QOELET scheda 7

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QOELET scheda 7
QOELET scheda 7
Qoelet 11,7-10
7] Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole.
8] Anche se vive l'uomo per molti anni se li goda tutti, e pensi ai giorni tenebrosi, che
saranno molti: tutto ciò che accade è vanità.
9] Stà lieto, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua
gioventù.
Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi. Sappi però che su tutto questo
Dio ti convocherà in giudizio.
10] Caccia la malinconia dal tuo cuore, allontana dal tuo corpo il dolore, perché la
giovinezza e i capelli neri sono un soffio.
Il libretto di Qoelet si chiude con un cantico. Un testo poetico dal tono malinconico.
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vv.7-8. Versetti che hanno la funzione di ouverture al grande cantico finale.
v.7. L’Autore inizia con un’esclamazione di fronte allo splendore del paesaggio solare di Israele.
Vedere la luce è sinonimo del nascere. L’area di Dio è per eccellenza luminosa. La luce è
simbolicamente cifra riassuntiva della felicità e del bene.
Qoelet unisce due sensazioni diverse, quella visiva della luce e quella gustativa della dolcezza.
MAQOT = “dolce al palato”.
Gli occhi sono fatti per la luce, dunque sono felici di vedere il sole.
v.8. Fuori di metafora si esalta l’abbandono alla luce-gioia, alla luce-vita, ai “lunghi anni”.
Ma subito il cielo si offusca, la gioia si smorza, la notte avanza.
“Anche se vive l'uomo per molti anni se li goda (verbo SMH = godere) tutti, e pensi (verbo
ZKR = ricordare)
ai giorni tenebrosi”: si intrecciano i verbi ‘godere’ e ‘ricordare’. Questo intreccio lo troviamo solo
in due testi biblici: qui e in DT 16,11-12 in cui si parla della festa autunnale delle Capanne in cui
il popolo deve godere e ricordare gli atti salvifici compiuti da Dio.
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Per Qoelet invece occorre ‘avvelenare’ la gioia col ricordo dei giorni di tenebra. I giorni
tenebrosi sono molti e lunghi, anche perché se la gioia dura un momento, la tristezza sembra
non finire mai.
Perciò Qoelet conferma: il futuro e ciò che accade in futuro, è ‘vanità’.
v.9. Consiglio al giovane. Appare il verbo del godimento in un appello rivolto ad un giovane.
Le stagioni della vita nella visione biblica sono quattro: l’infanzia, l’adolescenza/giovinezza, la
maturità, la vecchiaia.
Al giovane ragazzo Qoelet raccomanda un cuore felice. E aggiunge: “Segui pure le vie del tuo
cuore e i desideri dei tuoi occhi
”, un invito ad abbandonarsi agli impulsi del cuore e all’incanto degli occhi gettandosi verso i
piaceri giovanili.
Ma non dice spesso la Bibbia che le vie del cuore sono talvolta pericolose, perché dal cuore
proviene anche la scelta di male?
La visione degli occhi non è definitia talvolta dalla Bibbia come sguardo superficiale e secondo
apparenza?
Qoelet lo sa e, con buon senso aggiunge: “Sappi però che su tutto questo Dio ti
convocherà in giudizio”.
Moralmente parlando è un
invito dunque a non dissipare la vita. I giorni tenebrosi in vita si assommano al giudizio di Dio
severo.
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v.10. Bisogna dunque cacciare via la tristezza, il dolore. Ma i ‘capelli neri’ e la ‘giovinezza’
hanno un loro limite e sono solo un soffio.
SAHARUT = giovinezza. Termine che proviene da SAHAR = aurora (per dire la freschezza
vigorosa dell’inizio giorno); e da SAHOR = nero corvino (la capigliatura nera del giovane).
Ebbene: su tutta la vivacità e il colore della giovinezza, Qoelet stende il suo giudizio affidandolo
all’HEBEL che indica il soffio, il vapore che sfuma, realtà impalpabile e vuota.
Qoelet 12,1-8
1] Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni
tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: "Non ci provo alcun gusto",
2] prima che si oscuri il sole, la luce, la luna e le stelle e ritornino le nubi dopo la pioggia;
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3] quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di
lavorare le donne che macinano, perché rimaste in poche, e si offuscheranno quelle che
guardano dalle finestre
4] e si chiuderanno le porte sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si
attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto;
5] quando si avrà paura delle alture e degli spauracchi della strada; quando fiorirà il
mandorlo
e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l'uomo se ne
va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada;
6] prima che si rompa il cordone d'argento e la lucerna d'oro s'infranga e si rompa
l'anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo
7] e ritorni la polvere alla terra, com'era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato.
8] Vanità delle vanità, dice Qoèlet, e tutto è vanità.
v.1. Ricordati: solenne inizio parallelo al ‘godi’ dedicato al giovane. Spesso il verbo ‘ricordare’ è
legato all’anziano. Qui è consigliato al giovane.
La sorpresa è che il ricordo è verso il “Creatore” per accettare la sorte futura e la sequenza dei
tempi. Non è consiglio morale per temere il giudizio di Dio, ma il ricodare che la giovinezza è
tempo luminoso limitato in riferimento ai giorni tenebrosi dell’anzianità. Di fronte a quei giorni
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amari l’anziano prova nausea. E dice ogni giorno o all’inizio di un nuovo anno: Non ci provo
alcun guisto!
v.2. Entriamo nell’inverno e nel cuore della vecchiaia.
Si spengono quattro segni luminosi: sole, luce, luna e stelle, come fossero quattro punti
cardinali dell’orizzonte che piomba nella tenebra.
In fondo è il ritmo del tempo che si oscura: sole e luce dicono il giorno; luna e stelle, la notte.
Anche la meteorologia aiuta a dire l’immagine: il cielo si copre dietro a nubi piovose.
v.3. Inizia un nuovo scenario, quello di un palazzo nobiliare in sfacelo.
- Custodi. Sulla porta sono i guardiani della casa che sono ormai vecchi tremolanti.
- Gagliardi. Superati i primi, ecco i ‘gagliardi’, i forti, la polizia privata posta a tutela del palazzo.
Ma anche loro sono curvi e decrepiti.
- Le donne alla macina. Nel cortile del palazzo troviamo le ultime donne votate a macinare il
grano, ma così vecchie e deboli che non riescono a far muovere la macina sul basamento.
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- Donne alla finestra. Dal cortile, eleviamo lo sguardo verso le finestre con grate (che separano
l’harem ed impediscono alla luce accecante di entrare nelle sale) dietro cui potremmo scorgere
gli occhi delle nobil donne che guardano giù. Ma non ci sono, perché gli occhi ormai vecchi, si
sono velati.
v.4. Sulla piazza piena di voci del mercato è la facciata del palazzo. Le porte sono bloccate e
chiuse. Non lasciano filtrare l’eco della vita sociale. Se ci si avvicina al palazzo e tendiamo
l’orecchio, sembra un luogo moribondo. Le vecche serve non riescono a far girare la mola e lo
stridìo diminuisce. Semrba che anche gli uccellini se ne siano andati: nessuno dal palazzo
ascolta il loro cinguettio. Ormai anche le canzoni (toni del canto, “figlie del canto”) con le loro
melodie e i ritmi si affievoliscono sino a spegnersi. Gli anziani non amano cantare né essere
cicondati da canti, segni di allegria e giovinezza.
v.5. Cambia la scena. Siamo condotti sulle alture attorno al palazzo, per strade di campagna.
Per “altura” possiamo intendere il tetto delle case, fatti a terrazzo e il cui accesso era
all’esterno: pericolose per gli anziani, poiché senza ringhiere; possiamo intendere anche le
strade che conducono sui colli, perché all’anziano che sale viene meno il fiato e ha paura
dell’affaticamento.
Il mandorlo. È il primo albero a fiorire in primavera e si contrappone idealmente all’inverno e al
vecchio. Forse il candore dei suoi fiori rimanda alla canizie dell’anziano.
La cavalletta. Che si muove come una saetta; e fa da contrasto all’incedere lento dell’anziano.
Una pianta di capperi. Il cui frutto era utilizzato come cibo afrodisiaco. Ormai all’anziano non
serve più.
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I piagnoni. Lamentatori e lamentatrici vestiti a lutto, che cantano nenie.
Questo corteo prepara la fine della vita dell’uomo, un viaggio senza ritorno. La meta viene
chiamata “dimora eterna”, casa dell’eternità o casa senza tempo: eufemismo per dire il
sepolcro.
v.6. Quattro sono i simboli utilizzati per dire la morte:
- filo d’argento. Non sappiamo a cosa si riferisca; però è utile per far comprendere il suo
‘rompersi’.
- lucerna (o sfera) d’oro. Forse una bolla per contenere liquido; forse una lampada. Ma indica
bene che viene ‘infranta’.
- l’anfora alla fonte. Ecco un’anfora posta sul muretto di una fontana. Qualcuno inciampa,
cade e si rompe in mille pezzi.
- la carrucola del pozzo. Attaccata al pozzo domestico c’è la carrucola (in ebraico “la girevole”)
e grazie al suo servizio si può attingere acqua. Ma se si schianta e cade nel pozzo, l’acqua
resta proibita tagliando il legame con la vita.
v.7. La morte è ormai davanti al vecchio. L’uomo è polvere e ritorna alla terra con cui è stato
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plasmato. E lo spirirto (ruah) torna (sub) a Dio che lo ha posto nell’uomo. L’uomo perciò ha il
respiro solo in prestito.
v.8. Perciò: Vanità delle vanità, dice Qoèlet, e tutto è vanità.
Qoelet 12,9-14
9] Oltre a essere saggio, Qoèlet insegnò anche la scienza al popolo; ascoltò, indagò e
compose un gran numero di massime.
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10] Qoèlet cercò di trovare pregevoli detti e scrisse con esattezza parole di verità.
11] Le parole dei saggi sono come pungoli; come chiodi piantati, le raccolte di autori:
esse sono date da un solo pastore.
12] Quanto a ciò che è in più di questo, figlio mio, bada bene: i libri si moltiplicano senza
fine ma il molto studio affatica il corpo.
13] Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i
suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto.
14] Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male.
In questi versetti viene delineato Qoelet come sapiente di professione.
v.9. Si dice che Qoelet praticò la sapienza e la insegnò al popolo. Studioso e conferenziere.
Ascoltò, indagò, compose.
v.10. Stile e metodo di lavoro. Si preoccupò di coniare detti piacevoli per forma e contenuto.
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v. 11. L’elogio a Qoelet si allarga ai sapienti. Le loro parole sono forti, spesso aggressive, come
un pungolo che sprona gli animali.
La collezione dei testi sapienziali sono punti fissi nella mente dell’uomo perché facili da
apprendere e perché frutto di un’esperienza sicura.
Parole e raccolte sono date da “un solo pastore”. Hanno dunque una sola sorgente; certamente
Dio, Pastore unico di Israele. Dunque la sapienza è ispirata da Dio.
v.12. Un ultimo avviso è un monito alla produzione libraria. I libri si moltiplicheranno sempre
più; il discepolo dell’Autore non si disperda alla caccia dell’ultimo uscito, ma rimanga fedele al
corpus letterario che ha come redattore l’Unico Pastore. Non biosgna abusare della
meditazione e dello studio, perché stanca.
vv.13-14. La conclusione di tutto. Ad opera di un redattore.
Egli afferma che ciò che è stato scritto viene compreso come una “conclusione” che è anche la
‘fine’ del libro.
Bisogna innanzitutto rispettare/temere Dio (e lo fa scrivendo proprio come Qoelet, non ‘Elohim,
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ma ha’elohim “il Dio”). Il timore include anche l’amore perché evoca il rapporto di alleanza.
A ciò il redattore unisce l’osservanza dei comandamenti. Inesistente in Qoelet (il termine
‘comando’ è solo nel passo in cui si dice di temere il comando del re).
Dopo timor di Dio e osservanza della Legge, ancora un articolo di fede: il giudizio di Dio.
Giudizio che colpirà tutte le opere dell’uomo, buone e cattive, manifeste ed occulte.
Conclusione
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Qoelet è un pensatore che ‘predica’ al vento, sapendo bene che non potrà trasmettere nulla alle
successive generazioni (ogni generazione ha inizio e fine in sé).
Il Qoelet è spesso accusato di pessimismo o di scetticismo. Oggi si afferma sempre più
l’interpretazione che vede in questo strano personaggio un «predicatore della gioia». È vero,
egli mette in discussione tanti luoghi comuni e critica come falsi tanti ideali che l’uomo si
propone quaggiù. Spesso la sapienza non è apprezzata, specialmente quando si combina con
la povertà, ma essa è pur sempre superiore alla stoltezza o alla forza (9,13-18). Pur senza
eccedere, la giustizia deve essere ricercata (7,16-18). Il saggio è più forte di dieci potenti che
governano la città, anche se non bisogna illudersi: nessuno è così giusto da non peccare mai
(7,19-22). Come un saggio tradizionale, Qohelet raccomanda anche l’impegno attivo e dinamico
in ogni campo, perché negli inferi non vi sarà più nulla (9,10). Egli si scaglia contro la pigrizia
(10,14-20) e invita ad accettare il rischio e ad assumersi le proprie responsabilità (11,1-6).
Soprattutto egli esorta al godimento di tutto ciò che la vita presenta di buono e gradevole, nella
convinzione che si tratta di un dono di Dio (cfr. 2,24; 3,12-13; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-9), anche
se invita a tener sempre presente che anche questo è «vanità» (2,1). Qoelet concepisce
l’esistenza dell’uomo come un essere nel tempo, come una possibilità che gli è data solo nello
scorrere del presente, e che per ciascuno si concluderà nella morte. Ma, pur nella sua
precarietà, l’uomo può sperimentare la sua esistenza terrena come un’esperienza di felicità.
In questa prospettiva bisogna capire lo spirito religioso del Qoelet. Egli presenta Dio come una
realtà trascendente e misteriosa, che ha creato il mondo e lo dirige in un modo che per gli
esseri umani è del tutto inintelligibile. Dio non è un dio lontano e nascosto o addirittura
arbitrario, ma il Dio di Israele, che toglie all’uomo l’illusione di poter comprendere la propria vita
senza mettere in conto il suo agire misterioso. Di fronte a lui l’uomo non può far altro che
temerlo, cioè sottomettersi alla sua volontà. Dio agisce nel mondo con lo scopo di far sì che «si
abbia timore di lui» (3,14). Dopo aver esortato il lettore a non essere troppo saggio o troppo
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stolto, egli afferma che chi teme Dio riesce in tutte le cose (7,16). Infine egli esprime la sua
convinzione secondo cui «saranno felici coloro che temono Dio» (8,12-13).
Temi
Nella lista di frequenza delle "Parole di Qoelet", il primo posto è occupato da kol, "tutto", o "il
tutto", aggettivo o sostantivo ripetuto 91 volte - spesso anche in associazione a hebel: "tutto è
vanità" (cf. Qo 1,2.14; Qo 2,11; Qo 3,19; Qo 12,8). "Tutti", uomini, bestie o cose, convergono in
una stessa sorte (cf. miqreh, "destino, fato" in Qo 2,14s; Qo 3,19; Qo 9,2s). "Il tutto" è di polvere
e "tutto" alla polvere ritorna, cioè si scompone (cf. Qo 3,20; cf. achariyt, "fine" in Qo 7,8e Qo
10,13; maweth, "morte" in Qo 3,19; Qo 7,1.26; Qo 8,8; Qo 10,1; soph, "fine" o "conclusione" in
Qo 3,11; Qo 7,2; Qo 12,13). Qoelet, più filosofo ebreo che teologo parla però anche di Dio.
Creatore di tutto, non padre
Non è "Dio" l'argomento principale in quest'opera, ma l'uomo, impastato da Dio con un soffio
vitale (cf. "ruah", "spirito", "anima" o solo "vento" in Qo 1,6.14.17; Qo 2,11.17.26; Qo 3,19.21;
Qo 4,4.6.16; Qo 5,16; Qo 6,9; Qo 7,8s; Qo 8,8; Qo 10,4; Qo 11,4s; Qo 12,7), un'anima
temporanea come quella degli animali.
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’Elohim, "Dio", è un sostantivo plurale che però non evoca più politeismo. È esplicitato circa 40
volte in 36 versetti (a partire da 1,13 fino a 12,14).
’Elohim, come nel Cantico (e in Ester), non è mai chiamato YHWH, "il Signore" della Legge, dei
Profeti e dei Salmi.
A Dio Qoelet non riconosce attributi particolari, comuni in altri testi, soprattutto nella Torah, nei
Profeti e nei Salmi, come la misericordia, la pazienza, la benignità o bontà, , l'onnipotenza, gli
eserciti, e neppure la paternità.
Neppure la "giustizia", che è "vanità" è un attributo eterno di ’Elohim. Dall'esperienza personale,
Qoelet è stato persuaso che vi sono giusti ai quali tocca la sorte dei malvagi, e vi sono malvagi
ai quali tocca la sorte meritata dai giusti (8,14).
Solitamente Dio è presentato da Qoelet in terza persona. Mai ’Elohim parla come un io a un tu
come con Mosè o i profeti - o con altri personaggi storici questi completamente ignorati
nell'opera. Non esistono oracoli divini in questo libro.
Dio ha creato Adamo diritto, ma gli umani vanno in cerca di infinite complicazioni (7,29). Felici
sono solo quelli che temono il creatore (8,12.13) e non gli stolti né quelli che errano non
osservando "gli ordini del re a causa del giuramento fatto a Dio" (8,2).
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Nella casa di Dio, presumibilmente nel tempio (di Gerusalemme), l'ascolto (4,17) vale più dei
sacrifici. Rivolgendosi a Dio, in cielo, l'uomo in terra non deve ripetere molte parole (5,1) o fare
promesse. Chi non adempie i suoi voti (5,3-4) non può scusarsi (5,5) e se tenta di farlo diventa
stolto (5,3). Se Dio fa curve o cose storte, l'uomo non può raddrizzarle (7,13). Dio infatti fa il
giorno lieto e quello triste (7,14).
"Dio è in cielo", sopra tutto e tutti, mentre "tu sei sulla terra" (5,1), a lavorare, soffrire e gioire
"sotto il sole" (1,3.9.14; 2,11.17ss.22; 3,16; 4,1.3.7.15; 5,12.17; 6,1.12; 8,9.15.17; 9,3.6.9.11.13;
10,5). Se Dio fa tutto, non lo fa come ci si attenderebbe, trattando, per esempio, sapienti e
ignoranti con una stessa sorte (cf. 8,14; 9,2). Forse perché non esistono veri sapienti né veri
giusti (cf. 3,16; 5,7; 6,10; 7,15-16.20) o forse perché ’Elohim vuol farsi temere più che amare
(7,18).
Le fatiche umane sono nelle sue mani (7,29; 12,1). Egli che "ha fatto bene [yapheh,
"appropriato", "con proprietà"] ogni cosa, scruterà ogni azione (cf. 12,14). A suo tempo" (cf.
3,11) accoglierà l'uomo nella sua "casa duratura" (cf. ‘owlam, in 1,4.10; 2,16; 3,11.14; 9,6;
12,5). Qualunque cosa egli fa, infatti, "dura a lungo" (cf. 3,14); e non c'è davvero altro da
aggiungere o da togliere a quel che egli crea "perché lo si tema" (3,14), anche se tiene
occupato il saggio con la gioia (cf. 5,19). Chi teme Dio è felice (8,12) e chi no, è infelice (8,13).
Nei giorni che Dio dà agli uomini, per tutti è un bene "mangiare e bere" (5,18). Godere delle
cose è instaurare una piacevole relazione con chi le ha fatte. Il frutto del lavoro, della propria
fatica (cf. 9,1) e delle opere (cf. 9,7) è infatti un dono di Dio (2,24; 3,13; 5,18).
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’Elohim agli uomini dà anche un'occupazione che è la più gravosa: la ricerca della sapienza e
della scienza (cf. 1,13; 2,26; 3,10). Eppure, per quanto si affannino, gli uomini non
comprendono la realtà (8,17), anche se quello che accade oggi è una ripetizione; è infatti "già"
accaduto ieri e quello che sarà domani è "già" avvenuto oggi. Dio solo può ricercare e sapere
"ciò che ormai è scomparso" (3,15) e reso invisibile.
Dio giudica (3,17). Alcuni a cui dona poco tempo (cf. 5,17) li mette alla prova per mostrare che
sono come behemah, "bestiame" (3,18-19.21). Altri sono messi alla prova dall'abbondanza di
ricchezze, senza poterne usufruire (6,2).
Dio è assente dal capitolo 10.
In 11,5 Qoelet considera lo stesso discepolo un ignorante riguardo ad ’Elohim che tutto fa e
tutto dà ma alla fine chiede conto (11,9). Se con la morte l'uomo si scinde, la sua polvere ritorna
alla terra ma il suo soffio vitale (ruach) ritorna a Dio (12,7).
Uomo di poco peso
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Nella graduatoria dei temi distribuiti per frequenza, al sostantivo kol, "il tutto", "tutti" segue
l'’adam, l'"uomo", termine che mai nel libro è riferito ad "Adamo" (come per esempio in Gen 4,1
oppure Os 6,7).
Il termine è ripetuto quasi 50 volte per affermare, per esempio, che la sorte degli uomini e quella
delle bestie è la stessa (cf. 3,19). Non c'è sapiente che possa indicare all'uomo il bene o che
cosa accadrà dopo morte (cf. 6,12). Il giorno della morte, su cui nessuno ha potere (8,8), è
preferibile a quello della nascita (7,1).
Accanto ad ’adam Qoelet utilizza, più di rado, 'ish, di per sé "il maschio," (almeno 10 volte in
1,8– 12,3). Anche se povero, il maschio può diventare saggio e salvare persino una città dove
vivono molti altri (cf. 9,15; Gerusalemme? cf. 7,19; 8,10).
La ’ishshah, la "femmina", è la più dolce proprietà del maschio e quindi dello stesso Qoelet che
pensa, parla e agisce da re: "mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte femmine,
delizie degli uomini" (cf. 2,8).
La femmina però può essere molto "amara, più della morte", perché fatta di "lacci", e il suo
cuore è una rete come quella che cattura pesci (cf. 9,12)] e le sue braccia sono "catene" (7,26).
Contrariamente a una condotta cavalleresca e politica del vecchio Salomone, Qoelet non
apprezza le femmine. Confessa d'aver trovato "un uomo fra mille", ma un'ishshah fra tutte non
l'ha ancora trovata (cf. 7,28). È la monogamia con la fedeltà la gioia più intima: "Godi la vita con
la moglie che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede" (9,9). Quando
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la propria donna diventa madre, rivela il mistero divino. Qoelet riflette sulla propria ignoranza,
affascinato però dall'origine della vita "nel ventre" materno, in relazione a "Dio che fa tutto"
(11,5).
Sapienza e stoltezza, opposte e uguali
Quasi senza vantaggi è la distinzione tra la saggezza e la stoltezza (cf. 2,15; 6,8). Essere folli
può anche significare essere saggi e viceversa.
Questa coppia letteraria, importante per Qoelet, si condensa nel capitolo 7, con almeno 36
occorrenze. Per numero di frequenza segue il capitolo 2 (34); con solo 2 occorrenze sono il
capitolo 5 e il 12, mentre il tema è assente nei capitoli 3 e 11.
È la sapienza che rende potenti (7,19) senza però nulla potere sulla morte (8,8).
Non è conveniente con la propria saggezza provocare l'ira di un potente (cf. 10,4.20). Il saggio
deve piuttosto imparare a usare il cuore, il leb (41 occorrenze) che indica anche la "mente" nella
propria attività di ricerca, di conoscenza (cf. 1,16s; 2,3.21.26; 7,25; 8,1.5.16; 9,1.10.12; 11,5;
12,9) ma anche e soprattutto nel gioire di quel che si è e si ha (cf. 2,1s.26; 4,16; 5,19; 7,14;
8,15; 9,7; 11,9).
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Il cuore sa riconoscere il tempo opportuno-‘et per ogni cosa (3,1). Il cuore è sempre da seguire
allontanando la malinconia (cf. 11,9-10).
La sapienza, che nasce dall'esperienza e non da uno studio o lettura della Torah (Qoelet non
legge, solo scrive o detta sentenze) è anche il metodo per esplorare la realtà, il "tutto". È
un'occupazione complessa ma che proviene da Dio (cf. 1,13). Non previene tuttavia la follia (cf.
1,17). Piuttosto il sapere causa dolore (cf. 1,18).
La sapienza è la ricerca del proprio bene (cf. 2,3.24s; 3,13; 5,11.17s; 8,15; 9,7; 10,17.19) anche
se, soprattutto inebriandosi di vino, facilmente si transita alla "follia" (cf. 2,3).
Qoelet confessa di essersi poste domande sull'identità, mai teorica, della sapienza-chokmah
(termine usato in 25 versetti, da 1,13 a 10,10; cf. 2,12), come della "stoltezza-holelah" (termine
usato in 1,17; 2,12; 2,12 7,25; 9,3) o "follia-sikluth" (1,17; 2,3.12s; 7,25; 10,1.13).
Dichiara che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è lo stesso della luce sulle tenebre
(2,13). Il sapiente ha gli occhi in fronte mentre lo stolto annaspa al buio (2,14). Sia dei saggi che
degli stolti non resta però un ricordo (2,16).
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Eppure Qoelet preferisce il giovane povero e accorto al re vecchio e stolto (4,13), che neppure
sa più distinguere il male e il bene (cf. 4,17).
Meglio, Qoelet suggerisce ai lettori, è ascoltare il rimprovero di un sapiente che la lode di uno
stolto (cf. 7,5), anche se il cuore del saggio abita la casa in lutto e quello dello stolto la casa in
festa (cf. 7,4). L'estorsione, però, come l'ira, rende il saggio uno stolto (7,7; cf. 7,9).
Non è davvero saggezza considerare il passato, che è passato, migliore del presente (cf. 7,10).
Se il sapere vale più del denaro (cf. 7,12) in quanto rende saggio il povero e così capace di
guadagnare molti beni, e rende il debole forte anche più di "dieci potenti" (cf. 7,19), nessuno si
ricorderà di un saggio rimasto povero, anche se avesse salvato la intera città (cf. 9,15). Meglio
è la sapienza che la forza, ma la sapienza del povero vale poco (9,16).
Sapiente è chi parla pacatamente, chi urla invece è un governatore di folli (cf. 9,17). Stolto è chi
si affatica nei campi e non sa vivere in città (cf. ‘iyr in 7,19; 8,10; 9,14s; 10,15).
Saggio è chi guadagna (cf. 10,10) con parole che gli procurano stima; le labbra di uno stolto
invece lo rovinano (cf. 10,12).
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Alleata al benessere personale (cf. 2,3; 7,18.20; 11,6; 12,14), alle ricchezze (cf. 2,8s; 4,8;
5,9-18; 6,2; 10,6) e soprattutto all'onore (cf. 10,1), la sapienza è più efficace delle armi (cf.
9,18). Resta però difficilmente raggiungibile (7,23) e per quanto l'uomo si affatichi non scoprirà
nulla di nuovo (8,17). Non diventa innovativo e quindi capace di cambiare l'ordine inflessibile
perché ciclico delle cose. Per Qoelet non esiste la "novità" (chadash, come in 1,10) perché quel
che nel passato è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; davvero non c'è il nuovo sotto il sole
(1,9). Non c'è futuro.
Se la malvagità è stoltezza e la stoltezza è follia (7,25), sono le opere che rendono ricchi e
giusti i sapienti (cf. 9,1). Tutto allora quel che la tua mano può fare, fallo adesso, con
intraprendenza. Né attività, infatti, né scienza, né sapienza, né gioia di vivere abiteranno il
regno dei morti (cf. 9,10).
Sapienza è ciò che ti fa vivere nel benessere il più a lungo possibile.
Andare a tempo
Direttamente del tempo, 'eth, termine ripetuto 40 volte in 18 versetti, Qoelet ne parla da 3,1 fino
a 10,17.
In 3,1-17, afferma che ogni cosa - e il suo contrario - ha il suo tempo. Ogni creatura ed ogni
evento ha il suo momento (=zeman, "l'occasione giusta"; cf. 3,1) e una durata-'eth o scadenza.
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Il tempo è dissociato e ripetitivo per poli opposti: per nascere e per morire, per uccidere e per
sanare, per piangere e per ridere, per abbracciare e per astenersi, per raccogliere e per gettare
via, per tacere e per parlare, per la guerra e per la pace. Per ogni evento c'è il suo tempo (cf.
8,6), anche quello che l'uomo usa per dominare il suo simile e rovinarlo (8,9).
Dio non ha fatto sintesi ma antitesi. Ha fatto ogni cosa bella ma "a suo tempo" iniettando nel
cuore dell'uomo la percezione della scadenza (cf. 3,11). La fine è il giudizio su ogni azione
transitoria (cf. 3,17).
È lo stolto malvagio che però muore anzitempo (cf. 7,17), mentre il cuore saggio impara, a suo
vantaggio, quando è l'ora d'osservare gli ordini (cf. 8,5 con 12,13) - forse quelli del re. Fortunato
è allora quel Paese che per re ha "un uomo libero" e i cui prìncipi mangiano a "tempo dovuto",
per rinfrancarsi con moderazione più che per gozzovigliare (cf. 10,17).
Per "i pochi giorni" di una vana esistenza (cf. 2,3; 6,12), Qoelet suggerisce di indossare vesti
candide e profumarsi il capo (9,8), disinteressandosi dell'ora della fine (9,12).
I giorni che verranno non hanno memoria; né del saggio né dello stolto si parlerà più (cf. 2,16).
Il silenzio della morte inghiotte la sapienza.
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I pochi giorni (cf. 5,17; 9,9) dell'esistenza sotto il sole, transitoria come le ombre (cf. 6,12) che
non si allungano più (cf. 8,13) sono consumati a rincorrere il buio (5,16), i giorni tenebrosi (11,8)
portati via dal vento (2,17).
Anche se uno avesse fatto cento figli e vivesse molti anni e fossero quindi tanti i giorni di vita,
se non riesce a godere dei beni, "l'aborto è meglio di lui" (6,3) e il giorno della morte è
preferibile alla nascita (cf. 7,1).
Un avvertimento confidenziale ("figlio mio") Qoelet lo riserva a ciascuno dei suoi uditori: mai si
finisce di scrivere libri anche se il molto studio affatica il corpo (12,12). Nessuno allora esageri
con una saggezza libresca e neppure con una saggezza verbale, perché il tempo scade per
tutte le cose.
Inconsistenza del reale
Tra i 272 nomi comuni di questo libro c'è hebel, che etimologicamente evoca Abele
(menzionato però solo in Gen 4,2.4.8s.25; Mt 23,35; Lc 11,51; Eb 11,4; Eb 12,24;), l'"alito o
fiato".
Il significato di hebel non evoca la bontà di Abele, potendo invece indicare, secondo il contesto,
il "vapore", il "fumo caldo" o il "respiro". È diverso da "ruach", "vento" o anche "spirito" (24 volte
in 1,6 - 12,7) e da nephesh, l'"alito vitale", l'"anima" e quindi l'io più personale (in 2,24; 4,8;
6,2s.7.9; 7,28).
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Il sostantivo ricorre 38 volte a partire da 1,2 e normalmente è tradotto, a sproposito, con
"vanità", che nelle lingue neolatine evoca, come in latino, l'arroganza, la superbia. "Vanità delle
vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità: tutto è vanità". In 12,8 c'è la reiterazione di questa tesi,
chiudendo stilisticamente una lunga inclusione letteraria che abbraccia tutto il libro.
Solitamente, fuori del Qoelet, hebel indica l'idolatria, da intendere come rappresentazione
effimera perché fittizia, inautentica della divinità. Si diventa "vani" quando si venerano gli idoli
(cf. 2Re 17,15).
Questo tipo di hebel è l'opposto della sapienza che cerca invece la verità in tutto ciò che esiste
per l'uomo.
La "terra" (in 1,4; 3,21; 5,1.8; 7,20; 8,14.16; 10,7; 11,2s; 12,7) e l'uomo che l'abita e la lavora
"sotto il sole" (1,3.5.9.14; 2,11.17ss.22; 3,16; 4,1.3.7.15; 5,12.17; 6,1.5.12; 7,11; 8,9.15.17;
9,3.6.9.11.13; 10,5; 11,7; 12,2) è fumosa, dice il Qoelet. È fluida, inconsistente, irreale come le
ombre e il vento che le agita. Tutta la creazione, ciò che esiste e appare eterno in realtà è
passeggero.
La vita stessa, e il lavoro (1,14; cf. 2,11.17.26; 4,4) è un rincorrere il "vento" (cf. 1,6.14.17;
2,11.17.26; 4,4.6.16; 5,15; 6,9; 11,4), come lo è il piacere, la stoltezza e la sapienza: perché
finiscono (cf. 2,1). L'essere saggio e intelligente, o l'essere stolto è come un male che passa:
agli esseri umani tocca la stessa fine degli animali (cf. 2,15.19.21).
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Dolore, fastidio, mancanza di riposo per ammassare a favore di chi è gradito a Dio, è
leggerezza, vaporosità (cf. 2,23.26).
Essere uomo e non bestia, è cosa che passa via (cf. 3,19).
Successo, competizione, invidia per il ricco: è foschia (4,4).
Le fatiche di chi vive senza famiglia, per arricchirsi, sono nebbie mattutine (4,7-8).
È fare fumo il fare massa speranzosa dietro il giovane di turno, politicamente più brillante di altri
e che subentra al vecchio re (cf. 4,15-16).
Amare il denaro e la ricchezza, che vanno in fumo o vanno ad altri, è inconsistenza (5,9.13;
6,2).
Fissare gli occhi e vagare con il desiderio è una leggerezza (cf. 6,9).
Il ridere del folle scorre via senza scie (7,6).
Impalpabile è la giustizia quando svanisce in una sorte che tutti accomuna, la morte (cf. 8,14;
9,3).
Vita fugace
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Tutto ciò che accade fugge (cf. 11,8).
Appunto, "vanità delle vanità, dice Qoelet, tutto è vanità" (12,8). Lo è la stessa esistenza del
Qoelet, in quanto presto si dissipa, come l'ombra (cf. 6,12; 7,15).
Ogni evento, ogni cosa, la più solida e rocciosa si sfarina (3,1; 8,6).
La stessa "fatica" o l'occupazione gradita - 'amal (in 1,3; 2,10f.18ss.24; 3,13; 4,4.6.8s; 5,14.17s;
6,7; 8,15; 9,9; 10,15) e ma'aseh (in 1,14; 2,4.11.17; 3,11.17.22; 4,3s; 5,5; 7,13; 8,9.11.14.17;
9,7.10; 11,5; 12,14) - finisce.
Qoelet distingue le opere dei giusti da quelle dei malvagi e dall'operare spirituale e morale di
Dio che l'uomo non riesce a comprendere.
Qoelet insiste sul fluire del "tempo". Il "giorno" è la più comune misura del tempo che passa.
Con yiom, "giornata", scandisce il testo con almeno 26 ripetizioni, la prima in 2,3 ("i pochi giorni
di vita") e l'ultima in 12,3- per indicare la vecchiaia, poco prima che si spezzi il filo d'argento e la
lucerna d'oro s'infranga e si rompa l'anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo (cf. 12,6).
C'è un tempo e c'è tempo sufficiente per tutto, ma "il giorno della morte" è il più tempestivo e
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opportuno, più dello stesso "giorno della nascita" (cf. 7,1). Se al "giorno lieto" conviene l'allegria,
al "giorno triste" la riflessione (cf. 7,14) nell'ineludibile prospettiva del decesso.
La vita nel tempo, sulla terra che sta sotto il sole, è espressa da chayyim, il plurale di chay, in
almeno 10 versetti compresi tra 2,3 (sono pochi i giorni di vita) e 10,19 (è il vino che fa lieta la
vita). Saggio è chi scansa una realtà insopportabile (cf. 2,17); per i vivi nulla è meglio che
godersi le ricorrenze assegnate da Dio, procurandosi la felicità possibile (cf. samach, "gioire,
rallegrare" il cuore, in 3,12.22; 4,16; 5,19; 8,15; 10,19; 11,8s).
Qoelet e Gesù
Qoelet e Gesù hanno in comune il titolo "figlio di Davide" (cf. 1,1) con Mt 1,1) e quindi sono,
genealogicamente per lo meno, due re imparentati.
Ma se allietare il corpo di un re, o anche di qualunque sapiente, è possibile mangiando il proprio
pane e bevendo il proprio vino, per Qoelet questa è una ricerca di sapienza associata alla follia
(cf. 2,3). Sul "pane e vino" (cf. Lc 7,33-34), come sul mangiare e sul bere, Gesù ha altri
pensieri, più liberi e veri. Come li manifesta anche sulla natura più profonda della gioia, del
denaro dei banchetti nel regno di Dio.
Qoelet offre solo vino vecchio e secco, molto terrestre. Gesù invece vede e descrive con le
parabole la realtà del mondo e del tempo in prospettiva escatologica ed eterna, non del
dissolversi del mondo ma della sua salvezza come nuova creazione o palingenesi.
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Più che dal vecchio Qoelet, la novità è proclamata e insegnata dal nuovo maestro di sapienza
prospettica, di speranza nella felicità futura, imminente nell'oltre e non in una rimandata
disperazione sommersa nel vino o nel presente benessere.
Letto in prospettiva, Qoelet, l'ecclesiaste, mostra le sue lacune di insegnante del buonsenso in
una politica del welfare, ignorando però valori primari e in espansione come l'"assemblea" (o la
"chiesa"), la comunità cioè di credenti nello stesso Dio Padre (qahal, "riunione di popolo" è però
presente in Pr 2,16 Pr 5,14; Pr 21,16; Pr 26,26) e che perciò stesso si considerano fratelli.
Qoelet non scruta nel futuro (cf. 2,16) il "messia" regale (cf. Sal 2,2; Sal 132[131],17) per
Israele. Di "speranza", a breve termine (cf. bittachon), parla solo in 9,4. Di "fede" mai.
All'"amore" (’ahabah), a differenza del giovane Salomone del Cantico, Qoelet accenna in 9,1.6,
ma solo negativamente, solo a proposito di morti che, proprio perché tali, sono stati resi
incapaci di emozioni, sia di odio che di affetto o d'invidia.
In Qoelet non esiste la novità (cf. però chadash in 1,9-10). Gli manca la sapienza del Vangelo.
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Il testo nel Nuovo Testamento?
Nel Nuovo Testamento non compare alcuna citazione esplicita di Qoelet, anche se qualche
allusione al suo pensiero è forse rinvenibile qua e là: per esempio: di 7,2 in Mt 5,3-4; di 5,2 in Mt
6,7; di 6,2 in Lc 12,20 e in Mt 6,19-84; di 11,5 in Gv 3,8; di 9,10 in Gv 9,4; di 10,12 in Col 4,6; di
12,14 in 2Cor 5,10; di 5,1 in 1Tim 3,15 e in Gc 1,19; di 5,6 in 1Cor 11,10.
Il testo di Mc 2,18-20 potrebbe richiamare, lontanamente 3,1-8 (cf. anche Mt 11,17). Il testo di
Gc 21,19 potrebbe leggersi in parallelo a 7,9; Mt 6,7 in parallelo a 5,1; Lc 12,13ss con 5,9-6,9
(cf. Mt 6,25ss); 1Tim 6,7 con 5,14.
La distanza di Qoelet da Gesù è abissale. Saggio più di Salomone, più di Davide, più di Qoelet,
Gesù a Gerusalemme ci muore crocifisso, da povero e odiato, ma proprio da vero sapiente e
giusto re dei giudei. Sarà condannato per la sua conoscenza filiale, esistenziale del Padre.
Qoelet che si accontenta del mondo ha un'altra sapienza.
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BIBLIOGRAFIA
LA BIBBIA DI GERUSALEMME
AAVV, QOELET, L’ “arcano progetto Dio e la gioia della vita”, Edizioni Messaggero
F. Piotti, QOELET, La ricerca del senso della vita, Morcelliana Editrice
G. Ravasi, QOELET, Il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, Ed. San Paolo
J. V. Lìndez, QOELET, Borla Editrice
N. Lohfink, Qohelet, Morcelliana Editrice,
P. Stancari, NELLA CRISI DELLA SPERANZA, Lettura spirituale del Libro di Qohelet, Edizioni
AdP
V. D’Alario, IL LIBRO DI QOHELET, strutturia Letteraria e Retorica, Edizioni Dehoniane
W. P. Brown, QOHELET, Claudiana Editrice
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