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DOMENICA 27 DICEMBRE 2015 LA GAZZETTA SPORTIVA
OPINIONI
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La vignetta
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Azzurro di nuoto
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Van Gaal, Mou, Hiddink: che crisi
VITA DURA PER I SANTONI DELLA PREMIER
L’ANALISI
di MIMMO CUGINI
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S
i respira un’aria pesante di
questi tempi in Premier
League. Le certezze che
derivano dall’esperienza e dai
risultati di certi santoni del calcio
sembrano essere svanite nel nulla. La
tempesta che ha già spazzato via Josè
Mourinho dal Chelsea sembra adesso
essersi spostata su Manchester,
sponda United, dove Louis van Gaal è
a un passo dall’esonero (o dalle
dimissioni). All’olandese era stato
affidato il progetto di ricostruire i
Red Devils dopo l’addio di sir Alex
Ferguson e la breve e disastrosa
parentesi di Moyes (esonerato e
sostituito dalla bandiera Ryan Giggs
nel finale di stagione 2013-2014).
Agli investimenti faraonici dell’estate
del 2014 era corrisposto il misero
quarto posto con la qualificazione
alla Champions conquistata per il
rotto della cuffia nella Premier 2014-
2015 vinta dal Chelsea di Mourinho,
quando il portoghese si era attaccato
ai suoi pretoriani come un naufrago
allo scoglio. Ma dopo aver vinto il
titolo Josè ha sottovalutato l’usura
dei suoi campioni non pretendendo
un rinnovamento, mentre Van Gaal a
cui si chiedeva finalmente di vincere,
ha sacrificato un fuoriclasse come Di
Maria spendendo altri 140 milioni di
euro sul mercato per Darmian,
Schneiderlin, Schweinsteiger, Martial
e Depay. Ma non è mai riuscito a
dare un’identità di gioco allo United,
che con il k.o. di ieri a Stoke on Trent
è arrivato a 5 sconfitte (quattro
consecutive) in 18 partite. Alla vigilia
di United-Chelsea Van Gaal rischia di
fare le valige e il suo esonero ci
priverebbe del confronto tra i due
grandi maestri olandesi, visto che
Abramovich per la panchina del
Chelsea per il dopo Mou ha scelto
Guus Hiddink. E anche lui ha già i
suoi problemi: lo hanno chiamato
per traghettare la squadra fino alla
fine della stagione e il ruolo di
precario non sembra piacergli
troppo. Tirare su il Chelsea che è a
13 punti dalla zona Champions
sembra una mission impossible,
intanto ha ritrovato i gol di Diego
Costa, ma l’impressione è che non sia
riuscito ancora a compattare quello
spogliatoio che è stato probabilmente
il killer di Mou. C’è un momento
nella carriera di questi grandi tecnici
in cui sembrano perdere la
cognizione della realtà. Il mestiere di
allenatore è difficilissimo, ma
abbiamo l’impressione che qualche
volta Mourinho, così come Van Gaal
e Hiddink, vogliano stupire a tutti i
costi quasi per dimostrare che sono
loro a vincere e non i giocatori che
vanno in campo. Le scelte e le idee
tattiche di un tecnico possono essere
importanti, ma i gol li fanno (o li
sbagliano) i giocatori. Il concetto è
perfettamente chiaro a Claudio
Ranieri, che a 64 anni dopo aver
allenato tra le altre Napoli,
Fiorentina, Valencia, Atletico Madrid,
Chelsea, Juventus, Roma e Inter sta
dominando la Premier con il piccolo
Leicester nonostante la sconfitta di
ieri a Liverpool. Alla faccia dei
santoni e degli investimenti
milionari.
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Perché amiamo i grande vecchi-miti dello sport
QUEI CAMPIONI DELLA NOSTRA VITA
stagione, ogni estrema occasione di
vederlo in campo è buona. Di un
campione così grande hai nostalgia
prima ancora che abbandoni.
CONDÒ
CONFIDENTIAL
di PAOLO CONDÒ
twitter: PaoloCond
D
opo le prime due settimane
di voto per l’All Star Game
del 14 febbraio, Kobe Bryant
è di gran lunga il giocatore che ha
ricevuto il maggior numero di
preferenze: oltre 700 mila, contro
le 520 di Curry e le 350 di LeBron
James. Le motivazioni tecniche
della scelta sono labili, a 37 anni
Kobe è ancora in grado di
esprimere fiammate spettacolari,
ma insufficienti a ricreare l’antica
magia; in questo lungo e un po’
stucchevole tour d’addio della loro
stella i Lakers, consapevoli di poter
avviare una seria ricostruzione
soltanto dopo il suo ritiro,
sembrano rassegnati a prenderle
ovunque. Alla gente che vota, però,
le considerazioni tecniche
interessano poco, perché dopo che
Bryant ha annunciato lo stop a fine
Non erano molto diversi i
sentimenti che ci si rimescolavano
dentro nei giorni finali della
MotoGP. Anche al di là delle
polemiche per l’incidente di
Sepang, il desiderio di vedere il
36enne Valentino Rossi portare a
casa il suo decimo titolo mondiale
non era diffuso soltanto in Italia: la
sconfitta non ha cambiato nulla
della percezione di avere a che fare
col più grande motociclista della
storia, ma ci ha lasciato lo stesso
un retrogusto amaro.
Analogamente, la maggior parte di
noi pagherebbe di tasca propria
pur di vedere Roger Federer
vincere un ultimo slam
(possibilmente l’ottavo
Wimbledon): sono ormai tre anni
che lo svizzero si è fermato a 17,
record per il tennis maschile, e
dunque non c’è un tangibile
traguardo da tagliare, 17 o 18
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Tom Mockridge,
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DIRETTORE GENERALE DIVISIONE MEDIA
Alessandro Bompieri
vittorie non fanno una gran
differenza. E però ci teniamo da
matti, perché il desiderio di vedere
premiata l’armonia stilistica
assoluta di Federer è inesauribile, e
quanto più si avvicina la parola
fine - Roger ha 34 anni - tanto più
sale l’urgenza di un ultimo hurrà.
Funziona, con questi grandi vecchi,
uno dei molti transfer psicologici
connessi allo sport e alle sue
passioni. Il più tenero, forse:
l’identificazione tra un campione e
gli anni migliori della nostra vita.
La nostra, di noi che abbiamo
scorto nei suoi primi passi i geni
del fenomeno, che l’abbiamo
seguito nella crescita impetuosa,
che abbiamo visto ritmare gioie e
dolori delle nostre esistenze dagli
anelli Nba, dai sorpassi di Laguna
Seca, da Wimbledon che si gioca
sempre quando siamo al mare, e al
mare succedono tante cose.
Tifiamo per loro perché tifiamo per
noi. E i loro rivali simboleggiano la
nostra inquietudine verso il futuro.
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VALERIO ASPROMONTE
Olimpionico di scherma
l Corsetta mattutina
Texana @macdaddyjack44
@ValeAspro
ROBERTA VINCI
Tennista
l Io sto guardando
Vinci/Williams sul divano di
casa su @SuperTennisTv e
voi??? Io comunque tifo Vinci
@roberta_vinci
L’addio a Carlo Vittori
IL PROF DELLO SPRINT
NEMICO DEL BUONISMO
NON SOLO CALCIO
di FAUSTO NARDUCCI
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C
arlo Vittori se n’è andato
nella notte di Natale come
aveva fatto sei anni fa Bill
Bowerman, uno dei più
grandi allenatori
americani, co-fondatore della Nike.
Bowerman aveva allenato Steve
Prefontaine, mito soprattutto
nell’immaginario sportivo, il
Professore (come veniva
universalmente chiamato
nell’atletica, senza bisogno di
aggiungere nome e cognome) aveva
«inventato» la favola di Pietro
Mennea, un mito vero che come
Prefontaine era approdato con
successo sugli schermi. Era un
burbero, Carlo, anche di più di come
lo aveva ritratto Luca Barbareschi
nella fiction televisiva «La freccia del
sud» dove fumava come un turco ma
sembrava non credere neanche lui ai
rimbrotti e ai rimproveri che
indirizzava verso il suo assistito.
Invece, per allenare un campione
vero (e tetragono) come Pietro ci
voleva un duro vero: così nacque
quella simbiosi irripetibile che, al di
là dell’oro olimpico e del primato
mondiale, ha prodotto la più bella
stagione dell’atletica italiana. Prima
e dopo il suo gioiello, il tecnico
ascolano dal cervello sempre in
movimento e dalle espressioni
colorite aveva allenato anche altri
azzurri ma l’alchimia non si era
ripetuta. Vittori decideva, come si
direbbe oggi, «senza se e senza ma»
e non accettava contraddittorio. Ne
fece le spese, quando era
responsabile azzurro dello sprint, il
quattrocentista Andrea Nuti (uno
degli artefici del miracolo calcistico
del Carpi) che fu escluso dalla
staffetta degli Europei di Helsinki
‘94 per fare posto ad Ashraf Saber e
giurò che non avrebbe mai più
lavorato con un allenatore che aveva
un «approccio intollerabile con le
persone». Senza scomporsi Vittori
rispose così: «Io non devo discutere i
miei metodi con un giovanotto. Ho
scritto trentasei opere tecniche, le
ho sottoposte all’ esame della
comunità scientifica e sportiva
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internazionale e non devo
spiegazioni a nessuno». Non aveva
aggiunto spiegazioni neanche alla
frase con cui recentemente aveva
bollato la Fidal, ormai fra i suoi
bersagli preferiti, in occasione della
festa per i 60 anni della scuola di
Formia dove aveva forgiato il talento
atletico del ragazzo venuto da
Barletta: «L’atletica italiana non
esiste più».
Per come aveva amato il suo sport
preferito e per come stava soffrendo
la sua decadenza, si potrebbe
perfino pensare che Vittori sia
morto di crepacuore, per quel dolore
che affligge i familiari al capezzale
della persona amata. Invece si è
spento a 84 anni nella sua Ascoli
all’improvviso, con la velocità con
cui vedeva sfrecciare i suoi atleti in
pista. E’ giusto ricordare che, anche
se neanche noi eravamo esenti da
critiche soprattutto per come
trattavamo il fenomeno doping, il
Professore era legato a filo doppio
anche con la Gazzetta. E’ a lui che ci
rivolgevamo per i giudizi tecnici
dopo le imprese dello sprint e di
Usain Bolt in particolare: Vittori
aveva affinato la sua capacità di
contare i passi dei velocisti in gara
senza il supporto di mezzi
tecnologici e non sbagliava mai.
Quando c’era un grafico da fare, un
confronto storico fra le
caratteristiche tecniche dei campioni
di epoche diverse, bastava
telefonargli e lui sciorinava numeri
a memoria. In realtà era un
luminare della metodologia di
allenamento ma conosceva tutti gli
aspetti dello sprint, anche quelli
psicologici. Così Vittorie era
diventato un nostro editorialista e si
può concordare che «non la
mandava a dire». I suoi commenti
erano sempre duri, velenosi,
scomodi al limite dell’antipatia, ma
a lui non interessava essere amato
nè sembrare simpatico. Qualcuno si
era risentito e piano piano Vittori si
era fatto da parte. Ma nel suo caso
veramente non si può dire che se ne
sia andato in punta di piedi: il
Professore ha tuonato fino all’ultimo
secondo di vita e un po’ dobbiamo
essere d’accordo con lui. Con il
«buonismo», quello che impera oggi
nello sport e nella vita, non sarebbe
mai nato il fenomeno Mennea.
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