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INSERTO PUBBLICITARIO • della delegazione di Rifondazione Comunista del gruppo GUE/NGL al Parlamento Europeo • a cura di Ivan Bonfanti • progetto grafico Federico Taddei • Anno II • dicembre_2007 • Nr.12 Pensare l’Hiv sia ormai innocuo è il problema dell’Occidente. Il mancato accesso alle cure la piaga africana LA COSA ROSSA È GIÀ NATA A STRASBURGO Al Parlamento europeo di Strasburgo, lontano dai clamori della politica italiana, i gruppi politici a sinistra del Partito Democratico varano un coordinamento che si propone come modello per la nascita della Cosa rossa in Italia. A lanciare l’iniziativa, in vista degli Stati generali della sinistra dell’8 e 9 dicembre, sono stati gli eurodeputati Roberto Musacchio (Rifondazione) Claudio Fava (Sd), Monica Frassoni (Verdi) e Umberto Guidoni (Pdci). «Abbiamo già un coordinamento operativo, che ha spostato sensibilmente l’asse del Parlamento europeo», hanno spigeato in conferenza stampa. *** E LA SINISTRA CONDANNA L’ORDINANZA DI CITTADELLA Un gruppo di eurodeputati della neonata Cosa Rossa a Strasburgo, (Prc, Verdi e Sinistra democratica) ha sollecitato, in un’interrogazione, un’intervento della Commissione Ue presso il governo italiano «affinché sia rispettata in pieno la legislazione europea», a proposito della ordinanza del sindaco di Cittadella, con la quale si stabiliscono una serie di condizioni come requisito per la concessione del permesso di residenza. Roberto Musacchio, Giusto Catania, Vittorio Agnoletto, Luisa Morgantini e Vincenzo Aita (Prc), Pasqualina Napoletano e Claudio Fava (Sd), Umberto Guidoni (Pdci) e Seep Kusstatscher (Verdi) hanno sottolineato come l’ordinanza «fissa un limite di reddito minimo, determinando nei fatti una sorta di cittadinanza per censo». *** LA “NUOVA”POLONIA: NON FIRMEREMO LA CARTA DEI DIRITTI UE Il nuovo primo ministro polacco, Donald Tusk, ha dichiarato di fronte al Parlamento di Varsavia che il suo Paese userà l’opting out e, come la Gran Bretagna, non firmerà la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Varsavia aveva promesso di firmarla all’ultimo vertice di Berlino, ma Tusk ha detto che non rispetterà una decisione presa dal suo predecessore perché la Polonia «non la vuole». *** GALILEO,RICUCITO LO STRAPPO ANCHE LA SPAGNA PARTECIPA I ministri dei Trasporti dei Ventisette hanno trovato un accordo definitivo sulla struttura di controllo del sistema satellitare Galileo, che ha soddisfatto anche la Spagna. Il paese iberico, che reclamava un centro di controllo al pari di quello di Germania e Italia, è stato concesso di ampliare quello già previsto purchè ”non a detrimento” degli altri due e senza alcuna spesa aggiuntiva. Il nodo del contendere era la pressante richiesta di Madrid di poter avere un terzo centro di controllo del sistema,accanto a quello italiano del Fucino e a quello tedesco di Oberpfaffenhofen. *** VERTICE UE-AFRICA MUGABE CI SARÀ,LONDRA NO Il premier britannico, Gordon Brown, ha ribadito che non intende partire al vertice Ue-Africa di Lisbona in qunto è prevista anche la partecipazione del presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe. Quest’ultimo ha annunciato la sua partecipazione dicendosi pronto «a contrasatere qualsiasi critica», ma il successore di Tony Blair rifiuta di sedersi allo stesso tavolo del presidente dello Zimbabwe a causa delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate da quest’ultimo. Lo scorso 21 novembre,anche la stessa presidenza di turno portoghese dell’Ue aveva auspicato l’assenza di Mugabe dal vertice,ma gli emissari del presidente avevano escluso questa ipotesi e con Mugabe si erano schierati la maggioranza dei Paesi africani. Africa, perché Aids e povertà sono i frutti di un saccheggio di Vittorio Agnoletto S e tutto procede come previsto non troverete titoli a nove colonne sui principali quotidiani. Una volta, almeno in questa data, c’era grande fermento mediatico. Ultimamente l’argomento non tira più. La disponibilità a partire dalla metà degli anni ’90 di farmaci anti-retrovirali che consentono di cronicizzare la malattia hanno generato la falsa illusione collettiva che - almeno nei Paesi ricchi - la battaglia contro il virus fosse vinta. E si è abbassata la guardia. Soprattutto in termini di campagne informative e di prevenzione. Il risultato sull’immaginario dei giovani europei è devastante: uno su due, secondo l’Eurobarometro, pensa - l’ultima volta succedeva venti anni fa - che ci si possa infettare usando lo stesso bicchiere o la stessa toilette di persone sieropositive, donando loro del sangue o curando pazienti affetti da Aids. In Africa i ragazzi e le ragazze sono mediamente più informati, ma il mancato accesso gratuito alle cure, a causa dei brevetti farmaceutici imposti dalle multinazionali di settore tramite l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), impedisce di fare veri progressi nella lotta alla pandemia. Secondo le ultime stime dell’Unaids, l’agenzia dell’Onu sull’Hiv/Aids, la regione subsahariana continua ad essere quella più seriamente colpita. In quest’area vivono 22,5 milioni di soggetti sieropositivi (il 68% del totale mondiale), nonché un terzo di tutte le persone infettate e di quelle morte per Aids a livello globale. Nel 2007 si sono registrati circa 1,7 milioni di nuove infezioni da Hiv. Una riduzione importante dal 2001, quando i nuovi contagi erano quasi il doppio, ma non significativa sulla strada che dovrebbe portare entro il 2015, secondo gli Obiettivi del Millennio fissati dalla Nazioni Unite nel 2000, all’arresto e alla riduzione della diffusione del virus. Anche perché nello stesso periodo i casi di Hiv in Europa orientale e in Asia centrale sono aumentati di oltre il 150%. E soprattutto perchè il quadro epidemiologico 2007 fornito dall’Unaids risente di una profonda revisione delle tecniche di raccolta dati che ha fatto, per esempio, scendere il numero complessivo delle persone sieropositive nel mondo da 39,5 a 33 milioni. Eppure l’Africa si trova più che mai al centro della geopolitica mondiale. Se gli Stati Uniti puntano alla militarizzazione del continente, a difesa dei giacimenti petroliferi e gassosi del Golfo di Guinea e dei bacini del Chad e del Sudan attualmente sotto influenza cinese, l’Europa ha scelto di scommettere sul continente nero come nuova frontiera per lo smercio dei propri prodotti e servizi. Non avendo ancora un esercito comunitario (per fortuna), la Ue si affida alle banche e ai grandi capitani di industria per la conquista del continente. Sono loro che da sempre spingono per la chiusura dei negoziati sugli Epa, gli accordi di libero scambio con i Paesi Acp (Africa, Caraibi e Pacifico), fra cui quelli africani sono l’assoluta maggioranza. Nella regione subsahariana vivono 22,5 milioni di sieropositivi, ma dal 2001 il contagio in Africa è diminuito, mentre in Europa orientale e in Asia centrale è aumentato del 150% La scadenza per la firma di questi accordi è il 31 dicembre 2007, ma grazie alla mobilitazione dei movimenti sociali africani e internazionali, al supporto tecnico offerto dalle Ong e – non da ultimo - al lavoro paziente ma incalzante della vice-ministra Sentinelli in sede Unione Europea, tutto è al momento in stand-by. Nell’ultimo incontro del Consiglio Affari generali e Relazioni esterne, riunitosi a Bruxelles il 20 e il 21 novembre scorsi, i governi europei hanno dovuto prendere atto che ad oggi la previsione di una liberalizzazione completa dei mercati Acp, da quelli dei prodotti fino a quelli più redditizi di servizi e investimenti, va ridimensionata e ci si dovrà accontentare di procedere in due tempi: prima si discuterà di come ampliare gli scambi dei prodotti senza danni, poi si vedrà. Un duro colpo per il Commissario europeo al commercio, Peter Mandelson, che nei mesi scorsi aveva già dovuto incassare l’altolà del Parlamento Europeo sull’inserimento dei “Trips+” nei testi degli accordi Epa. Di cosa si tratta? Dell’inasprimento delle già ferree regole sui brevetti imposte dall’Omc che, come detto sopra, impediscono l’accesso alle cure a milioni di pazienti sieropositivi nel Sud del mondo. Il peggio però può solo essere rimandato: la natura commercialmente aggressiva degli Epa non è stata messa in discussione da Consiglio e Commissione. Il libero mercato che crea magicamente sviluppo per gli “ultimi della terra” continua ad essere un dogma. E in una fase storica in cui i negoziati multilaterali in sede Omc segnano il passo, il ritorno agli accordi bilaterali, con singoli Stati o con blocchi regionali, è obbligatorio. Ecco perché la presidenza portoghese dell’Ue e la Commissione Barroso puntano così tanto sul II vertice Africa Unione Europea annunciato per l’8 e il 9 dicembre a Lisbona. L’incontro farà seguito al primo vertice, tenuto nel 2000 in Egitto, al Cairo; avrebbe dovuto svolgersi già nel 2003 ma ha subito un cospicuo ritardo a causa delle sanzioni imposte allo Zimbabwe e delle polemiche sull’eventuale presenza del presidente Robert Mugabe. A quattro anni di distanza è ancora il vecchio dittatore a tenere banco. Il Portogallo si trova preso tra due fuochi. Da una parte i Paesi africani che più volte hanno messo in chiaro che se Mugabe non sarà della partita, nessuno di loro raggiungerà la capitale lusitana. Dall’altra la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi che sono contrari alla sua presenza perché accusato di gravi violazioni dei diritti umani. Pur senza nulla togliere alla portata simbolica della questione, l’at- tenzione che i media stanno riservando alla querelle diplomatica (oppure alla scelta del leader libico Moammar Gheddafi di alloggiare in una tenda beduina piuttosto che in uno degli alberghi ufficiali del summit), la dice lunga sugli esiti possibili di questo vertice. Nonostante le parole d’ordine ufficiali siano “sviluppo e diritti umani”, non c’è nessun dibattito reale che precede il vertice e soprattutto nessun segnale di inversione di tendenza nelle relazioni tra Unione Europea e Africa. Come gli ultimi due Forum sociali mondiali (quello di Bamako nel 2006 e di Nairobi nel 2007) ci hanno insegnato, le richieste all’Occidente non riguardano solo la restituzione del maltolto negli ul- Il mercato che crea magicamente sviluppo per gli “ultimi della terra” è un illusione. Il ritorno agli accordi bilaterali, con singoli Stati o con blocchi regionali, è obbligatorio timi due secoli, bensì la rinuncia a proseguire nel saccheggio sistematico di tutte quelle risorse naturali e umane capaci di traghettare l’Africa verso il destino che vorrà scegliersi. Tradotto in pratica ciò significherebbe: cancellazione totale e incondizionata del debito; riforma radicale delle organizzazioni finanziarie internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale) e dell’Organizzazione mondiale del commercio; sovranità alimentare e accesso universale ai farmaci salvavita; potere decisionale sulle politiche economiche e tariffarie; conservazione e valorizzazione dei beni comuni come l’acqua, la terra e l’energia. Non serve altro ai popoli africani. Ma questi argomenti, purtroppo, non saranno in agenda a Lisbona. DICEMBRE,5,1926 A PROPOSITO DI ARTE... Claude-Oscar Monet, pittore francese e uno dei fondatori dell’movimento impressionista, muore di tumore dopo una straordinaria vita artistica che ne avrà fatto uno degli immortali della sua epoca. «La gente discute la mia arte,a volte pretendendo di capire come se ci fosse qualcosa da capire.In realtà non c’è niente da capire,l’unica cosa necessaria è amarla oppure no». Claude Oscar Monet,(Parigi,14 novembre 1840 – Giverny,6 dicembre 1926) Da Bruxelles parte la campagna globale per la messa al bando. Colpire chi fa affari con i prodottori Le armi all’uranio impoverito devono uscire dalla storia umana di Luisa Morgantini N ella foto in bianco e nero, in primo piano gli occhi severi di un anziano curdo iracheno ci guardano appesantiti dalle occhiaie e dalle rughe. Ha in braccio suo figlio di sei o sette anni, lo sguardo spaurito, è malato di leucemia e ha una visibile malformazione al collo. La fotografia colpisce allo stomaco: sono solo due dei tanti volti invisibili dei costi umani dell’uranio impoverito. Sono immagini del fotoreporter giapponese Naomi Toyoda che insieme alla parlamentare De Groen ho ospitato al Parlamento Europeo lo scorso 5 novembre, in occasione della giornata di mobilitazione internazionale contro le armi all’uranio impoverito. In quel giorno abbiamo lanciato da Bruxelles la campagna globale della Coalizione Internazionale per la messa al bando delle armi all’uranio (International Coalition to Ban Uranium Weapons) contro gli investimenti di banche e compagnie finanziarie di tutto il mondo nella fabbricazione di questo tipo micidiale di armi. Molto più economico del tungsteno, rende più letali le armi e allo stesso tempo aiuta a smaltire parte delle scorie radioattive che altrimenti non si saprebbe dove mettere: l’uranio impoverito, depleted uranium, è e rimane un residuo nucleare messo in circolo: oltre 2000 tonnellate di uranio impoverito sono state utilizzate dal 1991 al 2003. Il primo novembre scorso, nel silen- zio dei mass media italiani, è stata votata a grandissima maggioranza (122 paesi a favore, 6 contro, 35 astenuti) una risoluzione Onu per chiedere verifiche sulla sua pericolosità: nell’atto dell’esplosione, infatti, i proiettili «speciali», irradiando polveri sottili altamente contaminanti, inquinano irreparabilmente aria, suolo e falde acquifere, penetrano nel sistema respiratorio e nei polmoni, accrescendo di molto le probabilità di affezioni tumorali, del morbo di Hodkin e di leucemia per chiunque ne venga a contatto o ne inali i residui. Proprio come il bambino della foto, come molti soldati americani o italiani, i loro figli e i civili di zone di guerra, nati con tumori del sangue o malformazioni. segue a pagina 2 Se i diritti sono legati al censo l’Europa torna al medioevo di Roberto Musacchio C on un voto a larga maggioranza il Parlamento europeo ha ribadito che la cittadinanza europea non tollera rigurgiti xenofobi e razzisti, prevede la libertà di movimento e soggiorno che non può essere revocata per questioni di reddito. Si è chiusa così una prima fase di una questione spinosa apertasi con l’omicidio di una donna italiana da parte di un cittadino romeno, Rom, e l’emanazione fatta dal governo italiano di un decreto di dubbia corrispondenza allo spirito e alla lettera delle direttive e dei Trattati europei. Così come sono state giudicate non consoni allo spirito e alla lettera europee alcune affermazioni del Commissario Frattini. In realtà la costruzione della risoluzione poi approvata non è stato del tutto lineare. La consueta alleanza di civiltà, che unisce un ampia forza che va dai liberali a noi del Gue, passando per verdi e socialisti, ha subìto il tentativo di incursione da parte dei neo-democrat italiani, in nome di una sicurezza che finisce con il prescindere dai principi di diritto. Tentativo fermamente respinto. Ma non per questo si è arrivati alla fine della vicenda. Basta vedere cosa sta succedendo ancora in Italia dove un gruppo di sindaci leghisti ha sottoscritto ordinanze per prescrivere requisiti di reddito per ”concedere” la residenza nei loro comuni a cittadini comunitari. Cosa in contrasto con le norme europee. Come detto dallo stesso ministro Amato che però ha aggiunto che è probabilmente necessario cambiare le direttive. Ha sostenuto cioè che siamo in presenza di flussi molto forti, non previsti, dovuti alle disparità sociale dell’Europa a 27. Prima ancora di contestare con forza le posizioni leghiste e anche quelle del ministro, occorre sottolineare la portata delle questioni in campo. La prima riguarda il concetto di cittadinanza. Non so se ci si rende conto di che cosa significherebbe legare la cittadinanza al reddito. Un salto indietro di secoli. L’idea di diritti subordinati al censo è aborrita dal pensiero liberale ancora prima che da quello socialista. E’ la messa fuori legge dei poveri, invece che della povertà come si dovrebbe proporre di fare una società moderna. Siamo al medioevo e all’oscurantismo. La seconda è sul concetto d’Europa. Chi sostiene i diritti subordinati al reddito si difende considerando ”altri” i cittadini che arrivano da altri paesi d’Europa, dimenticando che l’Europa è ormai un unico Paese. Negare il diritto di cittadinanza alla mobilità e al soggiorno significa negare l’Europa, tornare alle frontiere nazionali e al pre-Schengen. Due questioni enormi che la dicono lunga sulla crisi di civiltà cui rischiamo di arrivare. Ne dobbiamo essere consapevoli per affrontare le cause che la determinano e smontare l’impalcatura che il potere costruisce per sopravvivere alle proprie contraddizioni. Contraddizioni che ci rimandano alla globalizzazione liberista e cioè a una forma di modernizzazione regressiva, di rivoluzione conservatrice. Uno ” sviluppo” delle forze produttive che invece di determinare progresso mette a rischio diritti. La globalizzazione pretende totale libertà di movimento per il capitale e totale disponibilità di lavoro e natura. Ma lavoro e natura nel ”mettersi a disposizione” determinano contraddizioni, quella ambientale e quella migratoria. Occorre dunque ridurre a totale mutezza, a incapacità d’espressione soggettiva. Impossibile per la natura. Ci si prova per il lavoro. Come ridurlo a moderna schiavitù? Ecco qui la diabolica accoppiata tra precarietà e sicuritarismo. L’estrema mobilità del lavoro determina flussi che scuotono gli equilibri territoriali. Questo lavoro è tenuto in stato di precarietà e vive e provoca insicurezza. Ecco che si costruisce l’impalcatura securitaria per ”governare” la contraddizione. Il securitarismo come pensiero unico riduzionista, che taglia la complessità e rompe con la costruzione storica del pensiero e del diritto moderni. Non solo con quello di matrice sociale ma con quello liberale. Ma la sua spirale è talmente impazzita che il pensiero securitario puo´arrivare a cortocircuitare con lo stesso liberismo che lo ha prodotto. Il liberismo ha infatti bisogno di un lavoro deprivato di soggettività ma ”disponibile”, non impedito a muoversi. Oltre l’ipocrisia c’è proprio la contraddizione. E infatti Confindustria che ”ama” la precarietà non è così contenta del decreto fermaromeni. Tutte le costruzioni moderne e progressive sono scosse alle fondamenta dalla autoreferenzialità del modello securitario. La costruzione liberale. La costruzione sociale. L’Europa. E allora, contro questa deriva regressiva, le costruzioni moderne devono allearsi e rifondarsi. Il diritto liberale, quello sociale e l’Europa hanno bisogno l’uno dell’altra. Diritti delle persone e diritti sociali oggi più che mai sono indissolubili. E l’Europa vive solo in questa dimensione di indissolubilità . Negare la libertà di movimento o sottometterla al censo significa negare l’Europa. Ma il diritto di mobilità ha bisogno anche di diritti sociali e di un lavoro costante per ricostruire la coesione sociale, lottando contro il dumping. Libertà e uguaglianza, cioè, oggi più che ieri. inserzione pubblicitaria della delegazione di Rifondazione Comunista del gruppo GUE/NGL al Parlamento Europeo II dicembre 2007 Televisione, Bruxelles vara la deregulation Lettera da Vicenza, siamo dei sognatori In arrivo una pioggia di spot (anche occulti) e non vogliamo armi e missile nel cortile Vincono la destra e le major: la riforma «Tv senza frontiere» a misura di spot e televendite Il 15 dicembre il corteo contro l’allargamento dell’aeroporto militare Dal Molin di Edoardo Boggio Marzet Bruxelles D opo quasi due anni di negoziazioni, si è chiuso l’iter legislativo della cosiddetta direttiva ”Televisioni senza Frontiere”, adottata in seconda lettura lo scorso 29 Novembre dall’Europarlamento di Bruxelles. Il nuovo strumento europeo ha come scopo la regolamentazione del settore degli audiovisivi, allargato per la prima volta a quelli che sono definiti ”servizi non lineari”, ovvero le televisioni a pagamento. Sono trattate tutte le forme pubblicitarie, dai minispot durante la partite di calcio, al product placement, ovvero l’inserimento di un prodotto commerciale nel contesto di film e di altre produzioni televisive. La direzione indicata dall’Unione europea promuove un’ulteriore liberalizzazione del mercato pubblicitario per i vettori tradizionali, mentre sostiene la piena deregolamentazione per il settore della televisione on-demand. Secondo la Commissione europea, che ha salutato l’approvazione della direttiva come ”l’inizio di una nuova era degli audiovisivi”, il provvedimento era necessario per adattare il panorama televisivo alla nuova realtà economica del settore. A fronte del moltiplicarsi di canali a pagamento (tematici), anche le regole della televisione tradizionale devono cambiare, per non comportare perdita di competitività e d’interessi economici. Ma questa rincorsa verso orizzonti sempre più deregolarizzati si consuma sulla pelle di telespettatori, che saranno sottoposti a molteplici forme di pubblicità sempre più invasive, ma avranno effetti importanti anche sul grado di autonomia e di indipendenza degli stessi editori televisivi, le cui attività saranno sempre di più legate alle risorse pubblicitarie. Saranno da vedere quali effetti avrà questa riforma sulle televisioni pubbliche, proiettate in uno scenario più concorrenziale, ma anche sulla qualità della stessa programmazione televisiva, con il rischio di un’omologazione dei format e, di conseguenza, di un ulteriore appiattimento di idee, poiché si accentuerà la tendenza a finanziare programmi più seguiti da pubblico, lasciando poco spazio agli già scarsi tentativi d’innovazione e sperimentazione. Il nuovo strumento europeo promuove la liberalizzazione dei minispot, abbassa i divieti per le interruzioni nei programmi d’informazione e nelle trasmissioni per bambini a 30 minuti (il testo iniziale proponeva 35 minuti), nessun limite giornaliero a televendite e le telepromozioni non conteggiate nella quota massima di pubblicità (20 % orario). L’aspetto più delicato è rappresentato dall’introduzione, per la prima volta nella legislazione comunitaria, della nozione di product placement. Il testo approvato dall’Europarlamento permette, di fatto, la pubblicità occulta nei film e altri prodotti televisivi, a condizione che la presenza di qualsiasi prodotto nel programma sia segnalata prima dell’inizio e dopo la fine del programma. La direttiva europea introduce inoltre alcune regole sulla qualità delle programmazioni televisive. La pubblicità mandata in onda durante le trasmissioni per bambini non dovrà sfruttare la ”credulità infantile” ma seguire un codice di condotta che le aziende televisive dovranno sviluppare. Si richiede agli Stati membri lo sviluppo di programmi più accessibili per persone con disabilità visiva o uditiva, oltre al divieto di pubblicizzare sigarette e medicinali che richiedono la prescrizione medica. Rispetto alla pubblicità subliminale, il volume del suono non dovrà eccedere la media del volume del resto della trasmissione, mentre i programmi sponsorizzati devono essere chiaramente identificabili. Gli spot, inoltre, non dovranno recare offese in termini di discriminazione o «contro la dignità umana». In realtà, quest’ultimo voto del Parlamento europeo rappresenta solo una tappa formale (si doveva infatti solo approvare in forma semplificata l’accordo informale di conciliazione fra Consiglio e Parlamento) per l’adozione di un provvedimento già definito nelle fase precedenti. La vera battaglia si era infatti consumata prima in Commissione Cultura e poi, in Plenaria, per la prima lettura, quasi un anno fa. In questo contesto, le proposte della Sinistra unitaria europea, congiuntamente a quelle di una buona parte dei socialisti, verdi e liberali italiani, sono state sconfitte dall’asse trasversale socialisti, liberali e popolari europei. Gli emendamenti presentati dai gruppi della sinistra italiana chiedevano la proibizione del product placement, la riduzione del tetto giornaliero di pubblicità e maggior attenzione verso il pluralismo nei media. Gli stati dell’Unione europea hanno due anni di tempo per poter adattare le proprie legislazioni nazionali alla nuova direttiva ”Televisioni senza Frontiere”. N on lo nascondiamo: siamo dei sognatori; vorremmo impedire alla più grande potenza militare mondiale di mettere casa nel nostro cortile. E’ vero, siamo anche un pò testardi; ce lo hanno detto in tutte le salse: «cari vicentini, mettetevela via, gli interessi della guerra saranno più forti dei vostri presidi». Pazzi? Può darsi: del resto, chi avrebbe montato un Festival-campeggio di 10 giorni? Eppure, siamo ancora qui. In questi giorni raddoppiamo il nostro Presidio Permanente; tutto intorno, un silenzio assordante, fatto di quotidiani e telegiornali che, dopo aver assediato Vicenza in concomitanza con il grande corteo del 17 febbraio, ora non hanno più nulla da dire su un movimento che ha continuato a vivere di passione e determinazione. Un movimento che si esprime tra e con la gente di Vicenza, attraverso iniziative e manifestazioni continue: abbiamo tagliato i cavidotti funzionali alla nuova base Usa, occupato la Basilica Palladiana, piantato 150 alberi all’interno del Dal Molin; abbiamo bloccato, per tre giorni e tre notti, le bonifiche belliche - iniziate un mese fa - necessarie per iniziare la costruzione dell’installazione militare, e le donne del Presidio, sono andate a Firenze per boicottare l’ABC - azienda incaricata delle bonifiche - e proseguire la campagna dei blocchi. Con i primi blocchi dei lavori abbiamo imparato, ancor di più, ad essere una CLAUDE MONET The Economist elogia la Commissione sui voli della Cia. «Fava deputato dell’anno» C laudio Fava, europarlamentare della Sinistra democratica e relatore della commissione di inchiesta temporanea Ue sui voli Cia, è stato nominato deputato dell’anno dai lettori del settimanale European Voice, del gruppo The Economist. Il politico italiano, che sulla sua esperienza in Commissione ha scritto anche un libro, ”Quei bravi ragazzi” (2007, 208 p., brossura Editore - Sperling & Kupfer collana Saggi), si è distinto secondo i lettori del periodico per «aver ottenuto l’appoggio trasversale nell’emiciclo al rapporto sulle attività illecite della Cia in Europa». La Commissione Cia, criticata dalla lobby filo-Atlantica sin dalla sua nascita, ha tolto il coperchio sul grande calderone delle attività illecite dell’agenzie di spionaggio Usa nel territorio europeo, mettendo a nudo incredbili violazioni dei diritti umani, anche a danno di innocenti, nell’ambito delle cosiddette ”norme speciali” per la guerra al terrorismo. Decisamente da leggere il libro, dove Fava, figlio del giornalista assassinato dalla mafia, racconta i due anni come relatore con particolari e narrazione da romanzo, mettendo insieme un avvincente quadro delle relazioni euro-atlantiche e il racconto pure delle incredibili storie di uomini deportati in carceri mediorientali, torturati, abbandonati per anni dai Paesi dove risiedevano o addirittura dove sono cittadini. La Commissione, che alla fine è riuscita ad avere il voto del parlamento in una relazione di comunità; e abbiamo sentito, da tante parti d’Italia, la solidarietà e la condivisione che tante donne e tanti uomini esprimono per la lotta vicentina. Abbiamo chiesto, anche, che i 170 Parlamentari che si sono dichiarati contrari alla realizzazione della nuova base Usa mantengano la propria promessa: portare subito in Parlamento la moratoria sui lavori in attesa dello svolgimento della Seconda Conferenza sulle servitù militari e chiedere la desecreta- condanna agli abusi, ha dato voce a chi, all’interno dell’Europa, pensa che il terrorismo si batta con le armi del diritto e della democrazia. Molti sono stati poi gli altri volti noti europei premiati nelle altre categorie dal settimanale del gruppo The Economist. Viviane Reding, responsabile Ue alla comunicazione e ai media, è andata la medaglia di miglior commissario 2007 , per aver alleggerito i costi delle vacanze degli europei «convincendo i legislatori Ue a ridurre le tariffe del roaming». La collega Benita Ferrero-Waldner, responsabile alle Relazioni esterne è «diplomatico 2007” per il suo ”contributo alla liberazione dello staff medico bulgaro dalle prigioni libiche». Jean-Paul Trichet, presidente della Banca Centrale europea, è premiato per «aver difeso l’indipendenza delle banche dalle interferenze dei politici». Tra i premiati anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, per i suoi sforzi per un nuovo trattato Ue. Il britannico Richard Branson, leader della compagnia aerea Virgin, è eletto miglior businessman” per le sue iniziative volte«a ridurre le emissioni di Co2 dei voli della sua compagnia e per aver creato Virgin Fuel, per lo sviluppo di fonti energetiche alternative». Sempre l’impegno ambientale è premiato Arnold Schwarzenegger, governatore della California. Infine il russo Garry Kasparov, ex-campione di scacchi, è «cittadino modellonon-europeo» per la lotta per la libertà politica in Russia. zione degli accordi militari bilaterali. Questo, ad oggi, non è avvenuto: abbiamo già visto il Governo promettere di ascoltare la comunità vicentina e poi tradirla: c’è qualcuno che vuol seguire il solco tracciato da Prodi? Non portare subito in Parlamento la moratoria, infatti, significa comportarsi nello stesso modo del Presidente del Consiglio che, dopo aver promesso di voler considerare la vicenda alla luce della volontà della comunità locale, dichiarò dall’estero di non opporsi alle richieste statunitensi svendendo la nostra città. Lo scorso 17 febbraio, insieme, abbiamo dimostrato quanto grande è il movimento che vuol battersi contro la guerra e la militarizzazione del territorio, per la difesa della terra e la costruzione di nuove pratiche di democrazia; ma Vicenza, da sola, è insufficiente a sostenere questa lotta che, pure, accomuna gran parte della popolazione locale: Vicenza è solo un villaggio nella grande comunità che crede in un altro mondo possibile. Abbiamo bisogno, ancora una volta, della vostra condivisione, della vostra partecipazione, della vostra solidarietà. Abbiamo convocato, a dicembre, una tre giorni europea di confronto, contaminazione, approfondimento; vogliamo allargare i nostri orizzonti, conoscere nuove comunità, condividere altre lotte. Ma vogliamo, anche, dimostrare che la vicenda del Dal Molin è ancora aperta: per questo il 15 dicembre un grande corteo attraverserà le strade della nostra città. Abbiamo sempre detto che ”se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia”: vi chiediamo di condividere il nostro sogno, ancora una volta, perché una terra senza basi di guerra possa diventare realtà. Se non ora, quando? Vicenza chiama, ancora una volta: e noi siamo sicuri che risponderete in tanti. Perché Vicenza vive già al di fuori dei suoi confini. Presidio Permanente, Vicenza 27 novembre 2007 Il 1 novembre è stata approvata la risoluzione Onu che ne denuncia la pericolosità Usa, Israele, Inghilterra, Francia, Repubblica Ceca e Olanda gli unici Paesi contrari Leucemie, tumori, natura e vite distrutte E’ ora di bandire l’uranio impoverito segue dalla prima di Luisa Morgantini N onostante queste drammatiche, ripetute e documentate evidenze, hanno votato contro la risoluzione delle Nazioni Unite, i Paesi dotati di arsenali di armi all’uranio, ovviamente: gli Usa, Israele, Inghilterra, Francia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi, quest’ultimi membri dell’Unione Europea non hanno minimamente tenuto in conto di come, sin dal 2001, il Parlamento Europeo abbia chiesto più volte l’introduzione di una moratoria nell’uso di questi ordigni. Invece di seguire l’esempio del Belgio che, primo paese al mondo, il 7 marzo di quest’anno ha senza mezzi termini messo al bando l’uso di armi, corazze, equipaggiamenti militari all’uranio impoverito per le conseguenze dannose derivanti dal suo grado elevatissimo di tossicità chimica, l’industria bellica tende al contrario a nascondere le cifre e i fatti: gli oltre 11mila soldati Usa, che a partire dal 1991 sono morti a causa della sindrome della guerra del Golfo (le cifre son dell’americana Veterans for Constitutional Law Society), ma anche le innumerevoli malformazioni causate dalle nanoparticelle ai figli di militari e ai civili in Somalia, Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libano. Inutile dire che quando si tratta di riciclare materiale radioattivo per rafforzare gli armamenti anche le gerarchie militari e gli Stati, oltre all’industria bellica, hanno le loro responsabilità: le omissioni e i segreti militari, la mancata attuazione delle norme di protezione e del principio precauzionale, la negazione degli indennizzi agli ammalati hanno contribuito a insabbiare di fatto la pericolosità dell’uranio e la possibilità di evitare tante morti. Anche in Italia. Proprio nel nostro paese abbiamo assistito di recente ad un’indegna guerra di cifre sulle vittime dell’uranio tuttora all’esame della Commissione di inchiesta istituita ad hoc e che visti gli innumerevoli capitoli ancora aperti sull’uranio e sulle sue vittime, prolungherà il suo mandato anche oltre il 31 dicembre. Di fatto comunque, per l’Anavafaf, l’associazione che tutela le vittime in uniforme, per bocca del suo Il Belgio, primo paese al mondo, il 7 marzo ha messo al bando l’uso di armi, corazze, equipaggiamenti militari all’uranio impoverito per le conseguenze dannose derivanti dal suo grado elevatissimo di tossicità chimica Presidente Falco Accame che sull’argomento nel 2006 ha scritto l’importante volume ”Uranio Impoverito: la verità” (scaricabile gratuitamente dal sito http://inchiestauranio.blogspot.com) «il trattamento ufficiale del problema dell’uranio impoverito è indecente, abbiamo avuto morti e malati di tumore nella guerra del Golfo, nel ’91, poi in Somalia nel ’93, poi in Bosnia nel ’94: è sconfortante constatare che ancora oggi non si disponga di una base attendibile necessaria per effettuare uno studio epidemiologico serio». Per il ministero della Difesa - rettificando le proprie stime originarie che parlavano di 255 malati di cancro e di 37 decessi tra i militari italiani che negli ultimi dieci anni hanno partecipato a missioni all’estero- sarebbero 1.682 i soldati colpiti da tumore a causa dell’uranio impoverito. Un altro studio in arrivo da parte dell’Osserva- torio Militare però già parla di 2536 casi di tumore riscontrati e di almeno 156 decessi già verificati. Ma aldilà del drammatico balletto di cifre, al centro anche dell’inchiesta «Uranio impoverito», i conti non tornano” di Maurizio Torrealta e Flaviano Masella in questi giorni in onda su Rainews24 (sabato alle 7.03, domenica alle 18.03 e lunedì alle 3.33), resta comunque inaccettabile l’assenza di qualsiasi trasparenza sulle missioni militari e sull’attività dei poligoni italiani: «una delle difficoltà maggiori incontrate finora sono state proprio le ostilità e le reticenze delle autorità militari» ha dichiarato Mauro Bulgarelli, senatore dei Verdi e Vice Presidente della Commissione d’inchiesta sull’Uranio impoverito, che ha già chiesto la chiusura del poligono di Salto di Quirra, in Sardegna «almeno fino a quando non sarà fatta piena luce sul nesso esistente tra le attività che si svolgono al suo interno e l’abnorme percentuale di malattie neoplastiche che sono state riscontrate tra la popolazione dei centri circostanti». A favore di un urgente risanamento dei tanti siti inquinati dall’attività dei poligoni e delle basi si è espresso più volte anche Francesco Martone, Senatore Prc, precisando che «la Sardegna, gravata da decenni da un’abnorme presenza di insediamenti militari, ha certo bisogno di finanziamenti da destinare soprattutto alla bonifica» piuttosto che all’organizzazione del vertice G8 del 2009 all’isola della Maddalena, «che sarebbe una vera calamità». Purtroppo però sempre nuovi casi di vittime dell’uranio impoverito vengono segnalati e molto spesso in forma non ufficiale: l’ultimo è del 15 novembre, arriva dall’Anavafaf e riguarda un militare di Sparanise, in provincia di Caserta, operante nel Reggimento di stanza a Vercelli ma che potrebbe essere stato contaminato dall’uranio impoverito durante un’esercitazione nel poligono di Teulada. Oppure la preoccupazione degli abitanti di Frigole nel Salento già formalizzata in un’interrogazione parlamentare presentata dall’On. Teresa Bellanova (Ds) e indirizzata al Ministro della Difesa Arturo Parisi per indagare se nel Poligono di Torre Veneri, adiacente al paese, si faccia uso di uranio impoverito vista l’alta incidenza di patologie neoplastiche verificatesi in quei luoghi soprattutto negli ultimi anni. Sulla salute dei cittadini non sono ammesse ignavie, negligenze né segreti di stato: l’uso di armi all’uranio ha conseguenze devastanti e irreparabili, è una violazione della legge umanitaria internazionale e il loro utilizzo deve essere messo al bando immediatamente mentre deve essere garantita la massima trasparenza sui luoghi dove queste armi sono state e continuano ad essere usate, evitando ulteriori contaminazioni. Se la finanziaria 2007 ha destinato 170 milioni di euro ”per risarcire le vittime del dovere” - tra queste anche chi si è ammalato in Bosnia e Kosovo, contaminati dai bombardamenti degli Usa, a cui spetterebbe l’onere dei risarcimenti - e se il Senato ha dimostrato fi- L’industria bellica nasconde gli oltre 11mila soldati Usa morti a causa della sindrome della guerra del Golfo, come le malformazioni causate dalle nanoparticelle ai figli di militari e ai civili in Somalia, Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libano nalmente una certa sensibilità con il via libera alla costituzione di un fondo da 30 milioni di euro (10 milioni per ogni anno dal 2008 al 2010) per i danni ”di coloro che abbiano contratto infermità o patologie tumorali connesse all’esposizione e all’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito”, altrettanta decisione si dovrebbe mostrare nei confronti di chi specula con questo mercato di morte: l’Ogn belga Netwerk Vlandereen ha pubblicato uno studio intitolato ”Too risky for business - Financial Institutions and Uranium weapons”. Nel rapporto compaiono 50 banche che hanno rapporti con tre imprese statunitensi produttrici di armi all’uranio impoverito: la Allianz Techsystems (Atk), la General Dynamics Ordnance and Tactical Systems e la GenCorp. La maggior parte degli istituti di credito finanziatori sono statunitensi, ma vi sono anche –tra le altre- banche tede- sche, francesi e una italiana, Intesa Sanpaolo IMI, che nell’estate del 2003 avrebbe partecipato con 22 milioni di dollari a un prestito obbligazionario emesso dalla General Dynamics per coprire debiti preesistenti. «Poco più di un anno fa mi è stato diagnosticato un tumore, molto probabilmente per una contaminazione da uranio impoverito subita in Iraq forse, o in Afghanistan, o in Somalia o in un altro dannato posto di guerra. Sono storie spesso taciute, ma reali e diffuse» ha scritto il giornalista di guerra Mimmo Candito nell’articolo ”Soldati, reporter e civili contaminati dall’uranio” pubblicato il 9 novembre scorso su La Stampa. Vale la pena concludere con un pensiero a lui e ai costi umani, orribili, dell’uranio impoverito: «Sì, è la guerra. Ma, delle decine di migliaia di civili senza nome, senza divisa, senza storia, che in quei territori contaminati, in Iraq, in Afghanistan, nel Kosovo o in Bosnia o in Somalia, ha continuato a vivere inconsapevole la propria quotidianità, della loro sorte, dei loro tumori, chi mai si è interessato? Chi ha cercato di raccontarne la cronaca, le sofferenze, la fine tragica? Il reporter ha un giornale per scriverne, i soldati hanno le associazioni che li tutelano; ma quegli iracheni, quegli afgani, quei bosniaci o kosovari senza nome né uniforme, dove mai troveranno una voce che venga fuori dalla loro storia finita per sempre e dia certezza di chi davvero li ha ammazzati?» (Mimmo Candito, ” Soldati, reporter e civili contaminati dall’uranio” 9 novembre 2007 La Stampa). E’ urgente che il nostro governo faccia come il Belgio, nel Parlamento Europeo continueremo ad insistere e sostenere la Campagna per la messa al bando delle armi al’uranio impoverito. inserzione pubblicitaria della delegazione di Rifondazione Comunista del gruppo GUE/NGL al Parlamento Europeo dicembre 2007 III Per l’Italia agricola la minaccia dei “tarocchi” I Vincono i ”nuovi produttori”, paesi nordici e multinazionali, che potranno usare zuccheri e sofisticazioni per competere con le uve milgiori del Sud Riforma vino, da Bruxelles colpo all’Italia Ci rimettono i contadini e la qualità di Vincenzo Aita I l Ministro De Castro era a Bruxelles questa settimana in occasione della riunione del Consiglio dei Ministri dell’Agricoltura dell’Unione Europea: in agenda non vi era la negoziazione sulla Riforma dell’Organizzazione Comune di Mercato sul vino, ma una sua dichiarazione su tale spinoso dossier non si è fatta attendere, e il giudizio è stato perentorio. «Il risultato del voto in Commissione al Parlamento Europeo è addirittura peggiorativo per il settore italiano rispetto alla proposta iniziale della Commissaria Fisher Boel». E come dargli torto. Nonostante il relatore fosse un italiano, l’On. di Forza Italia Castiglione, con una provata esperienza nel settore agricolo, quale Assessore all’Agricoltura alla Regione Sicilia, l’Italia ha persona una partita importante sul fronte. Sotto le pressioni provenienti dai paesi del Nord Europa, il compromesso raggiunto penalizza, infatti, i vini dell’area del Mediterraneo, proprio quelli che hanno fatto grande il settore europeo e che hanno dato fama alla viticoltura del vecchio continente. Nello specifico, l’accordo prevede, oltre al già previsto sradicamento di 200mila ettari, la possibilità di effettuare arricchimento attraverso zucchero, esclusa invece dalla Commissione Euro- pea. Non solo: si prevede che il limite all’aumento del tasso alcolometrico naturale attraverso l’uso di glucosio posso arrivare ad un livello pari al 4,5%, permettendo, di fatto, di vinificare uve che hanno un tasso alcolico di base di soli 6 gradi alcolici. Ma ai danni al nostro comparto vanno addirittura oltre; oltre a favorire le uve del nord Europa, per natura caratterizzate da un grado zuccherino particolarmente basso, d’ora in avanti si potranno trovare sul mercato prodotti non derivanti da uva, bensì da frutta, come D’ora in avanti si potranno trovare sul mercato prodotti non derivanti da uva, bensì da frutta, come ad esempio il vino da mele ad esempio il vino da mele (apfel wein) Quello che è interessante è vedere come la riforma, nella sua forma attuale, derivante anche dagli accordi all’interno del Consiglio (che vedono già affermarsi le posizioni dell’asse nordico a favore dello zuccheraggio), stia andando in senso contrario all’obiettivo fondamentale prefissatosi inizialmente. Aldilà della valutazione sulla sua opportunità o meno, la riforma partiva da un’esigenza di rispondere ad un mercato caratterizzato da un eccesso di produzione, a cui si è ten- tato di rispondere attraverso 2 vie: fondi per lo sradicamento da un lato e la soppressione dell’arricchimento da zucchero e mosto, dall’altro, togliendo quindi dal mercato stesso quelle uve meno zuccherine, che naturalmente non avrebbero potuto essere vinificate. La situazione ora invece si è completamente capovolta: mantenendo lo sradicamento e allo stesso tempo permettendo lo zuccheraggio, l’effetto finale sarà quello di perdite di quote produttive nel sud Europa, dove si concentrano maggiormente le aziende agricole di più piccole dimensioni, che agiscono al di fuori del sistema delle grandi multinazionali della distribuzione e della commercializzazione. E proprie tali multinazionali saranno avvantaggiate anche dallo schema di liberalizzazione dei vigneti, che si realizzerà a partire dal 2013. Tale proposta di riforma ha ottenuto solo 7 voti contrari in Commissione: ciò che se ne deriva è che buona parte dei deputati europei appartenenti all’aerea della maggioranza di governo in Italia si sono dichiarati a favore dello smantellamento del sistema vitivinicolo italiano e delle sue specificità biologiche e produttive. Speriamo almeno che si possa costruire in vista della votazione in plenaria un’azione comune da parte dei paesi del sud Europa affinché tale riforma assuma un L’effetto finale sarà quello di perdite di quote produttive nel sud Europa, dove si concentrano maggiormente le aziende agricole di più piccole dimensioni connotato finalmente più positivo. I margini di miglioramento in Parlamento esistono e possono rappresentare se non un appiglio di tipo vincolante almeno di carattere politico per i negoziatori in Consiglio a fine Dicembre. Il contrattacco si potrebbe basare su una strategia volta ad ottenere alcuni risultati centrali: un no allo zuccheraggio e alla commercializzazione di vini da frutta; la possibilità di arricchire le uve attraverso il mosto, un metodo questo sicuramente più costoso dello zuccheraggio ma che potrebbe essere accompa- La Germania vuole diventare il modello globale su clima anche perché conviene L’Ambiente non è solo un dovere ma un’occasione Merkel e la Germania lo hanno capito, l’Italia no di Ivan Bonfanti S e c’è una cosa da cui il grado di civilizzazione di un popolo specchia il progresso delle società di cui si è dotato, è quando i singoli individui di una comunità sono chiamati ad affrontare esigenze collettive, riuscendo a percepirle e trasformarle in piccoli gesti privati come in grandi scelte politiche. E’ precisamente il caso dell’ambiente, con l’emergenza climatica che chiama da un lato i privati cittadini a un processo di responsabilizzazione rispetto alle risorse e ai consumi, dall’altro gli Stati e i governi a favorire questo processo e a mettere a punto strategie e infrastrutture per gestirlo in modo adeguato. Non è casuale che in alcuni Paesi l’educazione generale abbia conseguito risultati positivi, dal riciclaggio ai consumi energetici al rispetto dei diritti degli animali, mentre altrove solo l’imminente collasso del pianeta terra sta, lentamente, producendo qualche pigro cambiamento. Che rischia di non bastare. L’Europa è un esempio lampante di come educazione ambientale e ignoranza siano ripartite in modo trasver- sale. In Scandinavia, in Germania e nei Paesi della fascia nordica la sensibilità al tema ambientale dei cittadini è altissima, ormai anche trasversale tra desta e sinistra, con un’opinione pubblica che spinge la politica, e viceversa. Non che l’ambiente sia ovunque rispettato o che non continuino assurdi sprechi energetici, ma tutto sommato la bilancia tra gli ambientalisti e i gruppi economici che continuano a negare il problema in modo criminale si sta orientando finalmente verso i primi. In Italia, esempio opposto, l’ignoranza generale favorisce l’irresponsabilità banditesca di chi gestisce al cosa pubblica, e l’ambiente fatica ad imporsi come necessità, dovere o responsabilità collettiva. L’Italia nonostante le sue dimensioni ridotte è al decimo posto della classifica mondiale dei Paesi che emettono più anidride carbonica e pesa l’1.7% sul bilancio delle emissioni globali, con una media di 7.8 tonnellate di Co2 per ogni suo abitante. Si tratta di un livello di emissioni inferiore a quelle di molti paesi europei e degli Stati in testa alla classifica dei ”trasgressori”: Usa, Russia e Cina. Ma rimane comunque un dato elevatissimo, frutto di una politica ambientalista che al contrario degli altri Paesi europei rispecchia una divisione politica che, nel nostro Paese più che altrove, vede la sinistra generalmente schierata dalla parte ambientalista e la destra che nega il problema, naturalmente con molte eccezioni dall’una e dall’altra parte. L’Europa resta alta nella lista dei Paesi inquinanti, ma qualche progresso lo si registra, per esempio nei raggiungimenti del protocollo di Kyoto che chiede ai 15 Paesi fondatori di ridurre entro il 2012 l’8% delle emissioni. Poca roba, ma comunque un inizio che già sta facendo scuola. In particolare è la Germania guidata dalla cancelliera Angela Merkel ha deciso di non limitarsi agli obiettivi fissati dall’Unione, ma di puntare ancora più in alto, con un ambiziosissimo piano per arrivare ad una riduzione del 40% entro il 2020. Una scelta impensabile in Italia, che tuttavia non nasconde solo la responsabilità rispetto ad un’emergenza mondiale e la maggiore educazione ambientaliste del popolo tedesco. La signora Merkel e il suo mi- nistro dell’Ambiente Sigmar Gabriel hanno capito come questa sia anche un’occasione per proiettare l’economia tedesca nel Ventunesimo Secolo, se è vero che quello legato all’ambiente, e in particolare quello delle energie alternative ai combustibili fossili, sarà uno dei business a maggiore crescita. «Il Programma Integrato per l’Energia e il Clima è la cornice entro la quale la signora Merkel fa rientrare i suoi obiettivi. In essenza, - scriveva il Corriere della Sera in un ampio reportage sul tema - la cancelliera ha un piano per ridurre le emissioni tedesche di anidride carbonica del 40% (rispetto al livello del 1990) entro il 2020. E vuole che in quell’anno le energie rinnovabili arrivino a coprire il 20% di tutte le fonti, dall’8% o 12% attuale (a seconda di chi fa i calcoli). Se riuscisse in questo secondo obiettivo, la Germania diventerebbe il modello globale di lotta al ”pianeta caldo”. E conquisterebbe un vantaggio competitivo in fatto di tecnologie del vento, del solare delle biomasse sugli altri Paesi». Quanto a Kyoto l’Unione Europea è vicina al raggiungimento dei suoi obiettivi dell’8 per cento, anche se so- lo riteuti molto bassi rispetto alle esigenze reali del pianeta e rischiano di essere un pagliativo. «L’Ue - si legge in un comunicato della Commissione - si sta avvicinando agli obiettivi di riduzione dei gas serra fissati a Kyoto, ma per la riuscita dell’impresa occorre adottare e mettere in atto al più presto altre iniziative». Secondo la Commissione, «dalle ultime proiezioni fornite dagli Stati membri si desume che i provvedimenti già in atto, uniti all’acquisto di crediti di emissione da paesi terzi e alle attività di forestazione che assorbono carbonio dall’atmosfera, serviranno a ridurre le emissioni dell’UE-15 del 7,4% nel 2010 rispetto ai valori dell’anno scelto come riferimento. In questo modo l’obiettivo da raggiungere per il 2012 (-8%) sarà a portata di mano». Tuttavia, anche in questo caso, per l’Italia il dato è meno positivo: in effetti, secondo la tabella diffusa a Bruxelles anche attuando tutte le misure il nostro paese resterà indietro di 0,5% rispetto all’obiettivo intermedio pari al 6,5% di riduzione entro il 2010. Il messaggio implicito è chiaro: l’Italia deve intensificare gli sforzi. Peggio di noi fa la Danimarca (2% punti di di- vario dall’obiettivo 2010) e soprattutto, la Spagna (ben 14,2%), sempre utilizzando a pieno tutte le misure. I più virtuosi sono invece, nell’ordine, il Regno Unito (11,2% di taglio in più rispetto all’obiettivo), la Svezia (10,4%) e la Germania (4,7%). «Le ultime proiezioni - ha dichiarato il commissario all’Ambiente, Stavros Dimas mostrano che l’obiettivo di Kyoto sarà raggiungibile dopo che gli Stati membri avranno adottato e messo in atto le iniziative supplementari attualmente in discussione. Personalmente li sollecito pertanto a farlo al più presto». Dimas ricorda che ”la Commissione ha già dato un importante contributo alla realizzazione dell’obiettivo di Kyoto con le sue decisioni sui piani nazionali di assegnazione delle quote per il 2008-2012 nell’ambito del sistema Ue di scambio delle quote di emissione». Per quanto riguarda i 12 nuovi stati membri che hanno aderito all’Ue nel 2004 e nel 2007, la maggior parte ha obiettivi nazionali di riduzione del 6% o dell’8% rispetto ai valori dell’anno di riferimento. Gli unici Stati membri che non hanno impegni da onorare sono Cipro e Malta. gnato da una linea di budget europeo in grado di coprire la differenza di costi tra le due pratiche; infine, l’eliminazione dello sradicamento, re-indirizzando quei fondi previsti a tale scopo a favore, invece, di procedure di riconversione dei vigneti. Europa Sorpresa, le foreste ora crescono L e foreste europee hanno ripreso a crescere, ad un ritmo peraltro superiore alle aspettative. Il dato, sorprendente, potrebbe dare un aiuto non da poco agli obiettivi di ridurre le emissioni. Le foreste e i boschi dell’Europa, in declino costante fino agli anni ’70, si sono espanse del 10% all’Ovest e del 15% all’Est dal 1990 al 2005, conclude uno studio dell’università di Helsinky. Gli alberi hanno l’effetto di raccogliere il diossido di carbonio, e secondo gli scienziati la sola crescita delle foreste ne assorbe 126 millioni di tonnellate derivanti dall’attività umana, l’11 per cento del totale. A guidare la classifica la Lituania, Lettonia, Svezia, Slovenia, Bulgaria e Finlandia, mentre la chiudono il Belgio, Irlanda, Danimarca e Cipro. Dal 1990 la crescita delle foreste ha contribuito alla lotta alle emissioni almeno quanto tutte le misure prese dagli Stati per promuovere energie rinnovabili. Secondo lo studio, datato 2006, per la prima volta nel 2000 si è invertita la tendenza sulla deforestazione in tutto il mondo. l pericolo per l’agroalimentare italiano ed europeo si chiama Cina. Un dato per tutti: il 75 per cento dei 255 milioni di articoli contraffatti sequestrati, nel 2006, nell’Unione europea provengono dal paese asiatico. E i tarocchi agroalimentari tolti dal commercio ammontano a più di 8 milioni. E’ quanto emerso dal convegno a Bruxelles promosso dalla Cia-Confederazione italiana agricoltori e dall’Unione avvocati europei sulla tutela comunitaria dei prodotti agroalimentari Ue. Oltre che dalla Cina, che ormai sta invadendo con prodotti ”taroccati” i mercati di tutta Europa, soprattutto quello italiano, gli agroalimentari sequestrati provengono - afferma la Cia - per il 14 per cento da Hong Kong e per il 4 per cento dal Taiwan. A seguire Svizzera, Repubblica Araba, Turchia, Ucraina e Russia. Le esportazioni cinesi, tuttavia, rappresentano l’elemento più preoccupante. In Italia, in particolare, si registra una vera e propria invasione di derivati del pomodoro (cresciuti di oltre il 130 per cento), di aglio (più del 20 per cento), di mele, di funghi e di verdure in scatola. Tutti prodotti che possono essere facilmente spacciati come ”made in Italy”, proprio per la mancanza dell’obbligo di indicare in etichetta la provenienza. Non solo. Ci possono essere anche rischi per la salute, visto che tantissime confezioni come è stato denunciato dalle stesse forze preposte ai controlli e alla vigilanza mancano nell’etichetta elementi essenziali, come quello relativo alla scadenza. Tra i prodotti maggiormente falsificati sottolinea la Cia- troviamo le sigarette, l’abbigliamento e gli strumenti tecnologici, profumi, medicinali, Cd, Dvd, materiali elettrici, orologi, oggetti di bigiotteria. Ma è proprio nell’agroalimentare che si riscontra una crescente contraffazione. I prodotti contraffatti -avverte la Cia - risultano quelli a denominazione d’origine, Dop e Igp, il cui peso economico nell’Unione europea è crescente. Nel 2006 il fatturato Ue al consumo di questi prodotti è stato di 32 miliardi 500 milioni di euro, con un aumento del 3,5 per cento. Consistente anche l’export: sempre l’anno scorso è stato di 4 miliardi 890 milioni di euro, con un incremento del 9,4 per cento nei confronti del 2005. Attualmente i prodotti europei Dop e Igp riconosciuti sono 776, ma in lista di attesa per il riconoscimento da parte dell’Ue ce ne sono moltissimi. Tanti dossier di richieste provengono dai nuovi stati membri, Romania in testa. Davanti questi problemi - conclude la Cia - occorre immaginare un approccio diversificato alla tutela delle nostre produzioni di qualità. Tra gli strumenti a disposizione vi sono i rapporti bilaterali con i paesi partner, le sinergie di sistema tra produttori e distributori, il rafforzamento della tutela legale contro i fenomeni dell’agropirateria. E’ necessario, in primo luogo, impostare una vera politica commerciale, che fissi obiettivi e priorità oggi non ancora evidenti in Italia. IV dicembre 2007 Salviamo lo sport dai violenti Senza calpestare i diritti Non servono leggi speciali negli stadi, basterebbe applicare bene cio’ che è già previsto dalle legislazioni in vigore Va favorita la cooperazione tra questure per individuare i soggetti pericolosi, ma occorre anche prevenire con l’educazione allo sport di Giusto Catania I l 28 e 29 novembre a Bruxelles si è svolta un conferenza dal titolo “Verso un strategia europea contro la violenza nello sport”, organizzata dalla Commissione Europea. L’iniziativa è stata introdotta dal Commissario europeo allo sport, Jan Figel; dal sottosegretario allo sport Diamantino Dias; dal Vice-presidente della Commissione Giustizia del Parlamento Europeo, Giusto Catania. Le conclusioni sono state affidate al Vice-presidente della Commissione Europea, Franco Frattini; dal Ministro degli Interni portoghese Rui Periera e da Michel Platini, presidente dell’Uefa. Sotto riportiamo l’intervento integrale del parlamentare di Rifondazione e del Gue/Ngl, Giusto Catania. In occasione degli incontri di calcio, negli ultimi anni, abbiamo assistito a ricorrenti e costanti manifestazioni di violenza che, di fatto, hanno trasformato la natura spettacolare delle stesse manifestazioni sportive. Troppi episodi di violenza, tante manifestazioni di intolleranza, espliciti atti di xenofobia e razzismo hanno caratterizzato la metamorfosi di uno degli sport più amati e seguiti dal popolo europeo. Questi fatti, purtroppo, non sono stati eventi isolati, ma sono iscritti in una trasformazione generale del calcio che lentamente ha perso la sua valenza agostico-sportiva per trasformarsi in una fiorente industria economico-finanziaria. Numerose solo le società sportive ormai quotate in Borsa con un giro astronomico di capitali. Il calcio, oltre che diventa necessario attuare misure adeguate al fine di far disputare le partite nella massima tranquillità e sicurezza per gli spettatori, evitando manifestazioni di violenza e di razzismo. Purtroppo negli stadi la violenza si diffonde. Quest’anno si sono susseguiti drammatici eventi: personalmente da siciliano sono rimasto particolarmente scosso delle morte del poliziotto Filippo Raciti, che ha perso la vita in occasione dell’incontro tra Catania e Palermo. La morte di un poliziotto in servizio di ordine pubblico allo stadio mostra che la violenza delle frange estreme di presunti tifosi si accanisce anche contro le forze dell’ordine e non soltanto nei confronti dei tifosi della squadra avversaria. Nel corso dell’ultimo anno potremmo citare vari episodi: a Madrid nel febbraio 2007, in occasione del derby tra Atletico e Real, abbiamo assistito a scene terribili e ad autentici momenti di paura, numerosi feriti nel derby di Belgrado tra Stella Rossa e Partizan; nella partita tra Arsenal e Chelsea la rissa ha coinvolto perfino i calciatori, i quali hanno mostrato una pessima professionalità. Venti giorni fa un tifoso italiano, presumibilmente coinvolto in una rissa tra tifosi che andavano allo stadio, è stato ucciso da un poliziotto in una stazione di servizio dell’autostrada. Una tragedia che ha avuto un impatto fortissimo sul mondo del calcio, malgrado si sia svolta in un contesto estraneo allo svolgimento della partita. Del resto accadimenti simili non riguardano solo le categorie maggiori ma sempre più anche quelle minori e questo induce notevole preoccupazione per il livello di infiltrazione della violenza nello sport. L’azione di prevenzione in occasione delle partite di football è la priorità e deve assolutamente sostituirsi alle azioni repressive e alla militarizzazione degli stadi che sembra ormai diventare la prassi più consolidata nel contrasto alla violenza negli stadi. La militarizzazione degli stadi non è, in sè, un deterrente alla violenza, anzi spesso la presenza massiccia di forze dell’ordine rischia di essere percepita come un elemento di provocazione o come l’indice di un surriscaldamento immotivato degli animi. La scelta di privilegiare l’opzione repressiva, che sempre più sta prendendo corpo nelle legislazioni nazionali, non è da incentivare e rischia di aumentare ostilità tra le forze di polizia e i tifosi, oltre che di produrre una pericolosa generalizzazione sul grado di Uno sport amato e meraviglioso che lentamente ha perso la sua valenza agostico-sportiva per trasformarsi in una fiorente industria economico-finanziaria pericolosità di tutte le persone che si recano allo stadio. In alcuni paesi europei è stata introdotta la punizione di interdizione dallo stadio, ma spesso ci sono stati abusi nell’applicazione di questa norma, poiché essa si realizza in assenza di qualsiasi condanna per atti violenti allo stadio ma, esclusivamente, nei confronti di soggetti solo sospettati, a seguito di informazioni fornite dai servizi di sicurezza. Tali provvedimenti generalmente non colpiscono le singole persone che, secondo il principio della responsabilità penale individuale (il quale rimane un caposaldo da salvaguardare nel nostro sistema giuridico), non meritano più di accedere allo stadio; ma colpiscono generalmente, in modo indistinto, soggetti che fanno parte di determinati gruppi di tifoseria organizzata, considerata a rischio. Spesso per impedire la partecipazione di gruppi di tifosi agli incontri di calcio internazionali si è proceduto con la restrizione dello spazio di circolazione delle persone, reintroducendo il controllo alle frontiere interne dei paesi firmatari degli accordi di Schengen. Già nel 2001, il Parlamento Europeo ha denunciato la trasformazione di una misura eccezionale in una regola ordinaria che, di fatto, ha limitato la libera circolazione dei cittadini in modo assolutamente inaccettabile. Bisogna, invece, insistere molto sulla prevenzione, a partire dalla necessità di migliorare, in occasione degli incontri internazionali, il ruolo delle cosiddette ”antenne nazionali.” Il 25 aprile 2002 il Consiglio ha adottato una decisione che prevede la creazione, in ciascuno Stato membro, di un punto nazionale d’informazione sul calcio che funge da punto di contatto per lo scambio delle informazioni di polizia in relazione alle partite di calcio internazionali. Negli ultimi anni il numero dei tifosi che si recano a vedere partite all’estero è costantemente aumentato. Pertanto, è necessario che gli organismi Troppe manifestazioni di intolleranza, espliciti atti di xenofobia e razzismo hanno caratterizzato la metamorfosi del calcio ad essere uno sport molto popolare, rappresenta un evento di grande impatto spettacolare, tanto da avere indotto aziende di telecomunicazione a fare grandi investimenti per l’acquisizione dei diritti televisivi delle partite di calcio. Questo elemento ha contribuito ad una lenta ed inesorabile trasformazione degli eventi sportivi, caricandoli di una valenza estranea alla stessa natura dello sport e alimentando, di conseguenza, una rottura dello spirito collettivo. Si è prodotta una competizione economica che ha determinato la rottura del senso di appartenenza ad una collettività definita; si è rinunciati alla messa in scena corale in cui si riconosce la propria partecipazione attiva ad un processo collettivo ed unitario, a prescindere dalla propria appartenenza ad una singola comunità di tifosi. Malgrado, il ruolo della televisione sia aumentato moltissimo in questi anni, il calcio non puo’ vivere senza pubblico. Tutte le volte che si sceglie di far disputare una partita senza spettatori, è una grave sconfitta per l’essenza stessa dello sport. La partecipazione del pubblico è un elemento insito nella “spettacolarizzazione dell’evento”, organico alla stessa genesi degli incontri di calcio. La presenza di pubblico negli stadi è necessario, senza tale presenza la stessa valenza sportiva, oltre che ovviamente quella spettacolare, sarebbe privata di un suo elemento obbligatorio e fondamentale. Alla luce di tali considerazioni è necessario acquisire il fatto competenti rafforzino la loro cooperazione e professionalizzino lo scambio di informazioni al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico e di consentire a ogni Stato membro di effettuare un’efficace valutazione dei rischi. Recentemente sono state avanzate alcune modifiche, esse rappresentano il risultato delle esperienze raccolte da vari punti nazionali d’informazione sul calcio nel loro lavoro quotidiano e dovrebbero consentire di lavorare in modo più strutturato e professionale, assicurando lo scambio di informazioni di alta qualità. Ma in assenza di una definizione giuridica sul fenomeno dei tifosi violenti (hooligans), la vaga definizione di ”supporter ” rischia di coinvolgere tutti i cittadini che rischiano essere individuati come potenziali turbatori dell’ordine pubblico o propensi a comportamenti anti-sociali. I punti nazionali di informazione sul calcio, “le antenne” incaricate di monitorare la presenza dei tifosi negli stadi e di acquisire dati sulla natura delle tifoserie organizzate, sono uno strumento utile che deve, tuttavia, funzionare esclusivamente in applicazione delle legislazioni nazionali e in attuazione delle direttive europee e della convenzioni internazionali a tutela dei dati personali. Non è accettabile trasformare lo stadio in un territorio “extra legem”, occorre evitare abusi nel controllo di tutti i cittadini che, in quanto tifosi di una squadra di calcio, rischiano di essere classificati come potenziali criminali e, allo stesso tempo, evitare che reati commessi all’interno o in prossimità dello stadio siano derubricati come fenomeni scatu- riti da eccesso di tifo in un “contesto de-criminalizzato”. Non servono leggi speciali per prevenire atti di violenza negli stadi, basterebbe applicare bene cio’ che è già previsto dalle legislazioni in vigore. È un elemento di tutela per tutti, evitando attuazione di regole o norme, dettate da logiche emergenziali, che non garantiscono la stessa protezione dei diritti umani e delle libertà individuali. Con lo stesso spirito, i dati acquisiti dalle “antenne nazionali” in occasione degli incontri di football internazionali devono essere conservati ed utilizzati esclusivamente in occasione degli incontri di calcio e non possano essere messi a disposizione delle autorità giudiziarie per altre attività investigative estranee alle manifestazioni sportive. In caso contrario, la funzione delle antenne nazionali rischierebbe di trasformarsi da strumento di prevenzione degli atti di violenza negli stadi a strumento di controllo sociale che agirebbe in modo indiscriminato. L’esperienza dei punti di comunicazione nazionale potrebbe essere estesa anche a livello locale, favorendo, in questo modo, una specializzazione delle forze di polizia in un’azione preventiva di supporto al servizio di ordine Ma nonostante i miliardi delle tv gli stadi si sono svuotati anche perché si è trattato il fenomeno solo come ”ordine pubblico” e nell’emergenza pubblico negli stadi. Si potrebbero istituire delle ”antenne locali” che abbiano il compito di individuare i soggetti a rischio, in un costante scambio di informazioni tra le questure. Tuttavia, un’azione seria di contrasto della violenza negli stadi non può essere oggetto esclusivo della cooperazione di polizia. Occorre in via prioritaria un’azione culturale e sociale che privilegi la prevenzione e l’educazione ai valori interculturali dello sport. Non servono scorciatoie né esistono modelli applicabili in ogni contesto. Non è esportabile in tutta Europa, cosi come afferma qualcuno, il modello inglese in cui il costo del biglietto è ormai inaccessibile alle tasche perfino dei ceti medi e la sicurezza interna è garantita esclusivamente da agenzie private e da un sistema di video-sorveglianza da grande fratello. Mentre mi sembra praticabile l’idea di istituire posti nominativi per tutti, a condizione che i dati di colui che acquista il biglietto vengano distrutti il giorno dopo della partita. Bisogna soprattutto rilanciare il dialogo con le curve. In occasione del Campionato Europeo di calcio del 2000 fu sperimentato il modello ”friendly but firm” che, stabilendo una separazione tra le frange di violenti e il resto del pubblico, ha favorito un’accoglienza amichevole, addirittura festosa, basata su una certa fiducia reciproca tra forze dell’ordine e pubblico. L’assenza di incidenti nei tornei internazionali in cui è stato applicato questo piano conferma che la sicurezza sugli incontri di calcio è strettamente legata alle azioni preventive e al dialogo diretto con i tifosi. Essi devono sempre essere considerati parte integrante dell’evento sportivo e spettacolare e, cosi come calciatori e società, non possono subire provvedimenti imposti dall’alto. Le organizzazioni dei tifosi devono essere riconosciute come interlocutrici privilegiate per giungere ad un piano condiviso nella gestione della sicurezza pubblica negli stadi. Eliminare la violenza è l’unico modo serio per salvare la natura di questo grande sport popolare, per tutelare, come dice Edoardo Galeano, le miserie e lo splendore del gioco del calcio. Al Parlamento europeo l’incontro con le associazioni che lavorano, all’insegna della non violenza, in zone di guerra «A fianco di chi è ostaggio della violenza». Semi di pace al Parlamento Europeo di Alessandro Rossi Bruxelles O tto e mezza di sera. Fa già buio ai tropici di Jaffna, Sri Lanka. «Hanno ammazzato quasi tutta la famiglia, 8 persone, sono qui con due superstiti che hanno bisogno di aiuto urgente!», urla il prete al telefono con Pramila, l’operatrice di pace indo-canadese, membra della squadra di Nonviolent Peaceforce (NP) che 24 ore al giorno e sette giorni su sette vive con le comunità più vulnerabili del Nord dello Sri Lanka, in preda a una guerra sporca fra ribelli Tamil e governo Cingalese. Da quel giorno per una settimana gli operatori di NP si danno il cambio giorno e notte per essere presenti a fianco della comunità locale terrorizzata da questa spedizione punitiva. E grazie al paziente lavoro di tessitura di relazioni dei mesi precedenti con tutti gli attori armati e non, locali e internazionali, questa “risposta rapida” garantisce quel minimo di sicurezza di cui la comunità ha bisogno per an- Una rivista della sinistra nel Parlamento Europeo. Le istituzioni come spazio del nostro lavoro dedicato al progresso sociale e alla difesa degli sfruttati. Per riaffermare il diritto alla vita delle donne, degli uomini e degli altri esseri viventi di questo pianeta. Dignità, salute, lavoro e ambiente come priorità geostrategiche contro guerre e liberismo selvaggio. Con le altre forze del Gue-Ngl, perché in Europa non siamo soli... dare avanti. E’ solo un esempio di quelli che, grazie all’ incontro voluto da Luisa Morgantini, che nel suo intervento ha ricordato il lavoro svolto da Alex Langer, è stato finalmente possibile ascoltare anche al Parlamento Europeo, dove “i Semi di Pace” hanno preso la forma di interventi civili in zone di conflitto, dalla Palestina alla Colombia alle Filippine. «La Commissione Europea è veramente pronta ad aiutare le associazioni europee che in zone di conflitto armato portano appoggio ai gruppi locali per la pace e i diritti umani?», si chiede Morgantini. In effetti la Commissione ha ora a disposizione lo “Strumento per la Stabilità”, cioè oltre 170 milioni di euro l’anno per “risposte rapide e flessibili” alle situazioni di crisi. E addirittura una somma – di molto minore- per la “Peacebuilding Partnership”, un’alleanza di costruzione della pace che dovrebbe permettere alla UE di consultarsi più spesso con le Ong della pace e anche di facilitarne la crescita. Ma le esitazioni a promuovere gli interventi civili in zona di conflitto, mentre scompaiono quando la missione ha dietro governi potenti come quello francese nel caso del Chad – 10 milioni per poliziotti a fianco dei militari della missione Ue - riappaiono quando a dover essere finanziate sono le missioni dal basso delle ONG e delle associazioni. Eppure le esperienze europee di “servizi civili di pace” o di veri e propri Per saperne di più si possono visitare i siti nonviolentpeaceforce.org (sito internazionale, in inglese) o nonviolentpeaceforce.it (la campagna italiana di sostegno a Nonviolent Peaceforce, a cura del Centro Studi Difesa Civile). Su ENCPS, si veda encps.org. Il coordinamento delle ONG euopee per la pace avviene nella piattaforma dello European Peacebuilding Liason Office, eplo.org. Per l’Italia, www.reteccp.org o pacedifesa.org “corpi civili di pace” non mancano. Intanto ci sono le associazioni internazionali come Nonviolent Peaceforce, basata a Bruxelles ma con oltre 60 organizzazioni membro di tutto il mondo, che invia su richiesta dei gruppi locali delle squadre multinazionali di professionisti ben formati a lavorare in zona di conflitto armato, accompagnando, mediando, facilitando il dialogo di comunità minacciate e divise. E poi quelle raccolte nella Rete Europea per i Servizi Civili di Pace – European Network for Civil Peace Services,EN-CPS. Ad esempio il forum ZFD, associazione tedesca che ha premia lottato per ottenere il riconoscimento statale dei Servizi civili di Pace, e dopo averlo ottenuto con il governo rosso-verde ha avviato progetti di “consulenti di pace” a livello di comunità in 80 diversi “luoghi caldi” del pianeta. Oppure il “Comité pour l’intervention civile de paix”, coordinamento francese che cura la formazione dei volontari poi inviati da associa- è in edicola con Liberazione zioni come Peace Brigades International o i Balkan Peace Teams sul terreno. Bisogna ammettere che l’Unione Europea, anche sotto la spinta dei parlamentari come la Morgantini o Angelika Beer (dei Verdi tedeschi), ha fatto dei passi in avanti nella “gestione civile delle crisi” rispetto agli inizi della propria politica estera comune, la “PESC”. In qualche modo, la società civile che propone mezzi civili di prevenzione e gestione dei conflitti internazionali ha ora a Bruxelles più occasioni ma anche più responsabilità nel far sentire la propria voce. Perché a ogni passo bisogna dimostrare che i nostri “operatori di pace” portano più valore aggiunto, e più disinteressato, delle migliaia di funzionari governativi che i paesi europei si preparano a inviare ad esempio in Kossovo. Questa è anche la sfida cui dovranno rispondere i movimenti italiani che dialogano oggi con la Farnesina attraverso il Tavolo per i corpi civili di pace. il primo sabato di ogni mese Notizie, articoli, interviste, storia, idee e analisi di un laboratorio politico della sinistra alternativa. Perché nel mondo non siamo soli...