01_relazione - GAL Basso Monferrato Astigiano
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PREMESSA: L’ARTICOLAZIONE DELLA RICERCA La ricerca, finalizzata alla riorganizzazione della conoscenza del patrimonio dei Beni Culturali (riordinando ed integrando i risultati delle indagini finora effettuate), alla riflessione critica sulla caratterizzazione delle conoscenze acquisite, e alla sperimentazione di una metodologia di lettura del territorio complessiva e finalizzata alla tutela e valorizzazione del patrimonio, si è articolato in diversi momenti e in diverse analisi che qui si sintetizzano: A. Definizione di aree omogenee dal punto di vista storico-culturale, paesistico-ambientale ed individuazione, per ognuna di esse, di un comune campione su cui sperimentare un tipo di analisi da estendere successivamente sull’intero territorio. B. Inquadramento storico dell’insediamento nel suo processo evolutivo, e definizione di una bibliografia generale di riferimento e di un primo elenco di fonti di cartografia storica. C. Lettura della struttura del paesaggio e degli elementi che possono costituire parte del sistema del verde. D. Indagine sui caratteri insediativi, sulle permanenze dell’impianto storico e le dinamiche insediative, in modo da definire le peculiarità degli insediamenti e quindi le regole insediative. E. Individuazione della struttura tipologica e dei sistemi di beni architettonici presenti sul territorio sulla base della sistematizzazione degli elenchi disponibili, delle indicazioni derivanti dall’analisi della cartografia storica e della bibliografia, e di una prima ricognizione in loco. F. Individuazione dei beni artistici locali e inquadramento nei grandi movimenti artistici. G. Riconoscimento delle tipicità gastronomiche e delle aree di diffusione delle diverse tradizioni gastronomiche come fatto di cultura materiale. H. Considerazioni sulla caratterizzazione della conoscenza del patrimonio dei beni culturali I. Proposta di una metodologia di analisi del patrimonio dei beni culturali. A. GLI AMBITI STORICO-CULTURALI E PAESISTICO-AMBIENTALI E LA SCELTA DEI COMUNI CAMPIONE. L’area del Basso Monferrato Astigiano è un’area estremamente diversificata ed articolata sia dal punto di vista storico-culturale che dal punto di vista paesistico-ambientale, con suddivisioni molto labili e variabili a seconda del criterio interpretativo adottato. Dal punto di vista storico-culturale è innegabile che la suddivisione storico-politica tra il territorio di Asti e il Marchesato del Monferrato abbia profondamente inciso sulle tradizioni locali, così come la relativa autonomia del comitato di Cocconato ha impresso una particolare connotazione a quel piccolo territorio. Le suddivisioni amministrative, nel tempo, hanno poi subito molte trasformazioni, stabilendo confini mutabili tra Casalese, Astigiano, Torinese, Albese, così come le effettive gravitazioni sui servizi erogati dai comuni di maggior rango sono cambiate in relazione alle fortune di questi, anche se vi è una certa permanenza di ruoli: Villanova, Villafranca, Cocconato, Castell’Alfero, Castelnuovo Don Bosco, Montiglio, Montechiaro, Montemagno, Moncalvo, S.Damiano, sono “piccole capitali” relativamente stabili negli ultimi 300 anni, da quando cioè si è formata l’immagine dell’insediamento che ancor oggi persiste. La recente istituzione delle Comunità Collinari ha ulteriormente complessificato il compito di identificare aree storico-culturali omogenee: così, a fronte di 8 sub-aree identificate dal Piano Territoriale Provinciale ritroviamo 9 comunità collinari, i cui confini si sovrappongono senza possibilità di convergenze: se le comunità collinari dell’Alto Astigiano e del Versa Astigiano coincidono all’incirca con l’area storico-culturale delle Colline di Cocconato, quella del Pianalto Astigiano con l’area dell’Altopiano di Villanova, quella delle Colline Alfieri con l’area delle Colline tra Borbore e Tanaro, quella del Triversa con l’area delle Colline di Montafia, quella della Val Rilate con l’area delle Colline di Montechiaro, nella Valle Versa si rintracciano a fatica delle corrispondenze. Dal punto di vista paesistico-ambientale, la complessa idrografia disegna una serie di bacini e di solchi: il Triversa, il Borbore e il Rilate configurano bacini, mentre il Versa, il Tanaro, il Grana e la Stura sembrano disegnare grandi solchi nel “mare” delle colline. Ciò che si distingue nettamente è il Pianalto, appartenente ad un’altra morfologia territoriale. Ma anche all’interno della prevalente morfologia collinare sono presenti diverse caratterizzazioni,derivanti dal disegno del reticolo idrografico e dalla forma del rilievo, degli usi del suolo: il bosco appare confinato nelle valli più chiuse e fresche tra il Triversa e il Rilate, a nord-ovest, e, a sud-ovest, verso il Roero, il vigneto ha forte dominanza oggi nelle aree più vocate e pregiate, sulle colline tra Borbore e Tanaro, e nelle colline attorno a Moncalvo e Montemagno, mentre altrove il paesaggio è caratterizzato dall’alternanza di prati nel fondovalle, campi, vigneti e frutteti, con relitti di bosco sui versanti delle colline. Il rilievo è più dolce ad est della valle del Versa, assume forme più aspre nell’estremo settentrionale, nella linea di displuvio verso la Stura ed il Po. Dal punto di vista insediativo predominano nettamente i centri di culmine e di crinale. Singolare è la disposizione serrata di centri dalla stessa morfologia sui crinali ad asse nordsud sulla linea di parallelo che va da Castelnuovo Don Bosco ad Alfiano Natta (Pino d’Asti, Schierano, Rumeglio, Passerano, Cerreto, Piovà Massaia, Montiglio, Sonna, Cerrano, Zanco, Trittango, Cardona, Casarello). Il netto prevalere dei centri e dei percorsi insediativi di crinale si spiega con l’origine stessa dei centri, nuclei plebani e nodi di una rete di incastellamento di origine alto medioevale. A questo riguardo si possono distinguere diversi sistemi di incastellamento: quello della Val Borbore (S.Damiano, Cisterna), quella della Val Tanaro (Variglie, Revigliasco, Antignano, S.Martino), quello della Val Rilate (Serravalle, Settime, Casasco, Cortazzone, Soglio, Viale, Piea, Cunico, Cortanze, Montechiaro, Villa S.Secondo, Cossombrato, Mombarone), quello della Valle del Triversa (Montafia, Roatto, Monale, Castellero, Baldichieri, Ferrere, Tigliole), quello del Pianalto (S.Michele, Solbrito, Villanova, Valfenera), quello della Valle Versa (Frinco, Tonco, Castell’Alfero), quello della Val Grana (Castagnole M.,Scurzolengo, Montemagno, Grana, Refrancore). Si può dire che il complesso di tali sistemi di incastellamento, convergenti su Asti, restituiscono un brano di storia e fanno dell’Astigiano un territorio tra i più emblematici, sotto questo aspetto, dell’intero Piemonte: una rete, che, pur nella diversità degli elementi che la compongono (più o meno trasformati nel corso dei secoli), costituisce un unico, e che si integra con il sistema di borghi cui spesso si associa, conferendo all’intero paesaggio una connotazione tipica. Definiti così i caratteri unitari ed insieme le diverse caratterizzazioni dell’area del Basso Monferrato Astigiano, la ricerca ha approfondito l’analisi su di una serie di comuni-campione su cui sperimentare una lettura complessiva del territorio. I comuni, ovviamente, sono stati individuati come rappresentativi di una specifica entità storico-culturale ed ambientale. Si è quindi tentato di individuare una rosa sufficientemente rappresentativa delle diverse realtà, anche sotto il profilo amministrativo: rispetto quindi alle 8 sub-aree storico culturali e alle 9 Comunità Collinari sono stati individuati 11 comuni rappresentativi dei diversi contesti sotto entrambi i punti di vista. Gli undici comuni sono: § Villanova, in quanto rappresentativo di un contesto paesistico-ambientale molto particolare e polo di riferimento di un ambito culturale di radici storiche; § Albugnano, in quanto rappresentativo dell’Astigiano nella sua fascia di transizione verso il Chierese e connotato sia dal punto di vista ambientale che storico-culturale; § Cocconato, in quanto rappresentativo di un contesto territoriale dalla forte tradizione di autonomia; § Cortazzone, in quanto rappresentativo del contesto delle Valli dell’Astigiano nord occidentale; § Settime, in quanto rappresentativo del contesto peculiare della Valle del Rilate e delle Colline del nord-est, attorno a Montechiaro; § Villafranca, in quanto rappresentativo insieme, del contesto della Val Triversa e del corridoio insediativo “forte” dell’Astigiano; § S.Martino Alfieri, in quanto rappresentativo del territorio tra la Valle Borbore e la Val Tanaro; § Tigliole, in quanto rappresentativo, oltre che del territorio di cui sopra, delle Colline che introducono al Roero: § Moncalvo, in quanto emblematica capitale del Monferrato Astigiano; § Montemagno, in quanto rappresentativo oltre che del territorio di cui sopra, delle colline dell’Astigiano orientale; § Villadeati, in quanto rappresentativo dell’estremo nord Astigiano. B. ANALISI STORICA DELLE AREE CAMPIONE Albugnano Cartografia storica Catasto francese: AST, all. G fasc.274 B Toponimo La derivazione del termine è controversa: potrebbe provenire da una volgarizzazione di albus, suggerita dalla conformazione geologica biancastra delle arenarie locali, oppure dal nome di persona Albonius o Albanus, attestato nell’epigrafia latina e in altri toponimi subalpini (ad esempio Albonio, in Val Vigezzo, nel Novarese). Distribuzione insediativa odierna Il centro sorge su un pronunciato rilievo collinare (549 m s.l.m.), dove le propaggini occidentali del Monferrato raggiungono il Chierese. L’abitato presenta un carattere a morfologia accentrata, raccolta sul crinale dell’altura dominante. La conformazione orografica ha favorito una rarefazione degli insediamenti agricoli, determinando un habitat a maglia larga già stabilito nel tardo medioevo. La direttrice viaria principale che attraversa il territorio è costituita dalla statale n.458 Asti-Chivasso, che corre ad est nell’avvallamento ai piedi dell’altura di Albugnano. La prevalente vocazione agricola perdura fino ad oggi, con diffusione dei vigneti particolarmente adeguati all’assetto geomorfologico e alla composizione dei suoli. Sviluppo storico del paesaggio La formazione dell’abitato è legata alla presenza di un’area di strada, che univa con un raccordo due importanti tracciati viari romani: quello che a nord seguiva il corso del Po, con funzione di collegamento trasversale della pianura, e quello a sud costituito dalla via Fulvia, sul percorso Torino-Asti-Tortona. Il tracciato risulta già attestato da indizi archeologici e documentari per l’età altomedievale (Settia, 1991, pp. 257-263), e assumeva un ruolo importante per l’attraversamento di questo tratto delle colline monferrine, partendo dalla città scomparsa di Industria, presso Chivasso. Il sedime odierno della statale n.458 ripercorre senza dubbio l’antico raccordo viario. La toponomastica aiuta a identificare la vocazione di strada dell’area, con la presenza del borgo denominato Colla (attestato nel catasto del 1670), che indica un valico collinare, e della vicina chiesa di San Pietro de Fenestella già ricordata in un documento del 1235 (Le carte dell’archivio arcivescovile di Vercelli, doc. 53). Il termine Fenestella è qui utilizzato per evocare un “colle stretto, di passaggio obbligato”, e non a caso corrisponde all’insediamento religioso più antico conservato nel territorio. San Pietro dipendeva formalmente dalla pieve di Pino d’Asti, legata alla diocesi di Vercelli e collocata lungo il medesimo tracciato viario che proveniva da Industria. La chiesa di Albugnano aveva guadagnato una notevole importanza nel contesto locale fino ad assumere dignità parrocchiale. L’edificio è oggi ben conservato e rappresenta un esempio della scuola romanica monferrina. La struttura a navata unica con abside semicircolare segue il modello architettonico dominante, che può essere assegnato alla seconda metà del XII secolo in base alla tessitura dei conci murari e alla soluzione decorativa degli archetti pensili intrecciati. La funzione cimiteriale e di nodo viario del San Pietro de Fenestella appare tuttora leggibile, con la permanenza degli antichi diritti di sepoltura, mantenuti anche dopo lo spostamento della sede parrocchiale al centro del paese di Albugnano, presso la chiesa di San Giacomo Maggiore. Il nuovo edificio venne realizzato a partire dalla XV secolo e ristrutturato nel corso dell’Ottocento, ma ancora nel 1676 sono attestate lamentele della comunità presso il vescovo perché l’antico San Pietro, trascurato dal clero, “cade in rovina e non vi si può celebrare”. Il centro monumentale di maggiore interesse s’identifica nella canonica di Santa Maria di Vezzolano, che sorge in un avvallamento poco distante dalla parrocchia antica. La chiesa costituisce uno degli edifici più importanti del medioevo piemontese, che documenta il passaggio dalla tradizione romanica alle prime forme gotiche. E’ singolare che, nonostante il fiorire di studi (Settia, 1975; Scolari, 1978; Salerno, 1991; Carità, 1992), nella cartografia e nella segnaletica turistica si continui a parlare della “abbazia” di Vezzolano, nonostante si trattasse di un centro canonicale. La comunità di regolari era nata nel 1095 per iniziativa di un gruppo famigliare locale, collegato da rapporti di vassallaggio con i marchesi di Monferrato e con i conti di Biandrate. Nel corso del XII secolo la canonica aveva assunto un’importanza sempre maggiore, favorita dal successo di questi istituti nel contesto della riforma ecclesiastica, aggregando un vasto patrimonio fondiario e assumendo un ruolo determinante per lo sviluppo dell’abitato di Albugnano. Il collegamento con i poteri forti, in primo luogo con i marchesi aleramici, aveva promosso l’affermazione della comunità, con l’avvio di un impegnativo cantiere di ricostruzione dell’edificio nelle forme attuali. Il complesso, composto della chiesa, dal chiostro e da edifici di servizio, segue modelli monastici e segna, nell’aggiornamento delle forme scultoree e nell’uso sistematico dell’arco acuto, un importante progresso per l’elaborazione delle nuove forme monumentali al passaggio tra XII e XIII secolo. Nello sviluppo insediativo dell’area la politica espansiva del potente comune di Chieri ha interferito in modo determinante tra XII e XIV secolo, favorendo l’inurbamento della popolazione e portando all’abbandono dei centri agricoli periferici. Il territorio si collocava in una posizione liminare tra il dominio dinastico degli Aleramici, confluito nei possedimenti dei marchesi di Monferrato, e il contado comunale, teatro di conflitti per il controllo delle zone produttive. Di qui la formazione del castello e di un borgo murato, che garantiva al potere signorile una adeguata sicurezza. In epoca moderna Albugnano sarà coinvolto nelle guerre condotte dai Savoia per il controllo dell’area monferrina, fino alla definitiva annessione al ducato nel 1631. Le tracce del castello sono oggi scomparse insieme a quelle del borgo, dopo le distruzioni belliche operate dalle truppe del maresciallo Brissac e la perdita dell’importanza militare per lo spostamento verso est della linea di confine sabauda. Ancora all’inizio dell’Ottocento, però, il tracciato delle fortificazioni risultava visibile, per consistenti tratti della cinta muraria. Il De Canis attesta la trasformazione della cortina in sedimi abitativi: “La cinta esteriore scomparve e nei suoi intervalli furono edificate delle case sul dosso del colle” (Bordone, 1977, p. 49). Appare così documentato un esempio interessante di espansione urbana lungo il limite perimetrale delle murature preesistenti, che ha generato la morfologia curvilinea e accentrata dell’insediamento. Cocconato Cartografia storica Catasto antico: AST, 1789 all. C rot.42 all. E vol.39 Catasto francese: AST, all. G fasc.248 all. H fasc.375 Toponimo Da intendere come “luogo collinare, di forma ovata” (cfr. il piemontese cucùn). Distribuzione insediativa odierna Il centro abitato si colloca sulla cima di un’altura preminente sul territorio (490 mt. slm), con morfologia accentrata intorno al castello, oggi non più conservato. La disposizione edilizia segue l’andamento delle curve di livello, descrivendo anelli approssimativamente concentrici, ricavati su terrazzamenti artificiali. Lo sviluppo successivo dell’insediamento è avvenuto in linea lungo le vie di accesso che salgono sul rilievo collinare. Le altre strutture a carattere agricolo appaiono disperse nel territorio senza raggiungere accentramenti notevoli. Cocconato non risultava inserito nella rete di comunicazione storica che attraversava l’area, e ancora nel primo Ottocento gli abitanti lamentavano la difficoltà dei collegamenti locali (Casalis, 18331856, vol.5, p.285). Più tardi sono state realizzate nuove direttrici viarie che hanno contribuito a limitare l’isolamento dell’abitato: a ovest la statale di Casalborgone (n.458) e a est la ferrovia Asti-Chivasso. Sviluppo storico del paesaggio Il villaggio di Cocconato appare documentato fin dall’anno 1000 come Conconada (I Biscioni, 1939, doc. 36), formatosi in seguito alla colonizzazione agricola dei rilievi collinari monferrini. Assumeva la dignità plebana abbastanza tardi, come risultato di uno smembramento del distretto di Montiglio (Settia, 1991, p.229). La sede della pieve si collocava presso la chiesa di Santa Maria, attestata tardivamente in età romanica. L’edificio è tuttora conservato, sotto forma di cappella monoabsidata a navata unica orientata, che non presenta caratteri medievali e appare frutto di una ristrutturazione. La collocazione originaria però rimane accertata, testimoniata anche dal microtoponimo “La pieve”, riferito a un modesto rilievo collinare che domina il tracciato della strada di fondovalle, al sud-est dell’abitato di Cocconato. In relazione all’insediamento si registra uno scavo stratigrafico a cura della Soprintendenza archeologica del Piemonte, che ha consentito di approfondire la conoscenza dell’edificio (Crosetto, 1991). Con ogni probabilità il centro religioso testimonia la presenza di un precedente insediamento agricolo sparso, che soltanto verso la fine del medioevo venne accentrato intorno al castello posto in altura. La scoperta di un tesoretto di monete antoniane e di un’iscrizione romana sulla strada verso Montiglio, dedicata a Mercurio (Corpus Inscriptionum Latinarum, vol.V, n.7463), documentano la frequentazione dell’area in età antica. Il centro fortificato sorgeva sulla sommità dell’altura e oggi non si conservano resti in alzato, a parte una torre che ha subito forti rimaneggiamenti e già al De Canis appariva “mezzo rovinata” (Bordone, 1977, p. 125). Il dominatus loci apparteneva ai signori di Cocconato, inseriti nell’”hospicium de Radicata”, attestato con sicurezza a partire dal 1290, un consortile che raggruppava diversi rami dei Cocconato e dei signori di San Sebastiano Po, di cui sono pervenuti gli statuti nobiliari. Nel quadro delle lotte tra il comune di Asti, i marchesi di Monferrato e i conti di Savoia per il dominio del territorio, Cocconato subì alterne dominazioni, fino ad entrare definitivamente nell’orbita sabauda a partire dalla dedizione del 1452. Nel centro urbano si riconoscono ancora le strutture dell’insediamento medievale, nonostante le riplasmazioni successive. L’edificio più significativo è costituito dal palazzo oggi sede del Comune, attribuibile alla fine del XV secolo (Fasolis, 1936). Appare ben conservato l’assetto architettonico disposto lungo la via principale d’accesso alla sommità della collina, con fronte curvilineo porticato, poggiante su pilastri che sostengono volte a crociera con costoloni trasversali. Nell’angolo d’ingresso si riconosce l’assetto dei sostegni originari, formati da semicolonne addossate ad un nucleo quadrangolare, con capitelli cubici. Le cornici marcapiano sono costituite da formelle figurate prodotte a stampo, con una tecnica caratteristica della “civiltà del cotto” tardogotico subalpino. Gli edifici religiosi sono stati tutti ricostruiti in età moderna: alla prima metà del Seicento può essere assegnata la chiesa della confraternita della Trinità (con facciata settecentesca), al primo Ottocento la parrocchiale di Santa Maria (Cavallino, Croce, 2001), posta alla sommità della collina, presso l’area del castello dismesso. Nel 1886 venne consacrata la cappella campestre di San Sebastiano, lungo la via d’accesso meridionale che sale all’abitato. Nel secolo scorso Cocconato manteneva un’economia agricola, basata principalmente sulla vite, ma esistevano anche attività artigianali ed estrattive nel settore del gesso. Un esempio di edilizia pubblica post-unitaria è costituito dalla tettoia comunale, realizzata nel 1881 per ospitare le attività di mercatura. Il comune ha subito uno spopolamento notevole nel corso degli ultimi due secoli, caratteristico dei piccoli centri dell’area monferrina: se al principio dell’Ottocento contava 2700 abitanti, oggi non raggiunge i 1600. Il calo demografico ha favorito la formazione sul territorio di un patrimonio edilizio rurale dismesso, che conosce attualmente una nuova fase di recupero, con flussi di acquisti anche dall’estero. Cortazzone Cartografia storica Catasto antico (1769): AST, all. C rotolo 114 all. E vol.42 Catasto francese: AST, all. G fasc.253 all. H fasc.376 Toponimo Da “curtis Azonis”, derivato dal nome prediale del proprietario antico, di origine altomedievale. E’ la traccia linguistica di un’organizzazione agricola di tipo curtense presente sul territorio, attestata in altri casi dell’area astigiana (ad esempio Cortanze, da “curtis Anserium”). Distribuzione insediativa odierna Il paesaggio ha conservato l’assetto insediativo precedente all’età moderna, senza subire incisive alterazioni, costituendo un caso campione di particolare interesse. Il sostrato del popolamento medievale resta tuttora riconoscibile. La distribuzione appare omogenea, senza squilibri territoriali. Il reticolo viario principale segue un tracciato in piano e rimane secondario rispetto alle arterie più trafficate dell’area, con assenza di strade ferrate. L’assetto agricolo odierno è caratterizzato da seminativi, viti e colture arboree di alto fusto (pioppi), alternati a bosco e prato. L’abitato di Cortazzone (attuale sede comunale) costituisce il centro preminente, a morfologia accentrata intorno al castello, collocato in altura (231 mt. s.l.m). A circa 1 km a nord-ovest dal paese, sulla collina di Mongiglietto (241 mt s.l.m.), si conserva la chiesa romanica di San Secondo, monumento emergente dell’area, tra i più significativi e meglio conservati della scuola di Monferrato. Nel resto del territorio comunale permane una forma d’insediamento agricolo sparso a maglia larga. Sviluppo storico del paesaggio Non esistono nel territorio tracce dell’età antica e le prime forme d’insediamento si collocano probabilmente nell’alto medioevo. L’area doveva apparire in gran parte coperta da foreste e la colonizzazione dell’incolto si verifica nel quadro dell’espansione agraria dell’XI secolo. Nei documenti la località compare inizialmente come possedimento dei vescovi di Pavia, che a Cortazzone e a Tigliole controllano due castelli con i relativi diritti signorili (Bordone, 1980, p.144). Si tratta delle uniche enclaves religiose esogene nella grande area diocesana dominata dei vescovi astigiani. La chiesa di San Secondo sorge sulla collina di Mongiglietto, a nord-ovest dell’abitato di Cortazzone, e costituisce il monumento più antico conservato nell’area. La posizione dominante sul paesaggio venne scelta in modo consapevole dai costruttori, come segno di organizzazione ecclesiastica del territorio. Una notizia di scavo riguarda le ricerche promosse nel 1893 da A. Demarchi per conto della Delegazione Regionale per la Conservazione dei Monumenti, presso il lato nord dell’edificio, con il ritrovamento delle fondazioni di una struttura quadrangolare, riferibile probabilmente al campanile. Nata forse come dipendenza della diocesi pavese, dall’epoca in cui compare la chiesa nei documenti risulta già un possedimento dei vescovi di Asti (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, pp. 104-105). Nell’anno 1300 infatti il vicario del vescovo, Guido, ne conferiva l’amministrazione a un sacerdote presentato dai signori di Cortazzone, Francesco di Montiglio e Baldracco Pelletta, che detenevano il patronato sulla chiesa. Nel 1345 San Secondo risulta inserito nel distretto della pieve di Montechiaro, a sua volta dipendente dal capitolo di Asti. Un documento del 1390 (perduto ma attestato dal De Canis, in Bordone, 1977, p.130) viene siglato nella chiesa e ricorda gli affreschi del catino absidale (le figure però vennero probabilmente ridipinte, perché la critica le attribuisce alla prima metà del XV secolo: Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, p.XXVII). Alla fine del medioevo la crisi dell’ordinamento plebano e la polarizzazione dell’insediamento sul castello hanno favorito la nascita di un secondo centro di culto, che ha ereditato il titolo della chiesa antica. Il nuovo San Secondo acquisiva diritti parrocchiali soltanto nel 1660, ma da tempo aveva assunto un’importanza preminente. Sappiamo infatti dalla visita pastorale del 1585 che la chiesa antica veniva officiata soltanto poche volte all’anno e svolgeva una funzione cimiteriale per il borgo. Nel 1688 venne dotata di un campaniletto a vela in facciata, tuttora conservato. La nuova chiesa del borgo venne ricostruita in forme neogotiche al principio del Novecento, mentre il primo San Secondo conserva un impianto romanico. La struttura architettonica è a tre navate, spartite da tozze colonne con capitelli figurati, e concluse da tre absidi semicircolari. Le volte con archi trasversi acuti sono sicuramente frutto di un’aggiunta posteriore alla fase romanica. La tecnica costruttiva utilizza materiali di provenienza locale: arenaria grigia alternata a corsi di mattone. L’interesse maggiore della chiesa si riscontra nell’apparato decorativo, ricco di sculture fitomorfe e zoomorfe che collegano l’edificio alla scuola di Monferrato, con probabili riferimenti al romanico emiliano e pavese (Fissore Solaro, 1971; Tosco, 1997). Il nucleo principale dell’edificio può essere collocato nel secondo quarto del XII secolo. La decorazione pittorica intervenne in una seconda fase, collocata nella prima metà del Quattrocento. Nella chiesa di San Grato a Moransengo sono stati recentemente rinvenuti resti di affreschi che sembrano vicini al maestro di San Secondo, databili a un’epoca coeva (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, p.XXXIV). Il castello di Cortazzone costituisce il polo di accentramento del nuovo abitato. Il territorio passa da una forma d’insediamento sparso gravitante intorno alla chiesa di San Secondo, caratteristico dell’alto medioevo, a una struttura accentrata intorno alla fortificazione. Il dominio signorile garantisce sicurezza e organizza la colonizzazione dell’area. Circa la fase vescovile del castello siamo poco informati, mentre il potenziamento della fortificazione si colloca con l’arrivo delle famiglie astigiane Pelletta e Montiglio, per mediazione dei Solaro. Nel 1223 Palmero Solaro e il suo socio Enrico Cazo Pelletta, che aveva fondato le loro fortune sull’attività mercantile e sul prestito di denaro, acquistarono dal vescovo di Pavia i due castelli di Cortazzone e Cortadone, con terre e diritti. Con ogni probabilità gli acquisti derivavano dalla precedente concessione di un mutuo al vescovo di Pavia (Castellani, 1998, pp.25 e 67). I beni non restavano a lungo nelle mani dei Solaro e nel 1228 i nuovi proprietari vendevano ad esponenti delle famiglie Pelletta e di Montiglio, impegnate nell’attività feneratizia, il castello con i beni fondiari e i diritti signorili (Carte astigiane 1, doc.1, anno 1300). Da questo momento un ramo della famiglia Pelletta s’insediava stabilmente a Cortazzone, guadagnando spazio rispetto ai Montiglio e fissando nel territorio un forte radicamento feudale, destinato protrarsi fino all’età moderna. E’ presumibile che a loro si debba il potenziamento del castello, ricostruito in muratura e rafforzato nelle strutture difensive. Soprattutto Bonifacio Pelletta, nel primo Trecento, mostra di essere il dominus loci di Cortazzone e, sebbene possedesse una casa ad Asti, dimora sovente nel castello, dove redige atti di locazione e di enfiteusi (Catellani, 1998, p.178). Il fenomeno s’inquadra in una fase di ritorno al contado dei cittadini astigiani che hanno accumulato grandi fortune tramite il commercio e l’attività feneratizia, con la formazione di stabili signorie territoriali locali. Il castello diviene a partire dal XIII secolo il polo di aggregazione dell’abitato di Cortazzone, che si sviluppa sulle pendici meridionali della collina. L’insediamento odierno conserva un assetto disposto a fasce sulla costa sud dell’altura dominata dal castello. I centri civili e religiosi si collocano a scalare sui terrazzamenti ricavati sul crinale, con il Municipio e la nuova chiesa di San Secondo. Il trasferimento di proprietà del centro fortificato segna il passaggio da un’autorità esterna (i vescovi di Pavia) a un potere signorile in ascesa, ben radicato nel contesto locale. Di qui la formazione del nuovo polo insediativo e la nuova morfologia accentrata assunta dall’abitato, destinata a non subire notevoli variazioni fino all’età moderna. Il castello presenta oggi un assetto composito frutto di ricostruzioni e restauri. Il nucleo più antico, databile al XIV-XV secolo, è ancora riconoscibile nelle strutture collocate alla sommità dell’altura, su un terrazzamento artificiale. Elementi della cortina sono visibili sul lato meridionale, inglobati in ampliamenti posteriori, con un coronamenti di merli a coda di rondine e un fregio continuo di mattoni. La riplasmazione settecentesca a conservato inoltre l’assetto di una struttura quadrangolare, adibita presumibilmente a spazio residenziale privilegiato, sviluppata su tre livelli, dove permangono una bifora ed elementi della decorazione in cotto. Nel 1362 il castello venne preso e saccheggiato da una compagnia di ventura inglese, che derubò i beni mobili dei Pelletta custoditi tra le mura (“Castrum Cortansoni fuit raptum, scalatum et penitus derobatum”, Chronicon illorum de Solario, da Vergano, 1990, III, p.44). I fatti bellici non provocarono probabilmente la distruzione dell’edificio, mentre danni maggiori si verificarono più tardi, durante l’occupazione delle truppe francesi nel 1706. Alla metà del Settecento il castello venne ristrutturato e i lavori ripresi nel primo Ottocento, con l’intervento di Carlo Bernardo Mosca (Comoli, V. – Guardamagna, L. – Viglino, M., a cura di, 1997). Nei secoli XVI-XVIII si assiste alla formazione di una maglia insediativa larga, con gruppi di aziende agricole sparse nel territorio, collocate in prevalenza sulle alture collinari. L’unico insediamento accentrato rimane quello di Cortazzone, dove la nuova chiesa assume diritti parrocchiali nel 1660, determinando la circoscrizione religiosa e amministrativa locale. Tale quadro territoriale è illustrato dalla mappa del catasto sabaudo del 1769 (AST, catasto antico, all. C rotolo 114), dove si riconosce il tessuto agricolo parcellare e la distribuzione ormai fissata degli insediamenti, corrispondente a quella odierna. Presso i nuclei abitativi rurali si moltiplicano cappelle minori (Sant’Antonio, San Salvatore, con diritti cimiteriali, San Defendente, San Giacomo, San Carlo). Ai confini dell’abitato principale venne realizzata la chiesa “di strada” della Madonna della Valle (poi della Neve), in corrispondenza dell’incrocio viario a sud-est, mentre sul versante opposto della collina si costruiva la cappella della confraternita di San Rocco, secondo un’usanza religiosa caratteristica, per scongiurare il pericolo di epidemie. Il cimitero maggiore (di cui oggi non restano tracce soprassuolo) rimaneva presso la chiesa antica di San Secondo e soltanto nel dopoguerra verrà stabilita la nuova sede cimiteriale, ai piedi della collina di Cortazzone. Le proprietà appaiono suddivise tra grandi famiglie, con vaste aree coltivate e presenza di bosco, gherbido, prato. I maggiori proprietari locali restano i conti Pelletta (insediati come abbiamo visto a partire dal 1223), che mantengono i diritti feudali immuni sul castello. La struttura produttiva più significativa dei Pelletta si riconosce nella cascina con porticato e impianto a U, collegata alla chiesa di San Rocco, tuttora conservata. Tra i nuovi proprietari presenti nell’area si distingue la comparsa dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, in seguito a un lascito testamentario della famiglia Govone. Un segno materiale di questi possedimenti è costituito da una serie di cippi liminari lapidei con la croce dell’Ordine, rimossi dai confini agricoli di pertinenza, oggi raccolti presso la sede del Municipio. All’inizio dell’Ottocento il territorio collinare appariva coltivato in prevalenza a viti, con ampia permanenza di aree boschive (De Canis, in Bordone, 1977, Proposta per una lettura, 1977, p.131). L’economia locale ha seguito questa specializzazione monoculturale e non ha segnato sviluppi nel settore industriale, con il conseguente esodo della popolazione attiva: all’inizio dell’Ottocento il quadro demografico raggiungeva le 1500 persone (Casalis 18331856, vol.5, pp.446-450), mentre oggi il comune conta 520 abitanti. La perdita di 2/3 della popolazione residente ha segnato la crisi degli antichi equilibri territoriali ma ha anche preservato il paesaggio dall’espansione edilizia, consentendo una diffusa conservazione dei caratteri originari. Nell’ultimo decennio si registrano fenomeni di ripresa demografica, con nuove iniziative imprenditoriali nel settore rurale. L’impianto di colture biologiche e la nascita di numerose aziende agrituristiche contribuiscono alla conservazione delle qualità ambientali e alla diffusione del turismo culturale, attratto dalla chiesa romanica di San Secondo. Moncalvo Cartografia storica Catasto francese: AST, all.G fasc.52 Toponimo Monte “calvo”, con il significato di “nudo, brullo”. Distribuzione insediativa odierna Il centro di Moncalvo si colloca in altura (312 mt. slm), in posizione dominante rispetto ai percorsi viari di fondovalle. Il territorio pianeggiante è attraversato da frequentate vie di comunicazione, che collegano Asti a Casale e al corso del Po, con la Statale n.457 e la ferrovia che segue un tracciato parallelo. Il percorso stradale è attestato fin dall’età antica e costituisce un esempio significativo di permanenza della rete viaria romana. L’importanza storica di Moncalvo, piazza di mercato con attività produttive legate alla piccola industria e all’agricoltura, ha favorito la formazione di un centro preminente nel conteso monferrino, che oltrepassa i 3500 abitanti. E’ significativo che Moncalvo non abbia subito lo spopolamento degli altri comuni dell’area, mantenendo tuttora un livello demografico prossimo a quello attestato all’inizio dell’Ottocento (Casalis, 1833-1856, vol.10, p. 566). L’equilibrio è stato conservato anche grazie alla nuova immigrazione, negli anni Cinquanta e Sessanta, dal Mezzogiorno e dal Polesine. L’abitato assume una forma cruciforme, condizionata dall’andamento della cinta muraria, oggi in parte conservata, che seguiva l’orografia della sommità collinare. Sul fondovalle, in corrispondenza della stazione ferroviaria, si è formato un borgo extramuraio, sede di attività produttive. Il territorio collinare è interessato da un apporto idrico consistente, con corsi d’acqua a regime torrentizio (il Menga, il Grana, il Valsesio) che contribuiscono alla fertilità dei suoli, destinati alla coltivazione di cereali e soprattutto viti. Nell’ultimo decennio le attività legate al turismo e all’enogastronomia hanno conosciuto un notevole incremento. Sviluppo storico del paesaggio Il centro di Moncalvo deve senza dubbio la sua importanza storica alla posizione dominante su un percorso viario frequentato fin dall’antichità, a metà strada tra Asti e Casale Monferrato. Il ritrovamento di lapidi romane conferma la presenza di un insediamento dell’età imperiale, che però non può essere per il momento localizzato con certezza. Appare ben documentato invece lo stanziamento di genti longobarde nell’area, grazie alla scoperta di una necropoli tra il 1880 e il 1899, in località S. Stefano, a cinque chilometri da Moncalvo, nello spartiacque tra la valle della Versa e la valle del Grana (Settia, 1983, p. 244). Insieme alla tombe vennero ritrovate tracce abbastanza consistenti di un insediamento (un focolare, frammenti litici) che purtroppo non vennero indagate con la dovuta attenzione archeologica. La presenza longobarda costituisce un esempio di grande interesse perché per l’area monferrina le testimonianze altomedievali restano estremamente rare. Le più antiche strutture d’inquadramento territoriale sono identificabili nell’organizzazione religiosa: Moncalvo aveva assunto la dignità di sede plebana, dipendente dalla diocesi di Vercelli, nonostante si trovasse in un territorio di marcata influenza astigiana. La sede plebana primitiva era collocata presso la chiesa di San Pietro, fuori dall’abitato attuale, vicino al cantone Gessi, e manteneva una limitata dipendenza ecclesiastica, comprendente tre edifici, tra cui l’abbazia di Grazzano (Ferraris, 1995, p. 164, nota 172). La collocazione esterna della pieve antica e il ritrovamento del cimitero longobardo dimostrano che le prime forme d’insediamento dovevano apparire sensibilmente diverse da quella attuale, con un habitat disperso che soltanto nei secoli centrali del medioevo venne accentrato sul castello. Lo sviluppo del centro di Moncalvo è legato al dominio dei marchesi di Monferrato, che mantenevano fin dall’età dei primi Aleramici importanti possedimenti allodiali nell’area (Settia, 1983, p. 33). Il castello diveniva un fulcro difensivo di primaria importanza di fronte alla minaccia astigiana. A differenza di altri centri fortificati monferrini, il castello mantenne, in virtù della sua collocazione, una notevole importanza strategica anche in età moderna, con il potenziamento delle difese medievali e l’aggiunta di nuovi bastioni “alla moderna”, ampiamente documentati dalla cartografia militare (Minoglio, 1877). Il forte venne quindi coinvolto nelle guerre per la successione del Monferrato, passato sotto il controllo dei Gonzaga, fino all’annessione sabauda del 1704. Le strutture superstiti lasciano intuire l’importanza della fortificazione, che comprendeva il perimetro della cinta urbica, intervallato da torri, e il castello signorile a cavaliere delle mura. La cartografia (in particolare i disegni raccolti nei volumi di Architettura militare presso l’Archivio di Stato di Torino) documenta l’adattamento delle fortificazioni in età moderna, con l’aggiunta di una tenaglia in corrispondenza della porta Rechius e di un bastione alle mura del castello, rivolto verso il centro urbano. Oggi si conserva parte della muratura del lato settentrionale del castello, con le torri cilindriche rafforzate alla base da un’imponente scarpatura, e i beccatelli alla sommità delle cortine, che dovevano terminare con merlature demolite per adattare la fortificazione alla difesa contro le armi da fuoco. Queste strutture possono essere riferite al pieno XV secolo e rappresentano un patrimonio monumentale di grande interesse, oggi non adeguatamente valorizzato nel contesto urbanistico e adibito a parcheggio. Nel centro urbano si conservano diversi edifici civili e religiosi tardo medievali, collegati alla funzione assunta da Moncalvo nel quadro del Marchesato. La chiesa di San Francesco costituisce uno degli edifici più significativi del gotico mendicante subalpino, ben conservata nella struttura absidale e nel campanile (Burroni, 1941). Il corpo longitudinale venne ricostruito in età barocca, con l’aggiunta della facciata terminata soltanto nel 1932. La comunità francescana aveva assunto un ruolo di prima importanza nella vita religiosa locale, in stretto rapporto con l’autorità dei marchesi, come dimostra la sepoltura di Teodoro II Paleologo, morto nel 1418, tra le mura del convento. Soltanto dopo la soppressione napoleonica i frati furono obbligati ad abbandonare la chiesa, divenuta sede parrocchiale. Nella parte alta dell’abitato si conservano esempi di architettura civile quattrocentesca, con la casa Lanfrancone (molto restaurata) e l’edificio a blocco chiuso di piazza Garibaldi (comunemente definito “Palazzo Paleologo”), con monofore arcuate poggianti su cornici continue marcadavanzale. La decorazione in laterizio è composta da formelle a stampo, ornate con immagini di grappoli d’uva: una testimonianza significativa della produzione viticola locale, già rinomata nel tardo medioevo. L’età barocca è rappresentata dal patrimonio di edifici religiosi, con la chiesa della Madonna, attribuita all’architetto casalese F. O. Magnocavallo (1707-1789), e la chiesa di Sant’Antonio Abate, ricostruita all’inizio del Seicento. La comunità ebraica ha mantenuto un’importanza considerevole nella vita economica del borgo, riconosciuta dalle autorità sabaude con l’istituzione del ghetto nel 1732 e la costruzione della sinagoga (Foa, 1950). Nel corso dell’Ottocento a Moncalvo vennero realizzati lavori di “decoro urbano” che interessarono la parte sommitale, dove si collocava il castello, trasformando una torre in belvedere, con ampie arcate su pilastrini, e realizzando il teatro comunale sulla piazza Garibaldi, inaugurato nel 1878. La piazza di mercato assumeva così un nuovo ruolo di rappresentanza nel quadro dell’economia agricola del territorio circostante (Picco, 1905). Nel borgo a valle si erano addensate attività produttive, legate alla filatura e alla concia delle pelli, che insieme alla presenza di cave di pietra da taglio e di gesso costituivano un primo sviluppo dell’industriale locale, oggi in buona parte dismessa. Montemagno Cartografia storica Catasto antico (1770): AST, all. C rotolo 167 Catasto francese: AST, all. A pf.113 all. B atl.151 Toponimo Nome derivato dalla caratteristica orografica del territorio, secondo un processo frequentemente attestato in area subalpina (Montegrosso, Montagnana, Montanaro etc.) Distribuzione insediativa odierna Il borgo si colloca sulle colline nord-est del capoluogo astigiano, presso il confine con la provincia di Alessandria. La collocazione in altura (260 m s.l.m.) ha favorito l’insediamento di un luogo fortificato, dominante sui bassi rilievi monferrini circostanti. I collegamenti sono secondari rispetto alla rete locale e, attraverso la provinciale di Calliano, il centro è unito alla statale n.457, che raccorda Asti a Casale e a Trino. Tale area di strada, oggi affiancata dalla ferrovia, valicava il Po presso Pontestura e aveva assunto un’importanza notevole già nel corso del Medioevo, esempio significativo di conservazione di un tracciato storico. Il versante dell’altura urbanizzata rivolto al corso del torrente Grana offriva il principale collegamento con i centri monferrini e rimane ancora oggi un percorso panoramico ad alta potenzialità turistica. Sviluppo storico del paesaggio Già attestato nella documentazione a partire dal X secolo, Montemagno ha assunto un’importanza notevole per la posizione strategica nell’area collinare, collocato al confine tra i domini del comune di Asti e dei marchesi di Monferrato. La nascita del castello e il suo potenziamento militare si comprende dunque non soltanto nel quadro locale di dominatus loci, ma in una rete più ampia di potenze contrastanti. E’ significativo che il cronista Gabriele Bucci nel suo Memoriale quadripartitum (p.264) definisca Montemagno “clavis Montisferrati” (chiave del Monferrato), indicando così il ruolo determinante della fortificazione per l’accesso all’area. Nei secoli XI-XIII è il vescovo di Asti che detiene il controllo del castello nonostante le ingerenze dei marchesi di Monferrato, concedendolo in feudo ai locali domini di Montemagno. I vassalli vescovili però erano stretti tra le potenze confinanti e il castello, con il villaggio, furono “diruti” durante le guerre contro l’avanzata di Carlo d’Angiò nel Piemonte meridionale. Nel 1269 il comune di Asti otteneva il controllo della fortificazione, tramite un atto di vendita da parte del consortile nobiliare locale, registrato nel Codex Astensis (doc.724), con il pagamento della cifra considerevole di 3325 lire. La reazione vescovile non si fece attendere e il comune venne scomunicato, innescando un lungo contenzioso con l’autorità religiosa. Nel quadro delle tensioni tra guelfi e ghibellini la fortificazione venne successivamente occupata dalla famiglia signorile astigiana degli Asinari e nel 1310 l’imperatore Enrico VII, entrato ad Asti per rappacificare le fazioni, imponeva con un diploma di riconciliazione la restituzione del castello alla città, a fronte del pagamento di una cauzione (Monumenta Germaniae Historica, Legum, doc. 474). Il dominio signorile però era saldamente radicato e l’insolvenza del comune, dovuta alla crisi finanziaria ormai in atto, provocò di fatto l’impossibilità di eseguire la sentenza imperiale. Nelle guerre successive per il controllo del Monferrato, tra XV e XVI secolo, la fortificazione conobbe ulteriori passaggi di proprietà, fino a confluire definitivamente nel dominio sabaudo. Il castello costituisce ancora oggi l’elemento monumentale preminente, con pianta rettangolare, due torri di spigolo e merlature sommitali, in buona parte frutto delle ristrutturazioni successive. L’intervento più significativo, che ha alterato l’assetto duetrecentesco originario, si registra all’inizio del Settecento, con la ristrutturazione degli ambienti interni e del cortile ellittico. Gli edifici ecclesiastici formano un patrimonio disomogeneo, che testimonia epoche diverse d’intervento. La chiesa dell’Assunta, che svolge funzione parrocchiale per l’abitato, realizzata tra XVIII e XIX secolo, è un esempio di passaggio dal tardo barocco alle prime forme di neoclassicismo, caratterizzata da un pronao curvilineo antistante la facciata, con scalone monumentale d’accesso. La cappella di Santa Maria della Cava conserva un ciclo di affreschi del XV secolo, mentre l’età barocca è documentata dalle chiese della Trinità e di San Michele. Fuori dall’abitato, oggi in posizione isolata e allo stato di rudere, si conservano i resti della chiesa di San Vittore (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998). La struttura originaria doveva presentare un notevole sviluppo monumentale, testimoniato dai frammenti dell’abside curvilinea e della torre campanaria affiancata. Documentato a partire dal 1345, l’edificio si collega alla scuola romanica del Monferrato e può essere attribuito alla metà del XII secolo. La collocazione del rudere rappresenta un diverso assetto precedente del territorio, caratterizzato da un insediamento rurale sparso. L’accentramento sull’odierno abitato di Montemagno si registra a partire dall’età moderna e la nuova parrocchia dell’Assunta compare nei documenti a partire dalla fine del Cinquecento. Evoluzione del sistema fortificato L’insediamento di Montemagno presenta una dinamica complessa, che dal nucleo castrense iniziale coinvolge il centro abitato, al passaggio tra Medioevo ed Età Moderna. Lo sviluppo dell’insediamento passa attraverso fasi successive che possono essere così schematizzate: I FASE (XI-XII secolo) Fondazione del castello signorile, per probabile iniziativa dei vescovi artigiani, sito di altura (272 m. s.l.m.), in un’area di confine con il dominio dei marchesi di Monferrato. In questa fase l’insediamento rurale circostante doveva presentare un assetto disperso nel territorio, gravitante intorno a centri religiosi, che non avevano generato però nuclei di notevole concentrazione. A testimonianza di tale periodo rimane la chiesa romanica di San Vittore (metà XII secolo), conservata allo stato di rudere fuori dall’abitato odierno. II FASE (XIII-XIV secolo) L’acquisizione del castello da parte del comune artigiano nel 1269, fortemente contrastata dall’autorità vescovile, innesca un periodo di conflitti che coinvolgono la fortificazione e il territorio. Il risultato di questa politica è la formazione di un nucleo insediativo protetto, un ricetto, realizzato per accogliere in sicurezza la popolazione circostante. La maglia odierna del borgo conserva una traccia di tale fase nell’area nord-est sottostante il castello, caratterizzata da un tracciato regolare a lunghi isolati paralleli, che denuncia con chiarezza un progetto insediativo coordinato. Il tracciato della fortificazione può essere ricostruito nell’andamento curvilineo della strada che seguiva il profilo del muro perimetrale. Il ricetto era collegato al castello in un sistema difensivo unitario, in grado di garantire sicurezza alla popolazione e alla residenza signorile. III FASE (XV-XVI secolo) La crescente importanza del castello, nel quadro delle guerre per il dominio dell’area monferrina, favorisce un aumento della popolazione insediata e la realizzazione di un’ulteriore espansone del ricetto, da collocarsi a est del nucleo più antico, in continuità diretta con il sistema consolidato. L’espansione è indicata nei consegnamenti del XV secolo come Borgo Nuovo, difeso da strutture murarie aggiunte, che proseguivano presumibilmente l’andamento della fortificazione già delineata. Non si riconosce però nel Borgo Nuovo lo schema pianificato a isolati regolari che distingueva il nucleo originario del ricetto, segno di una formazione spontanea in un’epoca in cui la capacità d’intervento signorile risultava ormai ridotta. Si stabilizzava così l’assetto odierno dell’abitato, mentre le chiese presenti nelle campagne circostanti venivano disertate dalla popolazione progressivamente abbandonate. Segno del nuovo equilibrio territoriale è la fondazione della parrocchia dell’Assunta, attestata alla fine del Cinquecento. Significativamente la chiesa venne collocata presso la linea d’intersezione tra il ricetto originario e il Borgo Nuovo, in posizione baricentrica rispetto al castello signorile e ai nuclei abitati di recente formazione. San Martino Alfieri Cartografia storica Catasto francese: AST, all. A pf.109 all. H fasc.389 Toponimo Agiotoponimo molto diffuso in Italia settentrionale, al quale è stato accostato dal XIX secolo il nome gentilizio della famiglia signorile. Distribuzione insediativa odierna Il territorio comunale si colloca a cavallo delle alture che dividono la valle Tanaro da quella del Borbore, in un’area che lega il suo sviluppo storico alla colonizzazione del territorio tra Asti ed Alba. Il centro di San Martino si sviluppa sul crinale di una bassa collina (257 m. s.l.m.), seguendo una forma allungata a nastro in direzione dello spartiacque. Le vie di comunicazione locali appaiono di carattere secondario, mentre il collegamento principale si riconosce nella statale n.231 che segue la valle del Tanaro, un tracciato storico già attestato a partire dai secoli centrali del Medioevo. Il paesaggio è caratterizzato dai bassi rilievi della Langa settentrionale, e l’attività economica rimane principalmente agricola, con specializzazione nel settore della viticoltura. Sviluppo storico del paesaggio La formazione del borgo è legata allo sviluppo degli insediamenti rurali nell’XI secolo, in relazione diretta con l’affermazione del potere astigiano, ancora legato in questa fase all’autorità vescovile. La formazione del centro fortificato si collega alle necessità di controllo del contado da parte del comune in ascesa, con la presenza dominante della famiglia Solaro a partire dal Duecento. Del passato medievale non si conservano tracce evidenti, mentre l’elemento emergente dell’abitato odierno è legato alla presenza della famiglia Alfieri che ha promosso la ricostruzione della sede fortificata in palazzo signorile. Si verifica così un processo caratteristico di trasformazione che, tra le aree campione prescelte,. è possibile osservare anche a Villadeati, dove la perdita delle funzioni militari non porta all’abbandono della struttura castrense ma una sua riutilizzazione in senso residenziale aulico. La fase iniziale di trasformazione venne affidata ad un ingegnere militare del calibro di Antonio Bertola, che realizzava qui uno dei suoi primi interventi a favore dell’aristocrazia subalpina. Attivo a San Martino a più riprese nel primo ventennio del Settecento, Bertola impostava i lavori nel castello e per la sistemazione del centro urbano. La residenza venne completamente ristrutturata in senso barocco anche all’interno, con la partecipazione d’importanti figure di decoratori e stuccatori come il Cremonino, il Catenazzi, il Mendrisio. A partire dal 1760 è probabile un intervento di Benedetto Alfieri, relativo alle ali laterali della residenza. Anche il giardino venne coinvolto nei progetti di aggiornamento al nuovo gusto, con la revisione all’inglese della disposizione complessiva. La proliferazione locale dei centri di culto è collegata alla diffusione della pietà tardo barocca e alla ripresa della religione popolare nell’epoca della Restaurazione. Al primo periodo si può riferire la Santissima Annunziata, sede della locale confraternita dei Battuti Bianchi, oggi sconsacrata e potenziale spazio di qualificazione del centro storico, mentre nell’area rurale formano un percorso continuo, suscettibile di essere valorizzato come circuito di visita, le cappelle delle frazioni di Firano, Marelli, Pero, Saracchi e Quaglia. Il centro preminente della devozione locale però è costituito dalla parrocchia dei Santi Carlo e Maria, ricostruita negli anni 1828-1833 su progetto di Ernesto Melano, che interveniva anche su altre strutture pertinenti alla famiglia Alfieri (Dellapiana, 1997). La chiesa rappresenta un caso interessante nella formazione dell’architetto, considerato un protagonista del neogotico piemontese nell’età carloalbertina. In realtà il suo impegno si apre su un più ampio ventaglio eclettico, come dimostra l’intervento di San Martino, che propone una struttura neoclassica con nartece colonnato e timpano di coronamento, dove si elaborano temi affrontati dalla sua generazione di architetti attivi nell’area subalpina, come dimostra un confronto con la parrocchiale di Santhià realizzata negli stessi anni da Giuseppe Talucchi. Settime Cartografia storica Catasto antico (1764-65): AST, all.C rot.159 all.E vol.119 Toponimo Il termine deriva dalla collocazione stradale ad septimum dalla città di Asti. Distribuzione insediativa odierna Il borgo si sviluppa con andamento nastriforme lungo la strada di crinale di un basso rilievo (272 m s.l.m.), sulle propaggini meridionali delle colline monferrine. Il collegamento viario principale si colloca però a valle, dove corre la statale n.458 Asti-Chivasso e un tratto della linea ferroviaria. Oltre al centro abitato maggiore si registra un insediamento sparso caratterizzato da fabbricati agricoli isolati. Le attività economiche restano tuttora legate all’agricoltura, con prevalenza di vigneto. Sviluppo storico del paesaggio La prima attestazione documentaria del villaggio si registra già in epoca altomedievale, in un atto dell’875, come “villa ad Septimum” (Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Asti, doc. 27). La designazione indica un insediamento di modeste dimensioni, legato all’attività agricola, sorto lungo un’area di strada al settimo miglio dalla città di Asti. La direttrice viaria d’origine romana era una variante di raccordo che collegava il corso del Po, all’altezza dell’importante centro d’Industria (oggi scomparso, presso l’odierna Chivasso), con Asti e la via Fulvia. Il territorio doveva apparire tra antichità e alto medioevo coperto in buona parte da foreste, e studi sul paesaggio hanno stabilito la presenza di una vasta silva estesa fino a Villanova, Baldichieri, val Benedetta, utilizzata dalle popolazioni come spazio di coltura spontanea per le attività silvo-pastorali (Gramaglia, 1980). Lo sviluppo dell’abitato presenta delle dinamiche tipiche nel rapporto tra comunità rurali e potere signorile. Il sito originario del villaggio doveva trovarsi a nord-est di quello odierno, su un’altura che conserva tuttora la funzione cimiteriale originaria e la cappella di San Nicola, l’edificio più antico presente nel territorio. Il dominatus loci era garantito dalla presenza di un castello, acquistato al 50% nel 1221 da Bonanato Pelletta, insieme a beni fondiari e a diritti signorili (Castellani, 1998, p.25). L’importante famiglia astigiana dei Pelletta, dedita all’attività feneratizia e protagonista nella vita politica del comune, entrava direttamente nella gestione del centro fortificato, favorendo nuovi equilibri territoriali. Nel corso del secolo al dominio dei Pelletta subentra quello di un’altra famiglia astigiana in forte ascesa economica, i Comentina, che risiedono stabilmente nel castello esercitando con determinazione i diritti signorili. Nel 1309 però la comunità di Settime si rivolta all’autorità dei Comentina, schierati sul fronte ghibellino, appellandosi al comune di Asti dove invece andava affermandosi il partito guelfo in alleanza con gli Angiò. Il risultato di queste vicende politiche si riflette nell’evoluzione del territorio: il sito originario del villaggio costruito “circa castrum” (intorno al castello) venne demolito dagli stessi abitanti che trasferirono beni e proprietà sul colle vicino, per sottrarsi all’ingerenza signorile ponendosi sotto la tutela del comune di Asti. Il cronista Guglielmo Ventura, testimone oculare degli eventi, descrive la situazione con chiarezza: “villa diruta fuit et mutata, et aedificata supra montem de prope” (il villaggio fu demolito e traslato e edificato sopra il monte vicino: G. Venturae Memoriale, col. 770). Nel sito primitivo restava soltanto la chiesa di San Nicola e l’area cimiteriale della parrocchia, conservati fino ad oggi. L’evento storico dimostra la mobilità insediativa medievale e la possibilità di riconoscere nelle architetture la dinamica dei processi che hanno determinato l’assetto odierno del paesaggio. La chiesa di San Nicola, in seguito all’abbandono dei parrocchiani, non ha subito sostanziali rifacimenti e ha mantenuto il suo aspetto romanico: una cappella ad aula dotata di abside semicircolare, con alternanza di corsi di arenaria locale e di mattoni. La cornice di archetti pensili a struttura monoblocco, con protomi umane scolpite e motivi a damier, suggerisce una datazione del manufatto alla seconda metà del XII secolo. La chiesa era rimasta sottomessa al potere signorile, come cappella privata in patronato, passata alla famiglia dei Roero dopo la crisi politica dei Comentina. Nella visita pastorale del 1585 l’edificio risultava in condizioni non buone, aperto al culto solo una volta all’anno, mentre nel nuovo centro era stata costruita una chiesa parrocchiale che garantiva il culto ordinario. L’odierna parrocchia di San Nicolao ha continuato nei secoli a svolgere le sue funzioni e venne ricostruita nelle forme attuali all’inizio del Settecento. Anche il castello subì diversi rifacimenti, soprattutto nel corso del XIX secolo ad opera dei nuovi proprietari, i Borsarelli di Rifreddo. Il complesso, realizzato su un terrapieno con muri di contenimento perimetrali, presenta una pianta ad U, ed è circondato da un ampio parco privato. Nella struttura però sono ancora visibili le parti medievali, soprattutto nelle tracce della finestratura originaria, e uno studio monografico potrebbe rivelare molte informazioni sull’assetto delle stratificazioni. Tigliole Cartografia storica Catasto francese:AST, all.G fasc.260 all.H pf.480 Toponimo Si tratta di un fitotoponimo, derivato dal latino tilius (tiglio), attestato in numerose varianti in area subalpina (Tiglione, presso Vigliano d’Asti, Cortiglione, presso Acqui). Distribuzione insediativa odierna Il paese è collocato su modesto rilievo collinare (239 m s.l.m.), di fronte a un’ampia depressione valliva segnata dal torrente, di carattere sabbioso-ghiaioso. L’insediamento segue la linea del crinale, lungo lo spartiacque est-ovest della collina, e assume una distribuzione nastriforme collegata al passaggio della strada. La presenza del castello non sembra aver generato, in questo caso, la formazione di un insediamento accentrato. Le coltivazioni seguono una ripartizione già attestata nel tardo medioevo, con prati e cereali sul fondovalle e vigneti alternati a bosco ceduo sulle alture. Sviluppo storico del paesaggio L’area di Tigliole è interessata da ritrovamenti preistorici, che offrono dati di primo interesse sull’assetto territoriale antecedente alla conquista romana. In località Pratomorone sono stati indagati, con scavi stratigrafici a cura della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, reperti assegnati alla cultura “Vaso a Bocca Quadrata”. Grazie ad interventi pianificati nel decennio 1982-1992 il sito ha rivelato la sua origine olocenica, offrendo ai ricercatori la possibilità di ricostruire le attività manifatturiere del periodo mesolitico (Mottura, 1983). Mentre per l’età romana non permangono fonti storiche attendibili, le prime notizie certe sull’abitato di Tigliole si registrano in epoca medievale. Il centro appare caratterizzato da uno sdoppiamento insediativo tra gli abitati di Tigliole superiore, collocato in altura e corrispondente alla sede comunale odierna, e Tigliole inferiore, abbandonato alla fine del medioevo. Le notizie più antiche risalgono al X secolo, quando Tigliole superiore compare nei documenti con un sistema insediativo già strutturato. In un atto del 974, conservato all’Archivio Capitolare di Asti, è attestata la presenza di un castrum, un castello, affiancato da una basilica dedicata a Sant’Eugenio, un edificio religioso di proporzioni rilevanti, e da un cimiterio (Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Asti, doc. 95, p. 187). Il centro fortificato, dotato di una cappella all’interno delle mura e di una comunità abbastanza numerosa da disporre di un luogo di sepoltura, dipendeva inizialmente dal vescovo di Pavia, che deteneva diritti ecclesiastici nel territorio della diocesi astigiana. Il territorio assumeva all’epoca un aspetto boscoso, a densa copertura vegetale, con radi insediamenti intercalari, collegati a centri difensivi (oltre a quello di Tigliole nell’area è attestata la presenza del castello di Andona). L’insediamento appare comunque sdoppiato fin dall’XI secolo in due centri distinti, dove a Tigliole era affiancato l’abitato di Tigliolette, o Tegliole inferiore (Teglole inferiores), posto sul piano, attestato fin dal 1041 come dipendenza del vescovo di Asti, nel diploma di conferma dei beni diocesani concesso dall’imperatore Enrico III. Il centro ha assunto una fisionomia curtense (curtis), accentrata sul castello e sulla chiesa di Santa Maria, dotata di cappelle dipendenti. Con la crisi demografica e lo spopolamento delle campagne nella seconda metà del XIV secolo, l’abitato di Tigliole inferiore era destinato a scomparire e il sito originario si colloca oggi presso la frazione Pianetti di Tigliole, in un’area che assume pertanto una notevole potenzialità archeologica. Il centro comunale odierno invece corrisponde all’antico Tigliole superiore, che ha mantenuto nei secoli la sua stabilità insediativa. Tale stabilità si conserva in modo simbolico per le sedi del potere civile: il palazzo civico venne realizzato nell’Ottocento sul sedime del castello medievale, ormai ridotto allo stato di rudere. Il De Canis descrive lungamente le trasformazioni del castello, che nel suo nucleo più antico era costituito da “un edifizio quadrato fiancheggiato a mezzogiorno da due grosse rotonde torri” (Bordone, 1977, p. 241). Il bene architettonico emergente dell’area s’identifica senza dubbio nella chiesa di San Lorenzo, collocata a metà strada tra i due insediamenti (Faroppa Vaudetti, 1965, e Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998). Durante il periodo di dipendenza dalla diocesi pavese la chiesa era affidata al vicario vescovile, per essere aggregata all’autorità astigiana soltanto nel 1803. L’edificio rappresenta uno degli esempi meglio conservati della scuola romanica del Monferrato, e nella sua posizione attualmente isolata testimonia l’esistenza di nuclei abitativi diffusi sul territorio prima dell’età moderna. Con struttura ad aula longitudinale monoabsidata, nonostante una fase di rifacimento settecentesca, conserva la partitura decorativa ad archetti pensili monoblocco, con monofore gradonate sulle pareti perimetrali scandite da lesene. La muratura presenta la caratteristica partitura a fasce alterne di cotto e arenaria locale che distingue l’aspetto bicromo di questo gruppo omogeneo di chiese astigiane, databile con sicurezza al secondo terzo del XII secolo (Tosco, 1997). Villadeati Cartografia storica Catasto francese: AST, all. G fasc.59 Toponimo Il toponimo originario villa, indicante un villaggio agricolo, è stato collegato alla famiglia Deati, che deteneva i diritti signorili locali. Distribuzione insediativa odierna Il territorio è caratterizzato da una morfologia collinare, con abitati disposti in altura, dove prevale il centro di Villadeati, con le frazioni di Zanco e Lussello, in un equilibrio distributivo che non privilegia concentrazioni emergenti. Le vie di comunicazione presentano un carattere secondario rispetto alla rete provinciale e seguono in prevalenza un tracciato di displuvio, condizionando lo sviluppo dei centri abitati: prevale così una struttura insediativa lineare, collocata lungo le vie di crinale. A Villadeati la presenza del castello, sorto sull’altura dominante (406 mt. s.l.m.), ha costituito il polo di aggregazione primario del comprensorio, generando l’abitato disposto lungo le pendici collinari. Lo sviluppo urbanistico non ha assunto però una morfologia accentrata (come è avvenuto in altri casi di agglomerazione castrense, ad esempio Cortazzone) ma una distribuzione nastriforme lungo il tracciato della via carrozzabile. La vocazione agricola si è conservata prevalente nel territorio, con seminativi alternati a bosco: la vite costituisce la coltura tuttora dominante, insieme a cereali e foraggi. La mancanza d’insediamenti produttivi ha favorito lo spopolamento e frenato l’espansione edilizia, contribuendo alla conservazione del paesaggio collinare. Sviluppo storico del paesaggio La più antica testimonianza documentaria dell’abitato è reperibile in un documento del 909, un atto di compravendita che menziona il “vicus de Villa” all’interno del comitato Torrensis, un distretto altomedievale destinato a scomparire presto nella suddivisione amministrativa del territorio (Settia, 1983, p. 19). Le ipotesi sull’estensione amministrativa della iudiciaria Torrensis restano difficili da confermare, ma è stato recentemente identificato il probabile si sito originario dell’insediamento, in località bric San Lorenzo, che presenta grandi potenzialità archeologiche (Demeglio, 2002, pp. 385-386). Per Villadeati invece la qualifica nel documento del 909 di vicus consente d’ipotizzare la presenza di un insediamento agricolo di ridotte dimensioni, inserito nelle prime forme di colonizzazione. La successiva nascita del castello forniva un elemento nuovo d’inquadramento territoriale e la sua ubicazione può essere identificata con certezza sulla sommità dell’altura dominante, dove in seguito sorgerà la villa settecentesca. Il centro fortificato assumeva una funzione polarizzante per il centro abitato. La completa mancanza di strutture architettoniche medievali conservate in alzato non consente, comunque, di comprendere più nel dettaglio lo sviluppo dell’insediamento. L’importanza del borgo aumentava nel quadro dei contrasti tra le dominazioni signorili che ambivano al controllo del territorio: Villadeati era inserita nelle terre dei marchesi di Monferrato, lungo il limite meridionale del dominio, dove si presentava minacciosa la potenza del comune di Asti. Nel 1290 Villadeati venne devastata dalle milizie del conte Amedeo di Savoia, alleato del comune astigiano contro il marchese Guglielmo (secondo il Memoriale di Guglielmo Ventura “villam de Villa destruxerunt”, cap.XIV, col. 718). Le notizie storiche riguardanti l’azione militare non devono comunque essere enfatizzate e di fatto l’insediamento non venne abbandonato. Ancora nel 1595 i Protocolli Paltro conservati all’Archivio di Stato di Torino (Protocolli Monferrato, vol.56, c. 349v) attestano la presenza a Villadeati di “sedimi forti contenuti nel recetto di esso castello” e nel 1630, nel quadro delle guerre per la successione del Monferrato, si segnalano ancora episodi militari. Tra Sei e Settecento il territorio vedeva potenziata le sua vocazione agricola, sempre più specializzata nel settore della viticoltura, con uno sviluppo conseguente delle strutture architettoniche. Il “Libro figurato della comunità” del 1786, conservato presso l’Archivio Comunale di Villadeati, costituisce una preziosa documentazione dell’assetto colturale assunto dal paesaggio alla fine dell’età moderna. La ricostruzione in forme barocche del patrimonio locale di architettura sacra testimonia la prosperità dell’insediamento, con la cappella della Trinità e la parrocchiale di San Remigio, d’impianto cruciforme, mentre nel 1823 venne consacrata la chiesa di Santa Maria Assunta, ultimo esempio di architettura monumentale realizzato nel territorio, che conserva (oltre a due tele del Moncalvo) un complesso di arredi lignei di notevole interesse comprendente il coro, il pulpito, lo spazio per l’orchestra e l’organo firmato dai fratelli Collino. Con la perdita definitiva della funzione militare, il castello di Villadeati aveva assunto nuova importanza come sede aristocratica, passando per diversi proprietari, fino alla completa ricostruzione sotto forma di villa-belvedere alla fine del Settecento. L’insieme architettonico costituisce un episodio straordinario di qualità architettonica, riferito a diversi progettisti dalla critica, con una prevalente attribuzione a Giovan Battista Piacenza (1735-1818), personalità aggiornata alle prime forme di neoclassicismo, con studi approfonditi nel corso di numerosi soggiorni romani. La villa si articola in una serie padiglioni e terrazze degradanti sul declivio della collina, ornate da peristili, torrette e balaustre, in una stupefacente compenetrazione con il paesaggio. La parte residenziale appare notevolmente ridotta rispetto allo sviluppo delle gradonature e del giardino, che costituiscono un modello unico nel panorama piemontese, ispirato al grande esempio del tempio della Fortuna Primigenia a Preneste. Una serie di percorsi sotterranei e di sostruzioni assicurano una rete di collegamenti interni alla villa, che sono stati riferiti ai riti iniziatori della cultura massonica, in grande considerazione presso le classi aristocratiche alla fine del Settecento (Corboz 1969-70, pp. 166-195). La villa è stata acquisita negli anni Settanta del Novecento dall’editore Feltrinelli e adibita a residenza di famiglia. La destinazione privata ha quindi sottratto alla fruizione pubblica il bene culturale preminente del territorio, escludendo dai circuiti di visita un monumento che, se valorizzato adeguatamente, costituirebbe un polo d’attrazione di primario interesse. Villafranca d’Asti Cartografia storica Catasto francese: AST, all.G fasc.258 all.H pf.481 Toponimo Da “villa” resa “franca, libera” da obblighi signorili o fiscali, secondo un toponimo frequentemente attestato in area europea (cfr. il francese Villefranche, il tedesco Freiburg). Distribuzione insediativa odierna L’area dell’abitato si colloca in posizione basso collinare, dove i rilievi monferrini degradano verso la pianura. L’aumento demografico degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento ha generato la formazione di un’area di espansione urbana verso sud-est, esterna al nucleo originario, formatosi in posizione leggermente rilevata. La mancanza di un quadro urbanistico coerente ha favorito la diffusione di un’edilizia residenziale ad alta densità, con scarso rispetto verso le potenzialità architettoniche e ambientali dell’abitato d’origine medievale. Il sistema dei percorsi è stato intensificato dal passaggio di arterie ad alta velocità: dapprima la linea ferroviaria Torino-Asti e in seguito l’autostrada Torino-Piacenza (A21), favorendo l’inserto del borgo nella rete maggiore dei circuiti viari regionali. La vicinanza di queste arterie (appena 300 m dal centro storico di Villafranca) ha favorito lo sviluppo residenziale ma ha penalizzato i caratteri di tipicità locali e la percezione unitaria di un’area liminare del paesaggio monferrino. Sviluppo storico del paesaggio La formazione del borgo avviene per sinecismo degli insediamenti circostanti di Musanza, Sala, Bellotto, Traversola e Castella, intorno al polo d’attrazione costituito dalla pieve di Santa Maria di Musanza, già attestata nel diploma imperiale del 1041 concesso ai vescovi di Asti. La formazione di un nucleo abitativo più consistente è legata alla politica astigiana nei confronti degli insediamenti del contado. Con la frantumazione dell’ordinamento plebano nel basso medioevo, Villafranca ottenne un’autonoma giurisdizione parrocchiale, soltanto per breve tempo, dal 1593 al 1625, passata sotto il controllo di Villanova. La collocazione viaria aveva assunto un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’abitato. Alla base delle colline monferrine infatti correva un lungo tratto della via Fulvia, percorso romano che collegava Torino e i passi alpini ai grandi municipia dell’area padana (Asti, Tortona, Piacenza e quindi la via Emilia). La strada venne riattivata in età medievale e con lo sviluppo dei commerci nel mondo comunale divenne un importante arteria di comunicazione. Di qui la presenza dell’ospedale, collocato presso la pieve di Musanza, che costituiva un elemento d’attrazione e di gravitazione commerciale per il territorio circostante. E’ importante ricordare che i tracciati dell’autostrada e della ferrovia seguono tuttora l’antico sedime della via Fulvia, e costituiscono un fattore di continuità dell’assetto territoriale (ovviamente di difficile valorizzazione storico-culturale). Il controllo della sede plebana e dell’ospedale hanno costituito, fin dal XIII secolo, la base dell’organizzazione religiosa e civile. La presenza signorile insediata nel castello (i Malabaila dapprima e poi i Cacherano) era collegata al potente dominio astigiano, fino all’ascesa dei nuovi principati territoriali che andavano formandosi in area subalpina. Villafranca, entrata nell’orbita viscontea, venne riacquistata nel 1364 da Giovanni II marchese di Monferrato in occasione della pace stipulata con Galeazzo II Visconti, in cambio di terre nell’area pavese (Vergano, 1990, vol.II, p. 44), per rientrare poi nei possessi dotali di Valentina Visconti e quindi passare alla signoria Orléans, insieme a gran parte del territorio astigiano. Nel quadro insediativo è significativa la presenza del castello, in origine collocato in lieve altura a fianco della parrocchiale di Santa Maria Assunta. La fortificazione medievale venne demolita nel 1860, ma la struttura accentrata del borgo può essere ancora percepita come sedimento storico. Nel distretto comunale si conservano due beni architettonici rilevanti, entrambi di natura religiosa: la parrocchiale dell’Assunta e la Madonna della Neve nella frazione Vulpilio. In origine dedicata a San Giovanni, quest’ultima chiesa è attestata fin dal 1152, nella bolla pontificia concessa da Eugenio III, come possedimento del monastero di San Pietro a Breme, in Lomellina (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, pp. 199201), fondato dai monaci della Novalesa fuggiti dall’abbazia alpina per la minaccia saracena. La chiesa è attestata fino all’inizio del XIV secolo per il servizio liturgico dell’abitato di Vulpilio, spopolato al temine del medioevo. Si tratta pertanto di un interessante testimonianza di struttura in muratura sopravvissuta all’abbandono dell’insediamento agricolo circostante, costruito presumibilmente con materiali deperibili. L’abitato di Villafranca dimostrava così il suo ruolo polarizzante per le popolazioni insediate nel territorio. L’edificio religioso sopravvissuto alle dinamiche del popolamento divenne quindi cappella campestre, mutando il titolo in Madonna della Neve, assorbita nella giurisdizione parrocchiale di Villafranca. L’edificio conserva ancora oggi la morfologia dell’abside romanica, che può essere datata alla metà del XII secolo, nonostante il pesante strato d’intonaco che ha ricoperto le pareti. Nel centro maggiore la parrocchiale dell’Assunta rappresenta un caso di grande interesse di architettura protobarocca di alta qualità, realizzata fuori dai centri urbani maggiori. L’iniziativa della ricostruzione si deve a un dignitario ecclesiastico originario di Villafranca, monsignor Giacomo Goria, legato alla corte sabauda, che riuscì ad attivare un circuito di maestranze luganesi per la realizzazione del cantiere, aperto nel 1629. La chiesa segue un impianto longitudinale caratteristico dei modelli controriformisti, con cappelle laterali e volta a botte sulla navata. L’elemento più significativo però è senza dubbio la facciata, con ordine gigante di semicolonne corinzie e timpano triangolare, spezzato da una rientranza alla sommità. L’uso monumentale dell’ordine classico, la presenza del timpano, le decorazioni a rilievo, fanno di questa facciata un esempio di grande pregio nel contesto locale, attribuito alla progettazione di Carlo di Castellamonte. Villanova Cartografia storica Catasto francese: AST, all. G fasc.264 e 492 all. A pf. 109/1 Toponimo Il termine testimonia la fondazione ex novo dell’insediamento, come si registra per molti altri casi in Italia settentrionale (il toponimo è attestato per cinque comuni e varie frazioni in Piemonte, cfr. anche Villanovetta e derivati). Distribuzione insediativa odierna Il borgo di Villanova presenta caratteri radicalmente diversi dalle altre aree campione prescelte. Il suo assetto conserva in evidenza la struttura di un insediamento pianificato, tracciato in base alle regole dei borghi di nuova fondazione. L’espansione edilizia di età moderna non ha cancellato tale assetto, che rimane uno degli esempio meglio conservati in area subalpina. Al di fuori del concentrico urbano una rete di cascine documenta la diffusione regolare delle aziende agricole, caratterizzate da una forte specializzazione zootecnica. E’ importante notare che gli insediamenti rurali proseguono senza fratture la dislocazione già fissata nel tardo medioevo, come appare evidente nel caso del “Castello” di Corveglia. Sviluppo storico del paesaggio Il territorio pianeggiante di Villanova è caratterizzato dal passaggio di un’importante area di strada, di origine probabilmente preromana, attiva in età imperiale e successivamente nel corso del Medioevo. Il tracciato della via Fulvia, che collegava Torino con Asti, Tortona e la grande arteria trasversale padana della via Postumia, ha costituito nei secoli un asse di aggregazione per lo sviluppo degli insediamenti. I sedimi odierni della ferrovia e dell’autostrada Torino-Piacenza (A21) hanno ripreso il percorso di questa arteria sovraregionale. Le notizie circa la frequentazione romana restano comunque scarse, mentre nel secoli centrali del medioevo è attestata una presenza patrimoniale dei vescovi di Asti. Nell’area esistevano sicuramente forme curtensi d’insediamento sparso, distribuite ai limiti della selva di Cellere, un’estensione boschiva di grandi dimensioni, attestata nell’alto medioevo, che raggiungeva l’altopiano di Poirino e Villanova (Bordone, 1980, p. 104, e Gramaglia, 1980). Una svolta determinante per l’assetto territoriale si registra con la nascita di uno dei più importanti loci novi del comune di Asti, fondato nel 1248 dal capitano Turello Milone a salvaguardia di una zona di confine con le potenze comunali vicine. L’impianto a rigida maglia ortogonale, ben attestato dalla cartografia storica e tuttora conservato nella struttura insediativa del borgo, costituisce un caso studio di grande interesse, che andrebbe valorizzato come bene culturale nella sua portata urbanistica. La documentazione duecentesca testimonia per tutta l’Italia settentrionale la presenza progetti insediativi organizzati, gestiti da tecnici agrimensori al servizio dell’autorità comunale, segno di una matura politica di pianificazione. Il tracciato viario rimane così il segno più eloquente del passato medievale, mentre le strutture abitative e i monumenti religiosi vennero in gran parte ristrutturati in epoca moderna. Un esempio ben conservato di abitazione tardo gotica si osserva nel palazzo collocato tra via Roma e piazzetta Marconi, assegnabile alla seconda metà del Quattrocento, decorato con fasce marcadavanzale e cornici alle monofore in cotto figurato che testimoniano la qualità dell’edilizia residenziale locale. Il borgo era dotato sicuramente di difese, realizzate per garantire la sicurezza della villanova, che vennero però cancellate dalla nuova cinta bastionata. Un capitolo statutario obbligava il podestà di Asti ad assicurare la difesa del borgo e i documenti parlano di un reclusum situato all’interno dell’abitato, come un ridotto fortificato (Settia, 2001, p. 114). In età moderna, con l’avvento delle artiglierie, Villanova venne dotata di un sistema difensivo adeguato alle nuove esigenze militari. La collocazione strategica lungo un’arteria vitale per il collegamento verso la capitale sabauda ha favorito la formazione di una piazzaforte munita di un complesso sistema di bastioni e lunette, ben documentata dalla cartografia militare (Viglino Davico, Bonardi Tomesani, 2001, tav.14). In un disegno di Francesco Orologi (Biblioteca Nazionale di Firenze, cod. Magliabecchiano, XIX, 127) si riconosce con chiarezza il perimetro quadrangolare della città murata duecentesca, contornato dal nuovo sistema di fortificazioni. Le difese di Villanova vennero smantellate durante l’occupazione francese, ma il catasto napoleonico attesta ancora l’andamento del perimetro bastionato, sostituito da strade pubbliche di circonvallazione. Ancora oggi l’assetto difensivo non ha del tutto perduto le sue tracce, percepibili nel tracciato della viabilità, mentre il sistema delle fortificazioni satellitari minori conserva elementi in opera nel territorio, con le torri di Supponito e di San Martino. A conferma della vocazione di strada dell’area, la prevostura di San Giacomo a Corveglia rappresenta un esempio ancora conservato di architettura ospedaliera (Tosco, 2001). Nata verso la metà del XII secolo per iniziativa signorile locale, la prevostura conosce un grande sviluppo nel secolo successivo, intrecciando rapporti solidali con i monasteri cistercensi di Staffarda e Casanova. Quanto oggi rimane dell’età medievale, sostanzialmente un fabbricato a L con la struttura del campanile affiancata, non era che l’elemento dominante di un grande complesso religioso, che doveva includere strutture agricole e residenziali, realizzate in buona parte con l’impiego di materiali deperibili. La mappa del catasto napoleonico di Villanova mostra un’estensione maggiore rispetto al perimetro odierno, testimoniando la presenza di un corpo di fabbrica aggiuntivo, che delineava una planimetria a C. A partire dal Trecento il complesso conoscerà una fase tardiva di fortificazione, nel clima d’instabilità causato dalla crisi del comune astigiano, e tuttora i resti della prevostura sono conosciuti come “Il castello di Corveglia”. Nella manica longitudinale superstite, che segue nella morfologia delle volte costolonate e dei capitelli a crochet i modelli dei cantieri-scuola cistercensi, ritroviamo eccezionalmente conservato il più antico esempio di architettura ospedaliera presente in Piemonte. Nel tardo Medioevo l’incastellamento aveva occupato il territorio pianeggiante in modo più sistematico che in altre aree dell’astigiano. Se Corveglia era legata a poteri ecclesiastici, nell’area vennero fondati altri centri fortificati per iniziativa di poterei laici: erano munite di castelli le località di Solbrito e di San Paolo (Visconti, 1999). Quest’ultimo è ricordato nei documenti come munito di una torre, di un palacio magno, di un castrum vetus e di uno novus. Anche a Valgorrera (situata a 5 km. da Corveglia) è documentata la presenza di un luogo forte, in un dettagliato atto del 1429. La struttura si articolava in un blocco residenziale che presentava notevoli elementi qualitativi, con una camera magna al piano terra, riscaldata da un camino, e strutture di servizio con granaio, stalle, magazzini, forni, il tutto recintato da un fossato. La struttura odierna, ridotta a cascinale, versa in un cattivo stato di conservazione e un programma di recupero restituirebbe al territorio un bene di primario interesse storico. Il patrimonio monumentale di Villanova è segnato dalle emergenze dell’architettura sacra. La chiesa della confraternita della Santissima Annunziata testimonia l’importanza delle associazioni religiose laiche, che conoscono un grande sviluppo tra Sei e Settecento, consentendo la realizzazione di un edificio in grado di mediare nel contesto locale i temi juvarriani affermati dalla grande committenza sabauda. Labili tracce del passato medievale si riscontrano nella parrocchia di San Martino, nata come dipendenza della prevostura di Corveglia, e nella parrocchia di San Pietro in borgata Supponito, riplasmata in forme neogotiche nella seconda metà dell’Ottocento, su progetto di uno dei più attivi allievi dell’Arborio Mella, Giovan Battista Ferrante (Dellapiana, Tosco, 1996). La vitalità della devozione locale si riscontra nella fondazione del santuario della Madonna delle Grazie, consacrato nel 1870 su modelli neorinascimentali che riprendono i temi tardoeclettici in voga nella capitale torinese. Nel corso dell’Ottocento Villanova divenne oggetto d’interesse per i ritrovamenti fossili, segnalati in occasione dei lavori per il tracciamento della linea ferroviaria. La ricchezza del sottosuolo per la storia geologica ha portato all’identificazione da parte dei paleontologi di un “periodo villafranchiano”, collocato cronologicamente tra il pliocene superiore e il pleistocene. La presenza di questi giacimenti fossili, noti a livello internazionale, rappresenta una potenzialità considerevole per lo sviluppo di un turismo culturale sul territorio. Bibliografia Fonti: Antichi cronisti astesi: Ogerio Alfieri, Guglielmo Ventura e Secondino Ventura, presentazione di R. Bordone, Alessandria 1990 Carte astigiane del secolo XIV (1300-1308), a cura di P. Daquino e A.Cotto Meluccio, Asti 1983 Carte astigiane del secolo XIV (seconda serie), a cura di A.Cotto Meluccio e L. Franco, Asti 1992 Carte varie a supplemento e complemento dei volumi [...], a cura di F. Gabotto e altri (BSSS LXXXVI), Pinerolo 1916 Codex Astensis qui de Malabayla communiter nuncupatur, a cura di Q. Sella, in “Atti della Reale Accademia dei Lincei”, ser.II, 1875-76 (nelle citazioni il primo numero indica il documento, seguito dall’anno tra parentesi) Fragmenta de gestis Astensium excerpta ex libro Ogerii Alfierii, in Monumenta Historiae Patriae, V, Scriptorum, t.3, a cura di L. Cibrario, Augustae Taurinorum 1848 I Biscioni (Biblioteca della Società storica subalpina=BSSS 146, vol.II, t.I), a cura di G.C. Faccio e M. Ranno, Torino 1939 Il Libro Verde della chiesa di Asti, a cura di G. Assandria (BSSS XXVI), Pinerolo 1904 Le carte dell’archivio arcivescovile di Vercelli, a cura di D. Arnoldi (BSSS 85), Vercelli 1932 Le carte dell’Archivio capitolare di Asti (secc. XII-XIII), a cura di A. M. Cotto, G. G. Fissore, P. Gosetti, E. Rossanino (BSSS CXC), Torino 1986 Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Asti (755-1102), a cura di F. Gabotto (BSSS XXVIII), Pinerolo 1904 Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Asti (830.1111-1237), a cura di F. Gabotto e N. Gabiani (BSSS XXXVII), Pinerolo 1907 Memoriale de gestis civium Astensium et plurium aliorum, a cura di C. Combetti, in Monumenta Historiae Patriae, V, Scriptorum, t.III, Augustae Taurinorum 1848 Memoriale quadripartitum di fra Gabriele Bucci da Carmagnola, a cura di F. Curlo (BSSS LXIII), Pinerolo 1911 Catasti (Archivio di Stato di Torino): A mappe francesi B copia di A C mappe antiche E registri F nuove acquisizioni (registri) G registri francesi H velina Studi: Bordone, R., Città e territorio nell'Alto Medioevo- La società astigiana dal dominio dei Franchi all’affermazione comunale, Torino 1980 Bordone, R., L’"erudito avvocato” De Canis e la sua opera innovatrice. Un contributo del primo Ottocento al progresso degli studi sul medioevo astigiano, in “Bollettino storicobibliografico subalpino”, 74 (1976), pp.239-301 Bordone, R., Lo storico G. S. De Canis e la sua "Descrizione statistica della provincia d'Asti”, Asti 1976 Bordone, R., Proposta per una lettura della corografia astigiana dell’avvocato G. S. De Canis, Asti 1977 Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), a cura di R. Comba, F. Panero e G. 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Sovente la parola paesaggio è intesa solo come immagine percepita del territorio, senza approfondire i caratteri che lo hanno determinato. Molteplici e complessi sono i caratteri del paesaggio, che vanno dallo studio della morfologia, all’uso del suolo, alle reti idrografiche, al sistema della viabilità, a tutti i vari elementi che rappresentano il sistema del verde a scala territoriale, alle reti ecologiche che costituiscono il fondamento della conservazione della naturalità e della dinamica del territorio, riconosciuti nella loro formazione storica e nella loro evoluzione attuale. Indagare tali caratteri, anche in modo non esaustivo in quanto una siffatta indagine richiederebbe indagini complesse, diventa un obiettivo che contribuisce alla individuazione e catalogazione dei beni storico-culturali del territorio comunale, in quanto il paesaggio costituisce non solo il supporto in cui essi si collocano, ma è esso stesso bene storicoculturale. Peraltro tale argomento completa l’analisi dei beni culturali-architettonici del concentrico, estendendola a tutto il territorio comunale in una visione unitaria e certamente più complessa. Il sistema dei fulcri insediativi sparsi, costituito da ville, castelli, torri, fornaci, mulini, ecc. costituisce una rete importante strettamente collegata alla struttura del contesto paesistico, che caratterizza ed esalta la” tipicità” del territorio. Obiettivi Gli obiettivi pertanto di tale indagine sono i seguenti: n riconoscere i fattori costitutivi del paesaggio, secondo uno schema metodologico definito, n aumentare e approfondire la conoscenza del territorio, n evidenziare nuove componenti utili e sovente trascurate del territorio , che “fanno” paesaggio, n promuovere e valorizzare nuovi aspetti del territorio all’interno di un più ampio sistema di beni culturali. Elementi principali che costituiscono il paesaggio nel territorio comunale L’analisi pertanto dei fattori principali che costituiscono il paesaggio concorre a definire i fattori di “tipicità” del territorio comunale, attraverso la individuazione delle varie parti e dei loro caratteri evolutivi. L’intreccio di queste diverse componenti, le differenti relazioni tra di loro, determinano cioè le diverse forme del paesaggio che caratterizzano i diversi ambiti comunali e all’interno dei quali si collocano i beni architettonici e culturali a vario titolo individuati dalla L.35/95 e/o a vario titolo segnalati. Si tratta focalizzare l’attenzione quindi su alcuni elementi che costituiscono dei fattori di riconoscibilità del paesaggio, in quanto ne determinano la sua struttura morfologica e percettiva. I principali elementi individuati, secondo un approccio metodologico che fa riferimento alle procedure di analisi e valutazione dell’Architettura del paesaggio, sono i seguenti: 1. la morfologia del territorio 2. l’uso del suolo 3. la rete della viabilità e dei percorsi 4. la rete idrografica superficiale 5. gli elementi puntuali Confronto con l’IGM di impianto 1881 Per ciascuno di questi elementi , con riferimento ai comuni campione, sono state sviluppate analisi di dettaglio con specifico riferimento alla cartografia IGM 1881 di impianto, scala 1:25.000, che fornisce indicazioni puntuali dei principali caratteri costitutivi del paesaggio a distanza di oltre 120 anni. Già ad una prima sommaria indagine emergono che caratterizzano in modo diverso i differenti ambiti comunali che associati ai caratteri insediativi ben rappresentano la “tipicità” locale. Gli elementi paesistici principali, che ci interessa porre in rilievo, riguardano specifici caratteri geografici e paesaggistici ed una serie di fattori riferiti al sistema del verde territoriale e urbano. Parchi, giardini, aree verdi pubbliche sono infatti un patrimonio culturale e di architettura del paesaggio che occorre documentare e valorizzare. In particolare il confronto tra IGM 1881 e CTR 1991 ha evidenziato una serie di aspetti riferiti al territorio agricolo, che possiamo sintetizzare: • trasformazione del sistema colturale e riduzione, a volte drastica, delle trame arboree, • perdita di caratteri e valori anche puntuali, • perdita di toponimi (identità del territorio) • perdita di reti idrografiche e delle reti irrigue e della loro caratterizzazione naturaliforme (vegetazione riparia, opere di consolidamento di sponde secondo tecniche oggi definite di ingegneria naturalistica), • riduzione dei caratteri della viabilità secondaria con perdita dei tracciati storici, dovuti al loro non utilizzo, alla realizzazione di nuova viabilità, con conseguente riduzione degli apparati arborei di corredo (riduzione della naturalità del territorio e delle strutture a verde). Da ciò si può concludere che la fotografia del territorio al 1881, abbastanza chiara e definita, va considerata come base indispensabile di riferimento per individuare i caratteri storici del paesaggio, che come abbiamo detto appare per molti aspetti trasformato e impoverito, con conseguente perdita di segno e di significato del paesaggio (trascuratezza, assenza di memoria storica, progettualità senza riferimenti.....). Indagare allora le componenti paesistiche sopra individuate significa porsi nell’ottica di ripensare il territorio come “risorsa paesaggistica”, dotato di “valori e potenzialità" che possono essere ricostruite e rigenerate ai fini di un complessivo sviluppo e promozione culturale di un determinato territorio. 1. La morfologia del territorio. I comuni campione, sotto il profilo morfologico, assumono aspetti differenti in base a cui è possibile formulare tipologie caratteristiche (oltre alla loro appartenenza a comunità collinari che hanno una loro specifica caratterizzazione), come ad esempio le seguenti: - struttura collinare con caratteri di omogeneità, - struttura collinare più articolata in differenti elementi morfologici e vallecole, - struttura mista di collina e pianura di fondovalle. L’indagine sulla diversa morfologia del territorio, sulle cause che lo hanno determinato, ecc., non è solo un fatto da studiare sotto il profilo geologico, ma è da considerare nei suoi aspetti di “risorsa”. Nei comuni campione abbiamo cioè rilevato situazioni molto differenti sotto il profilo percettivo (cioè della percezione dello spazio). Tale caratteristica rappresenta un primo elemento di interesse che, in prima battuta, valorizza quegli ambiti dotati di forte visibilità e riconoscibilità. Allora i comuni dotati di una forte visibilità sul territorio circostante, in genere, hanno una condizione di per se privilegiata. Per contro, ciò non significa che comuni di pianura, come comuni collinari con una morfologia più articolata, che però hanno un campo visuale più limitato, abbiano minor valore sotto il profilo della valorizzazione delle risorse. Ovviamente comuni come Albugnano, Cocconato, Villadeati e San Martino Alfieri hanno situazioni di grande apertura visuale: il problema è però quello di capire che cosa si vede (la qualità e la leggibilità del capo visivo) e la presenza di elementi (colture, architetture, ecc.) che arricchiscono la qualità percettiva del paesaggio. Ad esempio San Martino Alfieri gode di una ampia visibilità sul proprio territorio comunale sulle ampie distese di vigneto e sui rilievi collinari che si protendono fino alla piana del Tanaro, elementi morfologici questi, chiaramente percepibili e caratterizzati da insediamenti sparsi lungo la strada di cresta. Albugnano invece domina dall’alto dei suoi 500 m. l’intero paesaggio circostante con ampie visuali sul chierese e la collina Torinese. Le visuali sono molto profonde e lontane definite dallo sky-line della cerchia delle Alpi. Anche lo sviluppo urbano ha seguito e sottolineato questo ampio affaccio e questa esposizione assolutamente favorevole a sud. Anche qui potremmo dire che abbiamo una visione molto ampia , ma di minor dettaglio rispetto a San Martino Alfieri, proprio per i campi visivi molto ampi e lunghi, che consentono di mettere a fuoco poco i dettagli.... Sulla stessa linea si colloca Villadeati, anch’essa collocata sui 450 m, addossata ad est su un versante prevalentemente a bosco; le visuali sono ampie ma prevalentemente orientate a sud ed ovest su ampie distese a vigneto. Diversa è invece la situazione di Tigliole, dove l’insediamento si sviluppa in un territorio collinare più articolato sotto il profilo morfologico, cioè su strade di crinale che seguono i rilievi di modeste dimensioni che perciò offrono visuali più limitate. Tuttavia ne risulta un paesaggio più ricco di struttura percettiva. Diversa ancora è la situazione di Villafranca che si colloca su un lieve pendio collinare, con una larga apertura visuale sulle colline circostanti, che si trovano in secondo piano, in quanto delimitano la grande piana alluvionale di fondovalle, lungo cui corre l’autostrada . Tali argomenti che possono esser approfonditi per verificare più nel dettaglio situazioni di complessità, articolazione, dimensioni, campi visuali e angoli visuali, qualità del paesaggio percepito a seconda dei piano visuali, ecc. . A tal fine sarebbe utile riferirsi a modelli di rilevamento paesistico-percettivo utilizzati nelle pianificazione paesistica del Regno Unito (nota). Abbiamo voluto insistere inoltre sulla segnalazione dei toponimi rilevati nell’IGM 1881 riferiti ai numerosi rii e altrettanto numerose vallecole formati dalla struttura morfologica del territorio comunali, nell’intento di rafforzare la specificità dei caratteri di un determinato comune rispetto ad un altro: cioè la denominazione di una valle determina la sua definizione spaziale, le sue caratteristiche morfologiche, colturali, la sua storia, .... 2. L’uso del suolo Conoscere l’organizzazione e le trasformazioni di uso del suolo del territorio comunale costituisce una altro importante elemento della ricerca della “tipicità” dei luoghi, che qui può che essere riferita alla evoluzione dell’utilizzo del suolo desumibile in prima approssimazione dal confronto tra la cartografia disponibile.. Sono stati considerati le principali categorie colturali che a seconda dei diversi comuni hanno prevalenze diverse: vigneto, bosco, prato-seminativo. Componenti che se erano più facilmente descritte nella cartografia IGM, nella CTR 1991 appare meno definita e fortemente modificata nel rapporto vigneto/bosco che palesemente denuncia uno stato di abbandono che solo negli ultimi anni tende a regredire. La prevalenza di tali assetti colturali determina la riconoscibilità e la caratterizzazione specifica di un paesaggio con relative conseguenze connesse al tipo colturale: maggior interesse alle strutture viticole rispetto alle colture di pianura e boschive. Pertanto riconoscibilità e giudizio di valore, seppur approssimato, condizionano il gradiente di interesse di un determinato assetto colturale sull’osservatore. Per altro verso occorre notare come anche tali valutazioni sono collegate al livello di qualità del paesaggio determinata da due fattori caratteristici quali la diversità e la complessità (non è detto che una monocoltura sia preferibile ad una alternanza di colture, ma dipende dalla cura del paesaggio e delle sue trame vegetali..... ). Da un primo confronto emergono dall’IGM caratterizzazioni precise delle diverse realtà comunali con prevalenza di vigneto, in alcuni casi quasi una monocultura (Montemegno, S. Martino Alfieri, Cocconato,), in altri con alternanza di vigneto con altre colture (Albugnano, Cortazzone, Moncalvo, Settime), in altri casi prevalgono le colture a seminativo e prato tipiche della pianura di fondovalle (struttura del territorio comunale articolata in differenti realtà morfologiche e colturali) (Villafranca, Villanova,), in altre situazioni la presenza di una consistente componente boschiva (Villadeati, Tigliole,..). 3. Sistema idrografico superficiale L’analisi dei diversi sistemi idrografici che caratterizzano le differenti realtà comunali ha un particolare significato. Innanzitutto vogliamo affermare che la trama idrografica costituisce un valore non solo naturale (reti ecologiche....), ma anche un valore culturale (connesso al rapporto che esiste tra acqua e uso del territorio..) che va identificato e conservato. Il valore sta sia nei singoli elementi , ma soprattutto nella ri-costruzione di un sistema idrico che sia riconosciuto in quanto valore paesistico del territorio comunale. Anche qui, nei diversi casi, abbiamo situazioni molto diverse: da impluvi corrispondenti a profonde incisioni nella morfologia collinare, a reticoli che percorrono le numerose vallecole di fondovalle pianeggianti, a sistemi molto articolati in pianura. L’immagine che appare dalla cartografia storica segnala che il reticolo idrografico e quello irriguo, più minuto, è contrassegnato da una continua presenza di vegetazione ripariale: acqua e vegetazione sono realtà compresenti e diffuse, segno di un carattere che a volte si è perso nella attuale struttura del territorio. Le cause sono note: l’acqua era un bene indispensabile per la coltivazione del territorio ed anche la vegetazione riparia aveva una sua funzione ed era oggetto di cura e manutenzione periodica, sia per il consolidamento delle sponde, che per la produzione di legname o di materiale utile per la conduzione dell’azienda agricola (salici capitozzati,.......). La perdita di trama (texture) che oggi il territorio denuncia, la necessità per altro verso della ricostituzione di reti ecologiche e faunistiche, che garantiscano un livello di naturalità del territorio accettabile, porta a ripensare il reticolo idrico attuale, a volte poco leggibile, come parte di un sistema che va conosciuto, salvaguardato e migliorato nel suo insieme, come condizione indispensabile per la conservazione del paesaggio e delle sue caratteristiche di “tipicità”. Abbiamo anche qui riportato i toponimi dei diversi corsi d’acqua (torrenti, rii e canali) per sottolineare l’importanza della memoria storica proprio ai fini della ricostruzione culturale del paesaggio. Si tratta infatti di elementi che arricchiscono la complessità e l’interesse del paesaggio, esaltandone le potenzialità naturali antropiche a fini anche turistici e ricreativi. E con ciò ritorniamo al tema della “cura” del territorio nel suo insieme e soprattutto nei suoi elementi strutturali, sovente per incuria abbandonati o privati della loro componete arborea riparia. 4. Il sistema dei percorsi: la rete viaria principale e secondaria come risorsa e bene culturale. Il sistema storico della viabilità rappresenta un bene culturale ben evidente nella rappresentazione cartografica dell’IGM di impianto 1881. In modo particolare si può mettere in evidenza che la struttura della viabilità secondaria costituiva una rete molto articolata sul territorio, che collegava il sistema insediativo sparso e garantiva l’accessibilità alla coltivazione dei fondi. Ovviamente tale situazione oggi si è modificata e molte strade a carattere secondario sono diventate nuovi assi di collegamento veicolare tra i centri abitati. Ritessere tuttavia le relazioni che collegavano i percorsi con il sistema insediativo, in particolare quello sparso, porta ad una più attenta analisi del disegno storico del territorio nelle sue specifiche caratteristiche. La viabilità principale era connotata da alberate lungo i bordi della strada (oggi strade statali e provinciali) e moltissimi percorsi erano caratterizzati anch’essi dalla presenza di alberi. Ciò faceva sì che la rete di verde del territorio fosse più articolata e complessa e i caratteri ecologici e la stessa forma del paesaggio assumesse una sua specifica identità determinata dai differenti assetti colturali: le zone a seminativo di pianura come le zone a vigneto in collina come pure le zone a bosco soprattutto nei versanti a nord erano riconoscibili attraverso un preciso disegno dei tracciati viari e delle stesse componenti arboree. Oggi ovviamente molte di queste situazioni sono radicalmente cambiate, ma ad esempio rivedere come la struttura della pianura agricola di Villanova fosse così fortemente caratterizzata da componenti arboree lungo i tracciati stradali, lungo gli assi di ingresso a ville e frazioni sparse, lungo tratti di strada e lungo i numerosi corsi d’acqua ci riporta ad una immagine di paesaggio più vario e complesso e quindi ad una situazione che in qualche modo occorre ripensare e riprodurre, seppure in modi nuovi e diversi. L’articolazione di tali percorsi in molte situazioni è andata perduta, per abbandono delle colture, anche quelle boschive (Tigliole, Cocconato, ecc.), e pertanto la percorribilità del territorio come categoria storica e culturale (legata alla lavoro ed alla cultura materiale del territorio) costituiscono un patrimonio che deve ancora essere per molti versi analizzato e riscoperto ai fini di una rivalutazione più ampia e complessa dei beni culturali nel territorio comunale. Peraltro lungo tali percorsi minori si trovano ancora oggi, ed in alcuni comuni sono stati attentamente schedati, piloni, cappelle, luoghi di devozione, bricchi e punti panoramici, che determinano differenti ambiti paesistici a livello comunale e indicano la necessità di una lettura e ricostruzione del paesaggio come sovrapposizione di sistemi (beni architettonici, percorsi, usi del suolo, ecc.). E ‘ altrettanto indubbio che, a seconda delle caratteristiche dei vari comuni la struttura dei percorsi possa assumere maggiore o minore interesse, ma sicuramente l’interesse principale di una rete di percorsi sta nel progettare e collegare valori storici e percettivi del paesaggio. 5. Beni culturali puntuali sparsi nel territorio comunale ed elementi del sistema del verde a scala urbana e a scala territoriale Particolare interesse assumono i beni culturali fuori dal concentrico sia individuati in base alla L. 35/95, sia segnalati in varie sedi (Piano Territoriale, Piano regolatore, ecc.). L’attenzione al sistema di beni culturali e architettonici sparsi, anche di carattere minore, rivela come i territori comunali abbiano al lor interno sistemi culturali ancora molto da studiare e da ricostruire nella loro specificità storica: ad esempio, il patrimonio di cascine a Montemagno, come tutta la rete dei piloni votivi in Albugnano, come pure le numerose chiese e cappelle sparse in Cocconato e San Martino Alfieri o le torri di avvistamento e le chiese sparse nelle frazioni a Villanova. Un altro elemento significativo, da indagare, sono i cimiteri laddove le trasformazioni recenti non abbiano eliminato le tracce e memorie storiche preesistenti. Così alcuni cimiteri conservano antiche cappelle romaniche (Albugnano, Moncalvo, Settime, ecc.), mentre a Cocconato sono state censite numerose edicole funerarie che costituiscono un patrimonio di architettura da rileggere e rivalutare. Una nota importante è rappresentato dall’antico cimitero ebraico di Moncalvo, su un lembo di crinale fuori dal concentrico che rivela una sua interessante struttura e una memoria storica da ricostruire. La presenza dei molini è molto evidente nella cartografia IGM di impianto ed in parte si è conservata fino ad oggi: numerosi infatti sono i comuni per i quali è stata indicata la presenza di un molino ad eccezione di Cortazzone, Settime, Villadeati e Cocconato. Sovente però si tratta di strutture residuali già in parte trasformate avendo perduto la loro funzione originaria. Altrettanto si può dire delle vecchie fornaci che appaiono ancora conservate in taluni casi, mentre in altre sono andate distrutte. Ma altro tema interessante è costituito dalla individuazione degli elementi storici di verde presenti nel tessuto comunale: parchi di castelli (Cortazzone, Villadeati, Settime, San martino Alfieri, giardini di ville (ad esempio Villa Sesia a Tigliole, e diversi giardini che si potevano notare sulla cartografia IGM 1881 ed oggi sono scomparsi, ad esempio a Villanova il parco del castello Verminier e del palazzo Ciochero e villa Gianotti a Villafranca), parchi o giardini pubblici comunali , ad es. il parco Borsarelli sul retro del castello a Settime, l’area adibita a parco comunale, interno alla proprietà del castello a San Martino Alfieri, parchi della Rimembranza (Tigliole e Albugnano), viali alberati, percorsi lungo le mura che affacciano sul paesaggio (Moncalvo, Montemagno), gli spazi a verde dei cimiteri, le aree di pertinenza delle cappelle sparse, ad esempio la chiesa di San Secondo a Cortazzone, la Madonna di Volpilio a Villafranca, a volte anche realtà minute che comunque hanno una connotazione storica precisa, costituendo riferimenti importanti nella caratterizzazione culturale e storica del paesaggio. Da tutto ciò deriva una notevole quantità di linee di indagine ed un patrimonio culturale ampio e diffuso, che deve essere indagato e approfondito e che può essere valorizzato connettendo, nell’ottica di sistema, le varie risorse culturali del paesaggio e del territorio. Schede per i comuni campione 1. Albugnano (h. 525 m. ) n Morfologia Il territorio comunale ha una posizione dominante a 360° degradante verso Castelnuovo Don Bosco a sud ed il concentrico si colloca sul rilievo più alto delle colline da cui si può godere un affaccio con campi visivi molto ampi delimitati dallo sky -line delle montagne. La parte del territorio comunale a nord del concentrico, più interna al sistema collinare presenta versanti più ripidi che degradano verso Berzano e Aramengo. n Uso del suolo Al 1880 il territorio comunale aveva una forte presenza di colture a vignato sui pendii dei versanti collinari esposti in prevalenza a sud, ad est e ad ovest. Insieme presentava ripidi versanti prevalentemente a nord boscati, poche erano le aree a seminativo o prato. Ad oggi invece si può riscontrare una forte riduzione del vigneto che è stato sostituito in parte da bosco e da aree a prato. (cfr. C. Buffa/M.Maffioli “Il paesaggio come risorsa agrituristica”, Torino, EDA 1981). Il vigneto si colloca nelle parti medio alte dei rilievi, mente lungo gli impluvi molto incisi che hanno direzione da nord a sud, risulta una forte presenza di vegetazione boschiva. Ad oggi è aumentata la superficie a bosco a scapito sia del vigneto che del seminativo. Sotto il profilo paesaggistico si rilevava che la zona di maggior interesse paesistico fosse la parte sud e ovest del territorio comunale rispetto alla parte nord-est meno caratterizzata. n Sistema idrografico Il sistema idrografico è rappresentato da una serie di rii che hanno andamento da nord a sud: la parte alta del rio di Nevissano, in cui confluiscono alcuni rii minori e che più a valle confluisce nei rio di Bardella, sul confine ovest del territorio comunale, il rio che scorre lungo Mondonio, e il rio che scorre in una profonda incisione vicino a Shierano. La rete di impluvi del versante nord ed est scarica sul rio della Rocca vecchia, poi rio Freddo che scorre vicino a Primeglio. I reticoli idrografici denunciano la presenza di vegetazione riparia continua lungo il loro tracciato. La piccola valle del rio Nevissano costituisce una struttura paesistica particolarmente interesse per la sua strutturazione spaziale e percettiva. n Sistema della viabilità Il sistema della viabilità è molto articolato e confluisce su Albugnano dai diversi comuni limitrofi (Castelnuovo, Berzano, Pino, Primeglio, Aramengo) determinando una struttura radiocentrica. Inoltre esiste una fitta rete di viabilità minore a servizio delle numerose frazioni circostanti, anche dei comuni limitrofi. Le strade, molto panoramiche, sono prevalentemente su crinale, seguendo l’andamento dei vari rilievi degradanti a sud, mentre quelle a nord scendono su Berzano e Aramengo con situazioni meno favorevoli dal punto della strutturazione visuale del paesaggio. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 è evidente la presenza di vegetazione riparia lungo i rii, che ancora oggi in buona parte esiste e che occorre consolidare. Non emergono particolari strutture a verde, ciò dovuto anche al fatto che il territorio presenta una forte strutturazione paesaggistica. Elementi puntuali, censiti ai sensi della L.35/95 fuori dal concentrico sono rappresentati da una serie di piloni votivi, che solo in parte risultano nella cartografia storica, ad esempio una cappella o pilone di S. Gottardo non è più menzionato, mentre sono menzionate la cappella di S. Antonio e la cappella di Sant’Emiliano. Segnalato è invece il Molino di Riofreddo con vicino la Sorgente sulfurea al confine con Aramengo, oltre ovviamente l’attenzione alla sistemazione dell’area di pertinenza della Madonna di Vezzolano. 2. Cocconato (h. 480 m slm) n Morfologia Il territorio comunale a nord dal torrente Stura, a ovest dal rio Fabiasco, che più a sud prosegue nel rio Mainia. Il concentrico si colloca in una posizione dominante e panoramica che culmina con la Torre...... . Un riferimento preciso nella struttura percettiva. A nord scorre, con una profonda incisione, il torrente Versa che nasce dalla frazione Marvero (bric Marvero 465 m slm), con pendii molto scoscesi, e che divide il territoro comunale in due parti: il rilievo che ha come punto più elevato l’abitato di Cocconato e una dorsale compresa tra il Versa e lo Stura, con andamento da ovest a est, che poi degrada lentamente su Montiglio. Ampia struttura visuale e affaccio privilegiato verso sud, verso Marmorito, Primeglio, Passerano, Cerreto, Piovà e Montiglio., carattere segnato anche dall’andamento della viabilità principale. Nel territorio sono presenti alcuni bric quali bric Cappellone (401 m), bric Maroero (489 m) nord-ovest, bric Serra (403) nord-est. n Uso del suolo Al 1880 l’uso del suolo è abbastanza chiaramente definito e strutturato, dove il vigneto rappresenta la coltura prevalente ampia diffusa. Nel versante sud, meglio esposto, attorno al concentrico prevale la coltura a vigneto, come pure sul versante in sponda sinistra del torrente Versa. Mentre il versante a nord è a bosco come pure il versante in sponda destra dello Stura. Ad una prima verifica con la carta CTR 1991 si può constatare la riduzione della componente a vigneto sostituita da aree a bosco sia in sponda sinistra del versa che anche sulle pendici collinari a sud. n Sistema idrografico Già descritto in relazione all’assetto morfologico. La struttura della valle versa costituisce un altro elemento paesistico importante fortemente caratterizzato sotto il profilo della vegetazione riparia che accompagna il tracciato del torrente e degli altri corsi d’acqua presenti nel territorio comunale.anche dalla piana di fondovalle. n Sistema della viabilità Il reticolo viario risulta più sviluppato e ramificato nella parte sud, dove si collocano in prevalenza numerose frazioni (Tabiella, Vastapaglia, Gesso, Bauchieri). I collegamenti principali sono con la ss 458 di Casalborgone, che segna il confine ovest del territorio comunale, poi con Piovà e Montiglio. A nord il collegamento principale con Tonengo. La struttura storica della viabilità minore è legata alle vicende colturali e si colloca sia lungo crinali, che coste, che impluvi. In particolare sul versante nord era presente un lungo asse viario che seguiva la linea di cresta dalla frazione Maroero alla frazione Tuffo. Oggi questo risulta interrotto a Cascina S. Giovanni, mentre l’accesso a Tuffo avviene dalla ss 457 (statale di Moncalvo). Altre parti del reticolo storico minore sono scomparse o conservano solo deboli tracce che vanno scomparendo., ma che opportunamente recuperate potrebbero costituire un potenziale reticolo pedonale e/ciclabile. n Elementi puntuali e sistema del verde La viabilità principale lungo la statale si caratterizzava con filari alberati oggi scomparsi. Gli edifici censiti ai sensi della L 35/95 fuori dal concentrico riguardano diverse chiese e cappelle oltre una serie di numerosi piloni votivi distribuiti lungo il reticolo viario del territorio comunale. Oltre un particolare interesse rilevato nelle strutture ferroviarie sono state individuate numerose edicole funerarie nel cimitero come pure numerose case, palazzi e cascine di valore storico. Non compaiono invece i molini che risultano dall’1880 Molino del Rocco, sotto il bricco Cappellone e Molino Rocco, sul confine nord. 3. Cortazzone (h. 280 m.) n Morfologia Il territorio comunale di Cortazzone è diviso in due parti principali dalla valle di Cortazzone lungo la quale scorre l’omonimo rio. Nella parte nord la valle si dirama in piccole vallecole in cui scorrono diversi rii, tra cui rio di Valpiana, rio Vaglina e rio Val di Soglio che confluiscono nel Cortazzone. La valle di Cortazzone risulta pertanto articolata in diverse parti e fortemente caratterizzata dalla presenza del rio Cortazzone, che ha un andamento rettilineo da nord a sud ed segnato dalla presenza di vegetazione riparia lungo le sue sponde e da strade alberate che lo costeggiano. Sulla piana di fondovalle si affacciano a est le pendici molto articolate dei rilievi collinari su cui si trova il concentrico con il castello, mentre la parte del territorio comunale collinare ad ovest è delimitata dal torrente Triversa. Si tratta pertanto di un paesaggio vario in cui il rapporto piano/colle presenta un forte carattere di riconoscibilità. La parte ovest del territorio comunale risulta morfologicamente più complessa anche per la presenza di numerosi nuclei insediativi sparsi. n Uso del suolo Al 1880 le colture a vigneto si collocano in parte sulle pendici collinari lungo la valle di Cortazzone alternate con aree a bosco, mentre tale coltura appare più sviluppata nella zona ovest. A oggi prevalgono le aree a bosco che hanno sostituito molta parte del vigneto originario che si estendevano a caratterizzare elementi morfologici significativi (Mongiglietto e Bricarello ad esempio risultavano completamente a vigneto….) n Sistema idrografico Come abbiamo detto l’asse principale del sistema idrografico è rappresentato dal rio Cortazzone e da alcuni rii che scendono dalle colline. A ovest il rio Musello ed il rio Titala che confluiscono più a valle formando la valle di Maretta che giunge fino a Monale incontrandosi con la valle di Cortazzone. n Sistema della viabilità La struttura dei percorsi è assai articolata: nella parte ovest le diverse frazioni (Bricarello, Valmezzana) sono collegate da una strada che segue la linea di cresta dei rilievi collinari(in particolare la dorsale da Casina del lupo a Bricarello verso Roatto) con numerosi collegamenti trasversali minori che si innestano sulle strade di fondovalle. Altrettanto, ma con dimensioni più ridotte, nella parte est dove la viabilità principale collega Montafia con Soglio passando dal concentrico, mentre le case sparse sulle colline più a sud sono collegate da una strada in quota, tra i bricchi, anch’essa con collegamenti alla viabilità di pianura. Si ha pertanto una rete diffusa di viabilità minore di particolare interesse proprio perché si trova prevalentemente in quota offrendo viste panoramiche tra un versante e l’altro. n Elementi puntuali e sistema del verde Fuori dal concentrico sono stati individuati pochi elementi architettonici: due cascine e la chiesa di san Secondo a Mongiglietto. Al 1880 risultavano presenti la cappella di S. Antonio, la cappella di san Giacomo e la cappella di Madonna della Valle Altri elementi da verificare sono il giardino del castello, il cimitero. 4. Moncalvo (h. 305 m.) n Morfologia Il territorio comunale è sostanzialmente diviso in due parti dalla valle San Giovanni entro cui scorre il rio Menga che poi diventa rio Colobrioche si trova a nord-est del concentrico. Il concentrico è situato sulla parte più alta del rilievo collinare con ampio affaccio sul paesaggio circostante con direzione dominante sud/sud-ovest. Posizione dominate con campi visuali liberi. La struttura del paesaggio al 1880 è formata da una serie di piccoli rilevi a vigneto alternati a fondovalle a prato umido, per cui il rapporto piano/colle è più riconoscibile sotto l’aspetto visuale e percettivo. Numerose infatti le emergenze, anche se di modesta entità: bric Mongrande, bric Cappuccini, bric San Bernardino. n Uso del suolo Ampie zone a vigneto diffuso sull’intero territorio comunale alternate a zone prative e /o seminativo, salvo che nella parte nord retrostante al concentrico,a seminativo. Non risulta chiaro l’attuale assetto colturale perché dalla CTR 1991 appare una forte riduzione delle colture a vigneto sostituito da prato/seminativo o aree a bosco (?). n Sistema idrografico Il sistema idrico non ha particolare rilevanza strutturale ad eccezione del rio Bizara sul confine ovest ed il rio Menga sul confine nord (che raduna numerosi impluvi in sponda sinistra), entrambi collocati in ampi fondovalle, lungo i quali si snoda la ferrovia per Casale. I rii risultano al 1880 avere una evidente componente arborea lungo le sponde n Sistema della viabilità Reticolo viario piuttosto sviluppato che ha come centro il concentrico su cui confluiscono i principali assi viari dalle 4 direzioni cardinali: da casale, da grazzano B., da penango, da Alfiano Natta. Il reticolo si dirama sull’intero territorio collegando i vari nuclei e case sparse secondo due assi minori: l’asse Penango/San Bernardino, lungo il quale la cappella di S. Pietro è un nodo focale, e l’asse nord/sud dal cimitero degli Ebrei alla cascina Minoglio. La rete minore della viabilità risulta pertanto assai diffusa e articolata con ampia possibilità di riutilizzo di tracciati storici a scala sia intercomunale che locale. n Elementi puntuali e sistema del verde I beni architettonici vincolati, censiti in base alla L. 35/95 e segnalati del comune Moncalvo fuori dal concentrico sono numerosi e individuano un patrimonio assai importante e diffuso. Si tratta di oltre trenta edifici di varai tipologia da palazzo, a cascina, a villa a cappella, a cimitero ebraico, a pieve , a filanda, a stazione ferroviaria, a peso pubblico, all’ex distilleria, a fabbricati rurali, ecc. . Elementi con caratteristiche molto disomogenee tra di loro che descrivono un territorio ricco di tracce e valori da conservare in un sistema paesaggistico qualificato. A questi occorre aggiungere elementi di carattere paesaggistico quali la Passeggiata lungo le mura lato sud del concentrico, ed elementi desunti dall’IGM di impianto, quali: la ricostituzione di viali alberati lungo le strade di accesso fondovalle, lo studio sul valore storico e architettonico del cimitero e di talune sue cappelle, il Molino di Moncalvo lungo Rio Menga. Inoltre occorre verificare puntualmente l’inetersse storico, architettonico e paesaggistico dei grandi cascinali collocati, ad esempio, sulla sommità di ampi rilievi collinari. 5. Montemagno (h. 259 m.) n Morfologia Il territorio comunale ha una forma molto allungata che si sviluppa da nord a sud ed è delimitato da corsi d’acqua che scorrono nelle omonime valli: a ovest rio Gaminello e ad est dalla valle del Rio che a monte si dirama in tre vallecole (valle San Giovanni, valle Rovere, poi Zavignano, e la valle di Pratolungo). A nord è delimitato dall’ampia valle in cui scorre il canale del Molino. Nella valle del rio Gaminella confluiscono, scendendo dalle pendici su cui si colloca il concentrico e il castello una serie di impluvi: la valle di Montalbero, il rio Ortello, la valle di Robiagno, Pratolungo, il rio Ciborio. Il territorio si può suddividere in due zone che presentano morfologia diversa: la zona più a nord, dove si colloca il concentrico, è caratterizzata da elementi morfologici facilmente riconoscibili, che esso si diramano seguendo l’andamento delle diverse vallecole; la zona a sud presenta invece una morfologia collinare più articolata e movimentata. n Uso del suolo Al 1880 l’intero territorio comunale risulta quasi completamente coperto da colture a vigneto, salvo i fondovalle a prato e seminativo; rari sono le aree a bosco. A oggi invece buona parte delle colture viticole sono state abbandonate e sostituite da aree a bosco naturale, ad esempio intorno a san Vittore, lungo i versanti di Pratolungo, bric Montiglio, la zona centrale ed i versanti che affacciano sulla valle del rio Gaminella. n Sistema idrografico Il sistema idrografico costituisce una struttura importante a livello comunale per la sua estensione e per la presenza dei numerosi rii che definiscono la caratteristica morfologia del territorio comunale. Buona parte dei fondovalle in cui scorrono i rii sono costituite da aree umide e a prato, e lungo i corsi d’acqua si rileva una diffusa presenza di vegetazione ripariale. n Sistema della viabilità Al 1880 si può vedere che la viabilità, che segue la struttura morfologica del territorio, disegna una rete molto fitta e intricata di viabilità minore che consente una diffusa accessibilità all’intero territori. Lungo i fondovalle si sviluppa una rete di percorsi che si collega con dei raccordi trasversali ai percorsi che seguono i crinali delle colline, dotati quindi di forte caratteristiche panoramicità e di intervisibilità. La viabilità principale collega il concentrico con Grana ad nord, con Castagnole ad ovest e con Viarigi e Altavilla ad est. La struttura viaria oggi ha subito ovviamente come in tutti i casi analizzati ampie trasformazioni, risulta comunque interessante l’asse nord-sud che collega San Vittore fino verso la frazione di Vespollaro e verso il comune di Refrancore, un percorso che si snoda lungo le colline che offre una chiara leggibilità della struttura paesaggistica del territorio. Molti altri percorsi minori meritano uno studio accurato al fine di un possibile recupero secondo circuiti turistici che colleghino i beni culturali e ambientali dell’intero territorio. n Elementi puntuali e sistema del verde Su Montemagno sono state condotte in modo approfondito le indagini di cui alla L.35/95 e in particolare, fuori dal concentrico sono state individuate alcune cascine, case padronali e palazzi. Oltre a ciò occorrerà tenere conto anche delle indicazioni che emergono dalle indagini puntuali sulla cartografia storica IGM. In tal senso si mettono in evidenza i seguenti elementi: il cimitero, le alberate a scala urbana e quelle lungo i tracciati viari, il percorso panoramico lungo le mura del castello, il giardino del castello ed una serie di cappelle e di edifici sparsi: la Madonna di Vallino, il molino di Montemagno lungo il canale del Molino, la fornace, cappelle o piloni nelle principali frazioni (S. Stefano, San Carlo, ecc.) o sparse nel territorio lungo i percorsi, e le aree di pertinenza dei vari edifici individuati, ecc. (ad es. le cave di gesso). 6. San Martino Alfieri (h. 270 m.) n Morfologia Il territorio comunale occupa la parte sommitale di un grande versante che costeggia l’asse della Valle del Tanaro in sponda sinistra, con direzione da nord a sud, e dal quale si dipartono tre rami collinari intervallati da vallecole che ad est confluiscono nella grande piana alluvionale sottostante: Valle Scalusca (direzione est), Valle Parello (direzione est), Valle Casarito (direzione ovest). Piccoli elementi morfologici di differente dimensione e forma segnate da una precisa linea di viabilità di crinale. Il concentrico si colloca in posizione dominante strettamente collegato al complesso monumentale del castello e del parco storico, una struttura paesaggistica, identificabile come costante, che prosegue a sud lungo tutto il versante collinare con i cartelli di Govone, Magliano Alfieri, Guarene, consentendo un ampio affaccio sulle colline circostanti e prospicienti. Ne risulta un effetto di forte riconoscibilità della struttura del paesaggio,contrassegnato da una sequenza di fuochi visuali e insieme dalla omogeneità delle colture a vigneto. La parte invece di territorio comunale che volge ad ovest denota un carattere meno strutturato. Alcuni “bric” collocati nella parte sud del territorio comunale costituiscono delle emergenze di riferimento: dall’IGM 1880 Bric Riondino (234 m.), Bric S. Giorgio (244 m.), Bric s. Severo (274 m.). n Uso del suolo La coltura prevalente è il vigneto che si dispone sui rilievi collinari evidenziandone la struttura morfologica; nelle vallecole di fondo valle predominano prati umidi e seminativi, mentre la superficie a bosco è quasi nulla, essendo limitata ad alcuni versanti nord più scoscesi. n Sistema idrografico Il sistema idrografico è rappresentato dal Torrente Tanaro, che scorre sul confine est del comune, e dal sistema dei rii lungo le vallecole: Valle di Solda al confine nord, Valle Scalusca, Valle Porella. Ad ovest il territorio comunale è delimitato dalla Valle Casarito (al confine col comune di Govone) che confluisce più a nord nella Valle del Rio Cravina, il quale a sua volta confluisce nella Val Borbore n Sistema della viabilità Esiste un ben delineato reticolo di viabilità veicolare che converge, secondo una struttura radiocentrica sul castello risalendo lungo le pendici collinari. I percorsi minori a carattere rurale, che collegano i numerosi nuclei sparsi, presentano un andamento prevalentemente di crinale, denotando un assetto strutturato particolarmente interessante, che potrebbe essere valorizzato sotto vari aspetti: visuale, produttivo, storico-culturale, ecc.. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 si riscontrano alcuni elementi significativi il Porto di San Martino, il Molino di San Martino, al fondo della Valle Scalusca, la Fontana Cucia (?), la fornace, oltre ovviamente il castello con relativi annessi ed il parco realizzato nell’’800 su disegno di Xavier Kurten, che è organizzato secondo un asse visuale che ha come fuoco il castello di Govone. È presente una serie di cappelle sparse, prevalentemente collocate nelle numerose frazioni in cui si articola la struttura insediativa del comune: San Giovanni, San Giorgio, San Carlo, San Sebastiano. Altri elementi puntuali del verde sono: un tratto alberato lungo la strada di accesso dalla pianura del Tanaro, un’area a verde comunale, costituita da un lembo del grande parco del castello (forse solo in uso?). Sette frazioni sparse nel territorio comunale e prevalentemente collocate lungo i percorsi di crinale con relative cappelle: Morelli, Firano, Rollini, Casa, Saracchi, Quaglia, Fagnani oltre a numerosi elementi sparsi da rilevare, in particolare la cappella seicentesca dell’Assunta, ad esempio, collocata lungo un percorso di cresta e sulla sommità di un rilievo in prossimità della frazione. Occorrerebbe inoltre una verifica puntuale sulle cascine sparse di cui alcune di impianto otto-novecentesco. 7. Settime ( h. 275 m.) n Morfologia La maggior parte del territorio comunale è delimitato a ovest dalla Valle Incassata Grande e a est dalla Valle di San Michele in cui confluisce la Valle del Trombone, caratterizzata, rispetto alla Valle Incassata da un ampio fondovalle con colture a prato arborato e seminativo, come si può vedere dalla carta IGM di impianto. Il concentrico, che si sviluppa lungo un crinale ed è collocato nella parte collinare più alta, in posizione centrale rispetto al territorio comunale, è caratterizzato da una forte riconoscibilità ed una chiara identità, più evidente soprattutto nella parte sud-est che degrada sulla valle di San Michele, esaltando le visuali sul castello. Scarse sono le cascine sparse. n Uso del suolo La maggior parte del territorio comunale risultava al 1880 quasi completamente coltivato a vigneto, mentre un lembo di territorio sotto Montegrosso a sud-ovest, oltre la Valle Incassata Grande era completamente ricoperta di bosco. Un altro piccolo lembo a nord est, sotto Chiusano d’Asti risultava anch’esso a vigneto. Un’ampia zona a prato seminativo si trova nella parte sud-est del comune, circostante la cascina Laione. Attualmente, ad un primo confronto, si può constatare una forte trasformazione del paesaggio colturale dovuto all’abbandono di aree a vigneto e la loro sostituzione con aree a bosco, soprattutto lungo il versante est del Rio Margherita e lungo il versante est del Rio della Valle Incassata Grande. n Sistema idrografico Esso è rappresentato da due assi principali con direzione nord-sud rappresentati a est dal Rio Margherita in cui confluisce il rio Trombone e a ovest dal Rio della Valle Incassata Grande in cui confluiscono la piccola Valle Incurone, che a sud prosegue lungo la Valle Valdondona. Lungo i corsi d’acqua, nella cartografia IGM è segnata la presenza di vegetazione riparia, mentre nelle parti vallive è evidente la presenza di prato arborato e di seminativo. n Sistema della viabilità La rete dei percorsi è molto ramificata e diffusa con facilità di collegamento tra la pianura di fondovalle e il concentrico. La dorsale principale lungo il crinale collega Settime a Cinaglio, a nord, e a Serravalle e Sessant, a sud. I percorsi minori, che salgono sulle varie dorsali a vigneto fino al concentrico, seguono prevalentemente il crinale, offrendo una buona visibilità sul territorio circostante. Anche la zona dei boschi conserva una viabilità di crinale, in stretto collegamento con i percorsi che portano al concentrico. n Elementi puntuali e sistema del verde Dall’IGM si possono rilevare i seguenti elementi puntuali: il viale alberato nella pianura ad est di accesso al concentrico, la fornace, in prossimità della cascina Laione, e una serie di cappelle: S. Anna, San Rocco, San Carlo. Il cimitero si colloca in prossimità della Cascina del Parroco su una zona di culmine. È presente il parco Borsarelli, con funzione di parco pubblico comunale sul retro del Castello. Gli edifici vincolati e censiti dalla L. 35 riguardano esclusivamente il concentrico. 8. Tigliole (h. 234 m.) n Morfologia La morfologia del territorio comunale di Tigliole ha come nodo di riferimento il Bric Berta (284 m.), da cui si diramano una serie di rilievi collinari lineari, con andamento da ovest ad est, degradanti sulla ampia Valle Triversa, e separati da una serie di vallecole: Valle Pertusa in cui confluisce la Valle Giardino, Rio Pianezza, il Rio della Valle Pradone e a sud la Valle Rossanino. Numerosi i Bric: Bric Nocetto (217 m.) , Bric n Uso del suolo L’apparato colturale è chiaramente definito al 1880: nella parte più alta ed ad ovest del territorio comunale i versanti nord sono a bosco, mentre i versanti sud sono a vigneto. Nella parte centrale c’è anche una forte presenza di vigneto insieme ampie distese a prato arborato nella parte più pianeggiante. La valle del Triversa, al confine est del territorio comunale, presentava un’ampia distesa a prato umido. Il territorio è caratterizzato da una forte articolazione e leggibilità proprio per una forte intervisibilità tra i diversi crinali collinari. La situazione attuale presenta in modo evidente una forte trasformazione delle colture a vigneto con incremento delle aree a bosco spontaneo. n Sistema idrografico Il sistema idrografico, abbastanza complesso e articolato, è costituito principalmente dal Torrente Triversa che segna il confine nord ed est del territorio comunale e dagli affluenti in sponda destra che provengono dalle numerose incisioni del territorio comunale. Ad ovest il Rio Grande segna il confine del comune e sfocia nel Torrente Triversa. Nella valle è presente il Canale dei Molini, con vegetazione arborea lungo le sponde. n Sistema della viabilità Seguendo l’andamento morfologico del territorio, la viabilità si colloca in modo prevalente lungo le linee di crinale, secondo un andamento che va da ovest verso est e collega tutti i numerosi insediamenti sparsi lungo le dorsali collinari: Nocetto, San Carlo, Resazza, Valperosa, Gallo, Casabianca, Remondini, Malaterra, Poccola, Gherbino, Mayen, Pratomorone, Pianetti, Perosini e Calvino. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 si può sottolineare la presenza dei seguenti elementi: il Molino di Tigliole, oggi ancora presente anche se non ha più la funzione originaria, il Molino di Mezzo entrambi lungo il canale dei Molini, la Fornace, sopra la frazione Malaterra, alcuni tratti di strade alberate lungo il Triversa. Numerose sono le cappelle presenti in quasi tutte le frazioni che occorrerebbe verificare e censire, cosa che non si evince dalle schedature della L. 35/95, che riserva una prevalente attenzione ad una serie di ville e di “masserie” tra cui Villa Sesia, ed al muro di contenimento del parco della Rimembranza, senza citare lo stesso parco. Anche il cimitero dovrebbe essere inserito nell’elenco dei beni culturali da verificare e censire. 9. Villadeati (h. 412 m. ) n Morfologia Il territorio comunale è costituito da una zona collinare assai elevata localizzata nella parte nord est del territorio, al confine con la Serra di Odalengo Piccolo, che degrada con andamento nord-sud, articolandosi in una serie di propaggini collinari morfologicamente ben definite, intervallate da alcune vallecole: il Pian del Pozzo sul confine ovest; la Valle Olivera in cui scorre il Rio Guardia e la Valle Zurella sul confine est. Tali vallecole confluiscono a sud nella Valle Versa. A nord è delimitato dalla valle del Torrente Stura, poi Valle Cerrina. Dall’alto del concentrico si ha una ampia vista a 180°completamente libera sul territorio circostante a sud . n Uso del suolo Al 1880 l’uso del suolo era chiaramente determinato dalla presenza del vigneto che si disponeva con omogeneità sui versanti est ed ovest delle diverse propaggini collinari, mentre la zona collinare più alta e più scoscesa presentava diffusa vegetazione a bosco, in particolare intorno al Bric Eribecco (438 m.), al Bric San Lorenzo (466 m.) e al Bric Nambria (446 m.). Lungo i fondovalle si trovavano aree a prato umido ed eventuali colture a seminativo. Oggi si nota una riduzione sensibile delle aree a vigneto ed una presenza nei fondovalle di aree a pioppeto. n Sistema idrografico Come abbiamo detto, il sistema idrografico è collegato al sistema di valli che sono presenti nel territorio comunale e che scaricano nel Torrente Versa a sud, tranne il Rio Zappi, che nella zona nord scarica nel Torrente Stura. Lungo il confine ovest si trova il Rio Tareto in cui confluisce il Rio Vai, più a monte è denominato rio Canetta, poi il Rio Guardia e più a est il Rio Zurella. I rii sono contrassegnati dalla presenza di vegetazione ripariale continua lungo il loro corso. Oggi alcuni di questi rii hanno perduto in gran parte la vegetazione spontanea che li contraddistingueva invece in modo evidente nella cartografia di impianto. È un sistema che comunque va salvaguardato e riproposto come componente naturale strutturale. n Sistema della viabilità Il territorio comunale è segnato da una rete diffusa e interessante di viabilità con un asse principale nord-sud che collega la valle della Stura, attraverso il concentrico e Zanco , con la Valle Versa. Le strade, diramate su tutto il territorio comunale, sono prevalentemente di crinale lungo le dorsali collinari, ma anche lungo i fondovalle e con numerosi raccordi trasversali che collegano in modo diretto le numerose frazioni del comune: Lussello, Tritanco, Cardona, Matti, Quarta, Zanco, Pavo e Vadarengo, collegato al Truc omonimo (232 m.). Al 1991 l’assetto della viabilità principale disegna un grande cerchio che riunisce le varie frazioni sparse nel territorio comunale. La chiarezza del disegno originario della viabilità è stato in parte modificato dalla viabilità veicolare, tuttavia rimane ancora evidente il tracciato della viabilità minore, che potrà essere recuperata secondo un progetto di itinerari turistici. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 si riscontrano alcuni elementi che occorre indagare e documentare: i molini, quali il Molino Zurella, il Molino Albarella e il Molino Nuovo, la Fonte sulfurea, la cappella di S. Spirito (421 m.), la cappella di S. Rocco, oltre numerose cappelle o piloni da ricercarsi nella frazioni del comune ed il cimitero. E’ da segnalare Villa Marietta. Il Truc Vadarengo come quello vicino alla frazione Pavo costituiscono dei punti di vista privilegiati di affaccio sulle colline circostanti di Rinco, Tonco e sulla Valle Versa. Va inoltre sottolineata la presenza del castello ed del grande parco circostante. Per il territorio comunale non è stato ancora avviato il censimento ai sensi della L. 35 e pertanto gli edifici segnalati fuori dal concentrico riguardano solo alcune chiese nella frazione di Lussello e di Zanco. 10. Villafranca (h. 206 m.) n Morfologia Il territorio del comune è attraversato da ovest a est da una ampia piana in cui confluiscono nel Torrente Triversa il Rio Stanavasso, il Torrente Traversola e il Rio Capitolo (che proviene dal comune di Valfenera) e nella parte più a sud il Rio Maggiore. Il territorio risulta molto vario e la parte pianeggiante costituisce quasi il 50% dell’intera superficie comunale. La parte collinare, che si affaccia sulla piana, è composta da tre principali elementi: a nord un rilievo collinare unitario e morfologicamente definito su cui domina la cappella della Madonna di Volpilio (247 m.), a est una parte più estesa che segue e degrada lungo la sponda sinistra del Torrente Triversa, a ovest una terza parte, di modeste dimensioni, alla confluenza tra il Triversa e il Rio Maggiore, su cui si colloca il concentrico. Sono tre ambiti con caratteri differenti in stretta relazione visuale, mediata dalla grande piana di fondovalle. n Uso del suolo Al 1880 nella piana sono presenti colture a prato e a prato umido. Sulle pendici collinari la presenza di vigneto, tranne che intorno al concentrico, è alternata a zone a bosco, che sembrano prevalere rispetto alla coltura viticola: la collina di S. Antonio rivela una alternanza di vigneto e di bosco, nella collina di S. Grato solo le zone meglio esposte e meno ripide sono a vigneto, le zone retrostanti, sono a bosco con versanti abbastanza incisi e ripidi. Nella grande piana alluvionale risultava evidente la prevalenza di prati umidi oltre ad aree a seminativo arborato. A oggi ampi lembi di vigneto sono stati sostituito da bosco o da zone a prato o seminativo, in particolare risulta sicuramente modificato il profilo della collina di S. Antonio, come pure molte aree circostanti al concentrico. n Sistema idrografico Come abbiamo già detto il sistema idrografico assume nel comune di Villafranca una notevole importanza come nodo di confluenza e di scorrimento di numerosi torrenti e rii.. La piana al 1880 era caratterizzata dal segno dei diversi corsi d’acqua lungo i quali era evidente la presenza di vegetazione ripariale. n Sistema della viabilità Al 1880 le diverse parti del territorio collinare erano collegate da una rete fitta di percorsi che attraversavano la pianura sottostante, lungo la quale si trovava l’asse principale alberato della Strada Padana Inferiore. Successivamente la ferrovia e poi in epoca più recente l’autostrada Torino-Piacenza hanno creato una forte cesura in questa ampia piana alluvionale tra concentrico ed aree collinari comunali. La viabilità minore, al servizio degli insediamenti sparsi e delle attività agricole, assume un carattere prevalentemente di crinale determinando differenti strutture e forme: un anello che parte dal concentrico di Villafranca, segue la morfologia collinare e si ricollega alla pianura; un tratto di strada di crinale, che si collega alla valle del Triversa e del Traversola, in prossimità della frazione di S. Antonio, un percorso di crinale continuo e sinuoso, che segue l’andamento dei rilievi collinari, collega i vari insediamenti sparsi nella parte di territorio che ha come centro la frazione di San Grato e che più a nord prosegue verso Maretto e Roatto, affacciandosi sul versante della valle Triversa. Questo diversi sistemi di viabilità, anche minore, possono costituire strutture paesistiche di interesse sia per morfologia che per rapporti di intervisibilità con le colline circostanti. n Elementi puntuali e sistema del verde Gli edifici censiti dalla L. 35/95 fuori dal concentrico riguardano quattro edifici (due ville, una fornace, un edificio rurale). Altri edifici, solo segnalati, sono la Chiesa della Madonna della Neve (loc. Volpiglio) a cui occorre aggiungere anche la necessità di tutelare e sistemare adeguatamente le aree adiacenti, essendo collocata sulla sommità della collina e con una visuale a 360° sul territorio circostante. Inoltre il Molino, probabilmente il Molino di Belotto sul Triversa, oltre altri edifici rurali sparsi, ad esempio la cascina Canalis e il cimitero. Un’ultima notazione sta nel tenere conto della struttura arborea che caratterizzava al 1881 il complesso sistema idrico e buona parte del sistema viario in pianura. 11. Villanova (h. 260 m.) n Morfologia Il territorio comunale è di pianura, salvo una piccola porzione di territorio collinare inclusa nella zona nord-est, e appartiene alla formazione dell’altopiano di Poirino. Confina ad est con le prime depressioni del sistema collinare che si affacciano sulla valle del Torrente Traversola. n Uso del suolo Le colture prevalenti al 1880 erano il seminativo, il prato irriguo e in parti minori il prato arborato; la parte collinare era prevalentemente a bosco. Attualmente permane il medesimo assetto colturale, in un territorio sicuramente ridotto nelle sue caratteristiche componenti arboree soprattutto lungo le strade e il sistema idrografico. n Sistema idrografico Il sistema idrografico è strettamente collegato alla strutturazione insediativa del territorio comunale. L’asta del Rio Banna attraversa da nord, costeggiando le frazioni di Brassicardi, Terrasse e Bianchi ,a sud-ovest il territorio comunale. Nella zona sud sono presenti il Rio Robeirano, il Rio Bottalino e il Rio d’Isola, provenienti dal territorio di Isolabella, che confluiscono nel Banna. Ad ovest il territorio comunale è delimitato dal Rio Borgallo (più a nord denominato Rio della Madonna) che confluisce nel Banna all’altezza della frazione Corveglia, e più a sud dal Rio Valgorrera. n Sistema della viabilità Il sistema viario è un sistema radiocentrico con molti tratti di strada alberati, come risulta al 1880, variamente distribuiti nel territorio comunale, soprattutto lungo le strade di accesso al concentrico e in prossimità del Castello Velmeiniers. La viabilità principale è costituita dall’autostrada, a nord del concentrico, la strada statale Padana Inferiore e la strada statale n. 29 del Colle di Cadibona. Le altre strade sono secondarie ed hanno un ruolo locale e sono distribuite sull’intero territorio comunale, secondo un reticolo diffuso ed abbastanza equilibrato, che collega le numerose frazioni di impianto storico: Brassicarda, Terrasse, Bianchi, Savi, Valdichiesa, Corveglia e Raspino. Interessante risulta la strada che costeggia, intorno alla frazione Savi, la depressione collinare ed i collegamenti con la valle del Triversa. L’autostrada Torino-Piacenza costituisce, insieme alla ferrovia più a nord , già presente al 1880, un fattore di forte divisione rispetto alla strutturazione storica del territorio comunale. n Elementi puntuali e sistema del verde Il censimento previsto dalla legge35/95 non è ancora stato effettuato e pertanto gli edifici vincolati ai sensi della L. 490/99 fuori dal concentrico riguardano l’ex castello Velmeiniers, la Chiesa di Sant’Isidoro, e l’ex convento in frazione Corveglia. Altri edifici segnalati riguardano numerose chiese nelle varie frazioni Bianchi, Gianassi, Brassicarda, Savi, Valdichiesa, le due torri di avvistamento: Torre Bisocca di Supponito e Torre Bisocca di San Martino, il Molino, la Fornace e la cascina Savi. Al 1880 si possono rilevare ancora alcuni segni importanti, in parte oggi assenti, quali : il Parco recintato del castello Velmeiniers e il viale di accesso, il palazzo Ciochero con viali alberati di accesso e giardino interno, vari tratti di strade alberate di “ingresso” ad alcune frazioni sparse (Brassicarda, Valdichiesa, Corveglia), i rii alberati con un reticolo diffuso di vegetazione riparia, altre cappelle sparse, ad esempio la cappella di San Vincenzo in prossimità di Val Gorrera, la cappella di San Giuseppe, la cappella della Madonna del Casale nella parte collinare in posizione dominante sulla Valle Triversa e il Molino del Casale. La struttura dell’insediamento e del paesaggio attraverso le tavolette di impianto IGM (1880) Legenda Confine comunale Centri principali Nuclei Monumenti ed elementi paesistici isolati Percorsi di crinale Percorsi di fondovalle Percorsi di pianura Reticolo idrografico Bosco Vigna Prato stabile Seminativo D/E.1. I BENI CULTURALI ARCHITETTONICI ED URBANISTICI La ricerca ha come obbiettivo quello di operare una lettura delle strutture insediative di antico impianto, individuandone la permanenza e la caratterizzazione, di sistematizzare le conoscenze già disponibili sul patrimonio dei beni culturali architettonici, e di confrontarle con la struttura delle permanenze rilevate in modo da individuare le integrazioni necessarie e quindi di individuare i tipi edilizi caratterizzanti ed i sistemi di beni da valorizzare. D. I BENI URBANISTICI I caratteri insediativi e le regole insediative. L’analisi della cartografia storica disponibile su tutto il territorio (tavolette d’impianto IGM realizzate tra il 1880 e il 1882) permette di cogliere insieme le peculiarità dei caratteri insediativi, la permanenza dell’impianto storico e le dinamiche insediative sviluppatesi nell’ultimo cinquantennio e che, in generale, hanno prodotto un drastico abbandono delle regole insediative, di lunga durata, che hanno caratterizzato gli insediamenti. Se si analizzano infatti le forme dell’insediamento così come ci viene restituito dalla tavoletta IGM rispetto alla morfologia territoriale e l’impianto planimetrico possiamo cogliere le specificità che distinguono i diversi centri di antico impianto. Se è evidente nel territorio del Basso Monferrato Artigiano una prevalente collocazione dei centri sulle parti più elevate del rilievo collinare, si possono distinguere i centri di sommità o di culmine, nettamente prevalenti (Albugnano, Cocconato, Moncalvo, Montemagno, S.Martino Alfieri, Settime, Villadeati), rispetto ai centri di crinale (Tigliole), di promontorio (Cortazzone, Villafranca), di pianura (Villanova). Quest’ultimo è un caso assolutamente unico, anche rispetto agli altri centri del pianalto (Valfenera, Dusino S.Michele, S.Paolo Solbrito, Cellarengo, Buttigliera d’Asti) che possono più correttamente definirsi di margine di terrazzo. La morfologia di pianura di Villanova è caratterizzata, oltre che da una struttura radiocentrica territoriale, dalla assoluta originalità dell’impianto planimetrico a scacchiera, tipica della matrice di “borgo nuovo” (così come nell’area del Gal è riscontrabile solo a S.Damiano e a Buttigliera d’Asti) e dalla sovrapposta cerchia di bastioni cinque-secentesca, mentre sul territorio sono ancora leggibili i luoghi fortificati della Bisocca di S.Martino, di Corveglia e della Bisocca di Supponito. La morfologia urbana si caratterizza per una netta preminenza di edifici lineari disposti in senso est-ovest, all’interno del centro, ma anche all’esterno, nei nuclei minori (Savi, Brassicarda,…..). Anzi, se si amplia lo sguardo, questa morfologia a cortine continue estovest caratterizza tutti i centri del Pianalto (Buttigliera, S.Paolo, Dusino, Cellarengo) salvo Valfenera e testimonia una attenzione particolare dell’edilizia di antico impianto verso quello che oggi si definisce “approccio bioclimatico”, cioè verso l’ottimizzazione dell’apporto solare. Le morfologie di promontorio di Cortazzone e di Villafranca si distinguono per il rapporto diretto con il fondovalle, e per il ruolo di cerniera tra percorsi insediativi di crinale e percorsi di fondovalle. L’impianto planimetrico è lineare semplice ed è fortemente condizionato dall’orografia del sito. La morfologia urbana, a sua volta, è fortemente condizionata dall’andamento della maglia viaria: a Villafranca, in cui l’asse urbano principale è rettilineo gli edifici si collocano in cortine continue parallele alla strada con corpi secondari ortogonali, mentre a Cortazzone, in cui l’asse urbano è ad avvolgimento le cortine non sono in rapporto diretto o costante con la strada. La morfologia di crinale di Tigliole si caratterizza in relazione all’orientamento del crinale stesso: essendo orientato da est ad ovest, ed essendo l’impianto planimetrico lineare molto semplice si dà luogo alla caratteristica morfologia della cortina edilizia continua lungo l’asse urbano, con maniche secondarie ortogonali (molto simile a Villafranca). Nei Centri di crinale con l’asse urbano principale in senso nord-sud, viceversa (Altavilla, Cerreto, Colcavagno, Costigliole, Passerano, Pino d’Asti, Portacomaro, Scurzolengo,…) si dà luogo invece a cortine edilizie a pettine rispetto all’asse urbano. La morfologia di sommità o di culmine caratterizza il maggior numero dei centri e si spiega in relazione alle radici difensive dell’insediamento, essendo in origine tutti i centri di questo tipo dotati di castello. Il centro di Albugnano ha l’impianto planimetrico più semplice, accentrato e in parte (verso est) lineare, e la morfologia urbana è caratterizzata da edifici lineari a loggiato sorti sulle tracce delle murature difensive. Il centro di Cocconato ha un impianto planimetrico più complesso, articolato in una serie di assi lineari urbani di crinale convergenti. La morfologia urbana è caratterizzata dalla prevalenza di cortine edilizie continue, tra cui spicca l’edificio medioevale porticato oggi sede del municipio. Il centro di Moncalvo ha un impianto planimetrico complesso e dalla forma compatta triangolare corrispondente all’antica cinta muraria. La morfologia urbana è quella di un centro di rango superiore, con cortine edilizie compatte e più alte, con edifici a blocco medioevali, e vere e proprie piazze. Spicca lo spazio corrispondente alla fortezza, oggi adibito a parcheggio, il relativo muro di contenimento e la presenza di numerosi edifici religiosi. Il centro di Montemagno ha un impianto planimetrico altrettanto complesso, ma è caratterizzato dalla presenza del “Ricetto” con la tipica organizzazione di cellule “schiena a schiena” allineate su di una serie di vie parallele, ai piedi del castello. Particolare rilevanza, nella morfologia urbana, assume il muro di contenimento a valle e lo spazio urbano cui dà luogo. Il centro di Settime ha un impianto planimetrico articolato, ma prevalentemente lineare, disposto lungo il crinale sommitale, ad arco. Il diverso orientamento dell’asse urbano dà così luogo a morfologie differenziate: nella parte a nord con asse est-ovest la morfologia è quella delle cortine edilizie continue parallele alla strada, mentre nella parte a sud con asse nord-sud la morfologia è quella delle cortine disposte a pettine lungo la strada, che si biforca poi in corrispondenza della Chiesetta di S.Anna. Il centro di S.Martino Alfieri ha un impianto planimetrico radiale molto semplice caratterizzato dalla presenza di due sommità distinte, l’una occupata dal Castello, l’altra dal Centro civico, e quindi da una serie di assi convergenti verso la sella intermedia. La morfologia urbana è caratterizzata da cortine edilizie continue lungo strada. Il centro di Villadeati ha un impianto planimetrico lineare semplice (così come quello delle frazioni di Zanco e Mosello) steso sulle pendici sotto il Castello, poi sostituito dalla Villa settecentesca. La morfologia urbana è caratterizzata quindi da cortine edilizie lineari lungo strada. Passando agli insediamenti sparsi sul territorio, dall’analisi della cartografia storica sono analogamente desumibili le regole che hanno sovrinteso alla loro localizzazione. Anche in questo caso appaiono nettamente prevalenti i percorsi di crinale, che collegano i centri principali ai nuclei frazionali ed ai singoli cascinali. A questo proposito l’insediamento nel Basso Monferrato pare prevalentemente caratterizzato da strutture edilizie isolate (cascine o piccoli aggregati) piuttosto che da annucleamenti rurali di una certa consistenza, che si riscontrano solo nei Comuni di Villanova, Villadeati, Tigliole, S.Martino. I percorsi di fondovalle appaiono decisamente minoritari, e non reggono che scarsi insediamenti, per le scadenti condizioni climatiche che contrassegnano questi territori. Circa la morfologia di questi insediamenti minori vengono riconfermate le regole prevalenti già illustrate: edifici in cortina lungo le strade, quando queste hanno un orientamento estovest, edifici a cortina disposti a pettine, quando le strade sono orientate da nord a sud. Nelle tavole allegate sono evidenziati e classificati per tipo di impianto e le strutture insediative (centri, nuclei e case sparse) che permangono dell’impianto originario. Come si vede si tratta di un patrimonio di vaste dimensioni, diffuso capillarmente lungo i percorsi di crinale. Rispetto alle regole insediative così descritte gli sviluppi urbani dell’ultimo cinquantennio hanno introdotto delle innovazioni che non sono quasi mai riuscite a costituirsi come nuove regole, per la contraddittorietà dei criteri di riferimento. In generale si può parlare di rifiuto netto delle vecchie regole insediative, riguardate come un retaggio di arretratezza, di inadeguatezza rispetto alla modernità, alla mobilità. In effetti le prime avvisaglie di nuove regole insediative corrispondono alla realizzazione di nuovi assi viari di fondovalle, di ferrovie e relative stazioni, di plessi protoindustriali sulle aree piane più facilmente collegabili con le grandi direttrici di comunicazione. Ciò vale per Settime, in relazione alla realizzazione della ferrovia Asti-Chivasso (1912), per Villanova, Villafranca e Tigliole, in relazione alla ferrovia Torino-Asti (1849), per Moncalvo, in relazione alla ferrovia Asti-Casale (1870). Ma anche in assenza della ferrovia il “franamento a valle” ha luogo lungo le nuove direttrici di fondovalle, finora assolutamente prive di insediamenti (salvo i mulini), realizzate nel corso del ‘900. Ciò vale per Montemagno, verso il fondovalle del Grana, e per S.Martino Alfieri, verso il fondovalle del Tanaro e per Cortazzone, mentre i centri più interni e defilati rispetto alle direttrici di comunicazione (Albugnano, Cocconato, Villadeati), non hanno subito questo processo se non in epoca più recente. Si può dire comunque che fino al secondo dopoguerra, anche in questi insediamenti di fondovalle relativamente innovativi sono valse le regole morfologiche degli insediamenti di antico impianto: costruzione sul filo stradale senza arretramenti di cortine edilizie continue a 2-3 piani, adozione delle stesse regole sintattiche e dello stesso lessico, nel solco della tradizione, anche se con alcune innovazioni tecnologiche e tipologiche (la casa a distribuzione a ballatoio, la fabbrica con capriate o shed). Solo più recentemente sono stati introdotti criteri insediativi di tipo innovativo, con l’adozione delle regole dell’arretramento e dell’assoluta indifferenza rispetto al filo stradale, con la nuova tipologia dell’edificio unifamiliare isolato o della palazzina isolata, con l’introduzione di vistosi “fuori-scala” (l’edificio in linea pluripiano, il fabbricato industriale moderno con coperture dalle forme innovative….). L’assenza di qualsiasi controllo pianificatorio ha lasciato libero sfogo alla proposizione di qualsiasi regola, in qualsiasi luogo, con il rischio di rendere illeggibili le regole insediative tradizionali. E’ ciò che avviene a Villanova, ove si rischia di perdere la traccia della cinta muraria e un tessuto edilizio eterogeneo (edifici il linea pluripiano, palazzine, ville unifamiliari, capannoni industriali) è sparpagliato attorno al centro senza ordine, a Villafranca, ove il centro di promontorio si affaccia su di un fondovalle tagliato da ferrovia e autostrada e colonizzato da lottizzazioni residenziali a bassa densità, edifici in linea pluripiano, capannoni industriali eterogenei, a Moncalvo, ove pochi interventi edilizi recenti si pongono del tutto fuori scala (esemplare è il caso della cantina sociale, edificio che in teoria dovrebbe rappresentare quanto di più tipico e qualificato dal punto di vista qualitativo si produce localmente – ma il caso non è isolato, si può anzi dire che tra gli elementi detrattori del paesaggio del Basso Monferrato, le cantine sociali si collocano ai primi posti, insieme ai serbatoi dell’acquedotto ed agli edifici pluripiano). Porsi il problema della tutela e valorizzazione dei beni urbanistici, rappresentati non solo dai centri storici nelle loro caratterizzazioni precedentemente descritte, ma dall’intero patrimonio di insediamenti di impianto storico diffuso nel paesaggio così come emerge dall’analisi delle “permanenze” tuttora rintracciabili, significa cambiare profondamente atteggiamento, strategie ed approccio rispetto ai modi consolidati di concepire il problema, perché oggetto della tutela e della valorizzazione non è tanto il complesso degli elementi componenti le strutture, quanto le regole che hanno dato luogo a quelle strutture. Non si tratta quindi di una semplice estensione della tutela e della valorizzazione (dai singoli oggetti ai contesti, all’intero paesaggio), quanto di una radicale revisione delle politiche e delle azioni. Non basta, in altri termini (e forse non è neppure proponibile), puntare alla tutela e valorizzazione dell’intero centro storico, e del sistema di insediamenti rurali che caratterizzano una porzione più o meno estesa di paesaggio di valore culturale, se poi gli interventi che inevitabilmente debbono essere effettuati, perché tutto incessantemente si trasforma, si sovrappongono a quelle strutture ignorando le regole insediative e morfologiche che le hanno originate, rendendole illeggibili. Per una tutela e valorizzazione dei beni urbanistici efficace, quindi è cruciale impostare una definizione delle regole per gli interventi sul territorio che sia in grado insieme di tutelare e valorizzare le permanenze ma anche di progettare le nuove strutture in accordo, in continuità con le regole di lunga durata che hanno conferito valore culturale all’insieme dei beni urbanistici presenti. La tutela e la valorizzazione, per quel che riguarda i beni urbanistici, si fa facendo una buona progettazione urbanistica, che sappia affrontare il problema della forma del territorio tenendo conto del valore del sedimento storico accumulato nelle strutture dei centri storici come in quelle del paesaggio agrario. Occorre dunque individuare i caratteri di autenticità delle strutture insediative tradizionali e porli al centro dell’attenzione, farli conoscere perché diventino patrimonio culturale condiviso, e siano alla base del progetto della trasformazione futura. I risultati delle analisi effettuate sono un primo tentativo in questa direzione. E. I BENI CULTURALI ARCHITETTONICI A fronte di una notevole presenza di edifici di antico impianto riconosciuti in prima approssimazione come “permanenza” quantomeno di valore documentario, l’analisi degli elenchi dei beni vincolati ai sensi della l.n.1089/1939, degli edifici segnalati a vario titolo e da diverse fonti bibliografiche mostra una considerevole sproporzione, né potrebbe essere altrimenti. Gli elenchi disponibili presso la Soprintendenza ai Monumenti indicano un interesse centrato sulle poche architetture emergenti in quanto “d’autore”, sui monumenti di interesse nazionale, e riguardano edifici religiosi, militari (castelli, torri…) e alcune particolari categorie di edifici civili (palazzi, in genere d’impianto medioevale). Vi è però da segnalare quell’ampia estensione “automatica” del vincolo derivante dalla concomitanza delle due condizioni poste dalla l.n.1089/39, e cioè di essere edificio pubblico e di rivestire interesse storico-artistico. L’inesistenza, in concreto, di un elenco definito, e il ricorso ancora ribadito recentemente, al parere espresso, caso per caso, dalla Soprintendenza in merito al singolo edifico del Demanio Pubblico, pone un formidabile punto interrogativo sulla reale consistenza del patrimonio vincolato. La prima lacuna da colmare, quindi, soprattutto nell’attuale fase di ricerca di semplice valorizzazione economica del Demanio, consisterebbe innanzitutto nel definire una volta per tutte, e non caso per caso, sulla base di criteri omogenei e di elenchi esaustivi dei beni del Demanio Pubblico, ciò che si deve ritenere vincolato; operazione assolutamente urgente in termini di certezza e chiarezza istituzionale. Se dagli elenchi assai scarsi della Soprintendenza passiamo alle segnalazioni contenute nel Piano Territoriale Provinciale assistiamo ad una notevole integrazione, e, soprattutto il tentativo di passare da un interesse centrato sull’emergenza ad un interesse per sistemi di beni (cascine, mulini e fornaci, confraternite) diffusamente presenti sul territorio. Si tratta ancora, comunque, di elenchi limitati a pochi edifici, per ogni singolo comune, orientati a specifiche categorie di beni: si tratta, comunque di un primo tentativo di integrare gli elenchi della Soprintendenza per i beni storico-artistici di proprietà pubblica (le confraternite). Un deciso incremento delle segnalazione di beni di valore storico-documentario è dato dalle schede elaborate dai comuni in base alla L.R.35/95. In alcuni comuni (Moncalvo, Montemagno, Cocconato) il numero degli edifici schedati rappresenta un concreto sforzo di incremento della conoscenza. Rimandando ad uno specifico approfondimento l’esame critico dell’applicazione della L.R.35/95 (v.punto H) si può qui affermare che solo in alcuni casi la schedatura è stata orientata alla individuazione dei sistemi di beni e, soprattutto, alla determinazione degli elementi caratterizzanti l’architettura locale. Il fatto è che ancora una volta è prevalso un interesse centrato sulla emergenza singolare, più che nel carattere di quella che si può definire l’edilizia di base, e cioè sul patrimonio edilizio “corale” che caratterizza e qualifica l’ambiente locale. Singolare, ad esempio è il caso di Albugnano, dove le schede sono orientate ad un unico tipo di bene – il pilone votivo – che certo costituisce un elemento connotante il paesaggio agrario, ma che non ha alcun riferimento con “…i caratteri tipologici, costruttivi e decorativi…degli edifici e loro pertinenze”. Analogo è il caso di Cocconato, ove numerose schede sono relative oltre che ai piloni votivi, alle edicole funerarie. Particolarmente centrato, viceversa, è il caso di Montemagno, dove si è proceduto ad una sistematica schedatura degli edifici del ricetto, che costituiscono sì una singolarità tipologica, ma determinante a conferire una peculiare morfologia ad una parte consistente del centro storico. Allo stesso modo aver schedato un certo numero di cascine nel territorio foraneo nei comuni di Montemagno e Cocconato centra l’obbiettivo di analizzare il tipo edilizio nelle diverse declinazioni in grado di caratterizzare il paesaggio agrario. Va segnalato, comunque, che nei comuni di Cocconato, Cortazzone, Moncalvo e Montemagno la presenza di numerose schede riferite ad edifici del centro storico – non solo palazzi – consente di far emergere gli elementi caratterizzanti l’architettura civile locale di questi centri. Anche la scelta di Tigliole, orientata sul tipo edilizio relativamente singolare (soprattutto del Basso Monferrato) della Villa, va nella direzione di conoscere in modo esauriente un particolare elemento caratterizzante il paesaggio locale. Il fatto che alcuni comuni (Settime, Villafranca) non abbiano viceversa finalizzato l’indagine ad uno o più particolari filoni tipologici, ma abbiano redatto poche schede su un insieme indifferenziato di tipi, e, soprattutto, come nel caso di Settime si siano occupati di edifici già vincolati ai sensi della l.n.1089/39 fa emergere un chiaro fraintendimento delle finalità della legge regionale. E’ da segnalare, infine, che i comuni di S.Martino Alfieri, Villadeati e di Villanova non abbiano fatto ricorso alla L.R.35/95. D/E.2. INDIRIZZI PER L’INCREMENTO DELLA CONOSCENZA DEL PATRIMONIO DEI BENI CULTURALI. Il quadro che emerge alla sistematizzazione delle conoscenze disponibili sul patrimonio dei beni culturali urbanistici ed architettonici, come si è visto, segnala diverse lacune, che occorrerebbe colmare con un programma di schedatura mirato insieme alla conoscenza ed alla valorizzazione, ma da articolare in relazione alle priorità, alle possibili forme di finanziamento, alle ricadute operative. Come si è visto precedentemente una prima grave lacuna riguarda il compiuto riconoscimento degli edifici “automaticamente” vincolati (art.20 comma 1 e art.12 comma 1, del Dlgs 16/1/04) di proprietà dello Stato, delle Regioni, degli Enti pubblici territoriali e di ogni altro ente pubblico e privato senza fini di lucro. La verifica dell’effettivo interesse e la relativa schedatura è demandata alla Soprintendenza, ma il problema, al di là delle evidenti difficoltà operative per la mole di tali verifiche, è innanzitutto quello di conoscere ciò che può essere oggetto di tale verifica. La prima emergenza, quindi consiste nel redigere degli elenchi delle proprietà pubbliche per cui si pone il problema della verifica di interesse, che risultano enormemente più numerose dei monumenti vincolati o comunque segnalati. Si tratta di un lavoro capillare di pre-schedatura che presuppone la collaborazione di tutti gli enti pubblici, e che renderebbe possibile identificare ogni elemento comunque nominalmente tutelato (beni religiosi, beni militari, beni civili). Il compito successivo della verifica e della schedatura, come si è detto, compete alla Soprintendenza e quindi non dovrebbero farsene carico le amministrazioni comunali. Un lavoro di questo tipo consentirebbe di conoscere e tutelare il vasto patrimonio che si è cominciato a sondare con le iniziative della Provincia relative alle Confraternite: dalla verifica condotta a campione negli undici comuni, dalla cartografia storica e dai sopralluoghi effettuati risultano né vincolate, nè segnalate numerose cappelle campestri (v.elenco allegato). In secondo luogo, tenuto conto delle possibilità di finanziamento e delle ricadute operative, occorrerebbe far ricorso estesamente alla L.R.35/95, definendo prima, però, verso quali sistemi di beni orientare la schedatura. Rimandando al punto H successivo per una riflessione critica sul mancato coordinamento della L.R.35/95 con la L.R.19/99, la schedatura dovrebbe essere strettamente finalizzata a riconoscere i caratteri dell’architettura locale, come elementi di connotazione del paesaggio urbano e del paesaggio agrario, al fine di trarre d questo tipo di indagine indirizzi (da inserire nel Regolamento Edilizio) utili a guidare gli interventi (sia di recupero che di nuova edificazione) verso risultati di qualità, garantendo così una valorizzazione del contesto ambientale. Oltre a questa ricaduta operativa, la schedature indubbiamente rappresenta un passaggio obbligato anche per ottenere agevolazioni e finanziamenti per il recupero di tali beni. Al proposito sono da segnalare due recenti leggi che in diverso modo incentivano il recupero dei beni di valore storico-documentario rappresentati dal patrimonio edilizio rurale: la l.r.9/2003, che consente notevoli agevolazioni di tipo normativo per il recupero dei rustici, e la l.n.387/2003 che finanzia interventi di recupero dell’architettura rurale di valore storico. Tenuto conto di ciò, si tratta di operare delle scelte di priorità tra il patrimonio edilizio urbano e il patrimonio edilizio rurale, indirizzando comunque la schedatura verso edifici rappresentativi di una cultura materiale e di un modo di abitare che ha profondamente caratterizzato il paesaggio, più che verso edifici “singolari”, “eccezionali”. Il lavoro condotto sulla cartografia storica consente di impostare una pre-schedatura per sistemi di beni così articolato: § abitazioni civili costitutive del tessuto dei centri storici di impianto storico (dal medioevo al novecento); § elementi significativi di archeologia industriale (mulini, fornaci, opere di ingegneria civile….); § cascine; § ville. ALLEGATO: EDIFICI VINCOLATI, SEGNALATI E SCHEDATI NEGLI UNDICI COMUNI CAMPIONE ALBUGNANO Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Fuori dal concentrico Abbazia di Vezzolano frazione di Vezzolano (proprietà del Demanio) ----------------------------------- Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 2 3 4 5 6 7 8 24 Casa di residenza con rustico di pertinenza Casa di residenza Casa di residenza Casa di residenza Casa di residenza con rustico di pertinenza Cascina nel concentrico Rustico Casa di residenza Edificio di Residenza signorile Via Regina Margherita 1 Via Regina Margherita 4 Via Regina Margherita 6 Via Municipio 1 Via Regina Margherita 5 Via dei fossati 1 Via Regina Margherita 17 Via Regina Margherita 14 Via Serra angolo Via Fossati Edifici censiti con la Legge 35/95 Fuori dal concentrico 9 Pilone San Sebastiano 10 Pilone San Giuseppe 11 Pilone Santa Lucia 12 13 Pilone Pianfiorito Pilone Vedovello 14 15 16 17 Pilone Serafini Pilone San Luca Pilone Sant’Antonio Pilone San Grato Via Regina Margherita (altezza n. civico 26) Via Regina Margherita (altezza n. civico 33) Incrocio strade Schierano e Vallana Strada per Schierano Strada per Schierano (altezza cascina Vedovello) Strada per Vallana Borgata Vallana Strada Bertacca 18 19 20 21 22 23 25 Pilone Sant’ Espedito Pilone Santa Rita Pilone San Maurizio Pilone Sant’Emiliano Pilone San marco Pilone Madonna Nera Cappella Cimiteriale San Pietro Località Sant’Emiliano Località Sant’Emiliano Borgata Cavani Strada Sant’Emiliano Località Vezzolano Strada per Schierano Cimitero ----------------------------------- Edifici segnalati Confraternita della SS. Trinità Chiesa di San Pietro Mulino Chiesa di Sant'Antonio al cimitero concentrico pieve cimiteriale; Cimitero frazione di S. Antonio, proprietà del Comune MONCALVO Edifici vincolati (da elenco Soprintendenza beni Architettonici) Nel concentrico 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 Castello, cinta e bastioni Sinagoga Farmacia Chiesa Parrocchiale Sant’Antonio Palazzo signorile Palazzo Manacorda Teatro Comunale Palazzo Testa Fochi e poi Bertarelli Casa Lanfrancone Palazzo Manacorda Convento di Sant’Orsola Casa Neogotica Palazzo Cissello Palazzo Nobiliare Palazzo del Pozzo Convento di San Francesco Chiesa di San Francesco Palazzo detto “Testa-Fochi” Chiesa della Madonna delle Grazie Chiesa di San Marco detta della Misericordia Porta Cicogna o Rechiuso Casa detta dei Marchesi di Monferrato Piazza Carlo Alberto Piazza Carlo Alberto 29 Via XX Settembre 1 Via XX Settembre Corso Regina Margherita 5 Via Carlo Ferrarsi 1 Piazza Garibaldi Piazza Garibaldi 23 Via IV Marzo 2 Via Cissello 13 Via Cissello 2-6 Via Cissello 64 Via Cissello 83 Piazza Garibaldi 2 Via Asti 6 Piazza San Francesco Piazza San Francesco Via della Madonna Via Teste Fochi Via Carlo Ferrarsi Via Carlo Ferrarsi Via Testa Fochi 1 Edifici vincolati (da elenco Soprintendenza beni Architettonici) Fuori del concentrico A B C D E F G H M Villa Foa Grangia di San Giovanni Chiesa Campestre di San Giovanni Casa Rosmino Cascina Riccio Cascina Spinarola Villa Capuccini Convento di san Bernardino dei Frati Minori Osservanti Chiesa Campestre di San Martino Cappella Cimiteriale detta “la Cappelletta” Cimitero Israelitico N Chiesa Campestre di San Rocco I L Località Borganino Località di San Giovanni Località di san Giovanni Strada Comunale di Patro Strada Comunale di Patro Strada Statale per Casale Località Capuccini Località San Bernardino Località San Martino Località Serra Strada provinciale MoncalvoAlessandria Località San Rocco O Pieve di San Pietro in Vincoli Località Gessi ----------------------------------- Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Chiesa della Madonna Chiesa della Madonna della Neve Chiesa di San Francesco Oratorio di San Rocco Resti del Castello e resti dei mura di cinta Palazzotto Casa De Maria (con terrecotte sulla facciata) (proprietà di Ente Religioso) (proprietà del Comune) (proprietà del Comune) (proprietà del Comune) (proprietà del Comune) via Cisello angolo via del Coraggio, (proprietà Cassa di Risparmio di Asti) via della Madonna (proprietà di De Maria) ----------------------------------- Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 A B C D Palazzo Settecentesco Porta Urbica “Cicogna” Palazzo Settecentesco Casa Settecentesca Asilo Infantile Casa Barone Casa Casa Sinagoga Palazzina Casa Teatro Civico Casa Manacorda Casa Lanfrancone E F G H I Casa Ardizzone Palazzo dal Pozzo Palazzo Palazzo Testa Fochi Palazzo Civico Piazza Garibaldi Via Cisello 31 Via Ferrarsi 21 Via Cissello 83 Via Cissello 68 Piazza Garibaldi 23 Via IV Novembre 18-20 Piazza Carlo Alberto29 Piazza Carlo Alberto 30 Piazza Carlo Alberto 20-21 Piazza Garibaldi Piazza Garibaldi 2 Via XX Settembre angolo Via IV Marzo Via XX Settembre Corso Tanaro 6 Corso Regina Margherita 5 Via Testa Fochi 5 Piazza Bronzo 2 Edifici censiti con la Legge 35/95 Fuori dal concentrico 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Casa Novecentesca Peso Pubblico Stazione Ferroviaria “La Filanda” Cascina Spinarolo detta “tenaglia” Cascina Peso Pubblico Ex Distilleria Pertinenze rustiche Fabbricati rurali Villa Tabacchetti ex Villa Piva Casa Minoglio Casa Berta Fabbricati rurali Peso Pubblico Località Stazione Località Stazione Località Stazione Via Piacenza 17 Strada statale per Casale Strada statale per Casale 19 Località Castellino Località Castellino Strada statale per Casale Strada statale per Casale Via Bozzolata 28 Via Bozzolata 63 Via Bozzolata 40-41 Via Bozzolata 40-41 Località Santa Maria ----------------------------------- Edifici segnalati Confraternita della Misericordia Confraternita San Michele Confraternita Santi Pietro e Giovanni Mulino Filatoio concentrico SAN MARTINO ALFIERI Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 A Castello dei Conti di Visconti di Venosta e San Martino di San Germano pertinenze e parco ----------------------------------- Edifici segnalati Nel concentrico 1 2 3 4 Municipio Chiesa di San Carlo e Maria Confraternita SS. Annunziata Mulino CORTAZZONE Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Fuori dal concentrico Chiesa di San Secondo pieve rurale; Loc. Cascina Mongiglietto ----------------------------------- Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 2 3 5 6 7 8 Antico Edificio con murature a scarpa Antico Edificio con balcone in legno Strada per Montafia, 6 già Strada Comunale della Montà) Strada per Montafia, 6 (già Strada Comunale della Montà) Antico Edificio con impianto Strada per Montafia, 6 planimetrico ad "L" (già Strada Comunle della Montà) Edificio civile con ballatoio esterno in Vicolo Viziale, 5 legno Strutture dell'antico incastellamento Via del Castello, s.n.c. Antico Edificio con volte laterizie e Via del Castello, 3 portale esterno Palazzo Urbano con finitura esterna Vicolo Viziale, 7 in pietra e facciavista Edifici censiti con la Legge 35/95 Fuori dal concentrico 4 9 Antico Edificio con arcate Strada Comunale del Negro, 1 Antico Complesso lineare di cascina Strada per Montafia, 10 San Bernardo (già Strada Comunale della Montà) ----------------------------------- Edifici segnalati Nel concentrico Confraternita dei Santi Francesco e Rocco VILLAFRANCA D’ASTI Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Fuori dal concentrico Chiesa di San Giovanni ex Confraternita dei Disciplinati via Roma, proprietà del Comune ----------------------------------- Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 2 3 4 5 Edificio Opera Pia Sant’Elena Edificio Edificio Ex Biblioteca Via Roma 53 Via San Rocco 1 Via San Rocco 20 Via Tamietti Edifici censiti con la Legge 35/95 Fuori dal concentrico 6 7 8 9 Villa Saxer EX RDB oggi Fornace Edificio rurale Villa Gianotti Regione Scarassera 9 Regione Taverne 101 Regione San Grato 50 Regione San Grato 58 ----------------------------------- Edifici segnalati Nel concentrico Confraternita San Giovanni Evangelista Chiesa della Madonna della Neve Chiesa di San Eusebio e Elena Mulino Loc. Vulpiglio (chiesa rurale) (proprietà di Ente Religioso) MONTEMAGNO Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Nel concentrico A B C D E F G Castello Edificio Chiesa dei santi Martino e Stefano Edificio Medievale Chiesa San Michele Chiesa Santissima Trinità Edificio H I L M Edificio Conti Cervotti Edificio Palazzo Martinotti Casa addossata all'abside della Chiesa della Madonna della Cava Casa medievale (con tracce di costruzione antica e lobbia) Resti della Chiesa di San Vittore N O ---------------------------------- Piazza Castello (proprietà di Calvi) Vicolo V (proprietà Mazzetti) Vicolo V (proprietà Accornero) Piazza San Martino (proprietà Ferraris) Vicolo VIII Vicolo VII Via Apostoli (proprietà di Rinetti) (proprietà Raimondo) (proprietà di Ente Religioso) Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 Casa 2 Casa 3 Casa 4 Casa 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Municipio Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Fienile Casa Fienile Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Via Conte Carlo Calvi 2-4-6 Via Conte Carlo Calvi 8-10 Via Conte Carlo Calvi 29-31-33-37 Via Conte Carlo Calvi 76 angolo Via Savio 2 Via Conte Carlo Calvi 82 angolo Via Savio 78 Via Savio 5 Via Savio 21 Via Cava 1 Via Cava 10 Via Cava 12-14 Via Principessa Jolanda 116 Vicolo I, n.1 Vicolo I, n.8 Vicolo I, n.9 Vicolo I Vicolo II, n.3 Vicolo II Vicolo III, n.9-11 Vicolo III, n.13 Vicolo III Vicolo III, n.17 Vicolo IV Vicolo IV, n.3 angolo Via Mezzana 4 Vicolo V, n.3 Vicolo V, n.5 Vicolo V, n.10 Vicolo V, n.12 Vicolo V, n.16 Vicolo V Vicolo V, n.34 Piazza San Martino 5-6 Piazza San Martino 19 Piazza San Martino 17 Vicolo VI, n.3 Vicolo VI, n.9 Vicolo VI, n.11 Vicolo VII, n.2 Vicolo VII, n.3 Vicolo VII, n.7 Vicolo IX, n.9 Vicolo X, n.6 Piazza castello 1 Via Conte Carlo Calvi 77 Via Mezzana 1-3 Edifici censiti con la Legge 35/95 Fuori dal concentrico 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 Palazzo Via San Giovanni Bosco 1 Via Rinetti angolo Via San Giovanni Palazzotto Bosco 2 Palazzo Via Rinetti2-4 Ex Cava Via Pace angolo Via Casale Casa Patronale Via Roberti Casa Patronale Via Roberti angolo Via Sottoripa 2 Palazzo Via Marconi 9 Cascina Strada vicinale San Giovanni Cascina Regione Val Fossato Cascina Frazione Valleggio 8 Cascina Cascine Mongardino Cascina con corpo slegato Via San Giovanni Bosco 12 Casa Patronale Strada Comunale del Bricco Casa Patronale Via Pace Cascina Strada Comunale del Bricco Cascina Frazione Vespolaro 11 Cooperativa agricola Strada Comunale Mezzacosta Casa patronale con annesso rustico Frazione San Carlo 20 Cascina Frazione San Carlo 1-2 Cascina Frazione Santo Stefano 1 ----------------------------------- Edifici segnalati Nel concentrico Chiesa di Santa Maria della Cava (chiesa rurale) Chiesa di San Vittore (chiesa rurale Mulino Via Pace Poggio di San Vittore TIGLIOLE Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Fuori dal concentrico Chiesa di San Lorenzo (proprietà del Comune) ----------------------------------- Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 2 3 Muro di contenimento Parco della Rimembranza Muro Di Contenimento Piazza Casa Senatore Borgnini Piazza R. Margherita Via Asti Via Roma Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 4 5 6 7 8 9 Villa Sesia Villa Porcani Masseria Di Villa Porcani Villa Gallo Villa Fratelli Goria Masseria Villa Goria ----------------------------------- Edifici segnalati Nel concentrico A Confraternita SS. Annunziata e SS. Crocefisso Edifici segnalati Fuori dal concentrico B C Mulino Mulino Strada Bricchetto Strada della Serra Strada della Serra Strada Tigliole n°13 Strada della Serra Strada della Serra SETTIME Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Castello Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Chiesa di San Nicola (proprietà di Borsarelli di Riffredo) (proprietà di Ente Religioso) Chiesa Cimiteriale (proprietà del Comune) ----------------------------------- Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 2 3 4 5 6 7 Castello Via Marchesi Borsarelli 8 Ex Scuderia, pertinenza del Castello Via Marchesi Borsarelli 8 (proprietà comunale) Ex alloggio del custode, pertinenza Via Marchesi Borsarelli 8 del Castello Chiesa parrocchiale san Nicolao Via Marchesi Borsarelli Municipio Via Marchesi Borsarelli 1 Ex Società Agricola Via Marchesi Borsarelli 2 Asilo Via Umberto I n.45 ----------------------------------- Edifici segnalati Confraternita Sant'Elisabetta Confraternita Sant'Evasio Chiesa San Carlo Chiesa Sant’Antonio Chiesa di San Rocco Via Roma Via Rubatersa angolo Via San Rocco Via San Rocco VILLADEATI Edifici segnalati Nel concentrico 1 2 3 4 Chiesa San Remigio Chiesa Santissima Trinità Chiesa Maria Ausiliatrice Castello Via San Remigio Via Asilo Via Lachello Via Carlo Lachello 6 Edifici segnalati Fuori dal concentrico 5 Chiesa San Sebastiano 6 7 8 9 10 Chiesa San Giorgio Ex Monastero Chiesa San Carlo Chiesa San Grato Chiesa San Rocco Frazione Trittango, Strada per Cadorna Frazione Zanco, Via Roma Frazione Zanco, Via Roma Frazione Zanco, Via Umberto Frazione Lussello, Via Diego Groglio Frazione Lussello, Strada per Trittango VILLANOVA Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Nel concentrico A B C D E F G H I L Santuario della Beata Vergine delle Grazie Chiesa di San Pietro Torre Civica Palazzo Richetta Ex Chiesa della Confraternita SS. Annunziata Palazzo Medievale Municipio Chiesa di San Martino Casa Garrone Bastioni dell'antica cinta fortificata (proprietà Ente Religioso) (proprietà di Ferrero, Mavine e Navone) Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Fuori dal concentrico M N O Chiesa San Isidoro Ex Convento con annessa cappella e Frazione Corveglia (proprietà di torre Bosio) Ex Castello Verminier Pressi dell’Autostrada TorinoPiacenza (proprietà di Novo) ----------------------------------- Edifici segnalati Nel concentrico 1 2 3 Vice Prefettura Ex Scuole Castello Edifici segnalati Fuori dal concentrico 4 5 6 7 8 9 10 Torre Bisocca Torre Bisocca Chiesa Chiesa Chiesa Chiesa Chiesa Pressi Cascina Nuova Pressi Bisocca Frazione Bianchi Frazione Gianassi Frazione Brassicarda Frazione Savi Frazione Valdichiesa Cascina Savi Mulino Fornace Frazione Savi COCCONATO Architetture soggette a vincolo ai sensi del D.Lgs 490/99 Palazzo Marchisio Martelletti Edificio via Roma 73 angolo piazza Statuto 7-12 via Roma 99 ----------------------------------Edifici censiti con la Legge 35/95 Nel concentrico 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 Chiesa Chiesa Cappella Croce Chiesa Chiesa Cimitero Casa di riposo Asilo infantile Casa Cascina Chiesa Chiesa Palazzo Palazzo Palazzo Villa Palazzo Casa Casa Palazzo Palazzo Palazzo Casa Casa Casa Casa Casa Casa Casa Scalinata della chiesa Casa Casa Casa Casa Strada cadodo Via XXIV Maggio Via S. Carlo Via Gattone ang. Via Giustinito Strada vastapaglia Via Liprandi Piazza Obert Via Garibaldi 18 Via Garibaldi Via piave 22 Strada cantone Via roma Piazzale don Monchietto Via garibaldi 3 Via piave 11 Via piave 31 Via liprandi 2 Strada bottino 2 Via roma 53 Via roma 55 - 57 Via rosignano 3 Via roma Via roma 72 Via roma 61 Via roma 33 Via roma 42 Via roma 11 Via roma 36 Via roma 26 Via cavour 27 Via rosignano 15 Via alfieri 72 Via alfieri 12 Via roma 30 - 32 Via rosignano 2 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 Casa Casa Muro di contenimento Muro di contenimento Muro di cinta Muro di contenimento Muro di contenimento Scalinata della chiesa Casa Ricovero attrezzi Casa Muro di contenimento Cascina Parapetto Casa Casa Casa Casa Casa Muro di Cinta Casa Casa Cascina Palazzo Muro di cinta Casa vicolo Trinità Casa villa Casa sul Ponte Casa segato Pozzo Casa agli Airali Casa Casa mainero Casa Corso pinin giachino 10 Salita don pomo 4 Via radicati 7 Via fasoglio Strada boccalatte 8 Via liprandi 2 Via pomo Via don pomo Strada boccalatte 8 Strada boccalatte 8 Via radicati 1 Via radicati 1 Via rosignano 25 Via piave 11 Piazza monchietto 3 Via fasoglio 26 Via piave 16 Via piave 28 Via radicati 6 Via radicati 4 Via alfieri 10 Vicolo trinita' 6 Strada vastapaglia Cortile del collegio Via radicati 6 Vicolo trinità, 8 Via piave, 6 Piazza cavour, 18 Via piave, 2 Via piave, 4 Via alfieri, 19 Via roma, 74 Via gattone, 21 Via roma, 80 Edifici censiti con la Legge 35/95 Fuori dal concentrico 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 Chiesa Santuario Chiesa Chiesa Cappella Cappella Chiesa Chiesa Cappella Pilone votivo Piazza obert Strada maroero Strada cocconito Strada San Martino Strada S. Grato Strada Bricco Strada S. Sebastiano Via Bottino Strada Campetto Strada Foino-Tabiella 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 Pilone votivo Cappelletta Cappelletta Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Pilone votivo Cimitero Casa Casa Casa Stazione ferroviaria Gabinetti pubblici Scalo merci Casello ferroviario Stazione ferroviaria Galleria ferroviaria Ponte ferroviario Pilone votivo Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Strada Foino-Tabiella Strada Foino-Tabiella Strada Gesso Strada Liprandi Strada Caranzana Strada Caranzana Strada Bricco Strada Maroero Strada Solza Via Liprandi 2 Località gattone Strada per chiesa di S. Giovanni Strada S. Sebastiano bivio strada Vastapaglia Strada Maroero Strada Fassimagna Strada Austino Strada Serre Strada Caranzana Strada del Pilone Strada Valle Strada Monsimone Strada Vai Strada vicinale Sarboraria Strada Cocconito Strada Bauchieri 19 Strada Bonvino 24 Strada Vai Via stazione 5 Via stazione 5 Via stazione 7 Strada Monferrato Strada Bonvino Frazione bonvino Strada Bonvino Regione cas Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Edicola funeraria Croce Croce Palazzo Cascina Strada bricco 4 Cascina Cascina Cascina Cascina Ricovero attrezzi Palazzina Casa Villa Casa Casa Fienile Ricovero attrezzi Cascina Casa perdomo Casa la pietra Casa a San Martino Casa racca Casa a Vastapaglia Casa vai Canonica della Madonnina Cascina a Bonvino Casa a Bonvino Casa a Banchieri Casa a loggiato Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Piazza Obert Strada Cocconito Strada Cadodo Strada Cadodo Strada Cocconito Strada maroero 47 Strada bricco 3 Strada bricco 4 Strada vignaretto 5 Strada spagnolino solza 13 Strada spagnolino solza 11 Strada mondo 1 Strada roletto rocca Strada stazione 12 Strada monferrato 8 Strada monferrato Strada giretti 12 Strada giretti 18 Strada sartore 2 Rada sartore 8 Strada cantone 12 (61) Via vignareto, 6 Località la pietra Frazione bonvino, 3 Frazione gesso, 12 Frazione vastapaglia , 6 Via liprandi, 24 Via salvo d'Acquisto, 35 Frazione bonvino, 17 Frazione bonvino, 11 Frazione bauchieri, 13 Via liprandi, 66 BIBLIOGRAFIA RELATIVA A PAESI DELLA PROVINCIA DI ASTI ALBUGNANO *Storia dell'antica abbazia e del santuario di Nostra Signora di Vezzolano ornata di disegni con alcuni cenni sopra Albugnano e paesi circonvicini / del Sac. Antonio Bosio. - Torino: Collegio degli Artigianelli, 1872. - (4), 256 p.: 5 tav.; 18 cm *Vezzolano e Albugnano: appunti di storia e leggenda / Ermanno Marchisio. - Albugnano: Pro-Loco di Albugnano, 1988. - XV, 262 p., <31> c. di tav.: ill.; 30 cm L'*abbazia monumentale di Santa Maria di Vezzolano: memorie storico-religiose artistiche illustrate / Achille Motta. - Torino: P. Celanza, MCMXII 1912]. - 61 p.: ill.; 21 cm BUTTIGLIERA D’ASTI *Buttigliera astigiana: cenni del teologo Tomaso Chiuso. - Torino: collegio degli Artigianelli, Tip. e Lib. S. Giuseppe, 1875. - 168 p.; 20 cm. *Buttigliera d'Asti: capitoli di storia antica / B. E. Gramaglia. - Buttigliera d'Asti: [s.n.), 2002 (Mombello di Torino: Parena). - 128 p.: ill.; 24 cm. *Vie di comunicazione e centri ospitalieri nella piana di Villanova d'Asti nel Medioevo / Bernardino E. Gramaglia. - Torino: Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1980. - p. 333368: 1 c. topogr.; 24 cm. 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Facoltà di Architettura. Tesi di laurea. Relatore: Delio Fois. *Storia di Castagnole Monferrato / a cura di Luigi Gai. - Asti: Tip. Carre. - v.; 24 cm. 1: *Dalle origini al 1800 / Luigi Gai. - Asti: Tip. Carrer, 1973. - 350 p CASTELNUOVO DON BOSCO *Castelnuovo don Bosco / a cura di Elisabetta Serra. - [S.l.: s.n., s.d.] (Torino: Tipografia Ideal). - 48 p.: ill.; 24 cm + 1 opuscolo ripiegato illustrato. CELLE ENOMONDO *Tre paesi nella guerra: Cisterna d'Asti, San Damiano d'Asti, Celle Enomondo: la vita civile, la mobilitazione, i profughi, i partigiani / Lorenzo Carbone. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Scienze della formazione, 1998-1999. - 485 c.; 29 cm. + 1 v. allegati ((Tesi di laurea in Mat CHIUSANO D’ASTI La *Chiesa di San Sebastiano in Chiusano d'Asti / di Marisa Varvello. - [S.l.: Ecomuseo del territorio Basso Monferrato Astigiano, 199.]. - 30 p.: dis.; 24 cm. CINAGLIO *Per la toponomastica astigiana: ricerche lessicali storiche sul nome locale di Cinaglio / Pietro Massia. - Alessandria: Stab. tipo-lit. succ. Gazzotti, 1917. - 8 p.; 24 cm. ((Estr. da: Rivista di storia, arte, archeologia per la provincia di Alessandria, a. 1. (26.), fasc. 4. (Serie 3.) *Barriere storiche ed attuali allo sviluppo dell'allevamento animale nel comune di Cinaglio / Giovanna Paola Fracchia. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Agraria, 1981-1982. - 133 c.; 29 cm. + 2 mappe catastali ((Tesi di laurea in Zootecnica generale. Relatore: Attilio Bosticco CISTERNA D’ASTI *Tre paesi nella guerra: Cisterna d'Asti, San Damiano d'Asti, Celle Enomondo: la vita civile, la mobilitazione, i profughi, i partigiani / Lorenzo Carbone. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Scienze della formazione, 1998-1999. - 485 c.; 29 cm. + 1 v. allegati ((Tesi di laurea in Mat *Sulle principali vicende della Cisterna d'Asti dal secolo 15. al 18. / memoria del socio Gaudenzio Claretta. - Torino: C. Clausen, 1899. - P. 166-238, [2] c. di tav. ripieg.; 32 cm. ((Estr. dalle Memorie della Reale accademia delle scienze di Torino, Ser. 2., Tom. 48. *Erezione di Cisterna a principato / a cura di Antonio Delpero. - Roma: Litografia Mazzini, (197.). - 33 p.: ill.; 28 cm. (( In testa al front.: Cisterna fortezza di Piemonte COCCONATO *Guida alla Biblioteca Civica Eugenio Rocca di Cocconato / a cura di Franco Zampicinini Cocconato: Comune di Cocconato, 1992. - 32 p.; 29 cm. - ((Suppl. a Il Ponte: Notiziario del Comune di Cocconato, n.7, giugno 1992. *Cenni storici, produzioni e mercato di Cocconato seguiti da appunti diversi dedicati alla patria nativa / Eugenio Rocca. - 3. ed. - Torino: Tip. Baravalle e Falconieri, 1912. - 341 p.: il.; 24 cm. *Storia di Cocconato / Renato Tartaglino. – (s.l.): E.P.T. Pro Cocconato, stampa 1966. - 201 p.: tav.; 24 cm. *Cocconato: cartoline di ieri / Luigi Giachino, Paolo Ponzo, Franco Zampicinini; a cura del Gruppo culturale Pietra Cagnola. - Cocconato d'Asti: Edizioni di Casa Brina, copyr. 1990. 102 p.: ill.; 31 cm + 7 cartoline illustrate. ((Copia n. 284 di n. 1000 esempl. num. CORSIONE La *Società agricola operaia di Corsione: ricostruzione storica di un'associazione locale di solidarietà sociale / Enrico Cico. - Torino: Regione Piemonte, Assessorato alla cultura, 1995. - 150 p.: ill.; 21 cm. Il *Liber statutorum communitatis Corsioni: analisi, commento, studio ed interpretazione del codex statutario ed altri saggi sulla storia di Corsione e di Villa San Secondo / di Enrico Cico. - Corsione: s.n., 2001 (Acqui Terme: Impressioni Grafiche). - 72 p., [20] c. di tav.: ill.; 30 cm. ((In CORTANDONE Il *feudo e la comunita di Cortandone: ricerche storico-giuridiche su Cortandone / Maria G. Curallo. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 1969. - 187 c.; 27 cm. ((Tesi di laurea in Storia del diritto italiano *Cortandone d'Asti attraverso le vicende del suo castello / Giuliano Michele Goria. - Genova: Università di Genova: Facoltà di Magistero, 1972-1973. - 109 c.; 26 cm. ((Tesi di laurea CORTANZE *Ricerche storico-giuridiche sul comune di Cortanze / Mara Vurchio. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 1979-1980. - 112, CLXI c.; 28 cm. ((Tesi di laurea in Storia del diritto italiano. Relatore: Maria Ada Benedetto *Castello di Cortanze: ipotesi di restauro e recupero funzionale / Paolo Negri, Roberto Stocchi. - Torino: Politecnico di Torino: Facoltà di Architettura, 1986-1987. - 159 c.: tav.; 30 cm. ((Tesi di laurea. Relatore: Andrea Bruno *Cortanze: dai marchesi Roero ai giorni nostri / Liliana Steffanino. - (S.l.: s.n.), 1993. - 227 p.: ill.; 25 cm CORTAZZONE San Secondo a Cortazzone d'Asti (secolo 11.) / Edoardo Mella. – Torino: G. B. Paravia, 1877. - 7 p.: 2 tav. ripieg.; 27 cm. ((Estr. da "Atti della Società d'Archeologia e belle arti per la Provincia di Torino, vol. 1, fasc. 5. *Ricerche storico-giuridiche sul feudo e sul comune di Cortazzone / Natale Vanara. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 1968-1969. - 150 c.; 29 cm. ((Tesi di laurea in Storia del diritto italiano. Relatore: Mario Viora. COSSOMBRATO Villa San Secondo / Cossombrato: insediamento, possesso e società nei documenti dell'archivio Pelletta / Barbara Molina. - <s.l.: s.n.>, 1993. - 2 v.; 29 cm. ((Università degli Studi di Torino. Facoltà di Lettere e Filosofia. Corso di Laurea in Lettere Moderne. Tesi di Laurea in Storia Me DUSINO *Dusino: ricordi storici sulla antica Pievania di S. Martino ed attuale Prevostura di S. Rocco / Alessandro Pescarmona. - Villanova d'Asti: Arti Grafiche Baietto, [1941). - 148 p.: ill.; 21 cm. FERRERE *Ferrere d'Asti dalle origini ai giorni nostri. - Asti: Scuola tipografica San Giuseppe, 1966. 94 p.: tav.; 24 cm (( Finito di stampare nel 1967 FRINCO *Frinco: storia, cronaca, immagini / Giovanni Varesio. - Asti: Amico, 1999. - V, 235 p., 16 c. di tav.: ill.; 28 cm. *Frinco: cenni storici / Edoardo Dezzani. - [S.l.: s.n., 1949) - 114 p.: ill.; 20 cm. *Ricerche storico-giuridiche su Frinco / Roberto Sorisio. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 1978-1979. - 122, CX c.; 29 cm. ((Tesi di laurea in Storia del diritto italiano. Relatore: Maria Ada Benedetto GRAZZANO BADOGLIO La *stele in Grazzano Monferrato / Arturo Caffarelli. - Padova: Tip. Antoniana, 1945. - 8 p.: dis.; 24 cm. ((Estr. da Studi Grafici, a. 20, fasc. 97 (gennaio-dicembre, 1945) MONALE *Monale: appunti personali per una breve storia e descrizione del paese ad uso divulgativo / Enrico Chiaves. - Asti: Provincia di Asti, [2000]. - 92 p.: ill.; 24 cm. MONCALVO *Ricerche storico-giuridiche sui bandi campestri e politici di Moncalvo / Eugenio Quirino. Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 1985-1986. - 157 [102) c.; 29 cm. ((Tesi di laurea in Storia del diritto italiano. Relatore: Isidoro Soffietti Il *processo di integrazione delle comunità israelitiche astigiana e moncalvese nel tessuto sociale locale (1848-1890) / Paolo Stanchi. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Scienze Politiche, 1994-1995. - 171 c.; 29 cm. ((Tesi di laurea. Relatore: Francesco Traniello *Naturalmente: mostra - festa - incontro di artisti: Moncalvo, 27 ottobre -10 novembre 1985. Moncalvo: Città di Moncalvo, 1985. - p.n.n.: fot.; 24 cm. ((In cop.: 3. edizione a cura di Milli Gandini *Naturalmente: mostra - festa - incontro di artisti: Moncalvo, 23 ottobre - 6 novembre 1988. Moncalvo: Citta di Moncalvo, 1988. - p.n.n.: fot.; 24 cm. ((In cop.: 6. edizione a cura di Milli Gandini e Antonio Barbato L'*istituzione del ghetto a Moncalvo (1732) / Salvatore Foa. - Citta di Castello: Tip. Unione Arti Grafiche, 1950. - 16 p.; 24 cm. ((Estr. da: Scritti in onore di Riccardo Bachi. La Rassegna Mensile di Israel, vol. 16., n.6-8 *Moncalvo: brevi cenni storici / raccolti da Giovanni Minoglio. - Torino: V. Bona, 1877. 182 p., [4] c. di tav.: ill.; 25 cm. La *fatica e il riposo: operai e mutuo soccorso a Moncalvo nella seconda metà dell'Ottocento / Livia Novelli; relatore Daniela Maldini. - (S.l.: s.n.], aa. 1996-97. - 264 p.; 30 cm. MONCUCCO T.SE *Incastellamento in area astigiana: restauri storici e problemi di conservazione: il *castello di Moncucco Torinese / Luciana Cavallaro, Fabrizio Gagliardi, Cristina Zago. - Torino: Politecnico di Torino: Facoltà di Architettura, 1995-1996. - 252 [21) c.: il.; 29 cm. ((Tesi di laurea MONTAFIA *Montafia: Cenni storici. - Asti: Tip. La Tipografica di Chiuminatti P., (1951). - 8. p. 31. Alberto Gatti fotografo 1848-1904: Montafia: ambiente e territorio: Asti, Battistero di S. Pietro giugno-settembre 1979. - <S.l.: s.n>, stampa 1979 (Castelnuovo Don Bosco: ISBS). 34 p., <69> c. di tav.: ill.; 17 x 17 cm. ((In testa al front.: Biblioteca consorziale astense. MONTECHIARO D’ASTI *Brevi notizie storiche sulla antica parrocchia di Maresco in Montechiaro d'Asti / raccolte e pubblicate dall'arciprete Bo Luigi. - S.l.: s.n.], stampa 1933 (Asti: Michelerio). - 136 p.; 17 cm Montechiaro d'Asti / Guglielmo Visconti. - Montechiaro d'Asti: Comune di Montechiaro, 2000. - 102 p.: fot., 1 tav. ripieg.; 29 cm. Soggetti N.std Livello 71 Classificazione Copie 2 Serie/inventario 82434 Segnatura B.D.945.15 MON.2 Montechiaro d'Asti / Guglielmo Visconti. - Montechiaro d'Asti: Comune di Montechiaro, 2000. - 102 p.: fot., 1 tav. ripieg.; 29 cm. *Scritti sulle antiche parrocchie di Maresco, S. Nazario, B. Bartolomeo in Montechiaro d'Asti / Luigi Bo. - Montechiaro d'Asti: Pro Loco di Montechiaro, 1985. - 1985. - 1 v.: ill.; 17 cm. ((Ripr. facs. di 4 distinte monografie. Paginazione varia MONTEMAGNO *Montemagno tra arte e storia. - Asti: Provincia di Asti, c2001. - 128 p.: ill.; 24 cm. Miscellanea monferratese / Giovanni Minoglio. - Torino: Paravia, 1880. - 95 p., 5 c. di tav.: ill.; 25 cm. MONTIGLIO *Montiglio: la Pieve di San Lorenzo: lettura delle fasi costruttive e indirizzi critici di restauro / Paola Gilotto. - Torino: Politecnico di Torino: Facoltà di Architettura, 1985-1986. - 283 c.: fot.; 29 cm. + planimetrie ((Tesi di laurea. Relatore: M.G. Cerri *Ricerche sugli statuti di Montiglio: <tesi di laurea in storia del diritto italiano> / candidato Silvio Penno. - <S.l.: s.n.>, 1991. - III, 419 p.: ill.; 30 cm. ((In testa al front.: Università degli studi di Torino, Facoltà di giurisprudenza. - Dattiloscritto con fotografie *Montiglio: strutture di un feudo consortile alla fine del medioevo / Franca Bagnulo. - Torino: Politecnico di Torino: Facoltà di Architettura, 1997-1998. - 188 c.: fot., c. ripeg.; 29 cm. ((Tesi di laurea. Relatore: Claudia Bonardi *Montiglio nello spazio nel tempo nella storia / Rino Mandrino. - <S.l.>: Edizioni Amico, 1989. - 285 p.: ill.; 25 cm PASSERANO MARMORITO *Passerano e la sua storia contadina: 1890- 1950 / Franco Cerruti. - Cavallermaggiore: Gribaudo, 2000. - 61 p.: fot.; 21 cm. PENANGO *Passerano e la sua storia contadina: 1890- 1950 / Franco Cerruti. - Cavallermaggiore: Gribaudo, 2000. - 61 p.: fot.; 21 cm. PIEA *Piea d'Asti: vita e storia nel secondo millennio / Marco Carlo Farina. - [Piea d'Asti]: A cura della parrocchia, 1993. - 191 p.: ill., c. topogr.; 25 cm. PIOVA MASSAIA *Piova all'inizio dell'800 / Ermanno Eydoux. - [s.l.: s.n., s.a.). - 6 c.; 30 cm. ((dattil. *Cantieri di restauro in Asti e provincia (appendice 1). - <S.l.: s.e.>, 1984. - 52 c.: dis.; 32 cm. IN La *conoscenza e la tutela dei beni culturali: problemi e metodi di lavoro. Quaderni del corso svoltosi presso l'Istituto d'Arte "Benedetto Alfieri" di Asti durante l'anno scolastico 1984-1985. - <s.l.: s.e.>, 1984-1985. - 5 v.; 32 cm. ((In testa al front.: Comune di Asti. Assessorato per la Cultura REVIGLIASCO D’ASTI *Ricerche storico giuridiche sul feudo e la comunita di Revigliasco d'Asti/ Eugenio Dadone. Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 1982-1983. - 109, [LXXX) c.; 29 cm. ((Tesi di laurea in Storia del Diritto italiano. Relatore: Maria Ada Benedetto ROATTO *Chiesa di Roatto d'Asti: cenni storici / Piero Goria. - Savigliano: Tipografia Saviglianese, 1955. - 32 p.; 25 cm SCANDELUZZA *Restauri e consolidamento della chiesa dei SS. Sebastiano e Fabiano in Scandeluzza d'Asti / Marina Alessio. - Torino: Politecnico di Torino: Facoltà di Architettura, 1989-1990. - 80, (8) c.: fot.; 29 cm. + 17 tav. ((Tesi di laurea. Relatore: L. Re *Scandeluzza e Rinco Monferrato: le storie, le tradizioni, le origini / Giovanni Bressano, Franco Brigida. - [S.l.]: Kosmos, c1999. - 78 p.: ill.; 22 cm. *Notizie sui feudatari di Scandeluzza in Monferrato / Carlo Agostino Re. - Alessandria: R. Deputazione Subalpina di Storia Patria, Sezione di Alessandria, 1940. - 15 p.: tav.; 24 cm. SCURZOLENGO *Cenni storici su Scurzolengo: dalle origini ai nostri tempi / Luigi Gai.- (S. l.: s.n., 1970). 401 p.; 24 cm. ((la data si desume dalla presentazione SETTIME *Settime: la chiesa di Santa Maria del castello / Maria Grazia Cavallino, Vittorio Croce. Cavallermaggiore: Gribaudo, 2001. - 91 p.: ill.; 21 cm Bandi campestri / formati dall'illustrissimo signor conte Giuseppe Maria Felice Rovero Guidobono Cavalchini di Settime, e Mombarone. - Asti: Gruppo ricerche astigiane, 1979. XXI, 31 p.; 31 cm. ((Ristampa anastatica dell'ed. Torino: Ponzone, 1758 SAN MARTINO ALFIERI *Viaggio sentimentale all'ombra del campanile: *persone e avvenimenti di San Martino Alfieri ricordati attraverso la fotografia / a cura della Biblioteca Civica. - Asti: Ed. Amico, 1983. - 1 v.: fot.; 24 cm. SAN PAOLO SOLBRITO *San Paolo Solbrito: mille anni di storia sulla piana di Villanova e in Val Traversola / Guglielmo Visconti. - Asti: Gazzetta d'Asti, 1999. - XII, 500 p.: tav.; 24 cm. TONCO *Tonco / a cura dell'Associazione Pro Loco di Tonco. - Tonco: (s.n., s.a.). - 15 p.; 21 cm. VALFENERA *Valfenera nei secoli della sua storia / G. B. Marocco. - Torino: La Salute, 1947. - IX, 412 p., [1] c. di tav.: ill.; 25 cm. *Carri e carradori in Valfenera fra '800 e '900: catalogo della mostra fotografica: Mario Sodero, classe 1896, carradore. Valfenera, aprile e agosto 1985 / testi di Mario Agnese, Giulia Carpignano, Ermanno Eydoux, Stefano Marchiaro. - [S.l.: s.n.], stampa 1985 (S. Mauro Torinese: Moderngraf) La *filatura di Valfenera: ambiente e tecniche in una comunità astigiana dal Settecento al secondo dopoguerra / testi di Antonio Adriano, Giorgio Arduino, Filippo Balla. <et al.>; a cura di Renato Bordone e Giulia Carpignano; con la collaborazione di Carlo Lisa e Paola Tirone. - Alessandria: VIARIGI *Attese apocalittiche nel movimento messianico di don Grignaschi a meta Ottocento / Claudia Macagno. - <s.l.: s.n.>, 1992. - 1 v.; 30 cm. - ((Università degli Studi di Torino. Facoltà di Scienze Politiche. Tesi di Laurea. Relatore: Filippo Barbano. Statuta Viarisii / Lodovico Vergano. - Alessandria: R. Deputazione di Storia Patria, 1941. - 50 p.; 24 cm. VILLAFRANCA D’ASTI *Villeggiatura primonovecento: l'*astigiano nelle immagini della famiglia Gallina di Villafranca d'Asti: Villafranca d'Asti, Biblioteca comunale, gennaio 1991 - Asti, Sala mostre della Provincia, febbraio 1991 / a cura di Renato Bordone. - Alessandria: Edizioni dell'orso, 1990. - 69 p.: in gran *Resti di Anancus Arvernensis e flora ad affinità plioceniche nel Villafranchiano inferiore nella cava Arboschio (Villafranca d'Asti) / Giulio Pavia. - Pisa: Arti Grafiche Pacini Mariotti, 1970. - p. 157-176: ill., tav.; 28 cm. ((Estr. da Memorie della Società Geologica Italiana, v. 9. (1970) *Statuto organico (Testo Unico) dell'Opera Pia Sant'Elena in Villafranca d'Asti / Opera Pia Sant'Elena. - Asti: Tip. Vinassa, 1903. - 12 p.; 24 cm. Il *santuario di N. S. della Neve sul colle Vulpilio (la Castela) / Piero Goria. - Asti: Scuola Tip. S. Giuseppe, 1950. - 24 p.: tav.; 16 cm. ((In cop.: Villafranca d'Asti: notizie storiche La *valle del Mastodonte e di Musanzia ... - Asti: Scuola tip. S. Giuseppe, 1967. - 390 p.: ill.; 24 cm *Storia di Villafranca: vol. 2.: il 1800. - Asti: Tip. Michelerio, 1968. - 383 p.: ill.; 25 cm *Mons. Goria e Villafranca nel 17. secolo: Vicende istituzionali e sociali di Villafranca d'Asti dalle origini al secolo 18. / Renato Bordone. Le ispirazioni fondamentali delle realizzazioni religiose e sociali / Costantino Gilardi. - Villafranca d'Asti: (s.n.), 1985. - 12 p.; 24 cm. VILLANOVA D’ASTI *Schede su Don Crovella fondatore del Santuario delle Grazie o dei Baluardi di Villanova d'Asti. - Villanova d'Asti: Circolo Culturale M. Minelli, 1991. - 11 p.: ill.; 29 cm. - ((Copia fotostatica. *26 luglio 1992: festa della Madonnina ed Infiorata a Villanova d'Asti. - Villanova d'Asti: Circolo Culturale M. Minelli, 1992. - 13 p.: ill.; 29 cm. - ((Copia fotostatica *Origine e scopi della Congregazione di Carità in Villanova d'Asti: raccolta di notizie storiche / Emilio Goria. - <s.l.: s.e.>, 1935. - 29 p.; 29 cm. - ((Copia fotostatica. *Villanova, gente e folklore: mostra fotografica: Villanova d'Asti, 26-27 settembre 1998 / Associazione Culturale "L'Ortica" Cellarengo - Villanova, Gruppo Storico Villanova d'Asti "Maria Minelli". - <s.l.: s.n.>, 1998. - 32 p.: fot.; 24 cm. ((In testa al front.: 39. Settembre Villanovese *Speciale casa di riposo: supplemento del Notiziario Villanovese. - Villanova d'Asti: <s.n.>, 1989. - 6 p.: fot.; 43 cm. *Analisi e rilievo di una piazza significativa del centro storico di Villanova d'Asti, in funzione di una sua effettiva rifunzionalizzazione a centro di servizio collettivo / Roberto Goria. Torino: Politecnico di Torino: Facoltà di Architettura, 1996-1997. - 1 v.: ill.; 29 cm + 25 tav. ((TesI *Statuti comunali di Villanova d'Asti / Introd., testo, franchigie, documenti, indici e glossario a cura di Pietro Savio. - Città del Vaticano: Biblioteca Apostolica Vaticana, 1934. - XCI,446 p.: 5 tav.; 8. *Villanova cammina la sua storia: festeggiamenti del 300. del voto dell'Immacolata / a cura del Comune di Villanova d'Asti. - <s.l.: s.n.>, 1990. - 1 opusc.: fot.; 24 cm. *C'era una volta.. la cultura! / a cura della Biblioteca Civica di Villanova d'Asti. - <s.l.: s.n.>, 1987. - 24 p.: ill.; 29 cm. - ((copia fotostatica. *Cenni sull'Arcipretura di San Martino in Villanova d'Asti / Michele Colombo. - Asti: <s.n.>, 1926. - 23 p.; 24 cm. *Settembre villanovese 1976: feste patronali di S.Isidoro: il paese.. la sua gente.. / Comune di Villanova d'Asti, Associazione Pro-Villanova d'Asti. - Villanova d'Asti: <s.n.>, 1976. - 1 opusc.: fot.; 31 cm. *Villanova nel Milleseicento / Circolo Culturale Maria Minelli, Villanova d'Asti. - 1 cartella: fot.; 29 cm. - (( contiene: Notiziario Villanovese: speciale 300 anni di vita del voto dell'Immacolata. *San Paolo Solbrito: mille anni di storia sulla piana di Villanova e in Val Traversola / Guglielmo Visconti. - Asti: Gazzetta d'Asti, 1999. - XII, 500 p.: tav.; 24 cm. *Villanova, legge nel presente la sua storia: spunti storico urbanistici sull'attuale paese: 40. settembre villanovese, 1999 / a cura di Francesco Tessiore. - [S. l.: s. n.], [1999?]. - 32 p.: ill.; 17 cm. ((In cop.: Associazione culturale "L'ortica", Cellarengo; Gruppo storico "Maria Minelli" *Riscopriamo Villanova: itinerario storico fotografico: angoli caratteristici / Francesco Tessiore. - Villanova d'Asti: Comune di Villanova, [1985). - 36 p.: fot.; 21 cm. *Ricerche storico-giuridiche su Villanova d'Asti: vicende feudali e bandi campestri / Mario Pier Giorgio Baldassari. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 19831984. - 351, CV, CIX c.; 29 cm. ((Tesi di laurea. Relatore: Maria Ada Banedetto *Ricerche storico-giuridiche su Villanova d'Asti: vicende feudali e bandi campestri / Mario Pier Giorgio Baldassari. - Torino: Università di Torino: Facoltà di Giurisprudenza, 19831984. - 351, CV, CIX c.; 29 cm. ((Tesi di laurea. Relatore: Maria Ada Banedetto *Guerriglie del secolo 16. in Piemonte: i fortilizi di Villanova e Valfenera durante le Guerre Franco Ispane / Giuseppe Sticca. - Roma: Tip. Voghera, 1902. - 27 p.; 23 cm. ((Estr. da Rivista Militare Italiana, 1902, disp. 8. *Passato e futuro a Villanova d'Asti: relazione di otto anni di amministrazione democristiana; Programma per le elezioni comunali 1964. - <s.l.: s.n.>, 1964. - 1 opusc.: ill.; 23 cm. ((pagine non numerate. VILLA S. SECONDO *Villa San Secondo ieri e oggi / Giuseppe Torta. - Asti: < s.n. >, 1993. - 107 p.: fot.; 31 cm. *Villa San Secondo: memorie storiche religiose e civili / E. Schierano. - Asti: Scuola Tip. Michelerio, 1935. - 289 p.: tav.; 22 cm. Il *Liber statutorum communitatis Corsioni: analisi, commento, studio ed interpretazione del codex statutario ed altri saggi sulla storia di Corsione e di Villa San Secondo / di Enrico Cico. - Corsione: s.n., 2001 (Acqui Terme: Impressioni Grafiche). - 72 p., [20] c. di tav.: ill.; 30 cm. *Dall'antico Cossombrato alla nascita di Villa San Secondo / Giuseppe Torta. - <s.l.: s.n.>, 1999. - 63, IX c.; 29 cm. ((Suppl. a La famiglia di Villa San Secondo, gennaio 1999 *Villa San Secondo / Cossombrato: insediamento, possesso e società nei documenti dell'archivio Pelletta / Barbara Molina. - <s.l.: s.n.>, 1993. - 2 v.; 29 cm. ((Università degli Studi di Torino. Facolta di Lettere e Filosofia. Corso di Laurea in Lettere Moderne. Tesi di Laurea in Storia Me *Memorie civili dal 14. al 17. secolo / Giuseppe Torta. - Villa S. Secondo: <s. n.>, 1999. - 96 p.: ill.; 29 cm. ((dattil. In testa al front.: Quaderni di revisione critica della storia di Villa San Secondo. Suppl. a "La famiglia di Villa San Secondo", luglio 1999 *Quaderni di storia di Villa San Secondo: *memorie religiose / Giuseppe Torta. - <s.n.t.>. 30 c.; 29 cm. ((dattiloscritto ARTICOLI COMPARSI SU BOLLETTINO STORICO BIBLIOGRAFICO SUBALPINO (BSBS), RIVISTA DI STORIA ARTE E ARCHEOLOGIA PER LE PROVINCE DI ALESSANDRIA E ASTI (RSSA), STUDI PIEMONTESI (SP), IL PLATANO (PL) (AGGIORNAMENTO 1994) ARTICOLI COMPARSI SU BOLLETTINO STORICO BIBLIOGRAFICO SUBALPINO (BSBS), RIVISTA DI STORIA ARTE E ARCHEOLOGIA PER LE PROVINCE DI ALESSANDRIA E ASTI (RSSA), STUDI PIEMONTESI (SP), IL PLATANO (PL) (AGGIORNAMENTO 1994) LE CITTÀ, LE TERRE ED I CASTELLI DEL MONFERRATO DESCRITTI NEL 1604 DA EVANDRO BARONINO / PREFAZIONE E NOTE DI GIUSEPPE GIORCELLI IN RSAA, 1904, FASC. 2, P. 61130; FASC. 3, P. 43-82; 1905, P. 219-313 ALFIANO NATTA DECRETO DI FERDINANDO CARLO GONZAGA DUCA DI MANTOVA E DI MONFERRATO PER UNA LITE TRA GLI ABITANTI DI TONCO E ALFIANO IN MONFERRATO E I MARCHESI NATTA FEUDATARI DEI DUE LUOGHI (1683) / D.G.G. IN RSAA, 1910, P. 445-450 BUTTIGLIERA UNA LAPIDE DI BUTTIGLIERA D’ASTI GHIVARELLO IN BSBS, 1942, P. 134-138 RITROVATA A PINO TORINESE / RICCARDO CONTADINI POVERI A BUTTIGLIERA D’ASTI NELLA SECONDA BERNARDINO E. GRAMAGLIA IN BSBS, 1985, P. 221-298 METÀ DEL CINQUECENTO / SIGNORI E COMUNITÀ TRA ASTI, CHIERI E MONFERRATO IN ETÀ COMUNALE / BERNARDINO E. GRAMAGLIA IN BSBS, 1981, P. 413-488 UNA FAMIGLIA ASTIGIANA: I PASTA RSAA, 1989, P. 93-129 DA BUTIGLIERA / GUSTAVO MOLA DI NOMAGLIO IN CAMERANO CASASCO LA CHIESA DI S. PAOLO DI CASASCO / ERMANNO EYDOUX IN PL, 1981, FASC. 2, P 109-116 NELL’ARCHIVIO DI CAMERANO LA FASC. 5, P. 2-8 STORIA DEI BALBO / ERMANNO EYDOUX IN PL, 1977, UNA COMUNITÀ RURALE ASTIGIANA NELLA PRIMA METÀ DEL SECOLO XVIII: CAMERANO / ERMANNO EYDOUX IN PL, 1985, P. 21-63 CASORZO RELAZIONE AD UN PRELATO DI ROMA DELLA MORTE … DATA DAGLI SPAGNUOLI A MOLTI UOMINI … DELLA TERRA DI CASORZO NEL MONFERRATO IL 4 GIUGNO 1642 IN RSAA, 1893, P. 161-168 IL COMUNE DI CASORZO E I SUOI STATUTI / G. B. PICOTTI IN RSAA, 1931, P. 682-688 CINAGLIO RICERCHE STORICHE E TOPONOMASTICHE EYDOUX IN PL. 1982, P. 49-79 NEL TERRITORIO A NORD DI ASTI / ERMANNO PER LA TOPONOMASTICA ASTIGIANA: RICERCHE LESSICALI STORICHE SUL NOME LOCALE DI CINAGLIO / PIETRO MASSIA IN RSAA, 1917, FASC. 2, P. 43-50 CISTERNA D’ASTI L’ARCHIVIO DAL POZZO DELLA CISTERNA / MAURIZIO CASSETTI IN SP, 1980, P. 429-434 COCCONATO UN SETTENNIO DI STORIA DEL COMITATO DI COCCONATO E GLI STATUTI CAPITANATO / EDOARDO DURANDO IN BSBS, 1896, P. 124-138; 243-251 DEL SUO CORSIONE RICERCHE E IPOTESI SULL’ORIGINE DI CORSIONE / ERMANNO EYDOUX IN PL, 1980, FASC. 2, P. 67-74 COSSOMBRATO LE PIEVI DI «COVATIUM» E DI «CORSEMBRANDUM» E IL LORO TERRITORIO METÀ DEL SECOLO XIV / ERMANNO EYDOUX IN RSAA, 1987-88, P. 113-148 FINO ALLA RICERCHE STORICO-GIURIDICHE SUL COMUNE DI COSSOMBRATO / GIOVANNI SILENGO IN RSAA, 1964, P. 67-85 CUNICO STORIA DI CUNICO / BENEDETTO BAUDI DI VESME IN PL, 1979, FASC. 5, P. 13-16 IN MARGINE A UN INEDITO DI CUNICO / ERMANNO EYDOUX IN PL, 1979, FASC. 5, P. 17-28 GLI STATUTIDI CUNICO / LUDOVICO VERGANO IN RSAA, 1962, P. 160-179 DUSINO S. MICHELE DA RIVA DI CHIERI A POIRINO. LUNGO IL CONFINE TRA LE DIOCESI DI TORINO E ASTI NEI SECOLI XI-XV / GIAMPIERO CASIRAGHI IN BSBS, 1988, P. 77-115 UNA FAMIGLIA DELL’ASTIGIANO NELLA STORIA DELLO STATO SABAUDO: I PASTA DUSINO DALLE ORIGINI ALLA PRIMA METÀ DEL SECOLO XVII / GUSTAVO MOLA NOMAGLIO IN RSAA, 1987-88, P. 197-213 FRINCO NOBILI FALSARI FASC. 1, P. 16-19 NELL’ASTIGIANO: I SIGNORI DI FRINCO / FRANCO GORIA IN DI DI PL, 1976, MONCALVO IL FEUDO DI CASTELLINO E S. VINCENZO IN MONCALVO MONFERRATO 1705-1797 / ORSOLAMALIA BIANDRÀ DI REAGLIE IN RSAA, 1982, P. 31-34 GLI ASSEDI DI ALBA, MONCALVO, TRINO, NIZZA DELLA PAGLIA, CANELLI E MORANO (1613) NARRATI DA UNO STORICO CONTEMPORANEO [ANTONIO MARIA SPELTA] / LUIGI CESARE BOLLEA IN RSAA, 1908, P. 383-419; 489-516 IL MERCATO DI MONCALVO (DA UN DOCUMENTO DELL’ARCHIVIO DI STATO DI TORINO) / FRANCESCO PICCO IN RSAA, 1905, P. 117-128 ARTE E CULTURA A MONCALVO / PIERLUIGI VERRUA IN PL, 1988, P. 244-245 IN MARGINE AI «CANTI POPOLARI DEL PIEMONTE» / ALESSANDRO VITALE BROVARONE IN SP, 1974, P. 139-151 MONTECHIARO D’ASTI LA NASCITA DI UNA VILLANUOVA: MONTECHIARO D’ASTI / ERMANNO EYDOUX 1979, FASC. 3-4, P. 27-42 IN PL, POPOLAMENTO E TERRITORIO DI MONTECHIARO NEL SECOLO XI / ERMANNO EYDOUX IN PL, 1979, FASC. 1, P. 45-59 MONTIGLIO L’ARCHIVIO DEL CASTELLO DI MONTIGLIO: CANCIAN IN BSBS, 1979, P. 553-576 PROBLEMI DI ORDINAMENTO / PATRIZIA MORANSENGO RICERCHE STORICHE SU MORANSENGO / GIUSEPPE VIOLANTE IN RSAA, 1964, P. 45-65 PIEA PER UN’ARCHEOLOGIA MEDIEVALE IN PIEMONTE: UN INSEDIAMENTO BASSOMEDIEVALE A PIEA / RENATO BORDONE, LUIGI FOZZATI IN BSBS, 1975, P. 623-642 SCANDELUZZA GLI STATUTI DI SCANDELUZZA / G. 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LE TRASFORMAZIONI DEL POTERE E DELL’INSEDIAMENTO NEL COMITATO DI SERRALONGA / RENATO BORDONE IN BSBS, 1975, P. 109-179 VILLANOVA D’ASTI SCHIAMAZZI PER LA CARESTIA DELLA FOGLIA DEI BIGATI NELLA «MEMORIA» DI UN NOTAIO VILLANOVESE DEL 1840 / RENATO BORDONE IN PL, 1983, P. 3-6 DA RIVA DI CHIERI A POIRINO. LUNGO IL CONFINE TRA LE DIOCESI DI TORINO E ASTI NEI SECOLI XI-XV / GIAMPIERO CASIRAGHI IN BSBS, 1988, P. 77-115 ANTONIO ASTESANO E LA FONDAZIONE DI VILLANOVA / ERMANNO EYDOUX IN PL, 1984, P. 13-24 VIE DI COMUNICAZIONE E CENTRI OSPITALIERI NELLA PIANA DI VILLANOVA D’ASTI NEL MEDIOEVO / BERNARDINO E. GRAMAGLIA IN BSBS, 1980, P. 333-368 BIBLIOGRAFIA GENERALE FONTI INEDITE MANOSCRITTE G. F. BALDUINI DI SANTA MARGHERITA, Relazione generale del stato della Provincia d’Asti, Biblioteca Consorziale Astense 1753 P. G. BOATTERI, Dell'erezione e progressi delle chiese e luoghi pii della città d'Asti dati in luce dal cittadino Piero Giovanni Boattiero, Biblioteca Civica di Cherasco 1781 G. S. 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Bizantina è la figura del Cristo, sebbene mossa da un “certo nervosismo nella grafia delle pieghe del panneggio e nell’indicazione dei tratti fisionomici” mentre altri particolari (tralci vegetali, schema delle cornici con medaglioni e testine) riportano nell’ambito della pittura e miniatura gotica francese.2 La storia della pittura piemontese del Trecento non può non prendere avvio dal ciclo di affreschi dell’ultima campata settentrionale del chiostro di Santa Maria di Vezzolano presso Albugnano. Il frammentario apparato decorativo rappresenta: Cristo benedicente, Madonna in trono tra Santi, Crocifissione e Incontro dei Tre vivi e Tre morti. L’artefice di queste importanti opere, da collocarsi tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, viene chiamato “Maestro dei Radicati” per la ricorrente presenza dello stemma della famiglia nella lunetta del Cristo benedicente. Alcuni elementi sia di tipo stilistico che iconografico vanno riferiti ad un ambito culturale influenzato dal cosiddetto “gotico luigiano” francese: in particolare, si differenzia dalla tradizione italiana, il particolare della Crocifissione in cui Cristo è rappresentato con un incrocio “strozzato” delle gambe. Sempre a Vezzolano nella Madonna col Bambino ed Angeli (1320-30) è possibile cogliere un diverso orientamento artistico fondato sulla ricerca di modelli diversi da quelli francesi: infatti sebbene il dipinto conservi memoria del gotico europeo lascia comunque trasparire alcune novità giottesche. Verso la metà del secolo si collocano altre due importanti momenti: i celebri affreschi della cappella di Montiglio e la volta del sepolcreto della famiglia Rivalta a Vezzolano, realizzazioni da mettersi in rapporto con l’entrata di Asti e del suo territorio nell’orbita viscontea: influenze lombarde sono ben visibili nel ciclo di Montiglio in cui è da notare una nuova solidità e al tempo stesso, eleganza delle figure. “Qui, come anche a Vezzolano, si è posti anche di fronte ai risultati di più alto parrossismo, di svelata drammatizzazione di un ciclo pittorico, che è tra i più significativi di tutto il Settentrione italiano. […] Si tratta di risultati di un’originalità sorprendente, che inducono a sospettare che la storia di queste pitture debba essere vista nei termini di uno svolgimento 1 La scheda basata su una ricerca bibliografica ha lo scopo di ordinare cronologicamente le testimonianze pittoriche più importanti di ciascun periodo per avere un sintetico quadro d’insieme che permetta di dirigerne con più agilità l’attività di valorizzazione di tale patrimonio artistico. Testo principale cui ci si è affidati è “Le chiese romaniche delle campagne astigiane. Un repertorio per la loro conoscenza, conservazione, tutela”, a cura di Liliana Pittarello, Asti 1984 - Torino 2002, da ora in poi indicato come Repertorio. 2 MONTEL C. S., Pittura del Duecento in Piemonte, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, I, 1986, p.44. parallelo, piuttosto che come testimonianza di un’adesione inerte nei confronti della più scelta cultura giottesca approdata in terra lombarda.” 3 Tra le testimonianze pittoriche trecentesche nella zona del Monferrato Astigiano è da ricordare inoltre a Calliano, nella chiesa di San Pietro, l’Angelo Annunciante (datato 13201330). L’ affresco, un tempo collocato all’interno dell’arco trionfale, è stato strappato e trasporto su un supporto, è attualmente conservato nella canonica della chiesa. Si ritiene trattarsi di un lacerto di una Annunciazione e nonostante le ridotte dimensioni di quanto ci è pervenuto, “l’affresco è importante testimonianza nello scarno panorama astigiano della pittura dei primi decenni del Trecento, ove testimonia, accanto al riferimento al gotico francese, l’aggiornamento del primo giottismo padano.4 “ Nella prima metà del Quattrocento, opera un importante maestro, d’impronta lombarda, operante: è l’artista che lavora a Scandeluzza, nella chiesa romanica dei Santi Sebastiano e Fabiano, sulla cui calotta ha dipinto un Cristo benedicente in mandorla tra i simboli degli Evangelisti e i due santi Sebastiano e Flaviano. Questo maestro è stato identificato con il “de Pillis” - stando alla testimonianza di un viaggiatore ottocentesco, sebbene questa notizia “non ha trovato riscontro nell’esame accurato svolto nel 1991 in occasione del restauro” – artista che lavorò anche in altre zone del Piemonte come Portocomaro5 e Viatosto. Un altro maestro quattrocentesco è quello che operò a Montemagno, nel ciclo datato 1491 nell’abside di Santa Maria della Cava. La chiesa, da identificarsi con la più antica Santa Maria di Betlemme (Registro 1345) per i suoi caratteri romanici, conserva questo importante e discusso apparato decorativo, studiato per prima da Elena Ragusa e in seguito da Eoardo Villalta. Entrambi gli studiosi concordano nel rinvenire tre fasi della decorazione: - una più antica entro marzo 1491 (San Grato, Madonna col Bambino, Crocifissione) - un secondo intervento il cui termine ante quem è il 1518 visibile tra i graffiti, da Villalta riferito all’ambito di Manfredino Baxilio (artista che lavora tra l’altro a Novi e a Rivalta Scrivia) - una terza fase rappresentata dall’Assunzione attestata al Seicento inoltrato. Ancora della fine del Trecento – inizio Quattrocento sono gli affreschi in San Grato a Moransengo (Cristo benedicente in mandorla tra i simboli degli Evangelisti e santi)e quelli di San Secondo a Cortazzone, di più difficile collocazione cronologica: le due decorazioni 3 4 PASSONI R., Pittura del Trecento in Piemonte, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, I, 1986, p.53. Repertorio, p. xxv. 5 TARICCO S., Piccola storia dell’arte astigiana, Asti 1994 a proposito della decorazione della pieve di S. Pietro a Portacomaro. “Il grande Cristo presenta una anatomia vivamente insistita in un chiaroscuro violento, addirittura mantegnesco, per intenderci, certo di nordica ascendenza; mentre più delicate appaiono, ai lati della grande croce, le figure di Maria e Giovanni, anche se sempre rilevante è il corso plastico del chiaroscuro. Ma la cosa più sorprendente è questo sfondo di mura merlate, vivamente rosato, di una iconografia assai strana, e che sta a creare scenografici effetti. Sulla parete sinistra, poi, nascono queste grandi figure di santi, come staccate in cornici diverse: un S. Sebastiano indifferente alle frecce che gli trapassano il corpo, i grandi occhi oblunghi incorniciati dal perfetto civettuolo arco sopraccigliare, il naso breve e sottile, la piccola bocca a cuore. I colori delicati, il plasticismo assai meno insistito, una certa frivolezza ancora cortese, lo apparentano a certi santi masoliniani. E forse della stessa mano è il S. Pietro, nella ricerca di grazia del volto, negli occhi, nel breve naso, nel taglio stretto della bocca, e nel ductus fragile ma insieme insistito della intelaiatura disegnativa. Alle sue spalle, quasi illegibile, forse una santa Lucia, gli occhi di piatto su un vassoietto tenuto contro il petto, simili a una strana maschera, rivela la stessa mano. Mentre questo forte S. Antonio abate, monumentale nel saio a grandi masse – così vicino allo stesso di Viatosto !- il volto vivamente plastico, ci riportano al maestro della Crocifissione.” conducono a delineare un “filone d’impronta arcaistica nella pittura astigiana della prima metà del XV secolo.” Altre testimonianze dell’epoca sono: - Brusasco, abside della chiesa di San Pietro: San Pietro e San Paolo, Cristo di Pietà, San Giovanni Battista e san Bernardo d’Aosta, metà sec. XV (datati 1460?) - Buttigliera d’Asti, abside chiesa di San Martino: Cristo benedicente tra i simboli degli evangelisti, San Martino di Tours, San Bernardo d’Aosta, prima metà sec. XV - Montafia, chiesa di San Martino, parete sud e parete nord dell’arco trionfale: su entrambi i lati dell’arco è rappresentato San Martino dona parte del suo mantello ad un povero, prima metà sec. XV - Montafia, frazione Bagnasco, chiesa di San Giorgio, parete nord: San Cristoforo, sec. XV?, - abside: Cristo di Pietà sec. XV; Sant’Agata e santa monaca, primi decenni sec. XV; San Sebastiano e San Rocco sec. XV, San Giorgio e il drago, sec. XVII, - abside nord, San Michele Arcangelo, 1410-20, - abside sud: Santo con attributo non identificabile, sec. XV. Un caso “unico” per il territorio è rappresentato dalla pittura tardo –magnieristica di Guglielmo Caccia noto come il Moncalvo, che sebbene nato a Montabone nel 1568, scelse come luogo di residenza e di lavoro proprio la città di cui porta il nome. Egli non fu il solo artista che dette lustro a Moncalvo: qui nacquero Carlo Gorzio “buon dipintore a fresco”, Ferdinando Dal Pozzo, vi morì nel 1789 l’architetto e letterato Filippo Ottavio Magnocavallo, qui lavorarono, insieme con le figlie del Caccia, le pittrici Laura e Angelica Bottero. Queste presenze sono sufficienti per poter parlare di Moncalvo come di un luogo aperto all’arte, in cui prese avvio una particolare ed innovativa esperienza nata per espressa volontà del pittore Guglielmo Caccia. Questi infatti aveva voluto la creazione di un monastero di Orsoline (che verrà fondato nell’anno della sua morte) che fosse non solo luogo di meditazione religioso ma anche un atelier di pittura sia per le proprie figlie Orsola Maddalena e Francesca, già avviate al mestiere dell’arte, sia per altre suore che da queste avrebbero dovuto essere istruite. Le due sorelle – note come “le Gentilesche e le Fontane” del Monferrato - proseguirono l’attività paterna e il convento in cui operavano godeva di “tale e tanta considerazione e reverenza che le figlie nobili di tutto il Monferrato e di paesi stranieri vi accorrevano”. Occorre tener conto che si sta parlando di un’epoca in cui il numero delle donne artista si contava sul palmo di una mano e comunque il ruolo loro riservato era piuttosto marginale. Il mondo dell’arte era e sarà ancora per secoli dominio maschile e la sola possibilità per una donna di entrarvi era quella che viene definita di “anticipazione parentale” secondo la quale la formazione artistica di una donna poteva avvenire solo presso bottega del padre o di un fratello, comunque nell’ambito di relazioni familiari. Seppur confinate all’interno di un monastero e quindi in un ambiente al riparo da tentazioni e pericoli, esclusivamente femminile, il gesto di Guglielmo Caccia di istituire una sorta di piccola accademia per donne appare una idea nuova, che schiude il mondo dell’arte a chi finora ne era stato più o meno escluso. Certamente in questa decisione ha largo peso il desiderio di tramandare la propria eredità artistica ed umana, ciononostante fu un tentativo innovativo, che permise, perlomeno alle figlie dei nobili, di avvicinarsi ad un mondo fino ad allora precluso. Le sue figlie ereditarono dal padre tutti i cartoni e modelli, usati come base per il loro insegnamento; la più nota è certamente Orsola Maddalena anche perché di Francesca, morta in tenera età non sembra esserci giunta alcuna opera certa. E’ a Francesca però che le fonti settecentesche attribuiscono maggior maestria. Le due sorelle avevano scelto ciascuna una propria sigla distintiva in luogo della firma, Orsola Maddalena un fiore, Francesca un uccellino. Orsola, come è evidente, riprese lo stile del padre in opere di carattere devozionale in cui manca la vividezza e la partecipazione sentimentale che rende le opere di Guglielmo vive e partecipi: le tele di Orsola pare “ritraessero l’esterno dei corpi” ma “meno vi infondessero quelle anime.” Naturalmente anche la sua tecnica pittorica si differenzia da quella del padre come hanno dimostrato accurate indagini: il ductus di Guglielmo è sempre più sottile, con pennellate fluide, a volte ad andamento curvilineo mentre la figlia “tende a sollevare col pennello filamenti e crestine di colore ed a farli coincidere con la delineazione di determinati particolari.”6 Orsola sembra dotata di una cura tutta femminile per la raffigurazione dei dettagli ma la sua pittura perde progressivamente l’afflato emotivo e scade in una certa convenzionalità. Il 1673 è l’anno in cui Orsola esegue la tela raffigurante Santa Lucia, Agata e Liberata in Sant’Antonio a Moncalvo: con quest’opera sembra concludersi il periodo più creativo della sua produzione. Il dipinto è uno dei pochi punti fermi nella ricostruzione del suo percorso artistico insieme con Sant’Antonio nella chiesa della Madonna a Lu Monferrato del 1632, il San Giovanni Battista del 1644 (Montemagno, Parrocchia dei Santi Martino e Stefano), e al Matrimonio mistico di Osanna Andreasi a Carbonarola del 16487. Dal monastero delle Orsoline ricordiamo ancora le due sorelle pittrici Laura ed Angelica Bottero, di cui la più valente sembra la prima, morta il 30 aprile 1719 a 74 anni. Fra i molti pittori che si posero sulle orme del Caccia, è da ricordare qui Ferdinando Dal Pozzo di Moncalvo, che lasciò nella cittadina, nella chiesa di San Marco “un ottimo dipinto”ispirato all’Incoronazione di spine” del suo maestro: “Le copie ch’ei fece di quelle di Guglielmo (Caccia) si riconoscevano per una certa languidezza e per un po’ di stento nell’imitarne le pieghe delle vesti”. Lavorò per i signori Della Sala di Moncalvo dipingendo per loro alcuni putti sul fare dell’Albano”, mentre nel Santuario di Crea dipinse scene dalla storia dell’Assunta. Oltre alla generazione di Moncalvo nella fase estrema e della figlia Orsola, un’altra bottega pittorica artigiana lascia alcune tracce nel nord Artigiano. Si tratta della famiglia dei La Veglia, di cui resta testimonianza nella chiesa di San Sebastiano a Chiusano: la tela raffigurante San Teobaldo e sant’Antonio da Padova in adorazione del Bambino in grembo alla Madonna datata 1659 ca. . L’attrazione esercitata da Torino è invece documentata a Cocconato, dove la pala per l’altare della Comunità nella parrocchiale fu commissionata al pittore Giovanni Francesco Sacchetti nel 1675 (Angelo Custode e la Vergine). Nel Settecento l’influenza esercitata dal casalese Guala, che dipinse il San Michele tra Sant’Evasio e san Defendente datato prima del 1730 per una chiesa di Montemagno, è ricordata per Carlo Gorzio e per il figlio Giorgio di Moncalvo. Qui è documentata la presenza del pittore Vitaliano Grassi, autore di due tele per la Confraternita di San Michele, San Michele (1760 ca.) e la Madonna del Rosario (1758-60). L’attività astigiana dell’artista, che si affermerà come ritrattista della Corte sabauda, si apre tuttavia con il dipinto per la parrocchiale di Cocconato, la Madonna della Consolazione con i santi Fausto e Felice datato 1736. 6 GALLO A., La tecnica pittorica di Guglielmo Caccia, in «Il Platano», anno XVII, 1992, pp. 87-96. 7 Montemagno tra arte e storia, Asti 2001. Per l’Ottocento è da ricordare l’attività di Michelangelo Pittatore che lasciò testimonianza della sua arte con le tele a soggetto sacro nella parrocchiale di Castell’Alfero. Suo allievo fu Anacleto Laretto, ritrattista e anche frescante per le chiese dell’Astigiano, campo in cui lavorarono anche Luigi Morgari (1857-1935) e Giovanni Lamberti (1869-1950) autori, tra l’altro, della decorazione della parrocchiale di Montechiaro. PITTORI Repertorio degli artisti: botteghe locali e apporti esterni. Barne Luigi Era nato a Torino e fu dal Duca del Genovese, in seguito re di Sardegna, mandato a Roma per iniziarsi all’arte sotto la direzione del Camuccini […]1820. Nel numero del tre febbraio della Gazzetta Piemontese è inserita una lettera firmata “F. D. P.”, nella quale si legge: “Avendo voi fatto nella vostra Gazzetta onorevole menzione del giovane Luigi Barne, che dà così liete speranze alla patria nel coltivare la pittura,…il diceste Torinese e lo è veramente, essendovi quivi nato da padre stabilitosi da varii anni in Torino. Ma […] la sua paterna origine è di Moncalvo, nel Monferrato. […] Probabilmente Luigi Barne morì giovanissimo a Roma. (Schede Vesme, op. cit) Bottero Laura e Angelica Queste due pittrici erano figlie di Giovanni Guglielmo Bottero o Butteri di Casale e furono entrambe monache nel monastero delle Orsoline di Moncalvo, fondato dal pittor Guglielmo Caccia dove ancora viveva ed operava la pittrice suor Orsola Maddalena Caccia figlia del detto Guglielmo. Laura assunse in religione il nome di Candida Virginia. L’atto di monacazione, fatto il 17 aprile con l’assenso del vescovo di Casale Giovanni Miroglio, conteneva le seguenti disposizioni: “…Attesa la sua virtù nella pittura, nella quale essa sia tenuta esercitarsi a comune beneficio del monastero, restando però subordinata alla Molto Reverenda Madre Suor Orsola Maddalena Caccia pittrice, la quale in compagnia della Molto Reverenda Madre Superiora sopraintenderà negli accordii e lavori di pittura che giornalmente verranno a farsi, et in mancanza di essa madre pittrice, con partecipazione della Madre Superiora che sarà, non obligandola però a lavorare più in un quadro che in un altro, purchè sia a beneficio del monastero…Et di più acconsentiamo che del denaro si ricaverà dalle pitture che essa andrà facendo, dedotto quanto sarà bisogno per provvedere li colori, possa detta signora levarsi per suo livello annuale doppie tre, però col consenso della Madre Superiora, e ciò intendiamo passato l’anno del noviziato, qual livello sia tenuto spendere per suo prorpio uso e con l’ubidienza della Signora, come fanno le altre, e di più che essendoci alcuna delle sorelle o figlie che inclinano alla pittora, essa signora sia tenuta insegnarli…” (Notaio G. B. Guida). Angelica Bottero entrò nello stesso monastero il 3 novembre 1667 e dopo d’allora fu chiamata suor Angela Guglielma. (Schede Vesme,op. cit.) Guglielmo Caccia detto il Moncalvo (Montabone, Asti, 1568- Moncalvo, 1625) La biografia e l’attività artistica del Moncalvo si scalano in tre periodi: la formazione e la prima attività piemontese (1568-1617), il breve ma importante soggiorno milanese (1617-19) e il ritorno in Piemonte (1620-25). […] Guglielmo Caccia è un artista precoce e fecondo: esordisce diciassettenne, con due dipinti per Guarene, l’Annunciazione (chiesa dell’Annunciata) e la Sacra Conversazione (San Michele). Nel 1589 sposa Laura, figlia del pittore Ambrogio Oliva: dalla loro unione, intorno al 1595 nascerà l’apprezzabile pittrice Orsola Maddalena, copista e collaboratrice del padre. Nel 1590 il Moncalvo affresca la cappella della Presentazione al Tempio del Sacro Monte di Crea. Si accosta poi alla tradizione pittorica vercellese, erede (attraverso la bottega di Bernardino Lanino) della lezione gaudenziana, e sotto questo influsso dipinge nel 1593 diverse opere: la Crocifissione di Calliano, gli affreschi della cappella del Rosario in San Michele a Candia Lomellina e una nuova cappella (Nascita della Vergine) del Sacro Monte di Crea. Sempre nel 1593 si trasferisce a Moncalvo, la cittadina dell’astigiano da cui desumerà il soprannome e vi dipinge una Allegoria francescana in San Francesco. Tra il 1594 e il 1595 (data della Madonna della Parrocchiale di Grana) si reca con ogni probabilità a Bologna, entrando a contatto con la pittura dei Carracci, in particolare di Ludovico. Esiti importanti di questo viaggio sono le due pale della Parrocchiale di Cioccaro (1602). Dal 1605 il Moncalvo è attivo a Torino dove collabora con Federico Zuccari nella decorazione della perduta galleria di collegamento tra Palazzo Reale e Palazzo Madama, terminata nel 1608. Tra le opere riconducibili agli anni dell’attività torinese del Moncalvo spiccano l’Immacolata Concezione di San Francesco ad Acqui e il Cristo inchiodato sulla croce di San Bernardino a Vercelli. Del 1606 è la Vergine del Rosario di Pontestura, probabilmente del 1607 le Storie di San Nicola da Tolentino del Museo Civico di Casale Monferrato, del 1608 il San Francesco in San Pietro a Villanova d’Asti. La produzione del Moncalvo si fa sempre più abbondante, in coincidenza, evidentemente, con l’organizzazione di una attiva bottega. Tra il 1608 e il 1617 si possono ricordare le sei tele in San Michele a Casale Monferrato, le due pale di Santa Croce a Boscomarengo, le Storie della Vergine nel Duomo di Alessandria (fra le quali l’Annunciazione, sempre del Moncalvo, è più tarda), gli affreschi della cappella di San Carlo a Novara (1613-1615) e quelli del coro di San Domenico a Chieri (1615-1616). Nel 1617 il Caccia si trasferisce a Milano dove si accosta al giovane Daniele Crespi ed esegue alcune delle sue opere più prestigiose, legate a committenze di una certa rilevanza. Insieme a Daniele conduce gli affreschi della cupola di San Vittore in Corpo e della cappella di san Bruno in San Pietro in Gessate. E’ inoltre presente in alcuni dei complessi artistici più significativi del Seicento lombardo, intervenendo nel ciclo di dipinti per la cappella del Tribunale di Provvisione(ora nella Pinacoteca Civica del Castello Sforzesco) e nella decorazione di parecchie chiese: Sant’Alessandro […], Sant’Antonio […], Santi Paolo e Barnaba […] il convento francescano di Sant’Angelo e il Santuario di Saronno. Per il Duomo di Monza dipinge la Decollazione del Battista. A Pavia esegue la pala di Sant’Anna (Santa Maria del Carmine, 1618), gli affreschi della cappella di Santa Lucia in San Michele (1619) e contribuisce con due tele alla decorazione di Santa Maria di Canepanova. La Madonna del Rosario nel Duomo di Valenza Po e la Deposizione in San Gaudenzio a Novara (1620) segnano il ritorno dell’artista in Piemonte. Dopo il Martirio e la Caduta di San Paolo (Casale Monferrato, San Paolo) e il Martirio di San Maurizio (Torino, chiesa dei Cappuccini) si ricordano il Compianto della Parrocchiale di Golasecca, il Tobiolo del Duomo di Tortona, le Nozze di Cana dell’Ospedale di Alessandria, l’Estasi di Santa Teresa nell’omonima chiesa torinese e la Santa Francesca Romana nella chiesa della Madonna a Moncalvo. L’artista muore a Moncalvo il 13 novembre 1625, lasciando incompiuto un Martirio di San Maurizio (Moncalvo, San Francesco) terminato dalla figlia Orsola Maddalena. (Zuffi S., Caccia Guglielmo, in Gregori M. – Schleier E. (a cura di), La pittura in Italia. Il Seicento,II, Milano 1989) Caccia Orsola Maddalena e Francesca A data incerta, ma che non deve esser lontana dal 1620, il pittore Guglielmo Caccia detto il Moncalvo aveva collocato nel monastero delle Orsoline di Bianzè, […], quattro sue figlie, chiamate in religione Orsola Maddalena, Agata Rosa Anna, Laura Margherita e Cristina Serafina ed aveva loro costituito una dote. […] Ma le diuturne guerre che allora si combattevano da quelle parti tra gli eserciti di Savoia, di Spagna e di Francia indussero di lì a poco il Caccia a trasferire le figlie, […], dal monasterò di Bianzè ad un altro monastero, da lui stesso a proprie spese fondato a Moncalvo. […] Delle sei figlie del Caccia due sole furono pittrici: la maggiore Orsola Maddalena e la minore, chiamata in religione Anna Guglielma. Ma costei, morta giovanissima, non può aver dipinto che un numero limitatissimo di quadri, forse non più di due o quattro. […] Di queste due sorelle così parla il Lanzi: “Erudì il Caccia ed ebbe in aiuto de’ suoi lavori anche due figlie, che sono le Gentilesche e le Fontane del Monferrato, ove sempre stettero lavorando non pur quadri da camera, ma tavole d’altare in più numero forse che altra donna. Ritraggono puntualmente dal padre l’esterno de’ corpi; ma non vi infondono quelle anime. Dicesi che, avendo maniera fra sé conforme, per torre occasione di equivoco, Francesca la minore prendesse per simbolo un uccellino; Orsola, che fondò il conservatorio delle Orsoline in Moncalvo, un fiore. […]” (Schede Vesme,op. cit.) Entrambe suore, son valenti pittrici anch’esse, tanto da essere definite dai contemporanei, stupiti di tanta bravura femminile, “le Gentilesche e le Fontane” del Monferrato. Esse continuarono l’opera paterna nella nativa Moncalvo e proprio in quel convento di Orsoline che dal pittore era stato fondato nella propria casa, e che divenne una sorta di collegio e di Accademia del disegno di “…tale e tanta considerazione e reverenza che le figlie nobili di tutto il Monferrato e di paesi stranieri vi accorrevano”. (Lanzi, Storia pittorica d’Italia cit. in Taricco S., op. cit., p. 77). Alcune opere di Orsola Maddalena Caccia Ad Albugnano, nella parrocchiale, l’ancona della Madonna del Rosario, con alcune figure nel piano ed i quindici misteri attorno. Al santuario di Crea,nella cappella di S. Margherita, l’ancona. A Moncalvo, nella chiesa di San Francesco, l’ancona con S. Luca (rappresentato col sembiante del Moncalvo) che plasma in stucco una Madonna copiandola da un quadretto. E’ segnato con le rose, marca di Orsola Maddalena. Ivi, nella stessa chiesa, le ancone dell’Immacolata Concezione e della Madonna degli angeli (attribuite con probabilità). A Montabone, nella parrocchiale, la Madonna del Rosario. Nella sacristia, uno stendardo da una parte del quale v’è l’immagine della Vergine Maria e dall’altra quella di S. Orsola. Opere di Francesca Caccia: A Casale, nella chiesa della Trinità, all’altar maggiore, ancona dell’Assunta con la Triade in Gloria (Attribuita dal De Conti, Ritratto di Casale, ms.). A Moncalvo nella chiesa di San Francesco, l’ancona di S. Sebastiano confortato al martirio degli angeli. A Trino Vercellese, […], nella chiesa di San Domenico, “la tavola nella cappella del Rosario, con Maria Vergine e il Bambino in Gloria, e sotto S. Domenico è opera di Francesca Caccia”. (Bartoli, Notizia, 1122). (Schede Vesme, op. cit.) Orsola Maddalena 1596-1676 Il catalogo della pittrice […] è stato messo a punto da Gianni Romano (1972) e vede gli esordi tra il 1615 e il 1620 con l’Immacolata della Parrocchiale di Rosazza, la Madonna col Bambino dormiente della Parrocchiale di Bianzè, e la Natività in deposito a Palazzo Bianco a Genova. Nel decennio tra il 1620 e il 1630 sono da collocarsi la parte alta del Martirio di San Maurizio, nel convento dei Cappuccini di Torino, e il compimento del San Maurizio in San Francesco a Moncalvo, incompiuto alla morte del padre nel 1625. Degli anni seguenti il Sant’Antonio in Santa Maria Nuova a Lu Monferrato (1632) e Le Sante Agata, Lucia e Liberata in Sant’Antonio a Moncalvo (1637) dipinti che chiudono la produzione migliore dell’artista dopo la quale la gamma cromatica si orienta verso colori più cupi e fumosi. A questa fase sono ascrivibili il San Giovanni Battista, nella Parrocchiale di Montemagno (1644) e i perduti quadri rappresentanti La Sacra Famiglia (1648), un tempo ad Alba, e il Sant’Antonio a Moncalvo (1665). Numerose tele sono sparse in varie località del Piemonte tra cui Biella, Casale Monferrato, Moncalvo (numerose tele provengono dal soppresso convento delle Orsoline tra cui le tre nature morte discusse da Romano nel 1964), Montabone, Trino, Villanova d’Asti, e raccolte nelle pinacoteche di Torino (Sabauda) e a Roma (Galleria Spada). (Ballaira E., Caccia Orsola Maddalena, in M. Gregori - E. Schleier (a cura di), La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 1988) Cignaroli Vittorio Amedeo (Torino 1730 circa – 1800) Discendente da una famiglia di artisti di origine veronese, Vittorio Amedeo, figlio del pittore Scipione, nacque a Torino verso il 1730, come si desume all’atto di morte, in data 17 febbraio 1800, da cui risulta avere settant’anni. […]. Secondo una consolidata prassi familiare, Vittorio Amedeo ebbe come primo maestro il padre, da cui assorbe la cultura veneta che piega verso forme arcadiche più aggraziate e ‘moderne’, aggiornate sulla lezione dei paesisti bolognesi e veneti, quali Zais e Zuccarelli. Non mancano tuttavia di agire sul pittore suggestioni di ascendenza nordica, di stampo soprattutto olandesizzante. La sua pittura, pur nei limiti di un’arcadia un po’ di maniera, è però sorretta da una sicura abilità di mestiere, grazie alla quale diventò pittore prediletto della corte sabauda e dalla aristocrazia piemontese. Proprio l’allargarsi con Vittorio Amedeo della bottega e l’imporsi di una sorta di specializzazione di genere nella divisione del lavoro, con l’impiego di collaboratori figuristi (fra cui sarebbe da annoverare anche la moglie Rosalia, figlia dello scultore Francesco Ladatte) ha creato notevoli difficoltà a distinguere, nella sterminata produzione del pittore, le opere autografe. Va notato inoltre che molta della sua attività nelle residenze reali, ampiamente documentata fra 1749 e 1794, è andata dispersa a seguito delle devastazioni e spoliazioni delle regge di Moncalieri, Rivoli e soprattutto Venaria, dove non rimane traccia dell’arredo mobile. La prima notizia documentata di opere è, come accennato, del 1749, quando Cignaroli viene pagato per un “sottofornello” nella Galleria del Daniel in Palazzo Reale. […]. Nel 1762 Cignaroli è nominato priore della Compagnia di San Luca e l’anno successivo ottiene la prima commissione per la palazzina di caccia di Stupinigi […]. A partire dalle cacce di Stupinigi la tematica della natura d’invenzione, imperante nella vasta produzione precedente, cede se pure gradatamente il passo a soggetti di vedute dal vero (spesso realizzate in collaborazione col figlio Angelo), secondo le nuove istanze del genere, volute dalla corte. […] Nel 1779 Cignaroli è professore della Reale Accademia di Pittura e Scultura di Torino, nel 1782 è nominato da Vittorio Amedeo III “regio pittore in paesaggi e boscareccie”, con significativo riconoscimenti dei temi protagonisti della sua pittura. […] (Barelli C., Cignaroli Vittorio Amedeo, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989) A Castell’Alfero riceve la committenza per le decorazioni al castello degli Amico (sovrapporte con Storie di Mosè). Gorzio Carlo (Moncalvo/At; attivo nel Monferrato e nel Vercellese nella seconda metà del XVIII secolo) Nativo di Moncalvo, Carlo Gorzio operò soprattutto nel basso Monferrato tra Asti e Casale, con interventi documentati nel Vercellese. In età giovanile fu avviato alla pratica della pittura da Ferdinando del Pozzo, come lui di Moncalvo, che eseguì numerose copie dal Caccia, riconoscibili “per una certa languidezza e per un po’ dis tento nell’imitare le pieghe delle vesti” (Della Valle, 1794). Nel 1765 il Gorzio è documentato ad Altavilla, impegnato nella realizzazione degli affreschi e della grande tela con San Giulio, la Vergine e i Santi nel coro della Parrocchiale (Altavilla, Archivio parrocchiale, Libro dei battezzati, 1732- 1785, f. 90); l’anno successivo dipinse la Predica in riva al Giordano e la Decollazione del Battista sulle pareti della stessa cappella intitolata al Santo nella stessa chiesa (Altavilla, Archivio parrocchiale, Libro degli interessi della cappella di San Giovanni, f. 60); in questo luogo si conserva infine la Via Crucis attribuita al Gorzio nelle Risposte ad una Visita Pastorale non datata ma verosimilmente di primo Ottocento. […] Della produzione dell’artista nella sua città natale c’informa C. Lupano (1899): un controaltare per la cappella del Crocefisso in San Francesco, il quadro della Sacra famiglia in Santa Maria delle Grazie e infine quello di Sant’Antonio Abate nella chiesa omonima. L’autore di quest’ultimo dipinto è però indicato in “Giorgio Gorzio di Moncalvo”, lo si potrebbe pertanto identificare nel figlio Giorgio “che poteva emulare e sorpassare anche il padre, giudicandolo da’ suoi cominciamenti. Ma da altre cure distratto, tralasciò quasi affatto lo studio di un’arte sì bella “ (“Gazzetta Piemontese” del 3 febbraio 1820) (Barberis A., Gorzio Carlo, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989) Grassi Vittorio Amedeo Giuseppe De Conti, nel suo manoscritto Ritratto della città di Casale, ha che Vittorio Amedeo Grassi era di Casale e che fu allievo del Crivelli e suo imitatore. Un documento qui sotto inserto conferma ch’egli era di Casale e ci fa conoscere che nacque nel 1725 o intorno a quell’anno. […] Nel castello di Settime, presso Asti, appartenente alla Marchesa Borsarelli di Montiglio, il ritratto di Giuseppe Ruffino di Cocconito di Montiglio, anno 1788. (Schede Vesme,op. cit.) (Caluso, 1725 circa – Torino, post 1796) La figura di questo ritrattista attivo per la corte sabauda, ricordato anche dal re Carlo Felice nel suo diario 1786-1788 non è stata finora (1989) del tutto chiarita. I documenti piemontesi raccolti dal Vesme (1966) testimoniano di una continua attività per la corte sabauda: dalle sovrapporte per il castello di Moncalieri (1775) alla serie iconografica dei Savoia nella galleria dello stesso castello, impresa che vide il Grassi coinvolto nei programmi celebrativi voluti da Vittorio Amedeo III. Qui il pittore sarà impegnato per due anni dopo la nomina a pittore di corte nel 1785: è a questa data infatti che si parla di un “trattenimento” di trecento lire che il Grassi divide con Michele Rapous. Sempre in Piemonte, si ricordano due sue pale per sedi decentrate quali Felizzano (un San Michele nell’ononima chiesa) e Moncalvo, nel 1760 (chiesa della Madonna delle Grazie, L’Angelo custode). La qualità delle opere del Grassi appare chiaramente ad esempio nel Ritratto di gentildonna con serto di fiori e cagnolino firmato e datato 1795 (Torino, collezione privata; Griseri 1963), che vede il maestro piemontese aggiornato sugli esempi di Vigée le Brun e di L. Guttenbrun in una prospettiva europea. […] (Baiocco S., Grassi Vittorio Amedeo, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989). Guala Pietro Francesco (Casale Monferrato, 1698-Milano1757) Il canonico Giuseppe De Conti, nel suo Ritratto della città di Casale, compilato nell’ultimo decennio del secolo XVIII, e rimasto manoscritto, registra: “Pier Francesco Guala, di Casale, discepolo del Vicentini in Bologna, fiorì nel 1750. Negli ultimi anni della sua vita si stabilì in Milano, ove morì, dopo d’aver lasciati suoi lavori a fresco ed in tela graditi. […]” Il Lanzi scrive: “Pietro Gualla, di Casalmonferrato, si occupò anch’egli in lavori a fresco, e fece in oltre tavole a olio per vari luoghi dello stato e della metropoli. Benchè si applicasse tardi a dipingere, comparve ritrattista molto vivace. Ne dovea uscire di questa classe, non avendo disegni né capitali che bastassero a cose maggiori. Già vecchio prese l’abito de’ Paolotti, e in Milano si mise a dipingere una cupola nella lor chiesa; ma si morì prima di aver compiuto il lavoro”. (Schede Vesme,op. cit) Gli esordi dell’artista, figlio di Barbara Favro e Lorenzo Guala pittore casalese, sono ancora oggetto di discussione, ma è ipotizzabile una formazione in ambito locale che risente delle presenze lombarde ed emiliane diffuse, tra Sei e Settecento, in territorio casalese (Spantigati 1979) Tali influenze si rivelano nelle prime opere, firmate e datate: Il sogno di Giacobbe (1722) in San Michele a Balzola; il grande quadro con la Disfatta degli Albigesi (1724) in San Domenico a Casale il cui bozzetto, recentemente restaurato (1988), è conservato nel Museo Civico della città, l’Angelo Custode (1725) nella Parrocchiale di Rosignano. Problema aperto rimane allo stato attuale della ricerca, l’intreccio tra le varie componenti culturali, indicate dalla critica per la sua produzione a partire dalla Disfatta degli Albigesi. Il De Conti (1794) lo definisce “discepolo del Vicentini in Bologna” ed un viaggio in Emilia, forse prima del 1724 (Carità 1949) o tra il 1727 e il 1730 (S. e S. Martinotti 1976) concorrerebbe a spiegare l’affinità a certi modi di Giuseppe Maria Crespi, mentre non vanno dimenticate suggestioni della pittura genovese che il Guala ebbe modo di conoscere quando a Voltri dipingeva il Martirio di San Fedele di Sigmaringen (firmato e datato 1731) per la chiesa dei Cappuccini. Punto fermo per il rinnovamento del pittore, che adottò una gamma cromatica più preziosa e ricercata ed una composizione più mossa e leggera, è il San Bartolomeo a Trino, inizio di una prolungata attività per le chiese della città e, più tardi, con una serie di ritratti (1750-1756), anche per il Monte di Pietà e l’Ospedale (Barbero, Spantigati, 1980). Intensa fu l’attività di Guala frescante: nel Santuario del Valinotto (1739-1739) presso Carignano (opera dell’architetto Bernardo Vittone), dove entrò in contatto con il clima culturale di respiro internazionale che promanava in quegli anni da Torino; nel Seminario Maggiore di Casale (1740) in collaborazione con il quadraturista Bettini (opera distrutta nel 1894); nelle chiese vercellesi di Santo Spirito (1744, sagrestia) e Santa Caterina, per le quali dipinse anche alcune pale d’altare (1741. 1743); nei palazzi casalesi Gozzani di San Giorgio e Morelli, nel Palazzo Treville, sempre a Casale, dove partecipò del rinnovamento culturale promosso dall’architetto G. B. Scapitta e dal suo entourage di decoratori e stuccatori. Fu ritrattista molto vivace, come ricorda il Lanzi (1795-1796) e come testimoniano il ritratto del Conte Filippo Sannazzaro (1737), la serie dei conti Scarampi (1738-1748) e i Canonici di Lu (1748), una delle opere più famose, dai colori brillanti e dal tono diverto, eseguito per la collegiata di Lu Monferrato e attualmente al Museo Civico di Casale. All’ultimo periodo della sua vita risalgono le due grandi tele con i Miracoli di San Domenico (1753-1754) nella chiesa casalese intitolata al Santo e i ventitrè ovali con figure di Apostoli e Profeti (1755-1756) in Santo Stefano, nella stessa città. Nel 1756 si trasferì a Milano dove dipinse l’Assunta nel soffitto della sagrestia di San Francesco da Paola. Morì nel capoluogo lombardo il 27 febbraio 1757 (Caprara). (Soffiantino M.P., Guala, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989) San Michele tra Sant’Evasio e san Defendente; ante 1730, olio su tela, Montemagno, Confraternita della Trinità (proviene dall’altare della chiesa di San Michele ma realizzato per un’altra chiesa, per ora non identificata). Laretto Anacleto Grana 1874- Asti 1950 Attività di ritrattista, frescante ed autore di soggetti religiosi per le chiese di Asti e della provincia. Si dedicò con passione anche al restauro e la “titanica esperta fatica per serbare gli affreschi dell’Aliberti” è ricordata da Vincenzo Adorni in un articolo pubblicato sul “Cittadino” poco dopo la morte del pittore. (Ragusa E. – Rocco A., Le collezioni civiche di Asti. Materiali di studio per il riallestimento, Asti 2001) Fu allievo del Pittatore. Buon ritrattista, senza però la rotondità della pennellata del maestro, né il vivido modo del Borelli, […] si dedicò alla pittura di arte sacra, riuscendo in pale diligenti e dignitose (Cristo Re, Asti, Madonna del Portone) – e molto al restauro, che a volte andò oltre il fine conservativo in un eccesso di “interpretazione” (affreschi settecenteschi nella volta del Battistero di S. Pietro, facciata di S. Maria Nuova, ecc). Modesto, integerrimo, quanto accanito “artigiano del pennello”, dunque, che però ebbe un suo preciso posto nella vita artistica astigiana, soprattutto fra le due guerre. (Taricco S.,op. cit.) I Laveglia (famiglia di pittori attiva ad Asti dalla II metà del XVII secolo alla seconda metà del XVIII). Grazie a recenti indicazioni documentarie, il profilo di questa famiglia di pittori si va maggiormente delineando e, alle poche opere certe, vanno aggiungendosi i dati relativi alle attività svolte presso alcuni enti religiosi astigiani. A fornire indicazioni sono – oltre ai dati pubblicati da Boido (1971) – i libri dei conti della Cattedrale di Asti, che attestano pagamenti ai vari componenti della famiglia dal 1692 al 1770. In questo arco cronologico, al pittore Pietro Laveglia (nato a Parigi nel 1625 e morto nel 1675), del quale tuttavia non conosciamo opere astigiane, si uniranno con la loro attività il figlio Giovanni Antonio, i figli ed i nipoti di questo; personaggi la cui opera, benchè ancora sommariamente, può oggi essere meglio documentata. Giovanni Antonio (nato nel 1653 e attivo ancora nel 1710), sposatosi nel 1677 con Lucrezia Maria Fariano, figlia del pittore Giovanni Battista Fariano (al riguardo andrà ricordato come le relazioni tra le botteghe di Asti si estendessero fino ai rapporti di carattere parentale, come attesta la nostra stessa famiglia, legata ai Bonzanigo scultori ed al pittore Giancarlo Aliberti), ebbe due figlie e quattro figli. Tra questi Giovanni Lorenzo (morto prima del 1767) e Giovanni Battista (nato nel 1682 ed ancora vivente nel 1731) sicuramente attivi nella bottega del padre poiché indicati come pittori dagli atti notarili. Il primo ebbe un figlio pittore, Giovanni Antonio junior (ancora vivente nel 1762, come risulta da testamento rogato in quell’anno), mentre Giovanni Battista ebbe quattro figli, due dei quali pittori, Pietro Gaspare (nato nel 1718) e Giuseppe Antonio (nato nel 1719), ancora viventi nel 1767. Tra questi nomi andranno cercati i probabili continuatori della bottega Laveglia ad Asti e distribuite alcune opere ricordate dai pagamenti. Questi ultimi segnalano, tra il 1692 ed il 1697, la presenza della famiglia Laveglia in Duomo per attività diverse, dall’esecuzione di stendardi alla manutenzione delle pitture esistenti nella chiesa. […] Di sicura attribuzione (Cottino 1986) è una tavoletta aggiornata al gusto francese e raffigurante La battaglia di Torino del 1706, firmata ‘Giovanni Antonio’ e datata 1710. La tavoletta è indubbiamente significativa per comprendere l’orizzonte culturale di questo pittore che si colloca oltre la cultura figurativa lombarda ben radicata in Asti in questi anni: essa ci permette di sganciare l’attività della famiglia dal solo ambito delle commissioni religiose e di vederla in rapporto a committenti diversi, da cercarsi probabilmente tra la nobiltà astigiana di quegli anni. Di più incerta attribuzione sono le decorazioni a quadratura realizzate per la cappella della Natività in San Martino dei Padri Barnabiti. Gli affreschi segnalati dal Bartoli (1776) come opera di Laveglia (tuttavia senza indicarne il nome) e di Giancarlo Aliberti, vennero realizzati su commissioni del vescovo Innocenzo Miliavacca e completati nel 1720, come attestano alcuni pagamenti. Le quadrature, vicine al gusto lombardo – come afferma Cottino, che esclude però la mano di un Laveglia – potrebbero non essere estranee a Giovanni Battista o a Giovanni Francesco (cognati dell’Aliberti), essendo questi a conoscenza di quella cultura, espressasi negli anni precedenti in alcune chiese astigiane: la Cattedrale e Sant’Anastasio, per indicare due episodi. Un decreto capitolare del 1731 ci informa invece che un nostro pittore è stipendiato dal Capitolo, sottolineando la continuità di rapporti che in questi anni si venivano ad instaurare tra quell’ente ecclesiastico e i numerosi maestri operanti in città. Per gli anni successivi (1734) sono da segnalare pagamenti per sette tavole della Via Crucis, opere oggi non rintracciabili. Tra il terzo ed il settimo decennio del Settecento sono ancora numerosi pagamenti per stendardi, gonfaloni e stemmi […]. Ancora nel 1764 sono interventi di manutenzione per gli affreschi della Cappella di san Filippo, decorata dal milanese Federico Bianchi nel 1694. Per questi lavori, allo stato attuale delle ricerche andranno avanzati i nomi di Pietro Gaspare, Giuseppe Antonio e Giovanni Antonio junior, i primi due nati nel secondo decennio del Settecento, il terzo vivente nel 1767. L’ultimo pagamento rinvenuto è datato primo agosto 1770 e si riferisce al “Signor Pittore Pietro Laveglia per la pittura fatta sopra la Porta grande della chiesa, L.35.12.6”. Si tratta di un intervento di restauro ad una delle decorazioni realizzate tra il 1711 ed il 1712 dai pittori Francesco Fabbrica e Giovanni Battista Rocca. (Mondo D., Laveglia,famiglia in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989) Laveglia Pietro […]Sembra quindi confermata l’ipotesi del Boido che tale famiglia fosse originaria di Castellazzo. […] Il 1699 testimonia la presenza in Asti del pittore Pietro Laveglia, figlio di Giovanni e Maddalena […]nato a Parigi nel 1625. […] Morì l’8 novembre del 1675 e, per sua volontà testamentaria, sarà sepolto nella cappella della Vergine Lauretana eretta nella chiesa di San Martino. Nel testamento del 1 novembre 1675, egli nomina suoi eredi universali gli otto figli avuti dalla moglie Luciana Becchio di Carmagnola, ch’egli aveva sposato nel 1660, tuttavia poiché sette di essi sono minori, stabilisce che il maggiorenne Giovanni Antonio debba assisterli ed aiutarli, con anche l’obbligo di esercitare l’arte sua di pittore nella quale è già incamminato e servirsi delli disegni, collori e altre cose che si ritrovano in casa, tall’arte a benefficio e commodo si di esso che di detta sua madre, fratelli e sorelle…[…] Accanto a queste testimonianze della sua presenza in Asti, esiste il problema di stabilire quale fu la sua produzione artistica e se ancora rintracciabile. […]Noemi Gabrielli fa accenno a due dipinti che dovevano ornare le pareti del piano superiore dell’Opera Pia del Buon Pastore, ora sede dell’Archivio storico. Effettivamente, una rapida ma accurata ricerca, ha consentito di individuare nei documenti la presenza di opere dell’artista, opere che tuttavia oggi non sono state più ritrovate. […]Una fortunata casualità ha permesso di scoprire, nella Parrocchia di San Vincenzo di San Damiano d’Asti, un vasto dipinto raffigurante la battaglia di Lepanto recante nella parte inferiore di esso,sopra una botte dipinta sorreggente un naufrago, la firma PET®US VELIA. L’attribuzione a questo punto appare decisamente logica ed inequivocabile, anche se, opportunamente, occorre lasciare agli organi competenti della Soprintendenza il giudizio definitivo in merito. Altro evento fortunoso che può aprire un nuovo spiraglio sull’attività dell’artista è stato il ritrovamento in Asti, nel Palazzo dei Leoni di un interessante ciclo pittorico ad olio su intonaco raso (non affresco quindi), le cui caratteristiche pittoriche possono indurre a pensare la stessa mano […]. Bisogna aggiungere inoltre che , per le analogie pittoriche riscontrate, potrebbe essere ancora Pietro Laveglia l’artista che affrescò le pareti della Quinta cappella della Natività della Beata Vergine in Crea. Padre Paulo Andreozzi, attribuisce la detta opera a tale Monsu de la Veglia astigiano, eccetto il volto sopra la natività dipinto dal Moncalvo. (Lanza M., I Laveglia. Una famiglia di pittori ad Asti: 1532-1782, in «Il Platano», anno XXV, 2000, 1° fascicolo, pp.52-56) Laveglia Giovanni Antonio “…palazzo dei Leoni. Pietro La Veglia era deceduto solo da pochi anni e che quindi solo il figlio G. Antonio avrebbe potuto esserne l’autore. Quest’ultimo sposò nel 1677 Lucrezia, figlia del pittore Giò Batta Fariano di Mondovì. Egli dipinse nel 1710 una tela raffigurante la Battaglia di Torino del 1706. Sua è pure la Madonna del Rosario, su committenza dei Certosini della parrocchiale di Grana. […]Al pittore è anche attribuito il dipinto Cristo e gli Apostoli sulle rive del Borbore, proveniente da San Giuseppe. Ulteriori indagini hanno rivelato interventi di G. Antonio e Lorenzo Laveglia nel Monastero della Presentazione di Maria Vergine al Tempio (Opera Pia Milliavacca) tra il 1715 e il 1720, e nel cantiere della Parrocchiale di Revigliasco tra il 1743 ed il 1745.” (Lanza M., op. cit., pp.52-56) Maestro di Montiglio (attivo tra Monferrato e Astigiano intorno alla metà del XIV secolo). Prende il nome dall’importante ciclo di affreschi con le Storie della Passione dipinti per la cappella del castello di Montiglio, nel Monferrato. Il giudizio sulla personalità coincide pertanto con quello relativo alla sua opera, resa nota per la prima volta dalla Brizio (1933). Gli affreschi vennero presentati in quell’occasione come opera di artista subalpino, nonostante le loro caratteristiche lombarde, ed eseguiti nell’ultimo quarto del Trecento. Fu determinante, in seguito, per il loro assestamento cronologico il parere di Roberto Longhi (1958), che li ritenne eseguiti ancor prima della metà del secolo. Definiti da Castelnuovo come “capolavori lombardi di gusto occidentale” (1961), i dipinti sono stati commentati anche nella silloge degli affreschi lombardi trecenteschi della Matalon (1964, con fortuna critica). La notazione più recente sul ciclo di Montiglio si deve a Giovanni Romano (1979) che ne ha evidenziato la dipendenza dalla cultura assisiate “non ancora ortodossamente giottesca”, comune ad altri capolavori del primo Trecento settentrionale. Nella stessa occasione anche il ciclo del Sepolcreto Rivalba (1354 circa), nel chiostro di Vezzolano, è confluito stabilmente nella sfera d’azione del Maestro di Montiglio. L’opera mostra un artista già in grado di controllare pienamente i propri mezzi culturali ed espressivi e la cui formazione può ben essersi realizzata nel giro dei due decenni precedenti il Cinquanta, sugli esempi – comuni all’area padana - del primo giottismo assisiate. (Passoni R., Maestro di Montiglio, in Castelnuovo E. (a cura di), La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, I, Milano 1986) Pozzo Nell’ambito della decorazione illusionistica in Piemonte nel XVIII secolo, i fratelli Pietro Antonio jr. e Giovanni Pietro Pozzo operano a ritmo incessante nelle residenze sabaude come nelle parrocchiali della provincia. Gli studi sull’équipe di artisti attivi nella palazzina di caccia di Stupinigi e quelli sull’architettura e sulla decorazione nella provincia cuneese si sono soffermati sui fratelli Pozzo, […]. Ciò ha contribuito a chiarire molti problemi di attribuzione, complicati dai frequenti casi di omonimia all’interno della numerosa “famiglia” di pittori Pozzo, originari di Valsolda (Como) e attivi per la Corte di Torino dalla metà del XVII secolo. […] La decorazione fatta a Torino nel 1736 (Chiesa Beata Vergine del Carmelo) segnò l’inizio della loro collaborazione con il pittore Milocco. […]. In questo periodo l’attività e gli spostamenti dei Pozzo, pittori itineranti, sono particolarmente intensi. All’impresa pittorica del Carmine (1741) succede, ancora in terra astigiana, quella della chiesa della Confraternita di S. Giuseppe a San Damiano. Sull’edificio, iniziato nel 1700, ha scritto lo storico Felice Daneo (Il Comune di San Damiano d’Asti). Egli ricavò prezioso notizie da un Compendio della Compagnia di S. Giuseppe posto a prefazione del Libro delle Deliberazioni (iniziato nel 1823) […] Il manoscritto (perduto) indicava le date dell’inizio e della fine dei lavori di decorazione eseguiti dai “signori Pozzi”, 1741-1744, riportando al riguardo una lettera del «…Rev. De Defilippi Parroco di Costigliole, in lode ai medesimi alli Priore e sotto Priore, decantandoli per i Migliori pittori che vivessero in quei tempi… »[…] (Rocco M., I pittori Pozzo ad Asti, in «Il Platano»,anno XVI, 1991, pp. 196-213) Affrescano la Cappella dell’Immacolata nel 1770 in SS. Cosma e Damiano a San Damiano e la chiesa di San Giuseppe sempre a San Damiano (Taricco S., Il Barocco…) Pozzo Giovanni Battista (Castel San Pietro, Canton Ticino; attivo in Piemonte dal 1700 al 1734) […]Giovanni Battista Pozzo, nato a Castel san Pietro nel Canton Ticino, risulta attivo tra il 1700 ed il 1734 (Olmo 1978) soprattutto a Savigliano dove pare abbia fondato nella sua bottega una vera e propria scuola di frescanti. Pittore sia di figure che di architetture, quest’artista viene sovente confuso dalle fonti e dalla critica con un suo omonimo, esclusivamente autore di prospettive (Vesme 1968, voce Giovanni Battista II) e con un altro Giovan Battista da identificarsi in un pittore attivo a Vigone (To) […]. Ad Asti affresca nel Duomo il cappellone di San Filippo Neri in collaborazione con Federico Bianchi (Cottino 1986) con storie del Santo, decora la chiesa di Sant’Anastasio (demolita nel 1907) dal cornicione in giù insieme ad un altro Giovan Battista Pozzo attivo nella volta, ed infine dipinge la cappella di sinistra di San Martino ed una pala per l’altare (Vesme 1968). […]. Nel 1720, infine, stando a quanto scrive il Taricchi (1878), Giovanni Battista è a Cherasco per decorare la chiesa di San Gregorio (navata con i fatti dell’Antico Testamento ed un’ancona con San Gregorio Papa). Gli affreschi della Croce Grande, attribuiti dal Bartoli (1776) a “Gio. Battista Pozzi Milanese, il Figurista” sono da attribuirsi invece a Pietro Antonio Pozzo senior (Falco 1980). (Assandria V., Pozzo, Giovan Battista, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989) Pozzo Pietro Antonio seniore (Valsolda/Co; attivo in Piemonte dal 1716 al 1747) L’attività finora certa di questo artista, nato a Valsolda (Co) da Carlo Pozzo, va dal 1716 al 1747 (Vesme 1968). Nel 1720 Pietro Antonio è al castello di Rivoli (Torino) per ritoccare degli arabeschi in una camera da letto lasciati “imperfetti” da Nicolò Malatto. Dall’anno successivo, fino al 1740, lavora con altri artisti nel Palazzo Reale di Torino, alternando questi lavori con decorazioni per altre residenze sabaude (Rivoli 1722, Villa della Regina nel 1734). In provincia è occupato dal 1736 al 1739 al Santuario di Vicoforte presso Mondovì con affreschi nella cupola che verranno in seguito distrutti dalle decorazioni di Mattia Bortoloni, eseguite tra il 1746 ed il 1748. A Cuneo decora con architetture dipinte la chiesa di San Sebastiano (1743) quella di San Giovanni Decollato (Vesme 1968). […]. La decorazione di san Giuseppe a San Damiano d’Asti (1744), che il Vesme riporta alla voce di Pietro Antonio senior, va invece ascritta ai fratelli Pietro Antonio junior e Giovanni Pietro Pozzo, nipoti di questo artista. (Assandria V., Pozzo, Pietro Antonio senior, in Briganti G. (a cura di),op. cit.) Pozzo Pietro Antonio junior (attivo in Piemonte tra il 1727 e il 1788) e Giovanni Pietro (1713-1798). Figli di Giovanni Battista, Pietro Antonio e Giovanni Pietro operano in Piemonte quasi sempre in collaborazione come frescanti, tanto nella capitale sabauda con committenze di corte, quanto in provincia con quadrature prospettiche ed architetture a trompe l’oeil. Tra le prime opere conosciute di Pietro Antonio va citata la chiesa della Misericordia di Mondovì, terminata nel 1708 su disegno del Gallo, e decorata dal Pozzo nel 1727 in collaborazione con Gagini. Nel 1733 i fratelli lavorano nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (To), e negli anni successivi sono attivi a Fossano nella chiesa della Santissima Trinità (1736), in San Filippo (datato 1739; solo Giovan Pietro) e nell’attuale Cassa di Risparmio (nel 1730-1740 e nuovamente nel 1775-1783). Nel 1739 li troviamo anche a Savigliano dove decorano il coro della chiesa dell’Assunta, affrescata ventiquattro anni prima nella cupola del padre; tra il 1737 ed il 1743 sono a Cavallermaggiore (Santa Croce e San Bernardino) e nel 1744 nella chiesa di San Giuseppe a San Damiano d’Asti con affreschi nella cupola (Storie della Vergine e di San Giuseppe), sui pennacchi (Quattro parti del mondo), nella volta del coro (Apoteosi di San Giuseppe) e sopra l’altare (Esaltazione della Croce). Nel ventennio 1750-1770 i fratelli Pozzo sono impegnati per committenze di corte […], ma sono anche gli anni di alcuni lavori in provincia tra Asti (sacrestia di San Martino, 1749), Savigliano (Palazzo Alessandri Ferreri, firmato e datato 1750) e Saluzzo (San Bernardino, 1753-1755), dove Pietro Antonio lavora in collaborazione con l’Operti. Del 1766 è il contratto per la Parrocchiale dell’Assunta di Venasca (Bonino 1934) affrescata con lacunari e fiori da Pietro Antonio, […]. Nel 1770 Pietro Antonio viene chiamato dal vescovo Tommaso De Rossi per dipingere l’intera chiesa di San Lorenzo ad Alessandria (Amato 1964), nel 1777 affresca la villa Caron di Ceva di Cavalleone (opera firmata) e nel 1783, insieme con il fratello lavora a Govone nel castello su committenza dei conti Solaro, e nella Confraternita della Santa Sindone (Casalis 1833-1856). Sull’ultima fase della produzione di Pietro Antonio è stata recentemente messa in luce (Monetti-Cifani 1987) la commissione della Confraternita dello Spirito Santo di Orbassano per la decorazione della volta, coro, cupola e pennacchi, eseguiti tra il 1781 ed il 1784. Dopo il 1788 il nome di Pietro Antonio junior scompare dai documenti, mentre il fratello risulta attivo fino al 1798, anno della morte. […] (Assandria V., Pozzo, Pietro Antonio junior e Giovanni Pietro, in Briganti G. (a cura di), op. cit.) Rapous Vittorio Amedeo (Torino, 1729 – 1800) Nato a Torino nel 1729 […], Rapous si forma in ambito strettamente torinese. Nel 1747 comincia a frequenatre la scuola di disegno del Beaumont, ricevendo quindici lire mensili di sussidio. […] Nel 1759 risulta fra i Confratelli della Compagnia di San Luca, di cui è priore nel 1766. Proprio da questi anni ha inizio la sua prima autonoma attività per la committenza religiosa, attestata dalla Circoncisione in Santo Stefano a Biella del 1760, dall’Addolorata con Cristo deposto nella Parrocchiale di Campoligure del 1761, e dalla Predica del Battista per la Parrocchiale di San Marco di Rocca de’ Baldi. Di poco successive (1764-1766 circa) le due tele per la Parrocchiale di Testona, raffiguranti Cristo e i Santi Fedele da Sigmaringen e Giuseppe da Leonessa e la Madonna presenta il Bambino a San Felice da Cantalice, dove alla lezione beaumontiana si somma un più personale sforzo di evidenza naturalistica, mentre è già presente quella caratterizzazione tipologicamente connotata delle fisionomie che Rapous andò sempre più accentuando durante la maturità. Il pittore lavora intanto per la corte […]. E’ negli anni Settanta che avviene la piena affermazione del pittore, che lavora ancora per la corte a Moncalieri (due sovrapporte nella camera da letto della Principessa di Piemonte nel 1775) e, nel 1778, riceve il riconoscimento ufficiale attraverso la nomina a professore dell’Accademia di pittura e scultura a Torino, rifondata da Vittorio Amedeo III. La sua attività in questi anni si dispiega però soprattutto sul territorio piemontese con numerose opere di soggetto sacro. […] Del 1780 è la commissione regia per l’emblematica pala voluta da Vittorio Amedeo III per l’Opera della Mendicità (ora nella chiesa di Santa Pelagia, Torino), raffigurante, con un’iconografia di assoluta evidenza didascalica, la Madonna con i Santi Filippo e Vincenzo de’ Paoli e il Beato Amedeo di Savoia fra i mendicanti; all’opera si possono riconnettere le pale di devozione per l’oratorio delle Umiliate di Buttigliera d’Asti, per la Parrocchiale di Strambino, per la Madonna dell’Olmo presso Cuneo, dove il pittore persegue una sorta di razionalizzazione morale di tipologie di tradizione ancora beaumontiana. […]Nel 1797 Rapous compare ancora nella lista dei Confratelli di San Luca. Muore tre anni più tardi, come risulta dall’archivio di San Filippo a Torino. […] (Barelli C. Rapous Vittorio Amedeo, in Briganti G. (a cura di) op. cit.) Sacchi Carlo Orazio Il p. Guglielmo Della Valle, a p. 19 di una prefazione da lui scritta al volume XI dell’edizione da lui procurata delle Vite del Vasari, scrive, dopo aver parlato di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo: “Operò con quest’uomo insigne un certo Sacchi di Casale Monferrato, il cui pennello fu forse più energico e più dotto; e vedonsene alcune stupende opere nella detta chiesa di San Francesco di Moncalvo. […]. E’ mia opinione che il Sacco o Sacchi, abbia lavorato con Guglielmo Caccia durante gli ultimi anni di quest’ultimo, e che dopo la morte del maestro, avvenuta nel 1625, abbia tenuto in Moncalvo una bottega indipendente, ma non abbia più prodotto molti dipinti, forse perché colto da morte poco tempo appresso. (Schede Vesme, op. cit.) Il cuore dell’avaro, in San Francesco a Moncalvo . Questa tela come altre dipinte dagli allievi del Caccia, non rende onore alla grande tradizione moncalvesca ormai pedissequamente plagiata. UN FILO ROSSO Il problema storiografico relativo all’arte in Piemonte è rappresentato dalla mancanza di un visione unitaria ed organica dei fenomeni che hanno attraversato la Regione. Tale situazione sembra essere scaturita dalla caratteristica stessa del territorio, di essere terra di confine e di passaggio, aperta ad influssi più vari, ad apporti disparati, diversamente interpretati in ambito locale. Ciononostante si può tentare, seppur in modo schematico, di delineare alcune linee peculiari che evidenzino elementi assolutamente unici del mondo artistico del Monferrato Astigiano restituendogli una fisionomia chiara e distintiva, necessaria al fine della valorizzazione del ricco patrimonio esistente sul territorio. Il Monferrato Astigiano si presenta innanzitutto, in ambito architettonico, come la regione della pietra e del mattone. Fin dal Medioevo infatti risalta chiara l’abilità delle maestranze nella lavorazione e nell’uso della pietra come partito decorativo8. Già il Toesca rintracciava nei suoi studi questo particolare carattere: “Molte chiese rurali o di minore importanza, soprattutto nel Monferrato, hanno aspetto lor proprio specialmente per l’uso dei materiali e la studiata decorazione. Sono costruzioni assai semplici del secolo XII, quasi tutto senza transetto né cupola né cripta: all’esterno con lesene e archetti scempi o intrecciati, di rado hanno loggette, ma la loro muratura è composta con schietto intento decorativo nel paramento laterizio di diversi colori o nell’alternarsi di conci e mattoni. (…) Santi Nazario e Celso presso Montechiari d’Asti dà più viva nozione della originalità, seppur tenue, di quelle tante costruzioni (…); la chiesa di San Secondo presso Cortazzone dimostra anch’essa quanto gli artefici rurali fossero abili decoratori, mediocremente costrutta con tozzi pilastri, ma decorata con finezza all’esterno.”9 Questa particolare abilità nella realizzazione dei paramenti murari è stata uno degli elementi che ha permesso di raccogliere in un gruppo omogeneo alcune chiese caratterizzate proprio dalla cura per il “gioco cromatico fra il biondo colore dell’arenaria e il rosso del cotto” e nella disposizione dei conci, a volte alternati orizzontalmente, altre raggruppati in blocchi quadrati10: le quattro chiese sono le già citate San Secondo a Cortazzone, San Nazario e Celso a Montechiaro e San Lorenzo a Montiglio con S. Fede a Cavagnolo Po. (vanno riferite a questo gruppo anche le absidi della chiesa del cimitero di Montafia, vicino a Cortazzone e quella della Madonna della Neve a Castell’Alfero nonché San Martino a Buttigliera, San Martino a Piovà Massaia, Santa Maria di Vezzolano, San Vittore a Montemagno). La sensibilità verso l’elemento cromatico persiste anche nella abbondante ornamentazione delle chiese, che rivela fra l’altro i vari influssi lombardi e francesi accolti nella regione. Questa consolidata abilità nell’uso della pietra locale determina un filo rosso nella storia architettonica della Regione e non presenta cesure, qualificandosi come espressione tipica legata alla specifica sensibilità delle maestranze, non colte, ma in rapporto diretto con i luoghi sui quali si trovano ad intervenire. 8 Gli studiosi si dividono sulla provenienza di tali maestranze, da alcuni ritenute di provenienza francese, da altri lombarda, da altri ancora locale. Cfr. MACERA M – PITTARELLO L., Il romanico monferrino ed astigiano: il punto sul dibattito critico e presentazione di nuovi elementi di confronto di natura tecnico-costruttiva, in Repertorio, pp.258-262. 9 TOESCA P., Il Medioevo, Libro terzo, Torino 1965, (1° edizione 1927), pp.529-532. 10 CHIERICI S. – CITI D., Italia romanica. Il Piemonte, Milano 1978, p. 110. Si è parlato di una “scuola del Monferrato” ‘caratterizzata tra l’altro proprio dalla vivace tessitura bicroma delle murature’11: con il trascorrere dei secoli questa capacità intesa come attenzione alla superficie congiunta a quella per il materiale usato si trasforma in un linguaggio che ammette come unica decorazione concessa in un edificio unicamente quella che scaturisce dall’uso variato e originale dei materiali, non basata più sulla bicromia ma sul movimento e modulazione del cotto. Nel Rinascimento, periodo di cui non abbiamo l’abbondanza di testimonianze incontrate nel momento precedente, alcuni elementi ci parlano comunque del persistere di una tradizione lapicida che ben sa declinare in una nuova lingua la propria tecnica, soprattutto nella decorazioni più minute quali cornici, paraste, lesene, siano esse in pietra o in cotto. E’ a partire dal Seicento e nel Settecento che il filo seguito riemerge in tutta evidenza quando vanno man mano emergendo una serie di edifici del tutto privi di apparati decorativi sostituiti da modanature, quadrature, linee ondulate intrinseche al paramento murario. Imponente esempio di questo tipo di architettura barocca è la chiesa di San Vincenzo a Casorzo, opera giovanile del Magnocavallo, con la sua facciata in cotto, o sempre del Magnocavallo, a Penango (1752-1760) la Parrocchiale di San Grato, e ancora a Piovà Massaia, la parrocchiale dei Santi Pietro e Giorgio in cotto. Da ricordare inoltre le chiese di Tigliole, Settime e Tonco. L’originalità del trattamento murario delle architetture presenti nella zona del Monferrato Astigiano messa in luce dalla linea interpretativa qui proposta permette di evidenziare e valorizzare i numerosi manufatti facendoli convergere all’interno di una tradizione storica, politica e culturale con radici strettamente locali. 11 SALERNO P., Repertorio, p. 293. ECHI DELLA GRANDE ARCHITETTURA Ruolo eccezionale all’interno della produzione artistica del Seicento e del Settecento spetta al Piemonte, che dopo la sonnolenta stagione rinascimentale vede rifiorire i propri ingegni, dietro la spinta di uno sviluppo politico che prende le fila dalla proclamazione di Torino capitale del Regno da parte di Emanuele Filiberto nel 1563. L’opera di rinnovamento continuò sotto il suo successore Carlo Emanuele I (1580-1630). Una prima generazione di architetti si dedicò alla modernizzazione della città (Ascanio Vittozzi, 1539-1615, Carlo di Castellamonte 1560-1641 e il figlio Amedeo 1618-83) ed aprirono la strada a grandi maestri: Guarino Guarini 1624-1683, Filippo Juvarra 1678-1736, Bernardo Vittone 1702-1770, Benedetto Alfieri (1700-1767). Il nuovo fervore creativo giunse fin nelle provincie dove è ancora possibile rintracciare echi delle loro creazioni e dove operarono artisti più o meno noti, ma in grado comunque di realizzare opere di grande dignità ed eleganza. BERNARDO VITTONE, architetto torinese “di rara abilità, pieno di idee originali”12 pose particolare attenzione, nell’ideazione delle sue opere al contesto ambientale nel quale queste andavano a collocarsi, un dato che rappresenta “la specificità barocca della sua teoria”13. Lavorò a Torino ma anche in molte cittadine della provincia: nel territorio astigiano si incontra la sua opera a Buttigliera d’Asti e a San Damiano. In quest’ultima località realizza un progetto di altare per Ottavio Solaro di Govone, mentre nel 1758, a Buttigliera, ridisegna le forme della chiesa di San Michele, sede della Confraternita dei Battuti, chiesa fondata dopo il 1386 e restaurata nel 1565. Il progetto vittoniano per il San Michele prevedeva una cupola che fu in seguito realizzata e semplificata da MARIO LUDOVICO QUARINI, suo seguace e stretto collaboratore. Nella cittadina si occupò anche di Palazzo Freylino. E’ da ricordare inoltre, che nel Settecento, per il restauro della chiesa parrocchiale dei Ss. Martino e Biagio era stato richiesto l’intervento di uno dei massimi architetti del tempo, operante presso la casa Savoia, GUARINO GUARINI, ma l’esosità del suo progetto impedì che fosse realizzato. L’episodio è però importante perché rivela l’aggiornamento e la vivacità culturale della città. Memorie guariniane sono rinvenibili anche nel castello di Castell’Alfero caratterizzato dal corpo centrale convesso con due rigide ali porticate. Anche il primo architetto della casa Savoia al tempo di Vittorio Amedeo II, FILIPPO JUVARRA, lasciò una preziosa testimonianza della sua opera nelle provincie del Monferratoastigiano: a Settime gli viene tradizionalmente attibuita la chiesetta di San Nicolao, eretta nel 1712 su più antiche fondamenta. Suo è ritenuto anche il rifacimento di alcuni tratti del castello e delle scuderie all’interno del ricetto. Sebbene la paternità di queste opere non sia suffragata da documenti, tale attribuzione è importante perché fornisce un riferimento aulico anche per le architetture della provincia e mostra il diffondersi di stili e modi aggiornati su quanto avveniva nella capitale. Fra gli architetti più importanti della zona che partendo dalla natia San Damiano si recò a Roma per la propria formazione stabilendosi poi a Torino abbiamo FILIPPO CASTELLI (1738-1820) il quale raccolse l’eredità vittoniana applicandola in alcuni edifici come la chiesa dei Ss Cosma e Damiano, la chiesa dell’Assunta e quella di San Giuseppe; nel 1782 lavorò anche a Tonco, nella Parrocchiale. 12 13 WITTKOWER R.E M., Arte e architettura in Italia 1600-1750, Torino 1972, p. 370. PORTOGHESI P., Bernardo Vittone ingegnere Un architetto tra Illuminismo e barocco, Roma 1966,: “la specificità barocca della teoria vittoniana sta innanzitutto nell’importanza dell’adattamento dell’edificio , del suo valore di relazione rispetto al contesto ambientale”. A San Damiano nacque anche GIOVANNI PERUZZI, il quale si trasferì ben presto ad Asti, ove svolse la propria attività. A Piovà Massaia incontriamo invece il grande architetto BENEDETTO ALFIERI che lavorò nella parrocchiale di San Giorgio14 (1749-1774) e nel Castello di San Martino Alfieri mentre a Casorzo ha lasciato la propria opera FRANCESCO OTTAVIO MAGNOCAVALLO, nel 1736 nella parrocchiale di San Vincenzo, a croce greca con colonne angolari e catino ellittico. Lavorò inoltre a Penango (Parrocchiale della Purificazione) e a Moncalvo dove lasciò la Madonna delle Grazie, chiesa “a pianta longitudinale, alta e stretta per lo spazio esiguo, con un bel gioco di archi e cupole: la facciata in cotto, ha due ordini di colonne ioniche, poste tre a tre a incorniciare l’alto portale timpanato; nel piano superiore, stretta tra le colonne, si apre una grande nicchia.”15 14 TARICCO S , op. cit.: “Nel contado, iniziata nel 1749, ma terminata solo dopo la sua morte, è la parrocchiale di Piovà Massaia. A pianta centrale, tutta assorbita nel grande tiburio poligonale cui sovrasta una svelta ‘borrominiana’ lanterna, ha una mossa facciata in laterizio a contrasti concavoconvessi del più tipico sapore barocco piemontese.” 15 TARICCO S., Il Barocco in Asti e nella Provincia. APPENDICE 1 C’ERA UNA VOLTA: A ZONZO PER IL CIRCONDARIO DI CASALE MONFERRATO Perché presentare nell’ambito di una ricerca - che si propone di individuare alcune linee interpretative di un prezioso patrimonio artistico al fine di una sua valorizzazione – l’opera di un eredito locale di oltre un secolo fa? L’opera di Giuseppe Niccolini si inserisce perfettamente nel suo tempo ponendosi sulle orme dei due grandi “pionieri dell’arte”, Giovan Battista Cavalcaselle e J. A. Crowe e collocandosi così in un filone fondamentale per gli studi storico-artistici in Italia, che languivano a quel tempo in una “tradizione letteraria”, retorica, spesso priva di dati positivi sui quali fondarsi per ricostruire percorsi artistici e vicende. Inoltre, qualora studi archivistici e ricerca di documenti proseguissero e la storia dell’arte fosse “oggidì dall’industre diligenza di uomini pazienti e giudiziosi liberata in gran parte dalle molte oscurità ed incertezze che la ingombrano”16, purtuttavia si avvertiva la mancanza di una sensibilità visiva, di un esercizio ottico che fornisse dati relativi allo stile, alla maniera, alla capacità di dipingere di un artista, mancava “la pratica conoscenza dell’arte”. Ma a metà Ottocento, come testimonia il lavoro congiunto della coppia Crowe-Cavalcaselle, compare uno “strumento operativo essenziale”, il taccuino di viaggio: “L’importanza di questo sistema di documentazione, per chi si occupava di problemi storico-artistici, era andata gradatamente aumentando nel corso degli ultimi decenni. Già alla fine del Settecento infatti il taccuino di viaggio era stato basilare strumento per il Lanzi nel suo lavoro di preparazione della Storia pittorica. (…) La sua storia potrebbe assumere valore proprio come filo rosso da seguire nell’intricato terreno del rinnovamento della storia dell’arte nella prima metà dell’Ottocento e in particolare della progressiva affermazione di una figura di conoscitore, per il quale il problema dell’autenticità e dell’attribuzione non fosse separabile dal discorso storico.”17 Proprio come taccuino - “le mie note di viaggio” - nasce l’opera di Niccolini, “affastellamento poco grazioso di notizie storiche, archeologiche statistiche e corografiche: di grottesche scene e di descrizioni, più o meno poetiche e zoppicanti, dei panorami, dei castelli, dei monumenti e dei luoghi tutti da me visitati nel mio giro periodico del casalese circondario.” Questo testo può essere un punto di partenza, un esempio per una sintesi aggiornata sugli ultimi studi e ricerche d’archivio, di carattere divulgativo ma scientifico, per restituire visibilità ad un patrimonio che sonnecchia disteso fra le colline. Il testo di Niccolini è esemplare nella descrizione del contesto paesaggistico e della strutturazione urbanistica dei vari luoghi: poche frasi permettono al lettore di collocarsi visivamente nel luogo narrato. Dietro questo lavoro di sintesi sta una profonda conoscenza dei luoghi e una sensibilità visiva che permette di distinguere all’autore le emergenze più significative e segnalarle. Si passa poi alla considerazione storica di ciò che c’era prima, in un determinato luogo e subitaneamente, allo stato di conservazione. E’ evidente che nei tempi attuali con i censimenti, le schedature, l’attività delle sovriintendenze registrino scientificamente la situazione ma alcune note su questi argomenti contribuiscono a raccontare la storia di un monumento e anche della comunità a cui appartiene. Il racconto inoltre, ben lontano da una asettica impersonalità, fa emergere alcune caratteristiche, rende vivi e “comprensibili” luoghi e monumenti. 16 17 LEVI D., Cavalcaselle Il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Torino 1988, p. XXVII. LEVI D., op. cit., pp. 42-43. In un campo come quello dell’arte piemontese frammentato da una originaria pluralità di momenti e stili un racconto di taglio geografico come quello proposto da Niccolini (depurato delle note più anedottiche), riesce a unire in un mosaico, tasselli altrimenti vaganti e dispersi, nonostante l’autore stesso parli di “affastellamento”. Il taglio per zone, e regioni sembra un efficace viatico e punto di partenza per avvicinare un pubblico di non cultori ma che è il primo attore cui un processo di valorizzazione si rivolge, come individuato dai più attuali studi specifici. Riprendere una formula antica che era stata importante all’interno di un processo di rinnovamento della storiografia dell’arte, ha una motivazione legata alle componenti di cui un siffatto lavoro si sostanzia: in primo luogo, un interesse per il patrimonio artistico che diventa “affetto” quando vi si ritrovano le ragioni di una personale possibilità di crescita e al tempo stesso vi si rintracciano i valori di una società, il rigore scientifico che è alla base delle osservazioni e delle note, una sensibilità visiva che diventa creatività nell’interpretazione di quanto osservato, nell’individuazione di nessi, del concatenarsi e raggrupparsi dei fatti, elementi che sono alla base della critica artistica, ed infine, la capacità di comunicare quanto elaborato che viene proposto come esperienza e scoperta da condividere. Alfiano-Natta - antico castello dei Natta; ma ora in luogo di esso posa modestissima casetta di contadina famiglia. E nei terreni che il castello stesso attorniavano si rinvenne grande quantità di tombe, di vasi e di armi; ma tutto andò naturalmente, ed inesorabilmente perduto. - fontana dell’acqua solforea - Ma una visita in Alfiano va pur fatta alla chiesuola campestre di San Defendente più volte colpita dal fulmine, perché là potrete osservare una tela del Caccia rappresentante la Vergine con Sant’Antonio Abbate e s. Defendente, che, a Dio grazie, è essa in buono stato. - E quando ancora vi prenda voglia di vedere altri quadri del Moncalvo,recatevi nella parrocchia del luogo, perché là pure contemplerete, esposto in un sito assai infelice, un Cristo morto in grembo alla sua madre; e quindi ancora: Sant’Antonio, la Vergine e San Gioannino, la Vergine e S. Luigi, opere queste ultime di suor Orsola Caccia e delle sue sorelle. Castagnole Monferrato Esso conserva tuttavia la maggior parte delle vecchie sue mura di cinta; ma il castello è scomparso - La chiesa parrocchiale di Castagnole (San Martino) non è di antica costruzione. Ha essa nulla di notevole all’infuori di tre quadri del Moncalvo, la “Annunziata” cioè, “Sant’Antonio” e la “Vergine del Rosario”. Però nella cappella di patronato della casa Bertolero si osserva una preziosa scultura in legno, la quale rappresenta l’”ultima Cena”. Siffatto delicato ed artistico lavoro fu eseguito in Roma, or sono molti anni, nel convento di Santa Maria - possiede un bel teatrino Calliano (antico Castrum Cadellianum) - Di antico a Calliano si notano le mura di cinta, i resti di qualche gotica casa dai fregiati ed ampii finestroni, ed una parte della chiesa dedicata a Nostra Donna Annunziata. - La casa ove dimorò il celebre pittore Gugliemo Caccia, si vede tuttavia, ma resta ben poca cosa della sua primitiva struttura. - Il castello venne raso al suolo - La chiesa parrocchiale di Calliano (…) dirò ch’è un bell’edifizio, ma pieno di screpolature. - Vari sono i quadri esciti dal celebre pennello del Caccia, che la parrocchiale di Calliano conserva, e fortunatamente questi sono in buono stato. - Un’altra tela di qualche valore artistico, perché è delle figlie del Caccia, trovasi pure nell’antica chiesuola dell’Annunziata - Cesare Della Sala Spada. Questi vi presenterà, tra gli altri buoni quadri che possiede, una Maria Maddalena che è lavoro finitissimo di Guglielmo Caccia Casorzo - Dissi che la chiesa “della Madonna” conta parecchi secoli. Veramente la parte di primitiva costruzione, tutta in pietra da taglio, d’ordine bisantino che ancora si ammira, è limitata all’abside ed alla parete che guarda mezzodì. In tempi più recenti si - - - è poi addossato alla vecchia chiesuola un tempietto grazioso di forma circolare ed a colonne. Questo venne dotato di elegante campanile con ballatoio e ringhiera. Sicchè ora si osservano due chiese unite in una sola; cioè la nuova d’ordine composito con pavimento a mosaico ed ardita cupola appoggiata su colonne: e la vecchia, ristoratasi, ma tutta ancora improntata delle sue antiche linee. La prima ti pare dedicata a San Giorgio, se badi ad un quadro appeso di sopra dell’altare; e la seconda è sacra alla Vergine di Nazareth, come appare da un’antichissima pittura rappresentante la Madre del Cristo. Esternamente, sul vecchio muro dalle belle finestrine a colonne e dai ricchi fregi, si osservano scolpite regolarmente varie iscrizioni, epigrafi, memorie. …feudale castello. Così almeno m’assicurano le salde e vecchie mura di cinta ed un avanzo di torre rotonda chiesa parrocchiale di Casorzo, la quale è un monumento d’architettura costrutto sui disegni del chiaro Conte Magnocavallo di Varengo. Svelto ed elegante edifizio, il suo pavimento a mosaico, l’altare maggiore che è ricchissimo, i due quadri del Caccia che là sonvi ma alquanto trascurati (…) quello rappresentante S. Francesco è abbandonato alla polvere, ed è anche privo della necessaria cornice. Ma vi ha di peggio nella chiesa dei Disciplinanti, chè quei confratelli (…) hanno permesso la scomposizione in undici quadri d’una superba tavola in legno rappresentante la Vergine ed i 12 Apostoli; opera questa di buona scuola ed antica assai. E nella stessa Confraternita avvi ancora un dipinto di suor Orsola Caccia – Il Cristo, S. Sebastiano e S. Carlo - … Il quadro che trovasi nella piccola e graziosa chiesuola dedicata alla madre della Vergine Maria e che rappresenta Sant’Anna è in ottimo stato appunto perché trovasi esso in buone mani. Cunico - La chiesa parrocchiale eretta nell’anno 1750 sulle vecchie mura di cinta, è un edifizio di forme assai regolari; in essa sono due quadri delle figlie del Caccia, ma in istato deplorevole. Un quadro prezioso (…) si è quello che possiede la confraternita di S. Michele. Esso è lavoro finitissimo del Moncalvo. Grana L’abitato di Grana si compone di due parti distinte: il novello, fabbricatosi fuori e tutto all’intorno della vecchia muraglia di cinta; ed il vecchio che sta entro la medesima cerchia. Quest’ultimo è in parte scomparso per far luogo alla maestosa chiesa parrocchiale. - tre tele del Moncalvo si trovano nella chiesuola dedicata a M. V. Annunziata: l’Angelo Gabriele cioè, che appare alla Vergine di Nazareth; l’Adorazione dei Magi (…) e la Madonna di Monte Carmelo - la ricca e maestosa parrocchia di Grana possiede altri quadri del Moncalvo e delle sue figlie, che rappresentano la Vergine del Rosario, Sant’Anna e S. Giovanni. Altre tele della medesima scuola si trovano in San Pietro Martire e nella chiesa annessa al cimitero del luogo; ma tutte in completa rovina! - Pulpito, che è lavoro correttissimo del Varallo di Moncalvo. Grazzano - patria di Anselmo Morra insigne cultore delle lettere, di Raimondello Bava peritissimo delle leggi - Dell’antichissima chiesa abbaziale restano tuttora in piedi la maschia torre delle campane – stupendo monumento di stile longobardico - una parte delle cappelle, del convento, e ancora tutto il coro. - La facciata della chiesa (Santi Vittore e Corona) venne, or non è molto, restaurata (…) Il coro di questa è un artistico lavoro in legno intagliato a fregi ed a figurine, e là si conserva una tela, eseguita in Roma nell’anno 1646, rappresentanti i Santi Vittore e Corona. - Del celebre pittore monferrino Guglielmo Caccia l’Abbadia stessa conserva una Vergine del suffragio, un’Assunta in cielo e due affreschi nella cappella principesca, ove sono tumulate le spoglie mortali del grande Aleramo. - Un quadro però di vero pregio artistico e di scuola fiamminga, che l’Abbadia possiede ancora si è quello rappresentante la morte di S. Francesco Zaverio. - Moncalvo: un’altra superba tela di questo celebre pittore trovasi nella chiesuola dedicata allo “Spirito Santo” e rappresenta appunto il Divino Spirito disceso sugli Apostoli. Moncalvo - vetusto convento di San Francesco – ora parrocchia - il quale convento s’innalza appunto sulle rovine delle vecchie fortificazioni. - Torri di S. Francesco, di Sant’Antonio, della Madonna e quella modestissima di S. Marco pare che stiano contemplando il vecchio ed abbandonato convento dei Cappuccini - chiesa monumentale di San Francesco. Di questo antico convento eretto a Monteguardo dal Marchese Guglielmo VII non restano se non parte del chiostro, il coro, il campanile ed un capitello. La nuova chiesa parrocchiale venne, sui disegni del Padre Rovere –anno 1700 - addossata al vecchio coro di stile gotico: essa è composta di tre navate d’ordine composito, e la cadente facciata si vuole ora sostituire con altra disegnata da Gabriele Cappello. (…) Omettendo di farvi parola degli stucchi eseguiti nell’abside dal Padre Quagliotti, i quali sono d’una vera artistica bellezza…In San Francesco sono le tombe di taluni principi del Monferrato ed anche quella di Guglielmo Caccia da Montabone “pictor egregius”. Guglielmo Paleologo vi venne seppellito nell’anno 1400; il marchese Teodoro Paleologo nel 1418: il cardinale Teodoro nel 1481 e vi si trasportarono pure le ceneri del Cardinale Ottone Aleramo morto nel 1251. Sono del Moncalvo: il quadro dell’altare della cappella dedicata a Sant’Antonio; gli scherzi dei puttini dipinti nella stessa cappella, le Stimmate di San Francesco; San Maurizio; Sant’Antonio; l’adorazione dei Magi, San Giovanni; Sant’Orsola; San Luca e Gesù nel deserto. E delle figlie del Moncalvo: Immacolata Concezione; San Sebastiano, Madonna degli angeli. - Vi sono inoltre: I miracoli di S. Antonio; l’Assunta e S. Giorgio del Sacchi ed altri lavori pregievolissimi di Ferdinando Pozzo, di Carlo Gorzio e del Beccari tutti cittadini moncalvesi. - Altre tele del Caccia, Moncalvo conserva nella chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate: S. Carlo, cioè e Sant’Anna. Un affresco rappresentante S. Giovanni Battista trovasi pure nella chiesa a questo santo dedicata. Un altro affresco del Moncalvo s’ammira nella votiva cappella di S. Rocco, lavoro questo di grandissimo pregio, ma malamente conservato. - - - E se vi piace osservare altri quadri del Caccia, delle sue figliole o di altri chiari pennelli, fate di essere ricevuti dalle ricche e distinte famiglie della città, quali sono quelle dei Testa-Fochi, dei Dal Pozzo, dei Manacorda, dei Minoglio, dei Beccari, dei Malaterra, ecc. Piazza amplissima di Moncalvo ornata di graziosi palazzi (tra i quali quello che un dì abitavano i principi di Monferrato) di un teatro dovuto all’ingegno dell’architetto Marini Stendardi delle Crociate Pieve distrutta siccome vuolsi dagli Ariani, conserva tuttora una lapide (…) romana, onde si sappia che di Roma antica Moncalvo possiede anche qualche monumento. Montechiaro - era anticamente un solo e vasto castellaccio, per entro le mura del quale si è col trascorrere degli anni, costruito l’attuale abitato. - La piazza di Montechiaro, alla quale si ha accesso per il grande portone della vecchia torre, è stretta […] La quadra ed unica torre, priva dei merli suoi e del pesante suo ponte levatoio, si è il solo monumento medio-evale che ancora serba l’antica Montechiaro. - Alla chiesa di Sant’Antonio extra muros bisogna andarvi assolutamente; avvegnachè in essa si conserva (??) un quadro attribuito niente meno, che al pennello del Perugino! (?) Rappresenta questo quadro la “Fuga in Egitto” e vi dico ben tosto che esso è una vera meraviglia… - Parrocchiale dedicata all’Assunta: la quale come edifizio non ha nulla di rimarchevole, vi sono due tele delle figlie del Caccia -una Santa Caterina cioè ed una Vergine del Rosario – ma in uno stato veramente deplorevole. - Nell’altra poi dedicata a San Bartolomeo apostolo avvi pure un superbo quadro del Caccia, e conservato (?) pur esso in una maniera veramente scoraggiante. - San Lazzaro o come dicono i Montechiaresi, a “San Lasè” (…) tempietto gotico, lindo, elegante, ricco e sufficientemente ancora ben conservato, non ostante i suoi molti secoli di esistenza. Montemagno -patria dei chiari letterati Gian Francesco Apostolo e Guglielmo Moizio -Esso è regolarmente costrutto […], pieno di una popolazione attiva, intelligente, robusta; e, dopo dell’antico Moncalvo, si è il comune più popolato che conti il nostro Circondario. - Antico e ben conservato castello di Montemagno. Invero il castello di Montemagno si è uno di que’ pochi del nostro Monferrato che ancora conservino i loro caratteri prettamente medioevali; e se debbo prestar fede ad un’iscrizione malamante scolpita, che stentatamente lessi poi nei sotterranei di esso, la sua costruzione data dall’anno 1314. - Le mura, le quali cingevano e tutte serravano il vecchio abitato di Montemagno, esistono in parte pur tuttavia; e che questo ben conservato castello, all’infuori di poche fattegli modificazioni, è di pretto stile gotico. - Il nuovo abitato di Montemagno è disposto in bell’ordine lungo la cinta occidentale e settentrionale del castello - Elegante edifizio della chiesa parrocchiale - La chiesa parrocchiale di Montemagno, ornata di un’ampia ed elegante scalea di pietra di Cumiana, abbellita pure di un grazioso atrio circolare, venne ampliata nell’anno - - - 1824 sui disegni dell’Ingegnere Del-Mastro. L’interno di questa chiesa, di forma circolare, è reso assai maestoso da una superba cupola dipinta dal Pasqualini Nel coro di questa chiesa si conserva un quadro di “certo Calvi” (del Moncalvo) Un altro quadro preziosissimo, ma in uno stato veramente deplorevole, fu da me rinvenuto nel Battisterio: la testa del Salvatore ornata di regale diadema. E quando a Montemagno voi vogliate osservare altri buoni dipinti, recatevi a visitare la sala da pranzo in prevostura, la chiesa di San Michele, la Madonna di Vallinò, l’alloggio delle sorelle Cunico e la galleria di casa Gioannelli. Grande venerazione in cui era tenuta la “Vergine di Valinò” e come questa, che è una antichissima statua di legno, sia processionalmente portata in paese ogni qualvolta la “siccità” minacci le campagne. Se voi andrete un giorno alla Madonna di Vallinò fate di osservare l’antico e preziosissimo quadro “La nascita di Gesù”. Montiglio - Chiesa del camposanto: opera questa del secolo XII e di stile tedesco. E’ essa un vero monumento, ma barbaramente insultata da un ingegnere del luogo (…) - La mole del castello se non avesse qualche resto di mura di cinta, avrebbe ora mai perduto il carattere medio-evale. (…) Del teatro e della cappella del castello, entrambi disegnati e dipinti dallo stesso signor Marchese, non faccio parola; chè il merito artistico del Cocconito è abbastanza noto (…) una scaletta a chiocciola ed oscura, che attornia sue spire per entro dell’unica e vecchissima torre del castello, alla quale, in tempi più recenti, hanno poi addossata la moderna lanterna o belvedere. Murisengo - collocato con bell’ordine sul dolce pendio della collina sassosa e sormontata dal vecchio castello degli Scozia di Calliano - grazioso e circolare tempietto che, dedicato alla Vergine, sorge sulla nostra via ed ammiriamone l’ancona dell’altare maggiore la quale è opera di classico pennello del secolo decimoquarto. Non dimentichiamo ancora i pochi avanzi della vicina chiesa di S. Pietro, i cui fregi delicati, le cui esili e raggruppate colonne stanno cadendo a frantumi - castello - chiesa di San Candido - chiesa vicariale, che è superbamente bella, ma anche sconvenientemente mal conservata, benchè sia di corretto disegno, ricca di stucchi, di statue e di preziosi affreschi. Odalengo Piccolo - del forte, ampio e vecchissimo castello di Marco addossato al colle di Santo Spirito, non rimane ora che la torre attorniata però da moderni edifizi. Questo castello era già feudo dei nobili Fresia - spada, spallini e le decorazioni d’un ufficiale spagnuolo (?): oggetti tutti stati ritrovati nell’anno 1866, nel cantone dei Dorati: tomba a larghissimi mattoni. Penango - Sono invero tre case quelle che compongono il nesso centrale del comune di Penango: ma tra di queste case sorgono eleganti e svelti due architettonici edifizi, dovuti all’ingegno del conte Magnocavallo di Varengo: la chiesa e il così detto casino. Bisogna osservare la purezza delle linee formanti questi due edifizi (…) Nella chiesa parrocchiale sono due tele del Moncalvo diligentemente conservate; una rappresentante la vergine con San Grato e S. Antonio Abate e l’altra S. Michele e S. Giorgio con la Vergine. - Si ammirano inoltre in questa chiesa il pulpito e la cassa dell’organo. Entrambe sono diligentatissime opere del falegname Penanghese il fu Gioanni Alemanno, autore del rinomatissimo coro della Cattedrale di Saluzzo. - Cappella del casino, completamente occupata dalle bottiglie, dai ragni (…),la povera Vergine dei sette dolori effigiata da un provetto pennello sopra l’altare, (…) Piovà - La chiesa parrocchiale della Piovà è l’edifizio più notevole che abbia il comune. (…) La chiesa è opera dell’architetto Conte Alfieri, zio del nostro immortale tragico. Questa vera cattedrale è d’ordine corintio, a croce latina, ornata di preziosi stucchi e coperta da una tazza centrale, che, sormontata da svelta lanterna, è un portento dell’arte. - Questa chiesa venne ultimata nell’anno 1774: (…) Si nota ancora in questa chiesa: l’altare maggiore composto di marmi finissimi e di lapislazzuli, il quadro dell’ancona che è del Taricco di Cherasco ed infine l’elegante campanile sul quale dondolano cinque campane. Scandeluzza - San Fabiano e San Sebastiano: (…) tempietto di stile Longobardico (…)si conserva in questa chiesuola elegante e maschia, ancora un affresco del 429. - Scandeluzza possiede pure un’altra antichissima chiesuola dedicata a Sant’Emiliano - Dello scomparso castello fortissimo di Scandeluzza non restano che poche mura di cinta e pochi altri ruderi. Sul luogo già occupato da esso sorgono ora la parte più vecchia dell’abitato, la chiesa parrocchiale ed il palazzo dei Conti Serra madio di Mondonio. - La chiesa parrocchiale, di non vecchia costruzione, ha nulla di rimarchevole all’infuori di due trascurate tele delle figlie del Caccia: la Vergine del Rosario cioè, e la Incoronazione. Tonco - Santa Maria è una di quelle vetuste chiese a soffitto, piena di artistici stucchi. Il soffitto poi è tutto dipinto a fogliami con vivaci colori, talchè, malgrado i molti secoli già trascorsi dal dì della costruzione della chiesa, le pitture sono ancora chiaramente visibili. Sventuratamente a Tonco quest’antico monumento dell’arte cristiana sta sfasciandosi (…) Perfino alcune tele delle figlie del Caccia, o di altri chiari pennelli, sono siffattamente malconcie… - Parrocchiale (N.D. Assunta) Edifizio questo di non antica costruzione, elegantemente severo, pieno di bellezze architettoniche, che forma ornamento grazioso alla bella piazza del luogo. L’interno di questa parrocchia che è un grazioso succedersi di linee purissime, rivela l’ingegno e la buona scuola dell’architetto Castelli che edificava il monumento. Viarigi In un diploma dell’869, emanato dall’Imperatore Ludovico II (Antiq. Ital, VI, 27), è denominato Vaccaritia e Vaccarigae, indicante luogo ove tenevansi mandrie di vacche. In altre vecchie carte è dettoViaritium, Viarisium, ed anche Viarizium. - torre dei conti Bilioni; - casa di Benedetto Gatti: superbo salone ornato di un bel dipinto del Monferrino Pavese. - Parrocchiale: La parrocchia di Viarigi ha nulla di rimarchevole, ad eccezione della tribuna che è diligente lavoro del bravo sig. Orio falegname del paese: del pulpito e di tre quadri delle figlie del Caccia che la chiesa parrocchiale medesima malamente conserva. Difatti la Vergine del Rosario è rotta: la Sacra Famiglia col piccolo Gioanni è in mal essere; e la Assunta fu ritoccata in barbara guisa. Villanova - Chiesa parrocchiale: Essa è ben antica, e la antichità sua si riconferma dallo stile del coro, il quale, giusta quanto ne dicono gli intelligenti, appartiene ai tempi di Roma. Nei tempi di mezzo però la chiesa di Villanova venne ampliata e ridotta a tre navate pur conservandone lo stile Bisantino. - Nella medesima erano erette varie Compagnie aventi il proprio altare - In questa chiesa sono da osservarsi i marmi finissimi ed abbondanti; come merita l’attenzione degli artisti un quadro ad olio di Antonio Caracci, e rappresentante Gesù fanciullo - 1873: venne pur anco costrutta l’attuale facciata d’ordine gotico sui disegni del valentissimo architetto, Il Conte Edoardo Mella Arborio da Vercelli. Villa San Secondo - non è il nome antico del borgo. Si vuole che questo paese si chiamasse prima “Cossombrato” dal nome del signore che l’aveva in feudo. Il Cossombrato, cercato un dì dal popolo furente potè scampare un grave pericolo riparando altrove; i cittadini liberi di loro stessi diederonsi alla vicina Repubblica astense, la quale in ricompensa aggiunse alla sua novella villa, l’appellativo San Secondo. - Villa serba ancora qualche tratto delle mura di cinta; ma del vecchio castello nulla più rimane chè sul luogo, ove questo ergevasi, ora sorge la bella chiesa parrocchiale. - La parrocchiale, eretta or sono cento anni appena, è un superbo edifizio d’ordine corintio ed a croce latina. In essa avvi da osservare l’ancona dell’altare maggiore, l’altare stesso e due finissimi confessionali. L’altare maggiore è un composto graziosissimo di ricchi marmi ed ornato di lapislazzuli; il quadro dell’ancona è del Moncalvo e rappresenta il martirio di San Matteo; la dorata cornice di questa preziosa tela è opera artistica del bravo Faletti Giovanni da Villa San Secondo. I due confessionali sono poi a ddirittura due lavori stupendi della scuola di Varallo… SS. Trinità opera dell’architetto-falegname Domenico Parena LA STORIA DI UN POPOLO E DI UNA TERRA ATTRAVERSO I SUOI SANTI I MOTIVI DI UNA RICERCA Particolarità del territorio del Monferrato Astigiano, terra di verdi colline e vigneti, è quella di essere disseminato di una miriade di pievi18, chiese, cappellette e piloni votivi, riferibili ad età diverse e comunque segno di una devozione intimamente legata alle vicende personali e storiche del popolo che abitava e tuttora abita quei luoghi. Molte edifici religiosi (in particolare di epoca medievale) risultano oggi dispersi nel territorio essendo sparito il contesto all’interno del quale erano sorti mentre altri, pur lontani dai centri abitati, presentano ancor oggi una situazione simile a quella del passato, occupando quel territorio tra città e campagna che in tempi trascorsi veniva chiamato dei “Corpi santi”. Le trasformazioni avvenute all’interno della compagine sociale dei vari insediamenti ha fatto sì che chiese un tempo parrocchiali o comunque al centro della vita religiosa di una comunità siano venute a trovarsi lontane, in territorio incommodus, siano cioè divenute chiese campestri, utilizzate per lo più solo per le celebrazioni dedicate al santo cui erano intitolate. La latitanza dei fedeli, che si rivolgevano a chiese situate all’interno del nuovo centro abitato, il mancato uso e la forzata manutenzione pena il loro abbattimento, ha consentito “la conservazione di stili, disposizioni non più attuali, a differenza di quanto è accaduto – o comunque può essere accaduto - a edifici ininterrottamente funzionanti per una comunità che, a seconda delle proprie esigenze pratiche e di gusto, li rimodellava di generazione in generazione, fino a cancellare ogni traccia di strutture originarie.”19 Compito richiesto dalla sensibilità di chi oggi percorre le antiche strade drappeggiate di preziose vestigia è quello di comprenderne il senso, il significato umano e storico, per cui la vista di un “monumento” non suscita solo un attimo di piacere estetico ma una memoria, oggetto di riflessioni, confronti e considerazioni sull’agire dell’uomo e sul percorso della sua vicenda storica, riportando il “monumento” stesso all’origine etimologica del suo nome, dal latino monere, far ricordare. Ricordo che, per non diventare pietra fossile, deve avere una forza attiva che si congiunga al presente sotto la veste di un’identità che forgia luoghi ed uomini. Per restituire o rendere più evidente il valore dei siti religiosi che caratterizzano tutto il territorio del Monferrato Astigiano, si è proposto un percorso che prende origine dall’interesse verso le vicende di quegli uomini che tali luoghi hanno costruito, dunque una 18 TOMEA GAVAZZOLI M. L., Pievi del territorio novarese in «Capire Italia /Itinerari Il patrimonio storico artistico», Milano 1979, p. 39: “Il termine pieve, all’origine del Cristianesimo identico al classico ‘plebs’ e designante il popolo dei battezzati, assunse nell’Italia settentrionale e centrale, a partire dal IX secolo, un significato più specifico e venne riferito alla struttura organizzativa del territorio gravitante intorno ad una chiesa matrice; pur mantenendo il valore religioso, il vocabolo ricevette pertanto anche una connotazione amministrativa e politica. Le pievi, dapprima poste sotto l’autorità vescovile anche per quanto concerneva il loro patrimonio o la investitura dei loro beni, lungo il corso del XII secolo divennero sotto questo profilo autonome, mentre rimasero ovviamente dipendenti nel campo spirituale e sacramentale.” 19 BORDONE R., “Già parrocchiale, ora campestre e minacciante rovina…” Tracce romaniche per una storia del popolamento nell’Astigiano medievale, in “Le chiese romaniche delle campagne astigiane. Un repertorio per la loro conoscenza, conservazione, tutela” a cura di PITTARELLO L, Asti 1984 – Torino 2002, da ora in poi indicato come Repertorio, p. 7. storia delle genti che solo a tratti sconfina nella storia fatta di eventi e di popoli: “Non esiste la storia, la società. Esistono uomini che fanno la storia e la società.” Si è cercato di individuare attraverso il semplice spoglio delle devozioni maggiormente ricorrenti, da quali sentimenti, da quali paure o speranze, necessità o sciagure gli uomini di un tempo erano mossi, cosa li ha spinti, aldilà delle esigenze liturgiche o politiche dell’organizzazione chiesastica, a costellare di tanti piccoli o grandi capolavori i luoghi in cui si svolgeva la loro vita, sia personale che in seno ad una comunità. Ritrovare la radice primaria di tale movimento è parso un metodo possibile per restituire a questi luoghi vitalità, renderli nuovamente partecipi dell’esperienza di chi li visita o di chi distrattamente li incontra ogni giorno sul proprio camino. ATTRAVERSO I SECOLI Alla caduta dell’Impero Romano rimasero in piedi, in territorio piemontese, alcuni dei centri nati dalla possente organizzazione imperiale nei quali, già in epoca costantiniana si erano stabilite alcune sedi vescovili. I vescovi furono nel Medioevo i protagonisti della struttura della vita cittadina ed in Piemonte particolarmente importante fu Vercelli, con il suo vescovo Eusebio, la cui autorità religiosa e politica dominò l’intero territorio regionale. La chiesa di Santa Maria Maggiore di Vercelli divenne la chiesa madre di tutte le fondazioni religiose in Piemonte e, come afferma Sant’Ambrogio, tutti i vescovi dell’Italia settentrionale provenivano a quel tempo dal cenobio eusebiano. Strumento fondamentale di colloquio tra le autorità spirituali ed il volgo fu il culto dei santi che nacque direttamente dalla devozione per i martiri, termine che in origine significava “testimone”. I luoghi dove i martiri avevano “testimoniato” la propria fede, in cui avevano operato gesta miracolose o in cui erano stati sepolti, collocati in ogni angolo, anche il più lontano del mondo romano, cominciarono ad essere meta di visite e passaggi che in seguito, con il fondarsi di una tradizione avrebbero giustificato l’erezione di una cappella o di una chiesa. Fu tra i primi martiri che le comunità religiose scelsero i propri santi protettori, affidandosi al loro aiuto e alla loro protezione. Patrono “è termine del linguaggio giuridico del latino classico, ed indica l’avvocato difensore: il patrono quindi non è un semplice protettore, al quale occasionalmente rivolgersi, ma è la persona dalla quale ci si aspetta di essere difesi nel giudizio di Dio individuale e finale. Poiché poi il santo è proposto per l’edificazione della Chiesa, cioè la sua santità, è anche modello di vita, e le sue virtù divengono esemplari per i suoi patrocinati, che da questo modello restano in un certo senso determinati, e si può dire dal patrono mutuino alcuni tratti del carattere e modalità di comportamento. Nel riferimento ai propri santi si forma e si esprime dunque anche l’identità culturale di un popolo, e nella relazione tra patrono e protetti, si può dire che la scelta sia reciproca. […]”.20 In questo momento però, ancora agli albori della cristianità, molte dei personaggi verso i quali si rivolge la preghiera dei fedeli, fioriscono sulla base sia di eventi storici sia di invenzioni fantastiche o letterarie; ma siamo in un’epoca in cui la visione del mondo non si compone solo di realtà: “La sua terra, sicuramente non incognita per la gente medievale, sebbene piena di mistero e di incerta e indistinta gloria, non è la terra che noi intendiamo; ci troviamo di fronte a un mondo di costruzione metafisica e di passione spirituale.”21 Di alcuni dei santi più amati fra i cristiani come ad esempio san Giorgio, o, per rimanere nel territorio del Monferrato Astigiano, san Secondo, san Cristoforo o san Defendente con i suoi compagni della Legione Tebea, non si hanno notizie certe, il loro culto, sebbene diffusissimo, si fonda su stratificazioni di leggende e racconti. Molti dei santi venerati in questo momento, altro non sono che una trasformazione degli antichi dei pagani, come è il caso di san Michele direttamente legato a Mercurio (e a Mitra). Inoltre non è difficile riconoscere nell’adorazione di queste figure salvifiche “i sentimenti che nell’antichità caratterizzavano il culto degli dei, quando preghiere e offerte erano considerate come un ‘contratto’ fra le due parti. Analogamente, non è escluso che la grande diversità di figure compensasse in un certo senso la perdita delle antiche e familiari divinità invocate in caso di bisogno, e forse anche per questo motivo la venerazione dei santi diventò una parte così importante della pratica religiosa cristiana”22 tanto da informare il calendario liturgico, in 20 LANZI F. E G., Come riconoscere i Santi e i patroni nell’arte e nelle immagini popolari, Milano 2003. 21 22 PETOIA E., Miti e leggende del Medioevo, Roma 1992, p. 7. VAN LAARHOVEN J., Storia dell’arte cristiana, Milano 1999, p. 39. origine, una serie di norme a carattere locale per la celebrazione delle feste nel corso dell’anno. Nel Medioevo, l’età d’oro per la diffusione del culto dei santi fu quella longobarda, diffusione favorita dall’intensificarsi dell’opposizione all’arianesimo dei barbari, presto convertiti, già nel VII secolo al Cattolicesimo. In un’epoca dominata dall’idea del Male personificato dal diavolo la Chiesa si pone come unica via di salvezza (anche materiale visto il controllo attuato dalle pievi sul territorio) sia attraverso i suoi diretti ministri sia attraverso quei santi che possono intercedere e salvare i peccatori. In questa visione gli eventi naturali quali alluvioni, carestie, epidemie (strettamente legati ad una specifica realtà locale rurale) vengono interpretati come punizioni divine e accellerano il ricorso a quei mediatori in grado di far cessare catastrofi e donare una nuova purezza. Per questo l’analisi, sia pur qui svolta solo a livello indagativo, delle devozioni più frequenti sul territorio, permette di raccontare una storia particolare, quella di un mondo spirituale e religioso in cui si riflettono le aspirazioni, le ansie, i timori di un popolo ma anche delle sue attività, del suo rapporto con il territorio in cui si svolge la vita quotidiana sia dei grandi signori, principi ed imperatori, ma anche di un’umanità minuta, dei problemi e degli eventi, provocati dall’uomo o dalla natura, che una data popolazione ha dovuto affrontare. Una storia che ha lasciato in eredità, in ogni epoca, una messe di raffigurazioni e di immagini artistiche che rappresentano un grande mosaico in cui storia materiale, storia spirituale e artistica di un luogo si fondono consentendo uno sguardo più approfondito. Alcuni culti nati in epoca antica si perpetrano fino ai nostri giorni come quello di san Secondo (chiamato semplicemente dagli astigiani “il Santo), altri come quello di san Rocco hanno avuto momenti di intensa fama in coincidenze di epidemia di peste di cui è il protettore, altri ancora testimoniano degli apporti-rapporti con altre regioni confinanti, fatto questo che ha sempre rappresentato in ogni campo una peculiarità della regione. Nel periodo della CONTRORIFORMA l’autorità dei santi cristiani è messa in discussione dalle nuove correnti luterane e calviniste: il culto delle immagini sacre impedisce il rapporto diretto di ciascun uomo con Dio. La Chiesa di Roma, contraria al principio del “sacerdozio universale” ribadisce la propria funzione di mediatrice – attraverso il clero - tra uomo e Dio e conseguentemente attribuisce anche al culto dei santi una importante funzione di mediazione e di esempio morale. La venticinquesima e ultima seduta del Concilio di Trento (1545-1563) affrontò il tema del rapporto tra la Chiesa e l’arte: l’ordine del giorno prevedeva anche la discussione sul culto dei santi, individuando in tal modo uno stretto legame i due argomenti. La risoluzione del Concilio ribadì l’importanza delle immagini sacre e ne prescrisse la comprensibilità, giungendo a controllare l’ortodossia delle rappresentazioni. I riformatori protestanti che avevano attaccato il culto dei santi, contestandone l’attendibilità storica, suscitarono la necessità di difendere tale culto. “Furono i Gesuiti per primi, sull’onda lunga della Controriforma, ad avvertirne l’esigenza. Nacque così per loro iniziativa una scuola – detta dei Bollandisti dal nome del fondatore, il belga Jean Bolland – con lo scopo di discernere i dati autentici da quelli leggendari. Ne scaturì un’agiografia scientifica, la cui espressione più vitale fu la compilazione, tuttora incompleta, degli Acta Sanctorum, cioè delle vite dei santi basate su fatti storici acclarati (gli “atti”) e sull’analisi delle ragioni che avevano determinato nei secoli l’evolversi della tradizione allegorica. 23” 23 CUOMO F., L’età dei santi. Storie di uomini e di miracoli, Presentazione, in «Medioevo Dossier »Anno 3 n. 4/00 p.5. Ma il culto dei santi e il rispetto della prassi religiosa entrava anche in altri modi più sottili nella vita quotidiana : nel Rinascimento, “dai verbali dei processi criminali […] veniamo a sapere che quasi mai testimoni e imputati ricordavano una data come lo si fa oggi, cioè con giorno, mese e anno; quasi invariabilmente compaiono invece espressioni come la ‘vigilia di San Giovanni’, tre domeniche dopo Pasqua, l’anno del perdono (cioè del Giubileo). Persino le brevi durate venivano misurate con quello che potremmo definire un ‘cronometro celeste’. Non si diceva cioè, ‘per dieci secondi’, bensì ‘per lo spazio di un Pater Nostro’, ‘per la durata di un Credo’, ‘per tre Ave Maria’. Se la presenza della religione cristiana tra gli uomini della prima età moderna si fermasse qui, si potrebbe anche sostenere che si trattava di un fatto formale […]. La preoccupazione per l’aldilà (tema costantemente trattato nelle prediche) era viva a tal punto che nelle città colpite da scomunica o interdetto – un provvedimento papale che vietava la celebrazione di tutte le cerimonie religiose in un determinato territorio – uomini e donne erano letteralmente terrorizzati dall’idea di poter morire senza sacramenti.”24 Nel SEICENTO, secolo di sottili inquietudini spirituali, la mediazione attuata tra l’uomo e Dio dai santi assume l’aspetto di estasi mistica, che nelle cerimonie liturgiche si trasforma in spettacolo, in teatrale ostentazione. “ ‘Caelestis Hierusalem cives…’: il 5 luglio 1634 Urbano VIII emanava con queste parole iniziali una Costituzione con la quale la Santa Sede si riservava in modo esclusivo, fissando norme precise e severe per il processo di canonizzazione, la proclamazione ufficiale dei santi e l’autorizzazione al culto da attribuire al loro nome”25. Nel territorio considerato il Seicento vede il sorgere di una grande quantità di chiese e cappelle che è possibile mettere in relazione ai vari flagelli di cui la comunità fu vittima: carestie, siccità, con le conseguenti malattie degli animali, mancanza di raccolti, ed infine la peste, che fu portata nel territorio dalle truppe tedesche al soldo del conte Rombaldo di Collalto. Molti centri videro decimata la propria popolazione: Villafranca subì la perdita dei 4/5 dei propri abitanti, Racconigi e Moncalvo i 2/3 mentre a San Damiano la moria durò diciotto mesi; altri furono risparmiati come Moriondo, Villanova e Buttigliera. Più grave la situazione di Nizza Monferrato che dopo quindici anni contava solo cinquecento abitanti, conseguenza funesta della peste che aveva portato all’abbandono delle terre per mancanza di braccianti26. L’epidemia era ancora vissuta, come al tempo della peste nera, quale punizione divina (anche per il fatto che i medici non riuscivano a proporre alcuna soluzione terapeutica) e dunque il ricorso alla devozione e ai santi era l’unica consolazione e speranza di salvezza. Significativa a questo proposito è la decisione presa nell’agosto 1630 dal Consiglio di Asti: “presa visione della situazione in cui giacciono molti paesi e terre circonvicine alla città per, e guerre, e peste e carestia” compreso Asti, che siano fatti voti e orazioni per ‘placare l’ira divina acciò si compiaccia liberari di tali flagelli in specie da detto morbo’ per avere l’intercessione della Vergine Ss e del glorioso San Secondo e San Rocco, siano fabbricati e dipinti quadri “di honesta qualità” con l’immagine della Vergine Ss, e ai lati S. Secondo e s. Rocco e portati alla cattedrale per essere benedetti quindi inviati alle porte di San Pietro e Porta Nuova rimaste aperte; inoltre cucire una pianeta di damasco bianco per condurla alla Vergine di Viacito, detta di Viattosto, fuori della città. Venne ordinato di far celebrare una messa per dieci anni nella chiesa di san Rocco, situata nel borgo S. Martino… e di edificare una cappella nella chiesa di San Secondo”27. 24 25 26 DALL’OLIO G., Chiesa: una crisi rivoluzionaria, in «Civiltà del Rinascimento» Anno 1, N.1, Febbraio 2001. Montemagno tra arte e storia, Asti 2001. SCAGLIONE P., La peste del 1630-31 in Asti, Genova 1972-73, tesi di laurea. 27 P. SCAGLIONE, op. cit. Ed un anno dopo ancora, il 15 settembre 1631, nell’adunanza del Consiglio tenutasi “ai Cappuccini”: - si accetta la proposta di comprendere nel voto il “principiar et perficere qualche chiesa e cappella” in onore di San Sebastiano martire. Il consiglio vi aggiunge la devozione a Santa Caterina, vergine e martire, di cui ordina, (previo consenso episcopale) solennizzare la festività ogni anno. Il voto viene emanato: “Essi signori, congregati inginocchiati, invocato l’aiuto di san Francesco appresso S. D.M. per la comune salute et liberatione da morbo contagioso della presente città, et suo finaggio e distretto, fanno voto deliberato di mantenere una figlia nubile…”28. Se san Sebastiano, il cui culto si era già affermato a Roma a partire dal 680, fu il santo più venerato fin dai primi secoli come protettore in caso di peste, la devozione a san Rocco ebbe un particolare risveglio nel 1485 quando le sue reliquie furono portate nella città di Venezia affidate alla omonima confraternita. La protezione dalla peste inoltre veniva richiesta ai santi patroni o locali, anche nel caso in cui la loro agiografia non fosse collegata strettamente al contagio: è il caso per es. di san Secondo o di santa Caterina. Nel SETTECENTO, con l’affermarsi del pensiero illuminista si asserisce la separazione tra Chiesa e Stato, tra politica e religione. In quest’epoca ormai, “la liturgia deve scendere in qualche modo a patti con le devozioni popolari; deve chiedere aiuto a queste; deve sempre più usualmente affacciarsi sull’area del santorale. Le messe concludono con tridui, novene, invocazioni ai santi; le messe solenni diventano spesso tali grazie all’ausilio prestato da qualche devozione locale”29. Nell’OTTOCENTO si ha, funzionale alla Restaurazione, una identificazione tra politica e religione. “Di fronte all’avanzare dei principi laici che erano sostanza della tendenza realista in tutte le manifestazioni della cultura del Risorgimento, la Chiesa cattolica si arrocca su posizioni conservatrici, rifiutando ogni contatto con le ricerche artistiche più attuali, e propone nelle imprese ufficiali la continuità dei modelli più ortodossi del passato. Si assiste così a un vero e proprio saccheggio degli schemi formali e dei modelli iconografici dell’arte sacra dal Rinascimento in avanti e si arriva alla formulazione di stereotipi dell’immagine sacra diffusi capillarmente in tutti i formati e in tutte le tecniche, dal livello più impegnativo del ciclo di affreschi o della grande pala alle statue in gesso dipinto collocate in tutte le chiese, dalle oleografie a buon mercato ai ‘santini’ distribuiti durante le funzioni religiose”30. La religiosità popolare non muta di molto in questo secolo: ancora si hanno notizie di scongiuri richiesti ed eseguiti dai cappellani contro i temporali31; inoltre perdura l’usanza di grandi celebrazioni per la benedizione delle campagne e degli animali tra le quali fondamentali erano quelle dette Rogazioni “un importante rito stagionale legato alla fecondità della terra e alla protezione dei raccolti e più in generale volto a implorare la prosperità dell’intera annata agraria. Di origine molto antica le Rogazioni si distinguono in maggiori e minori: quelle maggiori, dette di San Marco e si svolgevano il 25 aprile, giorno dedicato al Santo Evangelista, quelle minori “tradizionalmente si celebravano durante i tre giorni che precedono l’Ascensione, festa mobile che cade quaranta giorni appresso Pasqua”32. 28 29 Idem VECCHI A, Il culto delle immagini nelle stampe popolari, Firenze 1968, p. 22. 30 BAIRATI E.- FINOCCHI A., Arte in Italia, Lineamenti di storia e materiali di studio, Torino 1988, vol. III, p.469. 31 ZANNINI P., Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano 1997, p.115: “molti cappellani facevano scongiuri contro i temporali: le richieste in tal senso erano pressanti perché un solo temporale era sufficiente a distruggere i raccolti di un’intera annata agraria”. 32 FASSINO G., “Religiosità popolare e clero diocesano. Le risposte dei parroci ai questionari dell’Arcivescovo di Torino tra Settecento e Ottocento”, Torino 2001-02, tesi di laurea. La comunità si riunisce nelle numerose feste patronali che vedono convivere cerimonie sacre e momenti ludici quali balli e bagordi che nel nuovo clima di rinnovato zelo vengono mal viste dal clero. Al loro controllo sfuggono ancor di più quelle feste patronali che si svolgono presso le chiese campestri, più lontane dalla parrocchiale. Gli archivi cittadini sono generosi di descrizioni di tali espressioni della vita comunitaria: ad esempio, a Castelnuovo d’Asti, in occasione delle feste “delle borgate o delle altre chiese campestri, vi è l’uso, prima della messa, di benedire i pani comunemente detti le carità, una delle quali si offre al parroco all’altare dai rettori, e le altre si riducono in minuti pezzi, che si distribuiscono sul finire della messa al popolo, non senza qualche confusione cagionata dall’avidità dei ragazzi. In diverse di queste feste, come quelle delle borgate, e quella di San Rocco, non si può impedire, che da una Società di giovani, muniti di permissione dal Comandante della Provincia, si stabilisca dopo il mezzogiorno pubblico ballo. Abuso questo pur troppo inveterato in questo paese, e suoi contorni”33. 33 n136 A.A.A.T., 8.2.12, f. 473 v. 474r in FASSINO G., op. cit. REPERTORIO AGIOGRAFICO Il repertorio agiografico qui presentato che attinge a diverse fonti bibliografiche34 ed ha l’intento di porre in evidenza di ciascun santo quegli elementi della loro vita, del loro patronato o della loro tradizione che maggiormente si legano alle peculiari vicende storiche e culturali del territorio in cui il loro culto si è radicato. Per alcune devozioni più note (quali Maria o Giuseppe) non si dà la vita ma si rende conto del variare della loro funzione e del loro significato anche in ambito istituzionale, dell’uso della loro immagini in differenti contesti storici. Sant’Agata Agata (data incerta), vergine e martire, morì a Catania. Il suo culto remoto è testimoniato dall’inclusione della santa nel Martyrologium Hierominianum, nel calendario di Cartagine (530 circa), nel Canone della messa romana e nel Carmina di Venanzio Fortunato. Nel corso del VI secolo le furono dedicate, a Roma, due chiese e venne rappresentata nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Negli ultimi Atti, non autentici viene descritta come una giovane di famiglia facoltosa che aveva consacrato la propria verginità a Cristo. Il console Quintiniano invocò editti imperiali da promulgare contro i cristiani per frenare il loro potere di seduzione: Agata venne quindi consegnata nelle mani di “Afrodisia”, tenutaria di un postribolo dove, dopo essere stata bastonata e torturata, fu esposta al fuoco. Come ultima vessazione le tagliarono le mammelle ma una visione di Pietro aiutò la cicatrizzazione delle ferite. Morì in prigione per le sofferenze patite. La santa viene invocata per i suoi poteri di protezione dal fuoco –soprattutto durante le eruzioni dell’Etna e dalle malattie del seno; è anche patrona dei fonditori di campane. […] Sia Palermo che Catania rivendicano l’onore della nascita di Agata Festa: 5 febbraio (Farmer D. H., Dizionario Oxford dei santi, Padova 1989) E’ patrona delle balie, delle madri che allattano, ed è invocata contro ogni malattia del seno e le malattie dette “di petto”, cioè quelle polmonari. Inoltre protegge contro le bruciature, le eruzioni vulcaniche, il fuoco, compreso quello del Purgatorio, gli incendi, i terremoti; per il martirio sui carboni ardenti è patrona degli ottonai e dei vetrai per il calore in cui lavorano. Poiché si suonavano le campane per avvisare degli incendi, e inoltre le campane rovesciate ricordano la forma dei seni e la colata infuocata per fare le campane ricorda la lava, è protrettrice dei fonditori di campane, delle campane stesse e di chi le suona: sovente si trova su di esse la sua immagine. Per il velo, protegge chi lavora e commercia i tessuti. (Lanzi F. e G., Come riconoscere i Santi e i patroni nell’arte e nelle immagini popolari, Milano 2003) Durante la peste nera del Medioevo “la popolazione di Catania si rifiutò di dare in prestito alle città vicine funestate dall’epidemia le reliquie protettrici di Sant’Agata.” (Bergdolt K., La peste nera e la fine del Medioevo, Casale Monferrato 2002) 34 Nella redazione del presente articolo prezioso, per i numerosi spunti critici che si sono potuti trarre, è risultato essere Torre A. (a cura di), Confraternite archivi, edifici, arredi nell’Astigiano dal XVII al XX secolo, Provincia di Asti, Asti 1999. Per questo motivo la citazione dell’opera non si ritroverà nelle seguenti schede eseguite, ma solo ora. Immagini: Montafia, frazione Bagnasco, chiesa di san Giorgio, abside, primi decenni sec. XV; -riquadro con le due sante su fondo rosso decorato a racemi spettante ad un diverso maestro nei primi decenni del secolo XV. Qui troviamo una rara iconografia di santa, probabilmente identificabile con Sant’Agata, nuda dalla cintola in su e grondante di sangue. (Repertorio, p. XXX) Sant’Aniceto (II secolo) papa dal 155 al 166, di origine siriaca. Come i suoi predecessori Igino e Pio I, fu impegnato nella lotta contro lo gnosticismo. Il pontificato di Aniceto è legato, soprattutto, all’incontro con il vescovo di Smirne Policarpo, anch’egli impegnato contro gli gnostici, tuttavia in rotta con la chiesa romana sulla questione della data della celebrazione della Pasqua. Policarpo […] fu accolto con onore e rispetto da Aniceto e nonostante che – come racconta Ireneo – nessuno dei due riuscisse a convincere l’altro sulla giornata della commemorazione della Resurrezione, mantennero comunione tra loro. Aniceto in segno di profondo rispetto fece celebrare l’Eucarestia da Policarpo e si separarono nel segno del Signore La tradizione lo vuole martire, durante il regno di Marco Aurelio, il 17 aprile giorno in cui viene commemorato. Sant’Antonio di Egitto (251-356), abate. Nacque a Coma, nell’Alto Egitto, e vendette ogni suo bene a vent’anni, per andare a vivere tra gli asceti del luogo. Dal 286 al 306 visse in solitudine completa in un forte abbandonato di Pispir, dove sopportò una serie di tentazioni comunemente associate alla vita di un eremita; alla fine di questo periodo abbandonò l’isolamento per far da guida ai discepoli che gli si erano riuniti intorno. Dal suo monastero si recò, nel 311, ad Alessandria per sostenere chi professava la religione cristiana durante la persecuzione di Massimino. Visse coltivando giardini e intrecciando stuoie. […] Antonio godette di enorme popolarità nel Medioevo: era ritenuto il patriarca dei monaci e il guaritore di uomini e animali Festa: 17 gennaio (Farmer D. H., op.cit) Il culto popolare di Antonio fu dovuto anche alla sua fama di guaritore dall’herpes zoster o fuoco di Sant’Antonio e per estensione venne invocato anche contro la peste. Per quanto riguarda la peste, è invocato anche perché il bastone “a tau” ricorda gli Ebrei risparmiati quando fu elevato il serpente per combattere l’epidemia diffusasi tra il popolo: chiunque vi volgesse gli occhi era salvo. (Lanzi F. e G., op. cit.) Un ulteriore attributo è il campanello, che tiene in mano o appeso alla cintura: lo strumento rinvia sia ai frati che attiravano l’attenzione del popolo con un campanello, sia al campanello appeso al collo del maiale, che non manca mai nelle rappresentazioni di questo santo. Sotto la protezione di Antonio furono posti i maiali e per estensione tutti gli animali domestici. Antonio è protettore anche dell’agricoltura e allevamento degli animali. Guantai, tessitori e tosatori. (Il grande libro dei Santi - Dizionario Enciclopedico diretto da Leonardi C. – Riccardi A. – Zarri G., Milano 1998) Sant’Antonio è invocato per la salute del corpo, data la sua longevità, con particolare riguardo alle malattie della pelle. […] A Sant’Antonio viene anche affidata la protezione del bestiame domestico, ed è per questo che è raffigurato in compagnia di un porcellino. Pare che la consuetudine di mettergli accanto questo roseo compagno di strada risalga al XII secolo, quando per ragioni sanitarie venne interdetta la libera circolazione dei maiali nella città di Parigi. Fu fatta eccezioni per quelli allevati nell’ospedale Saint’Antoine, che poterono continuare a circolare nelle viuzze adiacenti l’istituto, come avevano sempre fatto, nutrendosi dei rifiuti che all’epoca sovrabbondavano nei centri abitati. (Cuomo F.,op cit) San Bartolomeo (I secolo) Il Martirologio romano gli attribuisce un apostolato in India e in Armenia, dove si dice sia stato scorticato vivo prima di venir decapitato, nella località di Derbend, sul Mar Caspio.[…]Viene considerato il santo patrono dei conciatori e di chi lavora le pelli. Festa: 24 agosto (Farmer D. H., op. cit) Per il martirio che subì protegge tutti quanti hanno a che fare con la lavorazione delle pelli o con i coltelli, quindi macellai, conciatori, rilegatori, guantai, calzolai e fabbricanti di cinture; poiché è spesso raffigurato in atto di portare la sua stessa pelle su di un braccio come fosse un mantello, è patrono dei sarti. Per l’esorcismo compiuto, è invocato come guaritore contro le convulsioni, le crisi spasmodiche e le malattie nervose in genere e per gli esorcismi. (Lanzi F. e G., op. cit.) San Bernardo d’Aosta (o di Mentone) (m.1081) sacerdote. Di origine probabilmente italiana anziché francese, diventò sacerdote e, più tardi, vicario generale della diocesi di Aosta, che continuò a visitare sistematicamente per quarantadue anni, in particolar modo nelle località più lontane, predicando, fondando scuole, facendo costruire e sistemare chiese. Ebbe molto a cuore i viaggiatori che attraversavano le Alpi, per i quali fece edificare rifugi sui passi che, da lui , presero il nome di Piccolo e Grande San Bernardo. I danni ai viaggiatori, provocati da valanghe e dalle azioni di brigantaggio, erano assi numerosi: per la loro salvaguardia Bernardo fondò monasteri di canonici regolari agostiniani e, successivamente, diede inizio all’allevamento di una razza speciale di cani che prese il suo nome. Bernardo morì all’età di ottancinque anni. Fu dichiarato patrono degli scalatori da Pio XI (anch’egli amante della montagna) nel 1923. Festa: 28 maggio (Farmer D. H.,op. cit) Immagini Brusasco, chiesa di san Pietro: abside San Bernardo d’Aosta (alias di Mentone?), meta sec. XV, (datati 1460?) Buttigliera d’Asti, chiesa di San Martino Compare nel dipinto dell’abside: Cristo benedicente tra i simboli degli Evangelisti San Martino di Tours, prima metà del sec. XV. Santa Caterina d’Alessandria (probabilmente IV secolo) Non si è a conoscenza di un suo culto antico, non è menzionata nei primi martirologi e non compare nelle opere d’arte delle origini. Il culto iniziò nel IX secolo sul monte Sinai dove gli “angeli” avrebbero trasportato il suo corpo: questa credenza si può far risalire ad un’erronea interpretazione del termine “monaci” che spesso si diceva conducessero una vita “angelica”. Era, secondo la leggenda, una ragazza appartenente ad una nobile famiglia, che dopo aver rifiutato il matrimonio con l’imperatore perché si riteneva “sposa di Cristo”, aveva sostenuto una disputa con cinquanta filosofi, chiamati per convincerla degli errori della dottrina. Caterina protestò contro la persecuzione dei cristiani messa in atto da Massenzio, fu condannata alla ruota della tortura (più tardi chiamata ruota di Caterina) che, durante l’esecuzione, si ruppe andando a colpire i presenti: Caterina fu allora decapitata. Veniva invocata a) perché era sposa di Cristo b) il brillante avvocato che aveva trionfato sui filosofi c) la protettrice dei moribondi. Inoltre era la patrona dei giovani, degli studenti (da qui il patronato si estese al clero) che si occupavano soprattutto di filosofia e di apologetica, delle balie (perché quando la decapitarono dalla sua testa non sgorgò sangue ma latte) e degli artigiani che utilizzavano nel lavoro, la ruota: costruttori di ruote, filatrici e mugnai. (Farmer D. H., op. cit.) L’omino che si vede ai suoi piedi in molte raffigurazioni rappresenta l’imperatore Massenzio che la fece torturare e uccidere in quanto cristiana. (Van Laarhoven J.,op. cit.) San Cristoforo Cristoforo è uno dei santi più celebri dell’Occidente, modello, come spiega il suo nome che in greco significa “portatore del Cristo”, di coloro che serbano il Cristo nel loro cuore. Su di lui fiorì nel primo Medioevo una leggenda cui si ispirarono pittori e scrittori. Si narrava che un giovane gigante di stirpe cananea, Reprobo, avesse deciso di abbandonare il suo re per servire il signore più potente della terra. Fu accontentato, […]: servì un re potentissimo e poi il diavolo. Ma un giorno scoprì che vi era un sovrano ancora più potente, il Cristo e decise di porsi al suo servizio. Seguendo il consiglio di un eremita, che lo aveva istruito nella fede, si sistemò in una capanna, nei pressi di un fiume profondo e pericoloso, traghettando i viandanti sulle sue spalle. Un giorno un bimbo gli chiese di trasportarlo all’altra riva. Quando Cristoforo fu sceso nel fiume, l’acqua cominciò a gonfiarsi e il fanciullo a pesare come piombo: quanto più si inoltrava tanto più la corrente diventava minacciosa e il bambino pesante, sicchè egli temette di annegare. Alla fine, con uno sforzo sovrumano, riuscì a toccare l’altra riva esclamando: “Bambino, mi hai messo in grave pericolo perché il tuo peso era tanto grande che mi pareva di portare sulle spalle il mondo intero”. E il fanciullo rispose: “Non ti meravigliare Cristoforo, perché hai portato sulle spalle non solo il mondo intero, ma anche colui che l’ha creato: io sono il Cristo re, al cui servizio ti sei posto. E perché tu sappia che quanto dico è vero, quando avrai di nuovo varcato il fiume pianta il bastone vicino alla tua capanna e domattina lo troverai fiorito e carico di frutti”. Così avvenne. […] Poi Cristoforo si recò in Licia, dove venne martirizzato dopo aver compiuto miracoli strabilianti e convertito, secondo sant’Ambrogio “48 mila uomini”. Cristoforo diventò il patrono dei viandanti e dei pellegrini, e oggi lo è degli automobilisti, ma anche dei portalettere, degli atleti, dei facchini, degli scaricatori e in genere di coloro che esercitano un lavoro pesante ed esposto a rischi. La leggenda del bastone fiorito ha contribuito a farlo eleggere anche protettore dei fruttivendoli. (Cattabiani A., Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Milano 2003, pp. 4142) Fu anche uno dei 14 santi ausiliatori, di quei santi cioè invocati in occasione di gravi calamità naturali (uragani, grandine) e contro le morti improvvise. Questa devozione sorse nel sec. XII e si sviluppò nel sec. XIV. Il patrocinio di Cristoforo era specialmente invocato contro la peste. (Il grande libro dei Santi, op.cit.) Immagini: Montafia, frazione Bagnasco, chiesa di san Giorgio: parete nord, San Cristoforo, sec. XV?; la figura di san Cristoforo è conservata solo nella parte inferiore con i piedi immersi nell’acqua e in parte del volto… (Repertorio, p. XXXI) San Defendente E’ uno dei martiri cristiani della Legione Tebea, (di dubbia storicità) guidata da San Maurizio i cui membri furono martirizzati per non aver voluto ripudiare la propria fede cristiana, al tempo dell’Imperatore Massimiano. “L’eccidio avvenne mediante decapitazione, ad Agauno, presso il Rodano nel territorio di Marsiglia, dove erano accampati, per essere poi mandati a combattere contro i Galli irrequieti; prima della partenza si fece un solenne sacrificio agli dei, a cui non vollero prendere parte i soldati cristiani presenti fra le truppe. Massimiano per domare questa opposizione, fece flagellare e decapitare un soldato ogni dieci, ma non recedendo nessuno dalla propria fede, ordinò di decapitare tutti gli altri; il numero esatto dei martiri non è conosciuto, centinaia sicuramente, ma non l’intera Legione Tebea che era composta di mille uomini. Il martirio dovette avvenire intorno al 286: durante l’episcopato di Teodoro, vescovo di Martigny, verso il 380, si trovò un cimitero gallo-romano e si pensò che si trattasse del luogo di sepoltura di questi soldati, per cui il vescovo fece erigere una chiesa in loro onore trasferendovi le reliquie; il culto prese a diffondersi e varie chiese, basiliche e abbazie furono dedicate ai santi martiri di Agauno […]. Per san Defendente è importante sapere che almeno dal secolo XIV (1328) esso godeva di largo culto nell’Italia Settentrionale, nelle città di Chivasso, Casale Monferrato, Novara, Lodi, ecc. se ne celebrava la festa il 2 gennaio; a lui erano intitolati oratori, altari e confraternite. Veniva rappresentato vestito da militare e si invocava contro il pericolo dei lupi e degli incendi. […] Alcuni studiosi pensano, forse a ragione, che il san Defendente venerato in Italia, sia altra persona diversa dal martire tebeo. (Antonio Borrelli) San Giorgio IV sec. Dal greco: che lavora la terra, agricoltore Giorgio, il cui sepolcro è a Lidda (Lod) presso Tel Aviv in Israele, venne onorato almeno dal IV secolo, come martire di Cristo in ogni parte della Chiesa. La tradizione popolare lo raffigura come il cavaliere che affronta il drago, simbolo della fede intrepida che trionfa sulla forza del maligno. Nella Chiesa orientale viene chiamato “il grande martire”. E’ considerato protettore, con san Sebastiano e san Maurizio, dei cavalieri e dei soldati, degli scout e degli esploratori e viene invocato contro i serpenti velenosi, la peste, la lebbra, la sifilide, e nei paesi slavi contro le streghe. (Cfr. Cattabiani A., op. cit., pp. 201-204) San Giovanni Battista E’ patrono dei sarti (perché si faceva da solo abiti con peli di cammello nel deserto) e dei pellicciai; poiché aveva una cintura di cuoio protegge i fabbricanti di cinture e i conciatori di pelli; poiché un suo attributo è un agnello, protegge anche i cardatori di lana. Per via del banchetto di Erode cui partecipò in modo così singolare, è patrono di albergatori ed osti. Come imprigionato, è patrono dei prigionieri e dei condannati a morte, nonché degli allevatori di uccelli, poiché fu “messo in gabbia”; fu decapitato con una spada affilata ed è quindi patrono dei fabbricanti di coltelli e forbici, nonché degli spadai; per il suo aspetto irsuto è patrono degli spazzacamini. […] E’ patrono dei trovatelli perché protegge le porte dei battisteri, e presso queste venivano abbandonati i neonati. (Lanzi F. e G., op. cit.) San Giuseppe L’arte del Barocco ha trattato temi che, prima del 1600, erano solo sporadici o limitati geograficamente. Il primo esempio di tale tema è legato alla devozione a Giuseppe di Nazaret. Giuseppe, nell’arte paleocristiana, compariva già in scene della natività, della fuga in Egitto e della presentazione al tempio, ma di rado il suo ruolo era poco più che marginale in quelle raffigurazioni. […] Nel tardo Medioevo tuttavia si manifestò una considerazione ben maggiore verso la figura di Giuseppe già a partire dal XIV secolo, quando gli fu dedicata una festa propria e la sua devozione fu diffusa da carmelitani e francescani […] Nel XV e XVI secolo l’immagine di Giuseppe si modificò radicalmente. […] Nel 1552 arrivò la svolta definitiva, quando Teresa dedicò a Giuseppe il convento da lei fondato e chiese una maggiore devozione per la sua figura da parte delle carmelitane. Egli divenne rapidamente un santo del popolo al quale appellarsi se c’erano problemi nel matrimonio o in famiglia. Poiché al suo letto di morte c’erano sia Maria che Gesù, divenne inoltre il patrono della “buona” morte. La sua festività nel 1621 venne estesa a tutta la Chiesa. (Van Laarhoven J., op. cit., pp. 268-269) San Grato di Aosta Seconda metà del V secolo San Grato vescovo era probabilmente di origine greca: della sua vita non si conosce molto ma è probabile che egli avesse studiato nel cenobio eusebiano di Vercelli dal quale – testimonia S. Ambrogio – provenivano tutti i vescovi dell’Italia settentrionale. Egli fu sostenitore dell’ortodossia e appose la propria firma “come semplice sacerdote, ma a nome del suo vescovo Eustasio, a una lettera inviata al papa s. Leone Magno a conclusione del concilio provinciale di Milano del 452”, concilio che intendeva discutere il problema delle due nature, umana e divina di Cristo. “La devozione particolare di cui è oggetto è fondata sulla efficace protezione da lui esercitata sui campi, venendo invocato contro locuste, vermi bruchi ed altri animali nocivi”. E’ probabilmente questa sua particolare azione taumaturgica a renderlo popolare nel territorio astigiano, terra di campagne e vigneti. Festa: 7 settembre Maria Alla fine del tardo Medioevo il culto mariano era arrivato davvero all’apice. Frequenti erano le critiche dei riformatori per la forma e le dimensioni di questa devozione, che per molti non erano più accettabili. […] La Madonna occupava un posto importante nel cuore di innumerevoli fedeli, e quando la lotta tra Roma e la Riforma si fece aspra il suo culto svolse un ruolo attivo in essa. La gerarchia cattolica gettò, quasi letteralmente, Maria nella contesa, presentandola come avversaria delle eresie. A partire dal XVI secolo divenne la figura sacra più raffigurata. Dapperttutto nacquero confraternite a lei dedicate, inni che esaltavano il suo nome e numerose devozioni. (Van Laarhoven J., op. cit., p. 251) San Martino di Tours (316-397 circa), monaco e vescovo Uno tra i più popolari santi del medio Evo, nato in Pannonia (l’attuale Ungheria), figlio di un ufficiale pagano dell’esercito romano, Martino seguì per qualche tempo le orme del padre e si arruolò, ma ben presto decise di farsi cristiano: l’impossibilità di conciliare la fede col servizio militare lo portò ad inscenare una protesta e fu arrestato per insubordinazione. Fu in questo periodo che accadde il famoso episodio legato al suo nome nei pressi di Amiens, quando, incontrando un mendicante quasi nudo, tagliò a metà il suo mantello e glielo donò. La stessa notte gli apparve in sogno Gesù Cristo, che indossava il suo mantello: Martino considerò rivelatrice quella visione e da quel momento decise di votarsi interamente al Cristianesimo. Divenne discepolo di Ilario a Poitiers, si fece battezzare e cominciò a viaggiare per l’Europa. Nel 360 si fece monaco e fondò il primo monastero della Gallia, a Ligugè, nella terra che gli aveva donato Ilario. Ivi restò fino al 372, quando fu nominato vescovo di Tours per acclamazione non solo del clero ma anche del popolo. Da vescovo, Martino continuò a vivere come un monaco, […]. Egli portò avanti il suo progetto originario di conversione delle zone rurali, di conseguenza continuò a impegnarsi nella fondazione di numerosi monasteri e per la diffusione del monachesimo. Ritenne, infatti, questa la migliore delle pratiche per garantire la presenza del Cristianesimo nel territorio, in un periodo storico in cui tale fede era limitata quasi esclusivamente entro i confini della città (si ricordi che il significato originario della parola pagano è contadino): a Martino sono tradizionalmente attribuite le distruzioni degli altari rupestri e degli alberi sacri, ossia le testimonianze degli antichi culti pagani; […]. I suoi venticinque anni di episcopato furono caratterizzati da numerosi interventi miracolosi, dalla guarigione dei lebbrosi alla risurrezione di un morto e, cosa storicamente più interessante, dall’attiva partecipazione alle dispute dottrinali e teologiche. […] Morì a Candes l’8 novembre del 397 e fu sepolto a Tours tre giorni dopo. […] (Farmer D.H., op. cit.) Immagini: Montafia, chiesa di san Martino: parete sud accanto all’arco trionfale: San Martino dona parte del suo mantello a un povero, prima metà secolo XV; parete nord accanto all’arco trionfale: San Martino dona parte del suo mantello a un povero, prima metà secolo XV, reca nel bordo l’iscrizione “…II decembris hoc opus fecit fieri Johannes [sic] meglinus”. Ambedue gli affreschi sono lacunosi e in cattivo stato di conservazione: quello sulla parete meridionale pare di esecuzione più raffinata con un fondo minuziosamente dipinto a fronde di alberi. Di quello a settentrione conosciamo dall’iscrizione sottostante il committente Giovanni Miglino, cognome ancora oggi diffuso nella zona, mentre la data di esecuzione era già scomparsa a inizio secolo quando il De Canis visitò la chiesa. (Repertorio, p. XXIX) San Michele Arcangelo. Il suo nome significa “Chi è come Dio”. […] Sembra che il suo culto abbia avuto origine in Oriente, dov’era invocato per la guarigione dei malati. […] La diffusione del suo culto in Occidente prende le mosse dalla sua apparizione sul monte Gargano, in Puglia, nel tardo V secolo, ma si radicò presto in tutta Europa, come testimoniano sia le chiese dedicate al suo nome, sia i luoghi in cui furono segnalate le visioni dell’arcangelo, ad esempio la celebre Sacra di San Michele, in Valle di Susa. La tradizione iconografica è ricchissima: è rappresentato generalmente nelle vesti militari oppure come “giudice” del destino delle anime. In Francia l’Arcangelo prese il posto di Mercurio sui luoghi elevati. San Michele guerriero e difensore del popolo cristiano. Patronati: spadaccini, maestri d’arme, forbitori, doratori, commercianti (come Mercurio presso i pagani), di tutti i mestieri che si servono di bilancia, pasticcieri farmacisti droghieri merciai, pesatori di grano. In epoca ellenistica l’equinozio autunnale, come quello primaverile, era consacrato a MitraSole, considerato demiurgo e kosmokrátor, signore e animatore del cosmo, la cui funzione era simboleggiata da una sfera che teneva in mano; ma anche mediatore cosmico e dunque, per tanti aspetti, analogo a Hermes-Mercurio. […] Molte funzioni equinozionali e mediatrici di Mitra-Sole-Hermes vennero ereditate da san Michele la cui festa cade in Occidente nel periodo successivo all’equinozio, ma a esso analogo simbolicamente perché segna nelle campagne la fine della stagione luminosa e calda: al 29 settembre, che originariamente a Roma ricordava la dedicazione all’arcangelo di una basilica del V secolo, sulla collina di Castel Giubileo, detta fino al XIV secolo Mons sancti Angeli. (cfr: Cattabiani A., op. cit., pp. 286-292) Immagini: Montafia, frazione Bagnasco: chiesa di san Giorgio, abside nord, 1410, 1420. …con grandi ali aperte, attentamente delineate in rosso, che sottolineano l’arco. Il maestro di cultura tardo antica cui si deve questo affresco si distingue per l’attenzione grafica con cui sono descritti i lineamenti del volto, i riccioli e la veste gialla decorata con motivi vegetali. (Repertorio, p. XXXI) San Rocco (Roch) (1350 circa- 1380 circa) eremita. Il 16 agosto si festeggia san Rocco, così popolare in Italia che ventotto comuni e trentasei frazioni del nostro paese ne portano il nome. Si dice che la sua popolarità sia dovuta al suo ruolo di intercessore speciale nella guarigione della peste. Su di lui s’intrecciano poche notizie e molte leggende: secondo il testo più antico e degno di fede, la Vita, anonimo e composto in Lombardia dopo il 1430, era nato nel XIV secolo a Montpellier. Rimasto presto orfano, vendette i beni distribuendo il denaro ai poveri, e partì in pellegrinaggio verso le tombe dei santi Pietro e Paolo, a Roma. Durante il lungo viaggio si fermò ad Acquapendente dove, prestando assistenza agli appestati, operò guarigioni miracolose; né a Roma fu da meno, guarendo un cardinale, che lo avrebbe presentato al papa. Tre anni dopo, mentre era sulla via del ritorno, venne colpito dalla peste e, per non gravare sugli altri, preferì isolarsi nei pressi del fiume Trebbia. Un giorno un cane del patrizio Gottardo Pollastrelli, proprietario di quelle terre, entrò nella capanna dove Rocco si era rifugiato e, vedendolo malato, cominciò a portargli regolarmente un po’ di cibo sottratto alla tavola del padrone. Per questo motivo nell’iconografia appare spesso un cane che offre una pagnotta al santo il quale, con la veste sollevata, mostra un bubbone sulla coscia. Il patrizio, incuriosito da quei furti e dall’andirivieni dell’animale, lo seguì, scoprendo il malato. Invece di allontanarsi, come gli consigliava Rocco che non voleva contagiarlo, volle curarlo amorevolmente. E se per il pellegrino le cure di Gottardo facilitarono la guarigione, per tanti aspetti miracolosa, per il nobile piacentino, che fino ad allora si era dedicato solo a cacce, feste e amori, l’incontro segnò l’inizio di una nuova vita. […] Dopo la guarigione Rocco lasciò la capanna sul fiume Trebbia, ma prima di partire benedisse gli animali del bosco che erano malati, guarendoli tutti, […]. Si diresse poi verso nord, ma venne arrestato ad Angera, presso il lago Maggiore, sospettato di spionaggio da alcuni soldati: gettato in prigione, vi morì cinque anni dopo. (Cfr. Cattabiani A., op. cit., pp. 268-270) Il possesso delle sue reliquie fu rivendicato dalla città di Arles e, in seguito, anche da Venezia, dove Tintoretto adornò la sua chiesa con un ciclo pittorico. Il suo culto continuò a rinnovarsi, in particolare durante le pestilenze del XVI e del XVII secolo, così come durante l’epidemia di colera del XIX secolo. E’ considerato inoltre protettore da tutte le epidemie che possono colpire gli uomini e il bestiame. Festa: 16 agosto L’affermazione del culto di San Rocco è indubbiamente legato al suo ruolo di efficace protettore contro la peste, ruolo cui fece subito concorrenza agli intercessori tradizionali, ai quali fu ben presto associato nelle raffigurazioni iconografiche. La mentalità medievale amava molto queste associazioni di santi, dalle quali speravano un intervento più efficace di quello di un singolo protettore. (Il grande libro dei Santi, op.cit.) San Sebastiano Martire, (seconda metà del III secolo) Le esili e scarse notizie che si possiedono di Sebastiano si possono rintracciare nel calendario della Chiesa, Depositio martyrum (354), da cui si apprendono il nome, il martirio e il luogo della sepoltura. Sant’Ambrogio …senza precisare se Sebastiano fosse nato proprio a Milano, lo dice originario di quella città. […] il martirio sarebbe avvenuto a Roma, dove Sebastiano si era recato con l’unico scopo di testimoniare la propria fede cristiana, là dove più aspra infieriva la persecuzione. […] Con esattezza, non conosciamo neppure l’anno del martirio, che presumibilmente potrebbe essere collocato fra il 303 e il 305, anno in cui Diocleziano, prima di ritirarsi a vita privata nel suo palazzo di Spalato, promulgò quattro successivi editti contro i cristiani. […] Non è del tutto escluso, a questo proposito, che, come si apprende dalla più antica delle agiografie, Sebastiano facesse veramente parte della guardia imperiale e, per essersi rifiutato di rinnegare la propria fede, fosse stato condannato al supplizio. […] Sebastiano viene condannato a morte mediante il supplizio delle frecce. […] Quando, durante la notte, i cristiani si recano nel campo per recuperare la salma e darle sepoltura, si accorgono con stupore che Sebastiano è ancora vivo. […] Appena è di nuovo in forze, nonostante le preghiere dei compagni che lo vorrebbero in salvo lontano da Roma, Sebastiano, per testimoniare la propria fede, si reca al tempio di Ercole dove l’imperatore sta officiando un rito pubblico. Tratto in arresto, viene condotto all’ippodromo del Palatino e ucciso a bastonate. […] Gregorio Magno lo considerò, insieme a Pietro e Paolo, il terzo protettore di Roma e, nella sua rassegna dei Santi, lo pose al terzo posto fra i sette difensori della Chiesa. Festa: 20 gennaio. La copiosa iconografia si spiega con la scelta di san Sebastiano quale intercessore in grado di proteggere dalla peste, giudicata dal popolo un segno della collera divina per i peccati del mondo. La devozione verso san Sebastiano invocato contro la terribile calamità deriva da una narrazione fatta da Paolo Diacono nella sua Historia Longobardorum, a proposito della pestilenza scoppiata prima a Roma e poi a Pavia nell’estate del 680. In entrambe le città il contagio cessò immediatamente dopo che fu invocata l’intercessione del santo. Da questi episodi nacque la fama di San Sebastiano, taumaturgo contro le epidemie. Una seconda interpretazione, più erudita, si fonda sul fatto che san Sebastiano fosse uscito indenne dal supplizio delle frecce, che metaforicamente rappresentano i tormenti della peste. Esse sono la manifestazione dell’ira di Dio, in analogia con l’ira di Apollo che, nel primo dei poemi omerici, scaglia i suoi dardi a seminare il lutto nel campo degli Achei. A suggerire tale interpretazione, che inizia a prendere piede nel Rinascimento, è lo stesso spirito classicista che induce a modificare l’iconografia del santo, rappresentato da quel momento come un eroe dell’antichità, giovane, bello, nudo e trafitto da frecce. In età paleocristiana e per tutto il Medioevo, infatti, san Sebastiano è raffigurato per lo più come un uomo maturo, talvolta vecchio, quasi sempre barbuto e vestito da militare. (Giubelli L., Sebastiano, martire di Roma, Roma 1992) San Secondo Di origini leggendarie, nella biografia del Santo uno degli episodi più caratteristici e importanti è il guado, in sella ad un cavallo bizzoso, del Po, il grande fiume che con i suoi affluenti, ha svolto e svolge tuttora un ruolo importante nella vita della regione. La sua immagine legandosi a quella del fiume si ancora ad un elemento fondamentale e determinante di tutto il territorio piemontese. Egli, nobile pagano, si recava nelle carceri della sua città natale a visitare i numerosi cristiani, di cui ammirava il fermo eroismo. Insieme con il prefetto romano della città, suo amico, Saprizio, si recò con questi a Tortona, (altra città divenuta colonia romana come Asti) dove assistette al processo di Marciano, protovescovo della città, e martirizzato sotto Adriano. La vicenda di San Marciano influì nella sua conversione, che secondo la tradizione agiografia, si compì durante un viaggio a Milano dove incontrò i santi Faustino e Giovita di Brescia. L’amico Saprizio tentò di farlo abiurare, e dopo averlo fatto torturare lo fece decapitare, probabilmente il 30 marzo del 119. Il suo viaggio da Asti a Tortona definisce un rapporto e un itinerario tra due città, entrambe colonie romane, collocate lungo il percorso di una importante arteria. La devozione rivolta a San Secondo, attestata per la prima volta da una chiesa risalente alIa metà del IX secolo, raccoglie la memoria di tempi remoti, mettendo in rilievo alcuni elementi fondamentali della geografia del tempo, quali il ruolo del Po e la organizzazione del territorio in seguito alla conquista romana. (Cfr: L’insigne collegiata di San Secondo d’Asti, a cura di Paolo Edoardo Fiore, Asti 1998, pp. 77-79 e 147-157) P= Parrocchiale Agata Viarigi (P) - Alfiano Natta Agata e Vitale Moransengo (P) Andrea Viale (P.)– Castelnuovo Don Bosco – Celle Enomondo - Cerreto - Montiglio Monferrato (cappella entro il castello) - Valfenera (cappella, un tempo santuario di notevole importanza) Aniceto Corsione Anna Castagnole – Montechiaro – Aramengo (patrona) - San Martino AlfieriAnnunziata Moncucco – Villanova – San Damiano – Castagnole – Cortanze (antica parrocchiale) – Montechiaro – Calliano - Castell’Alfero (P, Frazione Callianetto) – Cisterna - Ferrere - Settime – Tonco Antonio Grana – Moncalvo – Tonco – Montechiaro - Settime – Chiusano – Camerano Cortandone (P) – Buttigliera – Aramengo (P) - Ferrere- Valfenera (Bricco Visconti) – Cinaglio - Villafranca D’Asti Antonio e Martino Celle Enomondo (P) Antonino Montechiaro Assunzione Grana (P) - Cunico - San Martino Alfieri (Frazione Guaglia) Baldassarre Cellarengo Barnaba Castelnuovo Don Bosco Bartolomeo Valfenera (P) – Portacomaro (P) - Buttigliera (Frazione Crivelle) –Camerano Castelnuovo Don Bosco – Montechiaro -Valfenera (P. San Bartolomeo e San Giovanni Battista) Bernardo Casorzo – Buttigliera – Castagnole Bernardo d’Aosta Cinaglio (Cascina Chianea) Bernardino Frinco – ScandeluzzaBiagio Cortanze (patrono, Ss Pietro e Giovanni, S. Biagio) - Montafia (Bagnasco) Carlo Montechiaro – Settime - Cortandone – Pino- Cunico - Piovà - San Martino Alfieri (P. San Carlo e Maria; Cappella nella frazione Firano) - Aramengo Cassiano Penango Caterina Monale (P) - Cocconato- Montechiaro (P) Cosma e Damiano San Damiano Cristo Salvatore Cortandone Cristoforo Corsione (P) Santa Croce Maretto Defendente Alfiano Natta - Chiusano – Ferrere - San Martino Alfieri (Frazione Saracchi) Dionigi Refrancore (P) – Montafia (P) Donato e Gaetano Cantarana Eusebio Villafranca - Alfiano Natta (Cardona) – Castelnuovo Don Bosco - Robella (P. Cortiglione) Elena Villafranca (P) Elena e Eusebio Villafranca d’Asti Elisabetta Piovà Felice Cinaglio Felice e Giorgio Cinaglio (P) Filippo e Giacomo Piea (P) Firmino Cellarengo (Cappella, patrono) Francesco Moncalvo (P) – Robella Francesco Saverio Pino Gervasio e Protasio Cisterna Giacomo Robella (P. San Giacomo e Vergine Assunta) – Cunico (P) - Albugnano (P) Girolamo Tonco Giorgio Aramengo (Borgata Masio) – Casorzo - Montafia - Piovà Giovanni Battista Moncucco (P) – Villafranca – Antignano – Tonco - Berzano S. Pietro - Cantarana (P e una cappella) - Penango (Tenuta Barone) - San Martino Alfieri (cappella nella Frazione Pero) - Roatto - Tigliole (San Giovanni Battista e Lorenzo) Giuseppe Cisterna – San Damiano – Scandeluzza - Antignano (Frazione Perosini) Baldichieri – Buttigliera - Ferrere – Scurzolengo - San Martino Alfieri Fagnani) Tigliole Gottardo Albugnano Grato Penango (P) – Alfiano – Moransengo - Cellarengo - Celle Enomondo - Cinaglio Cortandone (Frazione Campia) - Ferrere - Villafranca d’Asti – Berzano San Pietro Isidoro Villanova Immacolata Celle Enomondo - Robella - Tonengo (P) Ippolito e Cassiano Penango Lorenzo Tigliole (P) - Camerano (P) Lorenzo e Giovanni Cellarengo Lorenzo e Andrea Scurzolengo (P) Luigi Scandeluzza Lucia BaldichieriMarco Moncalvo Maria Maddalena Montechiaro Maria - Antignano (Ss. Nome di Maria; Beata Vergine della Mercede; Beata Vergine del Carmelo) Cantarana (Madonna della Consolata) Castellero (Madonna delle Grazie) Chiusano (Madonna del Carmine) Castello d’Annone (Santa Maria delle Ghiare) Cellarengo d’Asti (Cappella Santa Maria Ausiliatrice) Celle Enomondo (14 cappelle votive) Cocconato (Santa Maria della Consolazione) Buttigliera Maretto (Mater Dolorosa, Borgata Barboni) Grana (Santa Maria della Purificazione in Monte Perano) Grazzano Badoglio (Madonna dei Monti) Castelnuovo (Madonna del Roc, campestre e Madonna del Castello; Madonna di Raseto, Mondonio) Cocconato (Santuario Santa Maria delle Grazie) Casorzo (Madonna delle Grazie) Cossombrato (Cappella Madonna Addolorata) Corsione (Madonna dell’Aniceto) - Cunico (P. Nostra Signora della Valle) Frinco (P. Natività della Vergine) Moncalvo (Madonna delle Grazie) Odalengo piccolo (P) Pino (Santa Maria della Pieve) Piovà (Cappella della Madonnina) Tigliole (Cappella Madonna del Buon Consiglio; Cappella Sposalizio della Vergine a Pocolo; Cappella Vergine Immacolata nella Frazione Malaterra; Cappella Madonna Addolorata nella Frazione Remondini) - Tonco (Santa Maria e Giuseppe) - Valfenera (Madonna degli Angeli; P. Natività di Maria Vergine; Beata Vergine del Rosario a Valsuolo) - Villafranca d’Asti (Madonna della Neve nella regione Sant’Antonio e Madonna della Guardia regione Taverne) - Villanova d’Asti (Santuario Madonna dei Baluardi e cappella della Vergine) - Villa San Secondo (Madonna delle Grazie) Maria e Michele Maretto (P) Martino Villanova – Refrancore (P) – Montemagno (P) – Castagnole (P)- Buttigliera – Celle Enomondo - Montafia - Tigliole (Serra Nani) Martino e Biagio Buttigliera (P) Martino e Dionigi Refrancore Marziano Alfiano Natta (P) - Viarigi Matteo e Secondo Villa San Secondo (P) Michele Moncucco – Dusino San Michele (P) – Calliano – Portacomaro – Cunico – Roatto – Buttigliera - Cerreto (P) – Montemagno - Tonengo (Frazione Ottini, patrono) Michele e Sebastiano Corsione Michele e Radegonda Roatto (P) Nazario Montechiaro (S. Nazario e Celso) – Cantarana Nicolao Settime (P e chiesa romanica) Nome di Maria Antignano (Frazione Gonella) - Calliano (P) Orsola Cellarengo (Santuario) Remigio Villadeati (patrono) Rita e Teresina del Gesù Tigliole (Vignassa San Carlo) Rocco Villafranca – Ferrere – S. Paolo Solbrito - Dusino San Michele (P) – Celle Enomondo - Refrancore – Grana – Colcavagno - Cortanze – Cossombrato – Montechiaro – Settime – Viale – Cortazzone – Montafia - Camerano – Capriglio – Buttigliera - Pino – Castelnuovo Don Bosco – Albugnano-Antignano – Calliano – Cantarana – Casorzo - Castagnole - Cinaglio (Frazione Casero) – Montiglio – Piovà – Roatto - Scandeluzza (patrono) - San Martino Alfieri (Frazione Marello) San Paolo Solbrito (cappella nel castello) - Tigliole - Valfenera (Strada Villata) – Scurzolengo – Villa San Secondo Paolo San Paolo Solbrito Paolo e Giovanni Cortanze Pancrazio Cantarana- Celle - Tigliole (Vareglio San Carlo) Pietro Albugnano – Villanova-Castellero (San Pietro del Bosco) - Casorzo - Castelnuovo (San Pietro in Zucca) - Odalengo Piccolo – Portacomaro Pietro e Paolo Berzano – Calliano - Berzano San Pietro (ex Pietro e Giovanni)- Castell’Alfero (P) Pietro e Giorgio Soglio (P; già San Benedetto) – Piovà Pietro in Vincoli Castellero (P) - Soglio (santuario) Sebastiano Cisterna – Refrancore – Casorzo – Colcavagno - Corsione – Piea – Chiusano – Baldichieri – Castelnuovo Don Bosco - Celle - Cortandone (non più esistente, cappella) - Montechiaro - Odalengo Piccolo (Pessina) - Roatto - Scandeluzza (Sebastiano e Fabiano) - San Paolo Solbrito (San Paolo e San Sebastiano, P) Tigliole - Valfenera (Frazione S. Sebastiano) – Cinaglio Secondo Ferrere (chiesa e P) – Cortazzone (P e chiesa romanica) – Baldichieri (P e chiesa)Baldichieri – Tigliole (Borgata San Carlo a Riviere) Silverio Viarigi Stefano Cossombrato (P) - Antignano (ex P) - Grana Ss Trinità Berzano San Pietro - Cantarana – Cocconato – Valfenera - Villa S. Secondo Vincenzo San Damiano – Casorzo - Celle (Frazione Merlazza) Vincenzo martire Casorzo (P) Vittore e Corona Grazzano (P) - Penango (Frazione Cioccaro) Vito Buttigliera (Frazione Crivelle) Alcuni esempi di targhe dedicate ai santi San Rocco Il santo eremita nato a Montpellier è uno dei più presenti nella cultura contadina per la sua protezione contro la peste e in generale contro le epidemie che colpiscono l’uomo e il bestiame; è invocato inoltre contro le catastrofi naturali. Viene tradizionalmente rappresentato in costume da pellegrino dal quale spunta un bubbone, con la zucca per l’acqua e il cane che lo aveva nutrito quando, contratta la peste durante il viaggio di ritorno da Roma, si era rifugiato in un luogo isolato per evitare ad altri il contagio. La sua festa si celebra il 16 agosto. San Sebastiano Sebastiano, secondo la tradizione agiografica, era un giovane soldato che, convertitosi al cristianesimo, fu vittima delle persecuzioni di Diocleziano. Dopo essere stato legato ad un albero e trafitto di frecce (evento a cui è legata la sua iconografia), il giovane Sebastiano, che era riuscito miracolosamente a sopravvivere, venne ucciso a bastonate. Considerato il terzo patrono di Roma, viene invocato, per il suo potere di guarire le piaghe, contro la peste. E’ anche patrono degli arcieri e dei soldati. San Secondo Il santo, patrono di Asti, proveniva da una nobile famiglia convertita al Cristianesimo; venne torturato e decapitato probabilmente il 30 marzo 119. La tradizione narra che Secondo attraversò il Po a cavallo come se fosse terra ferma ed è questa l’immagine più diffusa del Santo che viene in genere raffigurato in abiti di foggia romana sui quali compare una croce sostituita a volte da una bandiera rossa crociata di bianco. Anche la rappresentazione della città di Asti è un segno identificativo del Santo. BIBLIOGRAFIA GENERALE Assandria V., Pozzo, Giovan Battista, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989 Assandria V., Pozzo, Pietro Antonio junior e Giovanni Pietro, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1989 Assandria V., Pozzo, Pietro Antonio senior, in Briganti G. (a cura di), La pittura in Italia. 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Che la Gastronomia costituisca un Bene culturale è invece assai meno scontato, e risulta coraggiosa ed innovativa la volontà di inserirla nel patrimonio delle specificità territoriali considerandola sotto questo aspetto. Non potrebbe essere altrimenti: stando alla felice definizione di un noto giornalista contemporaneo, essa risulta dall’interazione della Tradizione, della Tecnica e del Territorio, quindi della Storia sociale, della cultura materiale, delle risorse ambientali e produttive proprie di un’area definita. Un simile postulato potrebbe suonare come una disarmante ovvietà, se non fosse messo in discussione un po’ ovunque da “ nuovi modelli alimentari, nuove tecniche di distribuzione, di vendita, di conservazione (…) nuovi stereotipi dietetici insieme ad un accelerato ricambio sociale, culturale, mentale, l’aumento vertiginoso dei prezzi al mercato e al ristorante, il declino del pranzo di mezzogiorno…” ( Piero Camporesi: “La Terra e la Luna”, Milano 1989, p.230). Un complesso sistema di cause e di effetti modifica incessantemente, e da sempre, il profilo “culturale” ( e dunque “gastronomico”) dell’alimentazione. Fino a quando tale sistema è stato gestito e pilotato dal controllo consapevole o inconscio delle realtà locali, ha costituito un normale e “naturale” processo di scambi, arricchimenti, positive evoluzioni. Nel momento in cui esso è diventato totale appannaggio di forze non-territoriali, o addirittuta di strategie planetarie, ha prodotto “…profondi processi di lacerazione del tessuto culinario regionale indotti da nuovi, rivoluzionari strumenti di mutamento e di condizionamento del mercato…” ( P. Camporesi, cit.) nonché la rapida dissoluzione della “cucina paesana” “prolungamento dell’agricoltura, appendice del campo e dell’orto dentro il villaggio contadino”. Il paradosso è costituito dal fatto che il coma delle culture alimentari tradizionali e territoriali è coinciso con le strategie di “…riscoperta del ‘popolare’, dei valori autonomi e regionali delle culture locali, la rinnovata attenzione verso le forme di cultura della gente senza storia, dei cosidetti ‘subalterni’…” (P.Camporesi, cit.), messe in opera, quasi sempre con finalità economico-promozionali, dal decentramento amministrativo. L’esigenza di avvalorare e qualificare le produzioni locali con il plusvalore rappresentato dalla Tradizione e dalla Storia, di sostenere e diversificare l’offerta turistica con il fascino delle specificità locali, ha indotto fenomeni di recupero , di riappropriazione e di “riscoperta” del tutto caotici , incontrollati e strumentali. Il risultato è costituito dalla recentissima creazione di una “gastronomia tipica” completamente slegata dalla cultura del territorio, occhiutamente attenta alle mode ed al marketing, supinamente passiva nell’adottare elementi vincenti ma estranei, ma arcignamente indifferente al patrimonio di autenticità rappresentato dalla memoria e dalle risorse locali. Gli esempi si sprecano, e costituiscono uno sterminato, desolante repertorio. Per quanto riguarda il territorio in esame, appare subito evidente come la recente codificazione di una propria “tipicità” alimentare e gastronomica sia in larga parte viziata da un forte complesso di inferiorità verso aree “forti” e vincenti dal punto di vista turistico, e dall’atteggiamento “parassitario” tipico dei perdenti di “copiare” da queste gli argomenti ritenuti chiave del successo. E’ inutile negare che l’area del GAL guarda alle vicine Langhe albesi come al paradiso realizzato, mutuandone acriticamente e furbescamente specificità alimentari e gastronomiche. Nei ristoranti della nostra zona trionfano ormai gli agnolotti “del plin”, del tutto sconosciuti fino a pochi decenni fa, mentre continuano ad essere pervicacemente ignorate o rimosse bellissime ricette di pasta ripiena totalmente locali. L’artigianato alimentare dimostra pigrizia e scarsa abilità imprenditoriale, smarrendo i legami con la tradizione e con la memoria, lasciando estinguere produzioni o preparazioni di assoluto valore sostituendole con “importazioni” tanto indebite quanto inutili. E’ il caso ad esempio della “Cognà” albese che sta sostituendo, almeno lessicalmente, la Mostarda nostrana fin sulle tavole dei ristoranti; è il caso del crescente oblio che circonda la meravigliosa Grissia astigiana o monferrina , sempre più ignorata a favore di pani del tutto slegati dalla tradizione; è il caso della tradizione casearia locale ormai praticamente estinta, o della norcineria territoriale sempre più confinata e segregata nelle “riserve indiane” degli ultimi salumai di paese. Contrastare o invertire un simile atteggiamento non può che comportare, a fianco di una crescita della sensibilità imprenditoriale, la valorizzazione della conoscenza. Stato della conoscenza La Gastronomia tradizionale del nostro territorio, quando va bene, è recepita come un potenziale “valore economico” o come una risorsa da sfruttare; quasi mai come un Bene culturale. Questo approccio si è tradotto in un atteggiamento fortemente rinunciatario e superficiale, che ha inibito l’interesse da parte di studiosi o ricercatori, e impedito, di fatto, l’affermazione di una pubblicistica “specializzata”, fondamentale per la divulgazione e la condivisione della conoscenza. L’operatore culturale, il professionista, il gastronomo, il semplice appassionato che volesse confrontarsi con la nostra autentica cucina locale per volontà di studio o di approfondimento, si troverebbe di fronte ad uno sconfortante deserto, potendo contare al massimo su “ricettari” che sono quasi sempre frutto di erudizione gastronomica, più che di autentica ricerca “sul campo”. In un simile stato di fatto un’azione di semplice inventariazione e catalogazione rischiava di essere sterilmente fine a se stessa. Si è reso pertanto necessario impostare ex novo il “cantiere della conoscenza” in forme tutt’altro che risolutive e conclusive, ma indispensabili come punto di partenza per qualsiasi indagine conoscitiva. SCOPI E FINALITA’ DI QUESTA RICERCA Individuare e scoprire i caratteri di “autenticità” della gastronomia territoriale tradizionale. Rilevarne la “memoria vivente” di tipo orale. Corredarla con annotazioni di tipo storico per inquadrarla in un contesto culturalmente più definito. Finalizzare i dati acquisiti al “cantiere della conoscenza”, rendendoli utili e fruibili ai fini della divulgazione e della condivisione. IL TERRITORIO STORICO L’area oggetto delle rilevazioni e della ricerca, com’è noto, dal punto di vista storico ed etnografico costituisce un “territorio” assolutamente artificiale ed artificioso, assemblato in tempi molto recenti per strategie di tipo amministrativo ed economico, e conseguentemente dotato della denominazione unitaria ma fuorviante di “Basso Monferrato Astigiano”. Sotto questo termine si trovano oggi comprese considerevoli porzioni di due entità sub-regionali caratterizzate un tempo da notevole specificità ed autonomia. Nel 1793 la “Nuova Geografia Universale” del torinese padre Buffier le identificava in : “Astesana, antica ed illustre Contea che contiene circa 80 fra borghi e castelli; ha per capitale Asti, città bella, forte e antica (….)E’ passata in mano dei Francesi nel 1746, ma presto ripassò in mano dei Piemontesi con tutta la guarnigione prigioniera…” e in “ Monferrato, è un ducato che si estende per la maggior parte verso il Po. La sua estensione è ristretta, ma gode di un terreno molto fertile. La capitale è Casale, città popolata con vescovo suffraganeo di Milano eretto da Sisto IV nel 1474, e con una Cittadella.”. La situazione descritta dal Buffier , benchè rimandasse ad una realtà di tipo statale ed amministrativo anteriore al 1631, era ancora attuale e condivisa in termini di “identità locale” e continuò ad esserlo a lungo, fino al 1935, quando la ricostituzione della provincia di Asti fece scempio di integrità socio-territoriali fino ad allora gelosamente mantenute anche in condizioni di forte accentramento amministrativo. Dopo il 1935 l’indiscriminata “astigianizzazione” amministrativa del territorio si è accompagnata di pari passo alla sua altrettanto brutale “monferrinizzazione” culturale, cancellando in pochi decenni la cultura delle reciproche “diversità”, rifiutando il polimorfismo storico-etnografico a favore della ricerca di una teorica omogeneità. Le due anime storiche che compongono il territorio attuale sono in ogni caso ancora forti e caratterizzanti, anche se misconosciute , rimosse o negate. 1) 2) 3) 4) 1) 2) IL TERRITORIO GASTRONOMICO Le diverse identità storiche appaiono più sfumate in ambito gastronomico, in quanto ricadenti entrambe in una grande “regione” culturale ben definita , costituita dall’intero sistema collinare sud-piemontese compreso tra il Po e l’Appennino Ligure, tra la pianura cuneese e quella alessandrina. Regione della quale costituiscono due aree vernacolari interessanti ma, a prima vista, poco differenziate. Così se le due aree possono sembrare sostanzialmente unitarie fra loro, ed omogenee alla “regione” di riferimento, non mancano le differenziazioni più o meno vistose, come non mancano le specificità legate a minimi riferimenti geografici. La zona di incontro, di scontro e di confronto fra le due aree costituisce una tipica fringe belt corrispondente grosso modo alla valle del torrente Versa fino a Castellalfero, idealmente prolungata in linea retta fino a Refrancore. In essa le specificità locali si intersecano e si ibridizzano evidenziandosi vicendevolmente. Al di qua e al di là di questa linea di confine, i due territori sono ulteriormente articolati in sub-aree dove il “dialetto” gastronomico comune subisce le varianti dipendenti dalla morfologia ambientale, pedologica e climatica, dagli assetti agricoli e produttivi, dalle influenze dei centri urbani di riferimento. Nella parte di Astesana compresa entro i confini del GAL si possono individuare le seguenti sub-aree specifiche: la Piana, corrispondente al circondario villanovese ed ai comuni immediatamente limitrofi, caratterizzata dalla giacitura pianeggiante, dalla pressochè totale assenza della viticoltura intensiva, dal grande sviluppo della zootecnia e della produzione casearia, dalla cerealicoltura intensiva. Le influenze urbane e commerciali sono egualmente ripartite fra Asti e Chieri. La Contea di Cocconato, corrispondente alle alte colline a nord ovest della provincia di Asti, caratterizzate fino alla fine del XVI secolo da una struttura amministrativa del tutto autonoma. Una discreta presenza “storica” della viticoltura si accompagna ad una zootecnia antica di tipo intensivo. Le influenze urbane e commerciali guardano ad Asti ma anche ai centri principali della vicina valle del Po come Crescentino e Chivasso. L’Astesana centrale, distesa tra Asti, la Piana ed il Tanaro. Caratterizzata da una buona prevalenza viticola e dall’accentuata vocazione policolturale dell’agricoltura. Influenze urbane e commerciali esclusive con la città di Asti. La Val Rilate: accentuata vocazione policolturale e contenuta prevalenza viticola; influenze urbane e commerciali privilegiate con la città di Asti. Nella parte di Monferrato compresa entro i confini del Gal sono enucleabili: il Monferrato “astigiano” propriamente detto, profondamente segnato dalla storia e dall’appartenenza all’antico marchesato-ducato, ma con forti e tradizionali legami commerciali ed etnologici con l’area astigiana, affiancati da rapporti più labili con Casale ed Alessandria. Il Monferrato nord-occidentale, gravitante sulla città di Moncalvo ma aperto anche sulla val Cerrina e sulla pianura risicola del Po. Le influenze urbane e commerciali tradizionali privilegiano Casale con una buona attenzione per Asti nelle aree tra val Versa e val Cerrina. Le due aree monferrine, unitarie dal punto di vista storico, poco differenziate morfologicamente tra loro, si distinguono da quelle astigiane per varianti più o meno accentuate riguardanti la conformazione paesaggistica e geologica, la connotazione urbanistica ed architettonica degli abitati e degli insediamenti rurali, l’organizzazione della proprietà e delle strutture produttive contadine; tutti aspetti che si ripercuotono anche sul panorama gastronomico-alimentare determinandone la declinazione in chiave vernacolare nel rispetto di una “Koinè” comune. IL RILEVAMENTO. Gli “scavi” nella memoria orale sono stati condotti in comuni ritenuti rappresentativi di una delle sub-aree sopra definite ed elencate: essi sono Villanova, Cocconato, Villafranca e Montechiaro per la parte astigiana; Montemagno e Moncalvo per quella monferrina. Ai fini del rilevamento si sono individuate persone il più possibile “rappresentative”, di sicura e continuata formazione contadina e di età avanzata. Il rilevamento non è stato né facile né agevole, anzi decisamente più complicato del previsto. Salvo qualche eccezione, gli intervistati si sono rivelati inadatti alla formulazione “a domanda e risposta”, mentre hanno fornito risultati eccezionali nella modalità conversativa. In questo caso si sono rivelati straordinari affabulatori, lasciando scorrere il fiume dei ricordi con grande partecipazione e scambio emotivo. La semplice indagine si è così trasformata in una “storia minima” narrata, colorita a tinte vivaci, icastica grazie all’espressività della comunicazione non mediata e non condizionata. Sono emerse personalità eccezionali e, per chi scrive, indimenticabili. Le lunghe ore trascorse insieme sono state per me un arricchimento prezioso. A loro va tutta la mia riconoscenza, poiché loro, e loro soltanto, sono gli autori di questo scritto. Il materiale raccolto è ben più abbondante ed organico di quanto si è scelto di riportare ai fini della ricerca; si è dovuto giocoforza privilegiare i passi più significativi ed esplicativi a danno di un’aneddotica straordinariamente variata e qualitativamente rilevante. Le persone alle quali appartengono le testimonianze riportate sono: Villanova: Maria Granero in Vergnano di anni 90, casalinga-contadina ; Bruno Vergnano, massacrin. Cocconato: Giuseppina Parena, ultraottantenne, casalinga- contadina; Bruna Perotto, ultraottantenne, casalinga contadina con gioventù “a servizio” in ristoranti della zona. Cocconato-Moransengo: Angela Bersano, ultraottantenne, casalinga-contadina. Cocconato-Montiglio: Angela Romagnolo, ultraottantenne, casalinga-contadina. Montechiaro: Ferrero Maria, Rina Bossone, Costantina Scuvero, ultraottantenni, casalinghecontadine. Montechiaro-Frinco: Anna Obermitto, ultraottantenne, casalinga contadina. Montechiaro : Rebaudengo Remo, massacrin e salumiere. Villafranca: Costanza Sardo, ultrasettantenne, casalinga contadina. Montemagno: Carla Quirino annni 76; Franca Quirino anni 67, Margherita Bussa anni 75, casalinghe contadine. Moncalvo: Vincenzo Testa detto Censo, origini contadine, molti anni trascorsi nelle cucine di trattorie popolari moncalvesi. Ai fini di verificare la tenuta e la trasmissione della memoria generazionale si sono intervistate anche: Margherita Amerio, Villafranca-Dusino; Maria Luisa e Simona Giachino, Cocconato, di età compresa tra i 30 ed i 50 anni. I miei ringraziamenti vanno anche alle persone che hanno organizzato gli incontri o mi hanno messo in contato con le persone intervistate, predisponendone la fiducia e la disponibilità: Per Villanova: Nadir Rodella (presidente Pro Loco) e Ornella Rodella. Per Cocconato: Barbara Rossotto ( segretaria Pro-Loco) Per Montechiaro : Fiorenza Panzini, Franca Tabusso. Per Villafranca: la sig. Pasino degli uffici comunali. Per Montemagno : l’Assessore Silvana Ferraris e lo staff degli uffici comunali. Per Moncalvo: la sig. Braghero presidente della Pro-Loco. Mi sento in dovere di formulare un ringraziamento speciale per l’accoglienza e la premurosità dimostrate: alla famiglia Rodella di Villanova; alla Sig. Silvana Ferraris di Montemagno; alle Sig. Fiorenza Panzini e Franca Tabusso di Montechiaro. AVVERTENZA Gran parte delle conversazioni si sono svolte alternando l’italiano all’idioma locale; nella trasposizione scritta si è scelto di riportare i testi nella sola lingua italiana, per una più agevole ed immediata lettura. Tuttavia si sono usati con una certa frequenza termini o periodi riportati nella parlata locale. Per la loro trascrizione si è utilizzata la grafia piemontese ufficiale. Per ricordarne le regole fondamentali, già codificate nel corso del XVIII secolo, riporto un Sonetto in linguagi astigiano del 1786, composto dal canonico Stefano Giuseppe Incisa ed inserito in un trittico poetico dedicato ad un Cavallo che partecipò in quell’anno al Palio di Asti. “ Coi, ch’veuro lezi giust i me Sonett, ch’vagh fasend ant o nòstr linguagi astzan, ch’a i lezo tai e quai com a i trovran, senza alveji, ò giunzìj gnanch un’ett; R’ ò dar acent va larg, e r’autr va strett, tutun com r’ ou franzeis, ò r’ u italian; r’ eu r’è franzeis, e tuti già r’lo san, ch’ar è r’unich dittongh do nòstr dialett; R’erre, ch’usoma noi cossì frequent, quand a r’è sol ar va nen lett tant rudi, ma cossì dos, ch’appenna appenna a ‘ss sent: Con st’ regoli, ch’ son pòchi, e universai, chi lezrà i me Sonett, senza tant studi ar vogrà, ch’son andant, e naturali. Lò, ch’peur fè ‘mpò d’fastudi, son certi enne cativ da prononziè, e certi paròli, ch’s devo fè spieghè. Do rest o nostr parlè Chi ‘r l’antend, chi ‘n l’antend, chi ‘n veur antendi: chi sa nen lezi astzan ch’ar vena amprendi. S’mi fuss un, ch’peissa spendi A st’ora qui j’avreiva già stampà Armanch ‘na Gramatica, ò ‘n Donà.” ALLE RADICI DELLA TIPICITA’ Sabato 3 Ottobre 1936 : il quotidiano “Stampa Sera” pubblica un lungo reportage enogastronomico firmato da Renzo Arnaldi, avente come tema un pranzo memorabile consumato a La Morra, nelle Langhe. Partcolare cura è destinata alla descrizione del Menù: “ Qui la parola antipasto può voler dire: involtini di prosciutto crudo ripieni di pasta d’acciughe, burro e tartufi; pasticcio di fegato con gelatina o maionese; uova in salsa cardinale; peperoni con bagna caoda e tartufi. Roba da bastare per un pasto intero (…). Accogli quindi, con rinnovato entusiasmo, i taglierini conditi con tartufo, fatti freschi e cotti con precisione di secondi. Questi sono opera specialissima del padrone, di Vigin (….). Se i taglierini sono squisiti, i sorsi di scelto Barbaresco ti aiutano a mandarli giù (….) ; per questo la pernice, il fagiano, la finanziera, o la faraona in salmì o la lepre in sivè non trovano mai stomachi sazi. Il tubero prezioso, il ‘diamante grigio delle Langhe’ , trova però il suo piatto trionfale poco dopo, quando la Gina o l’Italia, le figlie dei padroni, ti metton davanti una fonduta. Liquida, soave, che ti par di berla, che scende dalla bocca alla gola dritta dritta (…), beatitudine del gargarozzo. Poi verrà la frutta delle Langhe, saporita quant’altre mai, e magari un dolce che ti apre nuovi orizzonti nella multiforme arte di madama Maria.” Un pranzo che, senza grandi varianti, sarebbe possibile ritrovare ancora oggi in un buon ristorante “tipico” delle Langhe, dell’Astesana o del Monferrato. Un pranzo che chiunque è in grado di sentire come “piemontese”. Se lo stesso giornalista avesse effettuato la sua scampagnata gastronomica a La Morra appena un decennio prima, avrebbe trovato, per contro, una realtà affatto diversa. Il 4 Settembre 1921 presso il ristorante “Belvedere” il menu recitava “ ANTIPASTO ASSORTITO ( il classico “antipasto all’italiana” con salumi, sottaceti, olive, riccioli di burro etc.) – CAPPELLETTI IN BRODO – ROST-BEEF CON FINANZIERA- POLLO ARROSTO CON INSALATA- DOLCE- FRUTTA” . Nello stesso comune l’albergo dell’Angelo, in data 22 Maggio 1921, proponeva “ ANTIPASTO HORS LIGNE – CAPPELLETTI CASALINGHI AL CONSOMME’- ASPARAGI AL BURROTROTE CON MAJONNESE- POLLO ARROSTO CON INSALATA DI STAGIONEPATE’ A LA GLACE- FRAGOLE AL MARSALA- FRUTTA DI STAGIONE- CAFFE’ CON ZUCCHERO” . ( in “La vigna in etichetta. Storia del Barolo di La Morra” di Armando Gambera, Bra 1994, pp.56-57) Liste del genere, che oggi ci appaiono pochissimo differenziate dal punto di vista territoriale e sostanzialmente ispirate alla cucina borghese tardo ottocentesca di modello artusiano, erano la regola assoluta in tutti i ristoranti piemontesi di medio livello. In quelli d’alta classe, com’è noto, andava peggio, e l’offerta gastronomica si basava su piatti internazionali dai nomi pomposi e dalla sostanza spesso banale. Una “colazione” offerta dalla città di Torino l’8 Giugno 1902 prevedeva ad esempio : “Saumon du Rhin-sauce americaine ; Filet de boeuf à la Marechale; Quenelles de Jambon à la Duchesse; Faisans rotis; Salade Wladimir; Glace Aurora à la Chevalière; Gateau Turin”. Tornando al nostro Renzo Arnaldi, ed immaginandolo a girovagare per ristoranti piemontesi nei primi decenni del Novecento, si ha la certezza che avrebbe trovato le cucine dei grandi alberghi assolutamente prone agli imperativi della moda gastronomica “internazionale” ed “infranciosata”; quelle dei locali di medio livello ispirate alla rassicurante ma indistinta semplicità del modello artusiano e borghese. Ci sarebbero stati anche numerosi “Ostu”, trattorie, locande popolari che proponevano piatti rudi e forti da carrettieri, da mediatori, da allevatori di bestiame, certamente molto caratterizzati in senso territoriale, ma dove i gastronomi per bene, all’epoca, non mettevano piede convinti che la gastronomia fosse altra cosa e risiedesse altrove. Cos’era successo intorno a quel fatidico 1936, se i ristoranti piemontesi in quella data ostentavano ormai una cucina “regionale” e tipicizzata? La nascita di un modello Il 1°Maggio 1925 il regime fascista diede vita all’OND , Opera Nazionale Dopolavoro, con lo scopo primario di controllare politicamente la vasta pletora di circoli aggregativi, sociali, ricreativi diffusi in tutta la nazione. In poco tempo l’OND si arrogò il compito di gestire statalmente ed in modo centralizzato il tempo libero degli italiani. L’ossessione per le condizioni igienico sanitarie delle classi popolari, che giustificava tra l’altro lo sventramento “risanatore” dei centri storici, fece diventare l’OND una grande organizzatrice di viaggi, scampagnate collettive, gite fuori porta, ed in seconda battuta la fondatrice del “turismo di massa” domenicale. Treni popolari, “autocolonne” di torpedoni o plotoni di biciclette, nella bella stagione e con inesorabile frequenza, trasferivano impressionanti masse di cittadini nelle “amene località” di campagna, in cerca di sole, aria buona ed atmosfere georgiche tanto care al regime. Le “amene località”, per essere scelte come meta di simili esodi biblici, si inventarono sagre, feste, concorsi, rassegne commerciali, rievocazioni storiche. E’ ancora tutta da scrivere la storia della “folklorizzazione” fascista delle nostre terre, ma è indubbio che dall’Appennino al Po ogni comune intraprendente fece nascere, tra la fine degli anni ’20 e l’inzio dei ’30, la sua Sagra dell’uva, o la sua Festa Vendemmiale, o un qualche altro momento di richiamo in grado di risultare appetibile al flusso del turismo domenicale proveniente dalle metropoli del “triangolo industriale”. Ad esempio la 4° Sagra dell’Uva celebrata a La Morra nel 1933 vide l’afflusso di 18.000 visitatori organizzati: da Torino 7200 con il treno popolare e 2000 con l’autocolonna; 2000 da Genova; 5.800 dai centri della provincia di Cuneo; 1000 da Milano. Se la maggioranza dei “gitanti” preferisce il pranzo al sacco per ovvie ragioni di economia, ciò non toglie che ristoranti e trattorie delle mete turistiche siano letteralmente presi d’assalto, tanto che il Regime impone loro, in tali occasioni, prezzi fissi, concordati e bloccati. L’esigenza è quella di fornire pasti a prezzo popolare, ma anche abbondanti e soprattutto caratteristici, rurali, agresti, diversi da quelli che si consumano nei locali di città. La risposta dei ristoratori piemontesi è pronta e , per certi versi, geniale. Essi adottano in maniera trasversale preparazioni e ricette delle cucine locali, proprie del mondo contadino, di quello borghese e di quello aristocratico, affiancandole a piatti “moderni” ed internazionali oppurtunamente rivisitati in chiave territoriale, e assemblandoli in menu del tutto nuovi nell’impostazione e nell’ordine di servizio. Grande spazio ed enfasi si riserva agli antipasti, più economici e di veloce realizzazione rispetto alle altre portate; fra essi vengono inseriti piatti tradizionalmente collocati fra i secondi ( come il vitello tonnato, il fritto misto, la lingua in salsa, le verdure ripiene) o adottati appositamente ( come l’insalata russa, la carne cruda, i vari patè). I primi piatti vedono il trionfo di specialità locali famigliari come gli agnolotti, i tajarin, il risotto. Tra i secondi si privilegiano la selvaggina (ancora abbondante all’epoca) , le carni bovine brasate, la volaglia nobile (fagiani, faraone, anatre). Si elabora così una cucina “tipica” regionale del tutto autonoma rispetto a quella “territoriale” praticata dalle famiglie, certamente piuttosto omologata , standardizzata e schematica, ma destinata ad una fortuna enorme. E’ la cucina che ancora oggi recepiamo come “nostra”, senza avvederci più che si tratta di un modello artificioso, indifferenziato dal Cervino al Cadibona. TIPICITA’, TERRITORIALITA’, AUTENTICITA’. Quello che noi riteniamo “tipico” ha in ogni caso una sua dignità culturale, trattandosi dell’esito finale di un processo che ha recepito ed elaborato desinenze comunque radicate e condivise, e va utilizzato come un necessario punto di partenza. Proprio per rispondere ed ovviare ai suoi limiti omologanti e standardizzanti, negli ultimi decenni la cucina ristorantizia più colta ha arricchito il concetto del “tipico” con quello del “territoriale”. Ha in sostanza specializzato e caratterizzato la propria offerta qualificandola con il ricorso alle produzioni locali, chiamate in causa per sottolineare ed esaltare quello che i francesi, con mirabile sintesi, definiscono “terroir” e che sottintende l’insieme delle suggestioni ambientali, storiche, tradizionali in grado di conferire identità ed irriproducibilità alla gastronomia. Rispetto alla Tipicità, la Territorialità è già un netto passo in avanti ma non ha mancato di mostrare anch’essa i suoi limiti. Ad esempio, si può fare una cucina basata esclusivamente sui prodotti più locali che esistano, senza che questa cucina esprima la civiltà gastronomica di un territorio. Paradossalmente, si può preparare un’ottima pizza solo con prodotti rigorosamente astigiani o monferrini, ma il risultato sarà comunque estraneo alla tradizione delle nostre terre, e la sua estraneità sarà comunque recepita negativamente da chi cerca e pretende una vera cucina astigiana o monferrina. Ecco allora che la Tipicità e la Territorialità devono essere necessariamente fecondate dall’Autenticità, che vuol dire in sostanza rispetto della Tradizione. Rispetto, a sua volta, non significa “conservazione” o riproposta immutabile ed acritica, ma condivisione di valori, utilizzazione di esperienze, esaltazione di caratteri. La cucina e la gastronomia non sono mai statiche, mai immutabili, ma in costante evoluzione. Una cucina ed una gastronomia tipiche, territoriali ed autentiche, e dunque rispettose della tradizione, sanno e devono evolversi senza mai perdere di vista le proprie radici, costituite dalla sedimentazione della cultura espressa dalle generazioni che ci hanno preceduto. LA CUCINA CONTADINA DEL TERRITORIO. Una prima analisi della cultura gastronomica di un territorio non può che partire dallo studio della cucina contadina, la più connessa alla fruizione diretta delle risorse locali. E’ vero che le più ardite e significative elaborazioni gastronomiche sono frutto del ceto borghese e cittadino. E’ altrettanto vero che nell’area in esame, profondamente rurale, tali elaborazioni risultano estranee, quasi sempre importate e adottate a seguito di scambi e di dialettica sociale intrattenuta con zone urbane d’irraggiamento. Se la “tipicità” della nostra cucina è il risultato di esperienze eminentemente cittadine, la sua “territorialità” e la sua “autenticità” affondano decise nel mondo contadino. Far riemergere simili componenti non è stato facile, vista la ben nota elusività ( per non dire assenza) delle fonti scritte, peraltro impensabili in una cultura “subalterna” a tradizione sostanzialmente orale. E’ stato necessario procedere ad una vera “inventariazione della memoria”, appoggiandosi alle fonti orali ancora reperibili, sia pure in quantità sempre più scarsa. Le testimonianze raccolte hanno costituito una necessaria base di partenza per un primo approccio di tipo storiografico “qualitativo”, appoggiato questa volta a parametri costituiti da testi scritti specifici, non numerosi ma significativi. CARATTERI DELL’ALIMENTAZIONE CONTADINA NEL TERRITORIO: MANGIARE POVERO IL Franca Quirino ( Montemagno) “Patati fricci, patati bojij, patati camodaij, ecco cosa si mangiava una volta. Si faceva la polenta, un po’ di cipolle, un salamino sfacc e un po’ di conserva per fare una bagna, si mangiava quello. E andava già bene. Quando ero bambina veniva una donna ad aiutarci a legare le viti, cominciava al mattino e si fermava fino a sera. Intanto che legava guardava in basso, e se trovava una piantina di sarset la raccoglieva e la metteva nel grembiule. Poi a mezzogiorno si metteva sotto il portico o nella stalla, se faceva freddo, si puliva i suoi sarset , tirava fuori un cartoccino di sale e se li mangiava così, asciutti, con una crosta di pane e un po’ di sale sopra. Quando mia mamma se n’era accorta, allora le dava mezzo uovo sodo, o pane e mostarda; allora sì che era contenta! Vincenzo Testa ( Moncalvo) “ ‘Na vòta j’era mach la polenta; polenta e marluss, polenta e anciue, polenta e mostarda, polenta e bagna, polenta friccia…” Anna Obermitto (Frinco-Montechiaro) “ Quando c’eravamo noi c’era poco. Si cercava di mangiare abbastanza, non si guardava mica tanto di fare dei pietanzini, si mangiava pan e aptit. Io da bambina l’avevo vista, una famiglia che non aveva da mangiare, un giorno ero capitata a casa sua all’ora di mangiare. Ebbene, avevano un po’ di polenta e una saracca in mezzo al tavolo, e tutti prendevano la sua fetta di polenta e la passavano sulla saracca, una volta sola. Mi ha proprio fatto effetto, me lo ricordo ancora come fosse adesso!” Nel 1816 l’erudito Giovanni Secondo DeCanis compilava una “Corografia Astigiana”, sorta di studio statistico, sociale e geografico sulla provincia di Asti. Trattando delle condizioni economiche dei contadini del territorio affermava senza incertezze: “Fatta una comune, eglino vivono agiati, ed i loro cibi semplici si, ma sostanziali, rendonli vegeti e sani. Il cibo ordinario è il pane e la meliga ridotta in farinata, i fagiuoli ed altri simili marsaschi; le ova, del pollame, il butirro ed il latte delle vacche entrano pure nell’odierno loro alimento. Quindi è che nutrendosi così gl’abitanti della provincia d’Asti resistono ai gravi travagli dell’agricoltura ed essendo sanissimi derivane una popolazione perfettamente formata cosicchè pochissimi sono i mal costrutti, pochissimi i biondi e non vi regnano qui temperamente deboli e rachitici, che in più altri luoghi s’incontrano. Le donne sono tutte di bella e proporzionata taglia, quasi tutte di color bruno, che indica la loro robustezza.” Un quadro assolutamente positivo, soprattutto se paragonato alla realtà di altre zone piemontesi o di altre regioni italiane. Lo stesso DeCanis individuava però i segnali di preoccupanti cambiamenti, affermando: “Quanto al vitto gli Astigiani sono piuttosto sobrii: da alcuni anni le derrate avendo preso un considerevole aumento, i contadini fanno la speculazione di vendere il grano e di cibarsi di meliga ridotta in farinata”. L’inarrestabile spinta inflattiva, i disastri della guerra contro la Francia a fine Settecento e della conseguente occupazione napoleonica, i costi delle Restaurazione riversati sulle spalle delle classi più deboli, provocarono in poco tempo un vero e proprio collasso nel tenore di vita del mondo contadino astigiano. Già nel 1828 Giuseppe Maria De Rolandis scriveva che i contadini della provincia si cibano con “… pane di frumento, di miglio, di meliga, la polenta, i fagiuoli, un poco di riso, le castagne e le erbe. Di frequente il pane è mescolato con l’orobo, loglio, moco e simili, onde provengono tante vertigini, gastricismi, coliche etc. e la polenta, che è quasi l’esclusivo nutrimento della classe meno dalla sorte favorita, non di rado è fromata da farina guasta, così predisponendo alle diverse morbifiche alterazioni, che ne scuote il di loro d’altronde robusto temperamento. Occorrendo che qualche bestia moja, allora se le autorità locali presto non lo vietano e bene non invigilano, solleciti se ne procurano e imprudentissimamente se ne saziano, ed ecco il perché tutti gli anni compiangesi la perdita di vegeti agricoltori repentinamente dall’insidioso Antrace mietuti. Vitto talmente misero, a cui poco sale serve da condimento, non viene umidito che da vini adaquati, sovente inaciditi o corrotti, e tante volte da semplice acqua, così presentando una delle triste verità delle umane sciagure, scorgendosi che i poveri coltivatori, quelli che più travagliano intorno alle viti, ben raramente assaggiano il frutto di lor fatiche” (G.M. DeRolandis:”Cenni medici statistici della Città e provincia di Asti”, Torino 1828, p.30-31). Un panorama allucinante, non dissimile da quelli descritti durante la guerra del Trent’anni ad inizio Seicento, o durante le grandi carestie del secolo precedente. Un panorama di pura sopravvivenza, destinato a perpetrarsi ancora a lungo, salvo brevi periodi di ripresa, e addirittura a peggiorare verso la metà dell’Ottocento, quando l’invasione della Peronospora e dell’Oidio, distruggendo per diversi anni le vendemmie, falcidiò la prima ed essenziale fonte di reddito del contadino astigiano. Solo verso gli anni ’80 dell’Ottocento la situazione si invertì, avviando un nuovo periodo di crescita economica e di miglioramento qualitativo delle condizioni di vita. Se in precedenza la stragrande maggioranza dei prodotti delle piccole e medie aziende agricole doveva essere venduta per far fronte alle spese, verso la fine del secolo, grazie anche all’aumento della produzione enologica, a fine Ottocento una parte di essi può essere defalcata e reimpiegata per l’alimentazione famigliare. Al contadino disperato con un regime alimentare di pura sopravvivenza ( che costituisce la norma nel panorama sociale di metà Ottocento) si sostituisce il contadino “autarchico” la cui alimentazione, pur sempre oculata e parsiomoniosa, diventa non solo sufficiente ma anche varia e salubre grazie all’assetto policolturale delle proprietà che permette una notevole articolazione delle risorse autoprodotte. Nel 1876 Roberto Sacchetti di Montechiaro d’Asti poteva scrivere che i contadini-proprietari astigiani “…si cibavano unicamente dei loro prodotti; essi avevano in casa il pane, la polenta, i legumi, l’olio di noce, il latte, il salame, le caciuole di latte cagliato; il macellaio, cui vendevano periodicamente i vitelli, si obbligava di fornire per sovrammercato alcuni chilogrammi di carne per le feste principali” . Il ciclo della miseria poteva dirsi concluso, e le condizioni alimentari tornate ai livelli descritti dal DeCanis agli inizi del secolo. Situazioni analoghe sono fotografate dall’Inchiesta Agraria Jacini: la “Monografia sul Circondario d’Alba”, compilata nel 1880 da Lorenzo Fantino è emblematica e può essere assunta come modello anche per la nostra zona: “ L’alimentazione va continuamente migliorando, in ispecie nelle regioni vinifere, del resto in tutte le altre si è generalizzato l’uso della carne suina. Si macella un maiale e lo si divide fra due, tre o quattro contadini, i quali conservano le carni sotto forma di lardo, salami e grascie. In cotal guisa si provvedono con molta economia di buon condimento, e di un eccellente companatico per l’Inverno. (…) Nessuno meglio dei panattieri, dei pizzicagnoli e dei macellai, potrebbe affermare il grado di progresso che si verifica nel regime alimentare. In quasi tutti i comuni la consumazione delle carni, del pane, dei salumi, del burro, olio e droghe, si è duplicata ed anche triplicata negli ultimi vent’anni. Il prezzo sempre sostenuto delle carni bovine tiene ancora il contadino un po’ lungi da esse. Egli si limita a mangiare qualche po’ di lesso nelle occasioni delle feste principali, sempre quando non ama meglio sacrificare qualche abitatore del pollaio. Riassumendo, quindi, in ordine all’alimentazione, si vede che il regime è dei migliori che vi siano nell’Alta Italia, e diccasi pure dell’Italia tutta, inquantochè io che per ragioni di servizio l’ho dovuta girare da un capo all’altro, so come si mangia dai contadini nelle altre parti. Si mangia anche della polenta, ciò e vero, ma è fatta di buon melgone, più sapido e nutritivo di quello delle pianure irrigue; d’altro lato essa non forma l’alimentazione esclusiva, essendo alternata , come s’è veduto, col pane e colla minestra. Nessun inconveniente ha difatti risentito finora il contadino dall’uso della polenta. Si conoscono famiglie che la mangiano da più anni fino a due volte al giorno; ebbene, andate a vederla quella gente, come sta bene, com’è sana e prospera, e che fanciulletti rossi e paffutelli che hanno. altro che pellagra! Si direbbe a prima vista che sono nutriti coi migliori alimenti, tanto è bello il loro aspetto.(…). Un’epoca cruciale. La fine dell’Ottocento rappresenta un periodo decisivo per la definizione della cucina “tipica” contadina nel nostro territorio, almeno come la conosciamo attraverso la mediazione della memoria generazionale. Alle sopravvivenze ancora robuste dell’alimentazione arcaica, in non pochi casi risalenti all’epoca medievale, si uniscono rapidamente nuovi alimenti, nuovi stili di preparazione, nuove ricette. In quest’epoca si ha la vera, definitiva invasione del pomodoro e dei suoi derivati, che permette di aumentare notevolmente il ricorso alle paste alimentari. Torna a crescere il consumo delle carni, sia pure per la maggior parte costituite dagli animali da cortile; si diffonde l’uso di carni in umido prima riservate al solo mondo borghese. Una maggior disponibilità di risorse da destinare all’alimentazione permette il cauto ricorso a materie prime acquistate, come il formaggio “da grattare” o quello “da mangiare” ( gruviera e gorgonzola su tutti, ma anche tome , robiole o ricotte di produzione locale), la pasta secca, il riso etc. Gli ultimi decenni dell’Ottocento ed il primo del Novecento saranno un’epoca di grande evoluzione, un grande cantiere gastronomico poi sospeso e cristallizzato a partire dal 1915 per un lunghissimo periodo, a causa delle crisi economiche, sociali e produttive che da quella data travagliarono in modo costante il mondo contadino IL VITTO QUOTIDIANO “ L’alimentazione dei nostri contadini è semplicissima, piuttosto spartana, ma sufficiente, sana e igienica. (…) Il contadino a qualunque classe appartenga mangia quattro volte il giorno, e a dire la verità la minuta dei pasti è pressochè uguale per tutte le classi, ad eccezione di qualche famiglia di proprietari che di tanto in tanto, e specialmente nei giorni festivi, si permette il lusso di qualche boccone un po’ più fino e delicato. Vediamo la composizione dei pasti quotidiani. Al mattino, tranne nell’inverno, dopo due o tre ore di lavoro e cioè verso le 7, fa un po’ di colazione, consistente per lo più in pane e cacio, peperoni, sedani o ravanelli bagnati nell’olio, ed un mezzo litro di vinello. (…) Alle 11 pranzo, composto di una polentona grossa, bella, tonda, gialla come l’oro e fumante come un vulcano. Oppure d’un minestrone di paste o di riso, con verdura, condita al lardo, tranne nei giorni di vigilia che s’usa l’olio. (…) Se si tratta di polenta , le donne preparano per condirla qualche intingolo, e che intingolo! Il sistema di cucinare delle nostre contadine è uno solo, paiono uscite tutte dalla stessa scuola. Le loro salse sono tutte composte d’olio, aglio e acciughe. Talvolta colla polenta si mangia qualche sorta di cacio pecorino, detto in vernacolo brus , e nei giorni di vigilia merluzzo in salsa, qualche rara volta anche le uova. (…) Tre ore appena dopo il pranzo eccoli da capo a mangiare la merenda. Questo pasto è quasi eguale alla colazione, senonchè mangiano pane e cacio, e più generalmente insalata, della quale ne sono ghiotti specie nella calda stagione. L’olio è il principale condimento dei nostri contadini, non monta loro che venga da Lucca o da Nizza, purchè sia olio e costi poco. (…) Finalmente, quando il crepuscolo della sera fa capolino, cessano il lavoro e tornano alle case, dove li attende la cena. Se a pranzo si mangiò polenta, a cena si mangia minestra, e viceversa. (…) Nell’Inverno i pasti sono ridotti a tre, uno al mattino appena alzato, che tiene posto del caffè. Una polenta calda e fumante è prediletta e preferita ad ogni altra cosa, perché riscalda loro lo stomaco. Alcuni invece spalmano su larghe fette di pane quel certo cacio fermentato, fortissimo , che fa mettere i lacrimoni a mangiarlo; altri ungono il pane con l’olio e con l’aglio, e altri infine sono ghiotti di peperoni sottaceto, che intingono in salsa d’olio, aglio e acciughe. A mezzogiorno pranzano, ed alla sera alle sei cenano.” La testimonianza di Lorenzo Fantino, scritta nel 1880 , inserita e pubblicata nell’ “Inchiesta Agraria Jacini” rappresenta un documento eccezionale, e riassume perfettamente quanto rilevato nel corso delle interviste condotte sul territorio. La memoria attuale dei nostri contadini è ancora totalmente costruita su un simile modello quotidiano, rimasto pressochè invariato fino al secondo dopoguerra. La struttura del vitto quotidiano non ha bisogno di ulteriori commenti. Essa si può riassumere secondo i seguenti principii: 1) Notevole articolazione e frequenza dei pasti, sconosciuta nel mondo urbano piccolo borghese o proletario. 2) Predominanza della polenta su ogni altra vivanda, ma alternanza della stessa con piatti diversi (minestre asciutte o brodose di pasta o riso) 3) Predominanza della salsa di acciughe, aglio e olio ( la celebre “Bagna Caoda” come “sapore” caratterizzante) 4) Ricorso pressochè esclusivo a materie prime autoprodotte: fresche (ortaggi, latte, insalate , erbe spontanee) o manipolate ( farina da pane o da polenta, insaccati, latticini) . Uniche eccezioni l’olio di oliva, le acciughe, il merluzzo e poco altro. 5) Assenza pressochè totale della carne, riservata al pranzo festivo o alle occasioni straordinarie. CARATTERI DELL’ALIMENTAZIONE CONTADINA NEL TERRITORIO: PRANZO FESTIVO IL L’alimentazione contadina, in poche e circostanziate occasioni, riesce a sfuggire alle ferree leggi della parsimonia e dell’autarchia, all’ineluttabilità del “mangiare per vivere”. Anche il contadino celebra la festa prima di tutto con la condivisione sovrabbondante del cibo e del vino, e con l’inusitata qualificazione di entrambi. La festa, evento straordinario che rompe e stravolge il piatto scorrere della quotidianità, impone un temporaneo regime alimentare altrettanto straordinario, altrettanto stravolgente, all’insegna dell’abbondanza e del piacere dei sensi. L’etica che presiede all’alimentazione festiva si celebra in campagna in modo blando ed appena accennato nel giorno di Domenica; in modo opulento e trasgressivo nel corso di ricorrenze straordinarie quali le festività patronali e quelle nuziali. Il mangiare della domenica. “Se il contadino è un instancabile lavoratore lungo la settimana, è altrettanto rigido osservatore del riposo alla Domenica. Al mattino, dato assetto ai suoi panni, si reca nel paese per sentire messa, ed allora si permette poi un po’ di conversazione sulla pubblica piazza o avanti la chiesa, e non v’è bisogno di aggiungere che l’oggetto di ogni discorso è il tempo che fa, la campagna, il raccolto, il bestiame ecc. (…) Il giuoco da loro preferito è quello igienico della palla o del pallone, di cui sono innamoratissimi, e fa loro passare, senza accorgersene, le lunghe ore della Domenica.” ( Lorenzo Fantino, Inchiesta Agraria Jacini 1880). Il rigore calvinista con cui il contadino del Piemonte meridionale imposta la propria esistenza, come ricordato dal Fantino, non transige ovviamente neanche nel rispetto della sacralità festiva. Sacralità che impone la totale astensione dal lavoro, lo svago, il rafforzamento dei rapporti sociali e, last but not least, la fruizione di un vitto ricco, abbondante e variato in grado di rompere la monotona routine del mangiare quotidiano. E’ la carne di qualsiasi specie a costituire il “segno” del pasto domenicale, la materia prima attorno alla quale esso si organizza. Il lesso di carne bovina è molto amato, e la sua frequenza rappresenta un sicuro indicatore di prosperità e benessere; tuttavia il suo costo elevato e l’impossibilità della sua auto-produzione nel limitano l’impiego anche presso le famiglie benestanti, imponendone l’alternanza con carni alternative più accessibili, quali il pollame o il coniglio. Se il “bollito alla Domenica” è l’obbiettivo a cui mirano le aspirazioni e le “ambizioni” della famiglia, la gallina o il coniglio è la realtà con cui spesso la “santificazione gastronomica” del pranzo festivo viene risolta. Il Bollito, che è sempre acquistato dal macellaio, viene proposto in un taglio solo, ed accompagnato da un contorno abbondante di insalata, purè o verdure cotte. Il suo brodo servirà per la preparazione di una minestra “fine” di pasta; i suoi avanzi compariranno la sera stessa o nei giorni seguenti, opportunamente riciclati in polpette, camodaje, frittate “rognose” o “friciolin”. Anche la gallina (polaja), che frequentemente lo sostituisce, è in sostanza un “bollito domestico”, in grado di fornire un brodo altrettanto apprezzato. La presenza delle regaglie impone però la preparazione di una pasta asciutta casalinga (tajarin, lasagne) o, frequentemente, di un risotto. Si può affermare con una certa sicurezza che le famiglie contadine di collina, oculate e parsimoniose ma anche sensibili al buon mangiare, celebrino la maggior parte delle domeniche ordinarie con il dittico gallina bollita-risotto o gallina bollita-tajarin, riservando il bollito di manzo ad occasioni di maggior solennità. Il coniglio, terzo protagonista della cucina festiva, è meno versatile nelle possibilità di sfruttamento gastronomico; il suo fegato è tuttavia un ingrediente pregiato per la preparazione di condimenti per tajarin o altre paste asciutte. Il mangiare straordinario. Per il nostro mondo contadino la festa patronale, dal punto di vista non solo alimentare, costituisce il più importante appuntamento dell’anno, molto più del Natale o della Pasqua. E’ la festa dell’identità sociale, rafforzata ed espressa dal culto semi-totemico di un Santo che la incarna fisicamente e la rappresenta; è la festa dell’appartenenza e delle radici. La sua celebrazione rinsalda i rapporti interpersonali, interparentali ed interfamigliari; rafforza e ripristina il “patto sociale” della convivenza. Gli strumenti usati ai fini di tale celebrazione, com’è noto, sono molteplici: religiosi (Messa grande, pontificale, processione, Vespri etc.) , commerciali ( mercato, fiera), ricreativi ( giochi “pubblici” come tamburello, pallone elastico, bocce; corse di cavalli, gare di destrezza) aggregativi (ballo, incanto di oggetti, fuochi di gioia , canto degli stranòt o delle bosinà): tutto interagente per rendere quel giorno un Evento straordinario ed irripetibile per un anno intero. In un simile contesto i membri della comunità sono invitati a fare la loro parte, sacralizzando laicamente quel giorno con il profluvio del cibo e la sua condivisione. Il pranzo ( o i pranzi) della Festa patronale, pur svolgendosi in ambito domestico, sono rivolti alla “parentela allargata”, ai membri lontani della famiglia che in tale circostanza si ricompone “ad unum panem et unum vinum”. Si invitano i parenti che abitano in altre borgate, in altri paesi o addirittura in città, innescando un circolo virtuoso di scambi che potenzialmente moltiplica le occasioni festive. Soprattutto in Astesana, caratterizzata da comuni piccoli e poco estesi territorialmente, l’ampiezza e l’articolazione dell’area matrimoniale permette al contadino di usufruire nell’arco dell’anno di più di una festa patronale. In antico, per tutto il periodo medievale il mondo rurale piemontese celebrava le feste patronali tramite l’istituzione della Confraria, organizzazione laicale composta da tutti i capofamiglia di una parrocchia (e quindi, quasi sempre, di un villaggio) che si autotassavano mediante conferimento di grano o altre derrate. )Il ricavato delle collette veniva impiegato nei festeggiamenti titolari della parrocchia, per l’imbandigione di un grande e ricco pranzo collettivo, certamente il più grande ed il più ricco dell’anno. Il Concilio di Trento e la Controriforma fecero piazza pulita di questa bella usanza, ritenuta irriguardosa, nel giro di qualche decennio, e la cultura contadina a partire dal XVII secolo fu costretta a celebrare i proprii riti conviviali in forme private e domestiche. Si elaborarono tuttavia “strategie di resistenza” che in qualche modo garantirono una certa continuità con il passato. Soprattutto in Astesana nacque l’istituzione della “Rettoria”, in alcuni casi sopravvissuta ancora oggi. La componente laica delle parrocchie e delle chiese campestri, in modo del tutto autonomo rispetto all’organizzazione religiosa secolare, continuò a coordinarsi sotto la guida di capi chiamati “Rettori”. La loro funzione e le modalità della loro nomina era mutuata dalle istituzioni socio-topografiche urbane di Asti, città capitale, cioè i Borghi. Il Rettore era nominato tra i capifamiglia della comunità, e durava in carica un anno. Gli era affiancato un “sottorettore” con funzioni di assistenza e di supplenza, che dopo un anno di “apprendistato” sarebbe subentrato nella carica del Rettore “smontante”. Rettore e sottorettore (o “conrettore”) avevano il compito di raccogliere le offerte necessarie alla vita della chiesa, e di organizzarne i festeggiamenti annuali. In tale occasione il Rettore “smontante” offriva a casa propria un grande banchetto al Rettore “montante” e ad un numero variabile, a seconda delle località, di Rettori “smontati” negli anni precedenti. Questo sistema imponeva a chi accedesse alla carica l’onere di organizzare un pranzo importante e costoso, ma assegnava l’onore di partecipare a pranzi del genere per un buon numero di anni successivi ( da quattro a otto). il Disnè di Retor diventava un evento straordinario nella vita di una famiglia, ma costante in quella della comunità. La famiglia che lo celebrava, spinta anche dall’emulazione e dall’ambizione, lo faceva dispiegando il fasto riservato solo ai matrimoni. Poiché le donne di casa, in entrambe le circostanze, non erano in grado di assicurare un degno livello di eccellenza gastronomica, né tantomeno di gestire logisticamente e tecnicamente un alto numero di invitati, la prassi imponeva il ricorso a professionisti del settore: le Cusinere o i Cusinè. Cusinere e Cusinè. Si trattava di figure ormai del tutto scomparse, ma fondamentali per capire i processi che definirono la gastronomia festiva del mondo contadino. Erano spose che avevano trascorso alcuni anni della loro gioventù “a servizio” in importanti e ricche famiglie aristocratiche di Torino, di Asti , di Alessandria o di Casale, imparando per esperienza diretta i segreti e le tecniche di cucine raffinate, aggiornate ed esigenti. Erano anziani cuochi che avevano lavorato a lungo in grandi alberghi cittadini, e ormai anziani erano tornati al paese d’origine. Mettevano a disposizione dei loro conterranei saperi gastronomici e capacità culinarie altrimenti inarrivabili; ed i loro conterranei vi ricorrevano, a pagamento, nelle occasioni straordinarie di cui sopra: matrimoni e disnè dij Retor. La Cusinera era assoldata prima di tutto come ispiratrice del menu e come coordinatrice e dirigente dello staff necessario alla sua realizzazione e somministrazione. In qualità di stratega guidava la battaglia, forniva le “armi” irreperibili nelle austere cucine contadine (come “bibinere” per la cottura del tacchino o dell’anatra, stampi per dolci, grandi vassoi da portata, tagliapaste, modelli, teglie per torte etc.) scendendo spessissimo in prima linea nella preparazione delle cose più difficili, come una crema, una fonduta, una finanziera. La brava Cusinera, oltre che ad essere maestra della sua arte, doveva anche conciliare le esigenze dei committenti con le loro disponibilità, anche adattare i piatti della cucina “alta” alla sensibilità gastronomica del palato contadino. L’indimenticabile film “Il pranzo di Babette” ritrae un personaggio che nelle risolute capacità tecniche e nella formazione professionale può senz’altro avvicinarsi alle nostre Cusinere, ma se ne discosta notevolmente nell’assenza di qualsiasi mediazione, di qualsiasi adattamento tra la civiltà gastronomica che esibisce e quella dei suoi commensali. la nostra Cusinera, ben prima del “ristorante tipico”, è quella che tra Ottocento e Novecento elabora e fissa i canoni della “cucina contadina” festiva come oggi la conosciamo, destinata ad influenzare poi in maniera corposa quella ristorantizia. E’ lei ad introdurre la Finanziera, il Vitello Tonnato, la Lingua in Salsa, il Batsoà, il Salmì, il Bonet. E’ lei a diffondere il Fritto Misto, o il Servizio di Bollito, l’insalata “à la Russe”. Alcune delle sue specialità rimarranno nell’empireo inarrivabile del paradiso gastronomico rurale; altre saranno adottate diffusamente o addirittura universalmente. L’epopea delle Cusinere e dei Cusinè avrà fine nel corso degli anni Settanta, quando verranno meno le esigenze che ne avevano decretato le fortune; quando matrimoni ed altre ricorrenze straordinarie sono ormai esclusivamente celebrati nei ristoranti; quando, se proprio si vuole fare qualcosa in casa, si ricorre al “Catering” o alla Pro-Loco. E’ stato curioso constatare come la figura delle Cusinere sia circondata ancora oggi da un misto di rispetto reverenziale ma anche da una certa riprovazione sociale. I fruitori delle Cusinere ne ricordano i virtuosismi culinari con intatto entusiasmo se non addirittura con venerazione. Le famiglie che le avevano espresse mantengono spesso, nei loro confronti, un imbarazzato riserbo, come se giudicassero poco onerevole e dignitoso mettere a disposizione di tutti il tesoro dell’arte gastronomica; quasi come se condividere con il mondo le virtù che dovrebbero essere sacrali e domestiche rappresenti una forma di meretricio. La festa patronale. “Le sagre nell’Astigiano e nel Monferrato durano due giorni: la Domenica ed il Lunedì. I giovanotti e le ragazze del vicinato non ci vanno che il pomeriggio del primo giorno e la sera del secondo, un paio d’ore per ballare. Invece per i viziosi induriti, per i festioli seri, sono gozzoviglie grossolane, monotone, sterminate come quelle dei ‘Niebelunghen’, di quarant’ottore di seguito: pranzano, merendano, fanno cena all’imbrunire, l’arcicenone a mezzanotte; poi colazione coi peperoni e il cacio ‘bross’, e daccapo pranzo e merenda come il giorno prima: tra un pasto e l’altro bevono incessantemente. Il bere è un affare, un compito indeclinabile, una prova di serietà, un dovere di ospitalità e creanza. (…) Il capocasa va in giro per il paese a caccia di invitati, le donne aspettano sulla porta di casa. Il ricusare è un’offesa grave” (Roberto Sacchetti “Vecchio guscio”, 1876) “In due sole circostanze si abbandonano alle intemperanze del cibo e delle bevande, cioè nell’occasione della festa patronale del paese, ed in quella delle nozze. Allora mangiano per quattro, ed alzano il gomito con un po’ troppa frequenza, di guisachè è facile in simili occasioni trovarli brilli alla sera e colla febbre al mattino. Sfuggite tali occasioni, e ad eccezione di inviti da qualche parente o amico, conservano una sobrietà spartana.” (L.Fantino, Inchiesta Agraria Jacini 1880) Abbondanza, qualità, buon gusto: sono le regole fondamentali del convivio per il dì d’la Festa. Ma è un banchetto comunque “autogestito”, preparato e servito dalle donne di famiglia, senza il ricorso a personale mercenario, e con il minor utilizzo possibile di materie prime acquistate. Non conosciamo i menu festivi contadini più antichi, e solo grazie alla memoria generazionale si può risalire fino agli ultimi decenni dell’Ottocento. Le testimonianze sono comunque sufficienti nel rilevare come l’organizzazione del Pranzo Festivo è largamente mutuata dalla tavola borghese, sia tramite le esperienze dirette, sia grazie all’azione “formativa” delle Cusinere. Il menù si apre, secondo lo stile ottocentesco piemontese, con i “Salati”: salami crudi e/o cotti, freddi o caldi; lingua in salsa verde, sottaceti e sottoli casalinghi. “Sogliono molti incominciare il pranzo cò Salati. Dicesi che il sale velicando ecciti l’appetito e disponga a buona digestione” (“Polizia e Cucina”, ricettario anonimo del sud Piemonte, 1822). Segue una minestra “fine”, elegante, concettualmente ricca e quintessenziata: quasi sempre è una minestra di pastina all’uovo in brodo ristretto, o in tempi più vicini una sorta di consommè con pasta reale. Se la festa cade in periodo invernale, compaiono con una certa frequenza gli agnolotti o i “cappelletti” in brodo. (rarissimi invece gli agnolotti asciutti). Piace immaginare i rudi contadini intenti a sorbire quelle minestrine con gran compunzione e godimento, per una volta lontani dal bross, dalla soma d’aj o dai peperoni smojà! I “secondi piatti” tentano di riprodurre, per quanto possibile, l’ordine ed il galateo dei menu borghesi che prevede sempre una portata di lessi e una di arrosti, separate da un entremet di fritture miste. Il bollito è una presenza quasi costante, in tutte le stagioni ed in tutti i paesi, perché è necessario per preparare la Minestrina in brodo. Altrettanto costante la presenza del Fritto Misto, che soprattutto nel Monferrato diventa il “piatto forte” della Festa attorno a cui ruotano tutte le altre portate. In tempi più recenti, e in aree limitate, il Fritto “trasloca” fra gli antipasti seguendo lo stile dei ristoranti “tipici”, che lo “sparano” all’inizio del pranzo per ottundere l’appetito dei commensali. L’abbinamento Bollito-Fritto Misto è comunque il più praticato. Se il Fritto compare fra gli antipasti, i “piatti forti” ospitano un arrosto, rigorosamente di volaglia: cappone, pollo, faraona, anatra o tacchino. Dove la Fricia non è un obbligo ma una semplice eventualità ( ad esempio nell’area sud-ovest del territorio in esame) è anche frequente l’abbinamento Bollito-Arrosto, dove il Bollito è sempre una carne che ha fornito il brodo, e l’arrosto è sempre costituito da volatili di cortile. nelle feste celebrate durante le canicole estive, non di rado il Bollito bovino è sostituito da pollo freddo nella gelatina di zampini. I piatti forti sono sempre accompagnati da contorni di stagione “fini”: spinaci al burro, pisellini stufati, purè di patate, carote fritte, cipolline agrodolci; per quanto possibile si cerca di evitare verdure banali come l’insalata verde, gli zucchini o le coste, o troppo aggressive come i peperoni. Il menu esclude tassativamente il formaggio: quello autoprodotto è troppo “quotidiano” e svilente, quello acquistato rappresenta una spesa inutile. Molta enfasi viene riservata invece ai dessert, in cui compare sempre una tirà o una “torta” fatta in casa, un qualche tipo di frutta conservata (quasi sempre pesche in bottiglia”) e non di rado qualche dolce acquistato o portato dagli invitati: amaretti soprattutto, o torrone, o nissolin zuccherati. Al dessert il padrone di casa apre con gran cerimoniale le bottiglie dei vini che reputa più pregiati: Freisa amabile frizzante, Malvasia profumata di rosa, Barbera con un dito di schiuma rossa come il sangue. In quel vino salvifico ed augurale, che l’astigiano Morelli alla fine del settecento definì “… vin delle torte, / vin che resuscita/ le genti morte..”, i commensali inzuppano la tirà o i torcet o gli amaretti; quel gesto chiude la festa, e per un anno non ci pensano più. LE TESTIMONIANZE Maria Vergano (Villanova) “ Qui si festeggiava Sant’Isidoro alla prima domenica di Settembre, e si faceva festa grossa, più di adesso, perché si invitavano tutti i parenti, anche se stavano lontano venivano lo stesso. Il pranzo cominciava con i salami più buoni, poi la lingua in salsa. Solo quello da antipasto, una volta l’antipasto era fatto solo con quelle robe lì. Poi c’era la minestrina in brodo buono, nel brodo di bollito e gallina, bello scuro, con dentro i bombonin o un’altra pasta fine. Poi si faceva la faraona arrostita con gli spinaci, infine un bel bollito, di due tagli oppure di muscolo e gallina, con i suoi bagnet, rosso e verde. Da dolce se c’erano già le mele buone si faceva la torta di mele con gli amaretti e il cioccolato, o sennò le pesche ripiene, o il bonet, oppure i torcett fatti in casa con lo zabaione. Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa (Montemagno): “ Qui nel paese il patrono è San Martino, e la festa si fa a Novembre, anche se a volte fa freddo, o piove o c’è la nebbia. Una volta sì che si festeggiava, due giorni di fila. C’erano quelli che venivano dalle cascine più lontane, attaccavano la mucca alla barossa, sopra ci mettevano tutta la famiglia, dai bambini fino alla bisnonna, poi dietro attaccavano il bocin e si spostavano in paese tutti quanti, per non lasciare nessuno solo a casa. Il pranzo del dì d’la Festa era la Fricia ! Non si mangiava solo la Fricia, logico, ma prima si stava un po’ leggeri, del buon salame, poi una buona minestra in brodo o magari i tajarin con il sugo fegato di coniglio. Poi c’era la Fricia e basta, però certe Fricie! In quel giorno si mangiava tutto quello che non si mangiava durante l’anno! Vincenzo Testa (Moncalvo) : “La festa del paese era la terza Domenica di Maggio; si facevano dei pranzoni che non finivano più, tutti li facevano anche nelle campagne, anche quelli che non avevano soldi. Magari tiravano la cinghia per un anno ma avevano l’ambizione, quel giorno lì, di fare sempre bella figura, e anche di invitare gente. Si cominciava con salami cotti e crudi, poi c’era la Fricia, bella calda e ben fatta. Si seguiva con una minestrina nel brodo buono, e poi , sempre, il bollito che era servito per fare il brodo, magari con anche un pezzo di testina. Dopo il bollito c’era ancora un altro piatto, tante volte era il cotechino con gli spinaci, ma magari anche un bel cappone grosso prima bollito e poi passato in padella con l’aglio e il rosmarino. Infine, qualunque roba si fosse mangiata prima, si finiva asempre con le tinche in carpione; erano un obbligo, non si finiva un pranzo senza le tinche. Sembrava che bruschette e leggere com’erano pulissero la bocca, facessero venir di nuovo voglia di bere. Per dolce c’era poi la Tirà con le noci, oppure lo zabaione con le galetti. Angela Bersano ( Moransengo) “ Al mio paese si festeggia Sant’Agata, ai primi di Febbraio. Per la festa si peparava il salame crudo, poi sempre il cotechino bello caldo. Dopo si facevano gli agnolotti, ma in brodo, perché così poi c’era la gallina. Dopo la gallina però si serviva sempre anche il bollito con i suoi bagnetti, e anche qualche verdura, patate, cipolline. Alla fine c’era la torta di mele, quella con il cioccolato e gli amaretti.” Bruna Perotto ( Cocconato) “La festa è alla seconda domenica di Settembre, santi Fausto e Felice! Con due santi così per forza bisogna stare allegri, non se ne può proprio fare a meno. E poi è un momento di Settembre che non fa più tanto caldo, si stava a tavola volentieri, e si cominciava di nuovo a mangiare volentieri le robe sostanziose. Si cominciava sempre con i salami crudi, poi con un bel salame cotto bello caldo, tutto intero, o magari con il cotechino. Poi minestrina in brodo, si capisce, il primo doveva essere una cosa leggera che puliva e preparava per il secondo. Il secondo quasi sempre era il Fritto Misto, quello grande, fatto bene, con tutte le cose che ci vogliono; dava tanto lavoro ma era festa, si faceva volentieri per quello. Dopo il Fritto Misto magari si portava anche una gallina bollita, con l’insalata o la purè. Infine c’era la torta di mele, che è sempre stata una specialità qui del paese. Rina Bossone, Maria Ferrero; Costantina Scuvero ( Montechiaro) “ Per la festa del paese si invitavano i parenti, anche se stavano lontani venivano lo stesso, nessuno poteva mancare dal paese quel giorno. Allora si facevano dei gran pranzi. A volte si faceva il fritto misto per cominciare, con tutte le robe che ci vanno. Oppure un servizio di salami cotti e crudi, magari dopo dei pomodori cotti in forno ripieni di acciughe, olio, aglio e pangrattato, o dei peperoni arrostiti ripieni con il riso e la carne, o altre cose così. Poi c’era sempre la minestrina nel brodo buono, una volta con la pastina all’uovo, poi si usava la pasta reale, si comprava apposta per il giorno della Festa. Per il secondo si allevava apposta un bel cappone, o un galletto, prima si faceva bollire poi si arrostiva e si serviva con le cipolline camodaje con l’aceto e lo zucchero. Oppure si faceva bollito e poi in gelatina, piaceva tanto anche così. Infine per il dolce si faceva la torta di mele con gli amaretti, oppure il bonet con il cioccolato. Costanza Sardo ( Villafranca) “Per San Martino, che era la festa del paese, si faceva il Fritto Misto da antipasto; prima magari si mangiava una fetta di salame, ma poi subito il Fritto Misto. Poi una buona minestrina in brodo, poi la carne. Siccome s’era già mangiato il Fritto Misto, non si faceva il Bollito, ma qualcosa di più leggero e di più fine. Tanti facevano la “Sacòcia” ripiena, quelli bravi la Galantina di pollo disossato; oppure l’anatra o il tacchino arrosto.” Il “disnè dij Retor” e il “disnè d’la Sposa” Se il pranzo del dì d’la Festa rientra nel disegno naturale delle cose, quello dei Rettori e della Sposa è una Follia. Ma una follia obbligatoria e razionalizzata. Lo scialo costoso delle vivande e la loro vertiginosa, inusitata raffinatezza ha lo scopo di rafforzare lo status sociale di chi le offre, di aumentarne il prestigio nella comunità, e di innescare una vantaggiosa catena di obblighi a proprio favore. La spesa di tali celebrazioni gastronomiche si rivela in sostanza un “investimento” a lungo termine, i cui “interessi” sono costituiti da pranzi analoghi “restituiti” o per obbligo ( come nel caso della Rettoria) o per parentela o amicizia ( come nel caso della sposa). Da notare che simili conviti vengono celebrati esclusivamente entro l’orizzonte domestico; un vero e proprio blocco mentale impedisce al contadino anche solo di immaginarli in un contesto esterno, che a conti fatti potrebbe rivelarsi più vantaggioso. Questo imperativo, lo si è detto, porta all’abituale impiego di maestranze specializzate , in grado di garantire l’organizzazione della complicata logistica richiesta dai pranzi del genere, e soprattutto la loro preparazione secondo uno stile gastronomico adatto alla circostanza. Uno stile elaborato dalle Cusinere, nato dall’incontro e dalla dialettica delle loro sapienze culinarie (apprese in contesti alto-borghesi , nobiliari o ristorantizi) con le esigenze ed i gusti della committenza contadina. Come si è detto in precedenza le Cusinere, provenienti e facenti parte del mondo contadino a cui rivolgono i propri servigi, evitano l’ostentazione di piatti o preparazioni incomprensibili intrinsecamente o insostenibili economicamente, ma elaborano un proprio “Volgare” gastronomico di grande spessore culturale e, al tempo stesso, di immediata versatilità e fruibilità. Un “Volgare” che sarà poi fondamentale nella costituzione recente della “Lingua” gastronomica regionale. I disnè della sposa e dei rettori incidono poco nella vita di una famiglia, presentandosi con scadenze molto distanziate e addirittura generazionali, ma sono costanti in quella di una comunità, dove assumono una serrata frequenza stagionale. La loro influenza gastronomica, piuttosto blanda nella formazione culinaria delle massaie contadine, diventa essenziale nell’elaborazione di un “gusto territoriale” di un “immaginario gastronomico collettivo” che travalica i confini del villaggio e addirittura della “piccola patria” di reiferimento storico-amministrativo. Una lunga serie di “specialità locali” oggi recepite come tipicamente “contadine”, sono rimaste per lungo tempo rigoroso appannaggio delle Cusinere, prima di travasarsi definitivamente nella cucina dei ristoranti , spesso senza lasciare tracce pratiche in quella delle famiglie, o lasciandole in modo sporadico e tardivo. Appartengono a questo filone della cucina territoriale i celebri “vitello tonnato” e lingua in salsa, l’insalata russa “nostrana” ( variante con tonno e capperi), il batsoà, i crochì, i cappelletti in brodo, la Finanziera, il pollo arrosto o “alla babi”, l’insalata di carne cruda battuta al coltello, la fonduta, il grande ( e dimenticato) capitolo delle torte salate, i civet ed i salmì di selvaggina, i brasati, molti dolci e dessert (pesche all’amaretto, bonet, “mattone dolce” , “ monte bianco” etc.). “MEZZA FESTA” Il calendario contadino prevede alcune occasioni “cicliche” a scadenza stagionale, non rituali né cultuali, ma in ogni caso “sacralizzate” dall’offerta e dalla condivisione di cibo qualificato. Si tratta di occasioni legate a lavori agricoli particolarmente onerosi che impongono il ricorso a manodopera esogena, o dipendenti dalla conclusione di importanti cicli produttivi ( primo fra tutti il “carico” del vino per la spedizione all’acquirente-grossista, o la macellazione del maiale). In queste circostanze l’alimentazione sfugge alla routine quotidiana come durante le Feste rituali, e si caratterizza ancora una volta in chiave propriamente “gastronomica”. La più importante, specifica ed universalmente praticata è rappresentata dal “battere il grano”. La trebbiatura. Fino a buona parte dell’Ottocento la trebbiatura del grano veniva affettuta con millenari sistemi manuali: i covoni, allargati sull’aia di terra lisciata e livellata con acqua e sterco vaccino, erano “battuti” con il ribàt, un grande e pesante cilindro scanalato in legno di bosso, trainato da un cavallo, che separava i chicchi dalla paglia e dalla pula, quest’ultima eliminata con la vagliatura “a vento”. Un lavoro lungo che, soprattutto nelle proprietà più estese, richiedeva l’intervento di braccia extra-famigliari. Alla fine del secolo si affermarono le trebbiatrici meccaniche in grado di svolgerlo in poche ore, che però richiedevano un impiego di manodopera ancora superiore rispetto al passato. Accanto al personale generico ( e spesso volontario) venivano ad aggiungersi gli addetti specializzati per il funzionamento delle macchine, chiamati pajarin o paijn. Sia la trebbiatura antica che quella meccanica costituivano un momento importantissimo nell’arco dell’annata agraria: accanto alle connotazioni spiccatamente tecniche e produttive, si univano significati simbolici, rituali e soprattutto sociali dovuti alla necessità di contare sull’apporto di manodopera esterna. La trabbiatura, oltre che un lavoro faticoso, era anche un momento di parossistica “apertura sociale”, celebrata ancora una volta con la condivisione del cibo. Il pranzo del bate el gran era un obbligo per il proprietario, che tramite esso gratificava tanto i pajarin prezzolati quanto gli aiutanti volontari. Per questo, dovendo rispondere a precise esigenze sociali , si connotava come un convito abbondante e ricco, sia pure caratterizzato da stili e canoni del tutto particolari. Era un pranzo veloce , a base di piatti energetici alternati ad altri liquidi e freschi. La minestra in brodo diventava una presenza obbligatoria, come piuttosto frequenti erano pesci o verdure in carpione. Nelle aziende collinari vitate del Monferrato o dell’Astesana le quantità medie di grano trebbiato da una singola azienda facevano generalmente limitare il pasto rituale ad un solo pranzo o ad una sola cena. Nella Piana o nelle zone basse delle valli Triversa, Versa o Rilate, la maggiore incidenza della cerealicoltura poteva obbligare a somministrazioni ripetute, anche per più giorni. A Villanova, il “granaio astigiano” per eccellenza , nelle aziende medio-grandi la trebbiatura poteva durare anche più di due giorni. In simili contesti si definirono ritualità alimentari affatto singolari ed autonome rispetto a quelle praticate nelle colline, affini invece con quelle tipiche del mondo padano lombradoemiliano. Meravigliosamente esemplare, ad esempio, la testimonianza della signora Maria Vergnano di Villanova sotto riportata. LE TESTIMONIANZE Maria Vergano (Villanova) : “Avevamo tanta terra, e grano se ne faceva tanto! Ci volevano due giorni e mezzo per batterlo, e fra pajarin e gente che veniva ad aiutare, in quei due giorni e mezzo dovevo pensare a dar da mangiare a trenta persone. E che mangiare! Bisognava dargliene bene, perché pretendevano, e poi si usava così, guai se non si faceva bella figura, poi tutti sparlavano. Basta, per me quelli erano giorni d’inferno, ero l’unica donna di casa, e anche se mi facevo aiutare da un paio di ragazze, arrivavo alla fine che non ce la facevo più! Si cominciava alle cinque del mattino con la colassion cita: caffelatte per tutti, più pane e formaggio. Alle dieci c’era la colassion granda: si tagliava il salame crudo, poi si bagnava nell’olio, e infine si faceva fricassè, del gran padellate di fegato, salciccia, frattaglie, carote e patate. Alle due si faceva il disnè, che cominciava con un minestrone di verdure bello s-ciass e caldissimo, col caldo che faceva, ma lo volevano così, e se non era più che caldo brontolavano. Poi si faceva l’oca in umido o l’anatra , con le verdure. Mi ricordo che solo per fare il minestrone dovevo pelare patate per un’ora e mezza. Alla sera, a buio, c’era la sin-a : minestrina in brodo e un bel bollito con l’insalata. Quando tutto era finito piangevo addirittura per la stanchezza e la fatica.” Costanza Sardo (Villafranca) “ Quando si batteva il grano i pajarin volevano il minestrone, guai se non lo trovavano, preferivano il minestrone agli agnolotti. E lo volevano bollente, io non so come facevano con quel caldo che c’era. Ma prima si mangiavano le tinche in carpione, dicevano che facevano passare la sete. Se non c’erano le tinche, per fare qualcosa in carpione mia mamma faceva i pess ed coj ( “pesci di cavolo”): tritava gli avanzi del bollito, ci metteva un po’ di mollica di pane bagnata nel latte, un po’ di prezzemolo, poi con questo ripieno e con delle foglie di cavolo, o meglio ancora di coste, perché eravamo in estate, faceva degli involtini che sembravano pesciolini. Li faceva friggere poi li metteva in carpione. Poi si faceva un bel coniglio, magari con la peperonata; poi i pruss d’San Gioan cotti nel vino, e magari una tirà. Chi faceva tanto grano solo il pranzo a mezzogiorno non bastava, e così dovevano farne anche per cena. Se si doveva fare pranzo e cena era una bella matission, perché guai a fare due volte le stesse cose. Così se a mezzogiorno c’era il coniglio alla sera si faceva il bollito, o viceversa. Ma la minestra ci andava sempre. E bollente, per carità!” Maria Ferrero, Costantina Scuvero ( Montechiaro): “ quando si batteva il grano si guardava di fare un bel pranzo, non così tanto come per la festa di San Bartolomeo, ma quasi. Si cercava di fare bella figura perché tutti i pajarin parlavano e dicevano cosa avevano mangiato nelle altre cascine, facevano i paragoni, e anche certe critiche…! Così si facevano dei bei pranzi, ogni casa aveva il suo modo. C’era chi faceva gli agnolotti, chi il fritto misto e così via. Si faceva tanto la minestra in brodo con i bombonin fatti in casa, e anche il bollito con la testina, e con una bella insalata…” Vincenzo Testa ( Moncalvo): “ Eh, facevano dei bei pranzi, quando si batteva il grano; a volte anche pranzo e cena nelle cascine che ne avevano tanto. I più facevano il coniglio, comodà, oppure con la peperonata, oppure con le patate in bagna. Ma si faceva anche la Fricia, si faceva volentieri perché era sicuro che piaceva a tutti. Di primo minestra, qualsiasi tipo di minestra, però doveva essere roba in brodo, perché quando si batteva il grano la cosa che si pativa di più era la sete…” Franca Quirino, Carla Quirino, Margherita Bussa: “ Quando si batteva il grano si faceva il bollito con la peperonata. E prima una minestrina fatta con il brodo del bollito. Per fare quella minestra si facevano le biavette a mano, con la pasta!” II PARTE: INDAGINI PER UN REPERTORIO DEGLI ALIMENTI E DELLE PREPARAZIONI IL PANE Non è un prodotto della cucina, eppure è inscindibile dai saperi gastronomici di un territorio, inevitabile nel marcarne la tipicità ed il carattere. Nel mondo contadino è in ogni caso un prodotto dell’industria famigliare, della sapienza matriarcale conservata e tramandata. Come il formaggio, il pane è controllato dalla Donna, che gli conferisce un’aura magica e simbolica di sconcertante profondità. La donna contadina presiede i processi “diabolici” della caseificazione e della panificazione piegandoli al bene , trasformandoli in potenti magie salvifiche e vitali. Lineamenti storici, uso e tipologie. Fino a buona parte dell’alto Medio Evo il pane contadino è ancora la sottile placenta (focaccia) di pasta lievitata, cotta sulla cenere calda . Con l’affermazione delle strutture comunali, i villaggi istituiscono i forni collettivi, obbligando la popolazione rurale ad avvalersene per la preparazione del proprio pane, previo pagamento in natura che diventa un appetibile cespito per le finanze pubbliche. Il ricorso obbligatorio al forno a pagamento impone inevitabili modifiche. Per ammortizzarne il costo, la famiglia contadina lo utilizza il meno possibile, adeguandosi a produrre pani di sempre maggior pezzatura in grado di essere conservati per molti giorni. Nasce e si afferma la micha, pagnotta oblunga di grandi dimensioni, comunemente citata negli statuti comunali che regolano l’uso dei forni pubblici nel nostro territorio. Nel corso del XVI secolo la micha nostrana acquisisce il nome di Grisia o Gricia , da cui l’attuale “Grissia” o “Gressia”, ed il formato che le è proprio ancora oggi. Tale formato è documentato in carte astigiane del 1548, ed iconograficamente nelle opere pittoriche del Moncalvo o delle figlie Orsola e Rosa, che agli inizi del Seicento, quando devono dipingere il panis angelicus, ritraggono perfette Grissie che sembrano appena uscite da un forno dei nostri paesi ( ad esempio nel quadro di Orsola Caccia “Cristo confortato dagli angeli” , custodito nell’antisacrestia del duomo di Asti). Il nome deriva con ogni probabilità da Gricia, che nell’antica parlata piemontese significava “riga” o “solco”, e sembra fare riferimento al taglio trasversale che si opera sulla superficie della pagnotta prima della cottura. Per quanto riguarda il formato, è da notare che le nature morte dei maestri olandesi del Seicento sono piene di grissie , di piccole dimensioni ma identiche a quelle del Moncalvo e dei nostri panettieri moderni. Somiglianza troppo eclatante per far pensare ad una semplice coincidenza; a titolo di pura ipotesi si può pensare che questo tipo di pane sia stato introdotto da noi nel corso del Cinquecento, mutuandolo da scambi con la cultura alimentare nordeuropea, favoriti dalla lunga occupazione spagnola di Asti e della sua contea ( Carlo V di Spagna dominava anche sulle Fiandre e buona parte dei territori del Sacro Romano Impero) . Quale che sia la sua origine, la nostra Grissia diventa ben presto il pane più autenticamente “territoriale” nell’Astesana e nel basso Monferrato, perdendo progressivamente d’importanza man mano che ci si allontana dalle due aree. Il mondo contadino della nostra terra lo ha praticato e prodotto con modalità immutate fino a poche decine d’anni fa. L’impastatura era rigorosamente, esclusivamente domestica, ed avveniva in media una volta la settimana; in precedenza la massaia aveva concordato “l’ora” con il fornaio, fissando un appuntamento da rispettare con maniacale precisione. Poi avrebbe messo a lievitare ed impastato la quantità necessaria di farina ed acqua dentro l’erca, la grande madia rimasta immutata nelle sue forme e funzioni per almeno mezzo millennio. Una volta ricavate le sue grissie la donna le riponeva in un cestone, che si sarebbe poi issato e sistemato sulla testa per camminare spedita e senza impicci verso il forno pubblico del paese o della borgata. Qui il fornaio avrebbe preso in consegna le forme crude, infornandole e facendole cuocere sotto l’attenta sorveglianza della sua committente, che non lo avrebbe lasciato solo neppure un attimo. Sfornate le grissie dorate le avrebbe nuovamente riposte nel cestone e si sarebbe avviata verso casa lasciando una scia di fragranza. Il pane, che doveva bastare almeno per una settimana, era letteralmente preso d’assalto al suo arrivo, tanto che gran parte delle famiglie lo conservava in camere chiuse a chiave, ben protetto dai bambini e dai giovani famelici. Una testimonianza raccolta a Montemagno afferma che in tempo di guerra, diventato una risorsa preziosissima, diversi contadini lo confezionavano mescolando alla farina mandorle amare spezzettate, in modo che il sapore acre di queste scoraggiasse un po’ gli smodati appetiti dei membri della famiglia. Nel mangiare quotidiano il pane assumeva un’importanza assoluta, superiore alla stessa polenta. Il “pane quotidiano” veniva accompagnato ed insaporito dalle pietanze, dalle minestre, dalle insalate, e diventava ingrediente principale di zuppe che comparivano sulla tavola con cadenze almeno giornaliere. La Grissia, praticata con identico peso, dimensioni e formato in tutto il territorio in esame ( minime varianti distinguono le grissie dell’area monferrina da quelle astigiane) non ha mai avuto rivali né concorrenti nella panificazione contadina. Solo dove Monferrato ed Astesana si incontrano, e cioè lungo la valle Versa, ad essa si affianca un formato minoritario ma ugualmente tradizionale: la reusa, elaborata e curiosa pagnotta a forma di fiore araldico. Pane antico, quello contadino, pane eccelso, pane in declino, oggi, proprio a causa delle qualità che ne permisero le fortune passate. Il grande formato è poco adatto alle famigliole numericamente sempre più esigue; la necessità di almeno un giorno di ammezzatura si scontra con il dominante imperativo del “pane fresco”; le tecniche di produzione industriale o semiindustriale non gli si confanno e non sono in grado di riprodurne le più pregevoli caratteristiche organolettiche; i ristoranti della zona, un po’ per pigrizia un po’ per comodità, lo evitano a favore delle pezzature piccole, che sono meglio sfruttabili con minime percentuali di scarto. Eppure è impossibile perseguire una vera “tipicità” gastronomica senza basarsi su una componente tanto importante. LE FOCACCE CASALINGHE La panificazione domestica presuppone la disponibilità di pasta lievitata; la donna contadina non la usa esclusivamente per il pane; con essa prepara alcuni dolcetti per i bimbi di casa, oppure appetitose, antichissime focacce. Un tempo si cuocevano semplicemente sul ripiano del camino, o dentro un testo di terracotta. In tempi più vicini a noi erano fritte in padella con poco olio d’oliva o strutto. Queste focacce si preparavano nel caso di un’improvvisa e temporanea mancanza di pane, oppure, non di rado in occasione di visite improvvisate ed informali; a seconda della necessità potevano essere confezionate anche di pasta non lievitata, che veniva accuratamente e minutamente punzecchiata con i rebbi di una forchetta . Il nome più diffuso nell’area astigiana centro-occidentale è “Torton”; in quella centro- meridionale è “Friciola”; spostandosi nel Monferrato e procedendo verso est prevale il termine di “carsenta” ( crescente) con riferimento alla pasta lievitata. TORTON. Castanza Sardo ( Villafranca) “ Quando si impastava per fare il pane, si teneva da parte una pagnotta di pasta cruda lievitata, e si faceva il torton. Si tirava bene con la pressia, bello rotondo e sottile, e si faceva friggere con un po’ d’olio d’oliva. Per noi bambini era una festa, che buono che era mangiarlo caldo caldo! Siccome mia mamma andava a cuocere il pane tutti i venerdì, per noi il venerdì era un giorno di festa, perché si mangiava il torton! I PANI “IGNOBILI”. Gli eruditi del Sei-Settecento definivano così i pani “non nobili” diffusi soprattutto nel mondo contadino, nell’impasto dei quali, per risparmiare la preziosa farina di frumento, si univano i più disparati ingredienti: cereali minori, legumi, erbe, semi, bacche, castagne, ghiande, o addirittura, durante le peggiori carestie, sarmenti tritati, cortecce d’albero, segatura, argilla. Queste pratiche, che sembrano dimenticate dalla notte dei tempi, erano ancora vive nelle nostre campagne nei primi decenni dell’Ottocento, ai tempi della grande crisi della Restaurazione. Il medico astigiano Giuseppe Maria De Rolandis nel 1828 scriveva che presso i contadini della provincia “… di frequente il pane è mescolato con l’orobo, loglio, moco e simili”. Si tratta di graminacee spontanee i cui semi, già dal medioevo, erano usati per integrare le magre dotazioni di frumento; ma si tratta di piante dall’effetto stupefacente e soporifero, “…onde provengono tante vertigini, gastricismi, coliche” che trasformavano i contadini più poveri, costretti a cibarsene, in larve umane febbricitanti, perennemente in preda a stati di alterazione depressiva o furiosa. Tramontato definitivamente l’uso di integrare la farina di grano con materiali vili o nocivi, non tramontò l’uso di preparare pani arricchiti con materiali estranei. Il più frequente era il pane con le noci; nell’area monferrina si praticava in autunno il pane di zucca; nell’area astigiana occidentale ( ma non solo) si usava il “pan d’melia” , impastando polenta fredda avanzata con dosi variabili di pasta da pane. A Villanova il pan d’melia diventa dolce e ghiotto, con l’aggiunta di zucchero, burro, olio e latte. In ogni caso questi pani “conditi”, a dispetto della loro origine, sono vissuti come occasionali sfiziosità gastronomiche e non più come succedanei del “pane vero”. TESTIMONIANZA Carla Quirino (Montemagno) PANE DI ZUCCA Eh, la zucca si usava molto, nell’autunno. Si cominciava a mettere nella mostarda, poi si faceva friggere, poi calda al brusco con la bagna del carpione, poi nel minestrone…Si faceva anche il pane, di zucca. Si friggeva la zucca nell’olio, a fettine, e si passava, poi si metteva nell’impasto del pane, con olio e tutto, e si facevano delle pagnottine. Venivano gialle color dell’oro, e buone. Una volta mia mamma aveva portato il pane di zucca a cuocere al forno, e una donna del paese, che non lo conosceva, le trovò da dire: “t’ai ben dj’euv da sghejrè ti!!” Credeva che quel pane giallo così fosse fatto con il tuorlo d’uovo! “ I GRISSINI Com’è noto, i grissini sono un’invenzione tutta piemontese, nata alla fine del Seicento per iniziativa della panetteria di corte del giovane duca Vittorio Amedeo II , al quale, tormentato dalla dispepsia, era stato proibito il consumo di pane fresco. Il nome stesso di “grissino” è diminutivo di “grissia”, e assume dunque il significato di “piccolo pane”. Dalla corte sabauda il grissino si estende rapidamente alle tavole nobili, poi alle borghesi secondo il ben noto processo di “ricaduta verso il basso”. Nelle case contadine arriva però molto tardi, e solo come accessorio voluttuario del pranzo festivo, in cui spesso assumono un ruolo privilegiato. Maria Vergnano (Villanova) “ I grissini non li facevano le donne quando andavano a cuocere; quando si voleva mangiarli bisognava comprarli dal panatè. Ma tanto si usavano solo alle feste più grosse. Alla domenica, se si faceva il bollito, si serviva il brodo e si rompevano dentro i grissini; era un lusso anche quello”. Carla Quirino ( Montemagno). “ In casa nostra una volta i grissini non si usavano proprio, neanche alla domenica. Quand’ero bambina avevo un’amica della mia età che stava nel paese; ogni tanto mi invitava da lei per fare colazione “Carla, vieni da me a fare colazione, c’è il latte con i bastonèin”, i bastoncini di pane. Per me era una cosa meravigliosa, una festa, sono quei ricordi che poi uno non dimentica più.” LA POLENTA La memoria attuale individua nella polenta il pilastro dell’alimentazione contadina di un tempo: amata-odiata, ricordata a tratti con poetico struggimento, a tratti con rabbiosa insofferenza, identificata con la povertà , la penuria ed il sacrificio. Soprattutto ritenuta “vecchia come il mondo”, eterna, immutabile nei millenni, eternamente legata al destino della famiglia . La storia dimostra invece che la polenta è , per la realtà del nostro territorio, una realtà acquisita in tempi relativamenti recenti. Bisogna tener presente che già dall’epoca romana il mondo contadino conosceva e praticava la Puls , una pappa semiliquida ottenuta dalla bollitura di farine diverse ( di frumento, farro, miglio, legumi) in acqua e sale. La Puls, pur diventando “farinata” nel volgare italiano, mantenne a lungo l’antica denominazione, più o meno corrotta, nei vernacoli locali. Mantenne anche il suo status di “minestra” povera, alla quale si ricorreva per sostituire il pane nei momenti di maggiore penuria. , Verso la seconda metà del Cinquecento nelle pianure del nord Italia, flagellate da endemiche carestie, si diffuse repentinamente il Mais, importato dall’America. Questo “grano d’India” o “melgone” ( grossa meliga; la meliga o sorgo era già diffusa nel medioevo nelle nostre campagne) aveva la virtù di essere estremamente produttivo, meravigliosamente fecondo, perfettamente acclimatabile. La sua farina nel giro di pochi anni divenne ingrediente esclusivo ed unico delle antiche puls ( diventate intanto pulmente o polente) , alle quali ricorrevano con sempre maggior dedizione le classi sociali escluse per motivi economici dall’approvvigionamento del pane. Alla fine del Cinquecento la polenta di formentone costituiva ormai l’unico alimento dei contadini della Bassa emiliana e delle pianure venete, benedetta per la sua capacità di scamparli dalla fame ( “polenta ad formentò, empime ol ventrò” pregava il bergamasco Arlecchino sempre affamato) , vituperata per le sue pessime qualità nutritive ed alimentari ( “Pulenta ed formenton, acqua de foss, lavura tè padron, che me an poss” dicevano nel XVII secolo i contadini della Bassa con lo stomaco pieno di polenta ma inebetiti dalle carenze nutrizionali ). La “schiavitù della polenta” fu a lungo circoscritta alla sola area delle pianure nordorientali; nelle regioni circostanti, anche attigue, essa fu per molto tempo combattuta con una strenua resistenza. Le aree collinari, già poco vocate per la coltura del mais, non erano disposte a sostituire il grano o i legumi con quella “biada” tanto discutibile, né tantomeno sacrificare per essa le poche zone prative, indispensabili per l’allevamento del bestime. L’avanzamento del Mais fu comunque lento ma inarrestabile, potendo contare su un formidabile alleato: la Fame. Carestie occasionali o ripetute spingevano i contadini ad impiantarlo e ad abituarsene all’uso. Alla fine del Seicento esso compare nelle pianure cuneesi e torinesi ed in generale in quelle non risicole. L’attacco alle colline sarà molto posteriore, e solo alla fine del Settecento risulterà vincitore. L’esorbitante tassazione sulla farina di grano stabilita dai Savoia nell’ultimo decennio del secolo, la progressiva scomparsa del castagno dalle nostre campagne, il generale peggioramento delle condizioni di vita dei contadini decretarono il definitivo instaurarsi della dittatura alimentare della polenta di mais. Dittatura che dopo qualche decennio di brutale oppressione si ammorbidisce e si stempera grazie alle particolari condizioni e strutture del mondo contadino nel Piemonte meridionale. Nel 1880, lo si è visto, Lorenzo Fantino poteva affermare con ragione che la dieta del nostro ceto rurale era una delle più sane , corrette e variate nell’Italia dell’epoca: la polenta, pur costituendo sempre uno dei principali apporti calorici, era sapientemente e giornalmente alternata con alimenti freschi, verdure, pesci, pane, latticini. Anche dal punto di vista gastronomico l’alimentazione contadina delle nostre terre è articolata, varia, sapientemente stagionale e mai monotona. In essa la polenta si presta a numerose manipolazioni, e diventa una versatile base per preparazioni che sanno soddisfare il palato oltre che lo stomaco. 1) 2) 3) 4) Preparazione, consumo e ricette. La polenta nostrana era ricavata da varietà di mais pregiato, prima fra tutte quella detta “Otto file” ancora sporadicamente coltivata. La farina, macinata fine, veniva ulteriormente setacciata prima della cottura, per ottenere una consistenza serica ed omogenea. La polenta era preparata nel paiolo di rame a fondo concavo ( pareu) appeso direttamente sulle braci del camino. Per agevolare il rimescolamento, effettuato tramite un bastone di legno (polentao) il paiolo era mantenuto fermo grazie ad un coppo usato come un puntello. La polenta contadina non è mai troppo liquida anche se non raggiunge la consistenza compatta di quella di altre regioni. Quando la polenta stava troppo dura, quasi come una torta, si definiva “da trantìn” ( da trentini) perché gli artigiani itineranti del legno, che provenienti dal Trentino frequentavano anche le nostre zone, usavano prepararla così. Una volta cotta, la polenta veniva rovesciata in un sol colpo sulla spianatoia ( ass da polenta) dove si allargava da sola livellandosi ad un’altezza di circa tre dita, assumendo in pochi minuti la consistenza necessaria che le consentiva di essere tagliata a fette. Il taglio era effettuato con un filo da cucito, dal basso verso l’alto; filo che veniva ogni volta religiosamente ripulito e recuperato per il pasto successivo. In Inverno la polenta si cucinava già al mattino , e serviva per colazione, ricomparendo a pranzo o a cena; dalla primavera all’autunno si preparava a mezzogiorno o alla sera in alternanza con le minestre. Per quanto la memoria collettiva ami affabulare sulle disperate polente asciutte condite con una lieve passata di aringa o di saracca, sicuro ricordo della grande crisi di metà Ottocento, le testimonianze orali si allineano perfettamente allo scritto dell’Inchiesta Jacini sopra riportato, e dimostrano un uso vario ed articolato di condimenti ed intingoli. Polenta e bagna caoda. La polenta è cosparsa nei singoli piatti con qualche cucchiaiata della celebre salsa di olio, acciughe ed aglio, della quale la famiglia contadina è generalmente sempre provvista. Polenta e bagna d’anciui. Una variante della bagna caoda che permetteva di avere un intingolo abbondante con minor impiego d’acciughe. Abbondanti cipolle tritate erano fatte appassire con olio e burro, poi insaporite con acciughe diliscate, spagnolino piccante e poca conserva. Nell’Astesana occidentale prevale una variante molto simile, per altro praticata e conosciuta anche in Monferrato, che prevede l’uso dei porri in luogo delle cipolle. In tal caso viene definita bagna do diao ( bagna del diavolo, per il suo sapore piccante). Polenta e bagna d’pòr. E’ una delle poche polente “pasticciate” presenti nella nostra zona, tipica di Moncalvo. Si preparava la bagna d’pòr simile alla bagna del diavolo con porri e acciughe. In una capiente bassilla si alternavano strati di polenta a strati di bagna, e si faceva insaporire il tutto sulle ceneri calde del camino per qualche minuto prima di servirla. Polenta e sarìdoli. Tipica di Montechiaro e delle alte valli Versa e Rilate. Le sarìdoli o garìtoli sono una specie di funghi pregiati reperibili a fine estate nei prati di fondovalle. Un tempo erano raccolti con religiosa attenzione e fatti seccare come scorta per l’Inverno. A Montechiaro erano poi fatti rinvenire in acqua tiepida, rosolati con cipolla tritata, prezzemolo e odori, poi cotti in umido con conserva diluita in acqua, e profumati alla fine con un ulteriore trito di aglio e prezzemolo fresco. Questo appetitoso ma economico intingolo era uno dei più amati dalle cuoche montechiaresi. 5) Polenta e salamin sfacc . E’ un tipico intingolo monferrino della zona tra Montemagno e Moncalvo. Un cotechino grande, già lessato, veniva spellato e disfatto in una base di cipolla affettata e rosolata, portata a cottura con conserva diluita per ottenere una salsa abbondante. 6) Polenta “con gli occhi”. Altra specialità prettamente monferrina. Si preparava una gran zuppa di fagioli borlotti, molto densa e ben condita di lardo e profumi. Si univa poi alla polenta quasi cotta, che al taglio presentava i fagioli sezionati simili a tanti occhi. Buonissima ed attuale ancora oggi, soprattutto nella variante che prevede la lessatura al naturale dei fagioli, e in seguito la loro stufatura con conserva, prezzemolo, verdure tritate. 7) Polenta e mostarda. Le fette di polenta si condivano nel piatto con la mostarda d’uva, di cui si tratterà nelle pagine seguenti. Ricetta semplicissima e spartana, ma molto apprezzata soprattutto dai bambini. 8) Polenta e bros. Le fette di polenta erano spalmate con il fortissimo “bros”, formaggio fermentato presente in ogni casa. Dato il sapore estremo, era prevalemtemente un mangiare “da uomini”. 9) Polenta e tartra. La polenta a fette era accompagnata dalla morbidissima ed ancestrale “tartra”, il budino salato di cui si parlerà in un apposito paragrafo. 10) Polenta, merluss e sioli fricci ( Polenta, merluzzo e cipolle fritte) Era la ricetta obbligata dei venerdì quaresimali. Il merluzzo dissalato era fritto a pezzi previa impanatura d’uovo e pangrattato, e accompagnata da abbondanti cipolle affettate e stufate in tegame, di color oro carico. Piatto molto gustoso frequente anche nelle osterie popolari. 11) Polenta e merluss . Il merluzzo dissalato, a pezzi e previa infarinatura, veniva cotto “al verde” con abbondante trito di prezzemolo, cipolla, aglio, poca conserva ed altri profumi eventuali; la cottura era condotta in umido in modo da avere un intingolo abbondante e legato. Anche questa era una tipica ricetta quaresimale o “di vigilia”. 12) Polenta e sanguinacci. Nel Monferrato e nell’Astesana nord-occidentale il sangue di maiale non veniva insaccato, ma fatto rapprendere in teglia, opportunamente condito e poi conservato al fresco per qualche settimana. Al momento del consumo una porzione di questo “sanguinaccio” veniva sbriciolata e disfatta in un tegame di cipolle affettate e cuoceva insieme ad esse, originando un intingolo scuro, cremoso ed appetitoso. Nel Monferrato era facile procurarsi questo tipo di sanguinaccio ( detto sang ad boela, sangue di budello) presso i macellai o i salumai dei paesi, che lo vendevano generalemnet a prezzi contenuti. 13) Polenta e potage d’Gesù Crist. Ricetta reperita solo a Villanova , assolutamente geniale per la delicatezza del sapore, per la ricchezza della consistenza , per il perfetto abbinamento con la polenta. Le cipolle affettate sottili erano fatte appassire con olio e burro; una volta tenere si condivano con qualche cucchiaiata di bagna caoda o meglio ancora con qualche acciuga diliscata e dissalata. Arrivate a perfetta cottura si bagnavano con mezzo bicchiere di latte e si univano due uova intiere ben sbattute; si lasciava addensare il tutto mescolando per qualche minuto, fino ad avere un intingolo cremoso, abbondante e ben legato. Chi assaggia la bontà paradisiaca di questo piatto capisce al volo il perché di questo nome, argutamente contrapposto a quello della forte e “peccaminosa” “bagna del diavolo”. 14) Polenta e bagna d’tomatiche. Tipica dell’Astesana occidentale. I pomodori ben maturi, strizzati e pelati, venivano “tirati” in una salsa densa con prezzemolo, basilico, cipolla tritata ed aromi; alla giusta consistenza la salsa veniva legata e resa cremosa e vellutata con l’aggiunta di un paio d’uova intiere. Una variante invernale si poteva ottenere con la conserva casalinga. 15) Polenta ed intingoli di carne. La polenta poteva assurgere ad una collocazione domenicale se abbinata ad intingoli di carne. Tali intingoli erano preparati con pollame ( pollo alla cacciatora), coniglio ( coniglio al sivè, o in salmì, o in umido etc.), o tagli umili di bovino accomodati in spezzatino o fricandò con verdure e conserva di pomodoro ( carn camodaja). 16) Polenta fritta. La polenta del pranzo tornava spesso alla sera camuffata da pietanza. Tagliata a listerelle, a fettine o a bastoncini, veniva rosolata in olio e burro diventando ben calda, appetitosa e croccante. Si serviva con insalatone di verdure cotte o crude. 17) Polenta fritta con le uova. Variante arricchita della precedente. Le fettina di polenta disposte in padella per la frittura, venivano coperte con alcune uova ben sbattute; se ne ricavava una sorta di rustica omelette. 18) Polenta an s’la brasca. Tipicamente monferrina . La polenta avanzata veniva tagliata a fette e messa ad abbrustolire sulla gratella disposta sulle braci vive. Una volta diventata ben croccante si mangiava con l’insalata, o la si strofinava leggermente con aglio, o si spalmava con lo strachin ( gorgonzola) TESTIMONIANZE Margherita Bussa ( Montemagno) “Mia nipote quando viene a mangiare da me mi dice “nonna, fammi la polenta che mi piace tanto!” io le dico, eh, la facciamo un’altra volta che adesso non ho tempo, ma penso tra me “ommi, n’eu già mangiane tròpa”. Quando ero bambina si mangiava tutti i giorni, almeno una volta per pasto. Al mattino tiravamo fuori dall’erca quella avanzata dal giorno prima per fare colazione, poi si cuoceva fresca per mezzogiorno, poi alla sera quello che si avanzava si usava da pietanza…” Carla Quirino (Montemagno) : “Mio nonno, il Grand Cichin guai se non aveva la polenta tutti i giorni. Piuttosto la faceva lui, era poi arrivato che la faceva sempre lui. Verso le cinque, le sei di sera arrivava e diceva a mia mamma “Mareja, bita pura seu l’pareu, che mi sòn prònt” (“Maria, metti pure su il paiolo, che io sono pronto!”) . Anche perché mia mamma la polenta la faceva un po’ molle, a lei piaceva così, invece mio nonno la voleva bella dura, voleva tagliarla con la fila e mangiarla a fette, non con il cucchiaio. Se la faceva mia mamma perché lui non poteva, quando arrivava a mangiare sbraitava “sarè s’fnestre, che la polenta la pja l’vòl!. (“Chiudete quelle finestre, che la polenta prende il volo”, cioè, è talmente leggera che il vento se la porta via).” SALAMIN SFACC Carla Quirino ( Montemagno) : “Si prendeva un cotechino, uno solo per tutta la famiglia, poi si cuoceva, poi si disfava e si faceva andare con tanta cipolla affettata, e un bel po’ di conserva. Si usava per la polenta.” BAGNA D’ANCIUI Vincenzo Testa (Moncalvo): “Quante volte che si faceva! Ma solo per la polenta. Si prendevano le cipolle, si tritavano con la mezzaluna, poi si facevano appassire nel tegame con olio e un po’ di burro e una foglia di lauro, un pezzetto di spagnolino anche, più o meno a seconda dei gusti. Poi le acciughe, diliscate e sbattute per la coda per far andare via il sale, mica si lavavano, dovevano dare il gusto…e un po’ di conserva. Si cuoceva fino a quando le cipolle quasi non si vedevano più e si metteva sulla polenta, con una spolverata di formaggio da grattare.” SANGH AD BOELA Carla Quirino ( Montemagno): “Allora qui il sanguinaccio non lo facevano più in casa, si andava dal macellaio che lo faceva insaccato in una budella grossa, e se ne comprava un pezzo, come oggi si compra un pezzo di salame. Poi si facevano rosolare tante cipolle tagliate a fette, e quando erano color dell’oro si metteva il sanguinaccio e si disfava bene con la forchetta. Quella roba non era bella da vedersi, scura e marrone, e a noi bambini non piaceva, ma i grandi sì che gli piaceva”. POLENTA E FASEU Margherita Bussa ( Montemagno): “Facevamo una bella marmitta di fagioli borlotti con il lardo, la cipolla, la salvia e i gusti come un minestrone bello spesso e buono. Poi facevamo la polenta, e quando era cotta si buttava nel paiolo quel minestrone di fagioli e si faceva prendere il gusto. Era buona, quando c’era era una festa; era più buona ancora fatta friggere a fette la sera: allora si chiamava “polenta con gli occhi”. POLENTA E MOSTARDA Margherita Bussa (Montemagno) : “ La mostarda la facevamo con l’uva nera, più di tutto la barbera, dentro il pareu di rame; ci mettevamo pere, mele cotogne, zucca, fichi che avevamo messo a seccare nell’estate. Si faceva cuocere 12 ore sul fuoco e poi si metteva nelle tupine, coperte con un foglio di carta spessa. Si conservava così anche un anno, anche due. Si mangiava solo con la polenta o sul pane, ma d’estate si usava scioglierla nell’acqua fresca per fare una bibita…almeno noi bambini facevamo così. E d’inverno con la neve. Col bollito? La mostarda ? Oh signùr, per carità !” POLENTA E UOVA Carla Quirino (Montemagno): “La polenta avanzata al mezzogiorno alla sera diventava pietanza. Si faceva friggere, oppure an s’la brasca , e si mangiava con certi grilletti d’insalata…Il modo più buono era quello di strapazzare delle uova e poi vuotarle ben sbattute sulla polenta mentre friggeva, veniva quasi come una frittata , era proprio buona. POLENTA E SARIDOLI Maria Ferrero (Montechiaro) : D’agosto venivano tante sarìdoli nei prati di Versa. Tutti andavano a raccoglierne, poi si facevano seccare e si mettevano via dentro dei sacchetti di carta. Erano buonissimi fatti in bagna per la polenta. Si facevano rinvenire con un po’ di acqua tiepida, poi si tritava una cipolla o due, un po’ di prezzemolo, una gamba di porro…e si mettevano i funghi. Poi si aggiungeva acqua e conserva e si facevano cuocere. Alla fine si metteva una capilà di prezzemolo fresco con un po’ d’aglio e si mangiava con la polenta. POLENTA CON IL “POTAGI D’GESU CRIST” Maria Vergnano (Villanova) “La polenta si mangiava con tutto, con qualsiasi cosa, non era mica un problema cosa farci insieme. Si faceva polenta e latte, polenta e bagna d’tomatiche, polenta e coniglio, polenta e bagna caoda, basta che ci fosse della roba da condire, andava bene tutto. Quando proprio in casa non c’era niente, mia mamma faceva il potage d’Gesù Crist. Affettava tante cipolle fini fini, poi le faceva friggere piano con un po’ d’olio, quando erano ben cotte e morbide ci metteva due cucchiai di bagna caoda, se ce n’era di avanzata, poi un pizzico di farina e due uova ben sbattute con un po’ di latte. Mescolava bene sul fuoco fino a quando veniva ben legato, e le uova facevano come una crema. Si chiamava così perché era un mangiare della provvidenza, ed era anche buono….” I PIATTI ARCAICI “I PUCC”. L’alimentazione contadina in epoca romana era basata sulla Puls, farinata più o meno densa di cereali o legumi diversi. Già nel I secolo a.C. l’erudito romano Marco Terenzio Varrone scriveva “ Nel campo dell’alimentazione il prodotto più antico è la “puls”. E’ così chiamata o perché così la chiamano i greci, o perché questo nome deriva, come scrive Apollodoro, dal fatto che quando si getta la farina nell’acqua bollente manda un suono simile a puls…” L’arcaica preparazione è alla base non solo di tutte le minestre, che ne sono in sostanza un’evoluzione ed un arricchimento, ma soprattutto della polenta di granoturco, introdotta nell’alimentazione italiana soprattutto a partire dal XVII secolo, che ne riprende per continuità la radice lessicale. Curiosamente proprio nelle tradizioni contadine del Piemonte sono sopravvissute alcune varianti della puls latina, che hanno conservato il nome originale senza grandi variazioni. Nelle alte Langhe esiste la Pucia, polentina molle di farina di grano e mais arricchita con cavolo e pezzetti di carne, simile alla Pute della piana alessandrina, dove la carne è sostituita da frammenti di salsiccia. Nel Novarese si preparava la Put, polentina molle arricchita con fagioli, che diventa Putia nel Vercellese, dove compare il riso e la zucca; in val d’Ossola invece la Puut di farina è insaporita di burro e toma. ( Notizie di Luigino Bruni “La cucina alessandrina” Alessandria 1997, p. 69). L’ Astigiano ha mantenuto la memoria della più antica variante della Puls, ancora sostanzialmente simile a quella preparata in epoca romana. Si tratta del “Pùcc” reperito a Villafranca, oggi in disuso, ma ancora ben vivo e praticato negli anni fra le due guerre, costituito da una polentina molle di farina di grano cotta nel latte, da mangiare con il cucchiaio. Il suo stesso nome non è che l’evoluzione della dizione latina originale. Si tratta certamente di uno dei piatti più antichi e storici d’Italia, che meriterebbe una maggiore attenzione da parte della cucina attuale, magari previa opportuna rivisitazione in chiave gastronomica. TESTIMONIANZE Costanza Sardo ( Villafranca) . “D’inverno tante famiglie mangiavano “i pùcc”. Era una specie di polentina molto morbida, da mangiare con il cucchiaio come una minestra, fatta con il latte e la farina bianca. Si metteva il latte a bollire, poi prima che bollisse si aggiungeva la farina, non tanta, badando di non fare grumi. Si faceva bollire fino a quando diventava un po’ densa, come una polentina o meglio ancora come un semolino. Si mangiava nella scodella. A casa mia non si usava, ma da bambina vedevo tante mie amiche che in casa loro lo mangiavano. Lo chiamavano proprio così, “i pùcc”, ma non so perché, visto che non ci “pucciavano” niente… TARTRA E’ una straordinaria sopravvivenza della cucina medievale, fino ad un paio di generazioni fa molto diffusa nel mondo contadino astigiano e monferrino. Si tratta di una sorta di morbidissimo budino salato o dolce, fatto con latte, uova ed un minimo condimento, che si mangiava con la polenta o da solo, come piatto unico. Conosciuta un po’ ovunque, e anche ben oltre l’attuale territorio provinciale, risulta tuttavia endemica soprattutto nella media valle Versa e in val Triversa. E’ un caso particolarmente interessante di piatto poverissimo che nasce però nella cucina ricca dei nobili. Simili preparazioni, contraddistinte dalla morbida delicatezza, erano praticate con nomi diversi ma con ogni onore già nel XIV secolo, un po’ in tutta l’Europa. E’ nei primi decenni del Cinquecento che Cristoforo da Messisbugo, fiammingo naturalizzato ferrarese, fornisce nel suo trattato una ricetta di “tartara” definendola esattamente in questo modo. Il realtà il piatto prendeva nome da un manicaretto descritto nel celeberrimo Viandier del francese Guillaume Tirel detto Taillevent, da quest’ultimo semplicemente definito “tarte”, cioè “torta”. La trasposizione italiana del termine diede così origine a quel “tartara”, che con i popoli delle steppe asiatiche, ovviamente, non ha nulla da spartire. La ricetta del Messisbugo consisteva in un involucro aperto di pasta sfoglia, ripieno di un composto di “ uova vinti fresche, ben battute con quindici bicchieri di latte fresco, e oncie 5 di zuccaro, e oncia mezza di cannella fina pista..” tutto rassodato nel forno o sotto le braci. Riscosse subito una grande fortuna, al punto da essere stabilmente adottata nella cucina italiana. Ancora nel 1822 il ricettario sud-piemontese Polizia e Cucina la riprende in modo pressochè identico, solo eliminando la sfoglia esterna e ammorbidendo notevolmente la farcia: “ Tartara: quattro uova ben battute si uniscono a due libbre di latte con sei cucchiarini di zucchero e una di cannella. Riposto nel piatto, cuoce a doppio fuoco, dal quale si allontana tosto, giachè non dee bollire..” All’epoca la semplicissima composizione, delicata, raffinata ma anche economica, era già arrivata alla cucina contadina, dove il latte e le uova rappresentavano una risorsa largamente accessibile. Della versione leggermente dolce (che comunque anche sulle tavole dei ricchi non rappresentava un dessert ma un piatto di mezzo) è stata rinvenuta memoria a Montemagno, mentre in altri paesi prevaleva il tipo salato, insaporito molto semplicemente con una grattugiata di formaggio grana (Villafranca) o con un trito finissimo di cipolla ed erbe aromatiche ( Frinco, Montechiaro). Da circa un ventennio la Tartra astigiana e monferrina è stata sottratta all’oblio grazie all’opera del gastronomo Giovanni Goria, ed è di nuovo proposta da alcuni buoni ristoranti del territorio, magari arricchita e nobilitata dall’accostamento con altri ingredienti più preziosi. TESTIMONIANZE Costanza Sardo ( Villafranca) “La Tartra la mangiavamo sovente d’Inverno, con la polenta. Polenta e Tartra, polenta e Mostarda. Era fatta con le uova e con il latte, un pizzico di sale, magari se c’era una crosta di formaggio in casa anche una grattata di formaggio, ma niente di più. Si cuoceva nel bonet con la brace attorno e sul coperchio, poi si mangiava a cucchiaiate. Adesso ci sono dei ristoranti che la fanno di nuovo, come antipasto fine; a me fa un po’ ridere, perché sembra chissà cosa, invece una volta era un mangiare per fè ‘conomia . Carla Quirino (Montemagno) “Quando le galline possavo e c’erano tante uova, mia mamma a noi bambini ci faceva la Tartra : sbatteva le uova con il latte e un po’ di zucchero e metteva a cuocere in uno stampo con la brace tutto intorno e sul coperchio. Rimaneva morbido morbido, e si mangiava con il cucchiaio e con il pane. Sembrerà strano ma per noi era una pietanza. Siccome ci voleva tanto latte, mio nonno brontolava, soprattutto quando c’era il vitello che poppava. Una volta mia mamma era andata a mungere e aveva preso più latte del solito perché voleva fare la Tartra; mio nonno le disse: “S’capiss, a fass stantè l’bocin per deine a j’iis” ( Si capisce, faccio stentare il vitello per darne a questi qua”) La tartra si poteva fare in qualsiasi momento dell’anno, bastava ci fossero le uova e il latte, e si poteva fare. Una volta io, mia sorella e mio fratello abbiamo mangiato una Tartra in tre, prima di andare a voltare il fieno.” Anna Obermitto (Frinco-Montechiaro) “ Oh, a na mangiavo tanta! Ho mangiato tanta di quella Tartra da bambina, e anche dopo! Si faceva d’Inverno, da mangiare con la polenta….c’erano dei periodi che non si mangiava altro: Tartra e polenta, polenta e Tartra. Si faceva rosolare un po’ di cipolla tritata fina, e magari un po’ di rosmarino. Poi si sbattevano le uova con il latte, però di uova se ne mettevano ben poche….e si metteva il condimento di cipolla. Si metteva tutto dentro lo stampo, e si metteva a cuocere con la brace tutto intorno e sul coperchio. Veniva come una quajà, perché si adoperavano poche uova. Bisognava prenderla nello stampo con il cucchiaio, non si poteva girare su un piatto se no andava an fass. Buona era buona, però mangiata un po’ di volte di fila, e solo quella, alla lunga stufava….” “FAVOT” Nei primi anni del XVI secolo il commediografo astigiano Giovan Giorgio Alione, in una sua farsa, fa pronunciare ad un oste un’invettiva contro i francesi, alla cui dominazione era sottomessa la Patria Astese. L’oste inviperito conclude dicendo “Al tempo della libertava meglio valiva Fava Menava ch’adess persuti e salcizons” . Quella “Fava Menava”, già all’epoca, era un piatto povero ma saporito, del quale maestro Martino da Como aveva codificato una ricetta nel 1450, peraltro sulla scorta dei suoi predecessori attivi nei secoli precedenti. E’ stata una vera sorpresa trovarne una versione contadina, ormai ridotta a “fossile vivente culinario”, a Cocconato, in tutto conforme, nello stile e nella tecnica, ai ricettari cinquecenteschi. Non è una minestra, quanto piuttosto un piatto unico primaverile. Le fave fresche, private della pellicola, sono fatte cuocere fino a disfarsi, e se ne ricava una polentina, che poi si arricchisce con cipolla rosolata assieme a dadini di pancetta, e si insaporisce con formaggio. Sperimentato, si è rivelato un piatto squisito, dal sapore robusto ma elegante ed equilibrato. Una “riscoperta” che può sicuramente essere riproposta nell’ambito della cucina territoriale. Da notare che l’uso culinario delle fave fresche o secche è ben diffuso e radicato nella parte astigiana, ma è visto con diffidenza ed un certo sospetto nella parte monferrina, che comunque non lo considera facente parte del proprio retaggio gastronomico. TESTIMONIANZE Giuseppina Parena ( Cocconato): “ A me piaceva tanto quando c’erano le fave fresche, i favot. Si prendevano le fave e si toglieva la pelle, poi si coprivano con l’acqua, ma poca, e si facevano bollire fino a quando erano sfatte. Si schiacciavano bene con la forchetta, stava come una polentina verde. Poi si prendeva una bella fetta di vantresca di maiale stagionata, bella spessa. Si tagliava a pezzettini e si mettevano a rosolare in un padellino con una cipolla o due ben tritate. Si faceva arvnì la cipolla e quando era ben dorata si buttava sulle fave. Se c’era qualche pezzetto di robiola avanzata si schiacciava anche quella con le fave e tutto il resto, se no si dava una grattata di formaggio . Che buona pietanza che era! Si mangiava con il pane, e quando si faceva non si mangiava altro.” Vincenzo Testa ( Moncalvo) : “Qui non si mangiavano mica, le fave…Sono i genovesi che mangiano le fave…Qui le fave si tenevano e si facevano seccare per ingrassare i buoi.” LA BAGNA CAODA “In quella capitò Placido colle provvigioni: una tovaglia piena di peperoni, il tegamino coll’olio e colle acciughe, e sotto le ascelle due pinte di vino. “Che novità?” sclamò l’Anna. “Toh, si fa colazione!”. Roberto Sacchetti “Vecchio Guscio”, 1876 . Edizione a cura di A.Brosio, Asti 1983, p.255. E’ senza dubbio il piatto popolare piemontese che gode di maggior notorietà, anche fuori dai confini regionali. Più che un piatto, è un “sistema gastronomico”, che partendo da una semplice salsa calda di aglio, olio ed acciughe, si dilata a coinvolgere la cultura conviviale e le strutture portanti dell’alimentazione quotidiana contadina, diramandosi poi in numerosi rivoli di fruizione e di utilizzo. Il fascino che circonda la Bagna ha fatto crescere attorno ad essa una copiosa letteratura, basata spesso su suggestioni mitologiche non sempre corrispondenti al vero. Negli ultimi decenni, ad esempio, è molto frequente vederla accostata ideologicamente alle fantomatiche “vie del sale” che avrebbero unito il Piemonte alla Liguria rivierasca, considerata spesso come sua antica terra d’origine e come serbatoio di rifornimento delle materie prime necessarie alla sua preparazione. Non esiste praticamente paese piemontese situato tra Po e Appennino che non si ritenga strategicamente collocato su una di queste “vie del sale”, e simili convinzioni hanno dato vita ad affabulazioni letterarie tanto romantiche quanto poco attendibili. Profilo storico Come la maggior parte dei piatti autenticamente popolari e poveri, la Bagna Caoda gioca a rimpiattino nelle fonti più antiche relative all’alimentazione ed alla cucina. Alla fine del XIV secolo il medico Antonio Guainerio, pavese di origine ma attivo e residente in Piemonte fra Torino e Chieri, compone il trattato dal titolo “Opus praeclarum ad praxim non mediocriter necessarium”. In esso afferma “L’aglio è la salsa dei contadini, i quali a volte lo cuociono con mollica di pane, cosa che per i francesi e gli ultramontani non ha niente di superiore” ( “Alleum est rusticorum sapor, et aliquando cum mollicie panis coquunt, quod pro ultramontanis vel francigenis nihil supra.”). Il passo lascia pensare ad una tipica salsa medievale cremosa e densa, aromatizzata dalla forte presenza dell’aglio cotto, secondo una tipologia che non compare nei ricettari italiani, ma che invece, a detta del Guainerio, è molto amata dai Francesi e dai Provenzali (ultramontanis). Non è azzardato vedere in questo sapor rusticorum il progenitore della Bagna Caoda, come non è azzardato, seguendo le parole del Guainerio, stabilirne l’appartenenza ad una macro-regione gastronomica estesa dalla Provenza a tutto il Piemonte meridionale, costituita in epoca medievale grazie ai fortissimi legami economici, politici e culturali stretti fra le due aree. Il fatto che la lapidaria prosa del Guainerio ( che non scrive di cucina, ma di medicina) non faccia riferimento alle acciughe né all’olio non autorizza a pensare alla loro assenza. Anche se descritta quasi quattro secoli dopo, la “Salsa detta del pover uomo” riportata dal “Cuoco Piemontese perfezionato a Parigi” del 1766 è probabilmente una discendente diretta di quel “sapor rusticorum” medievale, nobilitata ed alleggerita nei dosaggi ma quasi invariata sia nel nome che, forse, nella preparazione : “Mettete in una casseruola un po’ di butirro, un po’ d’olio, un’acciuga e un baccello d’aglio triturato; fate cuocere, indi aggiungetevi del pane grattugiato con brodo, e ridotta la salsa consistente la verserete sull’intingolo che servirete caldo.” La presenza delle acciughe salate nella salsa medievale è quanto mai verosimile se si pensa che tale prodotto era largamente importato e commerciato sul mercato di Asti, dove nelle tariffe daziarie del 1377 i barrilis de Anzoiis sallatis sono sottoposti al valore estimativo di 10 lire astesi, corrispondente ad un prezzo al consumo decisamente mite e largamente accessibile. Le acciughe salate arrivavano alla Città attraverso le rotte piemontesi del sale marino, che però, contrariamente a quel che si pensa, non univano affatto la nostra regione alla Liguria. La riviera ligure, scogliosa e dirupata, non ha mai posseduto saline, e in passato il Piemonte si riforniva costantemente a quelle, non lontane, della Provenza. Lunghe carovane di muli e di mercanti astigiani, già dal XII secolo percorrevano l’unica, documentata strata salis che univa le saline provenzali con Nizza, si ramificava nelle valli Stura, Gesso e Vermenagna, si riuniva poi a Cuneo preseguendo fino ad Asti, dove poi il sale veniva smistato capillarmente in tutto il territorio circostante ( questa strata salis è citata in documenti del 1259, cf. Renato Bordone :“La genesi della classe politica del comune di Asti”, in “Bollettino Storico bibliografico subalpino”, 1979, p.79) . Una rotta alternativa, ma non meno importante, risaliva costeggiando il versante francese delle Alpi, discendeva in valle di Susa, e attraverso Rivoli ed Avigliana giungeva ancora una volta ad Asti. Il commercio del sale consentiva anche l’approvvigionamento delle acciughe salate prodotte in grandi quantità nel golfo del Leone. Proprio la costante ed anticha frequentazione delle saline provenzali mise in contatto i mercanti astigiani ( che all’epoca detenevano una sorta di monopolio commerciale nei traffici con l’Oltralpe) con un curioso mangiare dei pescatori e degli operai del sale occitani: l’Anchouiado. Praticata ancora oggi da tempo immemorabile, consiste in una salsa di acciughe, olio ed aglio, mantenuta calda in un tegame, nella quale i commensali seduti in circolo, a turno, intenigevano un tempo semplici pezzi di pane, oggi ortaggi assortiti. Una sorta di bagna caoda , che ha fortissimi legami di parentela e di somiglianza, troppo forti e circostanziati per essere giustificabili dalla semplice coincidenza. Tutto lascia pensare che i carovanieri del sale, assieme a questo ed alle acciughe, portassero in patria anche la ricetta di questa “salsa calda”, che per i contadini divenne in seguito il “sapor rusticorum”, poi “bagna Caoda” , trasportata in seguito sulle tavole borghesi come intingolo “rustico” ma appetitoso chiamato salsa “del pover uomo”. La salsa contadina, abbinata ai peperoni, fa la sua prima apparizione letteraria nel romanzo “Vecchio guscio” scritto nel 1876 dal montechiarese Roberto Sacchetti, come protagonista di una colazione rusticana. Nel 1880 l’albese Lorenzo Fantino, nel verbale dell’ Inchiesta Agraria Jacini, la descrive come condimento quotidiano per la polenta. Diffusione e uso. La Bagna Caoda è oggi conosciuta e praticata in tutto il Piemonte, e molte aree sub-regionali ne rivendicano la paternità, a volte con motivazioni risibili ( ad esempio a Biella si sostiene che la ricetta fu inventata da un oste biellese, tale signor Coda, da cui il nome “Bagna Còda”). In realtà, prima della standardizzazione della “cucina tipica piemontese” avvenuta negli anni ’30 del Novecento, essa risulta assente dall’alimentazione contadina delle aree montane e di quelle di pianura a nord del Po, mentre il suo epicentro risulta essere costituito dalle colline delle Langhe, dell’Astesana, dell’Alto e del Basso Monferrato. Sembrerebbe proprio che Asti ne abbia costituito il più antico e principale centro di irradiamento, in seguito affiancata da altre importanti località strategicamente collocate sulle rotte commerciali come Alba, Chieri, Acqui, Alessandria. Le fortune della Bagna in quest’area si possono ascrivere anche all’umile ma capillare azione degli ancioè, i rivenditori al dettaglio delle acciughe che fino a tempi non lontani battevano sistematicamente le campagne per la vendita “porta a porta”; rivenditori che, com’è noto, provenivano per la maggior parte dalle vallate di collegamento tra il Sud Piemonte e la Provenza, in antico punto nodale delle circolazioni commerciali fra le due regioni. Le acciughe, che grazie agli ancioè ambulanti si potevano acquistare da parte delle famiglie contadine in piccolissime quantità settimanali, venivano così a rappresentare una derrata economica costantemente fruibile, in grado di arricchire e diversificare anche la più povera delle diete. Più problematico il caso dell’olio d’oliva. Nel corso dell’Ottocento il mondo contadino sud- piemontese ha definitivamente adottato quello d’oliva: l’Inchiesta agraria Jacini afferma nel 1880 che “L’olio è il principale condimento dei nostri contadini, non monta loro che venga da Lucca o da Nizza, purchè sia olio e costi poco. (…)”. All’epoca le comunicazioni ferroviarie ne rendevano possibile l’economicità, il commercio e la diffusione su larga scala. Ma anche nel XVIII secolo i numerosi Calmieri comunali lo considerano derrata di largo consumo e di basso prezzo, confermando l’esistenza di ormai consolidate e facili importazioni dalle zone rivierasche. Nel Cinquecento e nel Seicento per contro, l’olio d’oliva d’importazione risulta essere piuttosto costoso, ma è largamente documentata, in tali secoli, una robusta produzione locale di olio di noci e nocciole. Altrettanto documentata è la presenza di un’olivicoltura locale, forse non in grado di soddisfare il fabbisogno dell’area, ma certo di integrarlo. Nel XVI secolo le olive tortonesi erano prodotte con abbondanza, esportate fino a Roma. Nell’area astigiana la zona sud dell’attuale provincia vedeva una buona presenza di oliveti, concentrati soprattutto tra Belbo e Tiglione, con epicentro in Canelli, dove nei primi decenni del Seicento sono documentati impianti abbastanza specializzati, tutelati anche dai “Bandi campestri” emanati dal Comune. Anche le colline più elevate della zona Nord, alla stessa epoca, sono caratterizzate da piccole ma significative produzioni locali. L’olivicoltura del territorio sembra venir meno agli inizi del Settecento, a causa dell’ “orrido gelo” verificatosi nel 1705. Sebbene dopo quella data la presenza degli olivi non scompaia del tutto, è la produzione di olio a cessare quasi completamente. Nel 1816 l’erudito astigiano Giovanni Secondo DeCanis stigmatizzava la mancata diffusione delle colture di “semi oleiferi”, ormai largamente praticata nelle pianure: “Questa noncuranza addiviene dall’esservi abbondantissime le noci: ma se si rifflettesse che quest’oglio di cattivo gusto (…)non serve che ai rustici, alla difficoltà che si ha di far venire oglio d’oliva di buona qualità ed a discreto prezzo (…) ne avverrebbe che se con sommo impegno si coltivassero le piante oleifere, le quali per poco che producessero rimpiazzerebbero tuttavia il vuoto che si ha in questa nostra patria d’una produzione certamente indispensabile”. L’olio di noce continuò ad essere prodotto in ambito domestico fino a tempi recenti, ma in quantità sempre più irrilevanti e sporadiche. La Bagna Caoda ottocentesca, ormai trionfatrice sulla tavola del contadino piemontese, (nella fattispecie astigiano o monferrino) è a base di olio d’oliva; la sua preparazione è decisamente economica, tanto da diventare l’accompagnamento abituale per la polenta giornaliera; alla funzione di condimento continua ad affiancare, con immutato successo, quello di intingolo autonomo da consumare nel rito dell’intingimento collettivo. Oggi la letteratura gastronomica tende ad enfatizzare l’aspetto festivo della Bagna Caoda, ritenuta spesso un mangiare “di circostanza” legato a momenti particolari della vita contadina, come la svinatura. Le testimonianze raccolte sono invece concordi nell’assegnarle il ruolo di vivanda quotidiana molto amata, non solo perché economica, ma anche perché gioiosa e gratificante. Molto spesso nella famiglia contadina la Bagna svolge il suo ruolo nell’arco di diversi giorni: preparata una prima volta in quantità abbondante, e consumata un paio di volte per intingervi le verdure, viene a mano a mano reintegrata nei pasti successivi con l’aggiunta di olio o nuove acciughe, assumendo progressivamente una consistenza sempre più fluida che la rende adatta ad insaporire la polenta o a diventare condimento caldo, magari previa aggiunta di aceto, per grandi insalate di ortaggi cotti o crudi. Il suo uso è piuttosto legato alla stagionalità: risulta massimo nell’autunno, quando sono ampiamente disponibili i cardi, i peperoni smojà e le altre verdure, declinando durante l’Inverno fino a smettere i panni del “piatto unico” , trasformandosi in semplice salsa di accompagnamento per la polenta o in condimento fatto appositamente per insalate o paste asciutte rituali nelle “vigilie” quaresimali. La “Bagna caoda vegia” Tutte le testimonianze raccolte sono concordi nel considerare la Bagna Caoda come piatto quotidiano, molto gradito ed apprezzato ma frequente. Tutte le testimonianze indicano un’identica “cultura della Bagna” , che pur conoscendo alcune minime varianti vernacolari, è praticata in maniera omogenea non solo nel territorio in esame, ma in tutta la “Cittadella collinare” sud-piemontese. Ovunque la Bagna è preparata nel tegamino di terraglia, che assume il nome di padlòt, o fojòt o dian ( quest’ultimo mutuato dal provenzale tian) , poi mantenuto caldo sulla s-cionfetta ( dal francese chaufette) piena di braci e cenere troneggiante in mezzo alla tavola. Ovunque la Bagna si mangia intingendovi verdure crude autunnali, fra le quali il cardo bianco ed il peperone hanno ruolo di protagonisti, seguite dal cavolo crudo, dalla biarava (barbabietola rossa), dal topinabò (tuberi di topinambur) ed altre. La ritualità è invariata: si intingono i pezzi di verdura prelevandoli con la forchetta ( ma in antico anche a mano libera), accompagnandoli nel tragitto verso la bocca con un grosso pezzo di pane. L’intingimento è collettivo e piuttosto frenetico, tanto che non di rado la Bagna viene mangiata in piedi come per un’eccitata avidità. La sua attuazione è sottoposta ad una propria etichetta, che vieta ad esempio di “caricare” eccessivamente il proprio boccone con la parte solida della salsa, o di intingervi un pezzo di verdura già morsicato, o il pane che, imbevedosi, ne asporterebbe disoneste quantità. La memoria generazionale conserva ancora vividamente il ricordo della Bagna Caoda vegia, quella preparata secondo la ricetta ancestrale fino a qualche decennio fa. La ricetta prevedeva elevate quantità di aglio ( fino ad una testa per persona), affettato sottilmente o in alternativa tritato a crudo con la mezzaluna. L’aglio veniva fatto appassire e ammorbidire a fuoco dolcissimo con l’olio, sempre rigorosamente d’oliva; a tempo opportuno erano aggiunte le acciughe, mai lavate ma solo scrollate del sale o eventualmente strofinate e spesso non diliscate, che si scioglievano senza friggere, addensando e dando corpo alla salsa. Costantemente praticata l’aggiunta finale di un pezzo di burro con il compito di smussare le asperità dei sapori. Molto curiosa la variante astigiana occidentale, usata ancora oggi tra Villafranca e Villanova, che prevede l’aggiunta in cottura di quantitativi più o meno importanti di conserva casalinga, in dosi oscillanti dal mezzo cucchiaio fino al tazzone colmo. Una simile variante, apparentemente spuria ed impropria, è per contro decisamente autoctona, radicata e caratteristica: si ricollega alla precoce introduzione dei lavorati di pomodoro nell’economia famigliare contadina della zona, databile, come si è visto, alla fine dell’Ottocento. Anche dal punto di vista prettamente gastronomico il risultato è molto piacevole, e costituisce un sicuro elemento di diversificazione territoriale. La “Bagna Caoda”oggi. Il piatto ha ormai perso del tutto i connotati di “mangiare quotidiano”, trasformandosi in occasione festiva celebrata saltuariamente nell’arco dell’ Autunno. E’ stato adottato con una certa inspiegabile riluttanza dalla ristorazione locale, che pur avendo introdotto nei propri menu la Bagna come condimento ( celebri gli onnipresenti peperoni arrosto cosparsi della salsa) denota serie difficoltà a proporlo come appuntamento consueto. Paradossalmente la Bagna caoda rituale è reperibile nella sua patria solo in poche e circostanziate occasioni celebrative ad essa dedicate. Un atteggiamento spiegabile con diffusi pregiudizi di ordine dietetico-alimentare ( la paura della “indigeribilità” dell’aglio, o della traccia a volte ingombrante che lascia nell’alito di chi lo mangia) ma anche con una certa pigrizia da parte del mondo della ristorazione. E’ curioso che proprio la ristorazione abbia mortificato e snaturato un bellissimo rito conviviale travisandone le modalità tecniche della sua celebrazione. Com’è noto, nei ristoranti di tutto il nostro territorio la Bagna Caoda viene ormai somministrata come piatto individuale, nei ben noti, tristissimi pignattini singoli, perdendo e negando la sua componente collettiva più caratterizzante ed irripetibile. Componente che può certamente creare qualche imbarazzo in ristoranti eleganti e formali, ma che invece sarebbe sicura garanzia di successo nelle molte osterie, agriturismi o “vinerie” che oggi reggono le sorti della gastronomia “tipica” territoriale. I timori di tipo dietetico o olfattivo sono oggi largamente infondati. Da decenni, anche nelle famiglie contadine, è invalso l’uso di eliminare l’afrore eccessivo dell’aglio mediante pre-cottura in acqua o latte; la Bagna Caoda che si fa oggi con tali modalità ha sicuramente perso in qualcosa in schiettezza e rusticità, ma è comunque largamente conforme al modello antico, e, se fatta con attenzione, non ha alcuna conseguenza né nei confronti della digestione né in quelli dell’alito. TESTIMONIANZE Bruna Perotto, (Cocconato) “ Si faceva tanto, anche tucc i dì, nell’Autunno quando c’erano le verdure giuste per bagnare. Mio padre quando è morto aveva il fojòt della Bagna nel cassetto del comodino da notte. Era malato da tempo, doveva tenere il letto, allora teneva sempre il fojot della bagna a portata di mano; si faceva portare la s-cionfetta per riscaldarla, e bagnava le sue verdure. “ Angela Bersano ( Moransengo) “ Arrivando in autunno mio padre comprava al mercato un barì di acciughe, diceva che era più conveniente che comprarne un etto volta per volta ; io però credo che invece la bagna caoda gli piaceva tanto, e gli piacevano anche le acciughe, così se erano già in casa si faceva più sovente, senza bisogno di aspettare che passasse l’ancioè. Poi teneva i cardi, mentre i cavoli andava a prenderli a Crescentino. Faceva delle grandi scorte di povron smojà, e c’erano anche i tapinabò. La bagna si cominciava a fare in Ottobre e si andava avanti fin che c’era la roba da bagnare. Anche dopo, in primavera, si faceva ancora, da mangiare con la polenta…” Rina Bossone ( Montechiaro) : “Eh, quanta bagna caoda che si faceva allora! Non mancava mai, e non stancava mai perché piaceva a tutti, era anche bello mangiarla, tutti insieme intorno al tavolo a bagnare nel padlot sopra la s-cionfetta piena di brace! Una volta si faceva un po’ diversa da come la fanno adesso. Tagliavamo l’aglio a fettine sottili, dopo avergli tolto il but, tanto aglio, una testa per persona. L’aglio si metteva nel padlot di terra con l’olio, a cuocere piano piano senza friggere, poi quando era ormai tenero si mettevano le acciughe, non tante per risparmiare, ma insomma abbastanza per dare sapore e sostanza; le acciughe non bisognava lavarle, si toglieva la resca e si raschiava via il sale con un coltello, e basta. A lavarle sembrava che dessero meno gusto, e che ce ne andassero di più. Quando le acciughe erano sciolte si aggiungeva un pezzetto di burro, tutto qui. La “bagna” era più liquida, mica cremosa e spessa come la fanno adesso, ma fosonava di più, durava e ce n’era sempre ancora. E quando si bagnava bisognava cercare di non tirare su lo spesso, guai a fare palot con il pezzo di verdura, altrimenti ci sgridavano subito! Nella bagna si mangiavano soprattutto i cardi, e anche i peperoni, smojà, perché quando si faceva, la stagione dei peperoni freschi era già passata. Si usava anche tanto il cavolo crudo, e i topinabò , ma anche le biarave rosse cotte nel forno, a volte anche la zucca. Alla fine dell’estate si mettevano via i peperoni, noi li mettevamo sia nell’aceto sia sotto rapa, dopo aver vendemmiato” Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa ( Montemagno): “ Si faceva sovente, dopo la vendemmia; oggi si fa una o due volte per stagione, magari per fare una ribòta con gli amici, ma una volta si faceva soprattutto in casa, era un mangiare di famiglia, non faceva bisogno di invitare gente per farla. Anzi, farla per un invito non stava mica bene, sembrava voler dare poco da mangiare. Invece si faceva quando venivano ad aiutare, lì non c’era soggezione e si faceva una bella bagna caoda . Una volta la bagna si faceva più rustica di adesso; adesso tutti hanno paura che rinvenga, hanno paura dell’odore, ommi da qui, ommi da là, allora bisogna far cuocere l’aglio nel latte, o nell’acqua…. Però sembra che rinvenga di meno, ma poi è più indigesta, perché di quell’aglio disfatto si finisce di mangiarne di più. Una volta l’aglio si tagliava a fettine sottili, che rimanevano intere, e uno se voleva poteva anche non mangiarlo, perché tanto stava sul fondo del padellino; adesso si fanno delle bagne spesse che sembrano crema, e lì si mangia più aglio. Le acciughe, poi, una volta si dava una passata sopra per togliere il sale e basta, allora sì che davano il gusto! Adesso c’è qualcuno che le lava addirittura nel vino, addirittura nell’aceto, poi certo che non sanno più di niente ! Le acciughe allora si prendevano dall’ancioè, passava casa per casa una volta o due la settimana, aveva una bicicletta con una tòla di acciughe e basta…” Maria Vergnano Granero ( Villanova) “ Ormai è da un po’ di tempo che la bagna la facciamo facendo bollire l’aglio nell’acqua; non tanto da farlo venire una pappetta come fa qualcuno, lo facciamo bollire giusto il necessario per togliergli il forte, ma che rimanga intiero. Lo pestiamo dopo, con la forchetta, quando si mette con l’olio. Una volta infece si tritava da crudo con la mezzaluna, e si disfava cuocendo. Poi ci vanno le acciughe, e anche un bel cucchiaio di conserva della nostra. La conserva si è sempre messa, mia mamma la metteva e qui a Villanova la mettono tutti, chi più chi meno, ma un cucchiaio almeno la mettono tutti.” Margherita Amerio ( Dusino) “La bagna caoda la faccio seguendo la ricetta di mia mamma, solo che l’aglio lo faccio sbollentare nell’acqua, poi butto via l’acqua e finisco di cuocerlo nel latte, fino a quando è completamente morbido che quasi si disfa. Uso circa un chilo d’aglio, e in proporzione ci metto un quattro etti di acciughe, diliscate e passate sotto l’acqua corrente per togliere il sale. Faccio sciogliere l’aglio nell’olio, senza mai friggere, poi le acciughe, e conserva casalinga, un tre etti grosso modo. Alla fine si mette un pezzo di burro. Non deve mai friggere, guai, altrimenti diventa amara e non si può più mangiare…” Costanza Sardo ( Villafranca) “ Si cominciava a fare la bagna caoda dal principio di ottobre e si andava avanti fino in Primavera, fino ai caldi; si faceva anche due o tre volte la settimana, si incominciava la prima volta, poi si aggiungeva altro olio e aglio mano a mano che consumava, e anche un po’ di acciughe. Si faceva prima di tutto per bagnare le verdure, ma quando c’era si usava anche per condire le insalate di verdure cotte, o da mettere sulla polenta, o magari per condire i macaron se era giorno di vigilia. Noi la facevamo alla moda vecchia, con l’aglio tagliato a fettine, con le acciughe scrollate e non lavate, e anche con una punta di cucchiaio di conserva della nostra, per dare un colore più bello. Adesso però l’aglio bisogna farlo cuocere prima nel latte se no si lamentano tutti che rinviene. Qualcuno usa metterci anche la panna, ma io non ne voglio neanche sentir parlare; burro sì, ce lo abbiamo sempre messo, un pezzo di burro. Per bagnare nella bagna mettevamo via un mucchio di peperoni a smojè, si usava metà acqua, metà aceto e sale, poi si mettevano sopra delle foglie di canna…Mio padrino tutti gli anni metteva a smojè anche trenta chili di spagnolini piccanti”. LA “BAGNA FERGIA” Questa “Bagna caoda”…fredda è stata una delle maggiori sorprese riportate nel corso del rilevamento. Se ne è trovata traccia nel solo comune di Villafranca, per quanto, fuori dall’area, alcuni celebri ristoranti piemontesi propongano da pochi decenni degli antipasti di carni bianche conditi con una “Bagna Freida” che sembra più essere un’evoluzione concettuale della Bagna Caoda piuttosto che una preparazione autentica. La Bagna fèrgia villafranchese è per contro un piatto robusto, schietto, tradizionale, ben radicato, in tutto e per tutto simile alle Anchoiades fredde della Provenza. Vista la limitata area di diffusione nostrana, viene da pensare che la ricetta di Villafranca sia stata importata dalle non poche famiglie locali occupate in lavori stagionali nella Francia del Sud nel corso dell’Ottocento . La preparazione è in sostanza quella di una Bagna Caoda non cotta. Le acciughe ben dissalate, accuratamente diliscate e passate sotto l’acqua corrente, vengono pazientemente, finemente tritate con aglio fino ad ottenere una pasta finissima, che viene poi stemperata con buon olio d’oliva fino ad avere la consistenza di una salsa. In questa salsa, contenuta in un tegamino di coccio, si intingono verdure estive o primaverili secondo il rito della Bagna Caoda: peperoni crudi o arrostiti, sedani, cipollotti , pomodori, etc. Volendo la salsa può essere cosparsa sulle verdure stesse opportunamente disposte su piatti di servizio. La non indifferente presenza di aglio crudo può creare seri imbarazzi ai commensali moderni; per questo lo si può sostituire con aglio cotto in forno a temperatura dolcissima , ben avvolto in carta d’alluminio. TESTIMONIANZA Costanza Sardo ( Villafranca) : “Ah, una cosa buona che si faceva una volta era la Bagna Fèrgia ! Era una cosa proprio vecchia, che io ho sempre visto fare in casa mia già da mia nonna. Prendevamo quattro o cinque acciughe, le facevamo pulito con tanta attenzione e le passavamo un momento nell’acqua per togliere il sale. Poi ci mettevamo lì con la capuloira e alè, tritavamo e tritavamo le acciughe con quattro o cinque fresche d’aglio. Capula capula doveva venire tutto finissimo. Poi si metteva in un dianet e si aggiungeva l’olio, e si sbatteva bene. Veniva una roba come la Bagna Caoda solo che era fredda ; ma che buona! La facevamo d’estate e bagnavamo dentro le verdure che ci sono d’estate. Mia mamma la usava anche per fare degli antipasti quando c’era qualche pranzo importante. Metteva le verdure ben sistemate su una bassilla bianca, a pezzi di tutti i colori, poi faceva la Bagna Fèrgia, bella densa, e la vuotava sulle verdure: così faceva sempre bella figura. Ma d’estate si magiava volentieri anche tutti i giorni.” LE “ PROVVISIONI” L’alimentazione contadina di un tempo faceva largo e costante affidamento sui prodotti conservati nell’ambito della gestione famigliare. Prodotti alla cui preparazione era riservata un’attenzione maniacale ed una cura assoluta. LA MOSTARDA Uno degli elementi unificanti nella cultura alimentare del mondo contadino nella “cittadella collinare” sud-piemontese è certamente rappresentato dalla “Mostarda”. Con questo nome si indica una sorta di composta di mosto cotto addizionato di frutti più o meno assortito, dalla consistenza piuttosto fluida ma polposa, di colore scuro, sapore ricco, appena dolce con note acri e decise conferite dalla lunghissima cottura. La sua laboriosa preparazione costituiva in passato un vero rituale di tecnica alimentare, che nella scansione dell’alternarsi delle stagioni annunciava l’Autunno imminente. Il suo impiego, per contro, disteso in tutto l’arco dell’anno, rientrava piuttosto nella celebrazione della quotidianità, in quanto consumata abitualmente come complemento-condimento della polenta. Risorsa economica, disponibile in quantità potenzialmente illimitata data la facilità di reperimento e produzione delle materie prime necessarie alla sua fabbricazione, la “Mostarda” ha anche rappresentato per secoli un piacevole arricchimento della dieta giornaliera, trasformandola spesso da semplice e brutale “alimentazione” in un momento di soddisfazione e piacere sensoriale che in qualche modo si potrebbe definire “gastronomico”. Dimostrando un’imprevista vitalità, è riuscita a sopravvivere al crollo della civiltà rurale, trovando nuova ragion d’essere nel ruolo di “prodotto tipico territoriale” che di recente ha saputo ritagliarsi. Profilo storico e tipologico. L’uso di cuocere il mosto d’uva al fuoco diretto, ricavandone un alimento denso, zuccherino e inalterabile è antichissimo. Fu praticato su larga scala dai Romani, che chiamarono Sapa il prodotto ottenuto, e ne diffusero l’impiego in tutto il territorio dell’impero. La Sapa continuò ad essere praticata con immutato entusiasmo in epoca medievale; nell’Italia settentrionale , dove pure l’antica ricetta classica non fu mai abbandonata neanche lessicalmente, fu ideata una variante destinata ad avere duratura fortuna. Al mosto in cottura furono aggiunti frutti autunnali ricchi di sostanze pectiche, con lo scopo di addensarne la consistenza, e la composta ottenuta fu aromatizzata con spezie e resa piccante con semi di senape. Questo prodotto fu denominato “mostarda”, nome che secondo i glottologi dell’epoca derivava da “mustum” e da “ardeo”, cioè “brucio”. Quella Mostarda ricca, profumata e piccante riscosse subito un enorme successo, al punto che con il suo nome i francesi e gli inglesi definirono l’ingrediente che contribuiva più di ogni altro al suo sapore bruciante. Non sappiamo quando essa fu adottata e imitata dal mondo contadino, ma possiamo immaginare che la cosa avvenne in tempi molto lontani, visto che la si trova stanziata senza particolari varianti lungo tutta la dorsale appenninica dal Col di Tenda alla Romagna, nonché lungo il corso del Po . Introdotta nella cucina rurale, essa subì inevitabili adattamenti, in particolare con la rimozione della componente speziata, economicamente insostenibile, e di quella piccante, che ne limitava potenzialmente l’uso ed il consumo. E’ probabilmente nel corso del XVI-XVII secolo che la Mostarda subisce una profonda scissione: quella dei nobili tende a rafforzare i suoi connotati di “salsa” d’accompagnamento, rafforzando l’intensità del sapore e sostituendo l’originario mosto cotto di base con miele o sciroppi di zucchero; quella dei poveri, diventata a tutti gli effetti un alimento, accentua la rotondità del sapore e la consistenza semi-fluida, meglio adatta al dosaggio e alla somministrazione. Interessante notare che in epoca post-rinascimentale la Mostarda contadina , quasi per distinguersi anche lessicalmente da quella nobile, assume in tutto il nord Italia il nome di “Sapore”, o “Savor” o “Savoret”. Solo il Sud Piemonte rimane fedele ad oltranza alla dizione antica, fatta eccezione per la Bassa Langa albese, dove a causa di un altro fenomeno di sovrapposizione assumerà il termine di Cognà, mutuandolo da uno degli ingredienti principali ( il melo cotogno, appunto) e più ancora dalla “cotognata” che da esso si può ricavare. Per quanto riguarda il nostro Territorio, è interessante notare che la parola Mostarda, universalmente usata, riunisce sotto un’unica denominazione alcune tipologie di prodotto sostanzialmente divergenti. In tutto il settore monferrino (anzi, in tutto l’antico ducato gonzaghesco) la Mostarda è la classica composta di mosto cotto addizionata di mele, mele cotogne, pere, polpa di zucca, e facoltativamente di noci e nocciole spezzettate, ben densa e consistente. Lungo la val Rilate e nella contea di Cocconato la Mostarda perde densità, diventa più fluida, scorrevole e quintessenziata. La frutta usata si riduce in varietà, limitandosi alle mele cotogne in parte prevalente, poi alle mele “dolci” e infine ai pruss Martin, le piccole pere autunnali da cuocere. Un uso reperito a Cocconato, addirittura, prevede la torchiatura delle mele e l’aggiunta del solo sciroppo da esse ricavato. E’ lungo la direttrice Asti-Torino, lungo l’antica strata Francigena che la Mostarda , pur non cambiando nome, torna ad essere l’antica Sapa romana, prodotta con il solo mosto dell’uva nera, densamente sciropposa ma mai consistente come in Monferrato. Se a Villanova e in tutta la Piana le due tipologie sembrano convivere, a Villafranca e nei paesi limitrofi la Mostarda tradizionale è quella di pura uva, senza l’aggiunta di frutta di nessun tipo. Avvicinandosi alle valli del Borbore e del Tanaro, e proseguendo verso sud la Mostarda torna ad arricchirsi di frutta come e più che nel Monferrato, annoverando tra le varie specie anche i fichi settembrini ( magari appositamente seccati) e le scorze dei meloni religiosamente fatte seccare nell’ Estate. Leggendo il Confetturiere Piemontese del 1790 (pag. 297) si trova la ricetta della “Mostarda alla borghese”: è la ricetta di una Mostarda di pura uva ! Si potrebbe pensare che la zona astigiana tra Villanova e Villafranca abbia costituito in tempi remoti la risacca su cui andò a spegnersi l’onda delle Mostarde di frutta rinascimentali padane, onda che nel Monferrato gonzaghesco legato a Mantova non solo per motivi politici doveva ancora essere piuttosto energica. In tal caso le mostarde di solo mosto dell’Astigiano occidentale costituirebbero veri “fossili viventi” dell’antichissima Sapa latina, che in queste zone si sarebbe limitata ad assumere il nome “moderno” senza cambiar di sostanza. Questa suggestiva teoria purtroppo non è confermata dalla ricetta fornita dal Vialardi nel 1854. Il cuoco dei Savoia insegna a fare una mostarda utilizzando un mosto parzialmente fermentato, addizionato di zucchero, in cui si pongono a cuocere “ o pere, o mele, o cotogne pelate…” e preventivamente intenerite in acqua bollente, finchè “…ridotte a siroppo in modo che versandone un poco sopra un piatto si attacchi e non si allarghi…”. Questa composta viene chiamata dal Vialardi “confetture all’uso di campagna” e ha tutta l’aria di essere una versione ingentilita della Mostarda contadina. Non sapendo se la ricetta descritta era in uso nelle campagne torinesi o fu raccolta dal Vialardi in giro per il Piemonte, è impossibile chiarire se le mostarde della via Francigena astigiana sono il retaggio dell’epoca romana o più semplicemente un adeguamento alle finezze borghesi spiranti da Torino alla fine del Settecento. Spetterà a future indagini in territorio torinese verificare l’esatta portata e le connotazioni territoriali di un interessante fenomeno alimentare di portata sovra-regionale. Per il momento non resta che prendere atto di questa ennesima, piccola “diversità”. L’uso tradizionale In tutto il territorio sud-piemontese, caratterizzato da millenni dalla coltura intensiva della vite, la Mostarda è prodotta ovunque in abbondanza, come si è detto in precedenza. Se la metodologia di produzione conosce numerose varianti, il suo uso nell’alimentazione contadina tradizionale è assolutamente uniforme e costante. La Mostarda viene sempre consumata con la polenta, oppure semplicemente spalmata sul pane. Impieghi meno ortodossi ma poetici sono quelli diffusi tra i bambini d’un tempo: come dolcificante per ottenere una bibita dissetante con l’acqua del pozzo, o come ingrediente per rustiche “granite” da farsi con le nevi di un tempo, che com’è noto da secoli, erano più belle, più alte e soprattutto più pulite. Oggi la gastronomia tradizionale ha ampliato le occasioni di consumo, abbinando la mostarda ai Bolliti misti, ai formaggio freschi a latte crudo, o utilizzandola per preparare rustici ma saporiti dolci “tipici”. Un aspetto allarmante, a fianco dell’ incoraggiante ripresa di produzioni artigianali sempre più significative, è la diffusione del termine “cognà” che comincia a scalzare e a sostituire quello locale e antico di Mostarda. Si ritiene che la parola, importata a seguito dei successi del settore agroalimentare albese, rappresenti una garanzia di maggior visibilità, e comunque lo sfruttamento di realtà commerciali già consolidate. E’ invece un ennesimo affronto alla vera cultura del territorio, e tutto sommato una evitabile manifestazione di imbecillità. TESTIMONIANZE Maria Vergnano ( Villanova) “ Si faceva tanta Mostarda, allora. Noi usavamo l’uva nera, si schiacciava bene, poi si metteva il mosto a bollire nel pareu, piano piano, e si schiumava; dopo qualche ora si aggiungevano i pomm podògn ( mele cotogne) e i pruss martìn ( pere “martin sec”) a fette, e si faceva bollire ancora per sei, sette ore, fino a quando la frutta era ben disfatta. Allora si metteva nelle topin-e di terra, e così si conservava per tanto tempo, anche un anno, senza problemi. Facevamo anche una Mostarda solo con l’uva fragola e nient’altro, stava come una gelatina, era anche buona. La Mostarda si mangiava d’Inverno con la polenta, oppure si mangiava spalmata sul pane. Non c’era un altro modo di mangiarla.” Costanza Sardo ( Villafranca) “ Qui da noi si faceva solo con il mosto cotto, non si metteva né frutta né altro; so che in altre zone ci mettono le pere, le mele cotogne o altra roba, ma noi la facevamo di puro mosto d’uva nera, veniva lucida e densa come il miele; quella con la frutta è un po’ più spessa, ma è meno bella. La Mostarda si mangiava con la polenta o sul pane. D’inverno noi bambini la mangiavamo con la neve, sì che era una buona granita! D’estate invece si allungava con l’acqua e si faceva una bibita, aveva il gusto del tamarindo. Quand’ero piccola c’era un’altra bambina mia amica, a casa sua c’era una sorgente d’acqua freschissima anche d’estate; avevamo fatto società: io portavo un po’ di Mostarda e lei metteva l’acqua fresca”. Bruna Perotto, Giuseppina Parena ( Cocconato) “ Qui da noi la Mostarda si faceva con la Barbera o con la Freisa, ben mature. Prima si prendevano tante mele e si torchiavano con un torchietto apposta, poi quello che usciva dal torchio si metteva nel mosto d’uva e si faceva cuocere sul fuoco; dopo qualche ora si mettevano anche i pomm podògn ( mele cotogne) a fette e poi si faceva ancora bollire adagio adagio per un bel po’ di tempo, eh, anche dieci, dodici ore, fino a quando era spessa. Si metteva nelle bornije e poi si mangiava con la polenta”. Angela Romagnolo ( Montiglio) “ A casa mia la mostarda si faceva con le pere, i pomm podogn e con il mosto d’uva nera; non si metteva niente d’altro, tolto che un po’ di cannella per dare profumo.” Rina Bossone, Ferrero Maria, Costantina Scuvero ( Montechiaro) “ Oh, quanta Mostarda che facevamo, e quanta se ne mangiava. La facevamo perlopiù con l’uva fragola, oppure con la Barbera, comunque sempre con l’uva nera. Dentro ci mettevamo i pruss martìn e i pomm podògn , tutti a casa avevano almeno una pianta di pomm podògn per fare la mostarda. In giro c’erano anche tante piante di meline selvatiche che stavano piccole, ma erano dolci e asciutte, andavano benissimo per fare la Mostarda, tutti andavano a raccoglierle.” Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa ( Montemagno) “ La Mostarda si faceva alla fine delle vendemmie. Si lasciava qualche mezzo filare da vendemmiare perché l’uva fosse più dolce e più matura possibile, poi si raccoglieva per fare la Mostarda. Era Barbera, soprattutto, qui era l’uva che c’era di più. Noi ci mettevamo dentro la zucca, a bei pezzi, e anche le pere, anche mele dolci e mele cotogne, e poi un po’ di noci spezzettate. Si faceva bollire anche per dodici ore sul fuoco, bisognava mescolare sempre, perché guai se attaccava, prendeva l’amaro, sapeva di bruciato; guai a rovinare tutto, bisognava stare attenti perché si lavorava tanto…La Mostarda si metteva via nelle topin-e e si mangiava poi con la polenta o sul pane. D’estate si usava anche per preparare una buona bibita, si allungava con l’acqua fresca e si beveva, era un buon dissetante…” Vincenzo Testa ( Moncalvo) “A mè papà a j piasiva tant, la Mostarda, tutti la facevano perché l’uva ce l’avevano tutti, non costava quasi niente se non il tempo e la pazienza che ci voleva. Si faceva con la Barbera, e si mettevano anche le mele cotogne , le pere, la zucca per farla stare più densa, poi tanti ci mettevano anche delle nocciole spezzate o delle noci. D’Inverno polenta e mostarda era la roba che si mangiava più sovente.” LA “CONSERVA” La letteratura gastronomica del nostro Yerritorio è abituata ad affrontare la storia della cucina locale in modo piuttosto schematico e superficiale, appoggiandosi più facilmente ai luoghi comuni che ai supporti documentari o alle ricerche “sul campo”. Un luogo comune piuttosto diffuso è quello che considera molto recente l’uso dei derivati di pomodoro, che si pensa introdotto negli anni Sessanta del Novecento a seguito delle grandi ondate migratorie provenienti dal sud Italia. La convinzione che tutto quanto abbia gastronomicamente a che fare con simili prodotti debba essere obbligatoriamente “recente” e “importato”, ha condotto ad una visione rinunciataria del problema, e alla rimozione di intere pagine di autentica civiltà culinaria territoriale. In realtà i derivati di pomodoro si affermano nel Piemonte centromeridionale già nel corso dell’Ottocento, in modo autonomo, sebbene parallelo rispetto al Meridione Italiano, e si legano indissolubilmente all’alimentazione contadina entro la fine del XIX secolo, caratterizzandola in modo più deciso di quanto comunemente si pensi. Profilo storico Il pomodoro fu importato in Europa, come pianta esotica e curiosa, poco dopo la scoperta delle Americhe, ma dopo una breve fiammata d’interesse fu circondato dall’indifferenza per diversi secoli. Nel 1572 il naturalista marchigiano Costanzo Felici compose una “lettera a Ulisse Aldovrandi dell’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo dell’homo”, nella quale, fra le diverse essenze trattate, si parlava anche del “Pomo d’oro o vero Pomo del Perù”, asserendo che “…ancora lui da ghiotti et avidi di cose nove è desiderato nel medemo modo, et ancora fritto nella padella, accompagnato con succo d’agresto, ma al mio gusto è più presto bello che buono.”. Rapidamente consegnato ad un lungo oblio, il pomodoro viene “rispolverato” nella seconda metà del Settecento, quando torna ad essere utilizzato nel modo a lui più congeniale, cioè nella preparazione di salse e sughi. Il “Cuoco Piemontese perfezionato a Parigi” del 1776 ne fornisce già alcune ricette, cronologicamente parallele (e non dissimili) da quelle fornite nel 1773 dal salentinonapoletano Vincenzo Corrado autore de “Il cuoco galante”. Agli inizi dell’ottocento le salse o “creme” di pomodoro risultano già stabilmente adottate dalla cucina borghese del sud Piemonte. il ricettario “Polizia e Cucina” del 1822 enuncia i “pomodori ripieni”, quelli “con uova”, con funghi e prezzemolo, “in cremma” (quella che Corrado definì “culì di pomi d’oro”), e addirittura con il pollastrello nella ricetta che sarà poi definita “alla cacciatora”. Nel 1836 a Nizza Monferrato nasceva Francesco Cirio. all’età di vent’anni iniziò un piccolo commercio ambulante di ortaggi e verdure nella città di Torino, approvvigionandosi nelle vaste e ricche zone orticole astigiane. Consolidata l’attività, nel 1866 pensò di applicare su scala industriale il metodo Appert alla conservazione dei prodotti ortofrutticoli. Tale metodo prevedeva la sterilizzazione a caldo degli alimenti entro contenitori di metallo stagnato. L’iniziativa ebbe esito fortunato, e i prodotti dello stabilimento Cirio di Yorino ottennero immediato successo e grande diffusione. Cirio continuò ad alimentare la sua industria conserviera per lungo tempo con i prodotti ortofrutticoli piemontesi, stabilendo contatti diretti e molto stretti con le aziende agricole fornitrici. La vicinanza con il principale centro di trasformazione, ed il rapido apprendimento del metodo, permisero la produzione casalinga della “conserva” e dei derivati di pomodoro già alla fine dell’Ottocento. Nel 1906 è già documentata in Asti la ancor più raffinata produzione domestica dei pomodori pelati in scatola, che alimentava piccole attività artigianali e commerciali per il reperimento delle materie prime e dell’attrezzatura (Ugo Debenedetti, Memorie di un vecchio astigiano in “Il Platano 1982, p. 165-170). Diffusione. Tutte le testimonianze raccolte sono state concordi nel far risalire l’introduzione della “conserva” ad un periodo anteriore alla memoria generazionale, attestabile agli ultimi decenni dell’Ottocento e ai primissimi anni del secolo seguente. Nel 1906 la produzione della “conserva “ casalinga era ormai così diffusa ad Asti e nel suo circondario che per farvi fronte, essendo oramai insufficienti i pomodori raccolti negli orti locali, si ricorreva già a massicce importazioni dal Napoletano. Mutuata per emulazione ed imitazione dall’industria conserviera torinese, la lavorazione domestica del pomodoro sembra essersi incuneata nel nostro Territorio a partire dal suo settore centro-occidentale, il più vicino, anche materialmente, alle iniziative commerciali di Francesco Cirio, per poi diffondersi a ragnatela rispettivamente verso sud e verso nord , lungo le maggiori direttrici stradali e ferroviarie. La precoce presenza della “conserva” nell’Astigiano occidentale può essere dimostrata dal suo utilizzo nella ricetta locale della Bagna Cauda , caso, a quanto si sa, unico in Piemonte. Per contro, non mancano aree meno condizionate, come il Monferrato di Montemagno, Grana e Calliano, o come la contea di Cocconato, dove si sono mantenuti significativi relitti della cucina “in bianco”, che non solo evita l’uso del pomodoro, ma addirittura lo rifugge. Caratteristiche e impieghi. Nel mondo rurale astigiano e monferrino il termine “conserva” indica una preparazione a base di pomodoro ed ortaggi la cui ricetta è uniforme e costantemente utilizzata. il pomodoro, proveniente da coltivazioni domestiche, veniva fatto cuocere spaccato in caldaie o paioli di rame stagnato, su fuoco diretto di legna, con aggiunte generose di cipolle, carote, gambe e foglie di sedano, aglio, prezzemolo e basilico. La massa, giunta a cottura, veniva passata al setaccio e rimessa a cuocere per un’ulteriore omogeneizzazione e concentrazione. Raggiunta la densità desiderata (che doveva essere comunque molto consistente), era imbottigliata bollente in bottiglie da vino e tappata con turaccioli in sughero o, nei periodi più antichi, con tutoli di granoturco. Le bottiglie tappate erano avvolte in coperte di lana e mantenute il più possibile a temperatura elevata. Il prodotto imitava nel risultato il “concentrato di pomodoro” industriale, ma certamente non le tecniche di sterilizzazione; molto frequenti erano i casi di rifermentazione, con conseguente spaccatura della bottiglia o espulsione del turacciolo (si diceva allora che la conserva “scappava”, e si dava colpa al mancato rispetto delle fasi lunari). Tra le due guerre, per ovviare a simili problemi, in ambito domestico iniziò l’uso sistematico del salicilato (chiamato “poer d’tomatica” o “poer da tomatica” in funzione antifermentativa, ignorando le possibili conseguenze negative nei confronti della salute dei consumatori. Solo negli ultimi decenni anche a livello famigliare si praticano corrette pastorizzazioni a caldo. Dal punto di vista gastronomico la conserva, grazie alla sua economicità, alla versatilità, alla praticità d’impiego, alla ricchezza dei profumi e della consistenza, ha rappresentato fin da subito un caposaldo importante nella cucina contadina degli ultimi cento anni, a volte addirittura piuttosto ingombrante. Abbinata alla cipolla rosolata e all’alloro rappresentava il condimento abituale delle paste asciutte; saggiamente dosata a cucchiai conferiva intensità cromatica e freschezza gustativa ai condimenti di carne per agnolotti , gnocchi, tajarin; a minestre in brodo “rinforzate” di regaglie, alla Finanziera rustica, al Nerluzzo al verde etc. In quantità abbondanti, previa parziale diluizione con brodo o acqua, costituiva il liquido di cottura per le diverse “Camodaje” di carne, pollame, coniglio, trippa, verdura, o uova, conferiva carattere alle peperonate e “ratatuie” estive ed autunnali, abbinata al cotechino slegato componeva un popolare intingolo per la polenta. A crudo si versava sull’insalata di cavolo fresco condita all’acciuga, o appena elaborata con aceto, olio, aglio, zucchero costituiva il bagnet ross da abbinare al bollito. Bisogna chiarire che la “conserva” contadina non aveva ( e non ha, visto che il suo uso è ancora praticato) nessuna somiglianza con le “passate di pomodoro” più o meno aromatizzate oggi reperibili in commercio. La “Conserva” molto concentrata, sapida, intensa per tutti i profumi dell’orto che si portava dentro, era uno dei tanti “accenti” che conferivano tipicità e identità all’idioma gastronomico locale. il suo uso è da ritenersi indispensabile nella proposta di un’autentica “cucina di territorio”. TESTIMONIANZE Maria Vergnano (Villanova) “ Io da quando mi ricordo l’ho sempre vista fare, e i miei anni li ho, eccome! E’ che di conserva ce ne andava tanta, in cucina si aveva sempre la bottiglia a portata di mano, anche perché era il condimento che costava meno, si faceva in casa. Avevamo tante tomatiche nell’orto, e se non bastavano se ne compravano altre, ma di conserva bisognava farne tanta. Oltre alla tomatica si mettevano tutti i gusti, in abbondanza: cipolle, carote, sedano, prezzemolo, aglio, basilico. Si faceva cuocere tanto tempo e poi si passava: doveva stare bella dura, altro che quelle di fabbrica che ci sono adesso, e in più aveva il gusto buono delle verdure e dei gusti che si mettevano. Si metteva anche la poer da tomatica ( Salicilato , n.d.r.) e si imbottigliava nelle bottiglie scure…” Costantina Scuvero ( Montechiaro) “ Alla fine di Agosto cominciava la “luna da conserva”, e c’era un gran da fare per farne tanta, doveva fare scorta per tutto l’anno. Le tomatiche le avevamo noi nell’orto, ne tenevamo sempre tante per fare la conserva. In più ci mettevamo anche tante cipolle, aglio, sedano, e tanto basilico, delle fascine di basilico ci mettevamo…. Quand’era ben cotta la passavamo e poi si faceva bollire un’altra volta, che fosse bella dura, allora si imbottigliava bollente nelle bottiglie scure, poi le bottiglie si avvolgevano bene nelle coperte, si lasciavano nelle coperte in modo che stessero calde un bel po’, così la conserva non andava a male…” Costanza Sardo ( Villafranca) “ La conserva si faceva con tutti i gusti dell’orto, e si faceva molto spessa, tanto che poi c’era da tribolare a farla uscire dalla bottiglia; eh, c’era da scrollare bene per farla uscire ! POM SMOJA’ Le riserve alimentari della famiglia contadina comprendevano anche le mele conservate in acqua e aceto, praticate soprattutto nel settore centro-occidentale della Provincia. Oltre che per il consumo diretto, molto spesso rappresentavano una piccola risorsa commerciale, perché vendute come ghiottoneria da poco prezzo durante le fiere di paese. TESTIMONIANZA Costanza Sardo (Villafranca) “ Una cosa buona che adesso non si fa più sono i pom smojà. Si prendevano le mele in Autunno, che potevano essere quelle dolci o i pom renèt ( mele renette, n.d.r.) e si mettevano in un botàl coprendole poi con acqua e aceto. Dopo un po’ diventavano rugose, la polpa più morbida, piacevolmente bruschette ma sempre dolci e profumate. Si conservavano per tanto tempo, in csa mia ne facevano tante, poi ne portavano a vendere ancora alla fiera di San Giuseppe che si fa a San Damiano. Si mangiavano per colazione o per merenda, e d’Inverno tante volte si portavano dietro per lavorare nella vigna, quando si pota o si legano le viti. Erano fresche, toglievano la sete e calmavano la fame! CIAP, CIAPETTI, CIAPOLE, CIAPOLIN La “cascina”, cioè l’unità produttiva della famiglia contadina, doveva svolgere il doppio compito di fornire il reddito e la maggior parte dei prodotti alimentari destinati al consumo diretto. Dal punto di vista agronomico la “cascina” era strutturata su tre livelli verticali, quasi sempre complementari ed interagenti: quello dei seminativi e delle colture orticole; quello della vigna e quello degli alberi da frutto o da reddito (es. salici da vimini o gelsi da bachi). Le essenze fruttifere, pur coltivate in modo generalmente promiscuo nella vigna, ai bordi dei campi o negli areali di casa, sono sempre abbondanti. “Gli alberi fruttiferi cioè pomi, peri, fichi, prugne, persiche, ciriegie etc. sono per ogni dove frequentissimi e copiosissimi di prodotti molto gustosi, di cui su tutti i mercati si fa grande commercio: ogni suolo egli è adattissimo, nelle valli, sui colli, a vento, a spalliere, nei giardini prosperano vantaggiosamente. l’Astigiana meridionale più ne abbonda che nelle regioni a Levante e all’Ovest, dove sono eglino più rari assai.” (G.S. DeCanis, “Corografia Astigiana”, 1816). il raccolto degli alberi da frutta è spesso commercializzato, ma altrettanto frequentemente una buona parte è impiegata nella costituzione delle scorte alimentari famigliari. alcune essenze vengono conservate come tali in stanzoni appositi mele, pere autunnali, nespole e sorbe) altre manipolate in rustiche confetture (pesche, albicocche, susine etc.). Molto frequentemente, secondo procedure antichissime, la frutta estiva la si conserva previo disseccamento. Tagliata a rondelle sottili viene esposta al sole fino alla disidratazione voluta. I dischi di frutta secca sono chiamati a seconda dei luoghi “ciap” “ciapetti” “ciapole” o “ciapolin”: tutti nomi derivati dal termine piemontese medievale “clapa”, che significa “pezza” o anche “porzione di un tutto”. le rondelle seccate sono poi infilate su uno spago in forma di lunghe collane, riposte per il consumo invernale. l’uso alimentare è poi praticato previa reidratazione e cottura. a partire dal novecento questo arcaico sistema viene in parte soppiantato da nuove e più razionali modalità di conservazione, ma la produzione dei ciapolin non cessa fino a tempi molto recenti, anche se sempre meno rivolta all’alimentazione umana. TESTIMONIANZE Costanza Sardo (Villafranca): “I ciapolin li facevamo sempre, perché c’era tanta frutta che a volte non si sapeva cosa farne. Per farli si usavano le cose che non andavano bene per essere conservate: le mele con il tac , oppure le albicocche o le pesche che cadevano dalla pianta, cose così. Tagliavamo la frutta a dischi e la mettevamo al sole per qualche giorno, sopra delle tavole. Le mele si tagliavano così; albicocche e pesche si spaccavano in metà; le prugne si seccavano intere con il nocciolo, oppure si spaccavano anche loro. Poi quando erano ben secche si facevano delle collane e si mettevano via. Noi facevamo seccare anche i fichi bianchi, interi, erano buonissimi. I ciapolin si facevano sempre, sembrava un delitto non farli, anche se poi tante volte si usavano poco, e per non sprecarli finiva che se li mangiavano i conigli. Però qualcuno li usava per fare la Mostarda.” PESCHE IN BOTTIGLIA Gli arcaici metodi di conservazione mediante disseccamento, nel corso dell’Ottocento furono in gran parte sostituiti dalla sterilizzazione a caldo in recipienti ermetici, messa a punto dal medico francese Appert già agli inizi del secolo. Nell’economia della famiglia contadina una particolare importanza era riservata alla produzione delle “pesche in bottiglia”, già testimoniata alla fine del XIX secolo. Si impiegavano le tipiche pesche “di vigna”, ormai quasi scomparse, dette anche “dal vin bon” perché caratterizzate dalla polpa riccamente screziata di rosso. I frutti erano pelati e tagliati a fettine, introdotte una ad una, con grande pazienza, in bottiglie da vino dal vetro pesante e scuro che, una volta riempite fino al giusto livello, erano tappate con un turacciolo di sughero, ulteriormente ancorato con una legatura di spago. Le bottiglie si facevano bollire in una grande caldaia per una rudimentale ma efficace pastorizzazione. Il prodotto si conservava così senza problemi per periodi anche molto lunghi. Il tipo di contenitore e il metodo di sterilizzazione portavano ad avere un ambiente anaerobico, che modificava leggermente il sapore della frutta, caratterizzato da un piacevole sentore di “ridotto” caratteristico dei vini bianchi fruttati e freschi delle zone settentrionali. un carattere gastronomico ormai definitivamente perduto. Negli ultimi cinquant’anni la conservazione delle pesche in vetro, ancora largamente praticata in ambito domestico, ha definitivamente adottato le arbanelle con imboccatura larga e guarnizione in gomma, infinitamente più comode ai fini della manipolazione, ma anche inefficaci nel riprodurre i processi chimico-fisici indotti dalle bottiglie da vino. TESTIMONIANZA Carla Quirino (Montemagno) : “ Ah, quando ero ragazza avrei dato chissà cosa per non fare le pesche in bottiglia! Era un lavoro noioso che non finiva mai, ci voleva tanta pazienza, e io avevo altro per la testa che stare lì delle giornate intiere a infilare quei pezzettini nelle bottiglie! Però erano buone, e come mi piacevano! C’era da diventare matti, quando si mangiavano, a farle uscire dalla bottiglia. Si scrollava la bottiglia sopra il grilet, con le due mani, scrolla scrolla ne usciva un po’ e poi più niente. Allora si cioncionava con un coltello, e di nuovo scrolla scrolla, ma ce n’era sempre una che si metteva di traverso. Però quel profumo che riempiva tutta la cucina! Con le àmole di vetro che si usano adesso non è più la stessa cosa! E non ci sono più quelle pesche là; adesso tutti hanno solo più quelle gialle, grandi: sono dolci e belle ma quando si mettono via diventano molli e hanno poco profumo. Una volta avevamo mille varietà, si tenevano nella vigna. Le migliori da mettere via in bottiglia erano quelle bianche macchiate di rosso intorno all’osso, con la pelle color del vino buono. Erano piccole ma non ce n’erano di migliori da mettere via.” I SALUMI Il valore culturale, storico e folklorico dell’allevamento suino famigliare e dell’utilizzo dei prodotti da esso derivati, da solo, richiederebbe un esteso trattato. Sull’argomento in generale, del resto, la pubblicistica disponibile è abbondante, antica e diversificata. Molto meno ricco l’orizzonte degli studi relativi al nostro territorio, che hanno un parziale ma importante punto di riferimento in “Il Cibo del ricco, il cibo del povero- Contributo alla storia qualitativa dell’alimentazione. L’area pedemontana negli ultimi secoli del Medio Evo” di Anna Maria Nada Patrone, Torino 1989. Ciò non sminuisce l’importanza della suinicoltura domestica nel nostro mondo rurale. Dal punto di vista storico essa costituisce senza dubbio la principale fonte di approvvigionamento delle proteine animali per tutta la durata del medioevo e per buona parte dell’età moderna, prima di essere soppiantata o almeno ridimensionata dall’avicoltura famigliare. Fino agli inizi del XVIII secolo l’allevamento suino nelle campagne è largamente condotto allo stato semibrado; non poche comunità possiedono e stipendiano un “custode delle bestie porchine”, cioè un porcaio pubblico che prende in consegna gli animali dei privati al mattino, li guida al pascolo in terreni demaniali o comunali, e li riconduce la sera ai proprietari. In epoca medievale il nostro mondo contadino utilizza il maiale in modo quantitativamente molto rilevante, qualitativamente assai modesto e semplicistico. Il suino macellato viene semplicemente smembrato e diviso in parti destinate alla salatura sotto salamoia o sotto sale asciutto; il grasso sottocutaneo dorsale fornisce il lardo; le mezzene sono salate come tali ( e acquisiscono il nome di perna) o suddivise in quarti: il quarto posteriore chiamato petasum o petasone, quello anteriore spatula; le interiora in parte consumate fresche, in parte salate in contenitori appositi. Le salagioni vengono a costituire una provvista incorruttibile, utilizzata giornalmente : si preleva una porzione di carne e la si fa bollire, intera o a pezzi, nella zuppa , nella minestra o nella farinata quotidiana, alla quale conferisce sapidità e sostanza. Il mondo cittadino dell’epoca, per contro, per far fronte ad esigenze di consumo e di cucina del tutto diverse, usa e pratica largamente gli insaccati. Nel XV secolo, ad Asti, essi appaiono già molto differenziati, e oggetto di minuziose normative igienico-sanitarie. Le loro tipologie prevedono “cervellati”, cioè salsicce freschissime a pasta macinata fine e speziata, “salsicce” con almeno tre giorni di stagionatura, salcizons, cioè salami crudi di grande formato, sopersatti cioè salami da cuocere, persuti cioè prosciutti crudi o cotti. La corporazione dei salcizari è una delle più potenti e numerose della città. Nel 1558 un piccolo salumiere come Antonino Scortiatore insacca e smercia nella sua bottega 8 maiali grandi al mese, cioè due alla settimana. (Estratto dal libro del Dacito del Grasso, anni 1558-1559, collezione privata) . E’ solo dalla fine del Cinquecento che l’uso degli insaccati si diffonde anche nelle nostre campagne, e diventa generalizzato nel corso dei primi decenni del Seicento. L’incentivo alla sua adozione può essere stato dato dalla cronica situazione di guerra verificatasi all’epoca, accompagnata da costanti saccheggi, ruberie, spogliazioni. Gli insaccati, assai più maneggevoli delle mezzene intere in salamoia, potevano essere occultati con maggior facilità nel tentativo di sottrarli alle incessanti razzie e requisizioni. Sta di fatto che anche gli inventari notarili del mondo contadino del Seicento cominciano a riportare elenchi di sopersatti o salcizoni. La produzione casalinga dei salumi, salvo pochi e sporadici casi, rimase costantemente affidata e riservata a personale specializzato che nella zona conserva ancora il nome antico di “Massacrin”. Si tratta spesso di un salumiere del paese più vicino, o di un artigiano senza bottega specializzatosi in questo mestiere; il suo è un compito delicatissimo perché deve garantire la perfetta conservazione, sia dal punto di vista igienico-sanitario, che da quello organolettico, di una materia altamente deperibile sulla quale peraltro fanno affidemento per molti mesi le aspettative alimentari della famiglia committente. Il massacrin diventa l’officiante di un rito gastronomico fondamentale nella vita del mondo contadino. Niente di meglio, di più eloquente, delle loro dirette testimonianze. L’ARTE DEL MASSACRIN Bruno Vergnano (Villanova): “ Ho cominciato a fare il massacrin che ero un ragazzino, andavo dietro a mio padre. Da Novembre a Carnevale non si faceva altro; ho girato tutte le cascine e i paesi qui intorno, fino a Riva, fino a Poirino. I massacrin facevano tutti le stesse cose, ma ognuno aveva il suo stile, che si distingueva dagli altri, ognuno aveva i suoi piccoli segreti per distinguersi. Ognuno aveva le sue dosi per miscelare le droghe, poi magari c’era quello che in più ci metteva la “Saporita”; io per esempio in certe cose ci mettevo un pizzico di origano secco ben pestato; non si vedeva e non si capiva che fosse origano, però il risultato era diverso da tutti gli altri… Con il sangue si faceva la torta di sangue. Appena raccolto lo agitavo bene con la mano perché così non diventa duro; poi si metteva il latte, e un bel po’ di cipolle tagliate fini fini, rosolate nel grasso di maiale, e poi sale e droghe. Si metteva nell’assietta di terra e si cuoceva nel forno di casa, poi si mangiava a fette, anche fredda. Tante famiglie preferivano invece fare i sanguinass: si facevano allo stesso modo, ma si insaccava nel budello, poi si facevano diventare un po’ duri nell’acqua calda, così si conservavano bene, anche se poi erano i primi a mangiarsi, con il sancrau o la polenta, rosolati e ben caldi. Le grive. Con il fegato facevamo le grive, si capisce. Lo tagliavamo fine, a crudo, poi si metteva anche un po’ di buona polpa magra e meglio ancora pasta di salciccia, droghe, e si facevano queste palline nella retina del maiale, dentro mettevamo anche una foglia di lauro per dare profumo. Grandi così, come un uovo o poco meno. si facevano friggere e si mangiavano con la polenta o nel fritto misto. Le frattaglie. Le frattaglie spettavano al massacrin, a quelli che lavoravano per “mettere a posto “ il maiale e a tutti gli amici che il padrone di casa aveva voglia di invitare. Ma non che le portassimo via, no: si mangiavano tutti insieme, la padrona faceva una gran fricassà con il fegato, i polmoni, i reni, il cuore, anche la trippa di stomaco e di budello tenue. Poi qualche sanguinaccio, qualche griva, e salciccia, e si mangiava con la polenta, tutti insieme; si faceva festa. Sovente arrivava anche la musica, allora si spostava il tavolo da una parte e si ballava. Una volta il maiale si ammazzava sotto il portico e si lavorava in cucina, poi hanno cominciato a farlo nel garage quando le padrone non volevano più sporcare le cucine moderne. Io ho smesso di fare il massacrin quando la gente ha messo i termosifoni. Non si possono fare i salami con i termosifoni, troppo caldo e troppo secco, si spreca tutto, poi davano la colpa a me perché non si conservavano bene! No, no, allora ho smesso…. La galantina. La testa facevamo la galantina. Era roba fina, e nelle cascine la volevano tutti, guai a non farla. Bollivamo la testa con la lingua, e le orecchie, e le altre ossa già ben scarnate. Quando la testa era ben cotta la tagliavamo grande come noci, intanto le donne si mettevano lì e scarnavano quelle ossa che sembravano già pulite: non è neanche da credere quanta roba buona tiravano ancora via. Si mescolava alla testa e si condiva tutto con il sale, le droghe, anche Marsala, qualcun altro usava anche il Rum. Poi si chiudeva in un sacchetto di tela lungo e stretto e si legava come un salame, e si faceva venir dura al freddo, sotto un peso. Io mettevo anche dei pistacchi, non per il sapore ma per bellezza. Quelle galantine le usavano poi nei pranzi importanti nell’inverno. Le facevano anche i salumieri, si capisce, solo che usavano lo stampo, la testa in cassetta… Salame cotto. A farlo buono bisogna essere bravi, esperti. Perché il segreto è tutto nella scelta della carne e del grasso, devono andare bene per cuocere… La carne deve essere presa dalle parti più compatte e umide, il grasso non deve sciogliersi cuocendo, ci vuole quello del guanciale, tagliato a dadini e non tritato. Poi mettevamo l’aglio pestato in fusione nel vino, si colava dopo un po’ e si metteva il vino nell’impasto, con il sale e le droghe. Lardo e pancette. Il lardo si faceva solo con il sale, e stava più buono di adesso che ci mettono tanti pasticci. Ma…c’erano lardi alti così ( mostra il palmo aperto, n.d.r.) oggi usano quattro lardi sovrapposti per avere uno spessore che va bene. La pancetta si condiva, invece: noi usavamo lauro e rosmarino e aglio tritato, e pepe e poche droghe, poi si arrotolava. Saotissa a l’aj . Adesso non la fanno più ed è un peccato, perché forse era il salame più buono, quello che si mangiava più volentieri. Facevamo la pasta come quella della salciccia normale o dei cacciatori, solo con un po’ più di grasso buono, e sale e pepe, e le droghe, poi il vino profumato d’aglio e anche un po’ di aglio, non tanto, ben pestato. Si insacca nel “budello torto” da cacciatorini, e si facevano dei salamini lunghi così ( un palmo) da un etto, un etto e mezzo. Bisognava mangiarli freschi, dopo qualche giorno, era meglio se non seccavano; se si volevano tenere per più tempo allora si mettevano sotto strutto nelle bornije, perché il loro buono era che fossero sempre ben morbidi, come freschi. Erano proprio buone. Quando andavamo a mettere a posto i maiali nelle cascine ci alzavamo presto, alle cinque del mattino eravamo già sul posto. Appena arrivavamo mio papà prendeva due salcicce all’aglio, una per uno, le arrotolava nella carta da zucchero, poi bagnava bene il pacchetto e lo sotterrava nella ginis calda del camino o del potagè. A metà mattina facevamo colazione: erano belle calde ma non proprio cotte, ancora rosa nel mezzo, che profumo quando si tagliavano! Una volta la sautissa a l’aj si usava tanto, non solo cruda o sotto la cenere, si poteva far sbollentare e mangiarla calda, oppure disfare e usare per fare il sugo o per cucinare, o per fare la frittata rognosa. Però il modo più buono per mangiarla, per me, era a colazione: tagliavamo due fette di sautissa e le facevamo rosolare un po’ in un fojot, e quando cambiavano di colore ci rompevamo sopra due uova…era un mangè da puciu. Io non so perché non si fanno più, si vede che la gente oggi sono diventati tutti fini e hanno paura dell’odore dell’aglio…ma è un peccato. Cotechini. Si facevano tanti cotechini, per fare andare le cotenne. Mettevamo il 50% di cotenna, l’altro 50% di carne e grasso. Non c’era bisogno di mettere tanto grasso, anzi, ce ne andava poco, perché la cotenna li faceva stare comunque morbidi che sembravano burro. Oggi mettono tanto grasso, perché così si fanno più presto a fare e cuociono prima, ma poi il grasso si scioglie, va nell’acqua e non rimane più niente. Una volta invece i cotechini cuocendo “crescevano”, oggi diventano piccoli. I cotechini li facevamo belli grossi, nel budello “dritto”, e per mangiarli si tagliavano in tre, quattro pezzi. Salami crudi. Facevamo i “cacciatori” più freschi; poi i crudi, con le sue droghe e il vino all’aglio. Facevamo la reusa con il retto e il “salam d’la sposa” con il cieco. Erano i salami più pregiati che le famiglie usavano solo nelle grandi occasioni. Sembrava non volessero tagliarli mai, aspettavano sempre un’occasione più importante, per questo dovevano essere fatti per tenersi molto a lungo. Se passava molto tempo, allora li mettevano anche sotto grasso, ma se erano fatti bene non era necessario. Tante volte poi non li mangiavano nemmeno, andava a finire che li regalavano al parroco, o al medico o a chissà chi se avevano bisogno di qualche piacere. Anche gli altri salami crudi dovevano conservarsi bene per tanto tempo, perché si mangiavano solo nelle feste più importanti, mica era roba da tutti i giorni, e dovevano sempre fare bella figura. Per questo si mettevano sotto grasso, o anche sotto paraffina. Maturavano, e il sapore diventava ancora più buono, rimanendo sempre morbidi . A Sant’Isidoro, a Settembre, nelle cascine mangiavano i salami dell’inverno prima, e dovevano ancora essere perfetti. Noi quando si andava a massè el crin il padrone di casa tagliava sempre un salame di quelli che avevamo fatto l’anno prima; era la preuva , non c’era bisogno di parlare, noi capivamo se avevamo lavorato bene oppure no, e capivamo se il padrone era stato contento. In tanti anni posso dire che i salami erano sempre buoni. Remo Rebaudengo (Montechiaro) “Ho fatto il massacrin da giovane, anche se avevamo la salumeria del paese, ce l’aveva già mio nonno. Soprattutto in tempo di guerra e subito dopo, nessuno aveva soldi, in bottega si lavorava ben poco, allora giravo tutte le cascine per mettere a posto i maiali, così guadagnavo qualcosa. Poi ho smesso, perché la salumeria ormai mi chiedeva troppo tempo. Ma da giovane si può dire che tutti i maiali del paese li ho messi a posto io… Sanguinacci e torta di sangue. Appena ammazzato il maiale si tirava il sangue e si agitava bene con le mani per non farlo coagulare. Con quel sangue tanti facevano i sanguinacci. A parte si faceva appassire della cipolla tritata fine con un po’ di grasso buono; non doveva diventare scura, solo sciogliersi nel grasso; poi si univa al sangue, si aggiungeva del latte e le droghe e si insaccava nel budello torto , che qui da noi si chiama “bagette”, e si legavano grandi come cotechini. Poi si mettevano nell’acqua calda, si portava a bollore e si faceva raffreddare così stavano consistenti. Però per mangiarli bisognava cuocerli un’altra volta: si facevano friggere, oppure si rosolavano con le cipolle per mangiare con la polenta. C’erano però anche tante famiglie che invece di fare i sanguinacci preferivano fare la torta di sangue, che poi era fatta allo stesso modo, solo che il composto si metteva in una teglia e si faceva cuocere sulle braci, con le braci anche sul coperchio. Quella torta si mangiava subito, ma si poteva anche conservare al fresco per qualche tempo. Salciccia. La salciccia la volevano tutti e bisognava farne il più possibile, anche perché con i maiali che c’erano una volta, allevati in casa, si conservava benissimo per tanto tempo, non era un problema conservarla. Qui si faceva bella magra, profumata con poco aglio, vino bianco e ben drogata, era gustosa anche cruda, anzi mangiata cruda era più buona ancora che cotta. Grive. Ah, le grive erano una delle mie specialità, lo sono ancora adesso. Si trita il fegato, volendo anche il cuore, poi si mette una buona dose di pasta di salciccia, si condisce con le droghe e con le bacche di ginepro ben pestate , poi si avvolge dentro la retina di maiale, si fanno delle polpette grandi come un uovo, che poi si facevano friggere da mangiare con il fritto misto o con la polenta. Si chiamano grive non perché assomigliano ai tordi , che qui si chiamano grive, ma perché questi uccelli d’inverno mangiano le bacche di ginepro, e la loro carne è profumata di ginepro. Per questo bisogna mettere il ginepro, si deve sentire bene il profumo (…..) Però in campagna non erano tanti che le facevano fare, solo i benestanti, o quelli che ammazzavano più di un maiale. Tanti invece il fegato e le altre fritture lo usavano tutto per mangiare subito. Io però nella mia salumeria le ho sempre fatte, le grive, perché sono indispensabili se si vuole fare un vero fritto misto. Lardo e pancette. Il grasso era prezioso per il paisan, cercavano di avere dei maiali più grassi possibile per avere tanto lardo, strutto, belle pancette grosse. Quando i maiali erano grossi così non era necessario condire il lardo o le pancette, qui si facevano solo con il sale, venivano squisiti, si conservano tanto tempo e maturavano, diventavano morbidi come il burro, pastosi…erano buoni da mangiare da soli o da condimento, per cucinare. Cotechini. Si fanno con un terzo di cotica, un terzo di polpa magra, un terzo di grasso da cuocere, il pepe e le droghe. Una volta li volevano tutti, ne facevano una bella scorta. Tante famiglie li facevano cuocere e usavano anche il brodo di cottura, per fare la minestra ( … ) Salami cotti. Il salame cotto era per la festa, era una cosa buona che non bisognava sprecare nel mangiare di tutti giorni. Io lo facevo come lo faccio ancora adesso, con il “muscolo” magro, con il grasso che chiamiamo “grasso duro”, che cuocendo non si scioglie, poi pepe in grani, droghe, aglio infuso nel vino rosso. Si insacca nel budello bovino grande, e si lascia stagionare un po’ prima di farli cuocere. Una volta si lasciavano anche dei mesi, non pativano mica, anzi stando lì diventavano sempre più gustosi. Salami crudi e cacciatorini. Si fanno con la polpa magra sceltissima, e con il grasso del guanciale o della pancetta, il più nobile. Si condiscono solo con il sale, il pepe nero in grani, e l’aglio infuso nella barbera; niente droghe, perché si lasciano stagionare a lungo, e diventano gustosi maturando, non c’è bisogno delle spezie, col tempo sfalsano il sapore, il salame sta meno fine. Qui a Montechiaro abbiamo un clima eccezionale per i salami, né troppo umido né troppo secco; se fatti bene si possono stagionare per molti mesi, e diventano sempre più buoni, senza bisogno di metterli sotto grasso o sotto il grano come invece facevano da altre parti. La reusa, fatta con il buel culè, si può tenere un anno e anche più, senza problemi. I cacciatorini si fanno con la stessa pasta del salame, magari con appena un po’ più di grasso perché si mangiano prima, e devono stare sempre ben morbidi. Galantina di testa. Nella mia bottega si è sempre fatta, già dai tempi di mio nonno, ma si faceva anche nelle cascine, era un lusso alla portata di tutti ed erano pochi quelli che rinunciavano a farsela fare. Si fa cuocere la testa disossata con le orecchie e la lingua, poi si taglia tutto a toccotti, si condisce con il sale e le droghe, si profuma con il Rum, e per renderla più bella si mettono anche dei pistacchi. Si mette in pressione in uno stampo ben foderato con la retina del maiale, e si lascia raffreddare . Prosciutto cotto. In campagna non si faceva, troppo lusso, se si usavano le cosce per il prosciutto mancava poi la carne per fare i salami. Però tante famiglie invece di pagare il massacrin in denaro gli davano una coscia del maiale, e noi la lavoravamo in salumeria per fare il prosciutto cotto. Si faceva cuocere nel forno per molte ore, ci vuole un’arte speciale per averlo tutto perfettamente rosa fino al cuore, il rischio è che sia troppo asciutto all’esterno, o troppo sanguinolento all’interno. Il prosciutto cotto così si chiamava Giambòn, alla francese, era una specialità che in paese si permettevano le famiglie benestanti. LA FESTA DELL’UCCISIONE DEL MAIALE Come si è detto, la macellazione domestica del suino assume un’importanza rituale, e connota vivamente il folklore e la convivialità contadina. Il sacrificio del porcello garantisce abbondanza e prosperità, che ricade sulla famiglia e sulla comunità di cui essa fa parte; la celebrazione del sacrificio coinvolge anche i vicini della borgata o della frazione, invitati ad onorare l’ucciso; il convito rituale sarà ripetuto poi casa per casa innescando lunghe spirali di inviti e di scambi che rafforzano la coesione e l’armonia sociale. A Villafranca il periodo delle macellazioni e delle feste culmina con un Arsinon ( “arcicenone”, termine usato anche da Roberto Sacchetti per Montechiaro) collettivo e conclusivo, che vede il coinvolgimento di tutti i membri della comunità in una kermesse dove ognuno dà il suo contributo ed il suo apporto, e dove ognuno riceve . Una rievocazione folklorica inconscia della distribuzione collettiva delle vittime dopo le cacce? TESTIMONIANZE Costanza Sardo (Villafranca) “ Quando si ammazzava il maiale era una festa bellissima, si stava allegri e si scherzava, io da bambina quel giorno lì non volevo neanche andare a scuola per non perdermi niente. Con il sangue noi non facevamo i sanguinacci, ma si mescolava con il latte e si faceva cuocere in una teglia senza aggiungere niente, così al fresco si poteva conservare per un bel po’ di tempo. Poi si tagliava a quadretti e si faceva friggere con le cipolle o con le patate la quantità che si voleva. Qualcun altro qui usava fare la torta di sangue, mettendoci dentro le cipolle tritate rosolate nello strutto e le droghe, e poi facendolo cuocere in una teglia rivestita con la risela , la retina del maiale. Era anche buona così, ma in casa mia non si usava. Con il maiale si facevano i salami, cotti e crudi, i cacciatorini, i cotechini, il lardo, le vantresche ( pancette, n.d.r.), la salciccia. Facevamo anche delle grive con il fegato ed il ginepro. La roba del crin durava per tanti mesi, si faceva bondè. Noi avevamo una stanza dietro la casa, una volta era la bigatera, ma dopo che si era smesso di tenere i bigat era diventata la stanza dei salami, perché era la più fresca. C’erano ancora le stagere dei bigat che andavano bene per appendere i salami e la salciccia, quella si stendeva lunga, a festoni. Ah, me la ricordo ancora adesso: quando ero bambina tutte le mattine d’inverno, prima di andare a scuola, passavo nella stanza dei salami e prendevo un pezzetto di salciccia lungo quattro dita; mia mamma me lo faceva friggere , era la mia colazione. E ben, quella salciccia era sempre buona, sempre perfetta per un mese e anche di più ; veniva solo più asciutta, ma continuava ad essere buona fino alla fine, altro che oggi che dopo tre giorni, anche se sta in frigo, non si riesce più a mangiare! E i cacciatorini…gli uomini andavano a tagliare il fieno maggengo e si portavano dietro i cacciatorini dell’inverno per fare colazione: erano ancora buoni! Il momento più bello era alla sera, quando si faceva festa con le interiora: allora venivano i vicini di casa e gli amici della borgata, e si facevano delle padellate di fritura, come una specie di fritto misto: si facevano le grive, la salciccia, la fritura neira e la fritura bianca, poi il cuore, il sangue, i reni, qualche cotolettina, e magari si aggiungeva anche qualche padellata di carote o dei friciolin doss. Però non si mangiava tutto in una volta, si teneva qualcosa da parte, poi siccome più o meno il maiale lo ammazzavano tutti negli stessi giorni, ci si trovava a casa di uno o dell’altro, tutti i vicini della borgata, e si faceva l’Arsinon dove ognuno portava qualcosa e si mangiava tutti insieme per fare festa. L’Arsinon generalmente si faceva negli ultimi giorni dell’anno, tra Natale e Capodanno. “ Margherita Amerio (Dusino) “ Mia nonna quando si ammazzava il maiale teneva tutto il sangue, lo mescolava con il latte e lo faceva cuocere in una teglia. Quando era raffreddato ne tagliava una striscia lunga, la spolverava con una miscela di sale, cannella in polvere e chiodi di garofano pestati, poi la avvolgeva con un pezzo di carta oleata e la legava alle due estremità come un salame. Faceva una serie di questi salamotti e poi li metteva nel còfo, ( il cofano dove si riponeva il corredo, n.d.r) dove così si poteva conservare per un bel po’ di tempo. Quando serviva ne prendeva uno, lo tagliava a dischi e lo faceva friggere con le cipolle o con il sancrao. Quando si ammazzava il maiale in casa sua non si usava far friggere le interiora; sì, si faceva festa lo stesso, però lei preparava una grande marmitta di ceci con le costine, le cotenne, i piotin, la coda; le interiora le teneva per la famiglia, le metteva sotto sale dentro delle bornije e poi le usava un po’ alla volta per cucinare.” Carla Quirino e Franca Quirino ( Montemagno) “ A casa nostra di maiali se ne ammazzavano due, si facevano venire tanto grossi che avevano la pancia che toccava terra . A lavorarli veniva Biaseìn, uno che faceva quel mestiere. Con il sangue si facevano i sanguinacci, qui si chiamano sangh ad boela ( sangue di budello, n.d.r.) poi tutte le altre cose, salami, cacciatorini, tanti cotechini, poi salami cotti, lardo, pancette, solo le grive non si conoscevano, non si facevano in casa. Si faceva tanto strutto, quello sì, serviva poi per friggere, durava tutto l’anno. Anche di lardo se ne faceva tanto, mi ricordo che lo tenevano sotto il letto. Quando si ammazzava si invitavano i vicini e gli amici, e si faceva festa con una bella Fricia ; si faceva friggere la salciccia, i sanguinacci, la fritura nera e quella bianca, qualche cotolettina, e poi le altre interiora, il cuore…. Si faceva il giro, si invitava la gente per amicizia e poi tutti rendevano l’invito, così per un po’ di giorni tutti stavano allegri…. Giuseppina Parena, Bruna Perotto ( Cocconato) “ Col sangue del maiale si faceva il “sangue cotto”, si faceva cuocere così senza niente e si conservava al fresco sopra dei vassoi. Poi per cucinare si prendeva la dose che ci andava, e si faceva friggere, con le cipolle , per mangiare con la polenta. Di sapore era buono, ma a qualcuno faceva effetto il colore, soprattutto i bambini non lo mangiavano tanto volentieri. Le interiora si facevano friggere subito per fare festa, non si facevano le grive , una volta non si usavano in campagna. Qui i salami si conservavano bene, non c’era bisogno di metterli sotto grasso, neanche la salciccia, è un’usanza più di pianura. Con il maiale si facevano il lardo e le ventresche, poi la salciccia, i saotissòt, i ganighin ( cotechini) , i salami cotti e crudi. I saotissòt erano salamini lunghi un palmo, da mangiare freschi; si potevano mangiare crudi ma erano anche buoni cotti con il sancrao, o anche solo lasciati un po’ sotto la cenere calda. I ganighin invece c’era la tradizione di mangiarli a Natale arrivando dalla Messa di mezzanotte; si mettevano sul fuoco e poi si andava a messa, e quando si ritornava i ganighin erano pronti. Andando e venendo da Messa, per tutto il paese era un unico profumo di ganighin che cuocevano, perché era tradizione, lo facevano tutti, di giorno si faceva vigilia, poi dopo Messa di Mezzanotte si mangiava il cotechino.” Rina Bossone, Maria Ferrero , Costantina Scuvero ( Montechiaro) “ Col sangue del maiale, quando si ammazzava, in campagna si faceva solo la torta; i sanguinacci se si voleva si compravano dal salumiere del paese, erano buoni e costavano poco. Invece in casa si faceva la torta, si metteva del latte nel sangue e le cipolle tritate ben rosolate nel grasso, poi si foderava una teglia con la retina del maiale, si metteva il sangue condito e si faceva cuocere. Eh, quando si ammazzava era festa grossa, si facevano friggere le interiora, si invitavano gli amici e tutti erano contenti”. IL SANCRAO E’ una pietanza strettamente legata al consumo degli insaccati suini, che riveste una grande importanza nella cucina tradizionale del Territorio, non solo contadina, e che però è stata vistosamente ignorata dalla gastronomia “ufficiale” degli ultimi decenni, causa una certa rusticità nella preparazione e nel risultato finale. Il rigido atteggiamento di chiusura nei suoi confronti ha portato ad una sorta di emarginazione del piatto, che molto spesso, anche sulle tavole famigliari, viene ormai equiparato sia lessicalmente che concettualmente ai “Crauti” della tradizione nordica. In realtà, come vedremo, la parentela con i teutonici cavoli salati e fermentati è soltanto etimologica: il Sancrao ha ben altre ascendenze, e gode di una sua specifica, forte identità. Profilo storico Nell’anonimo “Libro contenente la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi…” redatto nel secondo Settecento per la casa dei conti Cassioli di Reggio Emilia, compare per la prima volta il termine Sal Craud, e la ricetta sul modo“…di farlo in quattro giorni.” La cucina borghese italiana aveva da tempo adottato il Sauerkraut, cioè i cavoli trinciati sotto sale, fermentati e di sapore acidulo, utilizzati da periodi immemorabili sulle tavole del mondo germanico, ma anche noti e praticati da sempre nelle aree italiane di confine, come la valle dell’Adige o la Venezia Giulia. La ricetta reggiana settecentesca è un esempio precoce dei numerosi tentativi compiuti dalla cucina del Nord Italia per effettuare la produzione in loco del Sauerkraut, in maniera meno impegnativa e soprattutto più celere; è comunque la spia rivelatrice del processo di internazionalizzazione della cucina borghese, destinato a compiersi anche in Italia entro i primi decenni dell’Ottocento. Proprio in questo periodo, secondo un fenomeno ben noto e incontrato in diverse altre occasioni, il Sal Craud italo-tedesco ormai acclimatato sulle tavole ricche del Regno Sardo o del Lombardo-Veneto austriaco, si travasa “per caduta” nella cucina contadina. In questo caso non si tratta dell’adozione della ricetta, quanto piuttosto della terminologia ad essa relativa, che viene rapidamente utilizzata per designare, forse in un primo momento in tono scherzoso, poi via via sempre più convinto, una preesistente e diffusa preparazione locale. Esaminando le varie testimonianze raccolte in merito, si evince che: 1) in tutta l’area in esame il Sancrao è universalmente conosciuto e praticato da tempi precedenti la memoria generazionale; 2) che la sua preparazione prevede sempre la stufatura in olio e/o burro del cavolo fresco tagliato a listarelle, eventualmente previo appassimento a fuoco diretto per eliminare l’acqua di vegetazione; 3) che la componente acida è conferita con moderate aggiunte di aceto, e comunque non sempre praticata ; 4) che il suo consumo è inscindibile dalla presenza di insaccati appositi, e cioè il cotechino, o, in misura nettamente inferiore, il salsicciotto magro e il sanguinaccio; 5) che, non di rado, l’insaporimento del piatto è affidato al binomio aglio-acciuga. Tutte le testimonianze raccolte, se da una parte divergono diametralmente dal Sal Craud italogermanico, hanno puntuale riferimento in una ricetta del 1822, presente nel ricettario sudpiemontese “Polizia e Cucina” : “Cavoli coll’acciuga: tagliati minuti, posti senz’acqua in cazzeruola, e rivoltati, si acconciano in olio ( in cui si sia già soffritto aglio e sciolta acciuga, coll’aggiunta di un po’ d’acqua, tostochè l’acciuga è squagliata, all’oggetto che l’olio non prenda odore). Nel servirli si spruzzano d’aceto. Si accompagnano ordinariamente colle salsicce”. Quei “Cavoli all’acciuga” sud- piemontesi che non hanno ancora assunto il nome di Sancrao ma che ne sono di fatto i diretti genitori, rappresentano il risultato dell’incontro fra antiche preparazioni di cavolo fresco cotto con carne di maiale conservata, proprie dell’area francofona a cavallo delle Alpi Occidentali (Val d’Aosta, Savoia, Delfinato, Vallese, Tarantasia), e lo “stile” culinario dell’entroterra ligure-provenzale, che ha nel connubio aglio-acciuga il suo confondibile marchio d’identità. Le Chou-Croutes valligiane e francofone, alleggerite nella componente grassa, “tradotte” nel vernacolo culinario locale mediante l’aggiunta dell’aglio e dell’acciuga, vengono adottate con convinzione dal “popolo delle colline” che nell’inoltrato Ottocento conferirà loro l’appellativo nobilitante di Sancrao, termine prima riservato ad una preparazione “esotica” adottata in zona dalle tavole dei ricchi. Diffusione e caratterizzazione Il Sancrao è diffuso in tutta l’area collinare del sud-Piemonte, conosciuto e praticato con minime varianti lessicali o tecniche. Nel territorio in esame è identificabile un’area centrale di orientamento nord-ovest/sud saldamente raccordata all’Oltretanaro, dove prevale il Sancrao “meridionale” all’olio-aglio-acciuga, e due aree, individuabili ad Ovest e ad Est della precendente, rispettivamente influenzate dal Sancrao torinese e dal Sancrò alessandrino al burro-lardo e senza acciuga. Nel territorio del GAL il Sancrao rappresenta sempre un piatto inscindibile dagli insaccati che lo accompagnano e che quasi sempre completano con esso la propria cottura come nelle antiche Chou-Croute transalpine. Tali insaccati sono rappresentati in totale prevalenza dai cotechini nell’area “monferrina” ad est del Versa, da cotechini e sanguinacci nell’area centrale, da cotechini e salame cotto nell’area sud-occidentale, da salsicciotti-salamelle nell’area della Contea di Cocconato. TESTIMONIANZE Margherita Amerio ( Dusino) “Si taglia il cavolo fine fine con un coltellaccio, poi si fa rosolare in un padellone con olio e burro, e dieci spicchi d’aglio. Quando è ben appassito e asciutto si spruzza con l’aceto bianco, più o meno a seconda se si vuole più o meno brusco. Poi si mette il sanguinaccio o i cotechini già cotti, e si lascia insaporire tutto insieme per un po’. Siccome l’aceto cuocendo perde il brusco, alla fine se si vuole se ne può aggiungere un po’ prima di servire.” Costanza Sardo (Villafranca) “ Da noi il Sancrao si faceva senza aceto, solo con l’aglio e con l’acciuga, un po’ d’acqua per non farlo attaccare…Però doveva cuocere coi cotechini per prenderne il profumo, si facevano cuocere a parte i cotechini e si tiravano su a metà cottura, poi finivano di cuocere assieme al Sancrao.” Maria Vergano ( Villanova) “ Il sancrao si fa sempre con i cotechini, con i sanguinacci o magari con il salame cotto. Si affetta la verza fine fine, poi si fa appassire in un pentolone perché faccia l’acqua. A quel punto lì io l’acqua la tolgo, perché è quella che sa più di cavolo, ha un sapore forte…Strizzo il cavolo e lo metto in padella a rosolare con il burro, solo con burro e qualche spicchio d’aglio intero. Mentre cuoce spruzzo con l’aceto bianco, abbastanza presto perché possa evaporare, a noi in casa non piace troppo brusco. Poi si mettono dentro i cotechini o l’altra roba…” Carla Quirino, Bussa Margherita (Montemagno) “ Noi si taglia il cavolo a listarelle, poi si fa rosolare nella padella con aglio schiacciato, olio, una bella grattata di lardo e si fa cuocere, bisogna mescolare sovente per non farlo attaccare; poi se si vuole si bagna con un po’ di aceto, ma noi non lo mettevamo. Una volta quando, si faceva il sancrao , prima si facevano bollire i cotechini fino a metà, poi si mettevano con il sancrao e si facevano finire di cuocere insieme; erano i cotechini che davano il buono ai cavoli. Per questo non si metteva l’aceto. Angela Bersano ( Moransengo) “ Il cavolo bisogna tagliarlo più fine possibile, poi è meglio fargli fare l’acqua in una pentola e strizzarlo bene. In una padella si scalda l’olio con un pezzetto di burro, due o tre acciughe, qualche spì d’aglio tagliato a metà ; quando le acciughe sono sciolte allora si mette il cavolo già appassito e si fa cuocere, ogni tanto bisogna spruzzare con acqua e aceto, non importa se bianco o rosso, tanto la differenza è solo nel colore. Noi nel sancrao non si usava mettere i cotechini, ma i sautissòt freschi, prima si sbollentavano, poi si facevano finire di cuocere con il sancrao. Bruna Perotto ( Cocconato) “Il sancrao si faceva tanto, eccome ! I cavoli erano pochi che li tenevano nell’orto, la gente di qui andava a Crescentino, là crescono grandi e ce n’erano dei campi pieni. Si andava a Crescentino a prendere il riso e si prendevano i cavoli nel campo, “ a rancassje” ( a raccoglierseli) perché così costava di meno. Anna Obermitto ( Frinco-Montechiaro) “ Il sancrao si faceva tanto d’inverno quando c’erano le verze e quando c’erano i cotechini. Il cavolo si fa rosolare con olio, acciuga, aglio, e si bagna con l’aceto da mano a mano che cuoce. Alla fine si mettono i cotechini e si lascia un po’ lì che prenda il gusto. FORMAGGI E LATTICINI La robiola di Cocconato Il 4 Settembre 1666 la “ cesarea maestà signora Imperatrice Margherita d’Austria, piissima, clementissima e sempre augustissima …” nel corso di un suo viaggio in Italia visitò la città di Acqui, dove ebbe modo di incontrare la sorella Isabella Clara arciduchessa d’Austria, sposa a Ferdinando Carlo Gonzaga, duca di Mantova e di Monferrato. In occasione della visita i ducali consorti consegnarono all’Imperatrice un favoloso regallo costituito da una ricchissimo assortimento di vini e cibarie. Nel lungo inventario stilato per l’occasione ( e pubblicato da Giuseppe Giorcelli in “Documenti storici del Monferrato”), spiccano due casse, una “…con dentro donzene 28 Rubiole di Coconato”, l’altra “ con dentro 22 donzene Rubiole di Coconato” per un totale di ben seicento forme. Gli unici altri formaggi ritenuti degni di comparire al cospetto dell’augusta sovrana furono il “formaggio lodegiano vecchio” ( cioè il grana) e il “lodegiano grasso” ( probabilmente tipo gorgonzola). Veramente notevole il fatto che il signor Giovanni Vico, gentiluomo casalese , “mastro di casa” delle Altezze ducali, nonché organizzatore e regista del munifico regalo, avesse scelto come dono prestigioso le robiole di Cocconato, prodotte in un Paese straniero (Cocconato faceva parte della Provincia d’Asti, sotto il dominio dei duchi di Savoia) , e presentate in una cittadina monferrina come Acqui, dove la produzione di formaggi analoghi era antica, illustre, e cospicua. E’ evidente che la fama , il prestigio e la qualità della Robiola di Cocconato erano decisamente più importanti e stimati rispetto a tutti gli altri latticini prodotti tra Po e appennino Ligure. Un’eccellenza casearia oggi quasi non più avvertibile, benchè non del tutto scomparsa, ma fulgida fino ad un passato recente, e ancora viva nella memoria della gente. Un’eccellenza casearia che, nonostante il privilegio di una delle più antiche “denominazioni comunali” agroalimentari reperibili in Piemonte, era diffusa e condivisa in un territorio ben più vasto. Ancora una volta torniamo alla “cittadella collinare” sud piemontese, frammentata nelle appartenenze politiche, unitaria per cultura e tradizioni. Il fatto di aver costituito in epoca preromana un’area di resistenza condotta dall’etnia Ligure nei confronti dell’avanzata celtica, e di essere stata unificata in epoca imperiale in una sola unità amministrativa ( la IX Regio) , possono essere elementi storici che hanno contribuito all’omogeneità culturale del “popolo delle colline”. La pastorizia degli ovini, e la produzione di formaggi di pregio, già diffusa in epoca romana, ricevettero nuovi impulsi nel corso del XIII secolo, quando la potente congregazione degli Umiliati, sorta ad Alessandria e ben presto monopolizzatrice del commercio delle lane grezze, incrementò ed incentivò notevolmente l’allevamento stanziale onde garantire il rifornimento delle proprie attività. Le lane del sud Piemonte erano di qualità scadente, e quindi di basso prezzo e commercialmente appetibili. La struttura orografica e sociale del territorio impedì l’affermarsi di una pastorizia di tipo estensivo, e l’allevamento delle pecore, condotto sempre in numero limitato di capi, fu appannaggio dell’azienda agricola stanziale. Il piccolo (o piccolissimo) gregge di pecore, mai superiore alla dozzina di capi, era una presenza immancabile nel paesaggio rurale del Monferrato, dell’Astesana e delle Langhe tra XIV e XVIII secolo, e un indispensabile “accessorio” produttivo anche quando l’attività laniera degli Umiliati andò in crisi fino a scomparire del tutto (XVI sec.). Il settore ovino, pur polverizzato in una miriade di proprietari, era sicuramente considerevole nella sua totalità, e dava vita ad una produzione casearia di tutto rispetto. Nel 1477 il medico vercellese Pantaleone da Confienza componeva il suo celebre trattato intitolato “Summa lacticionorum” dedicando un intero capitolo al “caseo de la Mora”. “Questi formaggi si chiamano robiole, e sono piccole forme di circa una libbra, rotonde e piuttosto spesse rispetto la loro dimensione; privi di scorza, trasparenti o traslucidi, soprattutto quando ottimi (…) Si ritrovano nei dominii dei marchesi di Monferrato, e di quelli del Carretto e di Ceva; invero la maggior quantità si ritrova nel marchesato di Monferrato in moltissime località. Sono formaggi piuttosto preziosi; si conservano eccellenti anche per due anni, ma di un anno sono migliori, e molti amano consumarli dopo sei o otto mesi (…). Si confezionano con il latte ovino, (…) e in effetti sono chiamati ‘robiole’ solo quelle prodotte con questo tipo di latte; alcuni li adulterano mescolandoli con latte di vacca, e addirittura di capra, il che è ancor peggio.(…)”. Non sappiamo se Pantaleone, a proposito del formaggio “de la Mora” , si riferisse al comune langarolo di La Morra, o se alludesse al termine medievale “murra”, cioè “recinto per piccole greggi stanziali”. Sono tuttavia assai precisi gli àmbiti geografici da lui delineati: il marchesato di Monferrato, quello di Ceva all’epoca sottoposto alla signoria orleanese di Asti, quello del Carretto, nelle alte Langhe, frammentato in numerosi vassallaggi di volta in volta filo-orleanesi o filo-monferrini. Se si aggiunge che già nel 1377 Asti e la sua “patria” ne erano un importante centro di produzione e commercio ( come si desume dagli Statuta Revarum, i dazi mercantili redatti in quell’anno), è facile intuire come le robiole di pecora incarnassero il genius loci caseario del Piemonte meridionale. Facendo un notevole salto cronologico, e sorvolando i fasti tardo-seicenteschi accennati in apertura del capitolo, si può arrivare al 1815 con una situazione ancora sostanzialmente immutata, descritta dall’erudito astigiano Giovanni Secondo DeCanis. Egli rileva nel territorio della Provincia di Asti l’esistenza di un intenso e diffuso fenomeno di transumanza, ancora oggi ben vivo e praticato, con lo stanziamento invernale di greggi alpine che, benchè esterne, erano in grado di fornire stagionalmente abbondanti risorse casearie: la ricotta per i contadini, i formaggi pregiati per “l’agiato e il benestante”. Parallelamente descrive l’allevamento stanziale delle piccole greggi contadine, finalizzato unicamente alla produzione delle Robiole; pur rimarcandone la diffusione, enuclea una ristretta area di eccellenza tra Moncucco, Albugnano e Cocconato, e ne loda i fasti anche commerciali, concretizzati soprattutto dalla consistente presenza sul non lontano mercato di Torino. Da notare come, alla stregua di Pantaleone, il DeCanis parli di robiole confezionate con puro latte di pecora, che come quattro secoli avanti risultavano squisite sia consumate fresche che stagionate “vecchie”. “Quanto alle pecore esse ci sono condotte in Novembre o Dicembre dalle Alpi (…). Il contadino con il loro latte si procaccia le ricotte, e l’agiato e benestante i formaggi al fior di latte, le giuncate, i freschi formaggi nella primavera e le tenere rubiole; queste ultime però non sono manipolate dai pastori, ma vengono composte sulle colline di Moncucco, Albugnano e Cocconato da più particolari col latte di pecore ch’eglino stessi, indipendentemente da quelle delle Alpi, allevano e nutriscono. Questa specie di formaggio sì fresco che vecchio è di squisitissimo gusto; esso si vende, massime quello di Cocconato che è il migliore, non solo in quei contorni, ma a Torino altresì è ricercatissimo.” (G.S DeCanis, Corografia Astigiana, 1816). La robiola di Cocconato continuò a mantenere fama immutata e solida valenza commerciale ancora a lungo, ma già agli inizi del Novecento l’ormai definitivo prevalere dell’allevamento bovino su quello ovino causò un radicale cambio di tipologia: l’impiego sempre più diffuso del latte vaccino, che doveva diventare ben presto totalizzante, la trasformò in un formaggio fresco, di sapore semplice, poco adatto alla stagionatura. A partire dal secondo dopoguerra la produzione domestica della robiola si ridusse sempre più vistosamente, rivolgendosi ad un utilizzo puramente famigliare; più consistente, ma meno qualificata, la produzione di tipo semi-industriale, che continua a tutt’oggi, sebbene in quantità decisamente ridotte rispetto al passato. I formaggi di Villanova. Un’altra area di notevole e radicata produzione casearia risulta essere quella della Piana villanovese, rimasta in sordina in termini di notorietà, ma estremamente interessante per le sue peculiarità tipologiche. Zona di prati estesi, sede di allevamento intensivo, il Villanovese ha elaborato nei secoli un prodotto locale fortemente tipicizzato. Si tratta di un latticino ricavato dal latte crudo vaccino e ovino ( un tempo in uguali proporzioni), con crosta consistente, di pezzatura medio-grande ( la forma pesa circa 3 kg a fresco) , adatto a lunga o lunghissima stagionatura. Il suo nome, abbastanza semplicemente e un po’ rudemente, è quello di Formagg, in quanto per secoli è stato il “formaggio” per eccellenza della tradizione locale. Sia pure in modalità e diffusione strettamente famigliari, la sua produzione continua a tutt’oggi, ed è stato possibile sincerarsi delle sue straordinarie qualità organolettiche, derivate dalla lavorazione a crudo e dalla lunga, attenta stagionatura. Un gioiello caseario che meriterebbe un’adeguata riscoperta e valorizzazione, in un momento come l’attuale dove è massima l’attenzione per i “prodotti di nicchia”; un gioiello in grado di valorizzare tutto l’indotto del turismo gastronomico della zona, come successo in tempi recenti nella Langa Astigiana a seguito del rilancio e della valorizzazione della Robiola di Roccaverano. E’ certo che il Formagg Villanovese, soprattutto nella versione ovi-vaccina stagionata due anni, dal punto di vista organolettico ha pochissimi rivali anche in una regione di eccellenza casearia come il Piemonte; è un tesoro nascosto che merita di essere riportato alla luce. Accanto al Formagg , Villanova vanta un’altra gloria altrettanto suggestiva: una Robiola locale prodotta un tempo con puro latte ovino, lavorato a crudo dopo il coagulo spontaneo ottenuto senza aggiunta di caglio, mediante fermentazione acida. Questa tecnica raffinata, che implica un’esperienza elevatissima ed una assoluta scrupolosità, consente di ottenere risultati superbi, come certamente superbe erano le robiole delle quali si è raccolta testimonianza. Robiole o “tome”astigiane. Il marchesato del Monferrato, secondo Pantaleone da Confienza, nel XV secolo deteneva il primato nella produzione di robiole di latte ovino. Nel corso dei secoli tale produzione andò progressivamente riducendosi, lentamente ritirandosi verso sud, sopravvivendo solo nelle estreme propaggini dell’Alto Monferrato. Nel Basso Monferrato (corrispondente all’antica provincia di Casale) , per contro, già nel corso dell’Ottocento la produzione di formaggi locali poteva dirsi pressochè estinta, e di essi non è rimasta traccia nell’attuale memoria generazionale. I motivi sono da cercare nella specializzazione viticola assunta già dalla fine del XVIII secolo, e nei drastici bandi decretati da molti comuni nei confronti degli armenti ovini , visti come costante minaccia per la vegetazione e l’integrità delle vigne; dalla fine dell’Ottocento, a fronte di un progressivo arretramento della viticoltura, è stato l’allevamento intensivo del bovino “da carne” a prendere il sopravvento. Allevamento che porta al reimpiego quasi totale del latte per lo svezzamento dei vitelli, lasciandone minime quantità per il consumo umano. Dall’altra parte del Versa , nell’antica Patria Astese, le produzioni casearie hanno avuto maggior resistenza e continuità cronologica, soprattutto nelle zone meno vocate dal punto di vista viticolo. Escludendo i casi di Cocconato e di Villanova sopra riportati, si può dire che in tutta la Contea d’Asti ( corrispondente ai confini della provincia antica) la produzione casalinga delle robiole sia continuata fino agli anni fra le due guerre. Tale produzione fino a tutto l’Ottocento fu basata prevalentemente sul latte ovino ricavato da piccolissime greggi, mai superiori alla mezza dozzina di capi, strettamente sorvegliate e dunque tollerate anche in contesti diffusamente viticoli. In tempi più recenti l’allevamento stanziale delle pecore si è ridotto fino a scomparire quasi del tutto, ormai totalmente sostituito dall’allevamento bovino. Si trattava di una produzione casearia quasi totalmente destinata all’autoconsumo, quindi di minima rilevanza commerciale, ma altamente significativa nel caratterizzare l’alimentazione e la diversificazione dell’alimentazione contadina locale. I formaggi ricavati erano definiti “robiole” secondo la dizione antica già in uso nella Asti del 1377; il termine deriva da “rubeolus”, e nel latino medievale indicava il colore rossiccio che assumevano dopo lunga stagionatura. Nella zona sud-occidentale tra Triversa e Borbore sono anche definiti “tome” come nella vicina area albese ; il nome, che designa molte varietà di formaggio sia al di qua che al di là delle Alpi, deriva dal franco-provenzale “tomette”, significante “mattonella di materiale pressato”. Il termine è già attestato ad Asti nei primi anni del XVI secolo per indicare formaggi di dimensioni medio-grandi. Nella caricaturale descrizione del “Gran Turco”, G.Giorgio Alione afferma che con la sua bocca mostruosa “ el mangerà una toma de quater lire and un bocon” ( mangerà una toma di quattro libbre, circa un chilo e mezzo, in un boccone solo). In epoche più recenti il nome si estenderà localmente a designare indifferentemente tutti i tipi di formaggio a pasta morbida, indifferentemente al formato. Le robiole-tome contadine, sia prodotte con latte ovino, sia con vaccino, erano ottenute dalla coagulazione del latte fresco e crudo mediante caglio animale appositamente acquistato nelle farmacie o nelle drogherie. Il coagulo ottenuto, definito “quajà”, poteva essere consumato freschissimo previa leggera sgrondatura in cestini di vimini, ed assumeva in tal caso il nome di “gioncà” ( giuncata); per ottenerne le robiole veniva posto in stampi bucherellati di coccio o di metallo (le “fasselle”) rivestiti con una garza sottile (“rairola” o “tamin-a”, cioè stamigna) ; dopo la spurgatura del siero, protratta per uno o due giorni, la forma assumeva una certa consistenza e poteva essere estratta dallo stampo, salata in superficie e conservata per periodi più o meno lunghi. Le robiole così ottenute avevano un diametro variabile tra i 15 ed i 20 cm, ed un’altezza tra i 3 ed i 5 cm. ; si consumavano generalmente in tempi piuttosto brevi , soprattutto in caso di produzioni limitate. Nell’alimentazione contadina del nostro territorio la robiola aveva una presenza costante e quotidiana, in quanto protagonista della colazione e della merenda, due refezioni che il mondo rurale riteneva assolutamente irrinunciabili. Il Bros Con gli scarti ed i rottami del formaggio si preparava il Bros, crema fermentata di formaggio dal sapore intenso e bruciante. Prodotto antichissimo, diffuso presso le culture pastorali preromane del Mediterraneo occidentale, è conosciuto e praticato, oltre che in tutto il Piemonte meridionale, in Liguria, Corsica, Sardegna e Provenza. Il nome locale di Bros deriva da Brossa, termine provenzale per indicare la ricotta, della quale condivide l’aspetto e non certo il sapore. La sua diffusione nel nostro territorio, soprattutto nella sua componente astigiana, oltre che antica è capillare e generalizzata. Si può affermare che nelle nostre campagne il Bros rappresentava una “scorta alimentare” autoprodotta, molto apprezzata per la sua economicità, molto amata per il suo sapore violento, che ne faceva un companatico ideale anche se assunto in minime quantità. Se il geometra Fantino nel 1880 descrive l’uso del bros nel circondario di Alba, nel 1876 il romanziere Roberto Sacchetti attribuisce agli abitanti di Montechiaro d’Asti il detto “L’amor l’è pì fort che l’Bros!”. Le memorie raccolte nel territorio sono tutte concordi nel tributargli i massimi onori, e nel delinearne l’ubiquità. Nelle zone di produzione casearia il materiale di base è rappresentato generalmente dalle robiole fatte in casa, soprattutto quelle deteriorate dall’uso malaccorto del caglio, o da improprie stagionature; nelle altre il Bros si ricava dagli avanzi dei formaggi utilizzati a mensa, prevalentemente croste di parmigiano o rimasugli di gorgonzola. Il processo di ottenimento prevede lo sminuzzamento della materia prima, la mantecatura mediante l’aggiunta di liquido ( che può essere latte, acqua o vino bianco), la fermentazione, che dal suo inizio può durare da un minimo di dodici giorni fino a due- tre mesi, accompagnata da rimescolamenti quotidiani, e spesso la correzione con grappa o altro liquore alcoolico con funzioni antisettiche, per evitare degenerazioni batteriche. La fermentazione è di tipo aerobico, e viene condotta in un recipiente di terraglia aperto chiamato topin-a , mantenuto coperto con una chiusura di stoffa che non impedisca lo scambio gassoso. In passato, non di rado, la precarietà della chiusura non impediva la contaminazione da parte della mosca del formaggio, ed il conseguente sviluppo delle larve definite “gianìn” o “saotarìn”. Tale imbarazzante presenza non era vista come deteriorante, anzi ricercata ed ambita dai “palati forti”, che la ritenevano indice di maggior potenza e completezza del gusto. La fermentazione, oltre a sviluppare il sapore intensamente piccante, fa assumere al formaggio di base una consistenza cremosa e vellutata, che lo rende adatto ad essere spalmato sul pane, o sulla polenta, come appunto veniva utilizzato nell’alimentazione contadina. Il Bros, ancora commercialmente reperibile per il consumo famigliare, ha però subito un pesante ostracismo nei confronti dell’offerta gastronomica “tipica” territoriale. Il suo sapore molto spesso “impegnativo” ma anche la mancanza di prodotto locale veramente tradizionale e qualificato, ne hanno di fatto contribuito all’esclusione. Ma, ancora una volta, si tratta di un prodotto profondamente “nostro”, profondamente autentico e caratterizzante, che può e deve essere recuperato e riproposto, magari nelle sue tipologie meno ostiche, che lo rendono eccellente protagonista del mangiare informale sempre più diffuso nelle osterie/vinerie, ma anche degno di ben figurare in pranzi importanti. LE TESTIMONIANZE Maria Vergnano ( Villanova) : “ Qui il formaggio lo facevamo tutti, tutti avevamo le bestie, mucche e pecore. Noi avevamo tante mucche, e tenevamo sempre almeno una dozzina di pecore, per fare il formaggio. Prendevamo il latte di pecora e di mucca, metà e metà , lo scaldavamo un po’ poi mettevamo il prejs che si comprava dal farmacista, o anche dal droghiere qui a Villanova. Poi si aspettava che si formasse la quajà, e quando era ben compatta, e cominciava a venire su la berlàcia ( siero), si raccoglieva e si metteva in una rairola; in due donne, una da una parte e una dall’altra, arrotolavamo la rairola e la stringevamo bene, per fare uscire tutta la berlàcia, poi la quajà ben asciugata si metteva nella fassella grande, dove stava per due giorni a purgarsi ancora. Alla fine si aveva una forma di circa tre chili , si salava da fuori e si metteva ad asciugare sulla paglia per qualche settimana, poi si metteva sull’asse appeso, e lì poteva stare anche un anno, anche due, più stava lì più diventava buono. Però non si dimenticava mica: no, no, dava ancora più lavoro! Bisognava girare le forme tutte le settimane, altrimenti dove toccavano il legno potevano marcire, o diventare amare. Poi si ungeva la scorza con un po’ d’olio, e ogni tanto si lavavano da fuori con l’aceto se facevano un po’ di muffa. E un anno si tenevano sempre, fino a quando diventavano belle dure; il formaggio era buono, si poteva usare per grattugiare o per mangiare così, era tanto buono come il parmigiano, a volte ancora migliore. Quello era el Formagg, si chiamava solo così, non aveva un altro nome. Oggi qualcuno lo fa ancora, ma solo per gli amici e i conoscenti; però non ci sono più le pecore, e non è la stessa cosa, anche se è buono lo stesso, ma non è più saporito come una volta. Oltre al Formaggio facevo anche le robiole, però di sola pecora: erano buone davvero! Il latte appena munto si metteva in un grilet e non si metteva il prejs, si aspettava che la quajà diventasse dura da sola; poi si metteva nella fassella piccola a spurgare e si facevano asciugare sulla paglia. Dopo qualche giorno erano già buone da mangiare o da vendere, e stando lì miglioravano ancora. Più stavano lì, più facevano una panna tutto intorno. Io da giovane le portavo a vendere al mercato di Villanova. Le prime volte che andavo a fare il mercato da sola arrivava sempre un donnone alto così, una brontolona….mi diceva “Ti, Vergnan-a, a quanto le vendi le robiole?” E io “ a dieci soldi l’una”. Ne prendeva due o tre in mano come per stimarle, e mi diceva “ ma non lo vedi che queste sono rotte? Ti do cinque soldi l’una, ti conviene darmele se no non le vendi più” . E io gliele davo a quel prezzo, una volta, due, tre, altrimenti non le vendevo. Oh la salòpa! Ho poi capito che era lei che le rompeva apposta, per pagarle la metà, da allora sono stata più attenta. (…) Però con le robiole che si rompevano e con gli altri avanzi di formaggio di casa facevo il bros : disfavo tutto il formaggio in un grilet, lo bagnavo con un po’ di grappa o di cognac, poi lo lasciavo fermentare per dodici giorni o più, a seconda di come si voleva forte. Tutti i giorni andava mescolato bene, sempre dallo stesso verso, e bisognava coprirlo con un pezzo di stoffa, perché se non era ben chiuso faceva i gianin che a me facevano schifo, anche se c’era qualcuno che gli piacevano, e si lamentava che il mio bros non li avesse, perché diceva che non era abbastanza forte. Naturalmente col latte delle mucche facevamo anche il burro, anche se quasi mai se ne faceva abbastanza per vendere al mercato. Fare tanto burro vuol dire fare il formaggio meno buono; però per la famiglia ce n’era sempre in abbondanza, e sovente ce n’era anche da vederne un po’ ai vicini. Noi potevamo usare il burro per cucinare, e anzi per noi era molto più conveniente dell’olio, visto che lo facevamo in casa. L’olio lo compravamo praticamente solo per fare l’insalata…. Angela Bersano ( Moransengo) . Qualche bestia nella stalla ce l’avevano tutti, e un po’ di formaggio lo facevano tutti sia per mangiare che per vendere. Si facevano le robiole, solo quelle. Quando mia mamma era giovane c’erano ancora le pecore, le tenevano a pascolare vicino alla casa per avere il latte per le robiole. Ma io già da ragazza ho sempre visto solo più delle mucche, e le robiole si sono poi fatte solo con il latte di mucca. Ma erano buone lo stesso, perché si facevano ben grasse, un po’ sottili e larghe. Si tenevano a maturare sulla paglia, così facevano una crema di fuori… Io da giovane andavo a venderle a Cavagnolo, al mercato, e le mie le cercavano, tanto erano buone. Con le robiole si faceva anche il bros ma non tanto per vendere, piuttosto per la famiglia: era buono con la polenta, o anche solo con il pane. Alla fine dell’Inverno arrivavano i pastori con le greggi di pecore, e le tenevano nei prati nella vallata. I proprietari non erano mica tanto contenti, dicevano che le pecore portavano una malattia e che strapusavo il prato. Allora i pastori, per ingraziarseli, gli regalavano il seriass (la ricotta); anche a casa nostra ne portavano, perché venivano anche nei nostri prati. Mi ricordo che le greggi andavano via al 25 di Marzo, per l’Annunziata, e prima di andare via ci portavano sempre il seriass, che si mangiava con la polenta. Anna Obermitto ( Frinco-Montechiaro) “ Tenevamo sempre qualche mucca per i vitelli, e quando c’era tanto latte si facevano le robiole per la famiglia: erano un companatico che non costava niente, ed era buono. Il latte lo mettevamo in un grilet con il caglio, poi si raccoglieva la quajà con la cassirela e si metteva nella fassella rivestita di rairola. Si teneva un giorno, poi si toglieva la forma e si salava. Si posava su un piatto rovesciato, perché faceva ancora acqua per un po’. Erano buone, potevano conservarsi anche per dei mesi, ma noi non gli davamo tanto tempo, si mangiavano da mano a mano che si facevano. Siccome qualche volta non venivano bene, magari perché si sbagliava a mettere il caglio, quelle che non erano perfette si usavano per fare il bros. Badavamo di averne sempre una scorta, perché compagna sia la polenta che il pane. D’inverno, quando non c’era tanta verdura da bagnare nell’olio, gli uomini facevano colazione, col bros. Qualcuno ci metteva la grappa o il vino bianco, ma io non ci mettevo niente di forte, solo un po’ di sale e un po’ di pepe, e latte per far stare più cremoso il formaggio, tanto fermentava, e veniva forte da solo….. Costanza Sardo ( Villafranca) “Si, il formaggio si faceva in casa, per l’uso di casa. Erano robiole ma qui si chiamavano tome e si mangiavano fresche. Quando ero giovane io, si facevano quasi solo più di latte di mucca, ma qualche pecora c’era ancora, e anche qualche capra. Però ai tempi di mia nonna le tome si facevano quasi soltanto con il latte di pecora. Le tome una volta qui non mancavano mai, servivano per la colazione degli uomini, o anche come pietanza, magari alla sera, con l’insalata. Vincenzo Testa ( Moncalvo) : “ qui a Moncalvo da quando mi ricordo io nessuno faceva più il formaggio, e nemmeno ne sentivo parlare. Può darsi una volta, i vecchi, ma bisogna andare indietro, indietro. Qui non c’erano molti prati, in collina c’erano le vigne e il grano, il latte delle mucche serviva prima di tutto per ingrassare il bocin, e poi per la famiglia, tutte le mattine si faceva la zuppa nel latte, erano delle squadre…e a volte anche la sera. Non ne rimaneva per fare il formaggio, tutt’al più col latte si faceva un po’ di burro per la famiglia, ma poco. Il formaggio si comprava al mercato, soprattutto lo strachin ( gorgonzola) da spalmare sulla polenta. Carla Quirino e Franca Quirino ( Montemagno) : “ Qui a Montemagno nessuno faceva più il formaggio, già allora, solo con il latte si faceva un po’ di burro. Il formaggio bisognava comprarlo, e allora si comprava solo quando ce n’era bisogno, alle feste più grosse. Mia mamma comprava un pezzo piccolo di formaggio da grattare, poi lo chiudeva dentro una scatola di latta, con la chiave, e teneva la scatola nella sua stanza da letto, perché sapeva che se lo lasciava in cucina noi facevamo presto a mangiarlo”. Margherita Bussa (Montemagno) : “Anche il burro bisognava comprarlo quasi sempre: io mi ricordo da bambina che mia mamma mi mandava alla bottega a comprare venticinque grammi di burro!” UN BLASONE GASTRONOMICO: GLI AGNOLOTTI Oltre a rappresentare il più amato dei piatti festivi, costituiscono un solido baluardo della cucina “sacrale” di famiglia, e uno dei capitoli più interessanti della cultura gastronomica locale. Considerazioni Gli studi locali dedicati alla gastronomia , per quanto riguarda la parte storica, hanno spesso privilegiato l’affabulazione romanzesca alla ricerca documentaria, elaborando in merito una serie di teorie tanto poetiche quanto inattendibili. Tali teorie si sono poi trasformate in radicati luoghi comuni, che ancora oggi condizionano in modo deciso la percezione delle origini del patrimonio culinario locale. Un esempio eloquente è fornito dalla notevole massa di scritti dedicati nel tempo proprio agli agnolotti ed alla loro storia. La redazione di un loro repertorio ragionato potrebbe essere esercizio non del tutto superfluo, e occasione di ripetuti sorrisi. Non essendo questo lo scopo del presente studio, mi limito a ricordare en passant alcune delle teorie in voga a tutt’oggi. Ad esempio l’origine della pasta ripena, nota con la terminologia bifronte di raviolo-agnolotto, si è voluta ricondurre alla famiglia Raviolo presente a Genova nel corso del XIII secolo ed in seguito trasferita a Gavi ( ma una famiglia Raviolo viveva in Asti nel 1204, cf. Codex Astensis, doc. 820). Altri hanno collegato l’etimologia del termine “raviolo” con il formaggio “raveggiolo” che, si suppone, era utilizzato per la confezione del ripieno. La dizione “agnolotto” in area langarola viene collegata ad un mitico cuoco, ovviamente locale, di nome “Angelotto”, ideatore e scopritore di quello che fu poi battezzato “piat d’Angelot”. Altri invece suppongono che lo stesso nome derivi dalle carni di agnello, rietenute in antico ingrediente dominante del ripieno; altri ancora fanno riferimento alla poetica visione di un piatto di agnolotti che assomiglierebbe ad un piccolo gregge di “agnellotti” raggruppato sul prato. Molti serissimi studiosi o tecnici di cucina non mancano mai di rilevare che gli agnolotti-ravioli sarebbero un piatto povero, nato per utilizzare gli avanzi di cucina: a questo proposito la massima esperta di gastronomia reginale italiana ha asserito che in Piemonte si confezionano tradizionalmente il lunedì, utilizzando gli avanzi degli arrosti e dei bolliti accumulati durante tutta la settimana. Anche dal punto di vista strettamente tecnico-culinario, in zona l’agnolotto soffre di una notevole banalizzazione ad opera delle produzioni industriali e delle “mode” del momento. Ad esempio da qualche decennio si assiste alla perdita d’identità e di specificità locale anche in quello che, almeno a tavola, dovrebbe costituirne un baluardo incrollabile. Dilaga l’agnolotto “dal plin”, di origine langarola, che ha colonizzato il territorio con una manovra a tenaglia, estendendosi dal Sud Astigiano ( il primo a soccombere all’invasione) e da Torino. Dilaga l’agnolotto “ricco” grondante di uova nella pasta, onusto di carni nobili nel ripieno, rutilante di burro-e-salvia all’esterno, sempre più “allineato” e standardizzato perfino nelle piccole trattorie di paese, sempre più uguale dall’Ossola al Col di Tenda. Se la gastronomia “di territorio” è destinata a diventare una risorsa importante, il nostro “territorio” potrà sperare di rendere appetibile la propria cultura alimentare solo se saprà ripristinarne i caratteri di tipicità, di unicità, di irriproducibilità. Magari cominciando dall’Agnolotto. Profilo storico La “pasta ripiena”, intesa come farcia racchiusa in un piccolo involucro di pasta, è una delle invenzioni più brillanti ed esclusive della cucina medievale europea. Sconosciuta al mondo classico greco-romano, fa la sua apparizione in Europa nel corso del XII secolo, ed è il frutto di un geniale processo di “miniaturizzazione” delle torte di pasta farcite di carni o verdure, quelle sì largamente praticate dalla gastronomia del mondo antico. La grande “torta” ripiena diventa così un “tortello” di dimensioni sempre più ridotte, non più cotto in forno ma fritto o lessato. Nell’area geografica del Mediterraneo occidentale, dominata dalla cultura angioina, questi “tortelli” prendono il nome di “ravioli” già nel corso del XIII secolo, in quanto nella lingua provenzale il verbo “raviorer” significa “avvolgere, arrotolare”, come in effetti si “avvolge” la sfoglia intorno al ripieno. Non a caso nelle parlate del Piemonte meridionale esiste ancora oggi il termine “arvirolè” con il medesimo significato. La cultura angioina diffonde il termine “raviolo” ( ed il corrispondente femminile “raviola” ) in Italia nelle sue zone di principale influenza: il Piemonte meridionale e la Liguria, la Toscana ed il regno di Napoli. La più antica ricetta conosciuta in ambito italiano è riportata proprio dall’anonimo cuoco della corte partenopea di Carlo II d’Angiò, agli inizi del Trecento. La preparazione delle “raviolas” più antiche prevede l’utilizzo di una farcia composta da pancetta fresca di maiale, fegato e coratella di capretto o di altre carni tritate minutamente, erbe odorose e uova, avvolta in retina di maiale o in sfoglia di pasta in forma di polpette grandi come un uovo, o poco più, fritti in padella. L’evoluzione e l’ingentilimento di questa ricetta ( che pure già all’epoca conosceva numerose varianti, se il parmense fra Salimbene de Adams nella sua celebre Cronaca della seconda metà del Duecento distingue i ravioli ordinari da quelli sine crusta de pasta) prosegue per circa un secolo, fino a trovare il suo canone definitivo nell’opera di maestro Martino da Como ( 1450 circa) , che stabilisce le regole d’impostazione vive ancora oggi: una farcia composta di carni tritate e verdure legata con uova, avvolta in una pasta “ben sottile” in forma di ravioli che “non siano maiori d’una meza castagna”, da far lessare in un liquido salato e da servire cosparsi di parmigiano. Dall’archetipo ormai definitivo del “raviolo”, sempre nel corso del XV secolo e oltre, si elaborano altre varianti di pasta ripiena che assumono progressivamente propria identità lessicale o culinaria. E’ il caso del “tortello”, raviolo rotondo che riproduce in piccolo, anche nella forma, la “torta” capostipite; del “calzone” o “calicione” , che è un tortello piegato a mezzaluna, infine dell’ “anolo”, o “anolino” , raviolo circolare ricavato mediante un tagliapasta a forma di anello ( “anulum”, appunto) e poi ripiegato su se stesso a guisa di corona o di “cappelletto”. La raffinata cultura gastronomica padana del Rinascimento, elaborata dalle brillanti corti delle Città ducali, estenderà prepotentemente la propria influenza alle aree attigue, imponendo ricette e terminologie da essa elaborate. E’ il caso del nome “agnolotto”, derivato dall’ “anolo” ( o “anellotto”) padano, che in alcune aree si sovrappone lessicalmente al più antico ed arcaico “raviolo”. Ad esempio ad Asti alla fine del Quattrocento le “raviore” hanno assunto , presumibilmente già da tempo, il ruolo di piatto festivo delle ricorrenze più importanti ( Se ne fa ripetuto cenno nell’opera del commediografo cittadino Giovan Giorgio Allione) , ma è solo dalla fine del XVII secolo che cominciano ad essere definite anche con il termine di “agnellotti” proveniente dalla pianura padano-alessandrina , ed è solo nella seconda metà del Settecento che l’appellativo “agnolòt” diventa generalizzato e popolare, al punto da essere usato nei Sonetti dedicati ai cavalli partecipanti al Palio. La voce “raviola” sarà sospinta verso Sud in aree lingusticamente più protette e conservatrici, ed è ancora oggi comunemente utilizzata nelle colline astigiane, monferrine o langarole a sud del Tanaro. E’ bene precisare che nella gastronomia nobile e borghese dell’epoca agnellotti e ravioli sono due cose diverse, come inequivocabilmente deducibile dal ricettario sud-piemontese “Polizia e Cucina” del 1822. In esso gli Agnelotti sono costituiti da una farcia di midollo di bue, petto di pollo arrostito, formaggio, uvetta, uova e droghe; sono racchiusi in una sfoglia di pasta ben sottile, tagliata e ripiegata a tortellino “… nella nota forma quasi di corona”. Essi sono cotti in brodo grasso, e serviti in minestra con il medesimo. I “Raviuoli” invece hanno una farcia di biete stufate al burro, di ricotta e formaggio, chiusa in una pasta “.. uguale a quella degli agnelotti” e di formato simile agli attuali. Non cuociono in brodo, ma “…in molt’acqua salata a dovere…”, dalla quale, “…tratti che ne sono si condiscono a strati con burro e formaggio”, cioè si mangiano asciutti. Mentre la cucina nobile e borghese del basso Piemonte rimane fedele a lungo alla doppia natura della pasta ripena ( agnelotto carneo-grasso in brodo, raviuolo vegetale- magro asciutto) , la gastronomia popolare e contadina ibrida ed incrocia senza soggezione le due ricette, fondendole in un’unica preparazione, che alla lunga risulterà la sola ad affermarsi come “tipica”, sia pure con le sue innumerevoli varianti. L’ agnolotto-raviola popolare del Piemonte meridionale collinare e contadino è probabilmente già definito prima della “grande crisi” di fine Settecento. In questo periodo esso si afferma nell’area in esame mutuato ed adattato dalle tavole dei nobili, ma trasformato nel principale ( e spesso unico) piatto festivo delle grandi occasioni. La notevole variabilità della ricetta-base ne dimostra l’affermazione antica e radicata, che ha potuto essere adattata in un lungo periodo secondo le influenze territoriali e le esigenze economiche. Una geografia dell’agnolotto gli agnolotti-ravioli-raviole costituiscono uno dei piatti più diffusi e praticati dalla cultura gastronomica contadina del Piemonte meridionale; com’è logico la loro preparazione conosce numerose varianti, sempre però riconducibili a tipologie costanti di tipo territoriale. Tali tipologie disegnano una vera e propria “geografia dell’agnolotto” e permettono di individuare delle frontiere che all’interno della compatta “cittadella collinare” sud-piemontese delimitano sub-aree gastronomiche abbastanza nette e precise. Una prima, macroscopica frontiera separa l’area dell’agnolotto ripieno di carne stufata nel vino (Alessandrino, Lomellina, Tortonese) strettamente collegato alla cultura padano-emiliana dell’anolino o del cappelletto, da quello farcito di carni arrostite (Astigiano, Albese, Acquese, Casalese) di antica influenza genovese. in quest’ultimo àmbito si assiste un’ulteriore differenziazione tra l’area casalese ( dove l’agnolotto è farcito prevalentemente di carni miste ammorbidite con cervella, filoni, animelle e pochissime verdure cotte) e l’area astigiana-albese- acquese ( dove alle carni si accoppia una considerevole quantità di verdure cotte). Anche in quest’ultima ripartizione si rilevano due ulteriori sottozone: quella astigiana , dove alle carni ed alle verdure cotte si abbina il riso e percentuali più o meno notevoli di salumi cotti; quella albese-acquese dove tali abbinamenti non sono praticati. Restringendo progressivamente l’obbiettivo siamo dunque arrivati a delimitare un’area dell’agnolotto “astigiano”, corrispondente in gran parte con l’attuale provincia esclusa la parte meridionale della valle Bormida, e la zona nord-orientale . Quest’ultima, che ha funzione di “area cuscinetto” più che di fringe-belt, ha elaborato un suo agnolotto assolutamente originale, già a partire da nome: è l’area delle Lasagni, come vedremo più oltre. Il comprensorio dell’agnolotto “astigiano”, assai più vasto rispetto a quello delle Lasagni, è poi articolato al suo interno da ulteriori sub-aree a “macchia di leopardo” , con l’affermazione di varianti che pur senza mettere in discussione la tipologia di riferimento ne costituiscono espressioni vernacolari non di rado di estremo interesse. Un ingiustificato anatema gastronomico Qualsiasi scritto di cucina locale o regionale, a proposito degli agnolotti del Piemonte, si sente in dovere di scagliare un vibrante anatema nei confronti dell’usanza di servirli cosparsi di sugo di carne, avvertendo, con manicheistica risolutezza, che essi vanno rigorosamente e tassativamente serviti con burro e salvia, o in alternativa con il “sugo d’arrosto”, cioè il fondo di cottura dell’arrosto opportunamente sgrassato e mantecato. Tale anatema può essere sicuramente condivisibile davanti a certi agnolotti ristorantizi pesantemente impapocchiati di abbondanti ragù rossi come il fuoco, o di esasperanti sughi “alla boscaiola” con funghi, o di altre amenità; in questi casi si può essere certi che tali improprii condimenti costituiscono sempre il problema minore, e che il problema maggiore è rappresentato dagli agnolotti stessi, parto di cucine dove la Tradizione ed il Territorio sono stati da tempo banditi. Ma, proprio per rimanere nell’ambito di questi due irrinunciabili valori, al riguardo dei “nostri” agnolotti i gastronomi devono fare abbondante autocritica. La nostra Tradizione contadina, unitamente al Territorio che la esprime, ha elaborato da molto tempo un sistema di preparazione dell’agnolotto asciutto estremamente piacevole, caratterizzante, autentico. E’ indubbio che fino all’inoltrato Ottocento gli agnolotti, come tutte le paste asciutte, ripiene o no, sono sempre stati ammanniti con il condimento di burro fuso, parmigiano e spezie “dolci” ( cannella, cumino, noce moscata). Ma già nel Rinascimento è diffuso l’uso di abbinare le paste alla carne, dapprima con funzioni di contorno delle prime nei confronti della seconda, poi, ribaltando le proporzioni, nel corso del Settecento la seconda diventa “condimento” della prima. Nel 1773 Vincenzo Corrado fornisce la ricetta di un pasticcio di maccheroni conditi “con denso sugo di manzo, salsicce di porco, funghi, tartufi e presciutto, tutto trito e cotto nell’istesso sugo” (V.Corrado, Il cuoco galante, Napoli 1773). Nel 1822 l’uso è già stabilizzato anche nel sud Piemonte, dove il ricettario borghese “Polizia e Cucina” consiglia di servire lasagne e “crocette” ben cosparse con il sugo di carne di lepre o di stufato. il nostro mondo contadino, che nel corso dell’Ottocento ha negli agnolotti uno dei suoi pochissimi piatti “ricchi” e festivi, desume dalla gastronomia borghese e nobile il modo di “condire” le paste asciutte, e adotta tale uso per conferire maggior fasto ad un mangiare “di rappresentanza”. Tale operazione è condotta con estrema saggezza: il “condiment” non è affatto un’aggiunta “di contrasto” a base di sapori estranei, ma è un “rinforzo” che amplifica il sapore del ripieno collocando le stesse carni anche all’esterno dell’agnolotto. Il condiment è infatti preparato con una parte esattamente simmetrica degli arrosti utilizzati per la confezione del ripieno, finemente tritati e poi lungamente brasati, quasi quintessenziati con l’aggiunta di brodo e di pochissima conserva di pomodoro, che non deve notarsi ma solo riscaldare ed impreziosire il colore. Il concetto del “rinforzo” è presente anche, ad esempio, nell’agnolotto alessandrino, dove lo stufato al vino rosso utilizzato nel ripieno viene impiegato anche per la realizzazione del “sugo”. Per concludere, il “condiment” a base di carne arrostita e brasata è inscindibile dall’agnolotto contadino tradizionale; il suo impiego non sfalsa affatto il pregio organolettico del piatto (che si è evoluto nel tempo per recepirne lo strettissimo connubio) , purché la sua realizzazione sia eseguita secondo i canoni fissati localmente dalla tradizione. LE “ LASAGNI” DEL MONFERRATO ASTIGIANO. Si è detto in precedenza che tra il Monferrato casalese e l’Astigiano esiste una ristretta “zona cuscinetto” che ha elaborato una propria autonoma cultura dell’agnolotto. Tale zona corrisponde alla maggior parte dei comuni del Monferrato “di qua del Tanaro” oggi compresi nella provincia di Asti, ed ha il suo epicentro nel triangolo Tonco-Moncalvo-Montemagno. La “diversità” comincia dal nome della ricetta: nella zona , caso a quanto si sa unico in Italia, è definito “LASAGNI”. L’origine del termine sembra collegabile alla sfoglia di pasta usata per l’elaborazione, già in epoca romana definita “lagana”; è probabile che in antico la dizione completa fosse “lasagne ripiene”, poi contratta nella forma attuale. Impossibile stabilirne l’antichità , vista la reticenza delle fonti scritte e la ristrettezza dell’area di diffusione. E’ comunque verosimile che si tratti di un’origine decisamente antica. La ricetta più schietta, autentica e profondamente locale è invece un probabile punto d’arrivo di elaborazioni e sperimentazioni condotte nel mondo contadino nel corso dell’Ottocento, alla ricerca di un giusto equilibrio tra economizzazione degli ingredienti e apprezzabilità del risultato finale. Sta di fatto che le rustiche, quasi rudi Lasagni contadine sono decisamente superiori per carattere ed individualità alle più indefinite e generiche Lasagni prodotte in loco dalla cucina borghese e ricca. Innanzitutto tendono ad escludere dal ripieno qualsiasi altra carne che non sia quella, autarchica, del coniglio; affidano il rafforzamento del sapore al cotechino tradizionale ( sempre intensamente profumato di spezie) ed al cavolo stufato. Impiegano un delicato condimento di coniglio arrostito e brasato a lungo con il brodo , ma rifuggono con sdegno all’uso della conserva, non tollerata neanche in quantità minime per ravvivarne il colore. Le Lasagni contadine sono dunque agnolotti dai sapori primari ben netti e puliti, il cui poetico, apparente arcaismo è conferito più dalla suggestione della loro inusualità che da un’ effettiva semplicità culinaria. La ricetta Una ricetta “originaria” mediata tra le testimonianze raccolte potrebbe essere la seguente. Per il ripieno: un grosso e nobile coniglio di cascina; un grosso, perfetto cotechino nostrano “di una volta”, di quelli molto profumati, ricchi di cotenna, di grandi dimensioni, che ormai è possibile trovare solo più dagli ultimi salumieri di paese; un mezzo cavolo non grande. Per la pasta, 5 uova per chilo di farina. Il coniglio si arrostisce in tegame con olio e burro, qualche spicchio d’aglio intero, profumo di rosmarino, bagnando di tanto in tanto con un po’ di brodo. A parte si lessa bene il cotechino e si sbollenta il cavolo sommariamente trinciato. Lo stesso cavolo, ben strizzato e sgocciolato, si fa poi stufare bene con burro. Una volta arrostito a puntino il coniglio, si scarna completamente, lasciando da parte il fegato, le altre interiora ed una manciata della carne meno filosa e asciutta ( come quella ricavata dal collo, ad esempio). La carne del coniglio, il cotechino cotto e spellato, il cavolo stufato, si tritano finemente con un tritacarne, ricordando che a metà del secolo scorso l’operazione era rigorosamente eseguita a mano, con la mezzaluna. Il trito ottenuto si lega con un paio d’uova, una grattatina di noce moscata, un pugno di parmigiano ( di cui, in passato, se ne faceva la massima economia). Si prepara la pasta con le dosi sopra ricordate, e si confezionano le Lasagni nel modo classico degli agnolotti, depositando la farcia a mucchietti allineati sul bordo della sfoglia, poi ricoprendoli rivoltando su di essi la sfoglia medesima, infine tagliandoli su tre lati con la rotella dentata e depositandoli su una salvietta per una breve asciugatura. Si fanno poi lessare in abbondante acqua salata e si depositano da mano a mano nella zuppiera condendoli a strati con l’apposito sugo di coniglio. Per farlo, si trita finemente la carne di coniglio messa da parte, poi si rosola nel tegame dove era precedentemente arrostito il coniglio stesso, con una cipollina ben tritata, qualche foglia di lauro ed un rametto di rosmarino; si copre a filo con del buon brodo e si lascia stufare a lungo, rinnovando l’aggiunta del brodo ogni qualvolta sia necessario. TESTIMONIANZE Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa (Montemagno) “Qui da noi si chiamano LASAGNI. Il modo più vecchio per farli , che si usava nelle cascine e qualcuno usa ancora adesso, è con il coniglio arrosto, solo coniglio, fatto arrostire con olio, burro, un po’ d’aglio e un po’ di rosmarino. Poi si scarna e si aggiunge un salamino ( cotechino) già cotto, e cavolo prima sbollentato poi passato a rosolare nel burro. Quanto cavolo? Mah, una volta si metteva più cavolo che carne, però per un bel coniglio grosso un mezzo cavolo ci sta tutto…La pasta si faceva allora con 4 o 5 uova per chilo di farina, mica di più, ma adesso se ne mettono di più . Le lasagni in casa nostra si fanno piuttosto piccole, quadrate. Per condirle qui in paese si usava solo il sugo di coniglio, fatto con una parte del coniglio che si adoperava per fare il ripieno, ben tritato poi andato con una cipolla tritata e bagnato con brodo, nient’altro, solo un po’ di rosmarino e lauro. Niente conserva, per carità! Per chi se lo poteva permettere ci voleva il formaggio da grattare, alla fine.” Vincenzo Testa, Moncalvo. “Qui da noi si chiamano “Lasagni”. Una volta si facevano poche volte all’anno, e sempre nell’Inverno, per le feste più grosse; dipendeva da chi ne aveva da spendere! A Carnevale però li facevano tutti, guai passare carnevale senza Lasagni! In campagna le facevano tutti uguali, non cambiavano mica sistema, bisognava farle con quel che c’era in casa, allora si andava a comprare più poco possibile (…) . Per fare le Lasagni si usava il coniglio arrostito, poi si metteva un cotechino, e magari, chi poteva, un pezzetto di carne di maiale o di manzo, ma erano pochi. Alla carne si aggiungeva un po’ di verdura, o spinaci o cavolo, ma quasi sempre il cavolo perché nell’orto ce l’avevano tutti, gli spinaci magari no. Anche la verdura si sbollentava, poi si rosolava con un po’ di burro, e magari una fisca d’aglio…poi si tritava tutto con la mezzaluna e si faceva il ripieno, con le uova e un po’ di formaggio da grattare, ma poco, per non spendere. Anche nel “foglio” si mettevano poche uova, tre o quattro, non di più. Le Lasagni in campagna non sono tanto piccole, anche se non devono essere grosse; devono essere quadrate, ecco, e fatte a mano girando il foglio…invcece adesso le donne moderne le vogliono con il “plin”, “adess a j’è l’plin, a seu manch sa ch’a sia, s’plin! ”. Per condirle si faceva il condimento con il coniglio arrostito, tritato fine fine con la mezzaluna, poi tirato con il brodo, piano piano, anche due ore o più, solo con un po’ di cipolla e rosmarino, senza altre verdure…e guai a metterci la conserva! AGNOLOTTI ASTIGIANI E’ la tipologia specifica del territorio “non monferrino”, corrispondente all’antica, storica “Patria d’Astesana”. La ricetta di base, con tutte le sue numerose ma blande varianti, è praticata sia a Nord che a Sud del Tanaro. Il ripieno è costituito da carni di bovino, di maiale e di coniglio in proporzioni variabili, ma quasi sempre contemporaneamente presenti; sporadico e circostanziato è l’uso di piccole percentuali di carne di pollo o di insaccati ( salame cotto o salciccia ). Le carni sono sempre, senza eccezione, accompagnate da una consistente percentuale di verdure stufate; nella parte nord-occidentale sono sempre rigorosamente rappresentate dal cavolo o dagli spinaci, mentre l’area centro-meridionale vede un leggero predominio della scarola. Frequentissimo è l’uso del riso, quasi sempre in forma di risotto, e la sua assenza è dovuta esclusivamente a predilezioni e gusti famigliari. La pasta del ripieno è generalmente molto povera di uova, usate in numero mai superiore alle cinque per chilo di farina, molto spesso tre o quattro. Più che alle apparenti ragioni di economia, lo scarso ricorso alle uova dipende da scelte dettate da precisa esperienza culinaria. Diverse signore intervistate hanno fatto notare che la pasta povera di uova, cuocendo, aderisce meglio al ripieno, avvolgendolo e sigillandolo, preservandolo così da indebiti ingressi dell’acqua di cottura; al contrario la pasta ricca di uova, per quanto sottile, tende a rimanere più rigida ( diverse signore hanno usato l’aggettivo “rèida”), con il rischio di un ripieno sciabordante all’interno nel liquido di cottura infiltrato, e con il risultato di agnolotti umidi o peggio sgradevolmente grondanti. Il formato di questo agnolotto è quadrato tendente al rettangolare, festonato su tre lati, di dimensioni mai esigue, comprese fra i 2,5 ed i 3 cm. di lato. Obbligatoria è la presenza di un condimento di carne, ricavato dagli stessi arrosti utilizzati per il ripieno, tritati e brasati per lungo tempo con brodo ed una punta di conserva casalinga atta a ravvivarne il colore. Sporadica è l’aggiunta di salciccia o di battuto di verdure, che ne sfalsano il risultato rendendolo simile al normale “ragù di carne” utilizzato per le paste asciutte generiche. La ricetta I tre tipi di carne per il ripieno sono impiegati generalmente in proporzioni variabili e non codificate, suscettibili un tempo delle disponibilità economiche della famiglia, in seguito delle radicate tradizioni domestiche. In genere la carne di manzo o vitello è pari alla somma di quelle di maiale e di coniglio , e fra queste la carne di maiale deve essere nettamente predominante. Sia del vitello che del maiale la parte di gran lunga più utilizzata è il collo, che rimane umido anche dopo cotture prolungate; del coniglio si usa di preferenza la sella o carrè, in zona denominato “rognon”. Le carni si rosolano insieme, dentro una capace casseruola, dapprima colorite e dorate con olio e burro a fuoco vivo, poi bagnate ripetutamente ed abbondantemente con brodo, e portate a cottura incoperchiate. Si tratta in sostanza di un “arrosto morto” che mantiene le carni morbide e succulente, e permette di ottenere un abbondante fondo di cottura. Il processo di cottura non prevede altri ingredienti al di fuori del sale, pepe, rosmarino e, soprattutto in passato, spicchi d’aglio “vestito” da togliersi alla fine. Degli arrosti se ne riserva una parte da utilizzare per il condimento, tutto il resto viene tritato finemente ( un tempo a mezzaluna, oggi con un tritacarne) e raccolto in un grilèt ( terrina). Nel fondo di cottura degli arrosti, rinfrescato con poco burro, si prepara un risottino “in bianco” con una grossa manciata di riso, “tirandolo” a cottura con brodo buono. Varianti prevedono un risotto bianco preparato ex novo con un battuto di cipolla rosolato nel burro, altre ancora si limitano a lessare il riso nel brodo di carne. La parte vegetale è sempre preventivamente prelessata, poi stufata al burro con la facoltativa presenza di spicchi d’aglio in funzione aromatizzante. La scelta dell’ortaggio impiegato è fortemente condizionata dalla rigida stagionalità dell’agnolotto, che il mondo contadino pratica essenzialmente nell’ autunno-inverno, epoca nella quale cavoli e spinaci sono le verdure più reperibili. Delle due, il cavolo risulta quella più largamente impiegata; lo spinacio, apprezzato per il suo sapore deciso, ha una posizione leggermente minoritaria a causa dell’intensa colorazione che conferisce al ripieno. Nelle aree a ridosso della valle del Tanaro è diffuso l’uso della scarola, ritenuta di gusto più delicato; sporadicamente risulta impiegato anche il verde della bieta. Tornando alla confezione del ripieno, le tre componenti ( carni arrostite, verdure stufate e risotto) una volta tritate finemente vengono assemblate e ridotte a farcia legata con qualche uovo intero, profumata con parmigiano ( il cui uso, nella cucina contadina, era comunque sempre molto parsimonioso), pepe e noce moscata. Il ripieno viene disposto sul foglio di pasta a mucchietti regolari utilizzando un cucchiaio ed un coltello ( o forchetta) , più rapamente manipolato in piccole polpettine. Il lembo inferiore del foglio viene ripiegato sul ripieno e sigillato lateralmente ad esso schiacciandolo con due dita o con la mano “ a taglio”. Del tutto sconosciuta nella tradizione locale è la sigillatura laterale con il “pizzicotto” usata nella val Bormida langarola per gli agnolotti “del plin”, che pure negli ultimi decenni sono stati indebitamente “adottati” dai ristoranti della zona, diventando di uso comune. L’agnolotto viene poi tagliato con la rotella dentata su tre lati, e disposto su una salvietta per una breve asciugatura. Lessato in abbondante acqua salata è pescato con la schiumarola e condito a strati nella zuppiera di servizio. Il condimento è preparato in precedenza tritando finemente una parte degli arrosti usati per il ripieno. Il trito è fatto brasare a lungo con brodo buono, rosmarino o lauro ed una piccola quantità di conserva casalinga, che ha la sola funzione di migliorarne l’aspetto cromatico, conferendo al condimento una calda tonalità color camoscio. Alcune varianti arricchiscono la base degli arrosti con salciccia fresca rosolata, o inseriscono un battuto di verdure “da ragù” nella prima fase di rosolatura. Diffusissima, anche se generalmente riservata ai soli commensali uomini, è l’assunzione dell’agnolotto “ al vino”: i primi agnolotti cotti vengono schiumati e portati in tavola sconditi entro fondine o scodelle, quindi abbondantemente irrorati con vino rosso generoso e consumati come energetico hors d’oeuvre . TESTIMONIANZE Maria Vergano (Villanova) Gli agnolotti non si facevano tanto di sovente: per Carnevale sì, per Natale, per la Madonna, per Sant’Isidoro…allora si facevano, e si facevano buoni, senza economia. Per il ripieno si usa carne di manzo e di maiale, meglio il collo, e anche un po’ di salciccia, ma non tanta. Una volta si usava nettere anche qualche pezzo di coniglio, e addirittura, se c’era un cappone, anche un pezzo di cappone. La carne si arrostisce intiera, con il rosmarino, il lauro e qualche fisca d’aglio, e si bagna con un po’ di brodo, perché non deve essere troppo asciutta. Per questo è meglio usare il collo, che sta sempre un po’ più umido., Per fare il ripieno tritavamo gli arrosti con il capulau, fini fini…una fatica. Poi si metteva una bella brancata di verdure, spinaci o cavoli secondo la stagione, stufate nel burro. Anche il riso, il riso ci vuole. Si fa un po’ di risotto bianco nel sugo degli arrosti, con burro e formaggio da grattare. Poi si fa il ripieno, tutto tritato fine, e si mettono le uova e il parmigiano. Eh, una volta non ne mettevano tanto, ma noi in casa nostra facevamo il Formaggio che è buono da grattare, e usavamo quello senza bisogno di fare economia. Nel ripieno ci vuole anche un po’ di noce moscata, ma io ne uso poca o niente, perché in famiglia non piace tanto. Poi col ripieno si fanno gli agnolotti…Per la pasta usiamo 4 o 5 uova per chilo di farina. Adesso tante donne usano gli stampi, ma noi li facciamo ancora a mano come una volta, sono più buoni e più belli. Stendiamo il foglio sottile, e mettiamo il ripieno. Io lo metto con le mani, faccio delle palline…mia nuora usa cucchiaio e forchetta. Giriamo il foglio sopra, e lo schiacciamo intorno, poi si taglia con la rotella. Qui non si fanno piccoli e nemmeno con il “plin” come usa adesso. Li facciamo ben pieni e grossotti, quadrati…ma tanto non ce n’è uno preciso agli altri…! Per condirli ci vuole il sugo…Teniamo da parte un pezzo degli arrosti, poi lo tritiamo fine con la mezzaluna, magari aggiungiamo un po’ di salciccia fresca e lo facciamo “andare” con il brodo buono, un battuto di verdure e un cucchiaio o due di conserva della nostra, piano piano. Più sta sul fuoco più viene buono. Non deve mica essere rosso, la conserva deve solo dare un bel colore camoscio, se no il sugo solo con la carne è troppo smorto. Gli agnolotti si mangiavano volentieri al brodo, se si faceva cuocere un cappone o la gallina e c’era il brodo buono. Anche asciutti, era meglio ancora. Noi al vino non si usava, ma altri li mangiavano…” Qui si chiamano “agnolot” ma qualcuno anche “raviole”. Quando si scherzava si diceva anche “ mnestra quadra”. Amerio Margherita ( Dusino) “Gli agnolotti i vecchi li chiamavano “pianeli”. La ricetta di mia nonna, tramandata a mia mamma e poi a me, le arrivava da sua nonna, e questo gliel’ho sentito dire tante volte. Per il ripieno si usava carne di manzo e di maiale, brut-e-bon per il primo, collo per il secondo. La carne si arrostiva intera, solo con un po’ di rosmarino, lauro, sale e pepe, e si bagnava con poco brodo mentre cuoceva. Sovente si aggiungeva agli arrosti un pezzo di coniglio, però manzo e maiale erano sempre la parte più consistente. Oltre alla carne si metteva, anzi, si mette perché li facciamo ancora così, il verde: spinaci o cavoli a seconda della stagione. Si fanno sbollentare poi si saltano in padella con olio, burro e profumo d’aglio. E poi il riso, una bella manciatona, che si fa bollire nel brodo. Allora, carni arrostite, verdure saltate e riso cotto, si passa tutto, si fa il ripieno con le uova e il parmigiano, sale, niente pepe ma bene di noce moscata. Per la pasta, usiamo da sei a 10 uova per chilo di farina, anzi, metà uova intere e metà tuorli. Si tira sottile come quando si faceva con la pressia, solo che oggi si usa l’Imperia, e si fanno gli agnolotti, si posa il ripieno sul foglio con cucchiaio e coltello e si gira il foglio, poi si taglia con la rotella e si fanno asciugare un momento su una salvietta, a pancia in giù. (…) Per condirli ci vuole il suo sugo, non mi vengano a dire, i nostri, quelli tradizionali, devono avere il loro sugo, altro che burro e salvia. Noi in casa non abbiamo cambiato sistema, sempre uguale a quello della nonna, davvero non possiamo neanche immaginare di cambiare (…) Per fare il sugo, trito una parte degli arrosti del ripieno, poi faccio andare il trito nel loro sugo, rinfrescato con un po’ di burro, e ben bagnato con del brodo,…. ah, e una punta di conserva casalinga . Deve stare il più possibile a consumarsi, e bisogna aggiungere sempre altro brodo per non farlo asciugare troppo. Ci vuole anche del rosmarino e un po’ di lauro; ai tempi di mia nonna si metteva anche l’aglio, ma noi non lo mettiamo più, troppo forte. Ricordo mia nonna che raccontava che quando era ragazza gli agnolotti si facevano più o meno ricchi a seconda delle occasioni. Quelli ordinari, che però si facevano poi due o tre volte l’anno, a Natale, a Carnevale, poco di più, allora si facevano con parecchia verdura, molto riso e poca carne, e quasi tutta di coniglio, con un po’ di maiale che tante volte era poi salame cotto o salciccia di casa. Se però l’occasione era di quelle grosse, una sposa per esempio, o il “disnè del retor” allora si facevano ricche, senza economia. Maria Ferrero, Montechiaro. “Eh, per gli agnolotti ognuno ha i suoi gusti! Ognuno li fa nel modo che gli hanno insegnato i loro vecchi…Noi a casa mia facevamo il ripieno con otto etti di carne di manzo, quattro etti di maiale, due etti di salciccia…, oppure un pezzo di coniglio, se si ammazzava un coniglio. E poi verdura, si capisce, a usare solo carne stanno troppo asciutti. Si usavano gli spinaci, o il cavolo, o le coste… secondo quello che c’era nell’orto, secondo la stagione. Il riso non lo mettevamo, anche se altre famiglie lo usavano…noi no, non si metteva neanche il formaggio grattato, era già fin troppo avere il ripieno…. La pasta si faceva con poche uova, tre per chilo di farina bastavano…Se si mangivano asciutti, li condivamo con un sugo di cipolla e conserva della nostra…la carne no, c’era già nel ripieno!” Costantina Scuvero, Montechiaro: “mia mamma faceva il condimento per gli agnolotti con un cotechino; faceva rosolare la cipolla tritata, poi metteva il cotechino sbriciolato e un po’ di conserva, e bagnava con del brodo….” AGNOLOTTI IN BIANCO DI COCCONATO. Il territorio costituente l’antica contea di Cocconato ( Cocconato, Passerano Marmorito, Moransengo, Brozolo, Robella) godette lunghi secoli di autonomia politica ed amministrativa, e solo negli ultimi anni del Cinquecento entrò stabilmente a far parte della Contea di Asti. Storica area di confine, e quindi aperta agli scambi ed alle contaminazioni, dal punto di vista culinario ha elaborato declinazioni locali abbastanza caratterizzate nell’ambito della comune civiltà gastronomica sud-piemontese. Un esempio è costituito da questi agnolotti, che assommano peculiarità proprie delle Lasagni monferrine e degli Agnolòt astigiani, ma che in sostanza si distaccano da entrambe le matrici. Il ripieno è costituito da abbondante coniglio arrosto abbinato a pari quantità di carne bovina, e da un mediocre apporto suino limitato a piccole percentuali di salame cotto. La parte verde, comunque abbondante è costituita prevalentemente da spinaci o in alternativa dai cavoli, entrambi sbollentati e poi stufati con aroma d’aglio. Il riso è presente, anche se non in maniera generalizzata. Il ripieno così confezionato presenta notevoli punti di contatto con l’agnolotto praticato nell’attigua val Cerrina, che pure se ne distacca per un ridottissimo uso delle verdure, e soprattutto per un elevato impiego di uova nella sfoglia. Per quanto riguarda l’agnolotto cocconatese, per contro, le testimonianze raccolte sono concordi nell’affermare che la pasta dell’involucro era in antico confezionata senza uova, e che solo nell’epoca fra le due guerre il loro uso, sempre molto ridotto ( due, tre per chilo di farina) , si è stabilmente generalizzato. Il formato di questo agnolotto è generalmente piuttosto piccolo, più rettangolare che quadrato. Assolutamente originale, nel panorama della gastronomia contadina del territorio, risulta essere il sistema di condimento, costituito da burro fuso ( in alternativa burro e olio) , non di rado portato al color nocciola, profumato con rosmarino, alloro e poco aglio intero. La variante “di lusso” di questo condimento prevede l’aggiunta del fegato di coniglio tritato finissimo; assolutamente mai altre carni o conserva. Questo agnolotto “bianco” cocconatese viene recepito nella memoria attuale come frutto della povertà e della parsimonia; in realtà è piuttosto il frutto di un’ “area di resistenza” , di una vera e propria “riserva indiana” dove è stata segregata, sopravvivendovi, la più antica modalità di condimento, già praticata e documentata in epoca medievale, in seguito sconfitta e scacciata dall’avanzata ottocentesca del sugo di carne. TESTIMONIANZE Angela Bersano, Moransengo. Per il ripieno si usava il coniglio, ma anche un bel pezzo di arrosto, metà e metà, poi un po’ di salame cotto. Qualcuno metteva anche il riso, ma a casa nostra non usava. E spinaci, solo spinaci, ci piacevano di più, anche se tanti altri usavano il cavolo. La pasta si faceva con poche uova, a volte anche nessuna, perché anche con poche era già un lusso” Bruna Perotto, Cocconato: “mia mamma faceva come sua nonna, facevano la pasta degli agnolotti senza uova. Un giorno aveva invitato una persona importante e aveva fatto gli agnolotti per fare bella figura. Ben, si sono aperti tutti cuocendo, tutti an fass! Mia mamma piangeva per la vergogna e per la rabbia, ma quel signore ci scherzava per non farla soffrire. Prima di andare via le ha detto : un’altra volta che fate gli agnolotti, mettete due o tre uova per fare la pasta, e anche un cucchiaino d’olio, vedrete che non si aprono più. Mia mamma da allora aveva poi sempre fatto così, e gli agnolotti sono sempre venuti belli!” Giuseppina Parena, Cocconato: “Vi ricordate, per condire gli agnolotti non si faceva neanche il condimento ! Si prendeva un po’ di burro con un po’ d’olio, si faceva venire color nocciola con qualche spì d’aglio, rosmarino e lauro, poi si condivano con quelli. Ma erano buoni…erano fatti con roba buona….” Angela Bersano: “ Si, si, invece qualche volta se si usava il coniglio si teneva il fegato, poi si tritava fine fine e si faceva andare con una cipolla tritata, piano piano in un padlot, si bagnava con il brodo, con un po’ d’aglio e un po’ di rosmarino, niente d’altro, nemmeno un po’ di conserva come fanno adesso…” AGNOLOTTO COCCONATESE DI GALLINA IN BRODO DI GALLINA Quanto detto in precedenza a proposito della cultura gastronomica dell’antica contea di Cocconato, è esemplificato anche da questo particolarissimo tipo di agnolotti, non riscontrabile in nessun’altra località del territorio collinare sud-piemontese. Le testimonianze in merito sono avvolte dalla reticenza e da una sorta di pudore, in quanto anche in questo caso la memoria attuale recepisce la ricetta come simbolo di povertà, di disagio e di penuria. In effetti è versosimile che la sua ideazione nasca da una cucina profondamente autarchica, tesa ad utilizzare esclusivamente le materie prime autoprodotte; una cucina autarchica ma certamente non isolata, che riproduce ( potremmo dire “scimiotta”, se il verbo non apparisse irriguardoso) anche in questo caso preparazioni auliche e raffinate affidandosi esclusivamente alle proprie forze ed alle proprie risorse. Agnolotti o tortellini in brodo farciti di petto di cappone, poppa di vitella, formaggio, uvetta, mandorle etc. sono presenti nei ricettari nobiliari italiani del XVII e XVIII secolo, ed è probabile che ad essi, più che all’indigenza, si ispirassero le cuoche cocconatesi coeve. In seguito la definitiva adozione dell’agnolotto ripieno di carni quadrupedi e ortaggi ha confinato la ricetta arcaica nel limbo della cucina “povera” , dunque desolatamente “ignobile” ( nel senso di “non nobile”), dunque da rimuovere e da non rimpiangere, come tutte le testimonianze di un passato di stenti e di povertà. In realtà la ricetta ha la straordinaria eleganza e raffinatezza delle cose semplici ed essenziali, e può costituire un caposaldo di grande cucina territoriale soprattutto quando si avvale di materie prime autentiche, come, in questo caso, le galline “Bionde” che razzolano nei cortili della zona. La ricetta Era praticata soprattutto per l’ultimo giorno di Carnevale, quando bisogna mangiare di grasso, ma quando la solennità non è tale da giustificare una cucina fastosa e costosa. una bella gallina bene in carne si faceva lessare con le verdure e gli odori da brodo, dopo averle asportato tutte le interiora. La bollitura era condotta a più riprese, alternate a raffreddamenti, in modo da avere le carni ben rosate e tenere. Dalla gallina si staccavano poi il petto, le cosce e le altre parti più carnose, riservate al consumo diretto; la pelle e tutto quanto pazientemente ricavato dal resto della carcassa (compresa la testa e le zampe) era utilizzato per gli agnolotti. Fegatino, gricile, regaglie, ovaie, cresta, addirittura la trippetta ricavata con molta pazienza dall’intestino, tutto veniva rosolato con una cipolletta tritata. Nel fondo di questa rosolatura, con un ramaiolo del brodo di gallina, si cuoceva poi una manciata di risotto in bianco. Qualche foglia di cavolo era fatta sbollentare e stufare al burro. Tutti gli ingredienti (carni, interiora, pelle, cavolo, riso) venivano tritati a mezzaluna, poi ammorbiditi con mollica di pane bianco inzuppata nel latte (saggia ed utile aggiunta, vista la consistenza un po’ granulosa del solo trito di carni), e infine legati in farcia con qualche uova. Una volta confezionati, gli agnolotti erano lessati nel brodo della gallina (che una volta, non dimentichiamolo, era amato soprattutto se ben grasso) e serviti in minestra. Seguiva poi, come secondo piatto, il resto della gallina passato in padella con burro, olio, aglio e rosmarino. TESTIMONIANZE Maria Luisa Giachino, Cocconato. “Quand’ero piccola c’erano ancora famiglie che facevano gli agnolotti solo con la gallina. Facevano tutto un pranzo con la gallina, quando c’era festa. Facevano bollire la gallina così avevano il brodo; poi toglievano la pelle, tutte le interiora, il fegatino, le trippette, poi scarnavano il collo, la punta delle ali, la testa, perfino le zampe e con quella roba facevano il ripieno degli agnolotti. Ci mettevano anche un po’ di cavolo, un po’ di riso, e invece del formaggio mettevano mollica di pane inzuppata nel latte. Poi facevano gli agnolotti in brodo, li mangiavano in brodo, e dopo mangiavano i pezzi più belli della gallina, magari ripassati in padella con olio e burro. Giuseppina Parena, Cocconato. “ A Carnevale c’era l’abitudine di fare gli agnolotti di gallina, perché bisognava fare festa, ma tutti guardavano di non spendere tanto. Allora si faceva bollire una bella gallina, così c’era il brodo e anche la carne, poi con tutto il resto delle parti meno belle si facevano degli agnolotti da mangiare in brodo. Si tirava giù tutta la pelle, poi cosa c’era attaccato al collo, alle ossa. Fegato e prè si facevano friggere, e si mettevano. Poi mollica di pane bagnata nel latte, non si metteva mica il formaggio. E si facevano gli agnolotti così, poveri noi che miseria…ma allora quando c’erano erano tutti contenti lo stesso. AGNOLOTTO VILLAFRANCHESE DI “VECCHIA”. Un tentativo di repertorio dedicato alle preparazioni culinarie territoriali non può esimersi dall’esaminare anche piatti desueti o scomparsi, se di essi è ancora accertabile la memoria. Non di rado tali piatti possono essere sottratti all’oblio e reintrodotti con successo nell’uso comune; altre volte, purtroppo, il ripristino è reso difficile, se non impossibile, dalla scomparsa di determinate materie prime. E’ il caso di questi magnifici, originalissimi agnolotti di Villafranca d’Asti, da ritenersi attualmente estinti per l’estinzione dell’ingrediente di base: la carne della “Vegia”, cioè della mucca vecchia appositamente macellata a Natale per la preparazione di questo piatto. La carne della vaccina “a fine carriera” ( come si definisce in termini zootecnici) è sempre stata disprezzata dai dietologi e dai gastronomi di ogni epoca, per la sua consistenza tigliosa, per il suo sapore marcato, per la sua scarsa resa, e relegata al consumo diretto delle classi subalterne ( ad esempio nel corso del XVIII secolo nella città di Asti la carne di vacca vecchia era usata nell’alimentazione dei carcerati o nella sostentazione dei poveri elemosinanti) o a utilizzi alternativi ( ad es. per la fabbricazione di insaccati a poco prezzo). Risulta impossibile, al momento, capire perché la comunità di Villafranca , andando controcorrente, la abbia eletta a blasone gastronomico universalmente accettato , apprezzato e condiviso; sta di fatto che la macellazione della Vegia assumeva in passato una connotazione quasi rituale di celebrazione della propria identità culinaria. L’agnolotto di Vegia era l’apoteosi di questa celebrazione. La sua preparazione non si discostava dalla tipologia dell’agnolotto astigiano classico. La carne era lungamente arrostita con brodo, ed eventualmente, ma non sempre, abbinata a qualche pezzo di coniglio arrostito. Gli altri ingredienti erano quelli classici: verdura, sempre , rappresentata da spinaci o in alternativa da scarola, entrambi stufati al burro; riso, frequentemente, cotto in risotto bianco, uova, parmigiano grattugiato, profumi. La pasta era confezionata con cinque o sei uova per chilo di farina; il formato dell’agnolotto prevedeva dimensioni piuttosto grandi, spesso superiori ai tre cm. di lato. Il condimento era quello classico ancora in uso, preparato con la carne del ripieno pazientemente tritata e brasata a lungo con brodo e una punta di conserva, a volte “rinforzata” con il fegato del coniglio. La “differenza” di questi agnolotti era costituita proprio dalla carne di Vegia che conferiva al ripieno e al condimento una consistenza ed un sapore inimitabili. Ignoro se le leggi attualmente in vigore consentono la macellazione delle vacche vecchie per il consumo alimentare, e se la tradizione villafranchese sia in qualche modo recuperabile. Considerando il fatto che la Vegia era utilizzata anche per altre interessanti preparazioni, ritengo che in ogni caso sia una strada da provare a percorrere. TESTIMONIANZE Costanza Sardo, Villafranca. “Qui da noi gli agnolotti si facevano due o tre volte nell’Inverno, mica di più, per Natale, per Carnevale e poche altre occasioni. Sotto Natale i macellai del paese ammazzavano una mucca vecchia, che tutti chiamavano semplicemente “la Vegia”; quando si diceva in giro “j’an massà la vegia” faceva ridere, sembrava avessero ammazzato una donna, ma voleva dire che era ora di fare gli agnolotti. Gli agnolotti qui si facevano solo con la Vegia, arrostita, non c’è una carne migliore per farli, perché è rossa, saporita, non è mai asciutta. Si metteva anche un pezzo di coniglio arrostito, ma si potevano fare solo di Vegia, e tanti lo facevano. Poi si metteva anche la verdura, una volta si preferivano gli spinaci perché hanno il gusto più saporito, ma fanno stare il ripieno un po’ troppo verde, allora qualcuno, come noi, usava la scarola stufata nel burro. Poi si metteva anche il riso, ma in casa mia non si usava tanto, e il parmigiano grattato. La pasta si faceva con cinque o sei uova per chilo di farina. Gli agnolotti erano grossotti, anche se mia nonna, che veniva dalle parti di Viale, li faceva più grandi che le altre donne del paese, perché là si usava così. Noi scherzando dicevamo che in ogni agnolotto di quelli bisognava dare tre morsijà. Per condirli si faceva il condimento con il fegato del coniglio e un po’ di arrosto, tutto ben tritato con la mezzaluna, e fatto andare con il brodo e un cucchiaio di conserva di casa.” LA PASTA “La zoppa dei Baudino ripeteva ogni sera al figlio Giacomo che chiedeva un secondo piatto di tagliarini: “Non sai, diluvione, che il sor Bellono non prende la sera che una fetta di pane immollata nell’acqua zuccherata?” Una volta Giacomino rispose: “Ma l’avvocato a pranzo si mangia tutti i giorni mezzo chilo di manzo, vorrei fare anch’io lo stesso” . La zoppa aveva volto al figlio uno sguardo di trepidazione, mormorando : “ Cosa sarà, Vergine Santa, di te?” E s’è visto che Giacomino fece una pessima riuscita.” Roberto Sacchetti: “Vecchio Guscio”, 1876 Uno dei tanti luoghi comuni che affollano la pubblicistica gastronomica locale, afferma che l’uso delle paste asciutte si sarebbe affermato nella nostra zona solo dopo il secondo dopoguerra, a seguito delle intense ondate migratorie provenienti dal sud. In realtà la pasta, nei suoi numerosi impieghi culinari, è una presenza antica e costante nell’alimentazione contadina Profilo storico Per buona parte dell’epoca medievale la produzione della pasta “secca” è appannaggio della Sicilia e della Sardegna, regioni che la esportano in grandi quantitativi in tutta l’area mediterranea grazie all’attività dei commercianti genovesi, pisani e catalani. Gli oneri del trasporto navale ne fanno una derrata piuttosto costosa, riservata alle tavole dei ricchi e dei benestanti. Nello stesso periodo è però largamente diffusa, soprattutto in Italia, la produzione casalinga della pasta “umida” di grano tenero: ad esempio nel XIII secolo in Piemonte le lasanis sono stabilmente impiegate nella refezione dei malati ricoverati presso l’ospedale di Sant’Andrea a Vercelli. Verso la fine del Quattrocento, per aggirare il monopolio produttivo delle isole mediterranee, Genova intraprende su larga scala la manifattura delle paste secche, contribuendo sempre più alla loro fruibilità da parte delle classi più umili residenti nel proprio entroterra commerciale. La crescita esponenziale ed il rapido sovraffollamento dei pastai genovesi ne provoca precoci movimenti di migrazione verso aree più lontane. Nel 1548 nella città di Asti risulta residente tal Marchio genovese, che fa li fideli, e circa cento anni più tardi risulta operativa la Massa dè Fidellari , cioè l’omonima corporazione. Nel corso del XVI secolo il consumo delle paste alimentari appare definitivamente generalizzato e diffuso in qualsiasi ordine sociale. Nei primi decenni del secolo il commediografo dialettale Giovan Giorgio Alione ricorda nelle sue farse le lasagne condite con burro, formaggio e polvere di cumino; i crosett, analoghi ai “corzetti” del Ponente Ligure; i taglarin, pietanza pretesa dalle balie dell’epoca. Nel 1598 i Fideli sono abitualmente impiegati nel vitto giornaliero degli appestati ricoverati nel lazzaretto di Asti, e risultano cucinati in minestre brodose, oppure asciutti conditi con burro e formaggio nei giorni “di grasso”, con salsa di acciuga in quelli quaresimali. Nel corso del XVII secolo e forse anche prima fanno comparsa i Macaròn, che in zona sono grossi spaghetti trafilati al torchio. In un inventario del 1644 redatto nella casa dei nobili astigiani Parato, risulta elencato sia un “molinello, o sii ingegno per far spollie di pasta” , sia un “torgietto per far li macaroni”. La presenza dei due attrezzi, un rudimentale congegno a rulli per tirare la sfoglia e una trafila , dimostrano l’ormai stabilizzata dicotomia delle paste alimentari casalinghe: quelle “umide”, di sfoglia tagliata, come i tajarin, lasagne e crosett , e quelle “secche” di pasta trafilata: maccheroni o fidelli. Nel terzo quarto del Settecento i macaron sono ormai diventati di uso comune e largamente popolare; ai sodalizi partecipanti al Palio di Asti che durante le prove della Corsa dimostrano di avere un buon cavallo, si usa dire “el formagg v’è cascà sui macaròn”. Nel corso dell’inoltrato Ottocento si assiste alla scomparsa dei crosett e all’introduzione della “pasta forata”, di vario formato, ulilizzata soprattutto nelle minestre. Alla fine dello stesso secolo, a seguito dell’entusiastica introduzione della “conserva” di produzione famigliare, si radica profondamente l’uso della pasta asciutta al pomodoro. L’uso della pasta nel territorio: tajarin L’antichissimo tajarin è uno degli indiscussi protagonisti sulla tavola domenicale. Prodotto in modo assolutamente autarchico, è in ogni caso un “mangiare ricco” riservato alle occasioni festive. La sua diffusione nel territorio è capillare ed omogenea, così come omogenee risultano le modalità di preparazione e condimento. I Tajarin contadini sono prodotti con l’impiego molto moderato di uova, generalmente mai più di 5 o 6 per chilo, sufficienti a dare una buona consistenza alla pasta; un quantitativo superiore viene considerato uno spreco, visto che le uova alimentano un piccolo commercio e permettono di integrare le sempre troppo magre finanze famigliari. La pasta è impastata sull’asse dell’erca (la madia del pane) , ed in seguito lungamente lavorata con la prèssia, il lungo e robusto mattarello di legno ( che nella zona del nord-ovest è detta “mescola”) , fino ad ottenere un ampio feuj, la sfoglia circolare e senza un difetto. La capacità di realizzare sfoglie di pasta perfette e sottilissime era una delle qualità che le madri vantavano a proposito delle figlie da maritare. La sfoglia, lasciata parzialmente asciugare, veniva arrotolata su se stessa, e poi tagliata trasversalmente in sottilissime sezioni , che immediatamente dipanate (“scartacià”) sul piano infarinato si aprivano nella matassina di tajarin . Per l’operazione si usava di preferenza un coltellaccio apposito ,a lama lunga e alta ma molto sottile e affilata, la “cotela”, ricavato da un frammento di falce da fieno. I tajarin ottenuti erano lasciati asciugare e potevano conservarsi bene per alcuni giorni, anche se in genere venivano immediatamente consumati. Dalla fine dell’Ottocento in avanti il loro consumo abituale prevedeva il condimento di regaglie di gallina o di coniglio ( le cui carni nello stesso giorno festivo comparivano come “secondo piatto”) . Fegato, durone, cuore, ovaie, uova non nate e non di rado parte dell’intestino (ridotto in trippetta) della gallina venivano rosolati con un battuto di cipolla, poi tritati finemente e stufati con brodo e conserva più o meno abbondante; il “sugo” cos’ ottenuto dopo lunga e lenta cottura era rinfrescato alla fine con un trito finissimo di rosmarino. Questo condimento di frattaglie, solo apparentemente semplice e modesto, in realtà ricco di sensazioni gustative ed olfattive, ha mantenuto ancora oggi immutato il suo “matrimonio d’amore” con i tajarin, e la sua statura di “grande piatto” di cucina territoriale, purtroppo assai poco praticato dalla ristorazione locale, e spesso sostituito da banali e standardizzati ragù di carni “alla bolognese”. L’alternativa alle interiora di volaglia era rappresentata dal sugo di fegato di coniglio, rigorosamente tirato “in bianco” cioè senza conserva, ma molto spesso, data la delicatezza del sapore, abbinato a dosi non trascurabili di salsiccia casalinga dal profumo deciso. Molto minoritario, ma presente e documentato, era il condimento di funghi secchi, praticato soprattutto nelle zone di fondovalle specializzate nella raccolta e nel disseccamento dei funghi. Un vecchio sugo di funghi secchi è stato reperito per esempio a Montechiaro, e le sue caratteristiche lo rendono esattamente allineato a quello descritto nel ricettario “Polizia e Cucina” del 1822. I funghi utilizzati sono le Sarìdoli, funghi di prato abbondantemente reperibili in zona, carnosi e di buona fragranza. Rinvenuti in acqua tiepida, e in seguito tritati, sono fatti cuocere in un battuto di prezzemolo, poco aglio e qualche filetto d’acciuga. Oggi i tajarin sono ancora frequentemente prodotti in ambito domestico, quasi sempre utilizzando macchinette a rulli sia per la stesura della sfoglia che per il taglio. L’uso della pasta nel territorio:lasagne La sfoglia di pasta tirata a mano con la pressia aveva spesso un doppio utilizzo: una parte era destinata ai tajarin , un’altra alle lasagne o lasagnette. Queste ultime potevano anche essere prodotte autonomamente, e in questo caso si avvalevano di una sfoglia più spessa, per essere adatte a far parte di zuppe o minestroni. Con il nome riportato la tradizione contadina locale indica una serie di tipologie variabili. Con il nome di lasagne l’area astigiana indica larghe “papardelle” a forma romboidale, tagliate dal foglio disteso con la rotella dentata, da fare asciutte con il condimento usato per i tajarin; lo stesso nome, come si è visto, nell’area monferrina è invece utilizzato per designare gli agnolotti. Le lasagnette in entrambe le due aree sono intese come “fettuccine” di larghezza e spessore variabile, mai comunque eccessivi; in questo caso si confezionano e tagliano come i tajarin, ricavandole dalla sfoglia arrotolata con sezioni da tagli esattamente perpendicolari. Se i tagli sono inclinati, e di volta in volta alternativamente orientati verso l’interno e verso l’esterno del rotolo, si ottengono lasagnette corte a forma lanceolata chiamate feuje d’sars ( foglie di salice) e, soprattutto in Monferrato, maltajà. Questo tipo di pasta è privilegiato per la confezione del minestrone di fagioli. Altre tipologie di lasagnette, ugualmente diffuse, prevedono il taglio della sfoglia distesa, mediante la rotella dentata, in fettuccine dai bordi festonati, larghe un dito e lunghe circa dieci centimetri. L’uso della pasta nel territorio: i Macaròn a mano Accanto alle paste all’uovo “distese” ricavate da una sfoglia, come si è detto in apertura, un ruolo importante nella cucina contadina locale era rivestito dalle paste secche trafilate, che avevano nei macaron la tipologia più diffusa e praticata. La trafilatura veniva quasi ovunque eseguita o a livello domestico, o da piccoli pastifici artigianali. Tuttavia nell’area di Montechiaro si sono reperite testimonianze precise relative ai macaron fatti a mano, praticati con convinzione , in quanto ritenuti superiori, nonostante l’uso generalizzato della trafila. I macaròn montechiaresi , ormai quasi estinti, risultano identici ai “pici” delle campagne senesi, che per contro, anche sulle ali del turismo enogastronomico, continuano ad essere trionfalmente prodotti e richiesti. Quelli montechiaresi erano confezionati con sola farina, acqua e poco olio; la pasta, lavorata ben soda, veniva abilmente arrotolata e tirata con il palmo delle mani in forma di lunghe e sottili cordicelle, fatte poi asciugare prima della cottura. Questo tipo di manipolazione permette di avere macaron non solo piacevolmente irregolari, ma anche ben consistenti e tenaci, di qualità superiore per la miglior tenuta di cottura. Il condimento reperito per questo tipo di pasta è quello semplice e sbrigativo largamente usato nelle nostre campagne, che non ha nulla da invidiare per antichità e lignaggio alla più celebre pommarola napoletana. Esso discende dalla “salsa o culì di pomi d’oro” già attestata in Piemonte alla fine del XVIII secolo; saltuariamente e stagionalmente prodotto con i pomodori freschi, più abitualmente con la onnipresente “conserva”. Quello coi pomodori era riservato alla fine dell’estate, quando l’ortaggio era più dolce e maturo. Si sceglievano i più adatti, si pelavano, si strizzavano e spezzettavano. In un largo tegame si faceva rosolare in olio e burro una cipolla affettata sottilmente con molte foglie di lauro, poi si aggiungevano i pomodori e si cuoceva fino ad avere una salsa ben legata e profumata; su questo sugo non si usava formaggio, piuttosto una bella torchiata di pepe nero. L’uso della pasta nel territorio: la pasta trafilata. La pasta confezionata mediante trafile di bronzo si impone nella gastronomia contadina locale nel corso dell’Ottocento, quando a seguito dell’esplosione demografica anche in alcuni paesi si installano pastifici artigianali provenienti dalle città, e quando si diffonde l’uso del “torchietto” domestico. Chi ricorre ai servigi del pastè conferisce la farina necessaria, sorveglia e presiede scrupolosamente alla manifattura che viene eseguita al momento, e la paga con una parte del prodotto finale che l’artigiano porrà in vendita al dettaglio. Questo sistema, che implica in ogni caso un costo, è il più usato dalle famiglie numerose e benestanti, che si provvedono in tal modo di una scorta alimentare a buon prezzo. Le famiglie più modeste e meno folte preferiscono ricorrere al torchietto famigliare, che è certamente faticoso e lento, ma che ha il vantaggio di una maggiore economicità. I formati prescelti ed utilizzati, in entrambi i casi, erano assai limitati: oltre ai più volte ricordati macaròn ( in questo caso simili ai “bigoli” veneti) , assai amati erano i “subiòt” o “subiò” ( lett. “fischietti”) tubetti cilindrici di pasta cava e liscia a lunghezza variabile, utilizzati per la pasta asciutta nei tipi più lunghi, per le minestre in quelli corti. I subiot da minestra molto corti, a sezione rigata, nell’area astigiana centro-meridionale prendono i nomi di “avemarie” e “paternost”, mutuati dai grani del rosario dedicati alle rispettive preghiere . Il pastaio poteva infine produrre i bombonin, tempestine di pasta da riservare per la minestra in brodo delle grandi occasioni. Il macaron trafilato era cucinato di preferenza con il sugo di cipolla, lauro e conserva ( o pomodoro) ma non di rado in bianco, con burro, olio e formaggio. Nei principali giorni di vigilia ( mercoledì delle ceneri, Venerdì santo, vigilia di Natale) il macaron al torchio senza uova era condito con la salsa di acciughe, aglio e olio , che se abbinata a questo tipo di pasta era detta frequentemente ancioada. Un tipo di pasta particolarmente pregiata era rappresentato dai fidlin o cavej d’angel, cioè gli antichi Fidelli, che si cucinavano quasi sempre in brodo , ed erano principalmente impiegati nell’alimentazione “di regime” per malati o convalescenti . I Fidelli in minestra erano somministrati ai poveri appestati rinchiusi nel lazzaretto di Asti già nel 1598. TESTIMONIANZE Maria Vergnano ( Villanova). “ Eccome se si faceva, la pasta! Quand’ero giovane andavo con un carretto a Riva ( di Chieri) perché a Villanova allora il pastè non c’era. Portavo la farina da casa, e il pastè faceva la pasta che serviva: ne facevamo sempre una bella scorta. Si facevano i macaron e i subiot di due tipi: quelli più corti per la minestra, quelli più lunghi da fare asciutti, e i bombonin da fare in brodo. Nella settimana si faceva sempre il minestrone con la pasta, e invece alla domenica si faceva la pasta asciutta con il sugo. Se ne faceva sempre un po’ di più, e quella che avanzava, alla sera, si metteva nel brodo per fare la minestra. Tante volte alla domenica si facevano i tajarin con la pressia, con le uova. Soprattutto in Primavera, quando c’erano più uova. Si faceva il foglio con cinque o sei uova per chilo, si arrotolava e si tagliavano i tajarin fini fini, il più fine possibile. Quelli si condivano con un sugo buono, siccome alla Domenica sovente si tirava il collo a una gallina; allora si faceva il sugo con il fegato ed il prè, e con le uova non nate. Prima si rosolava tutto con cipolla, un po’ di burro e rosmarino, poi si tritava con la mezzaluna e si tirava con il brodo e un po’ di conserva. Quando si facevano i tajarin si facevano sempre anche delle lasagnette, le feuje d’sars, che si usavano per fare la pasta e fagioli.” Carla Quirino , Franca Quirino, Bussa Margherita. ( Montemagno) “La pasta qui si faceva in casa: erano tajarin, tagliati con il coltello, o lasagnette un po’ larghe tagliate con la rotella. Si faceva con le uova che c’erano, e se ne mettevano sempre poche, per risparmiare. Quando si facevano i tajarin si teneva sempre un po’ di pasta e si facevano anche le biavette per fare la minestrina in brodo. Poi c’era il torchio per fare i macaron senza uova: quelli si condivano con il sugo di coniglio, con il fegato del coniglio, e si mangiavano alla Domenica”. Vincenzo Testa ( Moncalvo) . “ Le famiglie avevano tutte il torchio per fare i macaron e anche i subiò corti da minestra. I macaron si facevano asciutti, per condirli si faceva il sugo con una cipolla affettata fine e rosolata nell’olio, poi tanta conserva, e lauro. Oppure si faceva la pasta all’uovo, per la domenica, tajarin da fare asciutti con il ragù di carne oppure…cmè ca j ciamavo… i maltajà, ecco, i maltajà per fare la pasta e fagioli. Per fare i maltajà si arrotolava la sfoglia, e poi si tagliava di sbieco, così venivano delle lasagnette corte, un po’ come foglie di salice. Angela Bersano ( Moransengo) e Giuseppina Parena ( Cocconato) . “Si facevano sovente i tajarin con la mèscola ( mattarello) e le feuje d’sars per fare con i fagioli. Poi c’erano i macaron del scagn ( maccheroni dello sgabello) : si chiamavano così perché il torchietto per farli era inchiodato a uno sgabello. Rina Bossone (Montechiaro) “ I macaron preferivamo farli a mano: ci voleva più pazienza ma stavano molto più buoni, ci sembrava che tenessero di più la cottura. Si impastava la pasta senza uova, al massimo con un cucchiaio d’olio, poi se ne lavorava una noce per volta, si tirava con il palmo delle mani sull’asse dell’erca, un po’ alla volta, si faceva venire come uno spaghetto un po’ più grosso, lungo lungo, che si metteva ad asciugare. Certo, tutti avevano anche la machina da fè i macaron, ma noi la usavamo soprattutto per fare le avemarie e i paternost da minestrone. I macaron preferivamo farli a mano. Per condirli si faceva rosolare una cipolla affettata fine fine con tante foglie di lauro, poi si aggiungeva la conserva e si faceva andare così…” Costanza Sardo ( Villafranca) “Alla domenica si facevano i tajarin con la pressia, si adoperavano poche uova, ma era un modo per fare festa anche quello. A volte si facevano le lasagne, che da noi si tagliano a rombi, come le bugie di carnevale, belle largotte. La pasta all’uovo si condiva con il sugo di fegatini di gallina o di coniglio, rosolati con una cipolla e il rosmarino, poi camodà con il brodo e un po’ di conserva. Se no si usava per fare pasta e faseu. Poi tutti avevano il torchietto per fare i macaron, e anche le avemarie per fare la minestra. C’erano anche i fidlin che però si compravano fatti quando servivano, perché erano per i malati, per chi non stava bene o per i più vecchi di casa. I fidlin si facevano in brodo, oppure asciutti ma in bianco. Quando si andavano a comperare, la bottegaia diceva subito “Chi è che non sta bene?”. I macaron invece li facevamo sempre nei giorni di vigilia, allora si condivano con le acciughe sciolte nell’olio con l’aglio a fettine, sì che erano buoni…! Io invece da bambina non potevo sopportare la pasta al latte che facevano una volta con le avemarie. Era una minestra di pasta cotta nel latte, come il riso al latte, ma si usavano le avemarie. A me il riso al latte piace, ma quella pasta…sarà che fatta con la farina di grano tenero diventava grossa così e molle…sarà che una volta qui la pasta la facevano stracuocere perché pensavano che fosse più digeribile, a me sembrava el mangè del can, facevo sempre una fatica a finirla! Tutti gli altri minestroni di pasta invece mi piacevano, soprattutto quando erano belli s-ciass, e ben conditi con tante verdure e magari lo strafricc.” IL RISO Fino a buona parte del XV secolo il riso è prodotto in limitate quantità nell’Agro campano, e rappresenta una derrata costosa riservata ai ricchi. Nel corso del Quattrocento iniziano coltivazioni intensive nella pianura Padana, che diventeranno ben presto estesissime, al punto da trasformare questo cereale in un alimento di larghissimo consumo. La vicinanza con le maggiori aree di produzione ( Vercellese e Lomellina) consentono alle nostre terre di adottare fin da subito il riso nella propria gastronomia popolare e contadina. L’uso più antico è per la preparazione di minestre dense che sostituiscono antichi piatti analoghi a base di cereali, come la Panicata a base di panico ( da cui la Panissa di riso) , l’Ordiata d’orzo, la Formentiera di grano, tutte ampiamente citate e descritte nei ricettari medievali. Nel 1598 le “liste cibarie” del lazzaretto di Asti, quotidianamente e minuziosamente redatte , dimostrano il largo impiego e la diversificazione delle minestre di riso. In antico i contadini delle colline sud Piemontesi si approvvigionano di riso soprattutto ricevendolo in pagamento per lavori effettuati nelle risaie. I documenti storici dimostrano l’esistenza di un consistente flusso stagionale di manodopera dal Monferrato e dall’Astigiano verso le risaie, soprattutto in occasione della messe. Anche nelle testimonianze orali è rimasta traccia del “ris an paga”, nelle colline di Cocconato o del moncalvese. In tempi più recenti il riso della pianura diventa oggetto di scambio con il vino delle colline, soprattutto nel Monferrato che da sempre è il rifornitore privilegiato dell’area vercellese. RISO AL VERDE La dizione comprende diverse ricette a base di riso e ortaggi o erbe spontanee a foglia verde: biete, “erbette”, spinaci, piantine di papavero ( dette “rosele” o “barababà” a Montemagno), ortiche, germogli di luppolo selvatico (“lovertìn”), singolarmente o anche assemblate . Le erbe, trinciate a crudo, sono rosolate con trito di cipolla o porri; il riso è messo asciutto ad insaporire con esse, poi portato a cottura con acqua. La consistenza finale è molto densa. RIS E FASEU I fagioli secchi ammollati, quasi sempre borlotti, sono cotti in precedenza “in minestrone” con un battuto di lardo e verdure ( cipolla, carota, sedano); alla base prima della completa cottura si aggiunge il riso, che assorbe il brodo e fa assumere alla preparazione una consistenza molto densa, quasi di un risotto “all’onda”. Molto diffusa la profumazione finale con un trito di prezzemolo e poco aglio, o, nei mesi estivi, di basilico fresco. RISO E PATATE Ha sostituito nel corso dell’ottocento l’antico “riso et rave” largamente citato in documenti astigiani di fine Cinquecento, mantenendone le modalità di preparazione. Le patate a toccotti sono fatte preventivamente indorare con olio e burro, in presenza di cipolla tritata, porri a rondelle e abbondante sedano a pezzi. Si aggiunge acqua nella quale viene poi buttato il riso, cotto fino ad una consistenza molto densa. Il sapore insipido delle patate è vivacizzato in questo caso dalla viva nota aromatica del sedano. RISO E PORRI Praticato soprattutto tra Triversa e Borbore. I porri, tagliati a rondelle con una parte del loro verde, sono fatti stufare e rosolare in olio; il riso è aggiunto asciutto per insaporirsi, poi coperto d’acqua e cotto con patate tagliate a pezzetti che danno densità alla minestra. RIS E COJ Il cavolo verza, grossolanamente trinciato, viene fatto stufare con battuto di lardo, e in alcuni casi con un cotechino disfatto, poi vi si aggiunge la quantità d’acqua necessaria e si butta il riso portandolo a cottura. RISO E ZUCCA La zucca, tagliata a dadini piccoli, viene rosolata e stufata, facoltativamente con altre verdure (patate, cipolla), poi si aggiunge l’acqua che si porta a bollore per la cottura del riso. IL RISOTTO. I ricettari rinascimentali avevano già definito ed individuato un “riso alla lombarda”, costituito da riso asciutto cotto nel brodo con pezzetti di salumi e carni, poi asciugato in forno con uova e formaggi freschi. La cottura con il brodo di carne in “minestra asciutta” rimane peculiare del nord Italia padano, e nel corso dell’Ottocento in area lombarda diventerà il celebre “Risotto alla milanese”, dove il brodo viene aggiunto in quantità limitate e ripetute. Il Piemonte, gastronomicamente più conservatore, rimarrà a lungo fedele alla ricetta antica, dove il brodo è aggiunto in un’unica soluzione iniziale e lasciato asciugare durante la cottura , ma introdurrà e farà propria la definizione di “risotto”, intesa in ogni caso come “minestra di riso asciutto”. Nelle colline del sud Piemonte la cucina borghese aveva già da tempo elaborato una serie ben diversificata di queste vivande: il trattatello “Polizia e Cucina” del 1822 le definisce “Riso in tegame” e prescrive : “Liquefatto con un po’ di brodo nel tegame il cervellato ( salsiccia morbida a pasta fine, n.d.r.) , vi si getta il riso e si dimena, onde tutto prenda il principio di cottura; vi si versa poi il brodo di manzo o di pollame in quantità sufficiente, onde il riso, essendo cotto, risulti asciutto. Quando è cotto vi si accoppiano formaggio, droghe, un po’ di pepe e zafferano…”. La stessa ricetta è proposta nelle varianti con funghi, con acciughe, con rane, con lumache, con gamberi di fiume. Nel 1854 Giovanni Vialardi enuncia un raffinato “Risotto alla piemontese” : mezzo chilo di riso viene buttato in due litri di brodo e fatto cuocere per 18 minuti. Al termine si manteca con 60 gr. di burro, 60 di formaggio e 60 di tartufi bianchi a fette sottili, e si irrora con sugo d’arrosto “badando che resti un risotto un po’ molle…”. Di ben altra tempra il risotto contadino che alla stessa epoca viene confezionato nelle nostre campagne ; il fatto che la preparazione è inscindibile dall’uso del brodo gli ha conferito lo status di vivanda festiva, visto che il brodo è il risultato del bollito domenicale, o, molto spesso, della gallina lessa. Il “nostro” risotto tipico è un risotto sostanzialmente basato sulle interiora di volaglia, con eventuale aggiunta di carni suine ( salciccia o polpa magra) e, dalla fine dell’Ottocento, di conserva di pomodoro. Le varianti tecniche sono minime, e prevalentemente legate alle capacità ed alle esperienze delle cuoche. La tipologia più antica prevede il solo impiego di regaglie di gallina ( fegatini, cuore, gricili, uova non nate, trippetta) rosolate con cipolla e rosmarino, poi tritate finemente per costituire il fondo di cottura del riso, che cuoce coperto da brodo di gallina aggiunto dopo la tostatura; l’uso della conserva, cronologicamente posteriore, ha il compito di ravvivare l’aspetto del piatto. Una diffusa variante “ricca”, più sociale che geografica, prevede l’aggiunta di salciccia e carne magra di maiale nel battuto iniziale. Tra Triversa e Borbore è frequente l’aggiuna aromatizzante finale di un trito finissimo di rosmarino fresco. La cottura “alla milanese”, con aggiunta progressiva del brodo, risulta essere ben conosciuta e praticata, in quanto ritenuta tecnicamente superiore; la cottura “alla piemontese” con l’aggiunta del brodo in un’unica soluzione è comunque ancora maggioritaria. Il Risotto, si diceva, è primo piatto domenicale alternativo alla pasta fresca , sempre abbinato alla gallina che compare poi come secondo piatto o viene utilizzata nei giorni successivi. TESTIMONIANZE Maria Vergnano (Villanova): “Il risotto si faceva la Domenica, e si faceva buono, perché poi si mangiava solo dell’insalata, magari un pezzo di formaggio…era quasi un piatto unico. Io lo faccio ancora come una volta, è una mia specialità. Metto a rosolare una bella cipolla tritata con olio, burro e tanto rosmarino, poi ci metto un bel pugno di salciccia fresca pelata e disfatta, e qualche fegatino e regaglie di pollo, il prè, il cuore, oppure un bel fegato di coniglio, a seconda di quel che c’è. Poi metto due o tre bei cucchiaioni di conserva della nostra, ci vuole quella, la passata di pomodoro che si trova adesso non vale niente, è brusca e non dà profumo. Insomma, faccio rosolare bene tutto insieme, poi butto giù il riso e lo faccio tostare, forte, il riso deve “prendere” bene il condimento. Quando non ne può più comincio a bagnarlo col brodo, un po’ alla volta, fino a quando è cotto bene. Io dico sempre che il risotto si fa tutto di corsa: andato forte, poi di corsa sulla tavola e mangiarlo subito, non bisogna aspettare. E’ più di settant’anni che faccio così !” Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa ( Montemagno). “ Il risotto si è sempre fatto di domenica: cipolla, salciccia, fegatini, un bel po’ di conserva…e brodo. Se ce n’era, anche un po’ di carne di maiale, tritata. Se ne faceva tanto, perché con quel che avanzava alla sera si facevano i friciulin. Vincenzo Testa ( Moncalvo): “ Eh, il risotto non si faceva mica tanto ! Con il riso si preferiva fare dei bei minestroni, riso e fagioli, riso e patate, riso e verze…. Però qualche volta si faceva anche, la Domenica….” Maria Ferrero ( Montechiaro) : “Il risotto lo facevamo volentieri, la domenica, perché piaceva a tutti. Si faceva soprattutto quando si ammazzava la gallina, per fare andare tutte le interiora, e per usare il brodo. Allora si usava tutto: fegato, prè, cuore, reni, polmoni, la cresta e i bargigli, le uova non nate, le budelline. Quanta pazienza, quanto tempo ci andava per pulire le budelline! Eppure non si buttava via niente! Assieme alla roba della gallina si metteva una cipolla, il rosmarino, un po’ di conserva e si faceva rosolare, poi si tostava il riso e si copriva con il brodo, e si aggiungeva altro brodo fin che il riso se lo beveva. Quando non c’era più brodo il risotto era pronto.” Costanza Sardo ( Villafranca) : “Si faceva sovente la Domenica. Le donne delle famiglie che stavano vicino alla chiesa lo mettevano su prima di andare a messa grande. Si faceva il battuto di cipolla rosolato con olio, burro e rosmarino, poi si metteva salciccia disfatta, fegatini di pollo o di coniglio, conserva della nostra; si tostava il riso, poi si copriva bene con il brodo e si metteva il tegame in un angolo del potagè, e si lasciava lì. Quando si tornava a casa da messa il riso era bell’e pronto e si poteva mangiare. Però era facile sbagliare: a volte c’era troppo brodo e stava come una minestra, altre volte mancava e bruciava sul fondo….La brava cuoca si vedeva anche da quello.” LE CARNI BOVINE Nel 1615 il contadino canellese Domenico Giovine, carico di figli e di debiti a causa della guerra in corso, d’accordo con la moglie vendeva un pezzo di terra vineata con poco prato per acquistare una vacha senza la quale non li è possibile vivere, né manco coltivare li suoi beni. Il rapporto di simbiosi tra il contadino astigiano o monferrino e la razza bovina è strettissimo da sempre; in un passato ancora non troppo lontano il bue era un lusso riservato alle famiglie benestanti , ma una vacca la possedeva anche il più disperato dei particolar. Essa forniva la “forza lavoro” e quella motrice, dava il latte che poteva e, per soprammercato, partoriva anche qualche vitello. Nelle aree più propizie e nelle aziende più razionali l’allevamento specializzato toccava punte di notevole livello. Nel 1566 i tre fratelli Viale, ricchi possidenti di Costigliole in Astesana, possedevano una stalla con sei buoi, otto vacche, quattro manze e due manzi. I buoi si chiamavano Falcone, Bellino, Brochiardo, Vermiglio, Morello e Castagno. Le vacche Bruna, Castagna, Spaliarda, Giardina, Cantona, Fasana, Mora, Gavella. Le manze Bravoza, Figa , Bergamina e Carbona. I manzi Robino e Giaio. (Biblioteca Provinciale di Torino, Protocolli dei notai di Asti, Vol. Notaio Gianuzzi). Nel 1816 Giovanni Secondo DeCanis poteva scrivere: “ Una grande produzione essenzialissima per l’agricoltura sono i fieni, che d’ottima qualità ed abbondanza raccolgonsi nelle pianure segnatamente di Villanova e terre confinanti, nelle valli moltiplici d’ogni villaggio e segnatamente in quelle del Tanaro del Borbore e della Versa, di Rilate e Triversa, ed è questo il motivo per cui si nutre un immenso bestiame sì grosso che minuto, per uso dei macelli e per l’agricoltura. Chi frequenta e conosce i mercati di Cocconato, San Damiano ed Asti e le fiere di altre terre, non ha bisogno ch’io gli dica, che tante bovine si trovano da somministrarne a tutto il Piemonte”. La storia zootecnica e varietale di quell’immenso bestiame, per quanto interessante, riguarda altre ricerche. La storia del suo uso gastronomico da parte di chi lo allevava, purtroppo, è di disarmante semplicità e linearità. Il contadino astigiano e quello monferrino alleva i bovini onde servirsene per il lavoro, per approvvigionarsi di latte e per venderli ai commercianti; non ne pratica le carni per uso alimentare se non in poche, circostanziate ricorrenze. Anche in queste limitate occasioni, il loro impiego è di sconcertante monotonia: la carne bovina è concepita solo per preparare il Bollito, che non è mai il trionfale ed opulento Servizio delle tavole borghesi, ma un lesso esausto e tiglioso composto da un solo taglio. Bolliti appena decenti si preparano in occasione di feste straordinarie o molto solenni; allora accanto al pezzo di “piano” o biancostato o “sottile” compare anche la testina, anche un pezzo di lingua, un mezzo cappone o un cotechino. Compaiono i sempiterni ed immutabili “bagnet” : quello verde di prezzemolo, aglio, acciughe, olio ed aceto, quello rosso di conserva , olio, aceto, e facoltativamente la Snavra , la senape fatta in casa con i semi del Raphanus Raphanistrum o della Sinapis alba. Il “bollito” domenicale di un solo taglio compare con una frequenza direttamente proprorzionale ai redditi ed alle disponibilità della famiglia; può essere una presenza pressochè settimanale, o può essere una meravigliosa rarità destinata alle due, tre principali festività dell’anno. Il “bollito” serve innanzitutto a produrre brodo per minestra; la carne è regolata e mangiata con grande parsimonia, badando di avanzarne in modo da poter preparare, nei giorni successivi, polpette o friciolin . Al di fuori del bollito, la cucina contadina usava i tagli di minor prezzo per preparare la “camodaja”, le roladin-e ed il ripieno per gli agnolotti , o le interiora come la trippa. Del tutto evitati gli arrosti, i brasati e le altre preparazioni “borghesi”. Molto spesso si sente magnificare l’ottima “Insalata di carne cruda battuta al coltello” come una tipica ed ancestrale pietanza contadina. Ciò è falso. Il piatto è recentissimo, ed è approdato sporadicamente nel mondo rurale ricco solo negli anni fra le due guerre. Nasce in Germania col nome di “bistecca Amburghese”; nell’Ottocento emigra a Parigi dove fa fortuna sotto le mentite spoglie di “steak Tartare”, caricandosi di orpelli. Dalla cucina parigina della Belle Epoque si trasferisce agli inizi del Novecento alle tavole dei ricchi italiani, soprattutto di quelli piemontesi, che possono contare sulle carni migliori reperibili in tutto lo Stivale. La borghesia piemontese si impadronisce del piatto, lo ripulisce degli orpelli , lo raffina e lo rusticizza limitandosi a condire la carne battuta con olio d’oliva, profumo d’aglio, limone e sale. Le solite Cusinere trasferiranno questa “Insalata” sulla tavola dei grandi banchetti festivi contadini, non prima degli anni Trenta del Novecento, e più diffusamente dopo la seconda guerra mondiale. TESTIMONIANZE Franca Quirino ( Montemagno) : “La carne di manzo o di vitello era un lusso, chi poteva mangiava un pezzo di bollito alla domenica, ma tanti non potevano permettersi neanche quello, e allora ancora grazie se c’era una gallina ogni tanto, o un coniglio. Adesso mangiamo le cotolette tutti i giorni, siamo stufi di mangiare cotolette, una volta non si sapeva quasi cosa fossero, si facevano quando si faceva la Fricia e basta. C’era un nostro vicino che era andato alla Fiera ad Asti con altri uomini del paese, e tutti insieme erano poi andati all’albergo a mangiare. Chi prendeva il bollito, chi la trippa…questo vicino che voleva mangiare qualcosa di buono chiede al cameriere cos’avessero di altro; “C’abbiamo le Ladine impanate”, “bene, prendo queste Ladine” pensando che fossero chissà cosa. Invece gli avevano portato delle coste impanate, tutti gli altri mangiavano il bollito e lui le coste, e sacramentava “ ne mangio anche troppe a casa mia!” Un’altra volta c’era una festa di leva agli Accorneri, e sul tavolo avevano portato una bassilla grossa così, piena di roba che sembrava cotolette impanate: si sono buttati tutti su quelle cose, quasi se le strappavano di mano, poi invece erano coste impanate e fritte…! Maria Vergnano ( Villanova) “Dal maslè si andava poco, si cercava di fare con quello che c’era in casa. Noi avevamo tante galline nel cortile, tanti conigli, e poi anatre e oche, poi nell’Inverno c’era il maiale….la carne bovina era soprattutto il Bollito, quello sì, se c’era festa un pezzo di bollito c’era sempre, anche perché serviva per fare il brodo. C’erano famiglie che facevano con cosa avevano in casa, e il Bollito lo mangiavano solo una o due volte all’anno, magari a Natale o alla festa patronale di Sant’Isidoro. Il macellaio dove andavamo scherzava su questa cosa, diceva che alla vigilia di Sant’Isidoro arrivavano delle donne che gli chidevano “dami n’toc d’bujì come col d’ l’an passà, l’ava fami n’foson! J’eu anche prestàine n’toc a la mè avsin-a…!” ( Dammi un pezzo di bollito come quello dell’anno scorso, mi aveva fatto una resa ! Ne avevo anche prestato un pezzo alla mia vicina!) . Il Bollito si faceva con un pezzo solo, o il piano, o la scaramella, o la punta, o il muscolo, tutt’al più si metteva anche un pezzo di testina. La testina piaceva tanto ma non va bene per fare il brodo, si metteva per golosità se era festa grossa, allora magari si poteva anche aggiungere una gallina o i cotechini, si faceva un po’ di “servizio” di Bollito. Insieme si facevano i due bagnèt, quello rosso e quello verde. Per il rosso usavo la conserva di casa, che era già buona da sola, e aggiungevo due fische d’aglio tritato, olio, aceto…Quello verde si faceva con il prezzemolo ben tritato, aglio, mollica di pane bagnata nell’aceto, olio…” Carla Quirino, Franca Quirino ( Montemagno) : “ Nostro padre faceva un po’ il mediatore dei bocin, andava al mercato di Asti e di Moncalvo, e un pezzo di bollito per la Domenica non mancava mai, un pezzo di piano o di muscolo, e magari la testina. Si mangiava con i bagnet, quello rosso e quello verde, ma insieme si faceva sempre anche la purè di patate o l’insalata, per mangiare meno bollito e avanzarne un po’ per l’indomani. A nostro papà piaceva tanto mangiarlo con la snàvra, ( senape) una volta si faceva in casa, si raccoglievano i semini, si mettevamo a bagno nell’aceto per un po’ di giorni e poi si pestavano e si allungavano con l’olio; però quando eravamo giovani si usava già farla con quella in polvere, si comprava dal droghiere e poi si sbatteva con un po’ di brodo . Il bollito avanzato o si tritava per fare i friciolin, con il riso, oppure si tagliava a fettine sottili e si faceva saltare con un po’ di burro , oppure s’camodava in bagna con le patate o i piselli. Vincenzo Testa ( Moncalvo) “ un pezzo di bollito si faceva sovente, di una qualità sola, non dico tutte le domeniche ma quasi. Però le donne quasi sempre lo rovinavano, lo facevano cuocere troppo per avere il brodo buono, così stava filoso e asciutto, se uno non aveva i denti buoni c’era da strangolarsi a buttarlo giù. Invece tre o quattro volte all’anno, alle feste più grosse, si faceva il “servizio” di Bollito, e allora si cercava di farlo bene: si faceva una marmitta con il piano, la punta di petto e la scaramella, un’altra con la testina e il moret, un’altra ancora con i cotechini o con una gallina; i possidenti potevano fare questo servizio, e se era gente che stava bene e la festa era davvero importante, allora si metteva anche la lingua, e la coda , magari si faceva anche una rolada con dentro gli odori tritati e insieme si servivano un po’ di verdure bollite, patatine, carote, cavolfiori. Poi ci volevano i bagnet, si capisce, quelli li facevano tutti perché ci voleva poco, il bagnet verde e quello rosso, niente di più, magari la senape per quelli che gli piaceva. I veri buongustai, però, il bollito lo mangiavano con la sà pista, è il modo migliore per gustare la carne senza coprirla con altri sapori. Pestavano il sale grosso, però non lo mettevano sul bollito, si pucciava ogni boccone di carne direttamente nel sale, prima di mangiarlo. Per pestare il sale tutte le famiglie avevano una pietra speciale, si chiamava la còlia, era una pietra che si trovava solo nel Po. La còlia si teneva sempre sul ripiano del camino, sempre a portata di mano. Era speciale anche perché “marcava il tempo”, quando arrivava il brutto tempo, o se doveva piovere, sudava e diventava umida, era meglio di Bernacca….” Angela Bersano ( Moransengo) “ Il bollito si cercava di farlo tutte le domeniche, anche perché si faceva scorta di brodo buono; se era una festa importante si metteva anche una gallina e un pezzo di testina, e si mangiava con il bagnet verde.” Anna Obermitto ( Montechiaro-Frinco) “ Quando c’eravamo noi c’era poco, ma il bollito si cercava di farlo quasi tutte le domeniche, era l’unico modo di fare la carne bovina, tolto le poche volte che si faceva la camodaja ; allora non si parlava neanche di arrosti o di bistecche, l’arrosto si faceva quando c’era da preparare il ripieno degli agnolotti, e le cotolettine panate solo nel fritto misto. Se si poteva il bollito si cercava di farlo misto, ma il più delle volte si faceva con un pezzo solo, e si mangiava con il bagnet verde. Lo facevamo con il prezzemolo tritato, mollica di pane inzuppata nell’aceto, aglio e acciuga. Poi si faceva anche il bagnet rosso con la conserva, un po’ d’aglio, aceto, un po’ di zucchero…. Costanza Sardo ( Villafranca) : “ il bollito era la testina insieme con il sotìl o il piano. Si faceva diverse volte nell’anno, sempre alla domenica , perché così c’era scorta di brodo , e poi con gli avanzi si potevano fare tante cose nei giorni dopo. Si mangiava con i due bagnetti, rosso e verde, e con la senape fatta con la polvere, ma qualcuno gli piaceva anche solo con il sale grosso pestato con una bottiglia.” La “camodaja”. Rappresenta una delle pochissime ricette contadine alternative al Bollito per utilizzare la carne bovina. Il nome deriva dal verbo “camodè”, “comodè”, che significa letteralmente “accomodare”, ma si riferisce al procedimento culinario di cuocere la carne in presenza di salse o succhi che le conferiscono aromi e sapore. Si tratta di una ricetta povera, presente con altri nomi ma con poche varianti in molte culture contadine ( ad esempio il Frizon o Friggione emiliano-romagnolo, o la rustica Cioncia toscana). La carne utilizzata, ricavata da tagli di poco prezzo, da rifilature e da scarti, viene rosolata con cipolla e odori, eventualmente sfumata con vino, poi irrorata di abbondante conserva casalinga allungata con acqua o brodo; durante la cottura si aggiungono patate ed eventualmente altri ortaggi ( cipolline, carote) freschi o anche conservati sottaceto. Questa ricetta, praticata senza grosse varianti in tutta l’area in esame, è un adattamento novecentesco di una più antica pietanza generata dal Fricandò cittadino e borghese, già nel Settecento attestato in Asti, Alessandria e Casale. La ricetta antica prevedeva la cottura della carne solo con brodo , vino bianco e profumi, l’aggiunta di cipolle e carote e l’eventuale aromatizzazione finale con prezzemolo fresco tritato. Nell’alimentazione contadina del primo Novecento la pur povera camodaja è ancora un piatto da “mezza festa”, non necessariamente riservato alla sola Domenica, ma ritenuto in ogni caso una preziosa ghiottoneria, da consumare rigorosamente in accompagnamento della polenta. TESTIMONIANZE Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa “ Si stava attenti quando il maslè aveva macellato, si guardava se aveva messo fuori le salviette bianche, allora si andava a prendere un po’ di carne da camodè. Erano le rifilature dei tagli, oppure pezzi che valevano poco, che lui metteva da parte apposta per camodè. Costava poco ma era gustosa. Una volta che ero piccola mia mamma mi aveva mandato dal macellaio e mi aveva detto di prendere n’para d’liri d’carn da camodè; io non sapevo cosa volesse dire “n’para d’liri” ero andata e il macellaio me ne aveva data per quattro lire. Quando sono arrivata a casa, apriti cielo! Mia mamma mi ha fatto una sfuriata di quelle, e poi mi ha rimandata dal macellaio a portare indietro le due lire di carne di troppo! (…) Per fare la carne camodaja si tagliava a pezzetti piuttosto piccoli, perché così abbondava di più, poi si facevano rosolare con olio , un pò di burro, una bella cipolla tritata, aglio, rosmarino; rosolando si bagnava anche con un po’ di vino, qualche volta. Quando la carne era ben rosolata allora si aggiungeva un bel po’ di conserva, acqua, patate a pezzi e si faceva cuocere fino a quando la carne era tenerissima e le patate ben cotte. Rina Bossone, Maria Ferrero, Costantina Scuvero ( Montechiaro) : “ La comodaja si faceva, ogni tanto, perché si usava carne che costava poco, e il macellaio era contento di darla via, anche per poco, perché erano ritagli, pezzetti che altrimenti stentava a vendere. Per farla si tagliava la carne a pezzi piuttosto piccoli, poi si faceva rosolare bene con una cipolla, aglio e tanto rosmarino ben tritato, magari si bagnava con un po’ di vino, un po’ di vino andava bene. Poi si metteva la conserva , l’acqua e le patate a pezzi, e si lasciava cuocere tanto che era cotta.” Anna Obermitto ( Frinco-Montechiaro) : “ La comodaja era la carne cotta in umido con le patate e la conserva; c’erano quelli che rossa non gli piaceva tanto, allora mettevano poca conserva, giusto un cucchiaio, e per dare più gusto mettevano anche del brodo; altri oltre alle patate mettevano anche carote, ma insomma la comodaja era quella lì, ognuno aveva il suo sistema, ma poi alla fine non cambiava tanto.” La “Vegia” E’ una particolarità rinvenuta nel solo comune di Villafranca; ormai praticamente estinta, è vissuta ancora oggi con nostalgia dagli abitanti del paese, che ne celebrano il ricordo come un blasone di identità e specificità gastronomica. Della Vegia se ne è già parlato in occasione degli Agnolotti; ricordo trattarsi della mucca vecchia macellata in occasione delle feste natalizie; la sua carne, dura ma saporita oltre che economica, veniva utilizzata per confezionare il ripieno degli agnolotti, ma anche per il consumo diretto. La carne veniva fatta cuocere come un “arrosto morto” o meglio ancora come il “brasato” preconizzato dall’anonimo piemontese autore del ricettario “Polizia e Cucina” del 1822, per il quale era prevista una cottura di oltre sei ore con moderate aggiunte di brodo o vino bianco. Nonostante la semplicità della preparazione, la ricetta, grazie al tipo di carne impiegata, permetteva di ottenere un piatto molto saporito, degno delle festività natalizie. Un altro uso per la carne della Vegia era quello delle roladin-e ( dette anche quajette) , involtini aromatizzati all’interno con un trito leggero di prezzemolo ed aglio, ammorbiditi con poco lardo. La ricetta delle roladin-e è ben nota e praticata in tutto il territorio, ma quelle villafranchesi ricavate dalla Vegia si impongono non solo per la particolarità della carne utilizzata, ma anche per la loro arcaica finezza, che esclude l’uso della conserva di pomodoro altrimenti imperversante in quelle degli altri comuni. Costanza Sardo ( Villafranca) “ Qui nel paese i macellai sotto Natale ammazzavano una mucca vecchia, che per tutti era “la Vegia”: serviva per fare gli agnolotti, ma si mangiava anche come pietanza. Bisognava saperla fare cuocere, e ci voleva tanta pazienza, ma era buonissima. Si prendeva un bel pezzo di polpa, bello grosso, si rosolava un po’ da fuori con olio e burro, poi si bagnava con il brodo un po’ alla volta, e si continuava ad aggiungere brodo mano a mano che consumava. Ci volevano tante ore, ma alla fine quella carne veniva tenerissima, gustosa, una bontà. Hanno un bel da dire, fassone di qui, bue grasso di là, la Vegia era il miglior modo di mangiare la carne. “Roladin-e” Alcune parti più dure della Vegia si usavano per fare le roladin-e; si tagliavano delle fettine ben battute, poi si spalmavano con un trito fine di prezzemolo, un po’ di lardo e pochissimo aglio o niente. Si rosolavano bene e si bagnavano con il brodo fino a quando erano tenere. Si mangiavano così, alla fine avevano fatto una bagnetta che era una cannonata. LA “BUSECA” L’uso alimentare delle interiora animali ( stomaci e intestini) , pur essendo diffusissimo in ogni epoca storica, fu a lungo circondato da radicati pregiudizi psicologici. Cibo “sporco”, contaminato, degradante per chi lo rende commestibile con un lungo e paziente lavoro, era ritenuto indigesto, greve, grossolano, di scarso nutrimento, quindi adatto alle genti mechaniche. Proprio la sua infima collocazione sociale ne calmierava il prezzo, rendendolo accessibile anche alle risicate finanze delle plebi urbane e a quelle certo non molto più floride delle classi rurali. La trippa ha da sempre un rapporto privilegiato con il mondo contadino, che per lunghissimi periodi l’ha considerata come una delle derrate “convenienti” ed acquistabili anche al di fuori dello stretto regime di autarchia produttiva della cascina. La trippa è uno degli irrinunciabili articoli alimentari acquistati al mercato settimanale, assieme al merluzzo, alle acciughe e a poco altro. Il mercato non è solo un momento di compravendita delle merci; è soprattutto un rito sociale a cui pochissimi contadini si sottraggono, indispensabile per scambiarsi informazioni e notizie, ampliare l’orizzonte delle proprie vedute e delle proprie conoscenze, vedere gente di altri paesi, tutelare i propri interessi etc. Gli statuti medievali dei nostri comuni stabilivano addirittura per i contadini l’obbligo di frequentare il mercato dal mattino fino all’inoltrato pomeriggio; l’obbligo di trascorrervi molte ore divenne in seguito un’abitudine viva ancora oggi. Fino ad un passato abbastanza recente, frequentare il mercato e i rapporti interpersonali che esso implicava voleva dire anche nutrirsi, e farlo in modo “sociale”. Si andava nelle numerose osterie, trovandoci poi sensali, commercianti, allevatori, mediatori ed altra varia umanità, continuando il gran gioco delle chiacchiere e degli affari. Tutto all’insegna di un unico cibo, uguale dal Po all’appennino: la minestra di trippa, dal Po all’Appennino chiamata semplicemente Buseca ( e pronunciata, soprattutto dalle nostre parti, con una u francese talmente chiusa da suonare come una i). Una minestra calda, densa, gustosa, i cui effluvi già dal mattino riempivano le strade del paese. Una minestra poi ripetuta e riprodotta anche nelle cucine di casa, nei giorni successivi. La ricetta è sostanzialmente una sola: la trippa, tagliata a listarelle, viene rosolata e stufata con abbondanti cipolle affettate, poi unita ad un minestrone di sole verdure già a metà cottura, e lasciata cuocere insieme ad esso fino alla fine. Il minestrone è composto da tutte le verdure dell’orto disponibili: sedano, carota, porro, fagioli, zucca, patate, biete etc, tutto pazientemente tagliato a dadini piccoli. Universalmente praticata era l’aromatizzazione finale con un pizzico di droga “La Saporita”. Costantina Scuvero (Montechiaro) “ Si, la Biseca si faceva , una o due volte al mese: la trippa si comprava, ma non era mica cara, la potevano compare tutti. Si tagliava la trippa e si faceva rosolare con tante cipolle affettate fini; mandava un profumo! A parte si metteva su un minestrone con le verdure che c’erano, più ce n’erano più era buono. Quando le verdure del minestrone erano cotte e la trippa con le cipolle anche si metteva tutto insieme, e si faceva cuocere ancora un po’. Oggi la trippa sembra plastica, non sa più di niente…allora sembrava niente ma era un bel mangiare! La “Biseca”delle osterie moncalvesi. Un’insolita e raffinata variante della Biseca è quella raccolta a Moncalvo, e reperita solo in tale comune. Non è una ricetta contadina, ma è comunque antica e tipica delle vecchie osterie che la preparavano rigorosamente nel giorno di mercato. E’ una ricetta che unisce alla semplicità di preparazione anche una grande eleganza. Vincenzo Testa ( Moncalvo) “ A camminare il Giovedì mattina ( giorno di mercato, n.d.r.) per Moncalvo una volta si sentiva solo un unico profumo di Biseca, dappertutto. Quelli che venivano al mercato la Biseca la mangiavano per colazione. Ma poi la biseca si faceva anche in casa, perché la trippa costava poco ed era buona, quando i macellai ammazzavano c’era la fila di gente che comprava la trippa. Qui a Moncalvo la Biseca si fa così: si prendono tante cipolle bianche, e si affettano sottili, poi si fanno appassire a fuoco lento, si fanno venire trasparenti e ben dorate; quando sono fatte si aggiunge il brodo bollente e si fa bollire. Intanto si taglia la trippa a listine, perché sia buona ci vuole un misto di tutti i tagli, e gli si dà una rosolata in padella; quando è tenera si butta con le cipolle ed il brodo, e si finisce di cuocere. Quando si serve si condisce con un pizzico di droga “La Saporita”, quella ci vuole sempre La trippa “ Camodaja”. Se la minestra di Biseca era assolutamente predominante, la trippa era anche frequentemente “accomodata” in un umido appetitoso. Anche in questo caso, la ricetta si ripete senza sostanziali varianti in tutto il territorio in esame. Una delle più complete sembra essere quella praticata a Villafranca e verso la valle del Borbore. In essa la trippa, tagliata a listarelle, viene ben rosolata con abbondante cipolla affettata, poi si univano patate, carote e sedani a toccotti, aggiungendo abbondante conserva casalinga diluita con brodo, o pomodori freschi ben maturi nella stagione opportuna. La trippa cuoceva fino a quando le verdure erano ben tenere, e la Bagna abbondante ma densa. Costanza Sardo ( Villafranca) “ La trippa piaceva tanto! Quando si prendeva si faceva in due modi: in minestra, e allora si chiamava biseca, oppure camodaja. Per fare la minestra si faceva rosolare la trippa con le cipolle, poi si univa a un minestrone fatto a parte, di verdure tagliate a pezzetti, carota, sedano, patate, zucca, zucchini, fagioli, coste, quello che c’era. Invece per quella camodaja si faceva rosolare la trippa con la cipolla, poi si univano carote, patate e sedani tagliati a bei tocòt; si aggiungeva un bel po’ di conserva della nostra , e si bagnava anche con un po’ di brodo. Si faceva cuocere piano fino a quando la trippa era ben tenera, le verdure cotte e la bagna ben legata. Si mangiava da pietanza, oppure con la polenta, perché aveva tanta bagna….Si faceva anche la trippa di gallina con le budelline della gallina, ma si faceva solo rosolare con le cipolle, così al naturale senza mettere altro. Era anche buona, ma che vita a farla venire pulita! Carla e Franca Quirino. ( Montemagno) “Da noi la biseca era solo quella in umido, in minestra non si faceva…si facevano già tante minestre che quando c’era la trippa si preferiva farla in umido. Si tagliava la trippa mista e si rosolava con una o due cipolle, poi si metteva tanta conserva o meglio ancora anche pomodori freschi, se era in stagione, e patate a toccotti e un po’ di brodo. IL POLLAME L’azienda contadina famigliare è organizzata secondo “sfere d’influenza” autonome e separate. I campi, la vigna e la stalla sono di totale competenza maschile; la bachicoltura ed il pollaio sono rigorosamente riservati alle donne. I proventi della loro gestione confluiscono nel reddito comune, ma sono gestiti liberamente dalla componente femminile. La massaia li utilizza ad esempio per l’acquisizione del vestiario o dell’attrezzatura di cucina, e non di rado per piccole spese voluttuarie concernenti il corredo. Il pollaio è dunque un’attività finalizzata essenzialmente alla produzione ed al reddito: polli e uova vengono venduti al mercato settimanale del paese o della città più vicina ; solo una percentuale di essi viene destinata all’alimentazione, percentuale più o meno consistente a seconda delle possibilità economiche della famiglia. Le galline “a fine carriera”, di difficile commercializzazione, sono per contro destinate con frequenza alla mensa, dove in molti casi costituiscono una delle fonti privilegiate, se non esclusive, dell’approvvigionamento carneo. Della gallina, come del maiale, non si butta via niente. Viene uccisa in modo cruento e doloroso ( mediante amputazione della lingua) per raccoglierne il sangue, poi mescolato con mollica di pane inzuppata nel latte per essere fritto in una sorta di tortino. Le piume servono alla fabbricazione dei cuscini. Le interiora ( fegatini, duroni, cuore, reni, ovaie) vengono religiosamente riservate alla preparazione dei condimenti per la pasta , la minestra o il risotto. Buona parte dell’intestino è trasformata in trippetta da mangiare rosolata con le cipolle. Le zampe, pazientemente raschiate e spellate, si fanno bollire per essere mangiate con salsa verde. La gallina viene cucinata ovunque in un solo modo: lessata. Fornisce così il brodo per le minestre ed il “secondo piatto” dei pranzi domenicali. Molto più saltuariamente i grandi pollai delle famiglie benestanti concedono un pollo , un galletto o un cappone da sacrificare in occasione di feste o ricorrenze particolari. Le loro carni, gastronomicamente più versatili, sono elaborate secondo stilemi più vari ed articolati. Il pollo, soprattutto nella parte astigiana del territorio, è molto amato nella ricetta “alla Cacciatora”, ma praticato anche in umido in camodaje di conserva e verdure anche sottaceto ( soprattutto in Monferrato) , o arrosto con l’accompagnamento di cipolle o patate. Nelle principali feste del periodo estivo è frequentissimo ( e molto antico) l’uso del “polo in gelatina” fatta in casa con lo zampetto di vitello o di maiale appositamente acquistato. Il cappone, riservato solo al Natale o alla festa Patronale, è sempre e soltanto lessato per ottenere un brodo “grasso” particolarmente pregiato, e poi facoltativamente padellato con burro, aglio, lauro e rosmarino. Particolarmente interessante ( e per certi versi entusiasmante) il gallo “alla babi” radicato nell’Astesana centro-occidentale, fra le valli del Borbore e del Triversa. Il pollaio contadino è popolato anche di animali “pregiati” finalizzati alla vendita: tacchini, oche ed anatre. Solo in casi eccezionali vengono utilizzati nei pranzi festivi: particolare e caratteristico, in tal senso, l’uso dell’oca nel pranzo della mietitura, rinvenuto a Villanova. POLLO ALLA CACCIATORA Il nome della ricetta è relativamente recente e si rifà a preparazioni diverse diffuse un po’ in tutta Italia, ritenute ideali per i pranzi conclusivi delle battute di caccia. La sua definizione, per contro, è decisamente anteriore, e limitata all’àmbito sud-piemontese. Compare per la prima volta nel 1822 , ed è descritta nel ricettario “Polizia e Cucina”. In essa il pollastrello , dopo una sommaria rosolatura, cuoce con pomodori freschi, prezzemolo, cipolla e sedano. Una ricetta pressochè identica a quella trasmessa dalla signora Maria Vergnano di Villanova. “Il pollo alla Cacciatora noi in casa nostra l’abbiamo sempre fatto così: tagliamo il pollo a pezzi e lo facciamo rosolare con olio e burro; quando è colorito ci mettiamo un bel po’ di pomodori freschi, prima spelati e strizzati dell’acqua e dei semi, poi tagliati a toccotti. A parte, con un po’ d’olio, facciamo andare una o due belle cipolle tagliate a fette, con una carota e due gambe di sedano tritate finissime; quando è tutto ben rinvenuto e soffritto, lo mettiamo con il pollo e lasciamo cuocere. Infine , quando è quasi pronto, ci mettiamo anche un bel trito di prezzemolo”. Il pollo alla Cacciatora è praticato anche in alcune varianti: in certi casi la componente aromatica è affidata all’alloro ed al rosmarino anziché al prezzemolo; in altri la cipolla è fatta rosolare direttamente con il pollo e non aggiunta in un secondo tempo. GALLETTO ASTIGIANO ALLA “BABI”. E’ presente, e probabilmente autoctono, nell’antica Astesana al di qua e al di là di Tanaro. E’ una probabile derivazione del medievale pollo all’agresto, cotto con il succo dell’uva acerba, in questo caso sostituito da vino giovane dalla spiccata acidità. Il nome della ricetta deriva dal fatto che il volatile viene cotto aperto “a libro”, assumendo le sembianze di un grosso rospo, che in piemontese è definito “babi”. Si tratta di una preparazione assolutamente originale ed insolita, che non ha alcun punto di contatto con il “pollo alla babi” usato nelle cucine borghesi della Regione, identificabile con il pollo “alla diavola” diffuso in molte altre zone d’Italia. Il galletto è preferito per le sue carni più sode e saporite, che traggono giovamento dal tipo di cottura affatto particolare. L’animale viene aperto lungo la linea dello sterno, e allargato, come si diceva, “a libro”. In un tegame largo o meglio ancora in una padella viene fatto rosolare con olio e burro, a fuoco vivo, fino a fargli prendere colore da entrambe le parti; poi si uniscono abbondanti foglie di lauro ( da dodici a ventiquattro, secondo le dimensioni) qualche spicchio d’aglio vestito, e una buona bottiglia di vino rosso generoso ma giovane; infine si sovrappone al galletto un grosso peso ( in genere una pentola piena d’acqua) e si cuoce a fuoco vivo circa 20/30 minuti per parte. Grazie a simili accorgimenti ( il peso sovrapposto e l’abbondante presenza del vino) la carne piuttosto coriacea del galletto diventa tenera e succulenta pur mantenendo un’ottima consistenza, assume esternamente leggere screziature vinose e si impregna delicatamente dell’aroma del lauro. Il risultato è straordinariamente originale, di gusto antico ed insieme attualissimo, tanto da poter rappresentare un vero blasone della gastronomia territoriale. LE UOVA Le uova prodotte dal pollaio sono destinate ad un piccolo ma significativo commercio casalingo, ma al tempo stesso, nelle stagioni più opportune, rappresentano una preziosa risorsa alimentare, usata con oculata parsimonia ma anche con comprensibile frequenza. In primavera e per tutto il periodo quaresimale l’euv dur è l’obbligatorio compagno delle insalate selvatiche o delle bagne d’erbe. Negli altri periodi dell’anno l’uovo è usato come versatile ingrediente gastronomico nella cucina quotidiana, in preparazioni che, grazie all’abbinamento con altre materie prime, permettono di renderne sostenibile la quantità d’impiego. Tali preparazioni si possono raggruppare in quattro filoni tipologici: le Frittate, i Friciolin , le Fricassee e le Bagne. Frittate Sono prevalentemente a base di uova e verdure dell’orto; possono accogliere parti più o meno consistenti di carni o salumi avanzati, e in tal caso si definiscono Rognose. Le frittate contadine del nostro territorio, indipendentemente dagli ingredienti impiegati, rispondono a caratteri tipologici costanti: sono sempre molto alte, quasi quanto una torta; si consumano prevalentemente tiepide o fredde, rigorosamente spruzzate d’aceto, altrettanto obbligatoriamente accompagnate dall’insalata verde. Le ricette più comuni e conosciute sono le seguenti. Frittata invernale di patate. Le patate, tagliate a dadini, sono preventivamente arrostite in padella con profumo di rosmarino, poi unite alle uova sbattute per la preparazione della frittata. Frittata di cipolle. Le cipolle sono fritte ed indorate a fette. Frittata verde. Tipicamente primaverile, può essere preparata con ortaggi “a foglia” misti o singoli: biete, erbette, spinaci, lattughe etc. E’ sempre aromatizzata con prezzemolo o con Erba di San Pietro. Frittata verde “selvatica” . Simile alla precedente, è però composta di erbe spontanee, prime fra tutte: ortiche, papaveri, luppolo selvatico. Frittata di zucchini. Può essere preparata con l’ortaggio o con i suoi fiori, o con entrambi. Frittata di coste. Utilizza il gambo delle biete. Friciolin Si distinguono dalle frittate per il formato monoporzione e per la presenza quasi costante del riso fra gli ingredienti. Il Friciolin è il classico piatto che utilizza gli avanzi del pranzo festivo, e vive in connubio strettissimo con il risotto. La sua preparazione è dettata dalla fantasia e, soprattutto, dalle materie prime disponibili. Il più classico dei Friciolin, ancora attualissimo se proposto come invitante stuzzichino, è composto da una parte di risotto, una parte di carni avanzate , una parte di vegetali verdi più una obbligatoria nota aromatica conferita dal prezzemolo o dall’Erba di San Pietro o da entrambi. Fricassee Il termine è italiano, perché nella nostra zona i piatti di questo tipo non possiedono un nome proprio, ma sono noti sporadicamente come “maritati”. Le antichissime fricassee italiane, estremamente diffuse già nel medioevo, costituiscono una famiglia sterminata di alimenti fritti o stufati, arricchiti a fine cottura da una sbattuta d’uovo e succhi acidi ( limone, aceto o agresto) che rapprendendosi conferisce loro una consistenza cremosa e legata. La nostra cultura contadina ha tramandato fino ad oggi una serie di preparazioni “maritate” che un tempo costituivano soprattutto piatti serali. In esse l’ingrediente principale è costituito da un ortaggio, e la sbattuta d’uovo è resa agra esclusivamente con l’aceto: sono preparate in questo modo le coste, gli zucchini, gli spinaci, i porri e le cipolle. Bagne Sono intingoli brodosi o cremosi in cui l’uovo è affogato intero o utilizzato come addensante. Nel primo caso è da ricordare l’universale, quaresimale Bagna d’ton, o Bagna d’arbion. In una base abbondante di prezzemolo rosolato in olio, cipolla tritata ed aglio si aggiunge acqua, poca conserva, pisellini novelli, bricioloni di tonno. Nel finale vi si dispongono mezze uova sode, o vi si rompono uova fresche lasciandole rapprendere “all’occhio di bue” senza disfarle. Nel secondo caso è da ricordare ( e anche da riproporre) la splendida Bagna d’Tomatiche, estiva, più specifica dell’area astigiana. I pomodori più maturi, preventivamente spellati e strizzati, vengono tirati in un tegame di coccio con cipolla tritata e profumo di alloro, prezzemolo o basilico, fino ad avere una salsa omogenea e piuttosto densa; in essa si fanno rapprendere, mescolando, alcune uova intere ben sbattute, fino ad avere una consistenza cremosa. Questa bagna, semplice e ad un tempo raffinatissima, si mangiava con il pane; oggi continuerebbe a fare un figurone servita nei dianet di coccio, accompagnata da fette nostrano leggermente tostate e profumate d’aglio! IL CONIGLIO Fra le carni occupa un posto di primissimo piano nell’alimentazione contadina, ma è bene tener presente che la sua diffusione generalizzata risale a tempi relativamente recenti, comunque non anteriori al XIX secolo. Rimasto a lungo appannaggio delle famiglie contadine benestanti, conobbe una crescente espansione nel corso del Novecento, in particolare agli anni precedenti la seconda guerra mondiale, quando il regime fascista ne incrementò in ogni modo l’allevamento famigliare per far fronte alla cronica penuria di carni. Il coniglio, poco esigente in fatto di alimentazione, rapido nell’accrescimento, estremamente prolifico, divenne in quel periodo un’insostituibile risorsa soprattutto per le più modeste famiglie contadine, alternandosi al pollame come “carne festiva”. Il suo uso gastronomico segue gli imperativi della cucina contadina, che generalmente concepisce la carne come accompagnamento per la polenta, e ne prevede la frequentissima cottura “in umido” per ottenere abbondanti sughi utilizzabili allo scopo. Nella collocazione festiva di “secondo piatto” che segue minestre asciutte o in brodo, il coniglio è però l’unico tipo di carne che permette alla cuoca contadina di cimentarsi con l’arrostitura o con preparazioni altrettanto invitanti. Le interviste condotte hanno permesso di individuare le principali modalità di cottura. Coniglio arrosto. Viene arrostito in pezzi o anche intero, in tegame, con fondo di olio, burro, lardo raschiato, e aromatizzato con rosmarino ed aglio vestito. A Villanova durante la cottura si aggiungono cipolle e carote intere, che cuociono a loro volta assorbendo il sugo del coniglio, andando a costituire in seguito il suo appetitoso contorno. Coniglio arrosto marinato. Una ricetta molto vecchia, reperita solo a Villafranca. Il coniglio, fatto a pezzi, è spruzzato di aceto forte, poi spennellato di olio e cosparso con abbondante rosmarino ed aglio tritati, quindi lasciato marinare per una notte, e arrostito il giorno dopo. Coniglio con peperoni. E’ un tipico piatto estivo, diffuso un po’ ovunque, con una leggera prevalenza dell’area monferrina. Il coniglio viene arrostito al naturale, mentre in un’altra casseruola si cuoce una peperonata; prima della completa cottura della carne, le due componenti si assemblano e si fanno insaporire fino al momento del servizio. Coniglio “camodà”. E’ cucinato secondo le modalità della carne “camodaja” : dopo una breve rosolatura con cipolla ed aromi, viene coperto con conserva casalinga diluita in acqua, e cuoce con patate a toccotti o, più raramente, cipolline intere. Con l’abbondante intingolo ottenuto accompagna la polenta. Coniglio in bagna, o “al sivè” o “in salmì” Sono adattamenti mutuati dal modo osservato dalle cucine nobili e borghesi per cucinare la lepre. La carne viene fatta marinare per una notte con vino rosso , cipolla, sedano, carota e aromi, poi sgocciolata, facoltativamente infarinata, rosolata a fuoco vivo quindi portata a cottura con il liquido della marinatura. Il fondo di cottura è passato al setaccio per ottenere una salsa omogenea e densa. Le diverse denominazioni del piatto sono in relatà intercambiabili, e si riferiscono ad una ricetta sostanzialmente omogenea. Da ricordare che la parola “sivè”, spesso francesizzata in “civet”, deriva dall’antico italiano “civiero” a sua volta mutuato dal francese “gibier”, e indica già dal medio evo tutte le preparazioni “ a mò di selvaggina”, cotte in umido con salse dense e scure, a base di vino e aromi diversi. Coniglio in umido. Al coniglio rosolato si aggiunge un abbondante trito di verdure e di profumi, e si copre con acqua o brodo e poca conserva casalinga. Si ottiene una salsa fresca e leggera adatta al periodo estivo. Molto spesso il liquido di cottura è costituito da aceto diluito, che conferisce un sapore agretto molto apprezzato. Coniglio bollito. Viene preparato quando in casa c’è un malato o un convalescente, perché il suo brodo è ritenuto dotato di grandi virtù terapeutiche e corroboranti. La carne bollita, decisamente insipida, viene spesso marinata con olio, aglio, salvia, sale e pepe per ottenere il “tonno di coniglio”, oggi riesumato da ristoranti “tipici” o trattorie come raffinato e fresco antipasto. Non bisogna infine dimenticare la grande importanza assunta dal fegato del coniglio per la preparazione di raffinati sughi per paste e minestre asciutte; per la sua delicatezza è preferito ai fegati ed alle regaglie di pollame, di sapore più amarognolo. TESTIMONIANZE Maria Vergnano ( Villanova): “ Il coniglio si faceva in bagna per compagnare la polenta oppure arrostito come pietanza. Per farlo in bagna lo mettevo in fusione per una notte, a pezzi, con cipolla, aglio, sedano, carota, rosmarino e lauro, coperto di vino rosso. L’indomani si tirava su dalla fusione e prima si rosolava con burro e un po’ di lardo raschiato, poi si aggiungeva vino bianco, non più nero, e le verdure tirate su dalla fusione. Quando era cotto si passavano le verdure, e così stava un buonissimo sugo per la polenta. Per fare il conij rostì invece il coniglio si tagliava a pezzi e si cuoceva subito; prima si rosolava con olio, burro, una raschiata di lardo e rosmarino, poi si aggiungevano nel tegame due o tre belle cipolle intere, due o tre carote intere, che cuocevano insieme al coniglio, e alla fine si servivano da contorno. Alla fine non sapevi se erano più buone le verdure arrostite o il coniglio…” Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa ( Montemagno) “ Il coniglio si faceva sempre camodà, farlo arrostito era anche buono, ma sembrava uno spreco prechè non c’era la bagna da mangiare con la polenta o con il pane. Per farlo, qui si tagliava il coniglio a pezzi e si faceva rosolare con una bella cipolla tritata, e un bel trito di gusti, anche, rosmarino, fogliette di sedano, prezzemolo. Quando era rosolato si metteva acqua e conserva abbondante , e patate a toccotti, e si faceva cuocere; bisognava avere una bella bagna densa e appetitosa, ma tanta, doveva bastare per tutta la famiglia. Vincenzo Testa ( Moncalvo) “ Il coniglio si faceva in settimana da mangiare con la polenta, allora si faceva con delle bagne più lunghe possibili, tutti avevano un pezzetto di coniglio, e poi …giù bagna sulla polenta ! Alla domenica il coniglio invece era una pietanza, si mangiava dopo la minestra. Poteva essere arrostito con le patate, ma specialmente d’estate si faceva tanto con la povronà. Si faceva una bella peperonata e poi a parte si arrostiva il coniglio, quando erano quasi cotti tutti e due, si mettevano insieme a finire di cuocere. Angela Bersano ( Moransengo) “Da noi il coniglio si usava tanto farlo al sivè come la lepre, solo non si metteva il fegato perché si usava sempre per fare il condimento della pasta o dei tajarin. Lo mettevamo in fusione con il vino nero e le verdure, lauro, chiodi di garofano, poi si faceva cuocere sempre con il vino nero e quelle verdure, e alla fine si passavano e veniva una bella bagna gustosa per la polenta. Oppure lo facevamo in umido: si rosolava il coniglio a pezzi, poi si univa un gran trito di verdure e di gusti: cipolla, carota, sedano, aglio, rosmarino, prezzemolo, tutto ben tritato con la mezzaluna; si mettevano due o tre cucchiai di conserva e si bagnava con il brodo, o più sovente con l’acqua; era anche buono così, l’importante che ci fossero tante verdure e poca acqua…” Anna Obermitto ( Frinco-Montechiaro) “Il coniglio c’erano due maniere per farlo: rostì o comodà. Se si faceva arrostito si faceva cuocere con il lardo a pezzettini e una bella capilà di cipolla e rosmarino fini fini; si bagnava poco durante la cottura, un po’ di vino bianco o se ce n’era in casa una goccia di grappa o di cognac, perché doveva stare bello dorato, quasi rosso. Quel rosmarino tritato con la cipolla gli dava un buon profumo! Il coniglio comodà si faceva per compagnare la polenta; si faceva rosolare il coniglio, poi si metteva conserva, acqua, patate a pezzi e qualche gusto, e si lasciava cuocere così fino alla fine. Costanza Sardo ( Villafranca) “ Il coniglio si faceva come facevano tutti, arrostito o comodà. Ma poi mia nonna aveva una ricetta speciale che noi continuiamo a fare ancora adesso perché è proprio buona. Si taglia il coniglio a pezzi e si spruzza di aceto forte, poi si ungono bene tutti i pezzi con l’olio. Si fa un bel trito finissimo con aglio e rosmarino, e si spalma sui pezzi di coniglio, che si mettono ben stretti in un grilet e si bagnano con ancora un po’ d’olio. Si tiene così in fusione per una notte, poi l’indomani si sgocciola bene e si fa arrostire a fuoco vivo, che sia ben dorato; prende un profumo che è una meraviglia. Questo è proprio un modo vecchio per fare il coniglio.” IL FRITTO MISTO , O “FRICIA” Tra i piatti della grande cucina festiva contadina nel territorio in esame, spicca per assoluta predominanza il “Fritto Misto”, denominato “Fricia” nella parte monferrina. Condivide il ruolo di “blasone” gastronomico con gli agnolotti, ma come questi ultimi sono rivestiti di un’aura sacrale e ritualmente famigliare, così esso è brillantemente mondano, estroverso, sontuoso ed opulento. Quando lo si prepara, una o due volte l’anno, non di più, la famiglia contadina accantona per un momento la sua parsimoniosa oculatezza, e mette mano al portafogli; non potrebbe fare altrimenti, visto che si tratta di un piatto “sociale”, riservato alle occasioni in cui la tavola ordinaria accoglie parenti ed amici, in un chilometrico profluvio di offerte gastronomiche. Un atteggiamento ben descritto dal montechiarese Roberto Sacchetti nel 1876: “ Le sagre nell’Astigiano e nel Monferrato durano due giorni: la Domenica e il Lunedì. I giovanotti e le ragazze non ci vanno che il pomeriggio del primo giorno e la sera del secondo, un paio d’ore per ballare. Invece per i viziosi induriti, per i festaioli seri, sono gozzoviglie grossolane, monotone, sterminate come quelle dei “Niebelunghen”, di quarantott’ore di seguito: pranzano, merendano, fanno cena all’imbrunire, l’arcicenone a mezzanotte; poi colazione coi peperoni e il cacio “bross”, e daccapo pranzo, merenda come il giorno prima. Tra un pasto e l’altro bevono incessantemente.(…) Il capocasa va in giro per il paese a caccia di invitati, le donne aspettano sulla porta di casa. Il ricusare è offesa grave.” ( R. Sacchetti “ Vecchio Guscio” edizione curata da A. Brosio, Asti 1983, p. 254) In tali circostanze l’occhio critico e indagatore degli esterni non perdona: ogni manchevolezza, ogni meschinità sarà presto diffusa in tutto il paese. Chi persegue la bella figura come stile di vita sociale ( ed è la maggior parte delle famiglie contadine possidenti) non può permettersi di essere additatato al pubblico ludibrio proprio in momenti in cui lo “stile” viene messo alla prova. Il fritto misto, in un simile contesto, diventa un piatto d’obbligo, perché rilevatore non solo delle capacità culinarie della famiglia, ma anche delle sue capacità economiche , delle sue abilità strategiche e logistiche, della sua cultura dell’accoglienza e dell’ospitalità. Come rilevato in una delle testimonianze sotto riportate, il Fritto Misto, più che un piatto, è una festa sensoriale che investe il gusto, l’olfatto, la vista e, aggiungerei, anche l’udito, preso atto che la versione più perfetta è inscindibile dallo sfrigolare delle padelle e dal tintinnio dei piatti. Per il contadino è un’occasione di confrontarsi con la Gastronomia, con il Simposio, e di proclamare al cospetto del mondo la sua capacità di recepire e dispensare simili piaceri della vita, che le strutture sociali ed economiche fanno di tutto per sottrargli. Preparare ed offrire Il Fritto Misto, per la famiglia contadina di un tempo, equivale a sottoporsi a un’ordalìa: uscirne indenne vuol dire rafforzare la credibilità del proprio status sociale, dimostrare la propria largesse ma anche il proprio senso estetico e civile. Chi non ha mai vissuto un autentico Fritto Misto contadino difficilmente riesce a rendersi conto di ciò. Bisogna aver vissuto i preparativi febbrili, la concitazione, l’euforia preoccupata di cucine abituate a ben altre realizzazioni, a ben altri stili. Bisogna aver respirato il clima di battaglia campale di quei momenti , in cui l’onore della famiglia è affidato alla velocità, alla tempestività, al senso strategico di cuoche che dovevano garantire la perfetta, simultanea cottura ed il tempestivo servizio di Fritti destinati a dozzine di persone. Bisogna aver toccato con mano la perfezione olimpica dei grandi vassoi in maiolica perfettamente stipati dai vari ingredienti, assemblati e disposti come piccole opere d’arte, cerimoniosamente portati sulla tovaglia buona di lino o di spigo , ossequiosamente serviti come in un convito in Apolline da donne di ogni età, che magari avevano posato la zappa da poche ore, ma che sfoggiavano nastri di raso al collo, pendenti d’oro alle orecchie, fazzoletti di seta sfrangiata sulle spalle. Solo così si può capire come mai proprio questo piatto abbia potuto incarnare nel tempo, più di altri, l’estenza stessa della festa e del godimento gastronomico. Profilo storico E’ bene chiarire che, contrariamente a quanto affermato più volte dalla pubblicistica gastronomica locale, il Fritto Misto festivo contadino non ha nulla da spartire con la rustica frittura che celebra il giorno dell’uccisione del maiale, se non la condivisione di alcuni ingredienti. Il Fritto Misto è un piatto sontuoso e costoso, di origini piuttosto recenti, che il mondo rurale mutua dalla gastronomia nobile e borghese, adattandolo alle proprie esigenze, ai proprii gusti ed alla propria territorialità. Nell’avanzato XVIII secolo la cucina italiana, pur molto lontana dalla strordinaria fioritura raggiunta da quella francese, operò significativi alleggerimenti e semplificazioni nel modo di servire e comporre i banchetti nobiliari. Contrariamente alle epoche precedenti, quando il convito consisteva in alternati o giustapposti “servizi di credenza” e “servizi di cucina”, ognuno dei quali risolto con un’ondata di piatti assortiti senza alcun criterio che non fosse quello dell’abbondanza numerica, le nuove regole facevano riferimento a tre “piatti d’obbligo”, e cioè il lesso, l’arrosto ed il fritto, alternati da piatti meno impegnativi definiti, secondo la collocazione, “hors d’oeuvre”, “entrèes” e “tramessi” o “entremets”. Nel vitto ordinario ogni singolo “piatto” poteva ridursi anche ad una sola “portata”, ma nel vitto festivo era obbligatorio ampliarne il numero il più possibile, compatibilmente con le capacità della cucina e le disponibilità finanziarie. Il “piatto” diventava allora un “servizio”, che nell’unità tipologica della cottura e in quella cronologica della presentazione, offriva una ricca carrellata di preparazioni diverse. Nel 1822 ad esempio, un Servizio di Fritture offerto in una ricca casa del sud Piemonte poteva comprendere: fegato di vitello a fettine, fegatini di pollame interi, animelle prelessate, impanate e dorate, cervella e filoni allo stesso modo, musetto di vitello lessato, impastellato e fritto, tortelli di pasta ripiena di mandorle e frutta secca tritata, crocchette di riso, bocconcini di semolino, “palle di neve” ottenute dall’albume montato prima rassodato in acqua bollente poi fritto ( tutte le ricette, e altre, in Polizia e Cucina del 1822) . La cucina borghese adottò rapidamente il Servizio dei Fritti , alleggerendolo nel numero dei componenti e trasformandolo in un unico “piatto forte” : nasceva il cosidetto “Fritto misto all’Italiana”, declinato poi secondo le desinenze regionali in “fritto misto alla romana”, o “alla napoletana”, o “alla milanese” e così via. La ricetta, pur impegnativa, aveva il vantaggio di non richiedere particolari competenze culinarie, e si travasò senza problemi sulle tavole festive del mondo contadino sud-piemontese, che si limitò ad adattarla alle proprie esigenze e alle proprie possibilità. Nell’area monferrina, ed in quelle astigiane più contigue, prese il nome di Fricia, desumendolo dall’antica, rude frittura di interiora immancabile nel giorno dell’uccisione del maiale. Il termine piacevolmente “ruspante” si affievolisce fino a scomparire da mano a mano che ci si allontana dai confini del ducato gonzaghesco, lasciando posto alla dizione incontrastata di “Fritto misto”, una delle rarissime espressioni in lingua italiana presenti nella cucina contadina tradizionale. Il vero Fritto Misto contadino. Negli ultimi cinquant’anni la ristorazione “tipica” piemontese si è impadronita del Fritto Misto, proponendolo con una certa regolarità soprattutto nei grandi banchetti collettivi. La rielaborazione ristorantizia ne ha dilatato a dismisura il numero delle componenti, introdotte quasi sempre in modo del tutto arbitrario e “creativo” per ampliarne in modo ampolloso e stucchevole il suo innato barocchismo. I gastronomi locali, pur prendendo le distanze da certe artificiose forzature, hanno poi finito per avallare il concetto del “più c’è roba, migliore è il fritto”, finendo per credere che l’interminabile florilegio degli ingredienti fosse connaturato alla natura ed alle origini del piatto. In realtà il vero Fritto Misto-Fricia astigiano e monferrino, come tutta l’autentica cucina di territorio, persegue un suo equilibrio ed una sua eleganza: non è affatto una mitragliata di fritture servite una dopo l’altra senza capo né coda, ma una composizione unitaria che risponde a sue regole ben precise. Regole assolutamente costanti e rispettate in tutta la sua area di diffusione, ribadite con convinzione nel corso delle interviste eseguite. Regola numero uno: il Fritto Misto-Fricia è una sinfonia del gusto basata sul contrappunto dei sapori e delle consistenze: il dolce del semolino contrapposto al salato della salciccia, la setosità della cervella alternata al croccante delle carote, tanto per fare qualche esempio. Il Fritto Misto va gustato nella sua globalità: le sue varie parti devono comparire contemporaneamente sulla tavola, o al massimo in due riprese successive, sempre però sufficientemente assortite, in modo che il contrasto dei sapori e delle consistenze sia comunque rispettato. Sono da ritenere aberranti alcune mode “segregazioniste” affatto moderne che stanno prendendo piede in alcuni ristoranti della zona, dove si separano i sapori in servizi del tutto autonomi: prima, ad esempio, tutte le verdure, poi tutte le interiora, poi tutte le carni, infine tutti i dolci. Regola numero due: il Fritto Misto astigiano e monferrino, per definirsi tale, deve essere composto dai seguenti ingredienti “d’obbligo”: fegato di vitello a fettine; cervella in bocconi grandi come noci; filoni a tronchetti; animelle a fettine; piccole cotolettine di vitello impanate; friciolin doss, cioè semolino dolce tagliato a losanghe e impanato; salciccia magra di sicura bontà, saporita e croccante, girata a ferro di cavallo fermato da uno stecchino; griva o frissa al ginepro; carotine rosolate al burro, tagliate a sottilissime rondelle o a finissimi bastoncini, assolutamente non prelessate ma fritte a crudo. Basta questo per avere un piatto regale, purchè il tutto sia preparato, cotto, assettato e presentato nella maniera più acconcia. Aggiunte facoltative, sicuramente tradizionali e proficue, sono quelle dell’amaretto inzuppato nel Marsala, delle cimette di cavolfiore, dei “ granelli” di toro, dei bastoncini di zucchino impanati e degli spicchi di finocchio impanati. Aggiunta altrettanto facoltativa, tradizionale ma non gradita a tutti è quella del polmone, o fritura bianca. Tutto quanto non appartiene a questo elenco, dalle rane ai carciofi, dalle lumache all’ananas, dai “pavesini” ripieni di marmellata ai funghi porcini non è né tradizionale né territoriale. Regola numero tre: tutti gli ingredienti devono essere fritti nel burro; poiché la stragrande maggioranza di essi è stata prelessata, la frittura deve consistere in una “doratura” veloce; la panatura deve essere fatta impiegando pangrattato freschissimo e non conservato, setacciato con un crivello a trama fitta; la cottura deve essere contemporanea per tutti gli ingredienti, ed il servizio in tavola tempestivo. Regola numero quattro: i piatti dei commensali devono essere riscaldati; il Fritto misto non va disposto su vassoi d’acciaio ma su grandi bassille di maiolica, che non ne disperdono il calore e ne valorizzano il colore. Gli ingredienti devono essere sempre il più assortiti possibile, e quelli a sapore salato devono sempre essere accompagnati da quelli a sapore dolce. TESTIMONIANZE Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa ( Montemagno): “La Fricia! La Fricia era la cosa che si faceva più volentieri nelle feste grandi. Farla per la festa patronale, a San Martino, era un obbligo, la facevano tutti, in tutte le case. Si faceva con la salciccia, il friciolin doss, poi fegato a fettine, cervella, filoni, animelle, granelli di toro, poi bistecchine panate, e carotine al burro. Tutto ben impanato, ben dorato, servito insieme tutto bollente… si mettevano anche i piatti a scaldare, perché si potesse mangiare ben caldo. E si metteva anche il bagnet verd, come accompagnamento…” Vincenzo Testa (Moncalvo): “La Fricia si faceva in tutti i pranzi importanti, soprattutto se c’erano invitati di fuori. Era il modo per fare bella figura, tutti la sapevano fare molto bene, e per una volta non guardavano lo spendere, visto che si usavano tutte robe che andavano comprate, perché in casa non c’erano. Qui si faceva con la fritura dossa, quella nera ( fegato, n.d.r) e a volte quella bianca ( polmone, n.d.r.). Poi cervella, lacet (animelle, n.d.r.), filoni, e ancora salciccia, cotolettine impanate, carote fritte nel burro…A casa dei benestanti si usava anche l’amaretto, a volte, ma niente di più, niente di tutta quella roba che mettono adesso….” Angela Bersano (Moransengo) ; Bruna Perotto, Giuseppina Parena (Cocconato); Angela Romagnolo (Montiglio): “ Il Fritto Misto si faceva per la festa, e si invitavano tutti i parenti. Si faceva con la cotolettina, la salciccia, la cervella, i filoni, i friciolin dolci di semolino, e il fegato. Insieme si mettevano anche le verdure: carote al burro, finocchi e anche zucchini tagliati a filetti e impanati, se era stagione…” Maria Ferrero, Rina Bossone (Montechiaro) “Il Fritto Misto lo chiamano Fricia nel Monferrato, ma anche qui, si dice nei due modi, che è lo stesso. Si faceva per la festa di San Bartolomeo, al primo di Settembre, e poi tutte le volte che c’era qualche occasione importante. Il difficile non era tanto il farlo, ma farlo bene, perché deve essere servito caldo il più possibile, e tutto insieme. Allora se c’era tanta gente bisognava essere in tante donne in cucina, e chi faceva friggere, chi preparava la roba, chi preparava le bassille….un lavoro! Perlopiù si usavano il fegato e il polmone, la salciccia, la cervella di vitello, le cotolettine impanate, le carote al burro e i friciolin dolci, magari i filoni e i lacet se si trovavano, ma già così era un bel correre ! Costanza Sardo ( Villafranca) : “Qui il Fritto Misto si faceva per la festa patronale, a San Martino. Si faceva con la fritura dossa, la salciccia, le cotolettine impanate, il fegato, poi le grive, la cervella , i filoni ed il lacet, le carote. Però se c’era un’occasione davvero importante, allora si chiamava la Cusinera d’Sant’Antoni, e lei sì….Ci metteva anche gli amaretti bagnati nel Marsala e poi impanati, poi faceva delle crocchette di carne, il semolino lo faceva di due qualità, al naturale oppure con il cacao; anche di verdura non ci metteva solo le carote, ma anche delle patate tagliate a fiammifero, o delle cimette di cavolfiore impanate che sembravano cervella. E le pretese che aveva per servirlo! Usava solo le bassille di maiolica, ma la roba sopra ce la metteva lei, perché diceva che il fritto misto si gusta con la bocca, con il naso ma anche con gli occhi, e mettere la roba in un modo piuttosto che un altro voleva dire rovinare l’effetto; poi voleva che i piatti in tavola fossero caldi roventi, e allora corri a farli scaldare nel forno del potagè…! Per fare quei fritti misti lì metteva sotto tutte le donne di casa, perché da sola non poteva farcela; ma andava bene, perché così imparavano, e quando poi dovevano fare da sole avevano preso le malizie…” LA FINANZIERA L’assetto della “cucina tipica piemontese”, elaborato e definito nel corso del Novecento, ha assegnato una grande importanza a questa ricetta, proposta spesso come esempio di una gastronomia contadina rustica ma sontuosa. Un diffuso luogo comune, avvalorato anche dalla pubblicistica specializzata, la ritiene un piatto povero e arcaico, nato nella notte dei tempi presso le cascine per utilizzare i resti della trasformazione dei galletti in capponi, in seguito adottato dalle cucine nobiliari . La realtà è di segno diametralmente opposto: si tratta di una preparazione nata negli ambienti aulici della grande cuisine settecentesca francese, acclimatata in Piemonte e accolta anche in àmbito rurale. Profilo storico Nella seconda metà del Settecento alcuni grandi cuochi francesi elaborarono un filone di ricette consistenti nell’assemblaggio di ingredienti disparati in un fondo di cottura vellutato a base di vino Madera e funghi. Tali preparazioni, eleganti e raffinate nell’insieme ma estremamente ricche e lussuose nei componenti, furono battezzate “à la Financière” e furono rapidamente adottate dalla grande cucina internazionale. Nei primi decenni dell’Ottocento le ricette “à la Financière” compaiono stabilmente sulla tavola della corte reale di Torino e delle altre case regnanti in Italia. Particolarmente in Piemonte ottiene grande successo il “ragout à la Financière”, che dalla cucina di corte passa rapidamente a quelle delle grandi famiglie nobili, da dove si diffonde “a cascata” anche nell’ambito della ricca borghesia e dei ristoranti dei grandi alberghi. Il piemontese Giovanni Vialardi, capocuoco dei re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II , nel suo “Trattato di cucina pasticcera” pubblicato a Torino nel 1854 ne codifica la ricetta, ormai adattata al gusto regionale. “Mettete in un tegame un bicchiere di vino Marsalla con tre tartufi neri pelati e tagliati a soldi ( a fettine, n.d.r.), con un po’ di fondo o sugo ridotto, fate cuocere a metà, aggiungete due bicchieri di buona spagnuola ( salsa vellutata e cremosa, n.d.r.), con creste di galli cotte in bianco, due animelle alla “braise”( brasate, n.d.r) tagliate a pezzi grosse come piccole noci. Fate una ventina di “quenelles”fatti con la farcia ( polpettine di carne con mollica di pane, tuorlo d’uovo e profumi, n.d.r.) e fatti rotolare sul setaccio con farina in pezzetti grossi come noci piccole; imbianchiti e rappresi nell’acqua e sale, sgocciolateli e metteteli colla salsa che sia ben condita di droghe e sale con un po’ di funghi torniti cotti in bianco. Servitevi per diversi ripieni e guerniture; squisitissimo e prezioso intingolo.” Questo “ragout alla Finanziera” che tanto entusiasmava il Vialardi ed i buongustai della sua epoca, era concepito allora prevalentemente come “guernitura”, cioè contorno di servizi d’arrosti, ed in tale veste era proposto nelle occasioni conviviali tanto domestiche che ristorantizie. Alla fine dell’Ottocento la ricetta ormai nota come “Finanziera” tout court è ormai diffusa come piatto “alla moda” nella cucina borghese e ristorantizia di tutto il Piemonte. Nel 1898, ad esempio, essa è servita nel menu di una cena offerta a Canelli presso l’albergo “Croce Bianca” in occasione della “prima” dell’opera lirico-rievocativa “L’assedio di Canelli”. Nello stesso periodo la preparazione è introdotta nel mondo contadino ad opera delle cusinere e dei cusinè professionali, che ne fanno il punto di forza e di maggior risalto nei pranzi festivi delle ricorrenze “sociali”; da semplice “guernitura” viene trasformata in piatto completo, e irrobustita con l’introduzione di nuovi ingredienti ( ad es. bocconcini di polpa di vitello, cervella, filoni). In questa fase la ricetta originale viene semplificata per adattarla alle possibilità tecniche, logistiche ed economiche dei committenti. Scompaiono i tartufi e la “salsa spagnola”, ed in parallelo vengono saltuariamente adottati prodotti “autarchici” disponibili nelle dispense di famiglia: pisellini, regaglie di pollame ( le famose uova di gallo!), funghetti di campagna. Negli anni Trenta del Novecento, i ristoranti “turistici” del Piemonte elaborano e definiscono la “cucina tipica” regionale, adottando e popolarizzando la “Finanziera” nella sua versione “contadina”, implicitamente conferendole l’aura di arcaico “piatto rustico” tradizionale. La sua diffusa presenza nel settore alberghiero, nelle aree dove esso è particolarmente forte e organizzato, porta alla definitiva adozione della ricetta nel menage delle famiglie contadine; pur rimanendo riservata alle grandissime ricorrenze, la “Finanziera” sfugge al monopolio delle cusinere mercenarie e diventa appannaggio delle donne di casa. Donne che, dovendo costantemente confrontarsi con la penuria delle risorse, accelerano spesso il processo di “rusticizzazione”, non di rado apportando modifiche talmente radicali da arrivare ad esiti del tutto diversi rispetto alla ricetta di partenza. Oggi nel panorama della gastronomia territoriale la “Finanziera” è in netto declino, per non dire in incipiente rischio di estinzione. La decadenza della “cultura del cibo e del gusto” sta introducendo anche da noi una vera fobia alimentare di marca anglosassone nei confronti delle interiora, che sono la parte predominante e caratterizzante della preparazione; la laboriosità della ricetta la sta facendo emarginare da quei ristoranti dove il tempo è sempre più visto come moneta sonante, e dove, di conseguenza, sono ritenuti fattibili solo i piatti “espressi”, iper-veloci, come la famigerata “tagliata con rucola” o gli altrettanto tristi “tagliolini al pomodoro e basilico”. Geografia della Finanziera Come detto in precedenza, la “Finanziera” è nata nella Grande cuisine francese del Settecento, si è rapidamente diffusa in ambito internazionale, ha piantato profonde e definitive radici nel mondo aristocratico e borghese del Piemonte risorgimentale, diffondendosi “ a cascata verso il basso” fino a raggiungere la cultura conviviale contadina del nostro Territorio. Contrariamente ad altre illustri preparazioni, la sua diffusione nel mondo rurale, ancorché relativamente recente, non è stata né generale né univoca nei suoi processi. Una prima fase si è avuta allo scorcio dell’Ottocento, limitatamente alle aree geografiche economicamente più floride, ad opera delle cusinere che imparavano il mestiere presso le grandi casate di Torino, e lo mettevano a frutto nei propri paesi d’origine. In questa fase la ricetta viene “travasata” senza eccessive modifiche, rimanendo sostanzialmente allineata a quella fornita dal Vialardi nel 1854. Una seconda fase, più intensa, si svolge tra le due guerre del Novecento, parallelamente all’affermazione di una “ristorazione tipica” nata per le esigenze del nascente turismo domenicale. In questa fase la Finanziera si diffonde a “macchia di leopardo”, ed i centri di irraggiamento e penetrazione sono le località più dinamiche nell’attività alberghiera, o comunque più dotate di richiami “folcloristici”. La città di Asti in primo luogo, seguita da paesi turisticamente appetibili come Cocconato, San Damiano, Moncalvo, Castelnuovo Don Bosco , e nella zona meridionale Canelli, Nizza, Costigliole, Agliano. Fuori del territorio provinciale la Finanziera privilegia le Langhe del Barolo, già all’epoca contraddistinte da un vivace turismo eno-gastronomico, il Canavese, il basso Pinerolese. In tale periodo la ricetta originaria è sottoposta alle modifiche più radicali. Per quanto riguarda il mondo contadino e la sua memoria del quotidiano, bisogna tener presente che nel nostro territorio provinciale ( ma non solo) la Finanziera manterrà sempre i suoi connotati di piatto “straordinario”, lussuoso e non di rado inarrivabile. Dal punto di vista geografico essa risulta del tutto assente dalle tradizioni contadine dell’area monferrina orientale, dove è conosciuta ma non praticata se non, occasionalmente, dalle classi alte. Non a caso l’attigua area dell’Alessandrino storico ne è del tutto sprovvista. La finanziera “contadina” risulta appannaggio quasi esclusivo dell’area astigiana, tanto a Nord quanto a Sud del Tanaro, anche se non mancano significative attestazioni nell’estremo Monferrato occidentale della val Cerrina, storicamente più aperto all’influenza torinese. Proprio i contatti con la capitale sabauda sono all’origine delle modalità di diffusione di questa pietanza. Le testimonianze orali raccolte, oltre a permettere l’individuazione di una diffusione territoriale, hanno consentito di enucleare alcune tipologie di carattere prevalentemente “sociale”, a volte coesistenti nella stessa area; accanto alle ricette auliche, cronologicamente più antiche ed affini alla matrice “nobile” riportata dal Vialardi, si reperiscono quelle “rustiche” frutto degli adattamenti locali operati dalle cucine famigliari, generalmente più recenti e legate alla fase di maggior diffusione. La ricetta La versione “aulica” della “Finanziera” è rimasta di stretto appannaggio delle antiche cusinere, e delle famiglie del territorio che già in antico ne hanno stabilmente adottato l’esperienza, le capacità tecniche e le tradizioni. Tali famiglie contadine, contraddistinte da buone possibilità economiche, ne hanno fatto una bandiera gastronomica dispiegata in occasioni non frequenti ma importanti, tramandandone la ricetta per via rigorosamente matrilineare. Con minime varianti essa risulta radicata in tutto il territorio astigiano, con punte di notevole purezza nell’area di Cocconato e nella meridionale valle Belbo. La ricetta proposta, tramandata per via orale da almeno quattro generazioni è un documento eccezionale, non solo per la dettagliata precisione delle dosi e dei tempi di cottura, ma anche perché la signora che ne è attualmente depositaria si è rifiutata decisamente di essere citata, per una di quelle ritrosie che al di fuori degli schemi culturali del mondo contadino sono oggi difficili da capire. Tale ricetta, ancora oggi praticata ed utilizzata, è una delle migliori realizzazioni di vera gastronomia territoriale . Ingredienti per 8/10 persone: 1 kg di “bianco” di vitello ( cervella, filone, animelle)- 3 hg funghi porcini sottaceto con qualche cucchiaio della loro bagna- 3 hg coscia di vitello macinata; 3 hg filetto di vitello; 2 hg creste di gallo; 1,5 hg pisellini finissimi; 1 piccola cipolla; 1 cucchiaio conserva casalinga; Marsala secco; brodo di carne; farina, burro, pangrattato, uova, chiodi di garofano, lauro, ½ limone, parmigiano. 1) Sbollentare per due o tre minuti le cervella e i filoni, e privarli delle pellicine. Sbollentare per 5 o 6 minuti le animelle e spellarle accuratamente. Procedere allo stesso modo con le creste di gallo. 2) Affettare finemente la piccola cipolla senza colorirla: in un tegame grande, meglio se di coccio, farla appassire con una noce di burro . Unire 5 foglie di lauro e 8 chiodi di garofano interi , un cucchiaio di conserva casalinga e un mestolo scarso di brodo ben caldo. Mescolare e far appena sobbollire per 15 minuti a fuoco dolcissimo, poi riservare al caldo. In questo tegame con il suo fondo di cottura avverrà l’assemblaggio della Finanziera. In alcune varianti particolarmente nobili il brodo è sostituito da sugo d’arrosto sgrassato. 3) In una ciotola impastare la coscia macinata con due tuorli d’uovo, una manciata di parmigiano grattugiato, noce moscata, sale e pepe a piacere. Con questo impasto preparare delle polpettine grandi come una nocciola e infarinarle. In una padella larga fondere una noce di burro, e rosolarvi le polpettine; quando sono dorate spruzzarele con un bicchierino di Marsala e farle sfumare. Versare il tutto nel tegame di assemblaggio. 4) Tagliare il filetto di vitello in cubetti di 1 centimetro di lato, e infarinarli . Pulire la padella, rimettere sul fuoco con una nuova noce di burro; rosolare i cubetti, sfumandoli con il Marsala e versandoli in seguito con le polpettine. Ripetere la stessa operazione con le creste, tagliate in due o tre parti a seconda della loro grandezza. 5) Sbollentare brevemente i pisellini, poi rosolarli e stufarli al burro nella padella pulita, quindi versarli nel tegame principale. Tagliare i funghi porcini in grossi tocchi, se emolto grandi, o lasciarli integri se già tagliati all’origine. Buttarli nel tegame con due cucchiai della loro bagna. 6) Rimettere il tegame, con tutti gli ingredienti finora assemblati, a fuoco dolce; bagnare con un mestolone di brodo, un po’ di succo di limone e due cucchiai di Marsala. Far sobbollire mescolando delicatamente, per 10-15 minuti. Il tutto si deve legare in una salsa vellutata ed avvolgente, leggeremente acidula. 7) Mentre il tegame sobbolle, tagliare le cervella in porzioni grandi come noci; i filoni in tronchetti di 3 cm, le animelle in fettine alte un centimetro. Passare ogni cosa nell’uovo sbattuto e salato, poi nel pangrattato finissimo e setacciato. Rosolare separatamente nella padella i tre ingredienti, facendoli ben dorare, sfumandoli con il Marsala, e riservandoli al caldo. 8) A questo punto il tegame principale deve aver raggiunto la consistenza ideale, né troppo liquida né troppo asciutta. Unire tutto il “bianco” ben rosolato e dorato; mescolare lo stretto necessario e far insaporire per non più di 10 minuti, aggiustando il sale ed il brusco ( deve essere appena agretta) , aggiungendo poco brodo se tendesse ad addensarsi troppo. Se si passano i dieci minuti si perde la scenografica doratura del “bianco” rosolato. Da ultimo eliminare le foglie di lauro e servire, non troppo bollente. Le varianti Tutte le varianti praticate rispondono a due imperativi precisi: ridurre il costo del piatto e semplificarne la preparazione. Nell’area nord-occidentale della Provincia è molto diffusa una Finanziera basata prevalentemente sulle regaglie di pollame: non solo creste e bargigli, ma fegato, gricili, reni, addirittura intestino. Tali ingredienti sono spesso bilanciati da dal “bianco” di maiale o di vitello, e dalle polpettine di coscia di vitello, ma non mancano esempi e ricette autarchiche che prevedono il solo impiego di animali da cortile. Tutte le versioni che impongono l’utilizzo piò o meno esteso di materia “gallinacea”, a volte possono essere sbilanciate nel sapore pungente e caratteristico delle regaglie, a cui si rimedia con una più decisa componente acida, ottenuta non soltanto con funghi sottaceto, ma anche con l’aggiunta di “giardiniera” o di verdurine appositamente cotte nell’aceto bianco. A dimostrazione della discendenza da un unico ceppo, tutte le varianti reperite si assomigliano nella modalità di preparazione, anche se quelle “rustiche” eliminano il ricorso al fondo bruno di assemblaggio e sovente riducono ai minimi termini o sopprimono l’uso del Marsala secco, spesso usato come semplice “ritocco” finale e non di rado sostituito da una spruzzata di vino bianco secco. Tutte le varianti, anche le più rusticizzate, appartengono alla tipologia della Finanziera “astigiana”, ben distinguibile da quella “langarola” ( dove compare il fegato ed il rognone di maiale, il vino rosso, e dove il taglio degli ingredienti è molto minuto) e da quella “canavesana” ( dove la rosolatura è collettiva e la cottura avviene “in umido” mediante un’unica aggiunta iniziale di liquido). TESTIMONIANZE Margherita Amerio ( Dusino) “Anche lì, era uno di quei piatti che si faceva di rado, solo per occasioni davvero importanti, come una sposa o il disnè dei Rettori. Ai tempi di mia nonna si faceva con il “bianco” del vitello, cervella, filone e lacetto, che si prenotava per tempo dal macellaio, così tutto il paese sapeva che facevano la finanziera, però bisognava metterci anche un bel po’ di roba di pollame, per risparmiare: cresta, bargigli, la trippetta fatta con le budelline, anche il prè, ben cotto prima poi tagliato a fettine sottili. Si mettevano anche delle scaloppine di coscia di vitello piccole piccole. Si tagliava a tocot, si infarinava e si rosolava tutto, bagnando con vino bianco nella padella, una cosa per volta. Poi si metteva nella casseruola, con funghi casalinghi sottaceto, qualche cipollina fresca sbollentata croccante nell’aceto bianco, un pugno di pisellini se era stagione; si bagnava con un mestolo di brodo e un po’ d’aceto e si cuoceva a fuoco basso fino a quando tutto era ben legato. Ah, dimenticavo, la cervella bisogna aggiungerla all’ultimo momento se no si disfa tutta, e addio bellezza”. Maria Vergnano ( Villanova) “ Si faceva di rado, solo se cera qualche disnè importante da dare in casa. E anche quando si faceva, si cercava lo stesso di farla con quello che c’era in casa, soprattutto le creste e le uova dei galletti, i fegatini del pollame, quella roba lì. Si aggiungevano sempre delle scaloppine piccole piccole di coscia di vitello, e un po’ di polpettine di vitello macinate, quello si comprava, come anche i funghi porcini sottaceto, perché fatti in casa nessuno ce li aveva, e bisogna metterli per forza, per far star buona la Finanziera. Poi magari si metteva anche un po’ di filone, e il lacet di vitello… Si infarinava tutto e si rosolava nel burro, una cosa alla volta; ogni padellata si spruzzava con del vino bianco, perché il gusto della Marsala che usano in tanti a casa nostra non andava. Si riuniva tutto in un tegame, si aggiungevano i funghi e anche un po’ di giardiniera fatta in casa, a pezzetti, e anche un po’ di pisellini fini, se era stagione. Si bagnava con il brodo e si lasciava cuocere piano piano perché fosse ben legato, e alla fine, se non bastava, si aggiungeva ancora un po’ di aceto bianco, perché doveva avere una punta di bruschetto.” Carla Quirino, Margherita Bussa ( Montemagno) “ No, la finanziera qui da noi non usava, non ci ricordiamo di averla mai mangiata in casa, né vista preparare. Magari in paese qualcuno la faceva anche, ma in campagna non si usava.” Vincenzo Testa (Moncalvo) “ La finanziera la mangiavano il medico, il veterinario, il notaio e magari il parroco, ma tutti gli altri del paese no. Se ne sentiva parlare, ma sono sicuro che nelle campagne erano ben poche le donne che la sapevano fare, e meno ancora quelle che l’avevano fatta, anche solo qualche volta.” Maria Luisa Giachino ( Cocconato) “ La finanziera….ah si, quella fatta con tutti i rabadan del pollame….io l’ho mangiata una volta sola, quando mi sono sposata…. Bruna Perotto (Cocconato) “ Io la sapevo fare bene, perché da giovane andavo ad aiutare in cucina nei ristoranti qui di Cocconato, allora quando in qualche famiglia c’era un disnè importante, o qualche sposa, mi chiamavano per aiutare. Era un piatto ricco, ma per farla buona ci volevano anche delle malizie che le donne di campagna non avevano. Per esempio del pollame bisogna metterci solo le creste, o tuttalpiù gli ovetti di gallo, è sbagliato metterci il fegatino perché sta troppo amara, o il prè che è troppo duro; sono gusti che non c’entrano niente! Per farla buona ci vogliono le creste, ben pelate e sbollentate, le “uova di gallo”, il filone, il lacetto, la cervella, poi polpettine di vitello magro, qualche bocconcino di filetto e i funghi porcini, non serve niente d’altro, magari un po’ di pisellini giusto per bellezza, niente altre baracche come la giardiniera o il fegato….Ogni cosa deve essere tagliata a bei pezzi, la bravura della cuoca si vede anche da lì, non devono essere piccoli e nemmeno troppo grossi, ci vuole l’esperienza di chi l’ha sempre fatta. Ogni qualità va infarinata e rosolata nel burro, spruzzata con la Marsala secca e tenuta al caldo; solo la cervella si fa a pezzi un po’ più piccoli di una noce e si passa nell’uovo e nel pangrattato fine, in modo che stia bella dorata, ma non si mette con le altre robe, si tiene da parte. Quando si è rosolato tutto si mette in una casseruola larga con del buon sugo d’arrosto sgrassato e concentrato, e una punta di cucchiaio di conserva buona, poca poca, non deve sentirsi il gusto, solo deve dare un colore più caldo. Poi si aggiungono i porcini sottaceto a bei pezzi e qualche pisellino sbollentato prima, se si vuole, e qualche chiodo di garofano per il profumo; si mette un mestolo o due di brodo ottimo e si lascia borbottare piano sul fuoco, mescolando il meno possibile. Quando è bel legata, allora si aggiunge la cervella dorata e dopo non si mescola più. Si lascia un momento lontano dal fuoco per prendere il sapore, poi si serve.” Costanza Sardo ( Villafranca) “ Oh si che si faceva la finanziera, magari una volta all’anno o anche meno, ma si faceva eccome se c’era l’occasione giusta. Si faceva anche quando si facevano i capponi, e c’erano le creste e le uova di galletto. Tutte le donne la sapevano fare, però cercavano di farla d’conomìa, usando al massimo quello che c’era in casa, le interiora della gallina, le trippette della gallina, se si era ammazzato il maiale la cervella e il filone del maiale, le famiole sottaceto messe via in casa, e magari la giardiniera.. Ma se il disnè era davvero importante, se era una sposa o il disnè dei Rettori, allora magari si chiamava la cusinera d’Sant’Antoni, lei sì che la faceva di lusso, a regola d’arte. La roba di pollame non la voleva mai mettere, tolto le creste, diceva che falsava il gusto; neanche la giardiniera o il bianco del maiale: pretendeva tutta roba scelta ! faceva delle polpettine di coscia di vitello con solo il rosso d’uovo, poi dei bocconcini di polpa magra di vitello…usava i porcini, il bianco del vitello, la Marsala secca…quelle Finanziere chi ha una certa età se le ricorda ancora adesso! I PESCI L’obbligo cultuale e religioso di astinenza dalle carni nei periodi delle Quaresime ( quaranta giorni di preparazione alle feste di pasqua, dell’Ascensione, di Santa Croce e del Natale) già dal medioevo aveva imposto il ricorso al pesce fresco o conservato anche in aree lontane dalle sue fonti di approvvigionamento. Ciò permise un approccio antico e stabile del mondo contadino con tale risorsa alimentare. Massicce importazioni di acciughe, tonno in salamoia ed altri pisces salati dal Mediterraneo occidentale, e di aringhe affumicate (balle arenghorum) convergono sul grande emporio commerciale astigiano già nel corso del XIV secolo, e da qui le essenze ittiche sono capillarmente redistribuite nel territorio circostante. A partire dalla fine Cinquecento si stabilizza un intenso commercio di merluzzo salato, prodotto dai pescatori baschi, dal golfo di Biscaglia verso le nostre terre. Accanto al pesce d’importazione, che è di gran lunga il più “tradizionale” e diffuso sulla mensa del nostro mondo contadino, in alcune aree del territorio è diffusa una produzione locale di pesci d’acqua dolce altrettanto antica e caratterizzante. La tinca, la carpa ed il pesce gatto sono allevati capillarmente, e da tempo immemorabile, negli stagni della Piana o nelle zone umide della val Triversa o della val Versa. Nelle alte colline del Monferrato nord-occidentale o della Contea di Cocconato tinche e carpe sono invece condotte dalle peschiere o dalle risaie della valle del Po, in particolare da Crescentino, che sembra esserne il principale centro di approvvigionamento, ed alimenta un commercio ambulante umile ma capillare. Il Merluzzo Anna Obermitto ( Frinco-Montechiaro) “ Il Merluzzo era il pesce che si mangiava di più. Praticamente tutti i Venerdì e tutte le Vigilie si faceva il Merluzzo. C’era solo due modi per farlo: o impanato nell’uovo e fritto con le cipolle, oppure al verde. Per farlo al verde si faceva una bella capilà di prezzemolo e aglio, si faceva rosolare con un po’ d’olio, poi quando era appassito si aggiungeva qualche cucchiaiata di conserva, si mettevano i pezzi di merluzzo infarinati e si faceva andare con un po’ d’acqua, fino a quando la bagna era ben legata. Sia fritto che al verde, il Merluzzo si mangiava sempre con la polenta.” Bruna Perotto (Cocconato) “ Il Merluzzo si faceva fritto impanato o nella bagna verde. C’erano altri modi per cucinarlo, ma nelle campagne si faceva solo così. Io qualche volta lo facevo come avevo imparato a farlo da una cuoca del Cambio di Torino: si infarinano i pezzi di merluzzo , poi si mettono in una teglia a strati e fra uno strato e l’altro si copre con della Bagna caoda fatta con l’aglio cotto nel latte. Poi si copre tutto a filo con del latte e si fa cuocere nel forno. Ah, è una bontà! Dicevano che Tino Buazzelli quando veniva a Torino andava apposta al Cambio per mangiare il merluzzo fatto così, e tutte le volte ne mangiava tanto da fare indigestione…” Carla Quirino (Montemagno) “ Il Merluzzo si faceva tutte le settimane, si comprava al mercato e si faceva due volte, una volta impanato e fritto, un’altra camodà al verde. Se era fritto si accompagnava con le cipolle, oppure con le patate fritte. Allora di patate fritte se ne facevano tante, ma non come adesso; si tagliavano a dischi non troppo sottili, e si facevano friggere con lo strutto nel padellone di ferro. Erano difficili da girare, e capitava che quelle più in basso fossero strinate o troppo secche, e quelle più in alto poco cotte; ma se si stava attenti allora sì che erano buone, più buone di quelle che si fanno adesso!” Maria Vergnano ( Villanova) “ Il Merluzzo, o fritto con le cipolle, o al verde, e sempre con la polenta! Ogni tanto si faceva anche l’insalata, col merluzzo, si capisce, per non fare sempre polenta. Si faceva sbollentare il merluzzo già rinvenuto per qualche minuto, che fosse bianco ma non asciutto, poi si disfava a bei tocot e si univano tante patate bollite tagliate a pezzi, ancora calde. Si condiva con una capilà di prezzemolo e qualche cucchiaio di bagna caoda con l’aceto. Non era un contorno, si capisce, era una pietanza che si faceva magari dopo la minestra, e si mangiava da sola con il pane…” Le acciughe Carla Quirino, Franca Quirino, Margherita Bussa ( Montemagno) “ Qui tutti facevano la bagna d’ancìui per la polenta: si tritava un bel po’ di cipolle con la mezzaluna, un piangere… poi si facevano rosolare nel tegame con un po’ d’olio e qualche foglia di lauro, e magari se c’era si metteva amche un mezzo peperone ben tritato; quando tutto era appassito si aggiungevano le acciughe, non lavate, e tante volte con tutta la resca, e in più un bel cucchiaio di conserva. Si faceva andare così, fino a quando le acciughe erano completamente sfatte; alla fine si metteva un pezzetto di burro e una grattatina di formaggio, e si mangiava con la polenta. “ Vincenzo Testa (Moncalvo) “ Qui a Moncalvo con le acciughe si faceva tanto la bagna d’pòr. Si affettavano i porri sottili sottili, anche con un bel po’ del loro verde, poi si facevano rosolare piano piano con olio e burro, fino a quando diventavano trasparenti e belli teneri. Allora si aggiungevano le acciughe diliscate, una punta di conserva, un po’ di spagnolino e si continuava a cuocere piano piano, magari si aggiungeva un po’ d’acqua se asciugava troppo, o se si voleva fare una bagna abbondante. Quando si faceva la bagna d’pòr si vuotava un po’ di polenta in una teglia, poi si allargava sopra uno strato di bagna, poi si copriva con un altro strato di polenta e avanti così fino a che c’era roba. Poi la teglia si faceva scaldare con la brace tutto intorno e sul coperchio, veniva una roba buona!” Saracche e aringhe Anna Obermitto ( Frinco-Montechiaro) “ Le saracche erano il mangiare di chi non aveva niente, perché avevano un sapore talmente forte che ne bastava pochissima per compagnare la polenta. Anche le aringhe, però le aringhe piacevano tanto, soprattutto agli uomini, talmente erano saporite. A casa mia si prendeva una o due aringhe e si mettevano a bagno in un po’ di latte, per una notte. Poi si tagliavano a striscioline fini, e si mescolavano con tanti siolot affettati fini, oppure anche solo con le cipolle crude, affettate fini fini e lasciate un po’ nell’acqua fredda a perdere il forte. Quell’insalata lì la chiamavamo “Arengh che parlo”, “aringhe che parlano”. Si poteva fare con le patate cotte invece che con le cipolle, allora si condiva con prezzemolo e aglio tritato, era buona, ma le aringhe fatte così a parlavo pi nen!”. Tinche e pesci d’acqua dolce Maria Vergnano (Villanova) “ Per noi le tinche era come avere l’orto: si andava alla bola e si prendevano le tinche necessarie come si va nell’orto a raccogliere i pomodori. La bola ce l’avevano tutti, e di tinche se ne mangiavano tante. Ci sono quelli che dicono che sanno di fango, che non sono buone, o che hanno tante spine…non è mica vero ! Bisogna solo prenderle piccoline, così la carne è di sapore delicato, e le lische sono così fini che si possono anche masticare, non danno fastidio. Qui si andavano a pescare con il bertavèl ( nassa cilindrica, n.d.r.) o con il tondìn ( bilancere quadrato n.d.r), e così si sceglievano solo le piccole, quelle grosse si ributtavano dentro. Si facevano infarinate e fritte, ed erano già buone così, ma meglio ancora in carpione, specialmente d’estate, quando faceva proprio caldo non c’era mangiare migliore! Per farle in carpione prima si friggevano infarinate, poi si faceva un trito di salvia e aglio, e si faceva rosolare con l’olio e un pizzico di farina. A parte si faceva bollire vino bianco e aceto bianco, metà e metà, poi si univa al soffritto e si vuotava sulle tinche. Più stavano lì e più diventavano buone. Vincenzo Testa ( Moncalvo) “Le tinche passavano a venderle gente della pianura, delle risaie. Nella stagione passavano una volta alla settimana, e ne compravano tutti. Qui a Moncalvo era usanza che ogni pranzo un po’ importante finisse con la tinca in carpione. Magari prima si mangiava il bollito, o la Fricia, o qualsiasi altra cosa, ma poi alla fine, sempre le tinche in carpione, erano un po’ bruschette, aggiustavano lo stomaco, pulivano la bocca e facevano venire di nuovo voglia di bere. Perotto Bruna, Angela Bersano, Giuseppina Parena (Cocconato) Angela Romagnolo ( Montiglio) . “ Le tinche non mancavano mai, se ne vendevano tante al mercato, e costavano poco, era il pesce più a buon mercato. Passavano anche a venderle casa per casa, venivano su da Crescentino, tutte le settimane. Si facevano tanto in carpione, più che fritte, perché duravano e stando lì diventavano più buone. Al venerdì tanti li facevano anche comodaje al verde come il merluzzo, con tanta bagna da mangiare con la polenta. Rina Bossone ( Montechiaro) :“ Le tinche le portavano da Scarsentin ( Crescentino) passavano a venderle tutte le settimane. Passava uno con un triciclo con davanti un affare di lamiera con del ghiaccio tritato, e sopra le tinche. Portavano anche le carpe, le prendevano nelle risaie, ma qui andavano di più le tinche, andavano meglio da fare in carpione… Comunque nella vallata di Versa tante cascine avevano la peschera, e tinche e carpe non avevano bisogno di comprarle. Nella peschera venivano anche le rane, anche quelle si mangiavano volentieri fritte” Costanza Sardo ( Villafranca) : “ Chi aveva la tampa allora sì, le tinche e il pesce gatto non mancava mai. Fritte o in carpione. Altrimenti non andavano mica matti a comprarle: se era da comprare, era meglio il merluzzo, che bondava di più. Se non c’erano le tinche, c’erano el Tenche d’Dusin, le tinche di Dusino. Erano gli zucchini in carpione, quando scherzavamo li chiamavano così, perché a Dusino di tinche non ce ne sono….” TORTE E DOLCI Nella cucina contadina austera, autarchica ed oculata, la presenza dei “dolci”, cioè di preparazioni esclusivamente voluttuarie e costose, può apparire come un ingiustificato spreco di risorse. In realtà il loro inserimento nel ciclo alimentare è giustificato dal significato rituale ed apotropaico che ad essi viene conferito. I dolci diventano così dei segni costanti ed irrinunciabili della festa o della celebrazione di fasi importanti della quotidianità. La loro diffusione nel mondo contadino è sicuramente antica, anche se, ancora una volta, buona parte di essi risulta mutuata dalle cucine borghesi. In àmbito territoriale è rilevabile una serie di tipologie comuni e costanti nell’uso, articolate da particolarità e specificità vernacolari localizzate e ristrette. Dolci “apotropaici” Hanno funzione propiziatoria e simbolica; la loro preparazione è connessa al ciclo della panificazione, e la loro presenza è diffusa in tutto il mondo contadino, sia pure in forme estremamente diversificate. Nelle colline del Piemonte meridionale, indipendentemente dalle delimitazioni territoriali etnico-storiche, la famiglia contadina impasta in casa il proprio pane e si avvale per la cottura di un forno collettivo ( fino a tutto l’Ottocento gestito dai comuni, poi da privati), al quale si reca con cadenza settimanale. La preparazione e la cottura del pane è strettamente riservata alla donna, che ne detiene e tramanda in via matrilineare i saperi , la cultura e la sua essenza magica e misterosofica. “Il pane campeggia in primo piano come magico talismano apotropaico, come sostanza vitale, simbolo della luce solare e dei grandi spazi luminosi cui è intimamente laegata la sua potenza di tenere lontane le forze del buio, del sotterraneo, della morte (…). Immagine di fecondità, simbolo di parto, di nuove vite che sostituiranno quelle “mietute”(…). Il pane è simbolo della vita perpetuamente risorgente (…), immagine riproduttiva e sessuale quotidianamente introiettata, assimilata e digerita (…) emblema dell’organo riproduttore sia maschile che femminile; metafora edibile del fallo e della vulva.” (P.Camporesi: “La terra e la luna”, Milano 1989 , p.22-23) Il potente e magico simbolismo descritto dal grande studioso diventa emblematico nelle tradizioni contadine del nostro territorio: ogni volta che cuoce il pane, la massaia prepara con la stessa pasta, arricchita di zucchero, la buvata (bambola) per le bambine di casa ed il galicio (galletto) per i maschietti; infine, per entrambi, il cavagnin ( a Montemagno detto virolèin) , un frutto avvolto in liste di pasta che simulano un cestino o una gabbia. Gli archetipi sessuali e simbolici insiti nella panificazione vengono così “svelati” in modo addirittura spudorato, e i dolcetti per i bambini celebrano il principio maschile fecondante ( il galletto) , quello femminile recettivo ( la bambola) , presieduti entrambi dal principio vitale per eccellenza, l’utero gravido,( il cavagnin) la “cucurbita” alchemica della nascita e della creazione. L’uso dei tre simboli è bifronte: da una parte è rivolto ai piccoli, alla vita in crescita, dall’altra è rivolto al pane , alla vita ciclica. La diffusione è generalizzata, e ben viva nella memoria anche recente. Di valore apotropaico e simbolico sono i dolci del carnevale: Busije , segnalate capillarmente in tutto il territorio, e Friceu, più presenti nell’area astigiana occidentale. Le bugie, note e praticate con nomi diversi in tutta l’Italia del nord e del centro, sono losanghe di pasta azzima non lievitata che friggendo si gonfiano come piccoli otri; i friceu, più specifici dell’area mediterranea, sono frittelle di pastella lievitata che friggendo rigonfiano come palle spugnose. Entrambi i dolci rappresentano , per dirla come Camporesi, soli miniaturizzati che “crescono” fino a diventare radiosi, ma anche embrioni vitali che “crescono” e si completano nell’utero caldo costituito dalla padella bollente. Ancora una volta simboli di fecondità, di parto, di nuova vita, di potenza generata. Mentre i friceu, che si possono consumare solo caldi, sono ancora oggi di stretto appannaggio delle cucine famigliari, le bugie alimentano anche una ricca produzione artigianale o semi-industriale. Va detto che le bugie commerciali hanno ben poco da spartire, oltre al nome, con quelle autentiche. Dolci rituali Sono di origine più recente rispetto ai precedenti, e sfuggono apparentemente ai loro significati simbolici; acquisiscono però significati rituali in quanto ritenuti “esclusivi” per determinate ricorrenze. Sono presenti in quattro tipologie già codificate nei ricettari italiani del XVI secolo: 1) quella del “migliaccio” ( impasto semi-solido e umido non lievitato, “asciugato” in forno a bassa temperatura); 2) quella della “focaccia” ( consistenza ed aspetto soffice simile al pane lievitato, cottura a temperatura elevata); 3) quella della cialda ( piccola porzione di migliaccio schiacciata e cotta a temperatura rovente ) 4) quella del “morselletto” ( piccola porzione di pasta morbida cotta a temperatura di panificazione). Torta pasquale di castagne E’ fortemente presente nell’area sud della provincia, con epicentro in valle Belbo, ma largamente diffusa e praticata anche nell’Alto Monferrato e nella bassa Langa. Nel territorio in esame risulta endemica nella parte sud occidentale tra Villafranca, Asti e San Damiano, arrivando verso nord fino alla val Rilate ed alla valle Versa. Nella parte orientale è ben radicata nei comuni più a ridosso della valle del Tanaro, ma si perde rapidamente procedendo verso nord o verso est. La sua preparazione è rigidamente ed obbligatoriamente connessa alle feste pasquali. Nella variante più diffusa, estesa fra la valle Belbo e la valle Triversa, le castagne secche “garessine” vengono lessate in acqua o latte, indi schiacciate o passate al passaverdure. Alla purea ottenuta si aggiungono uova intere, zucchero, cacao , cioccolato in polvere, amaretti pestati, burro, Rhum facoltativamente mescolato ad altri liquori dolci ( Alchermes, Maraschino, Persico). La farcia si dispone in teglie circolari imburrate, condotte al forno comune; la cottura viene effettuata il Sabato Santo alla fine della panificazione, quando il forno ha raggiunto una temperatura moderatissima. Più che una cottura vera e propria si tratta di un’asciugatura, mediante la quale l’impasto acquista una certa compattezza morbida ed una consistenza serica molto raffinata. La torta si consuma rigorosamente fredda dopo almeno un giorno di ammezzatura, e continua ad essere mangiata fino alla Domenica in Albis. La variante “orientale” reperita a Montemagno ma diffusa in altri paesi circostanti verso il Tanaro, e la Versa, prevede l’aggiunta di mele grattugiate o cotte in forno, la riduzione anche vistosa della componente aromatica conferita dal Rhum, sostituito da grappa o da Marsala secco o all’uovo. Questa torta deliziosa in tutte le sue varianti, curiosamente, non ha mai incontrato il favore della produzione dolciaria semi-industriale, né della ristorazione, per quanto sia frequentemente rinvenibile, in stagione, in panetterie o in piccole pasticcerie artigianali. La singolare sfortuna d’immagine che la circonda porta spesso a confonderla con il “castagnaccio”, con cui non di rado condivide il nome in modo del tutto improprio ed errato. Ed è un peccato, perché le sue qualità storiche ed intrinseche sono eccezionali, e la sua tipicità territoriale al di sopra di ogni discussione. Rimane da chiarire il mistero della sua origine: tipologicamente appartiene alla famiglia dei “migliacci” rinascimentali, cioè torte umide, compatte, non lievitate, simili ad una polenta dolce asciugata o gratinata nel forno. La presenza della castagna è ampiamente giustificata dalle antiche tradizioni alimentari contadine del territorio, che fino alla metà del XVII secolo ebbero in questo frutto uno dei pilastri portanti, sostituito poi dalla farina di mais. La sua collocazione pasquale può essere connessa con la gioiosa “fine delle scorte” che annuncia la rinnovata abbondanza primaverile e chiude il periodo degli stenti invernali. Il cioccolato e gli altri ingredienti di lusso sono certamente acquisizioni ottocentesche mutuate dalle cucine nobili e borghesi. Torta invernale di mele. La sua area di diffusione è speculare a quella della torta di castagne; parte dalla valle del Po fra Crescentino e Casale e discende fino al Tanaro, dove entrambe si incontrano e si intersecano in un significativo fringe belt esteso per una quindicina di km. a nord e a sud della città di Asti, in cui le due ricette convivono con uguale fortuna. La torta in oggetto risulta avere una ritualità meno spiccata ed esclusiva, ed una più generica connotazione festiva. La tipologia è quella del “migliaccio” rinascimentale, ma ha anche strettissime parentele con le “torte” di frutta della stessa epoca, in cui la polpa dei frutti, pestata o tritata a crudo, veniva composta in farcia con biscottini o marzapani pestati, uova e zucchero, poi chiusa in un involucro di pasta e cotta in forno. ( Numerosissime ricette di questo tipo sono riportate da Cristoforo Messi Sbugo e da Bartolomeo Scappi nei rispettivi trattati cinquecenteschi). La torta d’pom contadina e tradizionale dell’Astesana settentrionale e del basso Monferrato è ovunque diffusa e praticata con un’unica ricetta : le mele, della varietà locale marcon o marca sono grattugiate a crudo, poi impastate con uova, amaretti pestati, zucchero, burro, cioccolato in polvere. Facoltativa, ma frequente, l’aggiunta di noce moscata o cannella. La farcia così ottenuta viene stesa in uno strato sottile entro una teglia imburrata a volte cosparsa di pangrattato o gallette sbriciolate; cotta o meglio asciugata nel forno da pane a calore morente. A Villanova d’Asti si conserva memoria di un recipiente apposito adibito alla cottura, l’Assietta, un “testo” circolare di terraglia pesante dai bordi bassi. Varianti più recenti prevedono la pre-cottura delle mele in forno, l’aggiunta di zucca gialla o fichi secchi spezzettati, l’aggiunta di cacao amaro, la profumazione della farcia con rhum o altri liquori dolci. La stagionalità di questa torta è condizionata dalla disponibilità del suo ingrediente principale, reperibile dagli inizi di Settembre fino all’inoltrata primavera. Ciò la rende particolarmente versatile, ed il suo uso si trova nelle feste patronali di fine estate o inizio autunno, in quelle natalizie fino al periodo pasquale. Tirà Sotto questo nome sono radunate una serie di ricette locali generate e discendenti da un unico prototipo: il Pan di Spagna messo a punto verso la fine del Cinquecento come aggiornamento delle “focacce” preesistenti. Un dolce in cui la normale pasta di farina ed acqua, lievitata o no, era arricchita dalle uova che le conferivano colore e sofficità affatto particolari. Nel territorio in esame, e nelle aree circostanti, la Tirà è infatti una torta a pasta soffice, di colore paglierino o dorato, più o meno arricchita con altri ingredienti. Il nome curioso di Tirà viene di solito giustificato dalla procedura di manipolazione, cioè dal “tirare” la pasta. Spiegazione assai poco convincente, se si pensa che questo tipo di dolci derivano da un impasto molto cedevole e non di rado semiliquido. E’ probabile invece che il nome derivi dall’antico italiano “torrare” o “attorrare”, che significa “cuocere in forno ad alta temperatura”. Le Tirà risultano essere i più comuni dolci festivi nel periodo primaverile ed estivo, ma in alcuni casi, come a Villafranca, diventano specifiche del Natale e del Capodanno. L’area monferrina predilige tirà condite ed arricchite con noci spezzettate o finemente tritate; nell’area astigiana predomina la Tirà con l’uvetta, profumata con scorza di limone grattugiata. Questa variante, ai bordi del Pianalto villanovese, assume il nome di “Scaletta”. Contrariamente alle “torte” di mele o di castagne, che si potevano cuocere anche in casa tra le braci del camino, la Tirà era cotta esclusivamente nel forno da pane. Crociòn Dolce da forno, presumibilmente molto antico, tipico e specifico della media valle del Tanaro, diffuso fino a quella del Tiglione ed oltre. E’ un semplice pandolce ottenuto dalla pasta da pane zuccherata, eventualmente arricchita con uvetta, abbondantemente cosparso di zucchero sulla superficie esterna, che durante la cottura assume un colore brunito ed un sapore piacevolmente caramellato . Contrariamente alla Tirà non viene cotto in teglia in forma di grossa pagnotta elissoidale, bislunga e liscia. E’ un dolce domenicale di poetica semplicità ma anche di raffinata eleganza gustativa. Nell’uso contadino era tagliato a fette e inzuppato nel vino buono: abbinamento eccellente ancora attuale e condivisibile. Oggi il crociòn è saltuariamente prodotto secondo la ricetta classica da panifici artigianali della sua zona d’origine. Canestrej Sono cialde sottili e croccanti ottenute da un impasto di farina, burro, zucchero ed altri ingredienti, cotte una ad una entro il tipico ferro a tenaglia che si pone direttamente sulla fiamma o sulle braci calde. Oggi i “canestrelli” sono tipici nella zona della val Rilate e più in generale nel nord-ovest della Provincia. Un tempo ebbero enorme diffusione grazie alla loro semplicità di preparazione e velocità di cottura. Discendono dalle antiche “Obiate” conosciute in zona già in epoca medievale. Nel XV secolo i Canonici della Collegiata di San Secondo ad Asti dovevano offrire a quelli del Duomo, in occasione della festa patronale, una colazione in cui fossero presenti “turtelis et obiatis”. Nella stessa città, nel corso del Cinquecento, erano presenti diversi artigiani “obialerii”. Il nome “canestrelli” si afferma nella seconda metà del Settecento, e il “Confetturiere piemontese” del 1790 fornisce la ricetta dei “Canestrelli di Vercelli”, profumati di spezie, e quelli “di Altessano” con il cioccolato. Da notare che nel Piemonte appenninico il nome designa dei dolcetti di pasta frolla. Torcetti e gallette Anche i Torcett sono estremamente diffusi in Piemonte, e la loro preparazione è illustrata nel “Confetturiere Piemontese” del 1790. Sono biscotti di farina, burro, zucchero, uova, modellati a forma di anello e cotti in forno previa spolveratura di zucchero. Pur conosciuti e praticati in tutta l’area in esame, il loro epicentro risulta attestato sull’asse Villanova-Villafranca; in quest’ultimo comune la tradizione contadine ne aveva fatto un tipico dolce carnevalesco assieme alle bugie ed ai Friceu. Nell’area monferrina sono diffuse le galetti casalinghe, biscottini a forma di disco prodotti con farina, burro, zucchero, uova, aromatizzati con scorza di limone. Contrariamente ai Torcet la loro produzione era limitata alle grandi occasioni. I dolci “di lusso” Di elaborazione borghese, entrano nella tradizione contadina in tempi relativamente recenti, quasi sempre ad opera delle cusinere o delle spose “andate a servizio” in gioventù. Sono definiti “di lusso” perché richiedono ingredienti costosi, ma soprattutto perché compaiono sulla tavola festiva delle grandi occasioni. Il più classico di questi dolci è il Bonet, oggi considerato un emblema della tipicità territoriale, in realtà introdotto nel mondo contadino non prima degli inizi del Novecento. La ricetta originale è elaborata nelle cucine nobili ottocentesche di Torino, da dove si diffonde a macchia d’olio ma senza particolare velocità, arrivando a colonizzare le Langhe e l’Astesana ma non il Monferrato, dove si diffonde come “dolce tipico” solo dopo la stabile adozione da parte della ristorazione locale. Il dolce è costituito da un budino morbido fatto con uova, latte, cioccolato in polvere, amaretti pestati e facoltativamente caffè o rum. Prende il nome dallo stampo in cui cuoce, a forma di berretta a calotta svasata che in piemontese veniva appunto definita “Bonet”. Un altro dolce borghese introdotto nel mondo contadino in tempi recenti e diventato “tipico” è costituito dalle pesche ripiene cotte al forno. Le pesche, spaccate in metà e snocciolate, vengono farcite con un composto di amaretti, cioccolato, burro, zucchero, uova e poi cotte fino alla glassatura superficiale. Anche in questo caso la loro diffusione procede da Ovest ( dove il loro uso precede la memoria generazionale) verso Est ( dove l’introduzione nel mondo contadino è databile nei decenni fra le due guerre). Altri dolci ancora più moderni ma ormai radicati sono il “Monte Bianco” ( crema di castagne lessate arricchita di cioccolato, servita con panna montata) , il “Mattone dolce” ( formella di biscotti secchi alternati a strati di cioccolato) o il “Salame del Papa” ( semifreddo cilindrico di cioccolato e biscotti sbriciolati, che tagliato a fette assume l’aspetto di salame). TESTIMONIANZE Maria Vergnano ( Villanova) : “ Si andava al forno una volta alla settimana, e oltre al pane si faceva sempre qualcosina di dolce. Tutte le volte con la pasta del pane spolverata di zucchero si faceva il galicio, o la bambola di pasta, o ancora il cavagnin, un cestino di pasta con dentro una mela o una pera. Si facevano per i bambini, quelle cose lì. Una cosa buona davvero era il pan d’mèlia: si faceva con la polenta avanzata, si bagnava con latte e si impastava con un po’ di farina, zucchero, burro, olio, poi si facevano delle pagnottine e si cuocevano nel forno con il pane. Se c’era qualche festa allora si facevano i torcett con il burro. Se poi c’erano delle feste davvero importanti si faceva la Torta d’pom , per esempio al primo settembre, a Sant’Isidoro , la facevano tutti, era un obbligo farla. Ci vogliono i pomm marcon, che sono i più dolci; si grattugiano le mele, poi si aggiungono amaretti pestati, uova, zucchero, polvere di cioccolata, una bella grattata di noce moscata, e si mette tutto nell’assietta , uno stampo di terra che si usa qui per fare quella torta, ben unta di burro . Sopra si spolvera con polvere di cioccolato, poi con il dito si fanno delle tacche, e in ognuna si mette un pezzetto di burro. Una volta si portava a cuocere nel forno del pane, e si teneva per un’ora e mezza, anche due ore…” Carla Quirino ( Montemagno) : “ Per Pasqua si faceva la torta di castagne. Si cuocevano le castagne secche nel latte, poi si passavano nel passaverdure e si aggiungeva amaretti pestati, burro, uova, zucchero, polvere di cioccolata, qualche mela grattugiata, e grappa. Si cuoceva nella tortiera con tutta la brace intorno e nel coperchio. Per le feste ordinarie si faceva la tirà, con farina, uova, zucchero, scorza di limone, noci spezzettate; quella si portava a cuocere nel forno del paese, quando si faceva il pane. Poi tutte le volte che si cuoceva il pane si faceva la buata ( bambola) ed il galicio per i bambini, e anche i virolèin, erano cestini di pasta zuccherata con dentro una mela. A Carnevale si facevano le busij: si lavorano i tuorli d’uovo montandoli con lo zucchero, poi si unisce una noce di burro e la farina, infine i bianchi sbattuti a neve. Si tira la sfoglia più sottile possibile, si taglia a losanghe con la rotella e si frigge nell’olio bollente: gonfiano come palloncini ! Poi si sgocciolano e si spolverano con lo zucchero al velo. Quando abbiamo tirato la Leva a Carnevale ci eravamo messi insieme tutti i coscritti, e avevamo fatto le bugie con 36 uova. Ce n’era stata una montagna, e siccome non bastavano i vassoi le avevamo messe dentro il val del grano . Altri dolci che si facevano erano le galetti, biscottini di farina bianca, uova, burro, profumati con la scorza di limone. Non si facevano mica sempre, solo nelle grandi occasioni. Anche lì, per la festa di Leva ne avevamo fatte a ceste! Certo, i benestanti del paese facevano altri dolci, come il bonet con la cioccolata e gli amaretti, oppure le pesche ripiene. Ah, questa la voglio raccontare: ero già una ragazzina, e la signora Olimpia mi chiamava sempre per farmi fare qualche piccola commissione. Una volta mi chiama “Carlaaaa! Vieni, fammi il piacere, portami a cuocere questa roba dal panettiere, poi io vado a prenderla quando è cotta !” e mi ha dato un vassoio grande così con queste pesche ripiene sopra, che io non avevo mai visto, e che mandavano un profumo, ma un profumo! Andando verso il forno ho fatto così col dito e ho assaggiato il ripieno di una; mamma mia che buono! Allora mi sono messa lì e ho preso una ditata per una da tutte le pesche che c’erano, saran state due dozzine, tanto, dicevo, poi non si vede. Però camminando ho trovato una mia amica : “ Cosa porti? Fammi vedere, fammi assaggiare !” Ossì, non c’è stato verso, così abbiamo fatto un altro giro di ditate, tanto pensavamo che alla fine non si vedesse niente. Poi però abbiamo trovato un’altra amica, poi un’altra, basta, alla fine quando sono arrivata dal panettiere le pesche erano bell’e vuote. Le ho messe a cuocere così com’erano, ma poi la signora Olimpia quando era andata a prenderle aveva fatto una cagnara! Quella volta sì che mia mamma mi aveva castigato! Vincenzo Testa (Moncalvo) : “ Tutte le donne andando a cuocere il pane facevano i cavagnin, prendevano un po’ di pasta, la tiravano in bastoncini e con quelli facevano come una gabbietta intorno a una mela o a una pera, un po’ di zucchero sopra e via…Eppure per i bambini era una festa, quando arrivava a casa la mamma dal forno con i cavagnin ! Altri dolci si facevano per le feste più grandi: d’inverno si faceva la torta di mele passate, con la polvere di cioccolata e gli amaretti; tanti per risparmiare ci mettevano pochi amaretti e tanto pangrattato! A Carnevale si facevano le bugie, poi più avanti la tirà con le noci o anche senza niente, era buona lo stesso! Il bonet allora non si faceva, non lo conosceva nessuno, è una roba torinese! In campagna hanno cominciato a farlo quando poi sono arrivati i pacchetti istantanei, dopo la guerra; allora facevano quello lì dei pacchetti, e buono che era! Simona Giachino ( Cocconato) “ La torta di mele era la vera specialità del paese! Si faceva una volta e la si fa ancora oggi, magari un po’ più ricca. Io la faccio con una ricetta che risale almeno alla mia bisnonna, ed è sempre buona. Metto le mele a cuocere nel forno, poi le passo al passaverdure; aggiungo gli amaretti pestati, la polvere di cioccolata, il cacao in polvere, le uova, una grattatina di noce moscata, un po’ di scorza di limone grattugiata. Si stende sottile nella teglia, alta due dita, poi si fa cuocere in forno; più che cuocere deve asciugare, una volta si portava nel forno del panettiere dopo aver fatto il pane, oggi se si usa il forno elettrico bisogna tenerlo ad una temperatura di 140 gradi, non di più. Ai tempi di mia nonna questa torta si mangiava con il pane, per farla durare di più e non mangiarla solo per goloseria. Angela Bersano ( Moransengo) “ La torta di mele si cominciava a fare nell’autunno e si andava avanti fino a mezzo Marzo, o anche più in là, fino a quando c’erano mele in casa. Non è che si facesse sempre neh, solo per le feste importanti. Ma qualche volta si faceva ancora…D’estate se c’era un’occasione importante facevamo le pesche piene , con gli amaretti e la polvere di cioccolata. Poi tutte le volte che si andava a cuocere il pane si facevano i cavagnin, la buvata o il galicio per i bambini. Maria Ferrero ( Montechiaro) “ Qui nel paese era tradizione fare i canestrej per la festa; tutte le famiglie li facevano, ognuno aveva il suo modo di farli, la sua ricetta speciale… Si faceva una pasta dolce con la farina, il burro, lo zucchero, poi chi ci metteva la polvere di cioccolato, chi ci metteva il rum, chi la vaniglia, ognuno aveva il suo modo di farli. La pasta si metteva un po’ alla volta nel ferro da canestrelli rovente, fatto a tenaglia, si chiudeva lì e si faceva passare sulla brace calda. Quel ferro aveva due facce lavorate con delle linee intrecciate, per quello si chiamavano canestrej , perché sembravano dei cestini. Per Pasqua si faceva la torta di castagne, con le castagne secche, qualche mela cotta nel forno, amaretti, polvere di cioccolato, burro e uova, e un po’ di Marsala. Invece nell’ Autunno o nell’Inverno si faceva quella di mele, sempre con gli amaretti pestati, la polvere di cioccolato, le uova e lo zucchero. Tutte e due le torte si facevano cuocere in casa nella tortiera , in mezzo alla brace, con la brace anche sul coperchio, solo che la torta di mele si lasciava più bassa, quella di castagne si faceva alta quattro dita. Si faceva volentieri anche il bonet, con le uova, il latte, il cioccolato, gli amaretti pestati e anche il caffè. Rina Bossone , Costantina Scuvero (Montechiaro) “ A carnevale si facevano le Bugie, ma anche i Friceu, si facevano uno e l’altro. Per fare i friceu si fa una pastella con il latte, la farina, le uova e lo lievito, poi si butta a cucchiaiate nell’olio bollente: gonfia subito e stanno delle palline rotonde, soffici e dorate, che bisogna mangiare finchè sono ben calde, se no diventano di gomma. I Friceu si possono mangiare spolverati di zucchero, ma sono anche buoni solo con un pizzico di sale. Bugie e Friceu sono i dolci di Carnevale, tutte le case li facevano l’ultimo giorno di Carnevale. Costanza Sardo. (Villafranca) “Tutte le volte che si andava a cuocere il pane si faceva il cavagnin, la bivata e il galicio per i bambini. Per i bambini si facevano anche i grissini con le noci; non erano dolci ma erano una bontà lo stesso, noi bambini allora gli facevamo una festa, quando arrivavano appena sfornati!! D’inverno si faceva la torta di pom marcon, con gli amaretti e la polvere di cioccolato, invece a Pasqua era d’obbligo fare quella di castagne, nei giorni prima di Pasqua dai forni del paese usciva sempre un profumo! Perché la facevano tutti. La torta di castagne si fa con le castagne secche bollite nel latte, poi passate, si aggiungono amaretti pestati, uova, burro, zucchero, polvere di cioccolata e cacao in polvere miscelati, rum, alchermes, poi si fa cuocere a temperatura più bassa possibile. E’ buona! Una volta si faceva solo a Pasqua perché era costosa, oggi magari non si fa neanche più perché dà un mucchio di lavoro…A Carnevale si facevano le Bugie, si capisce, ma più ancora qui a Villafranca si facevano i Torcett, con la farina, burro, uova e zucchero, la pasta si tagliava a striscioline e si chiudevano a cerchietto, ben rotondo. Prima di cuocerli si spolveravano di zucchero, così stavano belli scuri e bruniti. Per Capodanno invece si faceva sempre una bella Tirà, bella gialla di uova, con l’uvetta dentro e le scorzette di limone. Certo che se c’erano delle occasioni importanti e si faceva venire la Cusinera d’Sant’Antoni, allora che dolci, che dolci, la gente ne parlava poi per tanto tempo ! Io per esempio mi ricordo che faceva dei budini a strati di tutti i colori e di tutti i gusti, e allora non c’erano mica i pacchetti come adesso! Oppure faceva le pere cotte con il vino, poi le toglieva il tross, le farciva e le glassava da fuori con il cioccolato, e le guarniva di sopra con un amarettino! INDICE DI MASSIMA 185 PARTE PRIMA - Presentazione. 186 186 187 188 189 190 191 191 192 192 194 195 196 196 197 198 198 200 201 202 Stato della conoscenza. Il Territorio storico Il Territorio gastronomico. Il rilevamento. Avvertenza. Alle radici della Tipicità. La nascita di un modello. Tipicità, Territorialità, Autenticità. La cucina contadina del territorio Caratteri dell’alimentazione contadina nel territorio: il mangiare povero. Un’epoca cruciale. Il vitto quotidiano Caratteri dell’alimentazione contadina nel territorio: il pranzo festivo. Il mangiare della Domenica. Il mangiare straordinario Cusinere e Cusinè. La Festa patronale. Le testimonianze sul pranzo festivo. Disnè dij Retòr ed il Disnè d’la Sposa. “Mezza Festa”- La Trebbiatura- Le testimonianze. 205 PARTE SECONDA - Indagini per un repertorio degli alimenti e delle preparazioni. 205 206 208 209 211 212 212 213 214 215 219 221 222 222 224 225 227 227 229 229 230 234 236 238 Il pane: lineamenti storici, uso e tipologie. Le focacce casalinghe. Torton. I pani Ignobili. I grissini. La Polenta. Preparazione, consumo e ricette della polenta. Testimonianze sulla polenta. I piatti arcaici I “pùcc” La Tartra Favòt La Bagna Caoda Testimonianze sulla Bagna caoda La Bagna Fergia Le “provvisioni”. La Mostarda Testimonianze sulla Mostarda La Conserva Testimonianze sulla Conserva. Pom Smojà, Caip, Ciapetti, Ciapole, Ciapolin. Pesche in bottiglia. I Salumi. L’arte del Massacrin – Testimonianze. La festa dell’uccisione del maiale- Testimonianze Il Sancrao. Formaggi e latticini: La Robiola di Cocconato. 240 241 242 242 245 247 248 250 253 254 255 256 257 258 259 261 262 264 267 268 269 270 273 275 279 284 287 I formaggi di Villanova. Robiole o tome astigiane. Il Bros. Testimonianze sui latticini. Un blasone gastronomico: gli Agnolotti. Una geografia dell’Agnolotto. Le “lasagni” del Monferrato astigiano. Agnolotti astigiani. Agnolotti in bianco di Cocconato. Agnolotti cocconatesi di gallina in brodo di gallina. Agnolotti villafranchesi di Vecchia. La Pasta. L’uso della pasta nel territorio: i tajarin. L’uso della pasta nel territorio: lasagne- macaròn a mano. La pasta trafilata. Il Riso. Il Risotto. Le carni bovine. La “camodaja”. La Vegia. La Buseca. Il pollame. Il coniglio. Il Fritto Misto, o Fricia. La Finanziera. I pesci. Torte e dolci. H. CONSIDERAZIONI SULLA CARATTERIZZAZIONE DELLA CONOSCENZA DEL PATRIMONIO DEI BENI CULTURALI Dalle analisi condotte sulla sistematizzazione delle conoscenze in merito al patrimonio dei beni culturali sull’intera area del Basso Monferrato Artigiano e, soprattutto, sull’insieme degli undici comuni campione emergono alcune considerazioni sulla caratterizzazione della conoscenza che si offrono agli Amministratori perché possano essere lo spunto per l’impostazione di una azione mirata all’incremento della conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio fondata su obbiettivi chiari e condivisi. Nonostante la radicale revisione di impostazione culturale registratasi nell’ultimo trentennio in merito alla nozione stessa di Bene culturale, l’estensione del concetto ad intere nuove categorie e l’assegnazione di valore culturale all’intero complesso delle testimonianze, materiali ed immateriali, lasciate dall’uomo sul territorio, il livello di conoscenza e di coscienza del patrimonio dei beni culturali emergente dagli elenchi disponibili non si può dire esauriente, e pare spesso ancora orientato alla identificazione del singolo oggetto, più che al sistema di beni. Mentre gli elenchi dei beni vincolati ai sensi della l.n.1089/39 rispecchiano un’ottica centrata sul “monumento”, coprendo una porzione infinitesima del patrimonio esistente e lasciando un ampio margine di incertezza circa i beni “automaticamente” vincolati, ma incogniti nel concreto, le indagini effettuate in concomitanza di programmi finalizzati alla redazione del Piano Territoriale Provinciale hanno cercato di integrare le conoscenze, ampliando lo spettro, ed affrontando l’impegno di riconoscere “sistemi” di beni presenti sul territorio (cascine, mulini e fornaci, confraternite….). Ne sono derivati elenchi più consistenti, ma ancora gravemente deficitari rispetto alla reale consistenza del patrimonio diffuso sul territorio. Un decisivo passo in avanti verso una presa di coscienza e una compiuta conoscenza del patrimonio culturale depositato sul territorio è stata la promulgazione di una legge regionale che eroga finanziamenti finalizzati allo scopo. Si tratta di una legge che ormai data quasi un decennio e che meriterebbe un approfondito bilancio dei risultati raggiunti e delle diverse forme di applicazione nei diversi contesti territoriali. La L.R.35/1995 reca il titolo “Individuazione, tutela e valorizzazione dei beni culturali architettonici nell’ambito comunale”. La legge (art.1) “valorizza e tutela i caratteri tipologici, costruttivi e decorativi con significato culturale, storico, architettonico, ambientale degli edifici e loro pertinenze”; a tal fine dispone finanziamenti ai Comuni che deliberino (art.2) “…il censimento dei caratteri tipologici, costruttivi e decorativi e le indicazioni di comportamento al fine della loro tutela e valorizzazione…” “L’insieme degli elaborati del censimento è raccolto in un catalogo dei beni culturali architettonici che viene approvato dal Consiglio Comunale come Allegato al Regolamento Edilizio Comunale”. E’ del tutto evidente qual è l’oggetto del Censimento (v.art.4): “…sono i caratteri tipologici costruttivi e decorativi degli edifici e loro pertinenze a prescindere dalla destinazione degli stessi. Costituiscono caratteri tipologici costruttivi e decorativi le tipologie costruttive e compositive, gli elementi di finitura, gli apparati decorativi, ed ogni altro elemento architettonico che costituisca caratteristica storica dell’edificio”. Al di là di una certa confusione terminologica è chiara la volontà di fondare, attraverso un censimento del patrimonio insediativo di valore culturale (in un’accezione ampia del termine) il riconoscimento dei caratteri tipizzanti il patrimonio stesso: oggetto della legge non è il censimento degli edifici, ma il censimento dei caratteri che connotano in modo specifico tale patrimonio. Si tratta quindi di un censimento fortemente orientato a cogliere quei caratteri che sono il risultato di un lungo processo storico di accumulazione di esperienze e di conoscenze tecnicopratiche, di sapiente uso della risorse locali e dei materiali da costruzione, ma anche della cultura locale e della capacità di incorporare negli elementi costruttivi valori simbolici, contenuti formali condivisi. Si tratta quindi di un censimento con un chiaro intento operativo: dedurre da questo sforzo conoscitivo dei caratteri tipizzanti le regole per guidare gli interventi di recupero, tutela e valorizzazione del patrimonio insediativo, fondandosi sulla convinzione che tali regole siano esistite nel concreto, siano riproponibili e siano proprie di ogni contesto storico-culturale locale. E’ del resto evidente che nel territorio regionale il patrimonio insediativo di origine rurale costituisca la parte preponderante dell’intero patrimonio insediativo storico, non solo nel territorio agricolo, ma in gran parte dei centri storici di minori dimensione che sono costituiti da tipi edilizi di matrice rurale. Nella concreta applicazione questa legge ed il progetto cui ha dato luogo (“Progetto Guarini”), anche per l’impostazione culturale dell’apparato che l’ha gestito (Assessorato alla Cultura), non hanno corrisposto alle attese ed alle finalità originarie, essendosi posti al centro dell’attenzione non i caratteri tipizzanti, bensì gli edifici e soprattutto quegli edifici che pur non essendo vincolati ai sensi della L.R.1089/39, fossero comunque “emergenti”. Si è dato così luogo ad un inventario spesso privo di intenzionalità conoscitiva ed operativa, deducendo la scheda di indagine “Guarini” dalla scheda della Soprintendenza relativa ai beni architettonici, ed applicandola ad insiemi di edifici senza alcun apparentamento tipologico. Lo stesso vincolo disposto dalla legge in merito all’erogazione del contributo, subordinato alla formale adozione dell’inventario quale allegato al Regolamento igienico-edilizio, diventa incomprensibile, in quanto l’allegato è e rimane un semplice censimento, valido tutt’al più a porre una sottospecie di vincolo sugli edifici schedati, e non a fornire indicazioni operative per la loro tutela e valorizzazione. E’ interessante, al riguardo, verificare quale sia stata (e se vi è stata) la finalizzazione delle campagne di schedatura finanziate dalla L.R.35/95 nei comuni campione che ne sono stati oggetto (Albugnano, Cocconato, Cortazzone, Moncalvo, Montemagno, Settime, Tigliole, Villafranca). Si può affermare, intanto, che tale finalizzazione non emerge, in generale, in modo evidente. Ciò può corrispondere alla scelta consapevole di articolare le indagini su più fronti, come nel caso dei Comuni di Moncalvo, di Montemagno e di Cocconato, che hanno comunque raggruppato per “filoni” tipologici le ricerche, ma a volte l’assoluta eterogeneità e casualità degli oggetti prescelti, a volte in netto contrasto con le finalità della legge (integrazione e non sovrapposizione con quanto già vincolato e schedato dalla Soprintendenza ai Monumenti; individuazione di beni in quanto caratterizzanti l’edilizia locale) evidenzia la mancanza di un “progetto”, e tradisce la presenza di valutazioni del tutto estranee al campo culturale. In effetti la schedatura è apparsa più che uno strumento conoscitivo volto alla tutela e valorizzazione del patrimonio, come una pura e semplice estensione del vincolo ex l.n.1089/39 ad una categoria di beni meno “emergenti”, oppure, al polo opposto, come un passaggio obbligato per ottenere finanziamenti per il recupero. Causa non ultima di questo stravolgimento delle finalità della legge è anche rintracciabile nella non trascurabile circostanza che il Regolamento Edilizio cui si accennava nella L.R.35/95 è rimasto a lungo un oggetto misterioso, indicato nel testo della legge regionale urbanistica 56/1977 (art.87), ma indefinito quanto a contenuti specifici. Solo nel 1999 – quindi 4 anni dopo la L.R.35/95 – una seconda legge regionale (la L.R.19/99) definisce, articolandoli, i contenuti del Regolamento Edilizio, predisponendo un testo-tipo da integrare da parte di ogni singolo Comunale. In particolare, il regolamento edilizio ex art.3 della L.R.19/99, all’art.32, indica l’esigenza, ormai sempre più condivisa dall’opinione pubblica, di favorire il corretto inserimento ambientale delle costruzioni nei diversi contesti, così come si possono riconoscere sulla base di una caratterizzazione che è il frutto, insieme, del lento e continuo sedimentarsi di esperienze in una cultura locale dell’abitare e della specificità della morfologia del territorio. L’obbiettivo può essere raggiunto, così come viene chiarito nelle note al testo dell’art.32 del R.E. (Supplemento al B.U.n.35, pag.55) mediante integrazioni al testo del Regolamento contenenti criteri specifici per favorire l’inserimento ambientale, relativi tanto al recupero del patrimonio edilizio esistente, quanto alle nuove costruzioni, in modo da ottimizzare la resa estetica degli interventi edilizi, da concepire in continuità con i caratteri peculiari del contesto. D’altra parte, per il riconoscimento dei caratteri tipizzanti i diversi contesti locali, la legge sopra ricordata (L.R.35/95) prevede apposite ricerche sugli elementi tipologici, costruttivi e decorativi che, nell’intenzione del legislatore, avrebbero dovuto essere finalizzate alla definizione di “indicazioni di comportamento al fine della loro tutela e valorizzazione”, e raccolte in un “catalogo dei beni culturali architettonici” da approvare come allegato al Regolamento Edilizio Comunale (art.2). Anche la gestione della L.R.19/99 segna un sostanziale fallimento sotto questo aspetto. La mancata correlazione con la L.R.35/95, la scarsa propensione da parte delle Amministrazioni Locali a fissare regole qualitative per il corretto inserimento ambientale, il prevalente interesse verso i contesti “urbani” rispetto a quelli “rurali”, ha di fatto reso praticamente inesistenti i tentativi di conoscere i caratteri del patrimonio insediativo rurale e di fissare regole per la sua tutela e valorizzazione, anche nella convinzione di una scarsa ricettività da parte del mondo imprenditoriale agricolo rispetto a tali contenuti. Una terza legge regionale, recentissima, destinata a dispiegare i suoi effetti nei prossimi anni proprio nel contesto rurale è la legge 9/2003, meglio nota come legge per il recupero funzionale dei rustici. Fine conclamato di tale provvedimento è “…limitare il consumo di suolo e favorire il contenimento dei consumi energetici…”. A tal fine si promuove il recupero a fini residenziali dei rustici, e cioè di tutto il patrimonio edilizio rurale abbandonato e non più utilizzato dagli agricoltori. In effetti si tratta di un patrimonio edilizio di rilevanti dimensioni, già in parte ormai riconvertito a funzioni residenziali, anche in base agli strumenti urbanistici, che in generale già consentivano tale recupero, imponendo però limitazioni di ordine quantitativo o condizioni di tipo urbanistico ed infrastrutturale circa il recupero delle parti originariamente non abitative (stalle, depositi, fienili…). L’eliminazione di ogni parametro quantitativo disposta dalla L.R.9/2003, nell’intento di recuperare l’intero manufatto rurale nella sua complessità è di per sé positivo, così come la finalità generale di recuperare un numero consistente di rustici, rispondendo così ad una domanda di abitazioni “nel verde” che il mercato edilizio esprime da lungo tempo. Ciò che non viene preso in considerazione, però, è l’effetto perverso che tale legge induce, le cui avvisaglie già si intravedevano ancor prima dell’emanazione della legge. Proprio sulla base di una forte domanda di rustici da recuperare, alla periferia dell’area metropolitana per prima residenza, e nelle aree a vocazione turistica per seconda casa, si è ormai assistito al nascere di un processo di dismissione, da parte degli agricoltori, delle loro vecchie abitazioni, destinate al mercato dei rustici, e, contemporaneamente, alla realizzazione di nuove abitazioni agricole. Tutto ciò, insieme a “cattive pratiche” da tempo in atto per eludere i limiti posti dalla legge urbanistica regionale (art.25) per l’insediamento nel territorio agricolo di abitazioni extraagricole (si veda il caso della ricerca di coltivatori diretti a fine carriera per la realizzazione di nuove abitazioni agricole ben presto riconvertite per abbandono dell’attività del titolare), fa presagire un nuovo ciclo di diffusione dell’insediamento nel territorio agricolo, con tutti gli effetti distorcenti conseguenti: aumento del carico insediativo disperso e conseguente aumento del traffico, trasformazione delle strade rurali in strade urbane, aumento delle impermeabilizzazioni, aumento dell’inquinamento indotto dagli scarichi civili delle abitazioni ex-rurali, disturbo del mercato fondiario e delle conduzioni agricole, incompatibili con la residenza civile. Nonostante alcuni timidi tentativi di controllare dal punto di vista edilizio gli interventi resi così possibili (v.art.4 che impedisce esplicitamente l’intervento di demolizione e ricostruzione e che impone il mantenimento delle sagome esistenti) è prevedibile che gli interventi di recupero producano un sostanziale stravolgimento dei connotati del patrimonio edilizio di antico impianto presente nel territorio agricolo, nell’assenza di quelle indicazioni di carattere operativo e qualitativo che le due precedenti leggi avrebbero dovuto garantire. E’ quindi il caso di riaffermare l’assoluta necessità che il processo di conoscenza innescato dalla L.R.35/95 d’ora in poi nell’area del Gal sia opportunamente riorientato alla definizione di criteri di intervento, da articolare in sede di Regolamento Edilizio ed anche da recepire sulla riprogettazione dei P.R.G.C. (ridefinizione dei tipi di intervento in base a criteri di tipo qualitativo anziché esclusivamente quantitativo) per il recupero, la tutela e la valorizzazione del vasto patrimonio edilizio di contenuto culturale presente nell’area, e quindi sia mirato alla conoscenza dei caratteri tipizzanti e alle classi tipologiche di beni che contrassegnano il paesaggio e su cui è prioritario intervenire, anche in relazione alle pressioni esercitate dal mercato edilizio (si ricorda, ancora, la recentissima promulgazione della l.n.387/2003, che finanzia interventi per il recupero dell’architettura rurale di valore storico). Nel territorio del Gal è evidente una forte pressione della domanda sul mercato delle abitazioni rurali, sia per prima abitazione che seconda casa in relazione ai noti fenomeni di diffusione insediativa in atto ormai da più di un ventennio. Gli effetti dell’applicazione della L.R.9/2003 e, ora, della l.n.378/2003 nell’immediato futuro rischiano di tradursi in un diffuso processo di recupero del patrimonio abitativo rurale, che, nell’assenza di adeguati strumenti di controllo qualitativo, rischia di causare la perdita del valore culturale che questo vasto patrimonio incorpora. E’ quindi da sottolineare come, nell’attuale contingenza, risulti forse prioritario finalizzare le indagini promosse dalla L.R.35/95 verso il sistema insediativo rurale, in modo da trasferire le conoscenze acquisite sul campo in un complesso di regole di qualità che orientino i progetti di recupero verso la valorizzazione del contenuto culturale dell’architettura rurale, anche in termini di corretto uso delle risorse ambientali. Questa priorità è motivata anche dalla vastità del patrimonio rurale nell’area e dalle opportunità che si offrono oggi in relazione alla nuova politica agricola comunitaria, orientata alla valorizzazione delle produzioni tipiche locali di qualità ed all’integrazione del reddito degli agricoltori con attività complementari legate al turismo, alla manutenzione dell’ambiente ed alla vendita diretta. In conclusione, gli interventi che si prospettano nell’immediato futuro sul patrimonio edilizio rurale, sia in vista di un riuso non più agricolo generato da una crescente domanda di architettura “tradizionale”, sia per un adeguamento ai nuovi indirizzi di politica agricola che puntano, tra l’altro, sulla tipicità, rischiano paradossalmente di ingenerare la perdita del valore culturale dell’architettura rurale, con la frettolosa adozione di stilismi improntati ad un mimetismo vernacolare epidermico e del tutto astratto dalle vere tradizioni costruttive locali, tradizioni locali che occorre innanzitutto riconoscere e quindi valorizzare con un rigore di indagine che finora è mancato. I. PROPOSTA DI UNA METODOLOGIA DI ANALISI DEL PATRIMONIO DEI BENI CULTURALI. Sulla base dell’esperienza effettuata sugli undici comuni campione, dei risultati che si sono raggiunti e delle prospettive che si aprono per le Amministrazioni Locali in riferimento alla necessità di un più stretto collegamento tra azione di conoscenza, di tutela e di valorizzazione, è possibile a questo punto proporre la metodologia messa a punto all’insieme dei Comuni facenti parte del Gal del Basso Monferrato Astigiano. La metodologia che si propone si articola in una serie di operazioni che dovrebbero precedere il rilevamento promosso dalla L.R.35/95 ed orientarlo verso esiti operativi concreti, per quel che concerne i beni architettonici ed urbanistici. Analogamente occorrerebbe istruire preliminarmente una fase di pre-schedatura per quel che riguarda i Beni Storico Artistici . A. Inquadramento storico dell’insediamento nel suo processo evolutivo. Si tratta di una indagine storica basata su fonti bibliografiche e di cartografia storica (antichi catasti) volta a ricostruire lo sviluppo storico dell’insediamento e del paesaggio. L’indagine consente di inquadrare le vicende locali nei grandi processi storici di trasformazione del territorio e di conoscere le origini fondative dell’insediamento, le fasi cruciali delle trasformazioni territoriali, che spesso hanno condotto nel tempo ad un trasferimento dell’insediamento o ad una radicale trasformazione. B. Lettura della struttura del paesaggio e del verde. Si tratta di una indagine fondata sulla cartografia, sulle foto aeree e su sopralluoghi volta ad individuare i fattori di riconoscibilità del paesaggio in quanto ne determinano la sua struttura morfologia e percettiva. Gli elementi presi in considerazione (morfologia dell’orografia, uso del suolo, rete della viabilità e dei percorsi, rete idrografica superficiale, elementi puntuali…) consentono di definire la caratterizzazione del paesaggio e, in particolare, individuare specificità peculiari del sistema del verde. C. Ricostruzione dei caratteri insediativi e delle dinamiche insediative. Sulla base della lettura storica e geografica del territorio e dell’insediamento è possibile affrontare il tema della definizione dei caratteri peculiari dell’insediamento. Attraverso l’analisi della cartografia storica (tavolette di impianto IGM) è così possibile classificare, dal punto di vista della collocazione dell’insediamento rispetto alla morfologia territoriale, della morfologia dell’impianto planimetrico, e del rapporto tra edificato e spazi urbani i diversi centri. Non si tratta di una tassonomia fine a se stessa, ma della ricerca delle regole insediative che hanno portato a caratterizzare l’insediamento. Il riconoscimento di tali regole che a lungo hanno orientato lo sviluppo degli abitati e che solo negli ultimi 50 anni sono state abbandonate (ed è utile chiarire tale passaggio) può fornire indicazioni utili nel definire le scelte di assetto futuro, se si vuole preservare e rafforzare l’identità dei luoghi con criteri di continuità. D. Individuazione della struttura tipologica e dei sistemi di beni architettonici. Sulla base degli elenchi disponibili, delle indicazioni derivanti dall’analisi della cartografia storica, della bibliografia, di una prima ricognizione dei contesti edificati e del contesto rurale è possibile individuare i tipi edilizi caratterizzanti, contrassegnati da una ricorrenza di elementi lessicali (materiali da costruzione impiegati, elementi costruttivi, elementi decorativi…) e di regole sintattiche (articolazione delle facciate in verticale ed orizzontale…). Definito il quadro delle conoscenze già disponibili, è così possibile indirizzare le indagini ex L.R.35/95 su alcuni sistemi di beni particolarmente significativi in relazione alla capacità di caratterizzazione dell’intero paesaggio urbano e rurale. Certamente la scelta è anche condizionata dalla numerosità e diffusione sul territorio dei beni, da particolari situazioni di rischio di perdita della memoria stessa del bene, ma il criterio prevalente dovrebbe essere la possibilità di ricavare, attraverso la schedatura dei beni, le regole sintattiche e le ricorrenze lessicali che caratterizzano il tessuto edilizio, più che l’eccezionalità del bene. E. Individuazione dei beni artistici. Sulla base della bibliografia e delle segnalazioni raccolte e della ricerca fin qui svolta che inquadra le figure locali nei grandi movimenti artistici, è possibile integrare le indagini ex L.R.35/95 con specifiche indagini. Preliminarmente occorrerebbe procedere alla sistematizzazione dell’ampio patrimonio conoscitivo raccolto dalla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici, per ora non consultabile se non in modo diretto, non informatizzato, e, da quello che si è potuto arguire, neppure organizzato in modo sistematico, ciò che ha reso finora impraticabile tale sistematizzazione. La numerosità e diffusione dei beni, il basso livello di protezione, insieme, fanno riguardare giustamente con molta circospezione i tentativi di portare alla luce ed alla conoscenza del vasto pubblico i beni artistici presenti sul territorio, sottoposti a rischi di manomissione e di sottrazione che nessun tipo di tutela potrebbe superare. D’altra parte è sempre più provato che solo un processo di conoscenza e di presa di coscienza del valore culturale di tali beni da parte delle comunità locali può essere in grado di assicurarne una tutela efficace. F. I beni della cultura materiale. L’attribuzione ormai acquista di valore culturale ai fatti della cultura materiale ha suggerito di estendere la ricerca ad una risorsa oggi al centro dell’attenzione: la gastronomia. La ricerca condotta ha consentito di inquadrare con rigore storico e tecnico le principali tipicità gastronomiche e le aree di diffusione delle diverse tradizioni gastronomiche, sull’intero territorio del Gal, anche se i testimoni privilegiati sono stati prescelti all’interno degli undici comuni campione. L’estensione della ricerca all’intero territorio dovrebbe semplicemente proseguire con il metodo rigoroso adottato (che ricostruisce le tipicità attraverso un inquadramento storico generale, e quindi attraverso le fonti bibliografiche e le testimonianze di interlocutori privilegiati) con l’identificazione di ulteriori interlocutori privilegiati, per integrare le conoscenze fin qui acquisite, incrociando storia sociale, cultura materiale e risorse territoriali. GAL BASSO MONFERRATO ASTIGIANO I.C. LEADER + AZIONE 3.1 INTERVENTO a)3: La conoscenza dei beni culturali presenti nel territorio Bruno Bianco Carlo Buffa di Perrero Gian Luigi Bera Marta Franzoso Isabella Pompei Carlo Tosco Volume 1 - INDICE Premessa p. 1 Gli ambiti storico-culturali e paesistico-ambientali e la scelta dei comuni campione p. 2 B. Analisi storica delle aree campione - Bibliografia p. 4 p. 30 C. Per una indagine e catalogazione dei beni culturali e paesistici del territorio comunale - Schede per i comuni campione p. 35 p. 41 A. D/E.1. I beni culturali architettonici ed urbanistici p. 70 D. p. 71 p. 71 I beni urbanistici - I caratteri insediativi e le regole insediative Volume 2 - INDICE E. I beni culturali architettonici D/E.2. Indirizzi per l’incremento della conoscenza del patrimonio dei Beni Culturali - Allegato: edifici vincolati, segnalati e schedati negli undici comuni campione - Bibliografia relativa ai paesi della provincia di Asti - Bibliografia generale F. Linee interpretative di alcuni aspetti del patrimonio artistico del Monferrato-Astigiano - Cenni sulle raffigurazioni pittoriche tra il duecento e l’ottocento - Pittori – Repertorio degli artisti:botteghe locali e apporti esterni - Un filo rosso - Echi della grande architettura - Appendice 1 – C’era una volta: a zonzo per il circondario di Casale Monferrato - La storia di un popolo e di una terra attraverso i suoi santi I motivi di una ricerca Attraverso i secoli Repertorio agiografico Alcuni esempi di targhe destinate ai santi - Bibliografia generale - Bibliografia relativa al capitolo Devozioni p. 75 p. 77 p. 79 p. 99 p. 114 p. 118 p. 118 p. 123 p. 142 p. 144 p. 146 p. 155 p. 155 p. 157 p. 162 p. 178 p. 179 p. 183 Volume 3 - INDICE G. Le tipicità e le tradizioni gastronomiche come fatto di cultura materiale - Parte I: Presentazione - Parte II: Indagini per un repertorio degli alimenti e delle preparazioni - Indice di massima p. 185 p. 185 p. 205 p. 294 H. Considerazioni sulla caratterizzazione della conoscenza del Patrimonio dei beni culturali p. 296 I. Proposta di una metodologia di analisi del patrimonio dei Beni Culturali p. 300 PREMESSA: L’ARTICOLAZIONE DELLA RICERCA La ricerca, finalizzata alla riorganizzazione della conoscenza del patrimonio dei Beni Culturali (riordinando ed integrando i risultati delle indagini finora effettuate), alla riflessione critica sulla caratterizzazione delle conoscenze acquisite, e alla sperimentazione di una metodologia di lettura del territorio complessiva e finalizzata alla tutela e valorizzazione del patrimonio, si è articolato in diversi momenti e in diverse analisi che qui si sintetizzano: A. Definizione di aree omogenee dal punto di vista storico-culturale, paesistico-ambientale ed individuazione, per ognuna di esse, di un comune campione su cui sperimentare un tipo di analisi da estendere successivamente sull’intero territorio. B. Inquadramento storico dell’insediamento nel suo processo evolutivo, e definizione di una bibliografia generale di riferimento e di un primo elenco di fonti di cartografia storica. C. Lettura della struttura del paesaggio e degli elementi che possono costituire parte del sistema del verde. D. Indagine sui caratteri insediativi, sulle permanenze dell’impianto storico e le dinamiche insediative, in modo da definire le peculiarità degli insediamenti e quindi le regole insediative. E. Individuazione della struttura tipologica e dei sistemi di beni architettonici presenti sul territorio sulla base della sistematizzazione degli elenchi disponibili, delle indicazioni derivanti dall’analisi della cartografia storica e della bibliografia, e di una prima ricognizione in loco. F. Individuazione dei beni artistici locali e inquadramento nei grandi movimenti artistici. G. Riconoscimento delle tipicità gastronomiche e delle aree di diffusione delle diverse tradizioni gastronomiche come fatto di cultura materiale. H. Considerazioni sulla caratterizzazione della conoscenza del patrimonio dei beni culturali I. Proposta di una metodologia di analisi del patrimonio dei beni culturali. A. GLI AMBITI STORICO-CULTURALI E PAESISTICO-AMBIENTALI E LA SCELTA DEI COMUNI CAMPIONE. L’area del Basso Monferrato Astigiano è un’area estremamente diversificata ed articolata sia dal punto di vista storico-culturale che dal punto di vista paesistico-ambientale, con suddivisioni molto labili e variabili a seconda del criterio interpretativo adottato. Dal punto di vista storico-culturale è innegabile che la suddivisione storico-politica tra il territorio di Asti e il Marchesato del Monferrato abbia profondamente inciso sulle tradizioni locali, così come la relativa autonomia del comitato di Cocconato ha impresso una particolare connotazione a quel piccolo territorio. Le suddivisioni amministrative, nel tempo, hanno poi subito molte trasformazioni, stabilendo confini mutabili tra Casalese, Astigiano, Torinese, Albese, così come le effettive gravitazioni sui servizi erogati dai comuni di maggior rango sono cambiate in relazione alle fortune di questi, anche se vi è una certa permanenza di ruoli: Villanova, Villafranca, Cocconato, Castell’Alfero, Castelnuovo Don Bosco, Montiglio, Montechiaro, Montemagno, Moncalvo, S.Damiano, sono “piccole capitali” relativamente stabili negli ultimi 300 anni, da quando cioè si è formata l’immagine dell’insediamento che ancor oggi persiste. La recente istituzione delle Comunità Collinari ha ulteriormente complessificato il compito di identificare aree storico-culturali omogenee: così, a fronte di 8 sub-aree identificate dal Piano Territoriale Provinciale ritroviamo 9 comunità collinari, i cui confini si sovrappongono senza possibilità di convergenze: se le comunità collinari dell’Alto Astigiano e del Versa Astigiano coincidono all’incirca con l’area storico-culturale delle Colline di Cocconato, quella del Pianalto Astigiano con l’area dell’Altopiano di Villanova, quella delle Colline Alfieri con l’area delle Colline tra Borbore e Tanaro, quella del Triversa con l’area delle Colline di Montafia, quella della Val Rilate con l’area delle Colline di Montechiaro, nella Valle Versa si rintracciano a fatica delle corrispondenze. Dal punto di vista paesistico-ambientale, la complessa idrografia disegna una serie di bacini e di solchi: il Triversa, il Borbore e il Rilate configurano bacini, mentre il Versa, il Tanaro, il Grana e la Stura sembrano disegnare grandi solchi nel “mare” delle colline. Ciò che si distingue nettamente è il Pianalto, appartenente ad un’altra morfologia territoriale. Ma anche all’interno della prevalente morfologia collinare sono presenti diverse caratterizzazioni,derivanti dal disegno del reticolo idrografico e dalla forma del rilievo, degli usi del suolo: il bosco appare confinato nelle valli più chiuse e fresche tra il Triversa e il Rilate, a nord-ovest, e, a sud-ovest, verso il Roero, il vigneto ha forte dominanza oggi nelle aree più vocate e pregiate, sulle colline tra Borbore e Tanaro, e nelle colline attorno a Moncalvo e Montemagno, mentre altrove il paesaggio è caratterizzato dall’alternanza di prati nel fondovalle, campi, vigneti e frutteti, con relitti di bosco sui versanti delle colline. Il rilievo è più dolce ad est della valle del Versa, assume forme più aspre nell’estremo settentrionale, nella linea di displuvio verso la Stura ed il Po. Dal punto di vista insediativo predominano nettamente i centri di culmine e di crinale. Singolare è la disposizione serrata di centri dalla stessa morfologia sui crinali ad asse nordsud sulla linea di parallelo che va da Castelnuovo Don Bosco ad Alfiano Natta (Pino d’Asti, Schierano, Rumeglio, Passerano, Cerreto, Piovà Massaia, Montiglio, Sonna, Cerrano, Zanco, Trittango, Cardona, Casarello). Il netto prevalere dei centri e dei percorsi insediativi di crinale si spiega con l’origine stessa dei centri, nuclei plebani e nodi di una rete di incastellamento di origine alto medioevale. A questo riguardo si possono distinguere diversi sistemi di incastellamento: quello della Val Borbore (S.Damiano, Cisterna), quella della Val Tanaro (Variglie, Revigliasco, Antignano, S.Martino), quello della Val Rilate (Serravalle, Settime, Casasco, Cortazzone, Soglio, Viale, Piea, Cunico, Cortanze, Montechiaro, Villa S.Secondo, Cossombrato, Mombarone), quello della Valle del Triversa (Montafia, Roatto, Monale, Castellero, Baldichieri, Ferrere, Tigliole), quello del Pianalto (S.Michele, Solbrito, Villanova, Valfenera), quello della Valle Versa (Frinco, Tonco, Castell’Alfero), quello della Val Grana (Castagnole M.,Scurzolengo, Montemagno, Grana, Refrancore). Si può dire che il complesso di tali sistemi di incastellamento, convergenti su Asti, restituiscono un brano di storia e fanno dell’Astigiano un territorio tra i più emblematici, sotto questo aspetto, dell’intero Piemonte: una rete, che, pur nella diversità degli elementi che la compongono (più o meno trasformati nel corso dei secoli), costituisce un unico, e che si integra con il sistema di borghi cui spesso si associa, conferendo all’intero paesaggio una connotazione tipica. Definiti così i caratteri unitari ed insieme le diverse caratterizzazioni dell’area del Basso Monferrato Astigiano, la ricerca ha approfondito l’analisi su di una serie di comuni-campione su cui sperimentare una lettura complessiva del territorio. I comuni, ovviamente, sono stati individuati come rappresentativi di una specifica entità storico-culturale ed ambientale. Si è quindi tentato di individuare una rosa sufficientemente rappresentativa delle diverse realtà, anche sotto il profilo amministrativo: rispetto quindi alle 8 sub-aree storico culturali e alle 9 Comunità Collinari sono stati individuati 11 comuni rappresentativi dei diversi contesti sotto entrambi i punti di vista. Gli undici comuni sono: § Villanova, in quanto rappresentativo di un contesto paesistico-ambientale molto particolare e polo di riferimento di un ambito culturale di radici storiche; § Albugnano, in quanto rappresentativo dell’Astigiano nella sua fascia di transizione verso il Chierese e connotato sia dal punto di vista ambientale che storico-culturale; § Cocconato, in quanto rappresentativo di un contesto territoriale dalla forte tradizione di autonomia; § Cortazzone, in quanto rappresentativo del contesto delle Valli dell’Astigiano nord occidentale; § Settime, in quanto rappresentativo del contesto peculiare della Valle del Rilate e delle Colline del nord-est, attorno a Montechiaro; § Villafranca, in quanto rappresentativo insieme, del contesto della Val Triversa e del corridoio insediativo “forte” dell’Astigiano; § S.Martino Alfieri, in quanto rappresentativo del territorio tra la Valle Borbore e la Val Tanaro; § Tigliole, in quanto rappresentativo, oltre che del territorio di cui sopra, delle Colline che introducono al Roero: § Moncalvo, in quanto emblematica capitale del Monferrato Astigiano; § Montemagno, in quanto rappresentativo oltre che del territorio di cui sopra, delle colline dell’Astigiano orientale; § Villadeati, in quanto rappresentativo dell’estremo nord Astigiano. B. ANALISI STORICA DELLE AREE CAMPIONE Albugnano Cartografia storica Catasto francese: AST, all. G fasc.274 B Toponimo La derivazione del termine è controversa: potrebbe provenire da una volgarizzazione di albus, suggerita dalla conformazione geologica biancastra delle arenarie locali, oppure dal nome di persona Albonius o Albanus, attestato nell’epigrafia latina e in altri toponimi subalpini (ad esempio Albonio, in Val Vigezzo, nel Novarese). Distribuzione insediativa odierna Il centro sorge su un pronunciato rilievo collinare (549 m s.l.m.), dove le propaggini occidentali del Monferrato raggiungono il Chierese. L’abitato presenta un carattere a morfologia accentrata, raccolta sul crinale dell’altura dominante. La conformazione orografica ha favorito una rarefazione degli insediamenti agricoli, determinando un habitat a maglia larga già stabilito nel tardo medioevo. La direttrice viaria principale che attraversa il territorio è costituita dalla statale n.458 Asti-Chivasso, che corre ad est nell’avvallamento ai piedi dell’altura di Albugnano. La prevalente vocazione agricola perdura fino ad oggi, con diffusione dei vigneti particolarmente adeguati all’assetto geomorfologico e alla composizione dei suoli. Sviluppo storico del paesaggio La formazione dell’abitato è legata alla presenza di un’area di strada, che univa con un raccordo due importanti tracciati viari romani: quello che a nord seguiva il corso del Po, con funzione di collegamento trasversale della pianura, e quello a sud costituito dalla via Fulvia, sul percorso Torino-Asti-Tortona. Il tracciato risulta già attestato da indizi archeologici e documentari per l’età altomedievale (Settia, 1991, pp. 257-263), e assumeva un ruolo importante per l’attraversamento di questo tratto delle colline monferrine, partendo dalla città scomparsa di Industria, presso Chivasso. Il sedime odierno della statale n.458 ripercorre senza dubbio l’antico raccordo viario. La toponomastica aiuta a identificare la vocazione di strada dell’area, con la presenza del borgo denominato Colla (attestato nel catasto del 1670), che indica un valico collinare, e della vicina chiesa di San Pietro de Fenestella già ricordata in un documento del 1235 (Le carte dell’archivio arcivescovile di Vercelli, doc. 53). Il termine Fenestella è qui utilizzato per evocare un “colle stretto, di passaggio obbligato”, e non a caso corrisponde all’insediamento religioso più antico conservato nel territorio. San Pietro dipendeva formalmente dalla pieve di Pino d’Asti, legata alla diocesi di Vercelli e collocata lungo il medesimo tracciato viario che proveniva da Industria. La chiesa di Albugnano aveva guadagnato una notevole importanza nel contesto locale fino ad assumere dignità parrocchiale. L’edificio è oggi ben conservato e rappresenta un esempio della scuola romanica monferrina. La struttura a navata unica con abside semicircolare segue il modello architettonico dominante, che può essere assegnato alla seconda metà del XII secolo in base alla tessitura dei conci murari e alla soluzione decorativa degli archetti pensili intrecciati. La funzione cimiteriale e di nodo viario del San Pietro de Fenestella appare tuttora leggibile, con la permanenza degli antichi diritti di sepoltura, mantenuti anche dopo lo spostamento della sede parrocchiale al centro del paese di Albugnano, presso la chiesa di San Giacomo Maggiore. Il nuovo edificio venne realizzato a partire dalla XV secolo e ristrutturato nel corso dell’Ottocento, ma ancora nel 1676 sono attestate lamentele della comunità presso il vescovo perché l’antico San Pietro, trascurato dal clero, “cade in rovina e non vi si può celebrare”. Il centro monumentale di maggiore interesse s’identifica nella canonica di Santa Maria di Vezzolano, che sorge in un avvallamento poco distante dalla parrocchia antica. La chiesa costituisce uno degli edifici più importanti del medioevo piemontese, che documenta il passaggio dalla tradizione romanica alle prime forme gotiche. E’ singolare che, nonostante il fiorire di studi (Settia, 1975; Scolari, 1978; Salerno, 1991; Carità, 1992), nella cartografia e nella segnaletica turistica si continui a parlare della “abbazia” di Vezzolano, nonostante si trattasse di un centro canonicale. La comunità di regolari era nata nel 1095 per iniziativa di un gruppo famigliare locale, collegato da rapporti di vassallaggio con i marchesi di Monferrato e con i conti di Biandrate. Nel corso del XII secolo la canonica aveva assunto un’importanza sempre maggiore, favorita dal successo di questi istituti nel contesto della riforma ecclesiastica, aggregando un vasto patrimonio fondiario e assumendo un ruolo determinante per lo sviluppo dell’abitato di Albugnano. Il collegamento con i poteri forti, in primo luogo con i marchesi aleramici, aveva promosso l’affermazione della comunità, con l’avvio di un impegnativo cantiere di ricostruzione dell’edificio nelle forme attuali. Il complesso, composto della chiesa, dal chiostro e da edifici di servizio, segue modelli monastici e segna, nell’aggiornamento delle forme scultoree e nell’uso sistematico dell’arco acuto, un importante progresso per l’elaborazione delle nuove forme monumentali al passaggio tra XII e XIII secolo. Nello sviluppo insediativo dell’area la politica espansiva del potente comune di Chieri ha interferito in modo determinante tra XII e XIV secolo, favorendo l’inurbamento della popolazione e portando all’abbandono dei centri agricoli periferici. Il territorio si collocava in una posizione liminare tra il dominio dinastico degli Aleramici, confluito nei possedimenti dei marchesi di Monferrato, e il contado comunale, teatro di conflitti per il controllo delle zone produttive. Di qui la formazione del castello e di un borgo murato, che garantiva al potere signorile una adeguata sicurezza. In epoca moderna Albugnano sarà coinvolto nelle guerre condotte dai Savoia per il controllo dell’area monferrina, fino alla definitiva annessione al ducato nel 1631. Le tracce del castello sono oggi scomparse insieme a quelle del borgo, dopo le distruzioni belliche operate dalle truppe del maresciallo Brissac e la perdita dell’importanza militare per lo spostamento verso est della linea di confine sabauda. Ancora all’inizio dell’Ottocento, però, il tracciato delle fortificazioni risultava visibile, per consistenti tratti della cinta muraria. Il De Canis attesta la trasformazione della cortina in sedimi abitativi: “La cinta esteriore scomparve e nei suoi intervalli furono edificate delle case sul dosso del colle” (Bordone, 1977, p. 49). Appare così documentato un esempio interessante di espansione urbana lungo il limite perimetrale delle murature preesistenti, che ha generato la morfologia curvilinea e accentrata dell’insediamento. Cocconato Cartografia storica Catasto antico: AST, 1789 all. C rot.42 all. E vol.39 Catasto francese: AST, all. G fasc.248 all. H fasc.375 Toponimo Da intendere come “luogo collinare, di forma ovata” (cfr. il piemontese cucùn). Distribuzione insediativa odierna Il centro abitato si colloca sulla cima di un’altura preminente sul territorio (490 mt. slm), con morfologia accentrata intorno al castello, oggi non più conservato. La disposizione edilizia segue l’andamento delle curve di livello, descrivendo anelli approssimativamente concentrici, ricavati su terrazzamenti artificiali. Lo sviluppo successivo dell’insediamento è avvenuto in linea lungo le vie di accesso che salgono sul rilievo collinare. Le altre strutture a carattere agricolo appaiono disperse nel territorio senza raggiungere accentramenti notevoli. Cocconato non risultava inserito nella rete di comunicazione storica che attraversava l’area, e ancora nel primo Ottocento gli abitanti lamentavano la difficoltà dei collegamenti locali (Casalis, 18331856, vol.5, p.285). Più tardi sono state realizzate nuove direttrici viarie che hanno contribuito a limitare l’isolamento dell’abitato: a ovest la statale di Casalborgone (n.458) e a est la ferrovia Asti-Chivasso. Sviluppo storico del paesaggio Il villaggio di Cocconato appare documentato fin dall’anno 1000 come Conconada (I Biscioni, 1939, doc. 36), formatosi in seguito alla colonizzazione agricola dei rilievi collinari monferrini. Assumeva la dignità plebana abbastanza tardi, come risultato di uno smembramento del distretto di Montiglio (Settia, 1991, p.229). La sede della pieve si collocava presso la chiesa di Santa Maria, attestata tardivamente in età romanica. L’edificio è tuttora conservato, sotto forma di cappella monoabsidata a navata unica orientata, che non presenta caratteri medievali e appare frutto di una ristrutturazione. La collocazione originaria però rimane accertata, testimoniata anche dal microtoponimo “La pieve”, riferito a un modesto rilievo collinare che domina il tracciato della strada di fondovalle, al sud-est dell’abitato di Cocconato. In relazione all’insediamento si registra uno scavo stratigrafico a cura della Soprintendenza archeologica del Piemonte, che ha consentito di approfondire la conoscenza dell’edificio (Crosetto, 1991). Con ogni probabilità il centro religioso testimonia la presenza di un precedente insediamento agricolo sparso, che soltanto verso la fine del medioevo venne accentrato intorno al castello posto in altura. La scoperta di un tesoretto di monete antoniane e di un’iscrizione romana sulla strada verso Montiglio, dedicata a Mercurio (Corpus Inscriptionum Latinarum, vol.V, n.7463), documentano la frequentazione dell’area in età antica. Il centro fortificato sorgeva sulla sommità dell’altura e oggi non si conservano resti in alzato, a parte una torre che ha subito forti rimaneggiamenti e già al De Canis appariva “mezzo rovinata” (Bordone, 1977, p. 125). Il dominatus loci apparteneva ai signori di Cocconato, inseriti nell’”hospicium de Radicata”, attestato con sicurezza a partire dal 1290, un consortile che raggruppava diversi rami dei Cocconato e dei signori di San Sebastiano Po, di cui sono pervenuti gli statuti nobiliari. Nel quadro delle lotte tra il comune di Asti, i marchesi di Monferrato e i conti di Savoia per il dominio del territorio, Cocconato subì alterne dominazioni, fino ad entrare definitivamente nell’orbita sabauda a partire dalla dedizione del 1452. Nel centro urbano si riconoscono ancora le strutture dell’insediamento medievale, nonostante le riplasmazioni successive. L’edificio più significativo è costituito dal palazzo oggi sede del Comune, attribuibile alla fine del XV secolo (Fasolis, 1936). Appare ben conservato l’assetto architettonico disposto lungo la via principale d’accesso alla sommità della collina, con fronte curvilineo porticato, poggiante su pilastri che sostengono volte a crociera con costoloni trasversali. Nell’angolo d’ingresso si riconosce l’assetto dei sostegni originari, formati da semicolonne addossate ad un nucleo quadrangolare, con capitelli cubici. Le cornici marcapiano sono costituite da formelle figurate prodotte a stampo, con una tecnica caratteristica della “civiltà del cotto” tardogotico subalpino. Gli edifici religiosi sono stati tutti ricostruiti in età moderna: alla prima metà del Seicento può essere assegnata la chiesa della confraternita della Trinità (con facciata settecentesca), al primo Ottocento la parrocchiale di Santa Maria (Cavallino, Croce, 2001), posta alla sommità della collina, presso l’area del castello dismesso. Nel 1886 venne consacrata la cappella campestre di San Sebastiano, lungo la via d’accesso meridionale che sale all’abitato. Nel secolo scorso Cocconato manteneva un’economia agricola, basata principalmente sulla vite, ma esistevano anche attività artigianali ed estrattive nel settore del gesso. Un esempio di edilizia pubblica post-unitaria è costituito dalla tettoia comunale, realizzata nel 1881 per ospitare le attività di mercatura. Il comune ha subito uno spopolamento notevole nel corso degli ultimi due secoli, caratteristico dei piccoli centri dell’area monferrina: se al principio dell’Ottocento contava 2700 abitanti, oggi non raggiunge i 1600. Il calo demografico ha favorito la formazione sul territorio di un patrimonio edilizio rurale dismesso, che conosce attualmente una nuova fase di recupero, con flussi di acquisti anche dall’estero. Cortazzone Cartografia storica Catasto antico (1769): AST, all. C rotolo 114 all. E vol.42 Catasto francese: AST, all. G fasc.253 all. H fasc.376 Toponimo Da “curtis Azonis”, derivato dal nome prediale del proprietario antico, di origine altomedievale. E’ la traccia linguistica di un’organizzazione agricola di tipo curtense presente sul territorio, attestata in altri casi dell’area astigiana (ad esempio Cortanze, da “curtis Anserium”). Distribuzione insediativa odierna Il paesaggio ha conservato l’assetto insediativo precedente all’età moderna, senza subire incisive alterazioni, costituendo un caso campione di particolare interesse. Il sostrato del popolamento medievale resta tuttora riconoscibile. La distribuzione appare omogenea, senza squilibri territoriali. Il reticolo viario principale segue un tracciato in piano e rimane secondario rispetto alle arterie più trafficate dell’area, con assenza di strade ferrate. L’assetto agricolo odierno è caratterizzato da seminativi, viti e colture arboree di alto fusto (pioppi), alternati a bosco e prato. L’abitato di Cortazzone (attuale sede comunale) costituisce il centro preminente, a morfologia accentrata intorno al castello, collocato in altura (231 mt. s.l.m). A circa 1 km a nord-ovest dal paese, sulla collina di Mongiglietto (241 mt s.l.m.), si conserva la chiesa romanica di San Secondo, monumento emergente dell’area, tra i più significativi e meglio conservati della scuola di Monferrato. Nel resto del territorio comunale permane una forma d’insediamento agricolo sparso a maglia larga. Sviluppo storico del paesaggio Non esistono nel territorio tracce dell’età antica e le prime forme d’insediamento si collocano probabilmente nell’alto medioevo. L’area doveva apparire in gran parte coperta da foreste e la colonizzazione dell’incolto si verifica nel quadro dell’espansione agraria dell’XI secolo. Nei documenti la località compare inizialmente come possedimento dei vescovi di Pavia, che a Cortazzone e a Tigliole controllano due castelli con i relativi diritti signorili (Bordone, 1980, p.144). Si tratta delle uniche enclaves religiose esogene nella grande area diocesana dominata dei vescovi astigiani. La chiesa di San Secondo sorge sulla collina di Mongiglietto, a nord-ovest dell’abitato di Cortazzone, e costituisce il monumento più antico conservato nell’area. La posizione dominante sul paesaggio venne scelta in modo consapevole dai costruttori, come segno di organizzazione ecclesiastica del territorio. Una notizia di scavo riguarda le ricerche promosse nel 1893 da A. Demarchi per conto della Delegazione Regionale per la Conservazione dei Monumenti, presso il lato nord dell’edificio, con il ritrovamento delle fondazioni di una struttura quadrangolare, riferibile probabilmente al campanile. Nata forse come dipendenza della diocesi pavese, dall’epoca in cui compare la chiesa nei documenti risulta già un possedimento dei vescovi di Asti (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, pp. 104-105). Nell’anno 1300 infatti il vicario del vescovo, Guido, ne conferiva l’amministrazione a un sacerdote presentato dai signori di Cortazzone, Francesco di Montiglio e Baldracco Pelletta, che detenevano il patronato sulla chiesa. Nel 1345 San Secondo risulta inserito nel distretto della pieve di Montechiaro, a sua volta dipendente dal capitolo di Asti. Un documento del 1390 (perduto ma attestato dal De Canis, in Bordone, 1977, p.130) viene siglato nella chiesa e ricorda gli affreschi del catino absidale (le figure però vennero probabilmente ridipinte, perché la critica le attribuisce alla prima metà del XV secolo: Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, p.XXVII). Alla fine del medioevo la crisi dell’ordinamento plebano e la polarizzazione dell’insediamento sul castello hanno favorito la nascita di un secondo centro di culto, che ha ereditato il titolo della chiesa antica. Il nuovo San Secondo acquisiva diritti parrocchiali soltanto nel 1660, ma da tempo aveva assunto un’importanza preminente. Sappiamo infatti dalla visita pastorale del 1585 che la chiesa antica veniva officiata soltanto poche volte all’anno e svolgeva una funzione cimiteriale per il borgo. Nel 1688 venne dotata di un campaniletto a vela in facciata, tuttora conservato. La nuova chiesa del borgo venne ricostruita in forme neogotiche al principio del Novecento, mentre il primo San Secondo conserva un impianto romanico. La struttura architettonica è a tre navate, spartite da tozze colonne con capitelli figurati, e concluse da tre absidi semicircolari. Le volte con archi trasversi acuti sono sicuramente frutto di un’aggiunta posteriore alla fase romanica. La tecnica costruttiva utilizza materiali di provenienza locale: arenaria grigia alternata a corsi di mattone. L’interesse maggiore della chiesa si riscontra nell’apparato decorativo, ricco di sculture fitomorfe e zoomorfe che collegano l’edificio alla scuola di Monferrato, con probabili riferimenti al romanico emiliano e pavese (Fissore Solaro, 1971; Tosco, 1997). Il nucleo principale dell’edificio può essere collocato nel secondo quarto del XII secolo. La decorazione pittorica intervenne in una seconda fase, collocata nella prima metà del Quattrocento. Nella chiesa di San Grato a Moransengo sono stati recentemente rinvenuti resti di affreschi che sembrano vicini al maestro di San Secondo, databili a un’epoca coeva (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, p.XXXIV). Il castello di Cortazzone costituisce il polo di accentramento del nuovo abitato. Il territorio passa da una forma d’insediamento sparso gravitante intorno alla chiesa di San Secondo, caratteristico dell’alto medioevo, a una struttura accentrata intorno alla fortificazione. Il dominio signorile garantisce sicurezza e organizza la colonizzazione dell’area. Circa la fase vescovile del castello siamo poco informati, mentre il potenziamento della fortificazione si colloca con l’arrivo delle famiglie astigiane Pelletta e Montiglio, per mediazione dei Solaro. Nel 1223 Palmero Solaro e il suo socio Enrico Cazo Pelletta, che aveva fondato le loro fortune sull’attività mercantile e sul prestito di denaro, acquistarono dal vescovo di Pavia i due castelli di Cortazzone e Cortadone, con terre e diritti. Con ogni probabilità gli acquisti derivavano dalla precedente concessione di un mutuo al vescovo di Pavia (Castellani, 1998, pp.25 e 67). I beni non restavano a lungo nelle mani dei Solaro e nel 1228 i nuovi proprietari vendevano ad esponenti delle famiglie Pelletta e di Montiglio, impegnate nell’attività feneratizia, il castello con i beni fondiari e i diritti signorili (Carte astigiane 1, doc.1, anno 1300). Da questo momento un ramo della famiglia Pelletta s’insediava stabilmente a Cortazzone, guadagnando spazio rispetto ai Montiglio e fissando nel territorio un forte radicamento feudale, destinato protrarsi fino all’età moderna. E’ presumibile che a loro si debba il potenziamento del castello, ricostruito in muratura e rafforzato nelle strutture difensive. Soprattutto Bonifacio Pelletta, nel primo Trecento, mostra di essere il dominus loci di Cortazzone e, sebbene possedesse una casa ad Asti, dimora sovente nel castello, dove redige atti di locazione e di enfiteusi (Catellani, 1998, p.178). Il fenomeno s’inquadra in una fase di ritorno al contado dei cittadini astigiani che hanno accumulato grandi fortune tramite il commercio e l’attività feneratizia, con la formazione di stabili signorie territoriali locali. Il castello diviene a partire dal XIII secolo il polo di aggregazione dell’abitato di Cortazzone, che si sviluppa sulle pendici meridionali della collina. L’insediamento odierno conserva un assetto disposto a fasce sulla costa sud dell’altura dominata dal castello. I centri civili e religiosi si collocano a scalare sui terrazzamenti ricavati sul crinale, con il Municipio e la nuova chiesa di San Secondo. Il trasferimento di proprietà del centro fortificato segna il passaggio da un’autorità esterna (i vescovi di Pavia) a un potere signorile in ascesa, ben radicato nel contesto locale. Di qui la formazione del nuovo polo insediativo e la nuova morfologia accentrata assunta dall’abitato, destinata a non subire notevoli variazioni fino all’età moderna. Il castello presenta oggi un assetto composito frutto di ricostruzioni e restauri. Il nucleo più antico, databile al XIV-XV secolo, è ancora riconoscibile nelle strutture collocate alla sommità dell’altura, su un terrazzamento artificiale. Elementi della cortina sono visibili sul lato meridionale, inglobati in ampliamenti posteriori, con un coronamenti di merli a coda di rondine e un fregio continuo di mattoni. La riplasmazione settecentesca a conservato inoltre l’assetto di una struttura quadrangolare, adibita presumibilmente a spazio residenziale privilegiato, sviluppata su tre livelli, dove permangono una bifora ed elementi della decorazione in cotto. Nel 1362 il castello venne preso e saccheggiato da una compagnia di ventura inglese, che derubò i beni mobili dei Pelletta custoditi tra le mura (“Castrum Cortansoni fuit raptum, scalatum et penitus derobatum”, Chronicon illorum de Solario, da Vergano, 1990, III, p.44). I fatti bellici non provocarono probabilmente la distruzione dell’edificio, mentre danni maggiori si verificarono più tardi, durante l’occupazione delle truppe francesi nel 1706. Alla metà del Settecento il castello venne ristrutturato e i lavori ripresi nel primo Ottocento, con l’intervento di Carlo Bernardo Mosca (Comoli, V. – Guardamagna, L. – Viglino, M., a cura di, 1997). Nei secoli XVI-XVIII si assiste alla formazione di una maglia insediativa larga, con gruppi di aziende agricole sparse nel territorio, collocate in prevalenza sulle alture collinari. L’unico insediamento accentrato rimane quello di Cortazzone, dove la nuova chiesa assume diritti parrocchiali nel 1660, determinando la circoscrizione religiosa e amministrativa locale. Tale quadro territoriale è illustrato dalla mappa del catasto sabaudo del 1769 (AST, catasto antico, all. C rotolo 114), dove si riconosce il tessuto agricolo parcellare e la distribuzione ormai fissata degli insediamenti, corrispondente a quella odierna. Presso i nuclei abitativi rurali si moltiplicano cappelle minori (Sant’Antonio, San Salvatore, con diritti cimiteriali, San Defendente, San Giacomo, San Carlo). Ai confini dell’abitato principale venne realizzata la chiesa “di strada” della Madonna della Valle (poi della Neve), in corrispondenza dell’incrocio viario a sud-est, mentre sul versante opposto della collina si costruiva la cappella della confraternita di San Rocco, secondo un’usanza religiosa caratteristica, per scongiurare il pericolo di epidemie. Il cimitero maggiore (di cui oggi non restano tracce soprassuolo) rimaneva presso la chiesa antica di San Secondo e soltanto nel dopoguerra verrà stabilita la nuova sede cimiteriale, ai piedi della collina di Cortazzone. Le proprietà appaiono suddivise tra grandi famiglie, con vaste aree coltivate e presenza di bosco, gherbido, prato. I maggiori proprietari locali restano i conti Pelletta (insediati come abbiamo visto a partire dal 1223), che mantengono i diritti feudali immuni sul castello. La struttura produttiva più significativa dei Pelletta si riconosce nella cascina con porticato e impianto a U, collegata alla chiesa di San Rocco, tuttora conservata. Tra i nuovi proprietari presenti nell’area si distingue la comparsa dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, in seguito a un lascito testamentario della famiglia Govone. Un segno materiale di questi possedimenti è costituito da una serie di cippi liminari lapidei con la croce dell’Ordine, rimossi dai confini agricoli di pertinenza, oggi raccolti presso la sede del Municipio. All’inizio dell’Ottocento il territorio collinare appariva coltivato in prevalenza a viti, con ampia permanenza di aree boschive (De Canis, in Bordone, 1977, Proposta per una lettura, 1977, p.131). L’economia locale ha seguito questa specializzazione monoculturale e non ha segnato sviluppi nel settore industriale, con il conseguente esodo della popolazione attiva: all’inizio dell’Ottocento il quadro demografico raggiungeva le 1500 persone (Casalis 18331856, vol.5, pp.446-450), mentre oggi il comune conta 520 abitanti. La perdita di 2/3 della popolazione residente ha segnato la crisi degli antichi equilibri territoriali ma ha anche preservato il paesaggio dall’espansione edilizia, consentendo una diffusa conservazione dei caratteri originari. Nell’ultimo decennio si registrano fenomeni di ripresa demografica, con nuove iniziative imprenditoriali nel settore rurale. L’impianto di colture biologiche e la nascita di numerose aziende agrituristiche contribuiscono alla conservazione delle qualità ambientali e alla diffusione del turismo culturale, attratto dalla chiesa romanica di San Secondo. Moncalvo Cartografia storica Catasto francese: AST, all.G fasc.52 Toponimo Monte “calvo”, con il significato di “nudo, brullo”. Distribuzione insediativa odierna Il centro di Moncalvo si colloca in altura (312 mt. slm), in posizione dominante rispetto ai percorsi viari di fondovalle. Il territorio pianeggiante è attraversato da frequentate vie di comunicazione, che collegano Asti a Casale e al corso del Po, con la Statale n.457 e la ferrovia che segue un tracciato parallelo. Il percorso stradale è attestato fin dall’età antica e costituisce un esempio significativo di permanenza della rete viaria romana. L’importanza storica di Moncalvo, piazza di mercato con attività produttive legate alla piccola industria e all’agricoltura, ha favorito la formazione di un centro preminente nel conteso monferrino, che oltrepassa i 3500 abitanti. E’ significativo che Moncalvo non abbia subito lo spopolamento degli altri comuni dell’area, mantenendo tuttora un livello demografico prossimo a quello attestato all’inizio dell’Ottocento (Casalis, 1833-1856, vol.10, p. 566). L’equilibrio è stato conservato anche grazie alla nuova immigrazione, negli anni Cinquanta e Sessanta, dal Mezzogiorno e dal Polesine. L’abitato assume una forma cruciforme, condizionata dall’andamento della cinta muraria, oggi in parte conservata, che seguiva l’orografia della sommità collinare. Sul fondovalle, in corrispondenza della stazione ferroviaria, si è formato un borgo extramuraio, sede di attività produttive. Il territorio collinare è interessato da un apporto idrico consistente, con corsi d’acqua a regime torrentizio (il Menga, il Grana, il Valsesio) che contribuiscono alla fertilità dei suoli, destinati alla coltivazione di cereali e soprattutto viti. Nell’ultimo decennio le attività legate al turismo e all’enogastronomia hanno conosciuto un notevole incremento. Sviluppo storico del paesaggio Il centro di Moncalvo deve senza dubbio la sua importanza storica alla posizione dominante su un percorso viario frequentato fin dall’antichità, a metà strada tra Asti e Casale Monferrato. Il ritrovamento di lapidi romane conferma la presenza di un insediamento dell’età imperiale, che però non può essere per il momento localizzato con certezza. Appare ben documentato invece lo stanziamento di genti longobarde nell’area, grazie alla scoperta di una necropoli tra il 1880 e il 1899, in località S. Stefano, a cinque chilometri da Moncalvo, nello spartiacque tra la valle della Versa e la valle del Grana (Settia, 1983, p. 244). Insieme alla tombe vennero ritrovate tracce abbastanza consistenti di un insediamento (un focolare, frammenti litici) che purtroppo non vennero indagate con la dovuta attenzione archeologica. La presenza longobarda costituisce un esempio di grande interesse perché per l’area monferrina le testimonianze altomedievali restano estremamente rare. Le più antiche strutture d’inquadramento territoriale sono identificabili nell’organizzazione religiosa: Moncalvo aveva assunto la dignità di sede plebana, dipendente dalla diocesi di Vercelli, nonostante si trovasse in un territorio di marcata influenza astigiana. La sede plebana primitiva era collocata presso la chiesa di San Pietro, fuori dall’abitato attuale, vicino al cantone Gessi, e manteneva una limitata dipendenza ecclesiastica, comprendente tre edifici, tra cui l’abbazia di Grazzano (Ferraris, 1995, p. 164, nota 172). La collocazione esterna della pieve antica e il ritrovamento del cimitero longobardo dimostrano che le prime forme d’insediamento dovevano apparire sensibilmente diverse da quella attuale, con un habitat disperso che soltanto nei secoli centrali del medioevo venne accentrato sul castello. Lo sviluppo del centro di Moncalvo è legato al dominio dei marchesi di Monferrato, che mantenevano fin dall’età dei primi Aleramici importanti possedimenti allodiali nell’area (Settia, 1983, p. 33). Il castello diveniva un fulcro difensivo di primaria importanza di fronte alla minaccia astigiana. A differenza di altri centri fortificati monferrini, il castello mantenne, in virtù della sua collocazione, una notevole importanza strategica anche in età moderna, con il potenziamento delle difese medievali e l’aggiunta di nuovi bastioni “alla moderna”, ampiamente documentati dalla cartografia militare (Minoglio, 1877). Il forte venne quindi coinvolto nelle guerre per la successione del Monferrato, passato sotto il controllo dei Gonzaga, fino all’annessione sabauda del 1704. Le strutture superstiti lasciano intuire l’importanza della fortificazione, che comprendeva il perimetro della cinta urbica, intervallato da torri, e il castello signorile a cavaliere delle mura. La cartografia (in particolare i disegni raccolti nei volumi di Architettura militare presso l’Archivio di Stato di Torino) documenta l’adattamento delle fortificazioni in età moderna, con l’aggiunta di una tenaglia in corrispondenza della porta Rechius e di un bastione alle mura del castello, rivolto verso il centro urbano. Oggi si conserva parte della muratura del lato settentrionale del castello, con le torri cilindriche rafforzate alla base da un’imponente scarpatura, e i beccatelli alla sommità delle cortine, che dovevano terminare con merlature demolite per adattare la fortificazione alla difesa contro le armi da fuoco. Queste strutture possono essere riferite al pieno XV secolo e rappresentano un patrimonio monumentale di grande interesse, oggi non adeguatamente valorizzato nel contesto urbanistico e adibito a parcheggio. Nel centro urbano si conservano diversi edifici civili e religiosi tardo medievali, collegati alla funzione assunta da Moncalvo nel quadro del Marchesato. La chiesa di San Francesco costituisce uno degli edifici più significativi del gotico mendicante subalpino, ben conservata nella struttura absidale e nel campanile (Burroni, 1941). Il corpo longitudinale venne ricostruito in età barocca, con l’aggiunta della facciata terminata soltanto nel 1932. La comunità francescana aveva assunto un ruolo di prima importanza nella vita religiosa locale, in stretto rapporto con l’autorità dei marchesi, come dimostra la sepoltura di Teodoro II Paleologo, morto nel 1418, tra le mura del convento. Soltanto dopo la soppressione napoleonica i frati furono obbligati ad abbandonare la chiesa, divenuta sede parrocchiale. Nella parte alta dell’abitato si conservano esempi di architettura civile quattrocentesca, con la casa Lanfrancone (molto restaurata) e l’edificio a blocco chiuso di piazza Garibaldi (comunemente definito “Palazzo Paleologo”), con monofore arcuate poggianti su cornici continue marcadavanzale. La decorazione in laterizio è composta da formelle a stampo, ornate con immagini di grappoli d’uva: una testimonianza significativa della produzione viticola locale, già rinomata nel tardo medioevo. L’età barocca è rappresentata dal patrimonio di edifici religiosi, con la chiesa della Madonna, attribuita all’architetto casalese F. O. Magnocavallo (1707-1789), e la chiesa di Sant’Antonio Abate, ricostruita all’inizio del Seicento. La comunità ebraica ha mantenuto un’importanza considerevole nella vita economica del borgo, riconosciuta dalle autorità sabaude con l’istituzione del ghetto nel 1732 e la costruzione della sinagoga (Foa, 1950). Nel corso dell’Ottocento a Moncalvo vennero realizzati lavori di “decoro urbano” che interessarono la parte sommitale, dove si collocava il castello, trasformando una torre in belvedere, con ampie arcate su pilastrini, e realizzando il teatro comunale sulla piazza Garibaldi, inaugurato nel 1878. La piazza di mercato assumeva così un nuovo ruolo di rappresentanza nel quadro dell’economia agricola del territorio circostante (Picco, 1905). Nel borgo a valle si erano addensate attività produttive, legate alla filatura e alla concia delle pelli, che insieme alla presenza di cave di pietra da taglio e di gesso costituivano un primo sviluppo dell’industriale locale, oggi in buona parte dismessa. Montemagno Cartografia storica Catasto antico (1770): AST, all. C rotolo 167 Catasto francese: AST, all. A pf.113 all. B atl.151 Toponimo Nome derivato dalla caratteristica orografica del territorio, secondo un processo frequentemente attestato in area subalpina (Montegrosso, Montagnana, Montanaro etc.) Distribuzione insediativa odierna Il borgo si colloca sulle colline nord-est del capoluogo astigiano, presso il confine con la provincia di Alessandria. La collocazione in altura (260 m s.l.m.) ha favorito l’insediamento di un luogo fortificato, dominante sui bassi rilievi monferrini circostanti. I collegamenti sono secondari rispetto alla rete locale e, attraverso la provinciale di Calliano, il centro è unito alla statale n.457, che raccorda Asti a Casale e a Trino. Tale area di strada, oggi affiancata dalla ferrovia, valicava il Po presso Pontestura e aveva assunto un’importanza notevole già nel corso del Medioevo, esempio significativo di conservazione di un tracciato storico. Il versante dell’altura urbanizzata rivolto al corso del torrente Grana offriva il principale collegamento con i centri monferrini e rimane ancora oggi un percorso panoramico ad alta potenzialità turistica. Sviluppo storico del paesaggio Già attestato nella documentazione a partire dal X secolo, Montemagno ha assunto un’importanza notevole per la posizione strategica nell’area collinare, collocato al confine tra i domini del comune di Asti e dei marchesi di Monferrato. La nascita del castello e il suo potenziamento militare si comprende dunque non soltanto nel quadro locale di dominatus loci, ma in una rete più ampia di potenze contrastanti. E’ significativo che il cronista Gabriele Bucci nel suo Memoriale quadripartitum (p.264) definisca Montemagno “clavis Montisferrati” (chiave del Monferrato), indicando così il ruolo determinante della fortificazione per l’accesso all’area. Nei secoli XI-XIII è il vescovo di Asti che detiene il controllo del castello nonostante le ingerenze dei marchesi di Monferrato, concedendolo in feudo ai locali domini di Montemagno. I vassalli vescovili però erano stretti tra le potenze confinanti e il castello, con il villaggio, furono “diruti” durante le guerre contro l’avanzata di Carlo d’Angiò nel Piemonte meridionale. Nel 1269 il comune di Asti otteneva il controllo della fortificazione, tramite un atto di vendita da parte del consortile nobiliare locale, registrato nel Codex Astensis (doc.724), con il pagamento della cifra considerevole di 3325 lire. La reazione vescovile non si fece attendere e il comune venne scomunicato, innescando un lungo contenzioso con l’autorità religiosa. Nel quadro delle tensioni tra guelfi e ghibellini la fortificazione venne successivamente occupata dalla famiglia signorile astigiana degli Asinari e nel 1310 l’imperatore Enrico VII, entrato ad Asti per rappacificare le fazioni, imponeva con un diploma di riconciliazione la restituzione del castello alla città, a fronte del pagamento di una cauzione (Monumenta Germaniae Historica, Legum, doc. 474). Il dominio signorile però era saldamente radicato e l’insolvenza del comune, dovuta alla crisi finanziaria ormai in atto, provocò di fatto l’impossibilità di eseguire la sentenza imperiale. Nelle guerre successive per il controllo del Monferrato, tra XV e XVI secolo, la fortificazione conobbe ulteriori passaggi di proprietà, fino a confluire definitivamente nel dominio sabaudo. Il castello costituisce ancora oggi l’elemento monumentale preminente, con pianta rettangolare, due torri di spigolo e merlature sommitali, in buona parte frutto delle ristrutturazioni successive. L’intervento più significativo, che ha alterato l’assetto duetrecentesco originario, si registra all’inizio del Settecento, con la ristrutturazione degli ambienti interni e del cortile ellittico. Gli edifici ecclesiastici formano un patrimonio disomogeneo, che testimonia epoche diverse d’intervento. La chiesa dell’Assunta, che svolge funzione parrocchiale per l’abitato, realizzata tra XVIII e XIX secolo, è un esempio di passaggio dal tardo barocco alle prime forme di neoclassicismo, caratterizzata da un pronao curvilineo antistante la facciata, con scalone monumentale d’accesso. La cappella di Santa Maria della Cava conserva un ciclo di affreschi del XV secolo, mentre l’età barocca è documentata dalle chiese della Trinità e di San Michele. Fuori dall’abitato, oggi in posizione isolata e allo stato di rudere, si conservano i resti della chiesa di San Vittore (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998). La struttura originaria doveva presentare un notevole sviluppo monumentale, testimoniato dai frammenti dell’abside curvilinea e della torre campanaria affiancata. Documentato a partire dal 1345, l’edificio si collega alla scuola romanica del Monferrato e può essere attribuito alla metà del XII secolo. La collocazione del rudere rappresenta un diverso assetto precedente del territorio, caratterizzato da un insediamento rurale sparso. L’accentramento sull’odierno abitato di Montemagno si registra a partire dall’età moderna e la nuova parrocchia dell’Assunta compare nei documenti a partire dalla fine del Cinquecento. Evoluzione del sistema fortificato L’insediamento di Montemagno presenta una dinamica complessa, che dal nucleo castrense iniziale coinvolge il centro abitato, al passaggio tra Medioevo ed Età Moderna. Lo sviluppo dell’insediamento passa attraverso fasi successive che possono essere così schematizzate: I FASE (XI-XII secolo) Fondazione del castello signorile, per probabile iniziativa dei vescovi artigiani, sito di altura (272 m. s.l.m.), in un’area di confine con il dominio dei marchesi di Monferrato. In questa fase l’insediamento rurale circostante doveva presentare un assetto disperso nel territorio, gravitante intorno a centri religiosi, che non avevano generato però nuclei di notevole concentrazione. A testimonianza di tale periodo rimane la chiesa romanica di San Vittore (metà XII secolo), conservata allo stato di rudere fuori dall’abitato odierno. II FASE (XIII-XIV secolo) L’acquisizione del castello da parte del comune artigiano nel 1269, fortemente contrastata dall’autorità vescovile, innesca un periodo di conflitti che coinvolgono la fortificazione e il territorio. Il risultato di questa politica è la formazione di un nucleo insediativo protetto, un ricetto, realizzato per accogliere in sicurezza la popolazione circostante. La maglia odierna del borgo conserva una traccia di tale fase nell’area nord-est sottostante il castello, caratterizzata da un tracciato regolare a lunghi isolati paralleli, che denuncia con chiarezza un progetto insediativo coordinato. Il tracciato della fortificazione può essere ricostruito nell’andamento curvilineo della strada che seguiva il profilo del muro perimetrale. Il ricetto era collegato al castello in un sistema difensivo unitario, in grado di garantire sicurezza alla popolazione e alla residenza signorile. III FASE (XV-XVI secolo) La crescente importanza del castello, nel quadro delle guerre per il dominio dell’area monferrina, favorisce un aumento della popolazione insediata e la realizzazione di un’ulteriore espansone del ricetto, da collocarsi a est del nucleo più antico, in continuità diretta con il sistema consolidato. L’espansione è indicata nei consegnamenti del XV secolo come Borgo Nuovo, difeso da strutture murarie aggiunte, che proseguivano presumibilmente l’andamento della fortificazione già delineata. Non si riconosce però nel Borgo Nuovo lo schema pianificato a isolati regolari che distingueva il nucleo originario del ricetto, segno di una formazione spontanea in un’epoca in cui la capacità d’intervento signorile risultava ormai ridotta. Si stabilizzava così l’assetto odierno dell’abitato, mentre le chiese presenti nelle campagne circostanti venivano disertate dalla popolazione progressivamente abbandonate. Segno del nuovo equilibrio territoriale è la fondazione della parrocchia dell’Assunta, attestata alla fine del Cinquecento. Significativamente la chiesa venne collocata presso la linea d’intersezione tra il ricetto originario e il Borgo Nuovo, in posizione baricentrica rispetto al castello signorile e ai nuclei abitati di recente formazione. San Martino Alfieri Cartografia storica Catasto francese: AST, all. A pf.109 all. H fasc.389 Toponimo Agiotoponimo molto diffuso in Italia settentrionale, al quale è stato accostato dal XIX secolo il nome gentilizio della famiglia signorile. Distribuzione insediativa odierna Il territorio comunale si colloca a cavallo delle alture che dividono la valle Tanaro da quella del Borbore, in un’area che lega il suo sviluppo storico alla colonizzazione del territorio tra Asti ed Alba. Il centro di San Martino si sviluppa sul crinale di una bassa collina (257 m. s.l.m.), seguendo una forma allungata a nastro in direzione dello spartiacque. Le vie di comunicazione locali appaiono di carattere secondario, mentre il collegamento principale si riconosce nella statale n.231 che segue la valle del Tanaro, un tracciato storico già attestato a partire dai secoli centrali del Medioevo. Il paesaggio è caratterizzato dai bassi rilievi della Langa settentrionale, e l’attività economica rimane principalmente agricola, con specializzazione nel settore della viticoltura. Sviluppo storico del paesaggio La formazione del borgo è legata allo sviluppo degli insediamenti rurali nell’XI secolo, in relazione diretta con l’affermazione del potere astigiano, ancora legato in questa fase all’autorità vescovile. La formazione del centro fortificato si collega alle necessità di controllo del contado da parte del comune in ascesa, con la presenza dominante della famiglia Solaro a partire dal Duecento. Del passato medievale non si conservano tracce evidenti, mentre l’elemento emergente dell’abitato odierno è legato alla presenza della famiglia Alfieri che ha promosso la ricostruzione della sede fortificata in palazzo signorile. Si verifica così un processo caratteristico di trasformazione che, tra le aree campione prescelte,. è possibile osservare anche a Villadeati, dove la perdita delle funzioni militari non porta all’abbandono della struttura castrense ma una sua riutilizzazione in senso residenziale aulico. La fase iniziale di trasformazione venne affidata ad un ingegnere militare del calibro di Antonio Bertola, che realizzava qui uno dei suoi primi interventi a favore dell’aristocrazia subalpina. Attivo a San Martino a più riprese nel primo ventennio del Settecento, Bertola impostava i lavori nel castello e per la sistemazione del centro urbano. La residenza venne completamente ristrutturata in senso barocco anche all’interno, con la partecipazione d’importanti figure di decoratori e stuccatori come il Cremonino, il Catenazzi, il Mendrisio. A partire dal 1760 è probabile un intervento di Benedetto Alfieri, relativo alle ali laterali della residenza. Anche il giardino venne coinvolto nei progetti di aggiornamento al nuovo gusto, con la revisione all’inglese della disposizione complessiva. La proliferazione locale dei centri di culto è collegata alla diffusione della pietà tardo barocca e alla ripresa della religione popolare nell’epoca della Restaurazione. Al primo periodo si può riferire la Santissima Annunziata, sede della locale confraternita dei Battuti Bianchi, oggi sconsacrata e potenziale spazio di qualificazione del centro storico, mentre nell’area rurale formano un percorso continuo, suscettibile di essere valorizzato come circuito di visita, le cappelle delle frazioni di Firano, Marelli, Pero, Saracchi e Quaglia. Il centro preminente della devozione locale però è costituito dalla parrocchia dei Santi Carlo e Maria, ricostruita negli anni 1828-1833 su progetto di Ernesto Melano, che interveniva anche su altre strutture pertinenti alla famiglia Alfieri (Dellapiana, 1997). La chiesa rappresenta un caso interessante nella formazione dell’architetto, considerato un protagonista del neogotico piemontese nell’età carloalbertina. In realtà il suo impegno si apre su un più ampio ventaglio eclettico, come dimostra l’intervento di San Martino, che propone una struttura neoclassica con nartece colonnato e timpano di coronamento, dove si elaborano temi affrontati dalla sua generazione di architetti attivi nell’area subalpina, come dimostra un confronto con la parrocchiale di Santhià realizzata negli stessi anni da Giuseppe Talucchi. Settime Cartografia storica Catasto antico (1764-65): AST, all.C rot.159 all.E vol.119 Toponimo Il termine deriva dalla collocazione stradale ad septimum dalla città di Asti. Distribuzione insediativa odierna Il borgo si sviluppa con andamento nastriforme lungo la strada di crinale di un basso rilievo (272 m s.l.m.), sulle propaggini meridionali delle colline monferrine. Il collegamento viario principale si colloca però a valle, dove corre la statale n.458 Asti-Chivasso e un tratto della linea ferroviaria. Oltre al centro abitato maggiore si registra un insediamento sparso caratterizzato da fabbricati agricoli isolati. Le attività economiche restano tuttora legate all’agricoltura, con prevalenza di vigneto. Sviluppo storico del paesaggio La prima attestazione documentaria del villaggio si registra già in epoca altomedievale, in un atto dell’875, come “villa ad Septimum” (Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Asti, doc. 27). La designazione indica un insediamento di modeste dimensioni, legato all’attività agricola, sorto lungo un’area di strada al settimo miglio dalla città di Asti. La direttrice viaria d’origine romana era una variante di raccordo che collegava il corso del Po, all’altezza dell’importante centro d’Industria (oggi scomparso, presso l’odierna Chivasso), con Asti e la via Fulvia. Il territorio doveva apparire tra antichità e alto medioevo coperto in buona parte da foreste, e studi sul paesaggio hanno stabilito la presenza di una vasta silva estesa fino a Villanova, Baldichieri, val Benedetta, utilizzata dalle popolazioni come spazio di coltura spontanea per le attività silvo-pastorali (Gramaglia, 1980). Lo sviluppo dell’abitato presenta delle dinamiche tipiche nel rapporto tra comunità rurali e potere signorile. Il sito originario del villaggio doveva trovarsi a nord-est di quello odierno, su un’altura che conserva tuttora la funzione cimiteriale originaria e la cappella di San Nicola, l’edificio più antico presente nel territorio. Il dominatus loci era garantito dalla presenza di un castello, acquistato al 50% nel 1221 da Bonanato Pelletta, insieme a beni fondiari e a diritti signorili (Castellani, 1998, p.25). L’importante famiglia astigiana dei Pelletta, dedita all’attività feneratizia e protagonista nella vita politica del comune, entrava direttamente nella gestione del centro fortificato, favorendo nuovi equilibri territoriali. Nel corso del secolo al dominio dei Pelletta subentra quello di un’altra famiglia astigiana in forte ascesa economica, i Comentina, che risiedono stabilmente nel castello esercitando con determinazione i diritti signorili. Nel 1309 però la comunità di Settime si rivolta all’autorità dei Comentina, schierati sul fronte ghibellino, appellandosi al comune di Asti dove invece andava affermandosi il partito guelfo in alleanza con gli Angiò. Il risultato di queste vicende politiche si riflette nell’evoluzione del territorio: il sito originario del villaggio costruito “circa castrum” (intorno al castello) venne demolito dagli stessi abitanti che trasferirono beni e proprietà sul colle vicino, per sottrarsi all’ingerenza signorile ponendosi sotto la tutela del comune di Asti. Il cronista Guglielmo Ventura, testimone oculare degli eventi, descrive la situazione con chiarezza: “villa diruta fuit et mutata, et aedificata supra montem de prope” (il villaggio fu demolito e traslato e edificato sopra il monte vicino: G. Venturae Memoriale, col. 770). Nel sito primitivo restava soltanto la chiesa di San Nicola e l’area cimiteriale della parrocchia, conservati fino ad oggi. L’evento storico dimostra la mobilità insediativa medievale e la possibilità di riconoscere nelle architetture la dinamica dei processi che hanno determinato l’assetto odierno del paesaggio. La chiesa di San Nicola, in seguito all’abbandono dei parrocchiani, non ha subito sostanziali rifacimenti e ha mantenuto il suo aspetto romanico: una cappella ad aula dotata di abside semicircolare, con alternanza di corsi di arenaria locale e di mattoni. La cornice di archetti pensili a struttura monoblocco, con protomi umane scolpite e motivi a damier, suggerisce una datazione del manufatto alla seconda metà del XII secolo. La chiesa era rimasta sottomessa al potere signorile, come cappella privata in patronato, passata alla famiglia dei Roero dopo la crisi politica dei Comentina. Nella visita pastorale del 1585 l’edificio risultava in condizioni non buone, aperto al culto solo una volta all’anno, mentre nel nuovo centro era stata costruita una chiesa parrocchiale che garantiva il culto ordinario. L’odierna parrocchia di San Nicolao ha continuato nei secoli a svolgere le sue funzioni e venne ricostruita nelle forme attuali all’inizio del Settecento. Anche il castello subì diversi rifacimenti, soprattutto nel corso del XIX secolo ad opera dei nuovi proprietari, i Borsarelli di Rifreddo. Il complesso, realizzato su un terrapieno con muri di contenimento perimetrali, presenta una pianta ad U, ed è circondato da un ampio parco privato. Nella struttura però sono ancora visibili le parti medievali, soprattutto nelle tracce della finestratura originaria, e uno studio monografico potrebbe rivelare molte informazioni sull’assetto delle stratificazioni. Tigliole Cartografia storica Catasto francese:AST, all.G fasc.260 all.H pf.480 Toponimo Si tratta di un fitotoponimo, derivato dal latino tilius (tiglio), attestato in numerose varianti in area subalpina (Tiglione, presso Vigliano d’Asti, Cortiglione, presso Acqui). Distribuzione insediativa odierna Il paese è collocato su modesto rilievo collinare (239 m s.l.m.), di fronte a un’ampia depressione valliva segnata dal torrente, di carattere sabbioso-ghiaioso. L’insediamento segue la linea del crinale, lungo lo spartiacque est-ovest della collina, e assume una distribuzione nastriforme collegata al passaggio della strada. La presenza del castello non sembra aver generato, in questo caso, la formazione di un insediamento accentrato. Le coltivazioni seguono una ripartizione già attestata nel tardo medioevo, con prati e cereali sul fondovalle e vigneti alternati a bosco ceduo sulle alture. Sviluppo storico del paesaggio L’area di Tigliole è interessata da ritrovamenti preistorici, che offrono dati di primo interesse sull’assetto territoriale antecedente alla conquista romana. In località Pratomorone sono stati indagati, con scavi stratigrafici a cura della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, reperti assegnati alla cultura “Vaso a Bocca Quadrata”. Grazie ad interventi pianificati nel decennio 1982-1992 il sito ha rivelato la sua origine olocenica, offrendo ai ricercatori la possibilità di ricostruire le attività manifatturiere del periodo mesolitico (Mottura, 1983). Mentre per l’età romana non permangono fonti storiche attendibili, le prime notizie certe sull’abitato di Tigliole si registrano in epoca medievale. Il centro appare caratterizzato da uno sdoppiamento insediativo tra gli abitati di Tigliole superiore, collocato in altura e corrispondente alla sede comunale odierna, e Tigliole inferiore, abbandonato alla fine del medioevo. Le notizie più antiche risalgono al X secolo, quando Tigliole superiore compare nei documenti con un sistema insediativo già strutturato. In un atto del 974, conservato all’Archivio Capitolare di Asti, è attestata la presenza di un castrum, un castello, affiancato da una basilica dedicata a Sant’Eugenio, un edificio religioso di proporzioni rilevanti, e da un cimiterio (Le più antiche carte dell’Archivio Capitolare di Asti, doc. 95, p. 187). Il centro fortificato, dotato di una cappella all’interno delle mura e di una comunità abbastanza numerosa da disporre di un luogo di sepoltura, dipendeva inizialmente dal vescovo di Pavia, che deteneva diritti ecclesiastici nel territorio della diocesi astigiana. Il territorio assumeva all’epoca un aspetto boscoso, a densa copertura vegetale, con radi insediamenti intercalari, collegati a centri difensivi (oltre a quello di Tigliole nell’area è attestata la presenza del castello di Andona). L’insediamento appare comunque sdoppiato fin dall’XI secolo in due centri distinti, dove a Tigliole era affiancato l’abitato di Tigliolette, o Tegliole inferiore (Teglole inferiores), posto sul piano, attestato fin dal 1041 come dipendenza del vescovo di Asti, nel diploma di conferma dei beni diocesani concesso dall’imperatore Enrico III. Il centro ha assunto una fisionomia curtense (curtis), accentrata sul castello e sulla chiesa di Santa Maria, dotata di cappelle dipendenti. Con la crisi demografica e lo spopolamento delle campagne nella seconda metà del XIV secolo, l’abitato di Tigliole inferiore era destinato a scomparire e il sito originario si colloca oggi presso la frazione Pianetti di Tigliole, in un’area che assume pertanto una notevole potenzialità archeologica. Il centro comunale odierno invece corrisponde all’antico Tigliole superiore, che ha mantenuto nei secoli la sua stabilità insediativa. Tale stabilità si conserva in modo simbolico per le sedi del potere civile: il palazzo civico venne realizzato nell’Ottocento sul sedime del castello medievale, ormai ridotto allo stato di rudere. Il De Canis descrive lungamente le trasformazioni del castello, che nel suo nucleo più antico era costituito da “un edifizio quadrato fiancheggiato a mezzogiorno da due grosse rotonde torri” (Bordone, 1977, p. 241). Il bene architettonico emergente dell’area s’identifica senza dubbio nella chiesa di San Lorenzo, collocata a metà strada tra i due insediamenti (Faroppa Vaudetti, 1965, e Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998). Durante il periodo di dipendenza dalla diocesi pavese la chiesa era affidata al vicario vescovile, per essere aggregata all’autorità astigiana soltanto nel 1803. L’edificio rappresenta uno degli esempi meglio conservati della scuola romanica del Monferrato, e nella sua posizione attualmente isolata testimonia l’esistenza di nuclei abitativi diffusi sul territorio prima dell’età moderna. Con struttura ad aula longitudinale monoabsidata, nonostante una fase di rifacimento settecentesca, conserva la partitura decorativa ad archetti pensili monoblocco, con monofore gradonate sulle pareti perimetrali scandite da lesene. La muratura presenta la caratteristica partitura a fasce alterne di cotto e arenaria locale che distingue l’aspetto bicromo di questo gruppo omogeneo di chiese astigiane, databile con sicurezza al secondo terzo del XII secolo (Tosco, 1997). Villadeati Cartografia storica Catasto francese: AST, all. G fasc.59 Toponimo Il toponimo originario villa, indicante un villaggio agricolo, è stato collegato alla famiglia Deati, che deteneva i diritti signorili locali. Distribuzione insediativa odierna Il territorio è caratterizzato da una morfologia collinare, con abitati disposti in altura, dove prevale il centro di Villadeati, con le frazioni di Zanco e Lussello, in un equilibrio distributivo che non privilegia concentrazioni emergenti. Le vie di comunicazione presentano un carattere secondario rispetto alla rete provinciale e seguono in prevalenza un tracciato di displuvio, condizionando lo sviluppo dei centri abitati: prevale così una struttura insediativa lineare, collocata lungo le vie di crinale. A Villadeati la presenza del castello, sorto sull’altura dominante (406 mt. s.l.m.), ha costituito il polo di aggregazione primario del comprensorio, generando l’abitato disposto lungo le pendici collinari. Lo sviluppo urbanistico non ha assunto però una morfologia accentrata (come è avvenuto in altri casi di agglomerazione castrense, ad esempio Cortazzone) ma una distribuzione nastriforme lungo il tracciato della via carrozzabile. La vocazione agricola si è conservata prevalente nel territorio, con seminativi alternati a bosco: la vite costituisce la coltura tuttora dominante, insieme a cereali e foraggi. La mancanza d’insediamenti produttivi ha favorito lo spopolamento e frenato l’espansione edilizia, contribuendo alla conservazione del paesaggio collinare. Sviluppo storico del paesaggio La più antica testimonianza documentaria dell’abitato è reperibile in un documento del 909, un atto di compravendita che menziona il “vicus de Villa” all’interno del comitato Torrensis, un distretto altomedievale destinato a scomparire presto nella suddivisione amministrativa del territorio (Settia, 1983, p. 19). Le ipotesi sull’estensione amministrativa della iudiciaria Torrensis restano difficili da confermare, ma è stato recentemente identificato il probabile si sito originario dell’insediamento, in località bric San Lorenzo, che presenta grandi potenzialità archeologiche (Demeglio, 2002, pp. 385-386). Per Villadeati invece la qualifica nel documento del 909 di vicus consente d’ipotizzare la presenza di un insediamento agricolo di ridotte dimensioni, inserito nelle prime forme di colonizzazione. La successiva nascita del castello forniva un elemento nuovo d’inquadramento territoriale e la sua ubicazione può essere identificata con certezza sulla sommità dell’altura dominante, dove in seguito sorgerà la villa settecentesca. Il centro fortificato assumeva una funzione polarizzante per il centro abitato. La completa mancanza di strutture architettoniche medievali conservate in alzato non consente, comunque, di comprendere più nel dettaglio lo sviluppo dell’insediamento. L’importanza del borgo aumentava nel quadro dei contrasti tra le dominazioni signorili che ambivano al controllo del territorio: Villadeati era inserita nelle terre dei marchesi di Monferrato, lungo il limite meridionale del dominio, dove si presentava minacciosa la potenza del comune di Asti. Nel 1290 Villadeati venne devastata dalle milizie del conte Amedeo di Savoia, alleato del comune astigiano contro il marchese Guglielmo (secondo il Memoriale di Guglielmo Ventura “villam de Villa destruxerunt”, cap.XIV, col. 718). Le notizie storiche riguardanti l’azione militare non devono comunque essere enfatizzate e di fatto l’insediamento non venne abbandonato. Ancora nel 1595 i Protocolli Paltro conservati all’Archivio di Stato di Torino (Protocolli Monferrato, vol.56, c. 349v) attestano la presenza a Villadeati di “sedimi forti contenuti nel recetto di esso castello” e nel 1630, nel quadro delle guerre per la successione del Monferrato, si segnalano ancora episodi militari. Tra Sei e Settecento il territorio vedeva potenziata le sua vocazione agricola, sempre più specializzata nel settore della viticoltura, con uno sviluppo conseguente delle strutture architettoniche. Il “Libro figurato della comunità” del 1786, conservato presso l’Archivio Comunale di Villadeati, costituisce una preziosa documentazione dell’assetto colturale assunto dal paesaggio alla fine dell’età moderna. La ricostruzione in forme barocche del patrimonio locale di architettura sacra testimonia la prosperità dell’insediamento, con la cappella della Trinità e la parrocchiale di San Remigio, d’impianto cruciforme, mentre nel 1823 venne consacrata la chiesa di Santa Maria Assunta, ultimo esempio di architettura monumentale realizzato nel territorio, che conserva (oltre a due tele del Moncalvo) un complesso di arredi lignei di notevole interesse comprendente il coro, il pulpito, lo spazio per l’orchestra e l’organo firmato dai fratelli Collino. Con la perdita definitiva della funzione militare, il castello di Villadeati aveva assunto nuova importanza come sede aristocratica, passando per diversi proprietari, fino alla completa ricostruzione sotto forma di villa-belvedere alla fine del Settecento. L’insieme architettonico costituisce un episodio straordinario di qualità architettonica, riferito a diversi progettisti dalla critica, con una prevalente attribuzione a Giovan Battista Piacenza (1735-1818), personalità aggiornata alle prime forme di neoclassicismo, con studi approfonditi nel corso di numerosi soggiorni romani. La villa si articola in una serie padiglioni e terrazze degradanti sul declivio della collina, ornate da peristili, torrette e balaustre, in una stupefacente compenetrazione con il paesaggio. La parte residenziale appare notevolmente ridotta rispetto allo sviluppo delle gradonature e del giardino, che costituiscono un modello unico nel panorama piemontese, ispirato al grande esempio del tempio della Fortuna Primigenia a Preneste. Una serie di percorsi sotterranei e di sostruzioni assicurano una rete di collegamenti interni alla villa, che sono stati riferiti ai riti iniziatori della cultura massonica, in grande considerazione presso le classi aristocratiche alla fine del Settecento (Corboz 1969-70, pp. 166-195). La villa è stata acquisita negli anni Settanta del Novecento dall’editore Feltrinelli e adibita a residenza di famiglia. La destinazione privata ha quindi sottratto alla fruizione pubblica il bene culturale preminente del territorio, escludendo dai circuiti di visita un monumento che, se valorizzato adeguatamente, costituirebbe un polo d’attrazione di primario interesse. Villafranca d’Asti Cartografia storica Catasto francese: AST, all.G fasc.258 all.H pf.481 Toponimo Da “villa” resa “franca, libera” da obblighi signorili o fiscali, secondo un toponimo frequentemente attestato in area europea (cfr. il francese Villefranche, il tedesco Freiburg). Distribuzione insediativa odierna L’area dell’abitato si colloca in posizione basso collinare, dove i rilievi monferrini degradano verso la pianura. L’aumento demografico degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento ha generato la formazione di un’area di espansione urbana verso sud-est, esterna al nucleo originario, formatosi in posizione leggermente rilevata. La mancanza di un quadro urbanistico coerente ha favorito la diffusione di un’edilizia residenziale ad alta densità, con scarso rispetto verso le potenzialità architettoniche e ambientali dell’abitato d’origine medievale. Il sistema dei percorsi è stato intensificato dal passaggio di arterie ad alta velocità: dapprima la linea ferroviaria Torino-Asti e in seguito l’autostrada Torino-Piacenza (A21), favorendo l’inserto del borgo nella rete maggiore dei circuiti viari regionali. La vicinanza di queste arterie (appena 300 m dal centro storico di Villafranca) ha favorito lo sviluppo residenziale ma ha penalizzato i caratteri di tipicità locali e la percezione unitaria di un’area liminare del paesaggio monferrino. Sviluppo storico del paesaggio La formazione del borgo avviene per sinecismo degli insediamenti circostanti di Musanza, Sala, Bellotto, Traversola e Castella, intorno al polo d’attrazione costituito dalla pieve di Santa Maria di Musanza, già attestata nel diploma imperiale del 1041 concesso ai vescovi di Asti. La formazione di un nucleo abitativo più consistente è legata alla politica astigiana nei confronti degli insediamenti del contado. Con la frantumazione dell’ordinamento plebano nel basso medioevo, Villafranca ottenne un’autonoma giurisdizione parrocchiale, soltanto per breve tempo, dal 1593 al 1625, passata sotto il controllo di Villanova. La collocazione viaria aveva assunto un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’abitato. Alla base delle colline monferrine infatti correva un lungo tratto della via Fulvia, percorso romano che collegava Torino e i passi alpini ai grandi municipia dell’area padana (Asti, Tortona, Piacenza e quindi la via Emilia). La strada venne riattivata in età medievale e con lo sviluppo dei commerci nel mondo comunale divenne un importante arteria di comunicazione. Di qui la presenza dell’ospedale, collocato presso la pieve di Musanza, che costituiva un elemento d’attrazione e di gravitazione commerciale per il territorio circostante. E’ importante ricordare che i tracciati dell’autostrada e della ferrovia seguono tuttora l’antico sedime della via Fulvia, e costituiscono un fattore di continuità dell’assetto territoriale (ovviamente di difficile valorizzazione storico-culturale). Il controllo della sede plebana e dell’ospedale hanno costituito, fin dal XIII secolo, la base dell’organizzazione religiosa e civile. La presenza signorile insediata nel castello (i Malabaila dapprima e poi i Cacherano) era collegata al potente dominio astigiano, fino all’ascesa dei nuovi principati territoriali che andavano formandosi in area subalpina. Villafranca, entrata nell’orbita viscontea, venne riacquistata nel 1364 da Giovanni II marchese di Monferrato in occasione della pace stipulata con Galeazzo II Visconti, in cambio di terre nell’area pavese (Vergano, 1990, vol.II, p. 44), per rientrare poi nei possessi dotali di Valentina Visconti e quindi passare alla signoria Orléans, insieme a gran parte del territorio astigiano. Nel quadro insediativo è significativa la presenza del castello, in origine collocato in lieve altura a fianco della parrocchiale di Santa Maria Assunta. La fortificazione medievale venne demolita nel 1860, ma la struttura accentrata del borgo può essere ancora percepita come sedimento storico. Nel distretto comunale si conservano due beni architettonici rilevanti, entrambi di natura religiosa: la parrocchiale dell’Assunta e la Madonna della Neve nella frazione Vulpilio. In origine dedicata a San Giovanni, quest’ultima chiesa è attestata fin dal 1152, nella bolla pontificia concessa da Eugenio III, come possedimento del monastero di San Pietro a Breme, in Lomellina (Le chiese romaniche delle campagne astigiane, 1998, pp. 199201), fondato dai monaci della Novalesa fuggiti dall’abbazia alpina per la minaccia saracena. La chiesa è attestata fino all’inizio del XIV secolo per il servizio liturgico dell’abitato di Vulpilio, spopolato al temine del medioevo. Si tratta pertanto di un interessante testimonianza di struttura in muratura sopravvissuta all’abbandono dell’insediamento agricolo circostante, costruito presumibilmente con materiali deperibili. L’abitato di Villafranca dimostrava così il suo ruolo polarizzante per le popolazioni insediate nel territorio. L’edificio religioso sopravvissuto alle dinamiche del popolamento divenne quindi cappella campestre, mutando il titolo in Madonna della Neve, assorbita nella giurisdizione parrocchiale di Villafranca. L’edificio conserva ancora oggi la morfologia dell’abside romanica, che può essere datata alla metà del XII secolo, nonostante il pesante strato d’intonaco che ha ricoperto le pareti. Nel centro maggiore la parrocchiale dell’Assunta rappresenta un caso di grande interesse di architettura protobarocca di alta qualità, realizzata fuori dai centri urbani maggiori. L’iniziativa della ricostruzione si deve a un dignitario ecclesiastico originario di Villafranca, monsignor Giacomo Goria, legato alla corte sabauda, che riuscì ad attivare un circuito di maestranze luganesi per la realizzazione del cantiere, aperto nel 1629. La chiesa segue un impianto longitudinale caratteristico dei modelli controriformisti, con cappelle laterali e volta a botte sulla navata. L’elemento più significativo però è senza dubbio la facciata, con ordine gigante di semicolonne corinzie e timpano triangolare, spezzato da una rientranza alla sommità. L’uso monumentale dell’ordine classico, la presenza del timpano, le decorazioni a rilievo, fanno di questa facciata un esempio di grande pregio nel contesto locale, attribuito alla progettazione di Carlo di Castellamonte. Villanova Cartografia storica Catasto francese: AST, all. G fasc.264 e 492 all. A pf. 109/1 Toponimo Il termine testimonia la fondazione ex novo dell’insediamento, come si registra per molti altri casi in Italia settentrionale (il toponimo è attestato per cinque comuni e varie frazioni in Piemonte, cfr. anche Villanovetta e derivati). Distribuzione insediativa odierna Il borgo di Villanova presenta caratteri radicalmente diversi dalle altre aree campione prescelte. Il suo assetto conserva in evidenza la struttura di un insediamento pianificato, tracciato in base alle regole dei borghi di nuova fondazione. L’espansione edilizia di età moderna non ha cancellato tale assetto, che rimane uno degli esempio meglio conservati in area subalpina. Al di fuori del concentrico urbano una rete di cascine documenta la diffusione regolare delle aziende agricole, caratterizzate da una forte specializzazione zootecnica. E’ importante notare che gli insediamenti rurali proseguono senza fratture la dislocazione già fissata nel tardo medioevo, come appare evidente nel caso del “Castello” di Corveglia. Sviluppo storico del paesaggio Il territorio pianeggiante di Villanova è caratterizzato dal passaggio di un’importante area di strada, di origine probabilmente preromana, attiva in età imperiale e successivamente nel corso del Medioevo. Il tracciato della via Fulvia, che collegava Torino con Asti, Tortona e la grande arteria trasversale padana della via Postumia, ha costituito nei secoli un asse di aggregazione per lo sviluppo degli insediamenti. I sedimi odierni della ferrovia e dell’autostrada Torino-Piacenza (A21) hanno ripreso il percorso di questa arteria sovraregionale. Le notizie circa la frequentazione romana restano comunque scarse, mentre nel secoli centrali del medioevo è attestata una presenza patrimoniale dei vescovi di Asti. Nell’area esistevano sicuramente forme curtensi d’insediamento sparso, distribuite ai limiti della selva di Cellere, un’estensione boschiva di grandi dimensioni, attestata nell’alto medioevo, che raggiungeva l’altopiano di Poirino e Villanova (Bordone, 1980, p. 104, e Gramaglia, 1980). Una svolta determinante per l’assetto territoriale si registra con la nascita di uno dei più importanti loci novi del comune di Asti, fondato nel 1248 dal capitano Turello Milone a salvaguardia di una zona di confine con le potenze comunali vicine. L’impianto a rigida maglia ortogonale, ben attestato dalla cartografia storica e tuttora conservato nella struttura insediativa del borgo, costituisce un caso studio di grande interesse, che andrebbe valorizzato come bene culturale nella sua portata urbanistica. La documentazione duecentesca testimonia per tutta l’Italia settentrionale la presenza progetti insediativi organizzati, gestiti da tecnici agrimensori al servizio dell’autorità comunale, segno di una matura politica di pianificazione. Il tracciato viario rimane così il segno più eloquente del passato medievale, mentre le strutture abitative e i monumenti religiosi vennero in gran parte ristrutturati in epoca moderna. Un esempio ben conservato di abitazione tardo gotica si osserva nel palazzo collocato tra via Roma e piazzetta Marconi, assegnabile alla seconda metà del Quattrocento, decorato con fasce marcadavanzale e cornici alle monofore in cotto figurato che testimoniano la qualità dell’edilizia residenziale locale. Il borgo era dotato sicuramente di difese, realizzate per garantire la sicurezza della villanova, che vennero però cancellate dalla nuova cinta bastionata. Un capitolo statutario obbligava il podestà di Asti ad assicurare la difesa del borgo e i documenti parlano di un reclusum situato all’interno dell’abitato, come un ridotto fortificato (Settia, 2001, p. 114). In età moderna, con l’avvento delle artiglierie, Villanova venne dotata di un sistema difensivo adeguato alle nuove esigenze militari. La collocazione strategica lungo un’arteria vitale per il collegamento verso la capitale sabauda ha favorito la formazione di una piazzaforte munita di un complesso sistema di bastioni e lunette, ben documentata dalla cartografia militare (Viglino Davico, Bonardi Tomesani, 2001, tav.14). In un disegno di Francesco Orologi (Biblioteca Nazionale di Firenze, cod. Magliabecchiano, XIX, 127) si riconosce con chiarezza il perimetro quadrangolare della città murata duecentesca, contornato dal nuovo sistema di fortificazioni. Le difese di Villanova vennero smantellate durante l’occupazione francese, ma il catasto napoleonico attesta ancora l’andamento del perimetro bastionato, sostituito da strade pubbliche di circonvallazione. Ancora oggi l’assetto difensivo non ha del tutto perduto le sue tracce, percepibili nel tracciato della viabilità, mentre il sistema delle fortificazioni satellitari minori conserva elementi in opera nel territorio, con le torri di Supponito e di San Martino. A conferma della vocazione di strada dell’area, la prevostura di San Giacomo a Corveglia rappresenta un esempio ancora conservato di architettura ospedaliera (Tosco, 2001). Nata verso la metà del XII secolo per iniziativa signorile locale, la prevostura conosce un grande sviluppo nel secolo successivo, intrecciando rapporti solidali con i monasteri cistercensi di Staffarda e Casanova. Quanto oggi rimane dell’età medievale, sostanzialmente un fabbricato a L con la struttura del campanile affiancata, non era che l’elemento dominante di un grande complesso religioso, che doveva includere strutture agricole e residenziali, realizzate in buona parte con l’impiego di materiali deperibili. La mappa del catasto napoleonico di Villanova mostra un’estensione maggiore rispetto al perimetro odierno, testimoniando la presenza di un corpo di fabbrica aggiuntivo, che delineava una planimetria a C. A partire dal Trecento il complesso conoscerà una fase tardiva di fortificazione, nel clima d’instabilità causato dalla crisi del comune astigiano, e tuttora i resti della prevostura sono conosciuti come “Il castello di Corveglia”. Nella manica longitudinale superstite, che segue nella morfologia delle volte costolonate e dei capitelli a crochet i modelli dei cantieri-scuola cistercensi, ritroviamo eccezionalmente conservato il più antico esempio di architettura ospedaliera presente in Piemonte. Nel tardo Medioevo l’incastellamento aveva occupato il territorio pianeggiante in modo più sistematico che in altre aree dell’astigiano. Se Corveglia era legata a poteri ecclesiastici, nell’area vennero fondati altri centri fortificati per iniziativa di poterei laici: erano munite di castelli le località di Solbrito e di San Paolo (Visconti, 1999). Quest’ultimo è ricordato nei documenti come munito di una torre, di un palacio magno, di un castrum vetus e di uno novus. Anche a Valgorrera (situata a 5 km. da Corveglia) è documentata la presenza di un luogo forte, in un dettagliato atto del 1429. La struttura si articolava in un blocco residenziale che presentava notevoli elementi qualitativi, con una camera magna al piano terra, riscaldata da un camino, e strutture di servizio con granaio, stalle, magazzini, forni, il tutto recintato da un fossato. La struttura odierna, ridotta a cascinale, versa in un cattivo stato di conservazione e un programma di recupero restituirebbe al territorio un bene di primario interesse storico. Il patrimonio monumentale di Villanova è segnato dalle emergenze dell’architettura sacra. La chiesa della confraternita della Santissima Annunziata testimonia l’importanza delle associazioni religiose laiche, che conoscono un grande sviluppo tra Sei e Settecento, consentendo la realizzazione di un edificio in grado di mediare nel contesto locale i temi juvarriani affermati dalla grande committenza sabauda. Labili tracce del passato medievale si riscontrano nella parrocchia di San Martino, nata come dipendenza della prevostura di Corveglia, e nella parrocchia di San Pietro in borgata Supponito, riplasmata in forme neogotiche nella seconda metà dell’Ottocento, su progetto di uno dei più attivi allievi dell’Arborio Mella, Giovan Battista Ferrante (Dellapiana, Tosco, 1996). La vitalità della devozione locale si riscontra nella fondazione del santuario della Madonna delle Grazie, consacrato nel 1870 su modelli neorinascimentali che riprendono i temi tardoeclettici in voga nella capitale torinese. Nel corso dell’Ottocento Villanova divenne oggetto d’interesse per i ritrovamenti fossili, segnalati in occasione dei lavori per il tracciamento della linea ferroviaria. La ricchezza del sottosuolo per la storia geologica ha portato all’identificazione da parte dei paleontologi di un “periodo villafranchiano”, collocato cronologicamente tra il pliocene superiore e il pleistocene. La presenza di questi giacimenti fossili, noti a livello internazionale, rappresenta una potenzialità considerevole per lo sviluppo di un turismo culturale sul territorio. Bibliografia Fonti: Antichi cronisti astesi: Ogerio Alfieri, Guglielmo Ventura e Secondino Ventura, presentazione di R. Bordone, Alessandria 1990 Carte astigiane del secolo XIV (1300-1308), a cura di P. Daquino e A.Cotto Meluccio, Asti 1983 Carte astigiane del secolo XIV (seconda serie), a cura di A.Cotto Meluccio e L. Franco, Asti 1992 Carte varie a supplemento e complemento dei volumi [...], a cura di F. Gabotto e altri (BSSS LXXXVI), Pinerolo 1916 Codex Astensis qui de Malabayla communiter nuncupatur, a cura di Q. Sella, in “Atti della Reale Accademia dei Lincei”, ser.II, 1875-76 (nelle citazioni il primo numero indica il documento, seguito dall’anno tra parentesi) Fragmenta de gestis Astensium excerpta ex libro Ogerii Alfierii, in Monumenta Historiae Patriae, V, Scriptorum, t.3, a cura di L. 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Curlo (BSSS LXIII), Pinerolo 1911 Catasti (Archivio di Stato di Torino): A mappe francesi B copia di A C mappe antiche E registri F nuove acquisizioni (registri) G registri francesi H velina Studi: Bordone, R., Città e territorio nell'Alto Medioevo- La società astigiana dal dominio dei Franchi all’affermazione comunale, Torino 1980 Bordone, R., L’"erudito avvocato” De Canis e la sua opera innovatrice. Un contributo del primo Ottocento al progresso degli studi sul medioevo astigiano, in “Bollettino storicobibliografico subalpino”, 74 (1976), pp.239-301 Bordone, R., Lo storico G. S. De Canis e la sua "Descrizione statistica della provincia d'Asti”, Asti 1976 Bordone, R., Proposta per una lettura della corografia astigiana dell’avvocato G. S. De Canis, Asti 1977 Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), a cura di R. Comba, F. Panero e G. 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Sovente la parola paesaggio è intesa solo come immagine percepita del territorio, senza approfondire i caratteri che lo hanno determinato. Molteplici e complessi sono i caratteri del paesaggio, che vanno dallo studio della morfologia, all’uso del suolo, alle reti idrografiche, al sistema della viabilità, a tutti i vari elementi che rappresentano il sistema del verde a scala territoriale, alle reti ecologiche che costituiscono il fondamento della conservazione della naturalità e della dinamica del territorio, riconosciuti nella loro formazione storica e nella loro evoluzione attuale. Indagare tali caratteri, anche in modo non esaustivo in quanto una siffatta indagine richiederebbe indagini complesse, diventa un obiettivo che contribuisce alla individuazione e catalogazione dei beni storico-culturali del territorio comunale, in quanto il paesaggio costituisce non solo il supporto in cui essi si collocano, ma è esso stesso bene storicoculturale. Peraltro tale argomento completa l’analisi dei beni culturali-architettonici del concentrico, estendendola a tutto il territorio comunale in una visione unitaria e certamente più complessa. Il sistema dei fulcri insediativi sparsi, costituito da ville, castelli, torri, fornaci, mulini, ecc. costituisce una rete importante strettamente collegata alla struttura del contesto paesistico, che caratterizza ed esalta la” tipicità” del territorio. Obiettivi Gli obiettivi pertanto di tale indagine sono i seguenti: n riconoscere i fattori costitutivi del paesaggio, secondo uno schema metodologico definito, n aumentare e approfondire la conoscenza del territorio, n evidenziare nuove componenti utili e sovente trascurate del territorio , che “fanno” paesaggio, n promuovere e valorizzare nuovi aspetti del territorio all’interno di un più ampio sistema di beni culturali. Elementi principali che costituiscono il paesaggio nel territorio comunale L’analisi pertanto dei fattori principali che costituiscono il paesaggio concorre a definire i fattori di “tipicità” del territorio comunale, attraverso la individuazione delle varie parti e dei loro caratteri evolutivi. L’intreccio di queste diverse componenti, le differenti relazioni tra di loro, determinano cioè le diverse forme del paesaggio che caratterizzano i diversi ambiti comunali e all’interno dei quali si collocano i beni architettonici e culturali a vario titolo individuati dalla L.35/95 e/o a vario titolo segnalati. Si tratta focalizzare l’attenzione quindi su alcuni elementi che costituiscono dei fattori di riconoscibilità del paesaggio, in quanto ne determinano la sua struttura morfologica e percettiva. I principali elementi individuati, secondo un approccio metodologico che fa riferimento alle procedure di analisi e valutazione dell’Architettura del paesaggio, sono i seguenti: 1. la morfologia del territorio 2. l’uso del suolo 3. la rete della viabilità e dei percorsi 4. la rete idrografica superficiale 5. gli elementi puntuali Confronto con l’IGM di impianto 1881 Per ciascuno di questi elementi , con riferimento ai comuni campione, sono state sviluppate analisi di dettaglio con specifico riferimento alla cartografia IGM 1881 di impianto, scala 1:25.000, che fornisce indicazioni puntuali dei principali caratteri costitutivi del paesaggio a distanza di oltre 120 anni. Già ad una prima sommaria indagine emergono che caratterizzano in modo diverso i differenti ambiti comunali che associati ai caratteri insediativi ben rappresentano la “tipicità” locale. Gli elementi paesistici principali, che ci interessa porre in rilievo, riguardano specifici caratteri geografici e paesaggistici ed una serie di fattori riferiti al sistema del verde territoriale e urbano. Parchi, giardini, aree verdi pubbliche sono infatti un patrimonio culturale e di architettura del paesaggio che occorre documentare e valorizzare. In particolare il confronto tra IGM 1881 e CTR 1991 ha evidenziato una serie di aspetti riferiti al territorio agricolo, che possiamo sintetizzare: • trasformazione del sistema colturale e riduzione, a volte drastica, delle trame arboree, • perdita di caratteri e valori anche puntuali, • perdita di toponimi (identità del territorio) • perdita di reti idrografiche e delle reti irrigue e della loro caratterizzazione naturaliforme (vegetazione riparia, opere di consolidamento di sponde secondo tecniche oggi definite di ingegneria naturalistica), • riduzione dei caratteri della viabilità secondaria con perdita dei tracciati storici, dovuti al loro non utilizzo, alla realizzazione di nuova viabilità, con conseguente riduzione degli apparati arborei di corredo (riduzione della naturalità del territorio e delle strutture a verde). Da ciò si può concludere che la fotografia del territorio al 1881, abbastanza chiara e definita, va considerata come base indispensabile di riferimento per individuare i caratteri storici del paesaggio, che come abbiamo detto appare per molti aspetti trasformato e impoverito, con conseguente perdita di segno e di significato del paesaggio (trascuratezza, assenza di memoria storica, progettualità senza riferimenti.....). Indagare allora le componenti paesistiche sopra individuate significa porsi nell’ottica di ripensare il territorio come “risorsa paesaggistica”, dotato di “valori e potenzialità" che possono essere ricostruite e rigenerate ai fini di un complessivo sviluppo e promozione culturale di un determinato territorio. 1. La morfologia del territorio. I comuni campione, sotto il profilo morfologico, assumono aspetti differenti in base a cui è possibile formulare tipologie caratteristiche (oltre alla loro appartenenza a comunità collinari che hanno una loro specifica caratterizzazione), come ad esempio le seguenti: - struttura collinare con caratteri di omogeneità, - struttura collinare più articolata in differenti elementi morfologici e vallecole, - struttura mista di collina e pianura di fondovalle. L’indagine sulla diversa morfologia del territorio, sulle cause che lo hanno determinato, ecc., non è solo un fatto da studiare sotto il profilo geologico, ma è da considerare nei suoi aspetti di “risorsa”. Nei comuni campione abbiamo cioè rilevato situazioni molto differenti sotto il profilo percettivo (cioè della percezione dello spazio). Tale caratteristica rappresenta un primo elemento di interesse che, in prima battuta, valorizza quegli ambiti dotati di forte visibilità e riconoscibilità. Allora i comuni dotati di una forte visibilità sul territorio circostante, in genere, hanno una condizione di per se privilegiata. Per contro, ciò non significa che comuni di pianura, come comuni collinari con una morfologia più articolata, che però hanno un campo visuale più limitato, abbiano minor valore sotto il profilo della valorizzazione delle risorse. Ovviamente comuni come Albugnano, Cocconato, Villadeati e San Martino Alfieri hanno situazioni di grande apertura visuale: il problema è però quello di capire che cosa si vede (la qualità e la leggibilità del capo visivo) e la presenza di elementi (colture, architetture, ecc.) che arricchiscono la qualità percettiva del paesaggio. Ad esempio San Martino Alfieri gode di una ampia visibilità sul proprio territorio comunale sulle ampie distese di vigneto e sui rilievi collinari che si protendono fino alla piana del Tanaro, elementi morfologici questi, chiaramente percepibili e caratterizzati da insediamenti sparsi lungo la strada di cresta. Albugnano invece domina dall’alto dei suoi 500 m. l’intero paesaggio circostante con ampie visuali sul chierese e la collina Torinese. Le visuali sono molto profonde e lontane definite dallo sky-line della cerchia delle Alpi. Anche lo sviluppo urbano ha seguito e sottolineato questo ampio affaccio e questa esposizione assolutamente favorevole a sud. Anche qui potremmo dire che abbiamo una visione molto ampia , ma di minor dettaglio rispetto a San Martino Alfieri, proprio per i campi visivi molto ampi e lunghi, che consentono di mettere a fuoco poco i dettagli.... Sulla stessa linea si colloca Villadeati, anch’essa collocata sui 450 m, addossata ad est su un versante prevalentemente a bosco; le visuali sono ampie ma prevalentemente orientate a sud ed ovest su ampie distese a vigneto. Diversa è invece la situazione di Tigliole, dove l’insediamento si sviluppa in un territorio collinare più articolato sotto il profilo morfologico, cioè su strade di crinale che seguono i rilievi di modeste dimensioni che perciò offrono visuali più limitate. Tuttavia ne risulta un paesaggio più ricco di struttura percettiva. Diversa ancora è la situazione di Villafranca che si colloca su un lieve pendio collinare, con una larga apertura visuale sulle colline circostanti, che si trovano in secondo piano, in quanto delimitano la grande piana alluvionale di fondovalle, lungo cui corre l’autostrada . Tali argomenti che possono esser approfonditi per verificare più nel dettaglio situazioni di complessità, articolazione, dimensioni, campi visuali e angoli visuali, qualità del paesaggio percepito a seconda dei piano visuali, ecc. . A tal fine sarebbe utile riferirsi a modelli di rilevamento paesistico-percettivo utilizzati nelle pianificazione paesistica del Regno Unito (nota). Abbiamo voluto insistere inoltre sulla segnalazione dei toponimi rilevati nell’IGM 1881 riferiti ai numerosi rii e altrettanto numerose vallecole formati dalla struttura morfologica del territorio comunali, nell’intento di rafforzare la specificità dei caratteri di un determinato comune rispetto ad un altro: cioè la denominazione di una valle determina la sua definizione spaziale, le sue caratteristiche morfologiche, colturali, la sua storia, .... 2. L’uso del suolo Conoscere l’organizzazione e le trasformazioni di uso del suolo del territorio comunale costituisce una altro importante elemento della ricerca della “tipicità” dei luoghi, che qui può che essere riferita alla evoluzione dell’utilizzo del suolo desumibile in prima approssimazione dal confronto tra la cartografia disponibile.. Sono stati considerati le principali categorie colturali che a seconda dei diversi comuni hanno prevalenze diverse: vigneto, bosco, prato-seminativo. Componenti che se erano più facilmente descritte nella cartografia IGM, nella CTR 1991 appare meno definita e fortemente modificata nel rapporto vigneto/bosco che palesemente denuncia uno stato di abbandono che solo negli ultimi anni tende a regredire. La prevalenza di tali assetti colturali determina la riconoscibilità e la caratterizzazione specifica di un paesaggio con relative conseguenze connesse al tipo colturale: maggior interesse alle strutture viticole rispetto alle colture di pianura e boschive. Pertanto riconoscibilità e giudizio di valore, seppur approssimato, condizionano il gradiente di interesse di un determinato assetto colturale sull’osservatore. Per altro verso occorre notare come anche tali valutazioni sono collegate al livello di qualità del paesaggio determinata da due fattori caratteristici quali la diversità e la complessità (non è detto che una monocoltura sia preferibile ad una alternanza di colture, ma dipende dalla cura del paesaggio e delle sue trame vegetali..... ). Da un primo confronto emergono dall’IGM caratterizzazioni precise delle diverse realtà comunali con prevalenza di vigneto, in alcuni casi quasi una monocultura (Montemegno, S. Martino Alfieri, Cocconato,), in altri con alternanza di vigneto con altre colture (Albugnano, Cortazzone, Moncalvo, Settime), in altri casi prevalgono le colture a seminativo e prato tipiche della pianura di fondovalle (struttura del territorio comunale articolata in differenti realtà morfologiche e colturali) (Villafranca, Villanova,), in altre situazioni la presenza di una consistente componente boschiva (Villadeati, Tigliole,..). 3. Sistema idrografico superficiale L’analisi dei diversi sistemi idrografici che caratterizzano le differenti realtà comunali ha un particolare significato. Innanzitutto vogliamo affermare che la trama idrografica costituisce un valore non solo naturale (reti ecologiche....), ma anche un valore culturale (connesso al rapporto che esiste tra acqua e uso del territorio..) che va identificato e conservato. Il valore sta sia nei singoli elementi , ma soprattutto nella ri-costruzione di un sistema idrico che sia riconosciuto in quanto valore paesistico del territorio comunale. Anche qui, nei diversi casi, abbiamo situazioni molto diverse: da impluvi corrispondenti a profonde incisioni nella morfologia collinare, a reticoli che percorrono le numerose vallecole di fondovalle pianeggianti, a sistemi molto articolati in pianura. L’immagine che appare dalla cartografia storica segnala che il reticolo idrografico e quello irriguo, più minuto, è contrassegnato da una continua presenza di vegetazione ripariale: acqua e vegetazione sono realtà compresenti e diffuse, segno di un carattere che a volte si è perso nella attuale struttura del territorio. Le cause sono note: l’acqua era un bene indispensabile per la coltivazione del territorio ed anche la vegetazione riparia aveva una sua funzione ed era oggetto di cura e manutenzione periodica, sia per il consolidamento delle sponde, che per la produzione di legname o di materiale utile per la conduzione dell’azienda agricola (salici capitozzati,.......). La perdita di trama (texture) che oggi il territorio denuncia, la necessità per altro verso della ricostituzione di reti ecologiche e faunistiche, che garantiscano un livello di naturalità del territorio accettabile, porta a ripensare il reticolo idrico attuale, a volte poco leggibile, come parte di un sistema che va conosciuto, salvaguardato e migliorato nel suo insieme, come condizione indispensabile per la conservazione del paesaggio e delle sue caratteristiche di “tipicità”. Abbiamo anche qui riportato i toponimi dei diversi corsi d’acqua (torrenti, rii e canali) per sottolineare l’importanza della memoria storica proprio ai fini della ricostruzione culturale del paesaggio. Si tratta infatti di elementi che arricchiscono la complessità e l’interesse del paesaggio, esaltandone le potenzialità naturali antropiche a fini anche turistici e ricreativi. E con ciò ritorniamo al tema della “cura” del territorio nel suo insieme e soprattutto nei suoi elementi strutturali, sovente per incuria abbandonati o privati della loro componete arborea riparia. 4. Il sistema dei percorsi: la rete viaria principale e secondaria come risorsa e bene culturale. Il sistema storico della viabilità rappresenta un bene culturale ben evidente nella rappresentazione cartografica dell’IGM di impianto 1881. In modo particolare si può mettere in evidenza che la struttura della viabilità secondaria costituiva una rete molto articolata sul territorio, che collegava il sistema insediativo sparso e garantiva l’accessibilità alla coltivazione dei fondi. Ovviamente tale situazione oggi si è modificata e molte strade a carattere secondario sono diventate nuovi assi di collegamento veicolare tra i centri abitati. Ritessere tuttavia le relazioni che collegavano i percorsi con il sistema insediativo, in particolare quello sparso, porta ad una più attenta analisi del disegno storico del territorio nelle sue specifiche caratteristiche. La viabilità principale era connotata da alberate lungo i bordi della strada (oggi strade statali e provinciali) e moltissimi percorsi erano caratterizzati anch’essi dalla presenza di alberi. Ciò faceva sì che la rete di verde del territorio fosse più articolata e complessa e i caratteri ecologici e la stessa forma del paesaggio assumesse una sua specifica identità determinata dai differenti assetti colturali: le zone a seminativo di pianura come le zone a vigneto in collina come pure le zone a bosco soprattutto nei versanti a nord erano riconoscibili attraverso un preciso disegno dei tracciati viari e delle stesse componenti arboree. Oggi ovviamente molte di queste situazioni sono radicalmente cambiate, ma ad esempio rivedere come la struttura della pianura agricola di Villanova fosse così fortemente caratterizzata da componenti arboree lungo i tracciati stradali, lungo gli assi di ingresso a ville e frazioni sparse, lungo tratti di strada e lungo i numerosi corsi d’acqua ci riporta ad una immagine di paesaggio più vario e complesso e quindi ad una situazione che in qualche modo occorre ripensare e riprodurre, seppure in modi nuovi e diversi. L’articolazione di tali percorsi in molte situazioni è andata perduta, per abbandono delle colture, anche quelle boschive (Tigliole, Cocconato, ecc.), e pertanto la percorribilità del territorio come categoria storica e culturale (legata alla lavoro ed alla cultura materiale del territorio) costituiscono un patrimonio che deve ancora essere per molti versi analizzato e riscoperto ai fini di una rivalutazione più ampia e complessa dei beni culturali nel territorio comunale. Peraltro lungo tali percorsi minori si trovano ancora oggi, ed in alcuni comuni sono stati attentamente schedati, piloni, cappelle, luoghi di devozione, bricchi e punti panoramici, che determinano differenti ambiti paesistici a livello comunale e indicano la necessità di una lettura e ricostruzione del paesaggio come sovrapposizione di sistemi (beni architettonici, percorsi, usi del suolo, ecc.). E ‘ altrettanto indubbio che, a seconda delle caratteristiche dei vari comuni la struttura dei percorsi possa assumere maggiore o minore interesse, ma sicuramente l’interesse principale di una rete di percorsi sta nel progettare e collegare valori storici e percettivi del paesaggio. 5. Beni culturali puntuali sparsi nel territorio comunale ed elementi del sistema del verde a scala urbana e a scala territoriale Particolare interesse assumono i beni culturali fuori dal concentrico sia individuati in base alla L. 35/95, sia segnalati in varie sedi (Piano Territoriale, Piano regolatore, ecc.). L’attenzione al sistema di beni culturali e architettonici sparsi, anche di carattere minore, rivela come i territori comunali abbiano al lor interno sistemi culturali ancora molto da studiare e da ricostruire nella loro specificità storica: ad esempio, il patrimonio di cascine a Montemagno, come tutta la rete dei piloni votivi in Albugnano, come pure le numerose chiese e cappelle sparse in Cocconato e San Martino Alfieri o le torri di avvistamento e le chiese sparse nelle frazioni a Villanova. Un altro elemento significativo, da indagare, sono i cimiteri laddove le trasformazioni recenti non abbiano eliminato le tracce e memorie storiche preesistenti. Così alcuni cimiteri conservano antiche cappelle romaniche (Albugnano, Moncalvo, Settime, ecc.), mentre a Cocconato sono state censite numerose edicole funerarie che costituiscono un patrimonio di architettura da rileggere e rivalutare. Una nota importante è rappresentato dall’antico cimitero ebraico di Moncalvo, su un lembo di crinale fuori dal concentrico che rivela una sua interessante struttura e una memoria storica da ricostruire. La presenza dei molini è molto evidente nella cartografia IGM di impianto ed in parte si è conservata fino ad oggi: numerosi infatti sono i comuni per i quali è stata indicata la presenza di un molino ad eccezione di Cortazzone, Settime, Villadeati e Cocconato. Sovente però si tratta di strutture residuali già in parte trasformate avendo perduto la loro funzione originaria. Altrettanto si può dire delle vecchie fornaci che appaiono ancora conservate in taluni casi, mentre in altre sono andate distrutte. Ma altro tema interessante è costituito dalla individuazione degli elementi storici di verde presenti nel tessuto comunale: parchi di castelli (Cortazzone, Villadeati, Settime, San martino Alfieri, giardini di ville (ad esempio Villa Sesia a Tigliole, e diversi giardini che si potevano notare sulla cartografia IGM 1881 ed oggi sono scomparsi, ad esempio a Villanova il parco del castello Verminier e del palazzo Ciochero e villa Gianotti a Villafranca), parchi o giardini pubblici comunali , ad es. il parco Borsarelli sul retro del castello a Settime, l’area adibita a parco comunale, interno alla proprietà del castello a San Martino Alfieri, parchi della Rimembranza (Tigliole e Albugnano), viali alberati, percorsi lungo le mura che affacciano sul paesaggio (Moncalvo, Montemagno), gli spazi a verde dei cimiteri, le aree di pertinenza delle cappelle sparse, ad esempio la chiesa di San Secondo a Cortazzone, la Madonna di Volpilio a Villafranca, a volte anche realtà minute che comunque hanno una connotazione storica precisa, costituendo riferimenti importanti nella caratterizzazione culturale e storica del paesaggio. Da tutto ciò deriva una notevole quantità di linee di indagine ed un patrimonio culturale ampio e diffuso, che deve essere indagato e approfondito e che può essere valorizzato connettendo, nell’ottica di sistema, le varie risorse culturali del paesaggio e del territorio. Schede per i comuni campione 1. Albugnano (h. 525 m. ) n Morfologia Il territorio comunale ha una posizione dominante a 360° degradante verso Castelnuovo Don Bosco a sud ed il concentrico si colloca sul rilievo più alto delle colline da cui si può godere un affaccio con campi visivi molto ampi delimitati dallo sky -line delle montagne. La parte del territorio comunale a nord del concentrico, più interna al sistema collinare presenta versanti più ripidi che degradano verso Berzano e Aramengo. n Uso del suolo Al 1880 il territorio comunale aveva una forte presenza di colture a vignato sui pendii dei versanti collinari esposti in prevalenza a sud, ad est e ad ovest. Insieme presentava ripidi versanti prevalentemente a nord boscati, poche erano le aree a seminativo o prato. Ad oggi invece si può riscontrare una forte riduzione del vigneto che è stato sostituito in parte da bosco e da aree a prato. (cfr. C. Buffa/M.Maffioli “Il paesaggio come risorsa agrituristica”, Torino, EDA 1981). Il vigneto si colloca nelle parti medio alte dei rilievi, mente lungo gli impluvi molto incisi che hanno direzione da nord a sud, risulta una forte presenza di vegetazione boschiva. Ad oggi è aumentata la superficie a bosco a scapito sia del vigneto che del seminativo. Sotto il profilo paesaggistico si rilevava che la zona di maggior interesse paesistico fosse la parte sud e ovest del territorio comunale rispetto alla parte nord-est meno caratterizzata. n Sistema idrografico Il sistema idrografico è rappresentato da una serie di rii che hanno andamento da nord a sud: la parte alta del rio di Nevissano, in cui confluiscono alcuni rii minori e che più a valle confluisce nei rio di Bardella, sul confine ovest del territorio comunale, il rio che scorre lungo Mondonio, e il rio che scorre in una profonda incisione vicino a Shierano. La rete di impluvi del versante nord ed est scarica sul rio della Rocca vecchia, poi rio Freddo che scorre vicino a Primeglio. I reticoli idrografici denunciano la presenza di vegetazione riparia continua lungo il loro tracciato. La piccola valle del rio Nevissano costituisce una struttura paesistica particolarmente interesse per la sua strutturazione spaziale e percettiva. n Sistema della viabilità Il sistema della viabilità è molto articolato e confluisce su Albugnano dai diversi comuni limitrofi (Castelnuovo, Berzano, Pino, Primeglio, Aramengo) determinando una struttura radiocentrica. Inoltre esiste una fitta rete di viabilità minore a servizio delle numerose frazioni circostanti, anche dei comuni limitrofi. Le strade, molto panoramiche, sono prevalentemente su crinale, seguendo l’andamento dei vari rilievi degradanti a sud, mentre quelle a nord scendono su Berzano e Aramengo con situazioni meno favorevoli dal punto della strutturazione visuale del paesaggio. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 è evidente la presenza di vegetazione riparia lungo i rii, che ancora oggi in buona parte esiste e che occorre consolidare. Non emergono particolari strutture a verde, ciò dovuto anche al fatto che il territorio presenta una forte strutturazione paesaggistica. Elementi puntuali, censiti ai sensi della L.35/95 fuori dal concentrico sono rappresentati da una serie di piloni votivi, che solo in parte risultano nella cartografia storica, ad esempio una cappella o pilone di S. Gottardo non è più menzionato, mentre sono menzionate la cappella di S. Antonio e la cappella di Sant’Emiliano. Segnalato è invece il Molino di Riofreddo con vicino la Sorgente sulfurea al confine con Aramengo, oltre ovviamente l’attenzione alla sistemazione dell’area di pertinenza della Madonna di Vezzolano. 2. Cocconato (h. 480 m slm) n Morfologia Il territorio comunale a nord dal torrente Stura, a ovest dal rio Fabiasco, che più a sud prosegue nel rio Mainia. Il concentrico si colloca in una posizione dominante e panoramica che culmina con la Torre...... . Un riferimento preciso nella struttura percettiva. A nord scorre, con una profonda incisione, il torrente Versa che nasce dalla frazione Marvero (bric Marvero 465 m slm), con pendii molto scoscesi, e che divide il territoro comunale in due parti: il rilievo che ha come punto più elevato l’abitato di Cocconato e una dorsale compresa tra il Versa e lo Stura, con andamento da ovest a est, che poi degrada lentamente su Montiglio. Ampia struttura visuale e affaccio privilegiato verso sud, verso Marmorito, Primeglio, Passerano, Cerreto, Piovà e Montiglio., carattere segnato anche dall’andamento della viabilità principale. Nel territorio sono presenti alcuni bric quali bric Cappellone (401 m), bric Maroero (489 m) nord-ovest, bric Serra (403) nord-est. n Uso del suolo Al 1880 l’uso del suolo è abbastanza chiaramente definito e strutturato, dove il vigneto rappresenta la coltura prevalente ampia diffusa. Nel versante sud, meglio esposto, attorno al concentrico prevale la coltura a vigneto, come pure sul versante in sponda sinistra del torrente Versa. Mentre il versante a nord è a bosco come pure il versante in sponda destra dello Stura. Ad una prima verifica con la carta CTR 1991 si può constatare la riduzione della componente a vigneto sostituita da aree a bosco sia in sponda sinistra del versa che anche sulle pendici collinari a sud. n Sistema idrografico Già descritto in relazione all’assetto morfologico. La struttura della valle versa costituisce un altro elemento paesistico importante fortemente caratterizzato sotto il profilo della vegetazione riparia che accompagna il tracciato del torrente e degli altri corsi d’acqua presenti nel territorio comunale.anche dalla piana di fondovalle. n Sistema della viabilità Il reticolo viario risulta più sviluppato e ramificato nella parte sud, dove si collocano in prevalenza numerose frazioni (Tabiella, Vastapaglia, Gesso, Bauchieri). I collegamenti principali sono con la ss 458 di Casalborgone, che segna il confine ovest del territorio comunale, poi con Piovà e Montiglio. A nord il collegamento principale con Tonengo. La struttura storica della viabilità minore è legata alle vicende colturali e si colloca sia lungo crinali, che coste, che impluvi. In particolare sul versante nord era presente un lungo asse viario che seguiva la linea di cresta dalla frazione Maroero alla frazione Tuffo. Oggi questo risulta interrotto a Cascina S. Giovanni, mentre l’accesso a Tuffo avviene dalla ss 457 (statale di Moncalvo). Altre parti del reticolo storico minore sono scomparse o conservano solo deboli tracce che vanno scomparendo., ma che opportunamente recuperate potrebbero costituire un potenziale reticolo pedonale e/ciclabile. n Elementi puntuali e sistema del verde La viabilità principale lungo la statale si caratterizzava con filari alberati oggi scomparsi. Gli edifici censiti ai sensi della L 35/95 fuori dal concentrico riguardano diverse chiese e cappelle oltre una serie di numerosi piloni votivi distribuiti lungo il reticolo viario del territorio comunale. Oltre un particolare interesse rilevato nelle strutture ferroviarie sono state individuate numerose edicole funerarie nel cimitero come pure numerose case, palazzi e cascine di valore storico. Non compaiono invece i molini che risultano dall’1880 Molino del Rocco, sotto il bricco Cappellone e Molino Rocco, sul confine nord. 3. Cortazzone (h. 280 m.) n Morfologia Il territorio comunale di Cortazzone è diviso in due parti principali dalla valle di Cortazzone lungo la quale scorre l’omonimo rio. Nella parte nord la valle si dirama in piccole vallecole in cui scorrono diversi rii, tra cui rio di Valpiana, rio Vaglina e rio Val di Soglio che confluiscono nel Cortazzone. La valle di Cortazzone risulta pertanto articolata in diverse parti e fortemente caratterizzata dalla presenza del rio Cortazzone, che ha un andamento rettilineo da nord a sud ed segnato dalla presenza di vegetazione riparia lungo le sue sponde e da strade alberate che lo costeggiano. Sulla piana di fondovalle si affacciano a est le pendici molto articolate dei rilievi collinari su cui si trova il concentrico con il castello, mentre la parte del territorio comunale collinare ad ovest è delimitata dal torrente Triversa. Si tratta pertanto di un paesaggio vario in cui il rapporto piano/colle presenta un forte carattere di riconoscibilità. La parte ovest del territorio comunale risulta morfologicamente più complessa anche per la presenza di numerosi nuclei insediativi sparsi. n Uso del suolo Al 1880 le colture a vigneto si collocano in parte sulle pendici collinari lungo la valle di Cortazzone alternate con aree a bosco, mentre tale coltura appare più sviluppata nella zona ovest. A oggi prevalgono le aree a bosco che hanno sostituito molta parte del vigneto originario che si estendevano a caratterizzare elementi morfologici significativi (Mongiglietto e Bricarello ad esempio risultavano completamente a vigneto….) n Sistema idrografico Come abbiamo detto l’asse principale del sistema idrografico è rappresentato dal rio Cortazzone e da alcuni rii che scendono dalle colline. A ovest il rio Musello ed il rio Titala che confluiscono più a valle formando la valle di Maretta che giunge fino a Monale incontrandosi con la valle di Cortazzone. n Sistema della viabilità La struttura dei percorsi è assai articolata: nella parte ovest le diverse frazioni (Bricarello, Valmezzana) sono collegate da una strada che segue la linea di cresta dei rilievi collinari(in particolare la dorsale da Casina del lupo a Bricarello verso Roatto) con numerosi collegamenti trasversali minori che si innestano sulle strade di fondovalle. Altrettanto, ma con dimensioni più ridotte, nella parte est dove la viabilità principale collega Montafia con Soglio passando dal concentrico, mentre le case sparse sulle colline più a sud sono collegate da una strada in quota, tra i bricchi, anch’essa con collegamenti alla viabilità di pianura. Si ha pertanto una rete diffusa di viabilità minore di particolare interesse proprio perché si trova prevalentemente in quota offrendo viste panoramiche tra un versante e l’altro. n Elementi puntuali e sistema del verde Fuori dal concentrico sono stati individuati pochi elementi architettonici: due cascine e la chiesa di san Secondo a Mongiglietto. Al 1880 risultavano presenti la cappella di S. Antonio, la cappella di san Giacomo e la cappella di Madonna della Valle Altri elementi da verificare sono il giardino del castello, il cimitero. 4. Moncalvo (h. 305 m.) n Morfologia Il territorio comunale è sostanzialmente diviso in due parti dalla valle San Giovanni entro cui scorre il rio Menga che poi diventa rio Colobrioche si trova a nord-est del concentrico. Il concentrico è situato sulla parte più alta del rilievo collinare con ampio affaccio sul paesaggio circostante con direzione dominante sud/sud-ovest. Posizione dominate con campi visuali liberi. La struttura del paesaggio al 1880 è formata da una serie di piccoli rilevi a vigneto alternati a fondovalle a prato umido, per cui il rapporto piano/colle è più riconoscibile sotto l’aspetto visuale e percettivo. Numerose infatti le emergenze, anche se di modesta entità: bric Mongrande, bric Cappuccini, bric San Bernardino. n Uso del suolo Ampie zone a vigneto diffuso sull’intero territorio comunale alternate a zone prative e /o seminativo, salvo che nella parte nord retrostante al concentrico,a seminativo. Non risulta chiaro l’attuale assetto colturale perché dalla CTR 1991 appare una forte riduzione delle colture a vigneto sostituito da prato/seminativo o aree a bosco (?). n Sistema idrografico Il sistema idrico non ha particolare rilevanza strutturale ad eccezione del rio Bizara sul confine ovest ed il rio Menga sul confine nord (che raduna numerosi impluvi in sponda sinistra), entrambi collocati in ampi fondovalle, lungo i quali si snoda la ferrovia per Casale. I rii risultano al 1880 avere una evidente componente arborea lungo le sponde n Sistema della viabilità Reticolo viario piuttosto sviluppato che ha come centro il concentrico su cui confluiscono i principali assi viari dalle 4 direzioni cardinali: da casale, da grazzano B., da penango, da Alfiano Natta. Il reticolo si dirama sull’intero territorio collegando i vari nuclei e case sparse secondo due assi minori: l’asse Penango/San Bernardino, lungo il quale la cappella di S. Pietro è un nodo focale, e l’asse nord/sud dal cimitero degli Ebrei alla cascina Minoglio. La rete minore della viabilità risulta pertanto assai diffusa e articolata con ampia possibilità di riutilizzo di tracciati storici a scala sia intercomunale che locale. n Elementi puntuali e sistema del verde I beni architettonici vincolati, censiti in base alla L. 35/95 e segnalati del comune Moncalvo fuori dal concentrico sono numerosi e individuano un patrimonio assai importante e diffuso. Si tratta di oltre trenta edifici di varai tipologia da palazzo, a cascina, a villa a cappella, a cimitero ebraico, a pieve , a filanda, a stazione ferroviaria, a peso pubblico, all’ex distilleria, a fabbricati rurali, ecc. . Elementi con caratteristiche molto disomogenee tra di loro che descrivono un territorio ricco di tracce e valori da conservare in un sistema paesaggistico qualificato. A questi occorre aggiungere elementi di carattere paesaggistico quali la Passeggiata lungo le mura lato sud del concentrico, ed elementi desunti dall’IGM di impianto, quali: la ricostituzione di viali alberati lungo le strade di accesso fondovalle, lo studio sul valore storico e architettonico del cimitero e di talune sue cappelle, il Molino di Moncalvo lungo Rio Menga. Inoltre occorre verificare puntualmente l’inetersse storico, architettonico e paesaggistico dei grandi cascinali collocati, ad esempio, sulla sommità di ampi rilievi collinari. 5. Montemagno (h. 259 m.) n Morfologia Il territorio comunale ha una forma molto allungata che si sviluppa da nord a sud ed è delimitato da corsi d’acqua che scorrono nelle omonime valli: a ovest rio Gaminello e ad est dalla valle del Rio che a monte si dirama in tre vallecole (valle San Giovanni, valle Rovere, poi Zavignano, e la valle di Pratolungo). A nord è delimitato dall’ampia valle in cui scorre il canale del Molino. Nella valle del rio Gaminella confluiscono, scendendo dalle pendici su cui si colloca il concentrico e il castello una serie di impluvi: la valle di Montalbero, il rio Ortello, la valle di Robiagno, Pratolungo, il rio Ciborio. Il territorio si può suddividere in due zone che presentano morfologia diversa: la zona più a nord, dove si colloca il concentrico, è caratterizzata da elementi morfologici facilmente riconoscibili, che esso si diramano seguendo l’andamento delle diverse vallecole; la zona a sud presenta invece una morfologia collinare più articolata e movimentata. n Uso del suolo Al 1880 l’intero territorio comunale risulta quasi completamente coperto da colture a vigneto, salvo i fondovalle a prato e seminativo; rari sono le aree a bosco. A oggi invece buona parte delle colture viticole sono state abbandonate e sostituite da aree a bosco naturale, ad esempio intorno a san Vittore, lungo i versanti di Pratolungo, bric Montiglio, la zona centrale ed i versanti che affacciano sulla valle del rio Gaminella. n Sistema idrografico Il sistema idrografico costituisce una struttura importante a livello comunale per la sua estensione e per la presenza dei numerosi rii che definiscono la caratteristica morfologia del territorio comunale. Buona parte dei fondovalle in cui scorrono i rii sono costituite da aree umide e a prato, e lungo i corsi d’acqua si rileva una diffusa presenza di vegetazione ripariale. n Sistema della viabilità Al 1880 si può vedere che la viabilità, che segue la struttura morfologica del territorio, disegna una rete molto fitta e intricata di viabilità minore che consente una diffusa accessibilità all’intero territori. Lungo i fondovalle si sviluppa una rete di percorsi che si collega con dei raccordi trasversali ai percorsi che seguono i crinali delle colline, dotati quindi di forte caratteristiche panoramicità e di intervisibilità. La viabilità principale collega il concentrico con Grana ad nord, con Castagnole ad ovest e con Viarigi e Altavilla ad est. La struttura viaria oggi ha subito ovviamente come in tutti i casi analizzati ampie trasformazioni, risulta comunque interessante l’asse nord-sud che collega San Vittore fino verso la frazione di Vespollaro e verso il comune di Refrancore, un percorso che si snoda lungo le colline che offre una chiara leggibilità della struttura paesaggistica del territorio. Molti altri percorsi minori meritano uno studio accurato al fine di un possibile recupero secondo circuiti turistici che colleghino i beni culturali e ambientali dell’intero territorio. n Elementi puntuali e sistema del verde Su Montemagno sono state condotte in modo approfondito le indagini di cui alla L.35/95 e in particolare, fuori dal concentrico sono state individuate alcune cascine, case padronali e palazzi. Oltre a ciò occorrerà tenere conto anche delle indicazioni che emergono dalle indagini puntuali sulla cartografia storica IGM. In tal senso si mettono in evidenza i seguenti elementi: il cimitero, le alberate a scala urbana e quelle lungo i tracciati viari, il percorso panoramico lungo le mura del castello, il giardino del castello ed una serie di cappelle e di edifici sparsi: la Madonna di Vallino, il molino di Montemagno lungo il canale del Molino, la fornace, cappelle o piloni nelle principali frazioni (S. Stefano, San Carlo, ecc.) o sparse nel territorio lungo i percorsi, e le aree di pertinenza dei vari edifici individuati, ecc. (ad es. le cave di gesso). 6. San Martino Alfieri (h. 270 m.) n Morfologia Il territorio comunale occupa la parte sommitale di un grande versante che costeggia l’asse della Valle del Tanaro in sponda sinistra, con direzione da nord a sud, e dal quale si dipartono tre rami collinari intervallati da vallecole che ad est confluiscono nella grande piana alluvionale sottostante: Valle Scalusca (direzione est), Valle Parello (direzione est), Valle Casarito (direzione ovest). Piccoli elementi morfologici di differente dimensione e forma segnate da una precisa linea di viabilità di crinale. Il concentrico si colloca in posizione dominante strettamente collegato al complesso monumentale del castello e del parco storico, una struttura paesaggistica, identificabile come costante, che prosegue a sud lungo tutto il versante collinare con i cartelli di Govone, Magliano Alfieri, Guarene, consentendo un ampio affaccio sulle colline circostanti e prospicienti. Ne risulta un effetto di forte riconoscibilità della struttura del paesaggio,contrassegnato da una sequenza di fuochi visuali e insieme dalla omogeneità delle colture a vigneto. La parte invece di territorio comunale che volge ad ovest denota un carattere meno strutturato. Alcuni “bric” collocati nella parte sud del territorio comunale costituiscono delle emergenze di riferimento: dall’IGM 1880 Bric Riondino (234 m.), Bric S. Giorgio (244 m.), Bric s. Severo (274 m.). n Uso del suolo La coltura prevalente è il vigneto che si dispone sui rilievi collinari evidenziandone la struttura morfologica; nelle vallecole di fondo valle predominano prati umidi e seminativi, mentre la superficie a bosco è quasi nulla, essendo limitata ad alcuni versanti nord più scoscesi. n Sistema idrografico Il sistema idrografico è rappresentato dal Torrente Tanaro, che scorre sul confine est del comune, e dal sistema dei rii lungo le vallecole: Valle di Solda al confine nord, Valle Scalusca, Valle Porella. Ad ovest il territorio comunale è delimitato dalla Valle Casarito (al confine col comune di Govone) che confluisce più a nord nella Valle del Rio Cravina, il quale a sua volta confluisce nella Val Borbore n Sistema della viabilità Esiste un ben delineato reticolo di viabilità veicolare che converge, secondo una struttura radiocentrica sul castello risalendo lungo le pendici collinari. I percorsi minori a carattere rurale, che collegano i numerosi nuclei sparsi, presentano un andamento prevalentemente di crinale, denotando un assetto strutturato particolarmente interessante, che potrebbe essere valorizzato sotto vari aspetti: visuale, produttivo, storico-culturale, ecc.. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 si riscontrano alcuni elementi significativi il Porto di San Martino, il Molino di San Martino, al fondo della Valle Scalusca, la Fontana Cucia (?), la fornace, oltre ovviamente il castello con relativi annessi ed il parco realizzato nell’’800 su disegno di Xavier Kurten, che è organizzato secondo un asse visuale che ha come fuoco il castello di Govone. È presente una serie di cappelle sparse, prevalentemente collocate nelle numerose frazioni in cui si articola la struttura insediativa del comune: San Giovanni, San Giorgio, San Carlo, San Sebastiano. Altri elementi puntuali del verde sono: un tratto alberato lungo la strada di accesso dalla pianura del Tanaro, un’area a verde comunale, costituita da un lembo del grande parco del castello (forse solo in uso?). Sette frazioni sparse nel territorio comunale e prevalentemente collocate lungo i percorsi di crinale con relative cappelle: Morelli, Firano, Rollini, Casa, Saracchi, Quaglia, Fagnani oltre a numerosi elementi sparsi da rilevare, in particolare la cappella seicentesca dell’Assunta, ad esempio, collocata lungo un percorso di cresta e sulla sommità di un rilievo in prossimità della frazione. Occorrerebbe inoltre una verifica puntuale sulle cascine sparse di cui alcune di impianto otto-novecentesco. 7. Settime ( h. 275 m.) n Morfologia La maggior parte del territorio comunale è delimitato a ovest dalla Valle Incassata Grande e a est dalla Valle di San Michele in cui confluisce la Valle del Trombone, caratterizzata, rispetto alla Valle Incassata da un ampio fondovalle con colture a prato arborato e seminativo, come si può vedere dalla carta IGM di impianto. Il concentrico, che si sviluppa lungo un crinale ed è collocato nella parte collinare più alta, in posizione centrale rispetto al territorio comunale, è caratterizzato da una forte riconoscibilità ed una chiara identità, più evidente soprattutto nella parte sud-est che degrada sulla valle di San Michele, esaltando le visuali sul castello. Scarse sono le cascine sparse. n Uso del suolo La maggior parte del territorio comunale risultava al 1880 quasi completamente coltivato a vigneto, mentre un lembo di territorio sotto Montegrosso a sud-ovest, oltre la Valle Incassata Grande era completamente ricoperta di bosco. Un altro piccolo lembo a nord est, sotto Chiusano d’Asti risultava anch’esso a vigneto. Un’ampia zona a prato seminativo si trova nella parte sud-est del comune, circostante la cascina Laione. Attualmente, ad un primo confronto, si può constatare una forte trasformazione del paesaggio colturale dovuto all’abbandono di aree a vigneto e la loro sostituzione con aree a bosco, soprattutto lungo il versante est del Rio Margherita e lungo il versante est del Rio della Valle Incassata Grande. n Sistema idrografico Esso è rappresentato da due assi principali con direzione nord-sud rappresentati a est dal Rio Margherita in cui confluisce il rio Trombone e a ovest dal Rio della Valle Incassata Grande in cui confluiscono la piccola Valle Incurone, che a sud prosegue lungo la Valle Valdondona. Lungo i corsi d’acqua, nella cartografia IGM è segnata la presenza di vegetazione riparia, mentre nelle parti vallive è evidente la presenza di prato arborato e di seminativo. n Sistema della viabilità La rete dei percorsi è molto ramificata e diffusa con facilità di collegamento tra la pianura di fondovalle e il concentrico. La dorsale principale lungo il crinale collega Settime a Cinaglio, a nord, e a Serravalle e Sessant, a sud. I percorsi minori, che salgono sulle varie dorsali a vigneto fino al concentrico, seguono prevalentemente il crinale, offrendo una buona visibilità sul territorio circostante. Anche la zona dei boschi conserva una viabilità di crinale, in stretto collegamento con i percorsi che portano al concentrico. n Elementi puntuali e sistema del verde Dall’IGM si possono rilevare i seguenti elementi puntuali: il viale alberato nella pianura ad est di accesso al concentrico, la fornace, in prossimità della cascina Laione, e una serie di cappelle: S. Anna, San Rocco, San Carlo. Il cimitero si colloca in prossimità della Cascina del Parroco su una zona di culmine. È presente il parco Borsarelli, con funzione di parco pubblico comunale sul retro del Castello. Gli edifici vincolati e censiti dalla L. 35 riguardano esclusivamente il concentrico. 8. Tigliole (h. 234 m.) n Morfologia La morfologia del territorio comunale di Tigliole ha come nodo di riferimento il Bric Berta (284 m.), da cui si diramano una serie di rilievi collinari lineari, con andamento da ovest ad est, degradanti sulla ampia Valle Triversa, e separati da una serie di vallecole: Valle Pertusa in cui confluisce la Valle Giardino, Rio Pianezza, il Rio della Valle Pradone e a sud la Valle Rossanino. Numerosi i Bric: Bric Nocetto (217 m.) , Bric n Uso del suolo L’apparato colturale è chiaramente definito al 1880: nella parte più alta ed ad ovest del territorio comunale i versanti nord sono a bosco, mentre i versanti sud sono a vigneto. Nella parte centrale c’è anche una forte presenza di vigneto insieme ampie distese a prato arborato nella parte più pianeggiante. La valle del Triversa, al confine est del territorio comunale, presentava un’ampia distesa a prato umido. Il territorio è caratterizzato da una forte articolazione e leggibilità proprio per una forte intervisibilità tra i diversi crinali collinari. La situazione attuale presenta in modo evidente una forte trasformazione delle colture a vigneto con incremento delle aree a bosco spontaneo. n Sistema idrografico Il sistema idrografico, abbastanza complesso e articolato, è costituito principalmente dal Torrente Triversa che segna il confine nord ed est del territorio comunale e dagli affluenti in sponda destra che provengono dalle numerose incisioni del territorio comunale. Ad ovest il Rio Grande segna il confine del comune e sfocia nel Torrente Triversa. Nella valle è presente il Canale dei Molini, con vegetazione arborea lungo le sponde. n Sistema della viabilità Seguendo l’andamento morfologico del territorio, la viabilità si colloca in modo prevalente lungo le linee di crinale, secondo un andamento che va da ovest verso est e collega tutti i numerosi insediamenti sparsi lungo le dorsali collinari: Nocetto, San Carlo, Resazza, Valperosa, Gallo, Casabianca, Remondini, Malaterra, Poccola, Gherbino, Mayen, Pratomorone, Pianetti, Perosini e Calvino. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 si può sottolineare la presenza dei seguenti elementi: il Molino di Tigliole, oggi ancora presente anche se non ha più la funzione originaria, il Molino di Mezzo entrambi lungo il canale dei Molini, la Fornace, sopra la frazione Malaterra, alcuni tratti di strade alberate lungo il Triversa. Numerose sono le cappelle presenti in quasi tutte le frazioni che occorrerebbe verificare e censire, cosa che non si evince dalle schedature della L. 35/95, che riserva una prevalente attenzione ad una serie di ville e di “masserie” tra cui Villa Sesia, ed al muro di contenimento del parco della Rimembranza, senza citare lo stesso parco. Anche il cimitero dovrebbe essere inserito nell’elenco dei beni culturali da verificare e censire. 9. Villadeati (h. 412 m. ) n Morfologia Il territorio comunale è costituito da una zona collinare assai elevata localizzata nella parte nord est del territorio, al confine con la Serra di Odalengo Piccolo, che degrada con andamento nord-sud, articolandosi in una serie di propaggini collinari morfologicamente ben definite, intervallate da alcune vallecole: il Pian del Pozzo sul confine ovest; la Valle Olivera in cui scorre il Rio Guardia e la Valle Zurella sul confine est. Tali vallecole confluiscono a sud nella Valle Versa. A nord è delimitato dalla valle del Torrente Stura, poi Valle Cerrina. Dall’alto del concentrico si ha una ampia vista a 180°completamente libera sul territorio circostante a sud . n Uso del suolo Al 1880 l’uso del suolo era chiaramente determinato dalla presenza del vigneto che si disponeva con omogeneità sui versanti est ed ovest delle diverse propaggini collinari, mentre la zona collinare più alta e più scoscesa presentava diffusa vegetazione a bosco, in particolare intorno al Bric Eribecco (438 m.), al Bric San Lorenzo (466 m.) e al Bric Nambria (446 m.). Lungo i fondovalle si trovavano aree a prato umido ed eventuali colture a seminativo. Oggi si nota una riduzione sensibile delle aree a vigneto ed una presenza nei fondovalle di aree a pioppeto. n Sistema idrografico Come abbiamo detto, il sistema idrografico è collegato al sistema di valli che sono presenti nel territorio comunale e che scaricano nel Torrente Versa a sud, tranne il Rio Zappi, che nella zona nord scarica nel Torrente Stura. Lungo il confine ovest si trova il Rio Tareto in cui confluisce il Rio Vai, più a monte è denominato rio Canetta, poi il Rio Guardia e più a est il Rio Zurella. I rii sono contrassegnati dalla presenza di vegetazione ripariale continua lungo il loro corso. Oggi alcuni di questi rii hanno perduto in gran parte la vegetazione spontanea che li contraddistingueva invece in modo evidente nella cartografia di impianto. È un sistema che comunque va salvaguardato e riproposto come componente naturale strutturale. n Sistema della viabilità Il territorio comunale è segnato da una rete diffusa e interessante di viabilità con un asse principale nord-sud che collega la valle della Stura, attraverso il concentrico e Zanco , con la Valle Versa. Le strade, diramate su tutto il territorio comunale, sono prevalentemente di crinale lungo le dorsali collinari, ma anche lungo i fondovalle e con numerosi raccordi trasversali che collegano in modo diretto le numerose frazioni del comune: Lussello, Tritanco, Cardona, Matti, Quarta, Zanco, Pavo e Vadarengo, collegato al Truc omonimo (232 m.). Al 1991 l’assetto della viabilità principale disegna un grande cerchio che riunisce le varie frazioni sparse nel territorio comunale. La chiarezza del disegno originario della viabilità è stato in parte modificato dalla viabilità veicolare, tuttavia rimane ancora evidente il tracciato della viabilità minore, che potrà essere recuperata secondo un progetto di itinerari turistici. n Elementi puntuali e sistema del verde Al 1880 si riscontrano alcuni elementi che occorre indagare e documentare: i molini, quali il Molino Zurella, il Molino Albarella e il Molino Nuovo, la Fonte sulfurea, la cappella di S. Spirito (421 m.), la cappella di S. Rocco, oltre numerose cappelle o piloni da ricercarsi nella frazioni del comune ed il cimitero. E’ da segnalare Villa Marietta. Il Truc Vadarengo come quello vicino alla frazione Pavo costituiscono dei punti di vista privilegiati di affaccio sulle colline circostanti di Rinco, Tonco e sulla Valle Versa. Va inoltre sottolineata la presenza del castello ed del grande parco circostante. Per il territorio comunale non è stato ancora avviato il censimento ai sensi della L. 35 e pertanto gli edifici segnalati fuori dal concentrico riguardano solo alcune chiese nella frazione di Lussello e di Zanco. 10. Villafranca (h. 206 m.) n Morfologia Il territorio del comune è attraversato da ovest a est da una ampia piana in cui confluiscono nel Torrente Triversa il Rio Stanavasso, il Torrente Traversola e il Rio Capitolo (che proviene dal comune di Valfenera) e nella parte più a sud il Rio Maggiore. Il territorio risulta molto vario e la parte pianeggiante costituisce quasi il 50% dell’intera superficie comunale. La parte collinare, che si affaccia sulla piana, è composta da tre principali elementi: a nord un rilievo collinare unitario e morfologicamente definito su cui domina la cappella della Madonna di Volpilio (247 m.), a est una parte più estesa che segue e degrada lungo la sponda sinistra del Torrente Triversa, a ovest una terza parte, di modeste dimensioni, alla confluenza tra il Triversa e il Rio Maggiore, su cui si colloca il concentrico. Sono tre ambiti con caratteri differenti in stretta relazione visuale, mediata dalla grande piana di fondovalle. n Uso del suolo Al 1880 nella piana sono presenti colture a prato e a prato umido. Sulle pendici collinari la presenza di vigneto, tranne che intorno al concentrico, è alternata a zone a bosco, che sembrano prevalere rispetto alla coltura viticola: la collina di S. Antonio rivela una alternanza di vigneto e di bosco, nella collina di S. Grato solo le zone meglio esposte e meno ripide sono a vigneto, le zone retrostanti, sono a bosco con versanti abbastanza incisi e ripidi. Nella grande piana alluvionale risultava evidente la prevalenza di prati umidi oltre ad aree a seminativo arborato. A oggi ampi lembi di vigneto sono stati sostituito da bosco o da zone a prato o seminativo, in particolare risulta sicuramente modificato il profilo della collina di S. Antonio, come pure molte aree circostanti al concentrico. n Sistema idrografico Come abbiamo già detto il sistema idrografico assume nel comune di Villafranca una notevole importanza come nodo di confluenza e di scorrimento di numerosi torrenti e rii.. La piana al 1880 era caratterizzata dal segno dei diversi corsi d’acqua lungo i quali era evidente la presenza di vegetazione ripariale. n Sistema della viabilità Al 1880 le diverse parti del territorio collinare erano collegate da una rete fitta di percorsi che attraversavano la pianura sottostante, lungo la quale si trovava l’asse principale alberato della Strada Padana Inferiore. Successivamente la ferrovia e poi in epoca più recente l’autostrada Torino-Piacenza hanno creato una forte cesura in questa ampia piana alluvionale tra concentrico ed aree collinari comunali. La viabilità minore, al servizio degli insediamenti sparsi e delle attività agricole, assume un carattere prevalentemente di crinale determinando differenti strutture e forme: un anello che parte dal concentrico di Villafranca, segue la morfologia collinare e si ricollega alla pianura; un tratto di strada di crinale, che si collega alla valle del Triversa e del Traversola, in prossimità della frazione di S. Antonio, un percorso di crinale continuo e sinuoso, che segue l’andamento dei rilievi collinari, collega i vari insediamenti sparsi nella parte di territorio che ha come centro la frazione di San Grato e che più a nord prosegue verso Maretto e Roatto, affacciandosi sul versante della valle Triversa. Questo diversi sistemi di viabilità, anche minore, possono costituire strutture paesistiche di interesse sia per morfologia che per rapporti di intervisibilità con le colline circostanti. n Elementi puntuali e sistema del verde Gli edifici censiti dalla L. 35/95 fuori dal concentrico riguardano quattro edifici (due ville, una fornace, un edificio rurale). Altri edifici, solo segnalati, sono la Chiesa della Madonna della Neve (loc. Volpiglio) a cui occorre aggiungere anche la necessità di tutelare e sistemare adeguatamente le aree adiacenti, essendo collocata sulla sommità della collina e con una visuale a 360° sul territorio circostante. Inoltre il Molino, probabilmente il Molino di Belotto sul Triversa, oltre altri edifici rurali sparsi, ad esempio la cascina Canalis e il cimitero. Un’ultima notazione sta nel tenere conto della struttura arborea che caratterizzava al 1881 il complesso sistema idrico e buona parte del sistema viario in pianura. 11. Villanova (h. 260 m.) n Morfologia Il territorio comunale è di pianura, salvo una piccola porzione di territorio collinare inclusa nella zona nord-est, e appartiene alla formazione dell’altopiano di Poirino. Confina ad est con le prime depressioni del sistema collinare che si affacciano sulla valle del Torrente Traversola. n Uso del suolo Le colture prevalenti al 1880 erano il seminativo, il prato irriguo e in parti minori il prato arborato; la parte collinare era prevalentemente a bosco. Attualmente permane il medesimo assetto colturale, in un territorio sicuramente ridotto nelle sue caratteristiche componenti arboree soprattutto lungo le strade e il sistema idrografico. n Sistema idrografico Il sistema idrografico è strettamente collegato alla strutturazione insediativa del territorio comunale. L’asta del Rio Banna attraversa da nord, costeggiando le frazioni di Brassicardi, Terrasse e Bianchi ,a sud-ovest il territorio comunale. Nella zona sud sono presenti il Rio Robeirano, il Rio Bottalino e il Rio d’Isola, provenienti dal territorio di Isolabella, che confluiscono nel Banna. Ad ovest il territorio comunale è delimitato dal Rio Borgallo (più a nord denominato Rio della Madonna) che confluisce nel Banna all’altezza della frazione Corveglia, e più a sud dal Rio Valgorrera. n Sistema della viabilità Il sistema viario è un sistema radiocentrico con molti tratti di strada alberati, come risulta al 1880, variamente distribuiti nel territorio comunale, soprattutto lungo le strade di accesso al concentrico e in prossimità del Castello Velmeiniers. La viabilità principale è costituita dall’autostrada, a nord del concentrico, la strada statale Padana Inferiore e la strada statale n. 29 del Colle di Cadibona. Le altre strade sono secondarie ed hanno un ruolo locale e sono distribuite sull’intero territorio comunale, secondo un reticolo diffuso ed abbastanza equilibrato, che collega le numerose frazioni di impianto storico: Brassicarda, Terrasse, Bianchi, Savi, Valdichiesa, Corveglia e Raspino. Interessante risulta la strada che costeggia, intorno alla frazione Savi, la depressione collinare ed i collegamenti con la valle del Triversa. L’autostrada Torino-Piacenza costituisce, insieme alla ferrovia più a nord , già presente al 1880, un fattore di forte divisione rispetto alla strutturazione storica del territorio comunale. n Elementi puntuali e sistema del verde Il censimento previsto dalla legge35/95 non è ancora stato effettuato e pertanto gli edifici vincolati ai sensi della L. 490/99 fuori dal concentrico riguardano l’ex castello Velmeiniers, la Chiesa di Sant’Isidoro, e l’ex convento in frazione Corveglia. Altri edifici segnalati riguardano numerose chiese nelle varie frazioni Bianchi, Gianassi, Brassicarda, Savi, Valdichiesa, le due torri di avvistamento: Torre Bisocca di Supponito e Torre Bisocca di San Martino, il Molino, la Fornace e la cascina Savi. Al 1880 si possono rilevare ancora alcuni segni importanti, in parte oggi assenti, quali : il Parco recintato del castello Velmeiniers e il viale di accesso, il palazzo Ciochero con viali alberati di accesso e giardino interno, vari tratti di strade alberate di “ingresso” ad alcune frazioni sparse (Brassicarda, Valdichiesa, Corveglia), i rii alberati con un reticolo diffuso di vegetazione riparia, altre cappelle sparse, ad esempio la cappella di San Vincenzo in prossimità di Val Gorrera, la cappella di San Giuseppe, la cappella della Madonna del Casale nella parte collinare in posizione dominante sulla Valle Triversa e il Molino del Casale. La struttura dell’insediamento e del paesaggio attraverso le tavolette di impianto IGM (1880) Legenda Confine comunale Centri principali Nuclei Monumenti ed elementi paesistici isolati Percorsi di crinale Percorsi di fondovalle Percorsi di pianura Reticolo idrografico Bosco Vigna Prato stabile Seminativo D/E.1. I BENI CULTURALI ARCHITETTONICI ED URBANISTICI La ricerca ha come obbiettivo quello di operare una lettura delle strutture insediative di antico impianto, individuandone la permanenza e la caratterizzazione, di sistematizzare le conoscenze già disponibili sul patrimonio dei beni culturali architettonici, e di confrontarle con la struttura delle permanenze rilevate in modo da individuare le integrazioni necessarie e quindi di individuare i tipi edilizi caratterizzanti ed i sistemi di beni da valorizzare. D. I BENI URBANISTICI I caratteri insediativi e le regole insediative. L’analisi della cartografia storica disponibile su tutto il territorio (tavolette d’impianto IGM realizzate tra il 1880 e il 1882) permette di cogliere insieme le peculiarità dei caratteri insediativi, la permanenza dell’impianto storico e le dinamiche insediative sviluppatesi nell’ultimo cinquantennio e che, in generale, hanno prodotto un drastico abbandono delle regole insediative, di lunga durata, che hanno caratterizzato gli insediamenti. Se si analizzano infatti le forme dell’insediamento così come ci viene restituito dalla tavoletta IGM rispetto alla morfologia territoriale e l’impianto planimetrico possiamo cogliere le specificità che distinguono i diversi centri di antico impianto. Se è evidente nel territorio del Basso Monferrato Artigiano una prevalente collocazione dei centri sulle parti più elevate del rilievo collinare, si possono distinguere i centri di sommità o di culmine, nettamente prevalenti (Albugnano, Cocconato, Moncalvo, Montemagno, S.Martino Alfieri, Settime, Villadeati), rispetto ai centri di crinale (Tigliole), di promontorio (Cortazzone, Villafranca), di pianura (Villanova). Quest’ultimo è un caso assolutamente unico, anche rispetto agli altri centri del pianalto (Valfenera, Dusino S.Michele, S.Paolo Solbrito, Cellarengo, Buttigliera d’Asti) che possono più correttamente definirsi di margine di terrazzo. La morfologia di pianura di Villanova è caratterizzata, oltre che da una struttura radiocentrica territoriale, dalla assoluta originalità dell’impianto planimetrico a scacchiera, tipica della matrice di “borgo nuovo” (così come nell’area del Gal è riscontrabile solo a S.Damiano e a Buttigliera d’Asti) e dalla sovrapposta cerchia di bastioni cinque-secentesca, mentre sul territorio sono ancora leggibili i luoghi fortificati della Bisocca di S.Martino, di Corveglia e della Bisocca di Supponito. La morfologia urbana si caratterizza per una netta preminenza di edifici lineari disposti in senso est-ovest, all’interno del centro, ma anche all’esterno, nei nuclei minori (Savi, Brassicarda,…..). Anzi, se si amplia lo sguardo, questa morfologia a cortine continue estovest caratterizza tutti i centri del Pianalto (Buttigliera, S.Paolo, Dusino, Cellarengo) salvo Valfenera e testimonia una attenzione particolare dell’edilizia di antico impianto verso quello che oggi si definisce “approccio bioclimatico”, cioè verso l’ottimizzazione dell’apporto solare. Le morfologie di promontorio di Cortazzone e di Villafranca si distinguono per il rapporto diretto con il fondovalle, e per il ruolo di cerniera tra percorsi insediativi di crinale e percorsi di fondovalle. L’impianto planimetrico è lineare semplice ed è fortemente condizionato dall’orografia del sito. La morfologia urbana, a sua volta, è fortemente condizionata dall’andamento della maglia viaria: a Villafranca, in cui l’asse urbano principale è rettilineo gli edifici si collocano in cortine continue parallele alla strada con corpi secondari ortogonali, mentre a Cortazzone, in cui l’asse urbano è ad avvolgimento le cortine non sono in rapporto diretto o costante con la strada. La morfologia di crinale di Tigliole si caratterizza in relazione all’orientamento del crinale stesso: essendo orientato da est ad ovest, ed essendo l’impianto planimetrico lineare molto semplice si dà luogo alla caratteristica morfologia della cortina edilizia continua lungo l’asse urbano, con maniche secondarie ortogonali (molto simile a Villafranca). Nei Centri di crinale con l’asse urbano principale in senso nord-sud, viceversa (Altavilla, Cerreto, Colcavagno, Costigliole, Passerano, Pino d’Asti, Portacomaro, Scurzolengo,…) si dà luogo invece a cortine edilizie a pettine rispetto all’asse urbano. La morfologia di sommità o di culmine caratterizza il maggior numero dei centri e si spiega in relazione alle radici difensive dell’insediamento, essendo in origine tutti i centri di questo tipo dotati di castello. Il centro di Albugnano ha l’impianto planimetrico più semplice, accentrato e in parte (verso est) lineare, e la morfologia urbana è caratterizzata da edifici lineari a loggiato sorti sulle tracce delle murature difensive. Il centro di Cocconato ha un impianto planimetrico più complesso, articolato in una serie di assi lineari urbani di crinale convergenti. La morfologia urbana è caratterizzata dalla prevalenza di cortine edilizie continue, tra cui spicca l’edificio medioevale porticato oggi sede del municipio. Il centro di Moncalvo ha un impianto planimetrico complesso e dalla forma compatta triangolare corrispondente all’antica cinta muraria. La morfologia urbana è quella di un centro di rango superiore, con cortine edilizie compatte e più alte, con edifici a blocco medioevali, e vere e proprie piazze. Spicca lo spazio corrispondente alla fortezza, oggi adibito a parcheggio, il relativo muro di contenimento e la presenza di numerosi edifici religiosi. Il centro di Montemagno ha un impianto planimetrico altrettanto complesso, ma è caratterizzato dalla presenza del “Ricetto” con la tipica organizzazione di cellule “schiena a schiena” allineate su di una serie di vie parallele, ai piedi del castello. Particolare rilevanza, nella morfologia urbana, assume il muro di contenimento a valle e lo spazio urbano cui dà luogo. Il centro di Settime ha un impianto planimetrico articolato, ma prevalentemente lineare, disposto lungo il crinale sommitale, ad arco. Il diverso orientamento dell’asse urbano dà così luogo a morfologie differenziate: nella parte a nord con asse est-ovest la morfologia è quella delle cortine edilizie continue parallele alla strada, mentre nella parte a sud con asse nord-sud la morfologia è quella delle cortine disposte a pettine lungo la strada, che si biforca poi in corrispondenza della Chiesetta di S.Anna. Il centro di S.Martino Alfieri ha un impianto planimetrico radiale molto semplice caratterizzato dalla presenza di due sommità distinte, l’una occupata dal Castello, l’altra dal Centro civico, e quindi da una serie di assi convergenti verso la sella intermedia. La morfologia urbana è caratterizzata da cortine edilizie continue lungo strada. Il centro di Villadeati ha un impianto planimetrico lineare semplice (così come quello delle frazioni di Zanco e Mosello) steso sulle pendici sotto il Castello, poi sostituito dalla Villa settecentesca. La morfologia urbana è caratterizzata quindi da cortine edilizie lineari lungo strada. Passando agli insediamenti sparsi sul territorio, dall’analisi della cartografia storica sono analogamente desumibili le regole che hanno sovrinteso alla loro localizzazione. Anche in questo caso appaiono nettamente prevalenti i percorsi di crinale, che collegano i centri principali ai nuclei frazionali ed ai singoli cascinali. A questo proposito l’insediamento nel Basso Monferrato pare prevalentemente caratterizzato da strutture edilizie isolate (cascine o piccoli aggregati) piuttosto che da annucleamenti rurali di una certa consistenza, che si riscontrano solo nei Comuni di Villanova, Villadeati, Tigliole, S.Martino. I percorsi di fondovalle appaiono decisamente minoritari, e non reggono che scarsi insediamenti, per le scadenti condizioni climatiche che contrassegnano questi territori. Circa la morfologia di questi insediamenti minori vengono riconfermate le regole prevalenti già illustrate: edifici in cortina lungo le strade, quando queste hanno un orientamento estovest, edifici a cortina disposti a pettine, quando le strade sono orientate da nord a sud. Nelle tavole allegate sono evidenziati e classificati per tipo di impianto e le strutture insediative (centri, nuclei e case sparse) che permangono dell’impianto originario. Come si vede si tratta di un patrimonio di vaste dimensioni, diffuso capillarmente lungo i percorsi di crinale. Rispetto alle regole insediative così descritte gli sviluppi urbani dell’ultimo cinquantennio hanno introdotto delle innovazioni che non sono quasi mai riuscite a costituirsi come nuove regole, per la contraddittorietà dei criteri di riferimento. In generale si può parlare di rifiuto netto delle vecchie regole insediative, riguardate come un retaggio di arretratezza, di inadeguatezza rispetto alla modernità, alla mobilità. In effetti le prime avvisaglie di nuove regole insediative corrispondono alla realizzazione di nuovi assi viari di fondovalle, di ferrovie e relative stazioni, di plessi protoindustriali sulle aree piane più facilmente collegabili con le grandi direttrici di comunicazione. Ciò vale per Settime, in relazione alla realizzazione della ferrovia Asti-Chivasso (1912), per Villanova, Villafranca e Tigliole, in relazione alla ferrovia Torino-Asti (1849), per Moncalvo, in relazione alla ferrovia Asti-Casale (1870). Ma anche in assenza della ferrovia il “franamento a valle” ha luogo lungo le nuove direttrici di fondovalle, finora assolutamente prive di insediamenti (salvo i mulini), realizzate nel corso del ‘900. Ciò vale per Montemagno, verso il fondovalle del Grana, e per S.Martino Alfieri, verso il fondovalle del Tanaro e per Cortazzone, mentre i centri più interni e defilati rispetto alle direttrici di comunicazione (Albugnano, Cocconato, Villadeati), non hanno subito questo processo se non in epoca più recente. Si può dire comunque che fino al secondo dopoguerra, anche in questi insediamenti di fondovalle relativamente innovativi sono valse le regole morfologiche degli insediamenti di antico impianto: costruzione sul filo stradale senza arretramenti di cortine edilizie continue a 2-3 piani, adozione delle stesse regole sintattiche e dello stesso lessico, nel solco della tradizione, anche se con alcune innovazioni tecnologiche e tipologiche (la casa a distribuzione a ballatoio, la fabbrica con capriate o shed). Solo più recentemente sono stati introdotti criteri insediativi di tipo innovativo, con l’adozione delle regole dell’arretramento e dell’assoluta indifferenza rispetto al filo stradale, con la nuova tipologia dell’edificio unifamiliare isolato o della palazzina isolata, con l’introduzione di vistosi “fuori-scala” (l’edificio in linea pluripiano, il fabbricato industriale moderno con coperture dalle forme innovative….). L’assenza di qualsiasi controllo pianificatorio ha lasciato libero sfogo alla proposizione di qualsiasi regola, in qualsiasi luogo, con il rischio di rendere illeggibili le regole insediative tradizionali. E’ ciò che avviene a Villanova, ove si rischia di perdere la traccia della cinta muraria e un tessuto edilizio eterogeneo (edifici il linea pluripiano, palazzine, ville unifamiliari, capannoni industriali) è sparpagliato attorno al centro senza ordine, a Villafranca, ove il centro di promontorio si affaccia su di un fondovalle tagliato da ferrovia e autostrada e colonizzato da lottizzazioni residenziali a bassa densità, edifici in linea pluripiano, capannoni industriali eterogenei, a Moncalvo, ove pochi interventi edilizi recenti si pongono del tutto fuori scala (esemplare è il caso della cantina sociale, edificio che in teoria dovrebbe rappresentare quanto di più tipico e qualificato dal punto di vista qualitativo si produce localmente – ma il caso non è isolato, si può anzi dire che tra gli elementi detrattori del paesaggio del Basso Monferrato, le cantine sociali si collocano ai primi posti, insieme ai serbatoi dell’acquedotto ed agli edifici pluripiano). Porsi il problema della tutela e valorizzazione dei beni urbanistici, rappresentati non solo dai centri storici nelle loro caratterizzazioni precedentemente descritte, ma dall’intero patrimonio di insediamenti di impianto storico diffuso nel paesaggio così come emerge dall’analisi delle “permanenze” tuttora rintracciabili, significa cambiare profondamente atteggiamento, strategie ed approccio rispetto ai modi consolidati di concepire il problema, perché oggetto della tutela e della valorizzazione non è tanto il complesso degli elementi componenti le strutture, quanto le regole che hanno dato luogo a quelle strutture. Non si tratta quindi di una semplice estensione della tutela e della valorizzazione (dai singoli oggetti ai contesti, all’intero paesaggio), quanto di una radicale revisione delle politiche e delle azioni. Non basta, in altri termini (e forse non è neppure proponibile), puntare alla tutela e valorizzazione dell’intero centro storico, e del sistema di insediamenti rurali che caratterizzano una porzione più o meno estesa di paesaggio di valore culturale, se poi gli interventi che inevitabilmente debbono essere effettuati, perché tutto incessantemente si trasforma, si sovrappongono a quelle strutture ignorando le regole insediative e morfologiche che le hanno originate, rendendole illeggibili. Per una tutela e valorizzazione dei beni urbanistici efficace, quindi è cruciale impostare una definizione delle regole per gli interventi sul territorio che sia in grado insieme di tutelare e valorizzare le permanenze ma anche di progettare le nuove strutture in accordo, in continuità con le regole di lunga durata che hanno conferito valore culturale all’insieme dei beni urbanistici presenti. La tutela e la valorizzazione, per quel che riguarda i beni urbanistici, si fa facendo una buona progettazione urbanistica, che sappia affrontare il problema della forma del territorio tenendo conto del valore del sedimento storico accumulato nelle strutture dei centri storici come in quelle del paesaggio agrario. Occorre dunque individuare i caratteri di autenticità delle strutture insediative tradizionali e porli al centro dell’attenzione, farli conoscere perché diventino patrimonio culturale condiviso, e siano alla base del progetto della trasformazione futura. I risultati delle analisi effettuate sono un primo tentativo in questa direzione. E. I BENI CULTURALI ARCHITETTONICI A fronte di una notevole presenza di edifici di antico impianto riconosciuti in prima approssimazione come “permanenza” quantomeno di valore documentario, l’analisi degli elenchi dei beni vincolati ai sensi della l.n.1089/1939, degli edifici segnalati a vario titolo e da diverse fonti bibliografiche mostra una considerevole sproporzione, né potrebbe essere altrimenti. Gli elenchi disponibili presso la Soprintendenza ai Monumenti indicano un interesse centrato sulle poche architetture emergenti in quanto “d’autore”, sui monumenti di interesse nazionale, e riguardano edifici religiosi, militari (castelli, torri…) e alcune particolari categorie di edifici civili (palazzi, in genere d’impianto medioevale). Vi è però da segnalare quell’ampia estensione “automatica” del vincolo derivante dalla concomitanza delle due condizioni poste dalla l.n.1089/39, e cioè di essere edificio pubblico e di rivestire interesse storico-artistico. L’inesistenza, in concreto, di un elenco definito, e il ricorso ancora ribadito recentemente, al parere espresso, caso per caso, dalla Soprintendenza in merito al singolo edifico del Demanio Pubblico, pone un formidabile punto interrogativo sulla reale consistenza del patrimonio vincolato. La prima lacuna da colmare, quindi, soprattutto nell’attuale fase di ricerca di semplice valorizzazione economica del Demanio, consisterebbe innanzitutto nel definire una volta per tutte, e non caso per caso, sulla base di criteri omogenei e di elenchi esaustivi dei beni del Demanio Pubblico, ciò che si deve ritenere vincolato; operazione assolutamente urgente in termini di certezza e chiarezza istituzionale. Se dagli elenchi assai scarsi della Soprintendenza passiamo alle segnalazioni contenute nel Piano Territoriale Provinciale assistiamo ad una notevole integrazione, e, soprattutto il tentativo di passare da un interesse centrato sull’emergenza ad un interesse per sistemi di beni (cascine, mulini e fornaci, confraternite) diffusamente presenti sul territorio. Si tratta ancora, comunque, di elenchi limitati a pochi edifici, per ogni singolo comune, orientati a specifiche categorie di beni: si tratta, comunque di un primo tentativo di integrare gli elenchi della Soprintendenza per i beni storico-artistici di proprietà pubblica (le confraternite). Un deciso incremento delle segnalazione di beni di valore storico-documentario è dato dalle schede elaborate dai comuni in base alla L.R.35/95. In alcuni comuni (Moncalvo, Montemagno, Cocconato) il numero degli edifici schedati rappresenta un concreto sforzo di incremento della conoscenza. Rimandando ad uno specifico approfondimento l’esame critico dell’applicazione della L.R.35/95 (v.punto H) si può qui affermare che solo in alcuni casi la schedatura è stata orientata alla individuazione dei sistemi di beni e, soprattutto, alla determinazione degli elementi caratterizzanti l’architettura locale. Il fatto è che ancora una volta è prevalso un interesse centrato sulla emergenza singolare, più che nel carattere di quella che si può definire l’edilizia di base, e cioè sul patrimonio edilizio “corale” che caratterizza e qualifica l’ambiente locale. Singolare, ad esempio è il caso di Albugnano, dove le schede sono orientate ad un unico tipo di bene – il pilone votivo – che certo costituisce un elemento connotante il paesaggio agrario, ma che non ha alcun riferimento con “…i caratteri tipologici, costruttivi e decorativi…degli edifici e loro pertinenze”. Analogo è il caso di Cocconato, ove numerose schede sono relative oltre che ai piloni votivi, alle edicole funerarie. Particolarmente centrato, viceversa, è il caso di Montemagno, dove si è proceduto ad una sistematica schedatura degli edifici del ricetto, che costituiscono sì una singolarità tipologica, ma determinante a conferire una peculiare morfologia ad una parte consistente del centro storico. Allo stesso modo aver schedato un certo numero di cascine nel territorio foraneo nei comuni di Montemagno e Cocconato centra l’obbiettivo di analizzare il tipo edilizio nelle diverse declinazioni in grado di caratterizzare il paesaggio agrario. Va segnalato, comunque, che nei comuni di Cocconato, Cortazzone, Moncalvo e Montemagno la presenza di numerose schede riferite ad edifici del centro storico – non solo palazzi – consente di far emergere gli elementi caratterizzanti l’architettura civile locale di questi centri. Anche la scelta di Tigliole, orientata sul tipo edilizio relativamente singolare (soprattutto del Basso Monferrato) della Villa, va nella direzione di conoscere in modo esauriente un particolare elemento caratterizzante il paesaggio locale. Il fatto che alcuni comuni (Settime, Villafranca) non abbiano viceversa finalizzato l’indagine ad uno o più particolari filoni tipologici, ma abbiano redatto poche schede su un insieme indifferenziato di tipi, e, soprattutto, come nel caso di Settime si siano occupati di edifici già vincolati ai sensi della l.n.1089/39 fa emergere un chiaro fraintendimento delle finalità della legge regionale. E’ da segnalare, infine, che i comuni di S.Martino Alfieri, Villadeati e di Villanova non abbiano fatto ricorso alla L.R.35/95. D/E.2. INDIRIZZI PER L’INCREMENTO DELLA CONOSCENZA DEL PATRIMONIO DEI BENI CULTURALI. Il quadro che emerge alla sistematizzazione delle conoscenze disponibili sul patrimonio dei beni culturali urbanistici ed architettonici, come si è visto, segnala diverse lacune, che occorrerebbe colmare con un programma di schedatura mirato insieme alla conoscenza ed alla valorizzazione, ma da articolare in relazione alle priorità, alle possibili forme di finanziamento, alle ricadute operative. Come si è visto precedentemente una prima grave lacuna riguarda il compiuto riconoscimento degli edifici “automaticamente” vincolati (art.20 comma 1 e art.12 comma 1, del Dlgs 16/1/04) di proprietà dello Stato, delle Regioni, degli Enti pubblici territoriali e di ogni altro ente pubblico e privato senza fini di lucro. La verifica dell’effettivo interesse e la relativa schedatura è demandata alla Soprintendenza, ma il problema, al di là delle evidenti difficoltà operative per la mole di tali verifiche, è innanzitutto quello di conoscere ciò che può essere oggetto di tale verifica. La prima emergenza, quindi consiste nel redigere degli elenchi delle proprietà pubbliche per cui si pone il problema della verifica di interesse, che risultano enormemente più numerose dei monumenti vincolati o comunque segnalati. Si tratta di un lavoro capillare di pre-schedatura che presuppone la collaborazione di tutti gli enti pubblici, e che renderebbe possibile identificare ogni elemento comunque nominalmente tutelato (beni religiosi, beni militari, beni civili). Il compito successivo della verifica e della schedatura, come si è detto, compete alla Soprintendenza e quindi non dovrebbero farsene carico le amministrazioni comunali. Un lavoro di questo tipo consentirebbe di conoscere e tutelare il vasto patrimonio che si è cominciato a sondare con le iniziative della Provincia relative alle Confraternite: dalla verifica condotta a campione negli undici comuni, dalla cartografia storica e dai sopralluoghi effettuati risultano né vincolate, nè segnalate numerose cappelle campestri (v.elenco allegato). In secondo luogo, tenuto conto delle possibilità di finanziamento e delle ricadute operative, occorrerebbe far ricorso estesamente alla L.R.35/95, definendo prima, però, verso quali sistemi di beni orientare la schedatura. Rimandando al punto H successivo per una riflessione critica sul mancato coordinamento della L.R.35/95 con la L.R.19/99, la schedatura dovrebbe essere strettamente finalizzata a riconoscere i caratteri dell’architettura locale, come elementi di connotazione del paesaggio urbano e del paesaggio agrario, al fine di trarre d questo tipo di indagine indirizzi (da inserire nel Regolamento Edilizio) utili a guidare gli interventi (sia di recupero che di nuova edificazione) verso risultati di qualità, garantendo così una valorizzazione del contesto ambientale. Oltre a questa ricaduta operativa, la schedature indubbiamente rappresenta un passaggio obbligato anche per ottenere agevolazioni e finanziamenti per il recupero di tali beni. Al proposito sono da segnalare due recenti leggi che in diverso modo incentivano il recupero dei beni di valore storico-documentario rappresentati dal patrimonio edilizio rurale: la l.r.9/2003, che consente notevoli agevolazioni di tipo normativo per il recupero dei rustici, e la l.n.387/2003 che finanzia interventi di recupero dell’architettura rurale di valore storico. Tenuto conto di ciò, si tratta di operare delle scelte di priorità tra il patrimonio edilizio urbano e il patrimonio edilizio rurale, indirizzando comunque la schedatura verso edifici rappresentativi di una cultura materiale e di un modo di abitare che ha profondamente caratterizzato il paesaggio, più che verso edifici “singolari”, “eccezionali”. Il lavoro condotto sulla cartografia storica consente di impostare una pre-schedatura per sistemi di beni così articolato: § abitazioni civili costitutive del tessuto dei centri storici di impianto storico (dal medioevo al novecento); § elementi significativi di archeologia industriale (mulini, fornaci, opere di ingegneria civile….); § cascine;