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1 VERSO NUOVI AMBIENTI DI APPRENDIMENTO: LA SFIDA DELLA COMPLESSITA’1 Lingua e Nuova Didattica, Anno XLIV, No. 3, 2015 Luciano Mariani Una premessa necessaria La società cosiddetta “della conoscenza” viene spesso associata ad un mercato del lavoro che richiede competenze definite in termini, oltre che di saperi e saper fare, di atteggiamenti e motivazioni: tra gli altri, flessibilità, adattabilità, creatività, disponibilità al nuovo, imprenditorialità, capacità di (ri)apprendere e di imparare per tutto l’arco della vita. Nel contempo, i sistemi formativi, tra cui la scuola, sono stati ridisegnati in termini di curricoli basati su standard verificabili e certificabili. Tutto questo ha implicazioni molto forti, ma a volte non del tutto trasparenti, per gli ambienti in cui gli apprendimenti dovrebbero realizzarsi. Ad esempio, non è sempre chiara la focalizzazione di questi apprendimenti: sulle prestazioni del singolo come indicatori di competenza spendibile sul mercato del lavoro, oppure sullo sviluppo globale della persona in quanto portatore di un diritto di realizzazione personale e di cittadinanza sociale? Le formulazioni “ufficiali” sono a volte un po’ ambigue: “L’indagine nazionale sui fabbisogni formativi dell’organismo bilaterale per la Formazione costituito da Confindustria - Cgil, Cisl, Uil, si basa sul presupposto che il sistema formativo debba anticipare i fabbisogni del sistema produttivo: anticipare significa innovare, scommettere sul futuro, indicare in quale direzione dello sviluppo, su quali scenari professionali e competenze correlate conviene investire e quali modalità d’apprendimento attivare per acquisirli.” (Arnone s.d.: 5) Come dimostra questa citazione, quando si parla di nuove competenze e atteggiamenti il discorso non si presta ad interpretazioni a senso unico: ad esempio, un apprendimento permanente, strategico, cooperativo, è un valore prezioso di per sé – ma il significato che può avere questo tipo di apprendimento e il ruolo che può giocare nella vita delle persone dipendono in ultima analisi da un orizzonte di senso e di valore più globale e complessivo. Come ricorda Hargreaves (2010: 337), “L’”ordine del giorno” riguardante le abilità del 21° secolo spesso (anche se non sempre) tralascia il sapere, le abilità, e le qualità che vanno oltre il mondo degli affari e che a volte sono direttamente in opposizione.” 2 Hargreaves prosegue auspicando un “ordine del giorno” di tipo etico, che comprenda fattori quali la qualità della vita, la giustizia sociale e la sostenibilità dello sviluppo personale e della vita pubblica. La domanda cruciale potrebbe allora essere: quale ambiente di apprendimento vogliamo, per quale scuola, per quale persona/cittadino, per quale società? Si tratta di adottare un’ottica che accetta l’ambivalenza senza subirla passivamente, un’ottica basata sulla consapevolezza costante delle variabili in gioco e su un sguardo continuamente critico delle dinamiche tra queste variabili. E’ un’ottica che definirei “della complessità”. A scuola di tecnologia? Fatta questa premessa, quando si inizia un discorso che implica le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) occorre a mio avviso mettersi in guardia contro alcune possibili tentazioni: ad esempio, descrivere i miracoli che possono fare le TIC; oppure rassegnarsi al pensiero che esse sono ormai tra noi e non possiamo liberarcene; o ancora, cedere all’idea che le TIC siano motivanti di per sé, e quindi possano costituire una specie di “arma di seduzione” che possiamo utilizzare nei confronti dei nostri studenti. Forse è necessario capovolgere l’assunto di base: dall’idea di che cosa possiamo fare con le tecnologie potremmo sforzarci di passare all’idea di quale apprendimento vogliamo stimolare e di come le tecnologie possano facilitare i processi di apprendimento e di insegnamento. In questo nostro sforzo siamo per fortuna confortati da alcune ricerche recenti: “Molti sostengono che le TIC siano i propulsori di una rivoluzione nel sistema educativo. […] Ciò potrebbe essere, ma non necessariamente, poiché le TIC possono essere usate per cambiare la situazione di apprendimento ma non la debbono necessariamente cambiare.” (European Commission 2004: 50) In altre parole, prosegue il documento appena citato, le TIC ”possono essere usate per sostenere e preservare metodi tradizionali” – ad esempio, è stato detto che si può passare dalla “morte per conferenza” alla “morte per Powerpoint” - oppure “possono essere usate per cambiare radicalmente i metodi pedagogici e l’organizzazione della situazione di apprendimento”. “Se le TIC sono usate per sostenere modi nuovi e innovativi di apprendimento ... il processo non ha nulla a che vedere con le TIC in quanto tali … il cambiamento è molto più intimamente connesso con lo stile di gestione, con gli atteggiamenti fra gli insegnanti, con l’aggiornamento degli insegnanti, con gli approcci pedagogici e con i nuovi stili di apprendimento.” (ibid.: 17) E il documento conclude che “le TIC sono spesso un catalizzatore del cambiamento, ma non determinano di per sé la direzione del cambiamento.” 3 In tempi non molto lontani avevo proposto un modello di ambiente di apprendimento (Fig. 1) che metteva al centro il rapporto educativo in classe: si tratta del rapporto tra gli studenti, tra studenti e insegnante, e tra studenti e compiti di apprendimento mediati dall’insegnante (cioè i materiali e le attività attraverso cui l’insegnante media con gli studenti i contenuti disciplinari o interdisciplinari). Naturalmente questo “triangolo centrale” intrattiene rapporti continui e reciproci con l’esterno: in primo luogo con la scuola, cioè l’istituzione di cui fa parte, e in secondo luogo con le famiglie, con le comunità di riferimento, con la società in senso lato e, in particolare, con il mercato del lavoro. Fig. 1 – Un modello di ambiente di apprendimento (da Mariani 2006: 23) A distanza di pochi anni, questo modello può sembrare obsoleto. Le frontiere, sia pure non fisiche, rappresentate nella Fig. 1 dagli ovali concentrici, che in qualche modo volevano simboleggiare la relativa indipendenza dei vari livelli, e le frecce, che volevano simboleggiare la continua interdipendenza dei vari livelli, si sono via via dissolte a favore di una permeabilità molto più spiccata. Oggi insomma il modello potrebbe forse apparire come nella Fig. 2. Fig. 2 – Un nuovo modello di apprendimento 4 I vari livelli sono molto più interdipendenti, anzi, sono così permeabili tra loro da rasentare una vera e propria osmosi, e la classe sconfina al punto di essere meglio definita come “ambiente molto allargato”. In questa prospettiva, ha ancora senso continuare a tenere la relazione pedagogica al centro, quando ormai sappiamo che l’apprendimento avviene continuamente, tutti i giorni e per tutto il giorno, anche e magari soprattutto, fuori della classe e fuori della scuola? Scuola e classi sono solo uno dei nodi di una rete di contesti fisici e virtuali disponibili ai nostri studenti. In un mondo connesso in rete, le scuole non possono più considerarsi come “il perno centrale dell’apprendimento che sono state in passato”. Al contrario, “dobbiamo riconoscere che le scuole e le classi stanno diventando nodi in comunità di apprendimento collegate in rete” (Carroll 2000). La scuola dovrebbe allora trovare il modo di estendere l’apprendimento formale verso altri nodi, e, nel contempo, cercare di integrare gli apprendimenti alternativi nel quadro delle esperienze di apprendimento formale. Solo a queste condizioni penso che possa continuare a rimanere centrale il rapporto pedagogico di classe, il nostro “triangolo magico” – ma per fare questo bisogna entrare in quel territorio osmotico in cui noi e i nostri studenti viviamo ogni giorno. Noi siamo ben consapevoli che dall’esterno all’interno della classe filtrano continuamente nuovi comportamenti, nuovi profili di persone che apprendono in modi diversi. Le domande più concrete che possiamo porci allora sono del tipo: che cosa fanno i ragazzi, là fuori, in tutte le occasioni di apprendimento non-formale, informale, collaterale o incidentale? Alcuni preconcetti da sfatare Prima di cercare di rispondere a queste domande, credo sia necessario sfatare alcuni preconcetti molto diffusi, sulla base di alcune ricerche in proposito, tra cui una recente dell’OECD (2012), da cui riprendo le considerazioni che seguono. In primo luogo, la distinzione netta tra “nativi digitali”, che sono i nostri studenti, nati praticamente con in mano le tecnologie, e “immigrati digitali”, che sono tutti coloro delle generazioni precedenti (tra cui molti di noi insegnanti) non è così netta e significativa, e, soprattutto, non è solo questione di generazioni, cioè di età. Sono in gioco altri fattori, come l’esperienza, i livelli educativi, le questioni di genere, il retroterra socio-culturale, e anche la disponibilità effettiva di tecnologie aggiornate e di connessioni efficienti. In altre parole, rimangono importanti le differenze individuali, cioè le preferenze personali, gli stili di apprendimento, le abilità e l’interesse dimostrati nei confronti delle tecnologie. In secondo luogo, contano non tanto le tecnologie di cui dispongono i giovani quanto l’uso effettivo che essi ne fanno. Inoltre, gli studenti non sono sempre a loro agio con gli usi innovativi delle tecnologie in classe, e ciò che sanno fare nella vita quotidiana non li rende necessariamente pronti a sfruttare le tecnologie ai fini dell’apprendimento. D’altro canto, quello che essi vogliono è che le tecnologie migliorino l’insegnamento e l’apprendimento, e sono interessati non tanto alle tecnologie in sé, che danno per scontate, quanto a quello che queste possono fare, e al fatto che il lavoro a scuola sia reso più efficiente e produttivo. La ricerca dell’OCSE conclude che è importante osservare ciò che fanno i ragazzi, ascoltare ciò che hanno da dire, e sulla base di tutto questo prendere decisioni pedagogiche, 5 anziché rincorrerli sul puro terreno delle innovazioni tecnologiche. Ecco che allora ha senso tornare alla domanda che ci siamo appena posti, e riformularla chiedendoci: quali saperi e quali saper fare maturano i ragazzi fuori della scuola? Come questo condiziona le loro aspettative e i loro comportamenti quando entrano in classe? I comportamenti dei teenager in rete In una recente ricerca americana (AA.VV. 2008: 18) sono state individuate tre categorie generali di comportamenti dei teenager fuori della scuola, tre gradi diversi di partecipazione che implicano l’uso di tecnologie. Questi comportamenti sono stati definiti con termini molto idiomatici e quasi gergali, e sono perciò molto difficili da tradurre in italiano: “hanging out” – cioè “ciondolare, girovagare”: i ragazzi frequentano luoghi spesso virtuali in cui si è costantemente connessi con i propri pari. Si tratta di una continua presenza (o copresenza), per mantenere e sviluppare relazioni sociali, in molteplici contesti, compresa naturalmente la scuola (anche se gli insegnanti spesso non lo vorrebbero!). E’ stato definito “ipersociale” il processo attraverso cui i giovani usano le tecnologie per definire identità, gusti, tendenze, con cui, tra l’altro, negoziano il proprio senso di sé in relazione ai propri pari. Oltre ai giochi online, si usano tecnologie per immagazzinare, condividere e ascoltare musica, per guardare, realizzare e caricare in rete video, il tutto attraverso la partecipazione in reti sociali come MySpace o Facebook e l’uso dei vari tipi di messaggi. Questi comportamenti contribuiscono a creare nuove norme sociali e nuove forme di alfabetizzazione mediatica, su cui dovremo tornare; “messing around” – cioè “smanettare, armeggiare”: i ragazzi esplorano i contenuti e le forme delle tecnologie, e così allargano le proprie conoscenze. Si guardano attorno, cercano informazioni in rete, sperimentano con i giochi e la produzione di media, ma con un investimento personale limitato. Procedono infatti per tentativi ed errori e anche per fallimenti, che però non comportano gravi conseguenze. Sono tutti comportamenti spesso auto-diretti, stimolati dall’interesse personale ma supportati da ambienti in cui la creazione e la condivisione di prodotti multimediali si associa a pratiche basate sull’amicizia; “geeking out” – cioè “buttarsi fuori”: con un impegno più intenso nei confronti dei media e di particolari tipi di tecnologie, i ragazzi navigano attraverso particolari settori di conoscenza, partecipano in comunità di curiosi, appassionati o anche esperti. E’ un tipo di apprendimento guidato dai pari, ma focalizzato a ottenere conoscenze e competenze specifiche in particolari aree di interesse. Piuttosto che semplicemente consumare conoscenza prodotta da fonti autorevoli, si tratta di avere accesso e produrre conoscenza per contribuire a reti. In queste reti il feedback o le reazioni esterne provengono dai pari e da persone che hanno un interesse personale nel lavoro. Insomma, il contesto è di reciprocità basata sui pari, in cui i partecipanti possono guadagnare status e reputazione ma non hanno un’autorità valutativa sugli altri. Sulla base di questi comportamenti che quotidianamente osserviamo nei nostri ragazzi (ma anche in noi stessi …), quali conseguenze si possono trarre per le forme di apprendimento sperimentate fuori dalla scuola ma di cui la scuola dovrebbe tener conto e su 6 cui, se possibile, capitalizzare? O, in altri termini, come rinnovare le pratiche formative formali alla luce di questi saperi, saper fare e atteggiamenti che permeano i modi quotidiani di vivere e imparare? Con quali tipi di conoscenza, con quali processi di apprendimento, con quali stili cognitivi dobbiamo per forza di cose confrontarci oggi? Verso “nuovi” processi di apprendimento? Dai comportamenti sommariamente descritti nel paragrafo precedente possiamo trarre alcune utili considerazioni su come stanno cambiando i processi di apprendimento: la conoscenza oggi non è più tanto concentrata in sedi fisiche o in persone fisiche individuabili: essa è stata in vario modo definita come diffusa e liquida, e l’intelligenza che la produce come intelligenza distribuita e collettiva. Insomma, il fuoco è sulla produzione sociale della conoscenza - come è stato detto “across brain, body and world”, cioè attraverso il cervello, il corpo e il mondo (Jenkins et al. s.d.: 37)2; le pratiche di elaborazione di questa conoscenza sono collaborative e cooperative tra pari, all’interno di una cultura fatta di partecipazione, condivisione e gratuità; i comportamenti dei teenager dimostrano spesso un impegno attivo e intenzionale, una volontà di auto-direzione e di personalizzazione, un’espressione della propria identità (pensiamo ai selfie oppure ai profili che vengono man mano aggiornati e diffusi in rete); anche se i navigatori della rete sembrano essere orientati più alla fruizione che alla produzione, bisogna anche riconoscere che le informazioni non sono solo ricevute passivamente, ma vengono continuamente manipolate, costruite, decostruite e ricostruite; i compiti che ci si pone in rete sono contestualizzati nel mondo reale. Si tratta di esperienze percepite come rilevanti ma anche autentiche, nel senso che al centro ci sono scopi reali per pubblici reali, e attività che assomigliano all’apprendimento per problemi e per progetti; l’attività in rete è fatta di ricerca, sperimentazione, esplorazione, scoperta. Si procede per tentativi ed errori, anche attraverso fallimenti frequenti, con stili di lavoro e di apprendimento non lineari, non sistematici, non sequenziali. A questo proposito non si può non citare la pratica pervasiva del multitasking, cioè del riuscire a fare più cose contemporaneamente: studiare mentre si guarda la televisione e si ascolta una traccia MP3. E’ molto difficile descrivere come questo modo di lavorare possa essere comunque produttivo, ma è stato affermato che il sovraccarico cognitivo viene spesso risolto attraverso il continuo passaggio da un medium ad un altro, attraverso uno zapping consapevole tra differenti fonti di comunicazione, il che implica una “parziale attenzione continua”. Questo non è necessariamente foriero di disattenzione e di disorientamento cognitivo, perché in questo caso l’apprendimento avviene per approssimazioni successive e parallele, facendo meno ricorso alle classiche strategie inferenziali, deduttive o induttive. E’ stato anche osservato che questo modo di procedere sembra essere tipico anche dei manager di alto livello, che hanno a che fare con processi decisionali multipli e in tempo reale; questi apprendimenti per tentativi, errori e fallimenti godono di un supporto sociale che non è direttivo e non è autoritario. Il feedback che si riceve dalla propria rete su 7 quello che si produce non è giudicante ma piuttosto centrato sui contenuti effettivi e sulla loro rilevanza per la comunità di riferimento; allo stesso tempo, questo feedback e l’eventuale gratificazione sono generalmente immediati, non differiti nel tempo, e dunque collegati direttamente a ciò che è stato prodotto. Naturalmente questi tempi di risposta molto rapidi possono privilegiare la velocità rispetto all’accuratezza, e, come abbiamo già detto, possono comportare tempi di attenzione molto brevi. Questi sono dunque i comportamenti, cognitivi ma anche affettivi e sociali, che mostrano i nostri studenti nella loro vita quotidiana: si tratta, come si vede, di ombre e di luci, di punti di forza ma anche di punti di criticità. Ci eravamo appunto chiesti quali conseguenze ci possono essere sull’imparare in un ambiente formale e istituzionalizzato come la scuola. Questa rapida ricognizione può averci fatto percepire, in primo luogo, la distanza dalle prassi quotidiane che tuttora vediamo spesso realizzarsi a scuola. Ma il divario è proprio così dirompente? E veramente i comportamenti dei nativi digitali hanno reso obsoleti i nostri principi pedagogici più profondi? Riflettiamo per esempio su queste citazioni: “La “conoscenza”, nel senso dell’informazione, significa il capitale di lavoro, le risorse indispensabili di ulteriore ricerca, di scoperta, di imparare cose nuove.” (Dewey 1916) “L’osservazione scientifica ha stabilito che l’educazione … è un processo naturale messo in atto spontaneamente dall’individuo umano, e si acquisisce non ascoltando parole ma attraverso le esperienze sull’ambiente.” (Montessori 1946) “Se dovessi ridurre tutta la psicologia dell’educazione a un solo principio, direi questo: il fattore più importante che influenza l’apprendimento è ciò che il discente già conosce.” (Ausubel 1968) Sono citazioni vecchie, anche molto vecchie, eppure non hanno perso un grammo del loro smalto e potrebbero benissimo applicarsi agli apprendimenti che spesso definiamo come “nuovi”. Dunque in realtà esiste una persistenza di principi e valori pedagogici che ci suggerisce non una rivoluzione nei nostri modi di insegnare ma un loro adattamento, certamente profondo e impegnativo. In effetti, ciò che abbiamo appena descritto come “pratiche in rete” è in linea con molti principi pedagogici in cui crediamo e su cui abbiamo spesso costruito il nostro lavoro: per esempio, penso che molti insegnanti siano convinti che … l’apprendimento è finalizzato e contestuale … le conoscenze e le competenze debbono poter essere trasferite … il nuovo va integrato con il già noto … si impara in situazioni sociali … l’apprendimento non è lineare ma ricorsivo … occorre fare i conti con i diversi stili di apprendimento … Dunque i nostri principi non sono, in linea di massima, in contrasto con molte pratiche di apprendimento in rete, anche se dobbiamo riconsiderare il nostro ruolo come educatori e 8 strutturare in modi diversi quei compiti che comunque restano al centro del nostro modello di ambiente di apprendimento. Dagli obiettivi ai contenuti: nuovi strumenti di mediazione Dobbiamo riconoscere che il come si impara oggi è fortemente condizionato dal che cosa c’è da imparare e dai nuovi mezzi a disposizione per imparare – cioè i processi di apprendimento continuano a dipendere strettamente dagli obiettivi e dai contenuti, ma oggi sono condizionati come non mai anche dalla disponibilità di nuovi strumenti di mediazione della conoscenza. Questo significa, da una parte, accettare l’idea che non sono più centrali le conoscenze in sé, ma come queste vengono acquisite ed applicate. Dall’altra parte, rispetto ai mezzi, agli strumenti, credo sia importante inquadrarli in una cornice di senso forte e non ambigua. Credo che sia assolutamente necessario identificare le funzioni che possono svolgere le nuove tecnologie rispetto alle forme che esse assumono e che cambiano in continuazione. In altre parole, i nostri studenti sanno subito identificare i mezzi ma hanno solo una percezione intuitiva e forse un po’ confusa degli scopi a cui possono servire, cioè delle funzioni che possono assolvere. Chiediamo ai nostri studenti che mezzi usano, e vi daranno risposte di questo tipo, elencate nella colonna destra di questo schema (Fisher e Frey 2010: 227): Funzioni o scopi Comunicare Ascoltare Trovare collegamenti Presentare Produrre testi multimediali Ricercare Condividere Immagazzinare Mezzi SMS, MMS, Whatsapp, Twitter … Podcast, iTunes, audio streaming, RSS … MySpace, Facebook, Ning … Powerpoint, Keynote, Wimba … GarageBand, iMovie … Google, Yahoo, Lycos … YouTube, blogs, Flickr, wikis, Google Docs … Lettori MP3, memorie flash, server, CD/DVD … Questo elenco potrebbe lasciarci un po’ perplessi o magari anche intimorirci, ma per noi educatori quello che è importante è soffermarci anche e in particolare sulla colonna sinistra, cioè sulle funzioni o gli scopi dei nuovi mezzi tecnologici. Per fortuna l’elenco sulla sinistra contiene parole che ci sono familiari: sono ciò che abbiamo sempre cercato di fare con i nostri studenti. Allora ciò che dovremmo fare non è tanto, o soprattutto, saper usare i mezzi (cosa che i nostri studenti sanno fare probabilmente meglio di noi), ma saperli selezionare in base agli obiettivi linguistici, comunicativi e cognitivi che ci proponiamo in un certo compito. L’elenco sulla destra probabilmente è già obsoleto, ma le funzioni comunicative sulla sinistra fanno parte del nostro consolidato arsenale di obiettivi. Un approccio metacognitivo alle nuove alfabetizzazioni Dunque compare un nuovo elemento di persistenza rispetto alle nostre competenze e al nostro ruolo. Ma come devono comunque cambiare i nostri obiettivi e le nostre prassi? Vorrei introdurre una tematica che ritengo fondamentale per noi specialisti di educazione 9 linguistica, e cioè la presa in carico di nuove alfabetizzazioni attraverso un esplicito approccio metacognitivo, un approccio che si basa sul rendere l’apprendimento più intenzionale, attraverso un processo di attribuzione di senso a quello che si fa. Come è stato suggerito, “La generazione della rete può aver bisogno di essere incoraggiata a smettere di fare esperienze e a usare il tempo per riflettere” (Oblinger e Oblinger 2005: 18) Noi non abbiamo un’idea chiara di quali effettive competenze i nostri studenti avranno bisogno in futuro, nella loro vita personale e professionale. Accettato questo, dobbiamo riconoscere che emerge con evidenza la necessità di sviluppare nuove alfabetizzazioni, che però non soppiantano quelle “vecchie” o “tradizionali”. C’è ancora bisogno evidentemente di imparare a leggere e scrivere, di prendere appunti, di stabilire l’affidabilità delle informazioni, di leggere mappe e diagrammi, di distinguere i fatti dalle opinioni, di identificare tesi e argomentazioni … abilità e strategie che gli insegnanti spesso già cercano di sviluppare nei loro studenti, ma che vanno rivisitate alla luce del fatto che le nuove alfabetizzazioni sono nel contempo visuali-multimediali e sociali. Così come esiste una grammatica testuale per testi esclusivamente verbali, esiste una grammatica, una sintassi, un’architettura per i testi multimediali e per Internet: è stato detto che troppi studenti, e troppi adulti, “leggono” Internet come se si trattasse di carta infilata in un cavo, illudendosi così di padroneggiare una tecnologia che in realtà spesso li manipola (November 2010). Una conoscenza esplicita di questa nuova grammatica aiuterebbe invece gli studenti a diventare consumatori informati di informazioni, a pensare in modo critico e creativo utilizzando la multimedialità, e a comunicare in modo appropriato3. L’altro aspetto di queste nuove alfabetizzazioni è quello sociale, con particolare riferimento ai collegamenti in rete che permettono e, allo stesso tempo, richiedono un insieme di abilità sociali, di modi di interagire dentro comunità molto ampie e non solo di abilità individuali da utilizzare per l’espressione personale4 5. Non è solo una questione quantitativa, di allargamento smisurato del numero e dei tipi di rapporti nello spazio virtuale. Se voglio far parte di una comunità di appassionati di fotografia come Flick’r o di appassionati di videogiochi come Videogamezone, devo subito adeguarmi alle norme, a volte molto severe, che regolano la partecipazione online: cosa si può e non si può scrivere, quali giudizi si possono dare e in base a quali criteri, a quali condizioni si possono caricare materiali, e così via. Esiste dunque una differenza qualitativa nei rapporti sociali, che riguarda i comportamenti da tenere dentro le reti: si tratta di condividere conoscenza utilizzando un’intelligenza collettiva, di capire prospettive multiple, di negoziare le differenze culturali che inevitabilmente emergono. Sono differenze che derivano dall’incontro tra culture diverse, cioè da comunità fisiche e virtuali che hanno sviluppato una loro propria cultura, fatta di presupposizioni, atteggiamenti, valori, norme sociali particolari. A voler ben guardare, l’ascolto attivo, l’affrontare i conflitti, il trovare mediazioni, in fondo, non sono altro che un’estensione di quella competenza comunicativa interculturale che da tanto tempo costituisce un obiettivo primario dell’educazione linguistica, ma che ormai deve diventare un vero e proprio cambiamento di paradigma. Sosteniamo da tempo che il multiculturalismo e l’interculturalità devono costituire dei fili rossi attraverso il curricolo: oggi è tempo che questo concetto venga ripreso con forza fino ad assumere lo 10 status di competenza sociale trasversale rispetto ai rapporti che si instaurano nel ciberspazio. Rivisitare le abilità All’interno di questa alfabetizzazione sociale i testi multimediali che produciamo e che in molti modi condividiamo non hanno più soltanto un valore come elementi isolati, ma diventano soprattutto potenziali connessioni, potenziali nuove interazioni. Inoltre, dato che tutti noi siamo impegnati non soltanto a consumare conoscenza ma anche a produrne di nuova, assumono nuove identità anche le tradizionali abilità di lettura e scrittura: “La lettura e la scrittura online sono così intimamente connesse che non è possibile separarle; leggiamo online come autori e scriviamo online come lettori … A causa delle aspettative di lettura attiva e partecipata all’interno delle nostre reti, siamo costretti a sperimentare che cosa significa leggere con l’intento di condividere e che cosa significa pubblicare non come attività fine a se stessa ma come l’inizio di una conversazione continua e distribuita.” (Richardson 2010: 300) Per fare un esempio molto concreto, possiamo citare le cosiddette fan fiction, cioè la costruzione di storie, che possono andare da poche frasi a interi capitoli, sulla base di personaggi di film o di videogiochi o di fumetti. Costruire pezzi di storie innestandosi su personaggi e situazioni molto conosciute non è semplice – in realtà implica non solo un‘immaginazione creativa, ma anche il rispetto di quelle che sono le caratteristiche dei personaggi e l’aggancio alle situazioni e ai temi già trattati dalle storie precedenti. In altre parole, se pubblichiamo in rete una storia o un pezzo di storia su Harry Potter dobbiamo rispettare dei vincoli di scrittura che sono ben evidenziati sui siti e che sono soggetti alle valutazioni, ai giudizi, alle critiche della comunità di lettori-scrittori a cui ci rivolgiamo. Un curriculum di scrittura per le interazioni multimediali in rete rilancia così alcuni obiettivi “classici” che in realtà non abbiamo mai abbandonato: ad esempio, scegliere tra possibili modi di espressione quali siano i più efficaci per raggiungere certi pubblici e comunicare i propri messaggi; oppure, individuare quali tecniche funzionano meglio per trasmettere informazioni attraverso vari tipi di canali. Ma questi obiettivi vanno rivisitati nell’ambito di una progettazione testuale che si qualifica sempre più come multimediale. Esplorare insieme ai nostri studenti questi territori costituisce un esempio concreto di quell’approccio metacognitivo che oggi assume connotati di estrema importanza e direi quasi di urgenza. In altre parole, si tratta di stimolare nei nostri studenti, ma direi ancora prima in noi stessi, una consapevolezza critica delle variabili in gioco nei nuovi ambienti di apprendimento. Si tratta cioè di supportare con strumenti di consapevolezza quelle che spesso, nel turbinio delle esperienze in rete, rimangono solo delle comprensioni intuitive, degli sprazzi di coscienza. 11 Faccio ancora un esempio concreto. Giuseppe, il ragazzino di dodici anni che abita accanto a me, è venuto una volta a chiedermi che cosa doveva fare con quello che aveva trovato in Internet per una ricerca assegnata a scuola: poteva fare semplicemente un copiaincolla o doveva fare un riassunto? Mi ha fatto un po’ tenerezza … intanto perché non aveva assolutamente idea della differenza tra testi propri e testi altrui, o almeno, di come trattare con responsabilità quello che si trova in rete; poi perché gli mancava totalmente l’idea di riassunto come genere testuale, per cui nella sua testa ogni testo si equivale, e si perde così il senso di come variano i testi a seconda degli scopi, dei contesti, dei potenziali lettori. Possiamo considerare quale lavoro metacognitivo e metalinguistico sarebbe necessario per fornire a Giuseppe tutta una serie di abilità: come trovare informazioni, come valutarne la rilevanza e l’affidabilità, come setacciarle per ritrovare il senso ricercato, e quindi come affrontare operazioni di alto livello come l’analisi e la sintesi … il tutto tenendo presente un tipo di destinatario-interlocutore che deve anch’esso essere identificato e valutato. L’esempio di Giuseppe non fa che confermare i risultati di una recente ricerca sui modi di prendere appunti in un ambiente digitale (Guinee e Eagleton 2006). Gli studenti, in questo caso a livello universitario, tendono a copiare larghe porzioni di testo piuttosto che parafrasarle: in tal modo perdono il senso della distinzione tra le loro parole e il materiale derivante da fonti esterne. Inoltre, non avvertono la necessità di identificare eventuali contraddizioni nelle informazioni copiate. Insomma, concludono mestamente gli autori della ricerca, questi studenti hanno una minima abilità di creare una sintesi significativa dalle risorse che hanno raccolto6. In linea generale, e riprendendo quello che abbiamo già detto, chi vive in rete oggi ha bisogno di rendersi conto, non solo di ciò che le tecnologie permettono di fare, ma anche di capire per quali funzioni e scopi ciascuna di esse è più adatta e in quali contesti è meglio utilizzabile. Si tratta non solo e non tanto di competenze tecniche, quanto di operazioni cognitive e metacognitive “forti”. Come è stato detto nel rapporto della Commissione Europea citato all’inizio, “Conta quali strumenti sono disponibili in una cultura, ma conta ancora di più ciò che quella cultura sceglie di fare con quegli strumenti” (European Commission 2004: 18). Una conclusione provvisoria Quale conclusione provvisoria possiamo trarre da queste considerazioni? Pensando al presente, e ancor più al futuro, nostro e dei nostri studenti, mi è sembrata illuminante un’osservazione tratta dal più volte citato rapporto della Commissione Europea: “Un interessante esercizio di progettazione strategica è di esprimere ciò che si vorrebbe veder succedere nel futuro invece di cercare di prevedere ciò che effettivamente accadrà” (European Commission 2004: 236)7 Sviluppare una visione proattiva e intenzionale come questa non è semplice: significa abbandonare l’ottica della certezza per entrare in quella che abbiamo definito della complessità: “A questo punto nella storia, le prime barriere al cambiamento delle prassi curricolari, pedagogiche e valutative, non sono di tipo concettuale, tecnico o economico, ma piuttosto di tipo psicologico, politico e culturale” (Dede 2010: 68). Ciò rende la nostra 12 condizione di esseri umani, dei nostri studenti come di noi stessi come educatori, estremamente precaria. Viviamo nell’incertezza, nell’ambivalenza e, appunto, nella complessità. Concludo proponendo un paio di citazioni da fonti molto diverse nello spazio e nel tempo, ma che hanno in comune un elemento di speranza e di fiducia nella nostra ricerca di senso: “Apprendere nel cambiamento … vuol dire avere presente la complessità, ma anche sapere che è possibile abitare questa complessità, come luogo da vivere e non solo come non-luogo da attraversare.” (Boffo 2008: 11) “L'educazione dovrà sempre più … offrire simultaneamente le mappe di un mondo complesso in perenne agitazione e la bussola che consenta agli individui di trovarvi la propria rotta.” (Delors 1997) E’ quello che con grande lucidità già ci ricordava Edgar Morin (2001: 14): “Bisogna apprendere a navigare in un oceano d’incertezze attraverso arcipelaghi di certezza”. NOTE 1 Relazione tenuta alla Giornata Pedagogica lend “Educazione linguistica e nuovi ambienti di apprendimento”, Mestre, 20 aprile 2015. 2 “Le risorse che plasmano e potenziano l’attività sono distribuite in configurazioni trasversali alle persone, agli ambienti e alle situazioni. In altre parole, l’intelligenza è realizzata più che posseduta.” (Pea 1993: 50) 3 Cito solo alcuni elementi di questa grammatica, di cui peraltro abbiamo già descrizioni dettagliate (cf. ad esempio Lemke 2010): la contiguità e l’integrazione spaziale di testo verbale ed elementi non-verbali; la sincronizzazione temporale di questi elementi; la possibilità di integrare l’audio; la differente ricaduta che questi elementi di progettazione multimediale hanno, ad esempio su studenti con bagagli conoscitivi diversi o con diverse configurazioni di stili di apprendimento e di “intelligenze multiple”. 4 Gardner e colleghi sostengono che “l’apprendimento potrà essere molto più individualizzato, molto di più nelle mani (e nelle menti) del discente, e molto più interattivo che in passato … Come queste direzioni apparentemente contraddittorie verranno trattate influenzerà la struttura futura dell’apprendimento.” (Weigel, James e Gardner 2009) 5 A tal proposito è stata introdotta un’interessante distinzione tra interattività, che è una proprietà della tecnologia, e partecipazione, che è una proprietà della cultura (Jenkins 2006). 6 Mancano loro quelle che Gardner (2010) ha descritto come “le cinque menti per il futuro”: la mente disciplinata, la mente sintetizzante, la mente creativa, la mente rispettosa e la mente etica – concetti che meriterebbero approfondimenti adeguati. 7 Nella stessa ottica, è intrigante il titolo del già citato lavoro di Carroll (2000): “Se non avessimo le scuole che abbiamo oggi, creeremmo le scuole che abbiamo oggi?” RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.VV., 2008, Living and learning with new media: Summary of findings from the Digital Youth Project, MacArthur Foundation, Chicago, IL. 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