigia o di un’ altra borsa da
viaggio che sembrano così garantire la stabilità della scultura nel suo complesso.
Mi è sembrato che la soluzione artistica di Catalano potesse rappresentare un esito creativamente
riuscito dello sradicamento e della sospensione identitaria. Ho appreso dalla biografia di Catalano
che le sue opere sono il frutto di un doloroso percorso di trasformazione. Egli infatti, notando
l’inaspettato deterioramento del busto di una sua scultura, in una fase in cui ancora scolpiva figure
‘piene’, venne colto, un giorno, da profondo sconforto. Tuttavia non cedette alla disperazione e
scavando ulteriormente il
tronco della figura alterata realizzò un’opera nuova che, messa in vendita, riscosse un immediato
successo. Questo episodio segnò la svolta artistica di Catalano e il conseguente decollo sulla scena
internazionale.14 La caratteristica dei suoi bronzi è che il vuoto si presta ad essere ‘riempito’ da
sfondi mutevoli. Alcune delle sue opere per esempio sono esposte all’esterno come in parchi o in
altri luoghi pubblici, e il profilo della scultura si staglia sullo sfondo retrostante, incorniciando il
paesaggio all’interno dello spazio mancante.
E noi, in quanto clinici, quale cornice possiamo offrire all’ emigrazione?
14
Nel 2005 espone per la prima volta a Parigi la sua serie di bronzi de’ “I Viaggiatori” (Immagine all’inizio del testo).
12 («Le Grand Van Gogh», Marsiglia, Francia)
Scrive l’antropologo de Certeau (1990) «Là dove la mappa divide, il racconto attraversa». La
riformulazione identitaria compromessa si riavvia nel processo di «rinarrazione» intrapsichica resa
possibile dalla relazione terapeutica. Il compito dell’analista sarà quello di tessere tutti i nessi
possibili tra i vari livelli verbali e non verbali in una rete di continue «ritrascrizioni». Nella
relazione col migrante ciò che conta non è tanto , come scrive la De Micco (1993, 20) «studiarsi di
aderire all’universo simbolico dell’altro quanto piuttosto intuire costantemente la qualità simbolica
della coreografia terapeutica in cui medico e paziente sono coinvolti e sforzarsi di costruire un
universo referenziale ‘meticcio’ abitabile per entrambi».
La cultura, come abbiamo potuto vedere, è condizionata da elementi locali e globali che la
influenzano e la trasformano e la stessa cosa avviene sul piano dell’individuo, la cui identità è in
bilico fra conservazione e trasformazione (tra tratti «locali», originari, che potrebbero rievocare il
materno e tratti «globali», esterni, più di impronta paterna). Se dunque la tradizione a fronte della
paura del nuovo rappresenta il tentativo di «fissare» l’identità, di per sé stessa soggetta a una
continua mutazione, la frattura della migrazione contiene il rischio di un irrigidimento sul versante
tradizione/conservazione e può costituire un ostacolo sulla via della riformulazione identitaria del
migrante e della trasmissione tra le generazioni. Dove non vi siano le condizioni per una
integrazione psichica delle nuove acquisizioni, per esempio di un nuovo linguaggio, il migrante
entra in crisi e la sua identità rischia di «lacerarsi» sul filo di questa o quella deriva patologica.
13 Ma l’identità in transito è anche quella che in uno sviluppo felice si arricchisce e si fortifica
nella esperienza migratoria. Non vi sarebbero più parti dell’Io incastonate in nicchie rocciose né
uno svuotamento identitario che lascia l’Io desertificato. Si costituirebbe invece una nuova mappa
interna composta da luoghi psichici distinguibili gli uni dagli altri e separati da limiti flessibili e
valicabili piuttosto che da rigide difese. Sarà dunque possibile in questa geografia interna
«addomesticare» il vuoto arredandolo con nuovi sfondi così come avviene nella dimensione
artistica messa in scena da Catalano? Il titolo di questo numero di Psiche, «Psicoanalisi e psichiatria
– incontrarsi o dirsi addio?» mi fa pensare ad una possibile coesistenza tra «pieno» e «vuoto», che
in giuste proporzioni concorrono alla realizzazione di un’opera d’arte. Mentre sul piano scientifico
tale coesistenza potrebbe segnalare l’apertura a più soluzioni possibili o a cammini differenti verso
una meta comune: l’efficacia terapeutica, il bene del paziente. In un saggio sull’identità
l’antropologo Lévi-Strauss (1973, 201) riflette sulle appassionate discussioni tra psichiatria e
psicoanalisi relative al tema dell’innato e dell’acquisito e scrive: «Davanti ad un caso patologico
può essere difficile sapere se la patologia è la conseguenza di un programma (genetico) come
affermano certuni oppure se esso dipenda dalle circostanze acquisite come altri vorrebbero. In ogni
caso possiamo sempre immaginare che due programmi differenti abbiano due identiche
realizzazioni».
SINTESI
Uno «sguardo-lampo» sul vasto tema della psicopatologia dell’emigrazione di cui si ripercorre a
grandi linee la storia e lo sviluppo. Un approfondimento di alcuni aspetti che caratterizzano le dinamiche
migratorie attuali. Attraverso la rivisitazione di testi psichiatrici e psicoanalitici in materia e alla luce di
qualche concettualizzazione antropologica, si descrivono i chiaro-scuri della metamorfosi identitaria a cui è
sottoposto l’individuo migrante. Nel campo della salute mentale si è confrontati in particolar modo con la
«lacerazione identitaria», cioè con quel versante della sofferenza che investe l’area del linguaggio del
migrante, il suo vissuto spazio-temporale e la dimensione corporea. In campo psichiatrico e psicoanalitico la
relazione terapeutica, consentendo una riformulazione identitaria, può offrire al migrante le condizioni
affinché egli raggiunga una migliore integrazione interna, accedendo così ad una «identità in transito», come
espressione di arricchimento personale.
PAROLE-CHIAVE: Etnopsichiatria, identità in transito, lacerazione identitaria, migrazione, pensiero
meticcio, sradicamento.
BIBLIOGRAFIA
Amati Mehler J., Argentieri S., Canestri J. (2003). La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere
nella dimensione psicoanalitica. Milano, Cortina.
Augé M. (1992). Nonluoghi (introduzione a una antropologia della surmodernità). Milano, Eleuteria, 2009.
Bauman Z. (1991). Modernità e ambivalenza. Milano, Bollati Boringhieri, 2010.
Beneduce R. (1993). Geografie della memoria. Considerazioni clinico-antropologiche su migrazione e salute
mentale. In De Micco V. e Martelli P. (a cura di) Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni.
Napoli, Liguori.
14 Bohr Niels (1964). Physique atomique et connaissance humaine (tr.it. Teoria dell’atomo e conoscenza
umana. Torino, Boringhieri, 1961).
Cioran E.M. (1960). Histoire et Utopie. Paris, Gallimard (tr.it. Storia e Utopia. Milano, Adelphi,1982).
De Certeau M. (1990). L’invention du quotidien. 1. Arts de faire, Paris, Gallimard (tr.it. L’invenzione del
quotidiano. Roma, Ed.Lavoro,2001)
De Martino E. (1958). Morte e pianto rituale. Torino, Einaudi.
De Micco V. (1993). Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni. Napoli, Liguori.
De Micco V. (2011). Dal Trauma alla Memoria. Il ‘gruppo interno’ tra origine e appartenenza in bambini
migranti. In Lombardozzi A. e Caselli A.(a cura di) Gruppo e migrazioni. Funzione Gamm, Riv.Tel.
Roma, Università della Sapienza.
De Mijolla-Mellor S. (2004). Le interazioni della psicoanalisi. Psiche, XII,1,27-38.
De Mijolla A. (2002). Régression. In Dictionnaire International de la Psychanalyse. Paris, CalmannLévy,1422.
Devereux G. (1951). Reality and dream: Psychotherapy of a Plains Indian. New York, University Press,
introd. Margareth Mead, 1969.
Devereux G. (1967). La renonciation à l’identité: défense contre l’anéantissement. Rev. Franç. Psychanal.,
31,1.
Devereux G. (1972). Ethnopsychanalyse complémentariste. Paris, Flammarion.
Devereux G. (1973). Saggi di etnopsichiatria generale. Roma, Armando, 1978.
Fabietti U., Malighetti R., Matera V. (2012). Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia. Milano,
Mondadori.
Freud S. (1895). Progetto di una psicologia. O.S.F., 2.
Freud S. (1912-13). Totem e tabù. O.S.F., 7.
Freud S. (1929). Il disagio della civiltà. O.S.F., 10.
Frigessi D. (1993). Il modello patologico dell’immigrazione. In De Micco V. e P. Martelli (a cura di)
Passaggi di confine. Etnopsichiatria e migrazioni. Napoli, Liguori.
Geertz C. (1999). Mondo globale, mondi locali. Bologna, Il Mulino.
Grinberg L. e R. (1984). Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio. Roma, Franco Angeli, 1990.
Lévi-Strauss C. (1973). L’identité. Paris, Grasset et Fasquelle (tr.it. L’identità. Palermo, Sellerio, 1996).
Maffettone S. (2002). Psyché e polis. Un percorso psicoanalitico per ridefinire la teoria politica dell’identità.
Psiche, X, I, 31-53.
Mellina S. (2001). Se l’altro è un immigrato. Aspetti multiculturali della salute e dell’incontro con l’altro.
Psicoanalisi e metodo. N1, Pisa, ETS.
Merleau-Ponty M. (1945). Phénoménologie de la perception. Paris, Gallimard (tr.it. Fenomenologia della
percezione. Milano, Bombiani, 2003).
Michel-Jones F. (1986). Georges Devereux et l’ethnologie française. In Métamorphose de l’identité. Nouv.
Rev. d’Ethnopsychiatrie,1, 6, 81-94.
Ødegaard Ø. (1932). Emigration and Insanity: A study of mental disease among the Norvegian-born
population of Minnnesota. Acta Psichiatrica Scandinavica, Suppl. 4.
Raison J.P. (1980). Migrazione. In Enciclopedia. Torino, Einaudi, 9, 285-311.
Risso M., Boker W. (1964). Verhexungswahn. Basel, New York, Karga (tr.it. Sortilegio e delirio. Lanternari
V., De Micco V., Cardamone G. (a cura di), Napoli, Liguori, 1992).
Roudinesco E., Plon M. (1997). Ethnopsychanalyse. In Dictionnaire de la psychanalyse, 271. Paris, Fayard.
Roussillon R. (1999). Agonie, clivage et symbolisation. Paris, PUF.
Roussillon R. (2006). La temporalité psychique. Paris, Dunod.
Russo L. (2004). Contaminazioni, costruzioni. Psiche, XII,1, 39-55.
15 Russo V. (2009). Il monolinguismo dell’altro: subalternità, voce e migrazione. Altre Modernità. Milano,
Univ. Studi di Milano, Saggi, N. 2,79-89.
Sartre J.P. (1943). L’essere e il nulla. Milano, il Saggiatore, 1991.
Schinaia C. (2004). Fisica e psicoanalisi: un incontro fertile. Psiche, XII, 1, 91-106.
Smadja C. (2001). La vie opératoire : Etudes psychanalytiques. Paris, PUF (tr.it. La via psicosomatica e la
psicoanalisi. Prefaz. A. Ferruta. Milano, Angeli, 2010).
Tylor E.B. (1871). Cultura primitiva. In Rossi P. (a cura di), Il concetto di cultura. Torino, Einaudi, 1970.
16