l`italiano sogno americano

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l`italiano sogno americano
Le conquiste dell’Occidente
Gli Stati Uniti celebrano il 4 luglio la propria Dichiarazione
d’indipendenza, nella quale si sancirono il diritto alla vita,
alla libertà e alla felicità. Ma in pochi sanno che quest’ultimo
squassante anelito è frutto del genio di Gaetano Filangieri
L’ITALIANO
SOGNO AMERICANO
DI STEFANO D’ANNA
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A PARTIRE DAL QUEL GIORNO DEL 1776 CREBBE
L
’AMERICA È IN FESTA per il suo 237° compleanno, ma l’American
dream mostra i segni dell’età e i guasti di troppi tradimenti. I diritti alla felicità, alla vita, alla libertà, solennemente sanciti dalla
storica Dichiarazione dei 13 Stati Uniti rischiano di restare un’epigrafe tombale sulla speranza dell’umanità di poter, un giorno,
realizzare una società prospera e felice. Dai Pilgrim fathers agli immigranti
siciliani dei primi del ’900 e fino a oggi, l’America ha rappresentato nell’immaginario collettivo il sogno di un mondo nuovo, privo delle brutture che
attraverso i secoli hanno irrimediabilmente corroso la vecchia Europa. Forse
gli intenti di coloro che sbarcarono dalla Mayflower furono veramente questi, ma la realtà è che nella stiva della loro nave trasportavano i vecchi strumenti di tortura. Erano i segni premonitori, crudeli anticipatori di una storia infinita di eccidi, ferocia e sangue che avrebbe ripetuto se stessa con agghiacciante specularità nel nuovo mondo.
Il 4 luglio l’America si ferma per celebrare se stessa. La sua festa non è solamente una ricorrenza solenne, come per noi il 25 aprile o il 2 giugno, ma un
giorno connesso a quanto per ogni americano c’è di più sacro. È la celebrazione di un culto laico che trascende etnie, religioni, culture, tradizioni e fonde in
un unicum i 50 Stati Uniti d’America. È l’Indipendence day commemorativo della storica Unanime dichiarazione d’indipendenza fatta, appunto, il 4 luglio 1776 dai 13 Stati, vero atto di nascita degli Usa. In essa, come un gioiello in uno scrigno, è contenuta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo che sancisce il diritto alla vita, alla libertà e, per la prima volta nella storia dell’umanità, il diritto a perseguire la felicità. È una rivoluzione nella rivoluzione, l’atto di
una pazzia luminosa che fionda il pensiero moderno, razionale, cartesiano, oltre i confini del sogno e traccia l’asintoto irraggiungibile di un’utopia politica
che è ancora motore del mondo. A partire da questa data si forma il bozzolo
del sogno americano da cui sarebbe nato quel modello di vita che avrebbe invaso un mondo in bianco e nero, sull’orlo del suicidio e poi di fatto dilaniato da
due guerre, con la sua prorompente vitalità, il suo sovversivismo in technicolor
convogliato dai film, la Coca-Cola, il chewing-gum, i blue jeans, le automobili, la televisione e la musica. Per centinaia di anni, fino ai primi decenni del
secolo scorso, l’Europa ha dominato la scena del mondo con la sua scienza, la
tecnica, l’economia, con la sua cultura e la potenza militare e politica. Quando
ha raggiunto il culmine della sua terribile storia di guerre, divisioni, pregiudizi religiosi e razziali ed errori insensati, sono bastati pochi anni per vederne il
crollo. Nella storia del mondo non si è mai assistito alla caduta di un’intera civiltà nel giro di un così ristretto numero di anni. Le grandi civiltà dell’Oriente, la civiltà greca, quella romana, lo stesso impero britannico, sono passate dal
loro massimo splendore al declino in un periodo di tempo infinitamente più
lungo di quanto non sia avvenuto per l’Europa. Con le due guerre mondia-
li, gli americani divennero nell’immaginario collettivo i paladini della libertà e
della sicurezza dell’Occidente, e il loro divenne il Paese dove a ogni uomo era
data la possibilità di dare concretezza all’impossibile, la never-never-land dalle praterie sconfinate simbolo delle infinite occasioni che là si potevano cogliere. Per troppi anni, gli stessi americani non hanno voluto cogliere altri aspetti
della loro realtà: le contraddizioni interne, i leader bruciati giovani, gli intrighi
internazionali e gli scandali politici (Watergate, sexgate), finanziari (dai casi
Enron e World.com fino ai misfatti della banda Bernard Madoff ), per arrivare al terrorismo. Questo, dalla caduta delle Torri in poi, è stato il fenomeno
che più ha incrinato «il senso di ottimismo» e la fede nell’immancabile Happy ending che sono stati i cardini del sogno americano. I provvedimenti antiterroristici, il Patriot act I emesso nel 2001, sei settimane dopo l’attentato, e il
Patriot act II del 2006 hanno di fatto assottigliato, quando non eliminato, i diritti inalienabili che i Padri fondatori avevano sigillato nel Bill of Rights. Tutti
questi elementi, nel loro insieme, hanno progressivamente sottratto all’America l’orgoglio compresso nel grido «I am american» paragonabile solo a quel
Civis romanus sum che gonfiava il petto dei cittadini dell’Impero, somma dei
diritti e dei privilegi legati alla cittadinanza, garantiti dalle leggi e fatti osservare con forza e rigore in ogni terra soggetta all’imperio romano, fosse pure la
più remota. Quando hanno paura, gli americani guardano in alto. Non per ragioni logiche, non per credenze religiose o fatti geopolitici, ma perché questo
ha dettato l’oracolo cinematografico in 70 anni di messaggi ipnotici in celluloide e per altri trenta, gli ultimi, di deliri digitali.
Hollywood ha smesso da tempo di essere la fabbrica dei sogni e ormai traduce in film gli incubi collettivi dell’umanità, proiettando sul grande schermo
l’infinito caleidoscopio delle sue emozioni negative e della sua immaginazione distopica delle World towers dell’11 settembre è soltanto il segno visibile
di una lunga degradazione dei valori e delle aspirazioni originali che si sono
gradualmente essiccati trasformandosi in cupidigia, in volontà di potenza e,
non infrequentemente, in sfruttamento e sopraffazione. La conflittualità, la
criminalità, un’economia che è una macchina di morte, con al centro l’industria bellica più grande del mondo, vanno in direzione opposta agli ideali di
dignità e di libertà che sono stati i valori fondanti di quel sogno americano
che ha fatto battere il cuore della nostra civiltà. Quando una società ha un
numero di obesi che ha superato di molti punti il 50% non ha bisogno dei
talebani per conoscere il sabotaggio e il disastro. L’America è uno stato d’essere. E tuttavia ogni 4 luglio a tanti anti-americani di maniera, ai profeti di
sciagura e alle cassandre professioniste, va ricordato che l’America non è solo
una nazione, e tantomeno va ridotta a un luogo, a un’espressione geografica,
a una terra tra due oceani. Essa è in realtà la materializzazione di un sogno
che ha radici lontane, che tutti noi portiamo in una piega segreta dell’essere,
IN ALTO, I RITRATTI DI ALCUNI DEI PADRI RICONOSCIUTI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA, DELLA DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA ED EX PRESIDENTI DELLA NAZIONE. DA
SINISTRA, JOHN ADAMS (1735-1826); THOMAS JEFFERSON (1743-1826), PRINCIPALE AUTORE DELLA DICHIARAZIONE; JAMES MADISON (1751-1836); JAMES MONROE (1758-1831).
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CONTRASTO - ARCHIVI SCALA - ALINARI
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Le conquiste dell’Occidente
ALINARI - MARYEVANS
IL COMUNE SENTIRE DI UNA NAZIONE
nella parte più profonda, migliore di noi. L’America è quel sogno di bellezza e di felicità che i nostri padri sognarono oltre
3mila anni fa sulle coste dell’Attica e nel cui liquido amniotico ancora nuotiamo, feto di quell’età di giganti. L’America è quella parte di noi che ancora aspira a un mondo nuovo, che crede nella felicità, che ha giurato di essere libera. Se
l’America ha fallito, dobbiamo darcene la colpa e riconoscere che quel sogno non abbiamo saputo nutrirlo né difenderlo. Dobbiamo riconoscere inoltre che non siamo ancora pronti a vivere in quello stato d’essere, in quella condizione di spirito, né come individui né come specie. L’America è ancora una volta un esperimento fallito, parte dell’inesausta storia di tentativi fatti per
creare una società giusta e felice, che già Platone registrava e profetizzava
nella sua opera somma di teoria politica, La Repubblica:
Felice la terra i cui f ilosof i sono re e i cui re sono f ilosof i.
Fino ad allora le città e la razza umana
non smetteranno mai di ammalarsi.
E neppure potrà mai realizzarsi il nostro ideale
di una società prospera e ben organizzata.
Con l’occasione del 4 luglio, nel fare gli auguri all’America, prendiamo atto di alcune sue conquiste fondamentali, come il genio dell’organizzazione e la
fede nell’istruzione e nella tecnologia, in cui hanno saputo investire più di ogni
altro. Ma l’elemento grandioso, per il quale dovremo per sempre essere grati
agli Stati Uniti è l’affermazione di quel diritto al perseguimento della felicità
mai prima sancito in alcuna Carta o Dichiarazione. È il vagito di una nuova
umanità, un’idea luminosa talmente sovversiva da far saltare dai cardini tutto
l’impianto mentale della vecchia umanità. Chi ne è il padre? La Dichiarazione d’indipendenza ha un padre napoletano. Nell’ottobre 1999 era mio ospite
nella casa di Monte San Quirico, nel verde della bella collina lucchese, un amico americano, un sociologo di Oxford. Il discorso cadde su quel documento
dell’umanità che è la Dichiarazione d’indipendenza americana. Trovavo straordinario, e lo dissi al mio amico, che nel lontano 1776 un gruppo di uomini, sia pure illuminati da patriottismo ed entusiasmo filosofico, nel redigerlo,
avessero potuto concepire tra i diritti inalienabili di ogni essere umano il diritto alla felicità, il diritto a ricercarla, a perseguirla. Raccontai come, fin dalla prima volta che ne avevo letto, «il diritto alla felicità» mi aveva affascinato e
quest’affermazione solenne mi era apparsa come una di quelle epigrafi scritte nei cieli, un grido di libertà destinato a echeggiare per sempre nel concerto universale della storia e nel cuore di ogni uomo. Manifestai la mia ammirazione per un Paese, allora nascente, che si era mostrato capace di concepire
un fine così alto e di perenne validità, un asintoto ideale verso cui ogni uomo
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e la storia tutta avrebbero teso all’infinito, per sempre. L’altro elemento per me di stupore, e lo dissi con aperta ammirazione, era
il fatto che nella Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo,
contenuta nella Dichiarazione d’indipendenza, la libertà e la
felicità fossero concepite come una conquista dell’individuo e
non come l’effetto di un’azione collettiva o di riforme prodotte da governi, leggi o istituzioni. Se ne ricavava l’idea che la vera rivoluzione, l’unica possibile, era una «rivoluzione individuale», il sovvertimento di idee e convinzioni, uno shock del pensiero
che un uomo crea in se stesso, intenzionalmente. Si tratta per questo di un evento intimo, una sommossa silenziosa che può avvenire solo nella solitudine dell’essere. Rivoluzioni, guerre, sommosse, hanno lasciato tutto com’era e nei secoli sono tutte miseramente fallite perché fondate sulla convinzione superstiziosa che il cambiamento si potesse produrre dall’esterno. Erano queste le riflessioni e le parole che animavano la nostra conversazione quella sera d’inverno. Ed essa sarebbe rimasta un semplice scambio d’idee tra amici se a un certo punto il sociologo americano non avesse riportato en passant una notizia straordinaria e per me completamente nuova: la Dichiarazione aveva avuto una precedente stesura che in quel punto cruciale recitava: «L’uomo ha diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà». L’inserimento di quest’ultimo diritto (come disse il mio amico) era nato da una proposta
di John Locke che, tuttavia, non aveva convinto Benjamin Franklin, il padre
della Rivoluzione americana. Questi fece allora qualcosa di straordinario. Inviò una delegazione di due ambasciatori in Italia, con la bozza della Dichiarazione, l’atto di nascita di quella nuova nazione, e la missione di incontrare chi
avrebbe saputo completarla.
Ero affascinato dagli insperati sviluppi di quella conversazione. Stavo percorrendo a ritroso la traccia che poteva condurre all’origine di quell’idea che
avrebbe trasformato la felicità da concetto visionario, da chimerica aspirazione e wishful thinking, a diritto naturale, inalienabile e inviolabile dell’uomo e della ragione. La mia ricerca, partita dal dubbio che un principio di tale
profondità fosse stato concepito in una terra agli albori della sua individualità, ancora in lotta con le tribù indigene, trovava conferma. Stavo percorrendo il Nilo alla ricerca delle sue mitiche fonti. Avrei voluto conoscere i nomi di quei due ambasciatori e soprattutto chi fossero venuti a incontrare in
Italia, chi secondo il loro presidente avrebbe avuto lo storico compito di sostituire l’espressione di Locke. Intensificai le mie ricerche, ma sembrava che
quest’informazione fosse stata ingoiata dalle sabbie del tempo e fosse impossibile saperne di più. D’altronde non trovai libro che la riportasse, né ricerca
che l’avesse accertata. Quel 1999 stava chiudendosi così, lasciando irrisolto
quell’affascinante enigma che continuò a occupare i miei pensieri per giorni.
SOPRA, GEORGE WASHINGTON (1732-1799), PRIMO PRESIDENTE AMERICANO. IN ALTO, LA FIRMA A FILADELFIA DELLA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA IN UN QUADRO DI JOHN
TRUMBULL. SI RICONOSCONO JOHN ADAMS, ROGER SHERMAN, ROBERT LIVINGSTONE, THOMAS JEFFERSON, BENJAMIN FRANKLIN, BENJAMIN THOMPSON E JOHN HANCOCK.
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ALTO, TRE IMMAGINI DELLA DIETRICH IN ABITI MASCHILI. DA SINISTRA, IN FRAC IN UNA SCENA DEL FILM «MAROCCO» (1930); IN UNIFORME DA UF IN ABITI MASCHILI.
DA SINISTRA, IN FRAC IN UNA SCENA DEL FILM «MAROCCO» (1930); IN UNIFORME FICIALE DI MARINA IN «LA TAVERNA DEI SETTE PECCATI» (1940); IN SMOKING, CON
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ISTOCKPHOTO
Monsieur uomo elegante uomo
Le conquiste dell’Occidente
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i lì a poche settimane, nel dicembre del 1999, dovetti recarmi
a Napoli per attività legate alla creazione di un nuovo campus
e al progetto di fondare una facoltà di Economia e Filosofia in
collaborazione con l’Istituto di studi filosofici. In quell’occasione visitai Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto, che ospitava la mostra allestita per il bicentenario della Rivoluzione napoletana. Quella
che fu chiamata «la rivoluzione dei filosofi» e che doveva condurre al martirio
un’intera classe intellettuale tra le più colte e illuminate d’Europa. Quell’anno
la testa pensante di un’intera nazione fu tragicamente recisa e il suo cuore palpitante si fermò per secoli. Appresi che quel palazzo era rimasto chiuso per 200
anni, dal giorno in cui il giovane figlio, rampollo dell’antichissima e nobile famiglia Serra, fervente seguace delle idee repubblicane, cadde martire di quella
repressione. In quelle ampie sale stupendamente decorate mi sembrò
che ancora echeggiassero le parole di Gaetano Filangieri, il Platone di Napoli, e gli ideali repubblicani che infervorarono quegli uomini e donne che avevano giurato di voler vivere liberi
o morire. Tra le opere esposte m’impressionò uno dei quadri che rappresentava un condannato dal volto nobile, lo
sguardo sognante e, alle sue spalle, il boia. Senza il particolare del capestro tra le mani di quest’ultimo sarebbero
sembrati una coppia di giovani amanti, lascivamente vicini. In quella sola opera mi sembrò racchiuso il destino
dei martiri, dei visionari d’ogni tempo, l’eterna lotta tra individuo e moltitudine, e in quell’immagine l’emblema della fine di quel sogno di libertà che recise il fiore della cultura napoletana ed europea. Provai una vertigine del pensiero.
Fu in quell’occasione che incontrai Gerardo Marotta, l’avvocato-filosofo che insieme ad altri intellettuali napoletani aveva
fondato l’istituto, 25 anni prima. Mi ricevette tra i suoi tesori: isole, arcipelaghi di libri che nelle stanze più ampie formavano le pareti di inestricabili labirinti dove mi aggiravo seguendolo e ascoltando i cento progetti che aveva
per il suo istituto. Discussi con lui l’idea di fondare insieme una facoltà per economisti-filosofi che sarebbero stati al timone delle imprese del futuro. Quando
gli dissi del mio interesse per le radici filosofiche della Costituzione americana,
mi fece dono di un libricino, appena edito, ultima pubblicazione dell’Istituto:
un omaggio a Gaetano Filangieri e alla sua opera La scienza della legislazione.
Quella sera stessa ne divorai il contenuto. Non potevo crederci. In quelle pagine c’era l’informazione che cercavo. Dagli archivi del Museo Filangieri, tenuti blindati fino a quel momento, era emerso che Franklin aveva inviato il testo
della Costituzione degli Stati Uniti a Gaetano Filangieri usando due intermediari di suggestivo valore simbolico: Luigi Pio, diplomatico napoletano a Pari-
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GLI IDEALI DI UN NAPOLETANO STREGARONO FRANKLIN
gi, sostenitore di Robespierre, e l’abate Leonardo Panzini che aderì alla Repubblica e ne fu rappresentante presso il Direttorio. Meravigliosamente, le tessere
di quel mosaico stavano trovando il loro posto. Allo scadere esatto di due secoli,
nel Palazzo Serra di Cassano, mi veniva rivelato quel prezioso segreto. In quelle stanze erano risuonate le idee che ora ritrovavo in quelle pagine. I due frammenti di quella storia rimasti separati per centinaia di anni, come i due pezzi di
un amuleto, ora si riunivano proiettando una luce abbagliante. Ora sapevo che
l’idea del diritto alla felicità era nata dall’intelligenza e dalla passione civile di Filangieri, una delle voci più alte della coscienza europea. Fu lui l’ispiratore, il legislatore-filosofo, il padre della Rivoluzione che non vide a causa della sua morte prematura. Benjamin Franklin l’aveva ricevuta da lui e incastonata, come un
gioiello, insieme al diritto alla vita e alla libertà, in quella Unanime dichiarazione dei tredici Stati Uniti d’America. Tra «l’uomo ha diritto alla felicità», coniato da Filangieri, inserito nel testo della Dichiarazione, e «l’uomo ha diritto alla proprietà», proposto da Locke, passano eternità.
L’ascesa che gli Usa conosceranno tra le nazioni della terra, la
capacità di assimilare uomini d’ogni nazione, attirati da quel profumo di libertà, trovano origine in quel granello di immortalità,
in quel seme luminoso inserito nella Dichiarazione. Da qui si
sviluppa l’economia e la potenza degli Stati Uniti. Il Diritto alla libertà diventa più americano della bandiera a stelle e strisce
e l’espressione più alta dei principi e della missione di quel Paese. Filangieri, idealista e geniale giurista, muore nel 1788, a 35
anni. La sua opera in sei volumi La Scienza della legislazione subito tradotta in tedesco, poi nelle maggiori lingue europee e in russo, gettò una lama di luce sul buio di quella fine secolo di oppressioni. Essa fu il manifesto e accese la miccia della rivoluzione del ’99.
Quando, a seguito di questa, la moglie con i suoi due figli dovette riparare
a Parigi fu ricevuta da Napoleone che le mostrò il posto d’onore che La Scienza
della legislazione occupava sul suo tavolo di lavoro. La passione civile di Filangieri l’aveva spinto a credere che la felicità dei popoli fosse raggiungibile attraverso il cambiamento delle leggi, la repubblica, la democrazia, la liberalizzazione delle istituzioni politiche e civili. In realtà la felicità non può essere data, trasmessa, insegnata. È una conquista intima, individuale. Può avvenire solo qui
e ora. Non possiamo essere felici ieri, non possiamo essere felici tra un mese o
un anno. La felicità è la consapevole decisione di quest’istante... infinito, irripetibile. Concludo con una notizia che mi ha fatto riflettere. L’istituto di Gerardo Marotta, diploma d’onore del Parlamento europeo, definito dall’Unesco nel
1993 «senza pari al mondo», ha chiuso i battenti nell’agosto scorso per mancanza di fondi. Ha dovuto abbandonare il Palazzo di Serra Cassano per morosità
e i suoi 200mila volumi sono finiti in un capannone. Sic transit gloria mundi.
QUI SOPRA, IL GIURISTA NAPOLETANO GAETANO FILANGIERI (1752-1788), BRILLANTE AUTORE DE «LA SCIENZA DELLA LEGISLAZIONE». FU DI FILANGIERI L’IDEA DI INSERIRE IL DIRITTO
ALLA FELICITÀ NELLA DICHIARAZIONE AMERICANA. IN ALTO, «THE BIRTH OF OLD GLORY» DI EDWARD PERCY MORAN. A FIANCO, LA RIPRODUZIONE DEL DOCUMENTO ORIGINALE.
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Le radici della civiltà
LA LIBERTÀ
DEL SUPERTUSCAN
Filippo Mazzei fu amico di Washington, Adams, Madison,
Monroe e Jefferson. Difese l’indipendenza degli uomini
con un documento che, dalla contea di Albemarle, approdò
nell’incipit della più celebre dichiarazione scritta nel 1776
DI GIANLUCA TENTI E MARCO FERRI
la baia dell’Hudson, dove sarebbe sorta New York, e il nome del
Nuovo Mondo, a un altro toscano (meno noto, ma non per questo meno importante) come Filippo Mazzei si deve riconoscere
la paternità di una parte rilevante della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Della sua figura ne parlano spesso nei due mondi, dove pure sono stati emessi francobolli celebrativi con minor astio (versante statunitense) di quanto accadde per Antonio Meucci, un altro fiorentino, inventore del telefono con buona pace di Graham Bell. Nato a Poggio
a Caiano (tra Firenze e Prato) nel 1730, Mazzei morì a Pisa nel 1816, dopo
una vita avventurosa che lo portò in Turchia, Polonia, Inghilterra, Francia
e appunto America. Fu medico, filosofo e saggista italiano, ma per una serie di combinazioni, come l’incontro con Benjamin Franklin nei circoli londinesi frequentati da illuministi e liberali, divenne amico personale
di Thomas Jefferson (futuro terzo presidente degli Stati Uniti)
che conosceva sin dal suo trasferimento in Virginia, nel 1773.
Non è dato sapere, con certezza, quale fosse la natura delle sue relazioni con ben cinque presidenti degli Stati Uniti. Certo, la frequentazione dei freemasons (i fratelli muratori, diciamo pure la massoneria londinese) fu alla base
dei rapporti transoceanici, ivi inclusi contatti per rifornire di armi e munizioni gli eserciti che conquistarono l’indipendenza. Comunque sia, lo spessore delle frequentazioni americane spinse l’attivissimo Mazzei, giunto con
intenzioni imprenditoriali, nella vita politica dell’effervescente colonia della Virginia. Il toscano fu autore di libelli
contro l’opprimente dominazione inglese, dove si inneggiava
alla libertà e all’eguaglianza. Eletto speaker dell’assemblea parrocchiale dopo sei mesi dal suo arrivo in Virginia, Mazzei ottenne la possibilità di esporre le sue idee sulla libertà religiosa e politica a un
oratorio composto anche da persone umili e ignoranti, che lo ascoltavano in
religioso silenzio. Un suo scritto, Instructions of the Freeholders of Albemarle
County to their Delegates in Convention, redatto come istruzioni per i delegati della contea di Albemarle alla convenzione autoconvocatasi dopo lo scioglimento forzato dell’assemblea della Virginia imposto dal governatore inglese, fu utilizzato dallo stesso Jefferson come bozza per il primo tentativo
di scrittura della costituzione dello Stato della Virginia.
Altri testi di Mazzei furono tradotti in inglese dallo stesso Jefferson, il
quale rimase influenzato da tali ideali, tanto da ritrovare successivamente
alcune frasi di Mazzei trasposte nella Dichiarazione d’indipendenza degli
Stati Uniti d’America. Per la precisione, proprio al toscano si deve una delle
frasi più celebri della Dichiarazione: «Tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti», concetto ripreso in tutte le costituzioni democratiche europee del XIX e XX secolo. Durante la sua permanenza nel Nuovo Continente, Mazzei prese parte alle varie fasi dell’indipendenza (come pure scrive Oriana Fallaci nel suo ultimo libro Il cappello pieno di ciliegie), senza mai
perdere la convinzione della validità delle libertà individuali, in piena sintonia con le tesi illuministiche. Anzi, in seguito al suo rientro in Toscana, nel
1778, cercò di perorare la causa del giovanissimo governo americano presso
il Granduca Pietro Leopoldo (per ottenere prestiti economici), ricavandone solo sospetti di attività antimonarchica che lo costrinsero a tornare negli Stati Uniti. Mazzei, è certificato, fu amico di George Washington, John
Adams, James Madison, James Monroe e, come detto, di Thomas Jefferson,
ovvero dei primi cinque presidenti degli Stati Uniti (con quest’ultimo mantenne un rapporto epistolare per molti anni).
Provò anche a innestare tralci di vite e radici d’ulivo in una
Virginia le cui temperature mal si conciliavano con le consuetudini toscane. Lui che aveva affrontato mille traversie
(dai corsi di medicina presso l’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova dai quali era stato espulso nel 1751 per
miscredenza, fino all’accusa di aver introdotto in Toscana nel 1765 dei libri proibiti), lui che si era trasferito in
Virginia nel 1773 acquistando nella contea di Albemarle
la tenuta Colle (non distante dalle terre di Monticello di
Jefferson) per «coltivare e produrre vino, olio, piante d’agrumi e seta» e che aveva raccolto capitali locali e «assunto» persino schiavi neri (come riporta la Treccani), partecipò agli scontri dei «patrioti» delle 13 colonie che il 4 luglio
1776 cambiarono il corso della storia. Nel settembre di quell’anno scrisse «Le istruzioni per i delegati alla Convenzione» prima di
tornare a Firenze e, successivamente, di nuovo in Virginia. Infine una curiosità che esula dai riscontri documentali: fu probabilmente per ispirazione
dello stesso Mazzei che, nel 1777, i neonati Stati Uniti d’America adottarono
l’attuale bandiera ispirandosi proprio a quella di Ugo di Toscana, consigliere dell’imperatore Ottone III nel X secolo. Lo stemma del marchese toscano era infatti composto da tre strisce argento (o bianco) su fondo rosso che
producono sette bande. La differenza è data dalla «rotazione» delle bande da
verticali a orizzontali; dopodiché il primo presidente americano, Washington, basandosi sull’importanza della simbologia bianco-rossa nei liberi Comuni della Toscana, avrebbe portato a 13 il numero delle bande, come quelli degli stati fondatori dell’Unione. Come scritto si tratta di una suggestione.
Mentre è certa l’influenza di Filippo Mazzei sul documento di quel 4 luglio.
SOPRA, FILIPPO MAZZEI IN UN’IMMAGINE DEL FRANCOBOLLO AMERICANO DA 40 CENTESIMI, CELEBRATIVO DEL 1980 (250ESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA).
NELLA PAGINA A FIANCO, I SIMBOLI DEL DOLLARO AMERICANO: TREDICI (GLI STATI FONDATORI) STELLE, FRECCE, FOGLIE E STRISCE SULLO SCUDO DELL’AQUILA.
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DREAMSTIME
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E AL FIORENTINO AMERIGO VESPUCCI DOBBIAMO la scoperta del-