Proposta per la strutturazione del programma di lavoro - T

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Proposta per la strutturazione del programma di lavoro - T
n. 504666-LLP-1-2009-1-IT-LMP
V Incontro
“Etnopsichiatria: storia di una nozione controversa. Dal “complesso di dipendenza” alla
“sindrome nord-africana”; da Dakar -Fann ad Abeokuta”.
Relatore: dott. Roberto Bertolino
Il dott. Bertolino esordisce osservando che l'etnopsichiatria rischia di cadere nella dimensione
esotica della sofferenza del migrante. In fondo la storia della psichiatria non è altro che una parte
della storia della cultura (Devereux). Ma l’etnopsichiatria non è solo una disciplina scientifica: è la
rappresentazione della persona, della storia della persona.
In un’analisi storiografica, secondo molti l’esordio della psichiatria transculturale si ha con
Kraepelin (padre della nosografia psichiatrica), che nel 1904 studia l’Amok in Melanesia con un
approccio comparativo. Egli classifica la malattia mentale non tanto a partire dalle cause, ma dai
comportamenti. Il primo ad utilizzare il termine etnopsichiatria fu però lo psichiatra haitiano Louis
Mars, nel 1953. Viene poi proposta una panoramica storica e Bertolino sottolinea come la Scuola di
Algeri (1918) non prendesse in considerazione il rapporto tra violenza coloniale e sviluppo della
sofferenza psichica. Tutto veniva interpretato in ragione delle presunte caratteristiche psichiche
degli “africani”.Categorizzare una sindrome come culturale, come avvenuto nel caso dell’amok,
non ha senso proprio perché la cultura è in continuo mutamento.
Viene poi introdotta la figura di Octave Mannoni, la questione del rapporto tra il colonialismo e le
nuove configurazioni del Sé e il controverso “complesso di dipendenza” da lui teorizzato, secondo
cui le manifestazioni ansiose dei colonizzati altro non erano se non espressione della paura di essere
abbandonati dai colonizzatori.
Il dott. Bertolino si sofferma quindi sulla figura dello psichiatra martinicano Frantz Fanon e sui suoi
principali contributi. Secondo Fanon, che critica il concetto di psicosi reattiva, la psichiatria
istituzionale nel contesto coloniale è uno strumento conforme all’ordine coloniale. Egli inoltre
critica all’utilizzo dei test di personalità con soggetti provenienti da contesti culturali differenti da
quelli occidentali (caso del Thematic Appercpetion Test). Viene preso in esame il suo articolo del
1952 “Le syndrome nord-africain” e le sue tre tesi ivi sostenute:
1- Il comportamento del nordafricano genera nei medici un atteggiamento diffidente rispetto
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alla realtà della malattia;
2- il migrante diviene un “malato immaginario”, precipitato all’interno di una rete si significati
che lo precedono;
3- vi è la necessità di una diagnosi “situazionale”, cioè di collocare il problema clinico
all’interno dei contesti di vita quotidiana.
Nel pensiero di Fanon non è possibile alcun rapporto di cura tra medico coloniale e malato
colonizzato dal momento che non vi può essere cura all’interno di un processo vlto più
all’assimilazione che al riconoscimento; inoltre, la cosiddetta “pigrizia” mentale, i silenzi, le
negazioni del colonizzato sono inscrivibili in un registro di resistenza politica e andavano
interpretati come un rifiuto a partecipare alla cultura dei colonizzatori. Fanon, e dopo di lui
Bennani, hanno sostenuto che nel migrante magrebino la sofferenza psichica (o anche fisica)
esprime una domanda fondamentalmente di riconoscimento e allo stesso tempo una forma di
resistenza.
Si passa poi all’analisi del lavoro di Henry Collomb, psichiatra francese che lavorò a lungo in
Africa orientale e negli anni ’50 insegnò psichiatria a Dakar. Per Collomb, l’etnopsichiatria non è lo
studio comparativo delle malattie mentali nelle diverse società e culture, ma quello del modo in cui
queste ultime si difendono dalla follia. Nel 1966 la divisione del servizio di psichiatria da lui diretto
si riorganizzò sul modello di “villaggio terapeutico”. Aspetto qualificante erano le assemblee di
reparto, organizzate sul modello delle assemblee di villaggio, in cui veniva eletto un leader. Il punto
centrale era quello di fornire al paziente un ambiente non estraneo e non isolarlo, ma farlo
partecipare attivamente alla vita del reparto. Per Collomb e per l’équipe di Dakar-Fann era
fondamentale collaborare con i guaritori locali e l’attivazione di rituali di riconciliazione: la malattia
assume la funzione di un punto di partenza per una reintegrazione del gruppo. L’équipe studiò
anche l’applicabilità dei test proiettivi nel contesto africano.
L’analisi si sposta poi sul lavoro di Ernesto De Martino e sul concetto di “crisi della presenza” e di
Michele Risso.
Nella seconda parte dell’incontro viene dedicata particolare attenzione a George Devereux e al suo
fondamentale contributo allo sviluppo dell’etnopsichiatria. Egli propose il ricorso ad una
metodologia complementarista, con una rinuncia alla ricerca di spiegazioni totalizzanti dei
fenomeni. Sostenne l’uso delle “leve culturali” in psicoterapia non come un sostituto ma come un
facilitatore dell’insight e propose una definizione operativa di etnopsichiatria. Sottolineò inoltre la
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necessità di approfondire le matrici sociali della psichiatria e di considerare la psichiatria e la
psicologia occidentali come esempi particolari di un repertorio più ampio, pur riservando sempre
una collocazione privilegiata alla psicoanalisi.
Infine il dott. Bertolino introduce il lavoro di Tobie Nathan, soffermandosi in particolare sulla
contrapposizione tra psichiatria transculturale ed etnopsichiatria, sul lavoro sulla differenza, sulla
costituzione dell’équipe terapeutica e sul paziente inteso come esperto, sulla necessità di ragionare
nei termini di malattie-modelli e non malattie-fatti. La rappresentazione della malattia è correlata
con l’immagine dell’uomo elaborata all’interno di ogni società, una definizione di malattia non può
esulare da una peculiare definizione di uomo e di umanità.
Secondo Nathan, i vari dispositivi sociosanitari o educativi, all’opera nella società d’accoglienza (la
medicina, la scuola, la psichiatria), funzionano come macchine di abrasione delle differenze
culturali, e non conoscono l’importanza delle risorse che i migranti portano con sé, spesso senza
esserne coscienti. La violenza strutturale è violenza esercitata sistematicamente verso tutti coloro
che appartengono ad un determinato ordine sociale e denota un dispositivo sociale di oppressione.
Si conclude con il riferimento al concetto, proposto da Paul Farmer relativamente al contesto
haitiano, di “violenza strutturale” come effetti iatrogeni prodotto da ordinamenti socio-politici
caratterizzati da profonde disuguaglianze.
E’ stato poi presentato un documentario girato in Senegal sul rituale Ndoep.
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