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INSERTO PUBBLICITARIO • della delegazione di Rifondazione Comunista del gruppo GUE/NGL al Parlamento Europeo •
a cura di Ivan Bonfanti • progetto grafico Federico Taddei • Anno II • dicembre_2007 • Nr.12
Pensare l’Hiv sia ormai innocuo è il problema dell’Occidente. Il mancato accesso alle cure la piaga africana
LA COSA ROSSA È GIÀ NATA
A STRASBURGO
Al Parlamento europeo di
Strasburgo, lontano dai clamori
della politica italiana, i gruppi
politici a sinistra del Partito
Democratico varano un
coordinamento che si propone
come modello per la nascita della
Cosa rossa in Italia. A lanciare
l’iniziativa, in vista degli Stati
generali della sinistra dell’8 e 9
dicembre, sono stati gli eurodeputati
Roberto Musacchio (Rifondazione)
Claudio Fava (Sd), Monica Frassoni
(Verdi) e Umberto Guidoni (Pdci).
«Abbiamo già un coordinamento
operativo, che ha spostato
sensibilmente l’asse del Parlamento
europeo», hanno spigeato in
conferenza stampa.
***
E LA SINISTRA CONDANNA
L’ORDINANZA DI CITTADELLA
Un gruppo di eurodeputati della
neonata Cosa Rossa a Strasburgo,
(Prc, Verdi e Sinistra democratica) ha
sollecitato, in un’interrogazione,
un’intervento della Commissione
Ue presso il governo italiano
«affinché sia rispettata in pieno la
legislazione europea», a proposito
della ordinanza del sindaco di
Cittadella, con la quale si
stabiliscono una serie di condizioni
come requisito per la concessione
del permesso di residenza. Roberto
Musacchio, Giusto Catania, Vittorio
Agnoletto, Luisa Morgantini e
Vincenzo Aita (Prc), Pasqualina
Napoletano e Claudio Fava (Sd),
Umberto Guidoni (Pdci) e Seep
Kusstatscher (Verdi) hanno
sottolineato come l’ordinanza «fissa
un limite di reddito minimo,
determinando nei fatti una sorta di
cittadinanza per censo».
***
LA “NUOVA”POLONIA:
NON FIRMEREMO LA CARTA
DEI DIRITTI UE
Il nuovo primo ministro polacco,
Donald Tusk, ha dichiarato di fronte
al Parlamento di Varsavia che il suo
Paese userà l’opting out e, come la
Gran Bretagna, non firmerà la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea. Varsavia aveva promesso
di firmarla all’ultimo vertice di
Berlino, ma Tusk ha detto che non
rispetterà una decisione presa dal
suo predecessore perché la Polonia
«non la vuole».
***
GALILEO,RICUCITO LO STRAPPO
ANCHE LA SPAGNA PARTECIPA
I ministri dei Trasporti dei Ventisette
hanno trovato un accordo definitivo
sulla struttura di controllo del
sistema satellitare Galileo, che ha
soddisfatto anche la Spagna. Il paese
iberico, che reclamava un centro di
controllo al pari di quello di
Germania e Italia, è stato concesso di
ampliare quello già previsto purchè
”non a detrimento” degli altri due e
senza alcuna spesa aggiuntiva.
Il nodo del contendere era la
pressante richiesta di Madrid di poter
avere un terzo centro di controllo del
sistema,accanto a quello italiano del
Fucino e a quello tedesco di
Oberpfaffenhofen.
***
VERTICE UE-AFRICA
MUGABE CI SARÀ,LONDRA NO
Il premier britannico, Gordon
Brown, ha ribadito che non intende
partire al vertice Ue-Africa di
Lisbona in qunto è prevista anche la
partecipazione del presidente dello
Zimbabwe Robert Mugabe.
Quest’ultimo ha annunciato la sua
partecipazione dicendosi pronto «a
contrasatere qualsiasi critica», ma il
successore di Tony Blair rifiuta di
sedersi allo stesso tavolo del
presidente dello Zimbabwe a causa
delle gravi violazioni dei diritti
umani perpetrate da quest’ultimo.
Lo scorso 21 novembre,anche la
stessa presidenza di turno portoghese
dell’Ue aveva auspicato l’assenza di
Mugabe dal vertice,ma gli emissari
del presidente avevano escluso questa
ipotesi e con Mugabe si erano
schierati la maggioranza dei Paesi
africani.
Africa, perché Aids e povertà
sono i frutti di un saccheggio
di Vittorio Agnoletto
S
e tutto procede come previsto
non troverete titoli a nove colonne sui principali quotidiani. Una
volta, almeno in questa data, c’era grande fermento mediatico. Ultimamente
l’argomento non tira più. La disponibilità a partire dalla metà degli anni ’90 di
farmaci anti-retrovirali che consentono
di cronicizzare la malattia hanno generato la falsa illusione collettiva che - almeno nei Paesi ricchi - la battaglia contro il virus fosse vinta. E si è abbassata la
guardia. Soprattutto in termini di campagne informative e di prevenzione. Il
risultato sull’immaginario dei giovani
europei è devastante: uno su due, secondo l’Eurobarometro, pensa - l’ultima volta succedeva venti anni fa - che ci
si possa infettare usando lo stesso bicchiere o la stessa toilette di persone sieropositive, donando loro del sangue o
curando pazienti affetti da Aids.
In Africa i ragazzi e le ragazze sono mediamente più informati, ma il mancato
accesso gratuito alle cure, a causa dei
brevetti farmaceutici imposti dalle
multinazionali di settore tramite l’Organizzazione mondiale del commercio
(Omc), impedisce di fare veri progressi
nella lotta alla pandemia. Secondo le ultime stime dell’Unaids, l’agenzia dell’Onu sull’Hiv/Aids, la regione subsahariana continua ad essere quella più seriamente colpita. In quest’area vivono
22,5 milioni di soggetti sieropositivi (il
68% del totale mondiale), nonché un
terzo di tutte le persone infettate e di
quelle morte per Aids a livello globale.
Nel 2007 si sono registrati circa 1,7 milioni di nuove infezioni da Hiv. Una riduzione importante dal 2001, quando i
nuovi contagi erano quasi il doppio, ma
non significativa sulla strada che dovrebbe portare entro il 2015, secondo gli
Obiettivi del Millennio fissati dalla Nazioni Unite nel 2000, all’arresto e alla riduzione della diffusione del virus. Anche perché nello stesso periodo i casi di
Hiv in Europa orientale e in Asia centrale sono aumentati di oltre il 150%. E
soprattutto perchè il quadro epidemiologico 2007 fornito dall’Unaids risente di una profonda revisione delle
tecniche di raccolta dati che ha fatto,
per esempio, scendere il numero
complessivo delle persone sieropositive nel mondo da 39,5 a 33 milioni.
Eppure l’Africa si trova più che mai al
centro della geopolitica mondiale. Se
gli Stati Uniti puntano alla militarizzazione del continente, a difesa dei giacimenti petroliferi e gassosi del Golfo
di Guinea e dei bacini del Chad e del
Sudan attualmente sotto influenza cinese, l’Europa ha scelto di scommettere sul continente nero come nuova
frontiera per lo smercio dei propri
prodotti e servizi.
Non avendo ancora un esercito comunitario (per fortuna), la Ue si affida alle
banche e ai grandi capitani di industria
per la conquista del continente. Sono
loro che da sempre spingono per la
chiusura dei negoziati sugli Epa, gli accordi di libero scambio con i Paesi Acp
(Africa, Caraibi e Pacifico), fra cui quelli
africani sono l’assoluta maggioranza.
Nella regione subsahariana
vivono 22,5 milioni di
sieropositivi, ma dal 2001 il
contagio in Africa è
diminuito, mentre in Europa
orientale e in Asia centrale
è aumentato del 150%
La scadenza per la firma di questi accordi è il 31 dicembre 2007, ma grazie alla
mobilitazione dei movimenti sociali
africani e internazionali, al supporto
tecnico offerto dalle Ong e – non da ultimo - al lavoro paziente ma incalzante
della vice-ministra Sentinelli in sede
Unione Europea, tutto è al momento in
stand-by. Nell’ultimo incontro del Consiglio Affari generali e Relazioni esterne,
riunitosi a Bruxelles il 20 e il 21 novembre scorsi, i governi europei hanno dovuto prendere atto che ad oggi la previsione di una liberalizzazione completa
dei mercati Acp, da quelli dei prodotti fino a quelli più redditizi di servizi e investimenti, va ridimensionata e ci si dovrà
accontentare di procedere in due tempi: prima si discuterà di come ampliare
gli scambi dei prodotti senza danni, poi
si vedrà. Un duro colpo per il Commissario europeo al commercio, Peter Mandelson, che nei mesi scorsi
aveva già dovuto incassare l’altolà del
Parlamento Europeo sull’inserimento dei “Trips+” nei testi degli accordi
Epa. Di cosa si tratta? Dell’inasprimento delle già ferree regole sui brevetti imposte dall’Omc che, come
detto sopra, impediscono l’accesso
alle cure a milioni di pazienti sieropositivi nel Sud del mondo.
Il peggio però può solo essere rimandato: la natura commercialmente aggressiva degli Epa non è stata messa in discussione da Consiglio e Commissione.
Il libero mercato che crea magicamente
sviluppo per gli “ultimi della terra” continua ad essere un dogma. E in una fase
storica in cui i negoziati multilaterali in
sede Omc segnano il passo, il ritorno
agli accordi bilaterali, con singoli Stati o
con blocchi regionali, è obbligatorio.
Ecco perché la presidenza portoghese
dell’Ue e la Commissione Barroso puntano così tanto sul II vertice Africa Unione Europea annunciato per l’8 e il 9
dicembre a Lisbona. L’incontro farà seguito al primo vertice, tenuto nel 2000 in
Egitto, al Cairo; avrebbe dovuto svolgersi già nel 2003 ma ha subito un cospicuo
ritardo a causa delle sanzioni imposte
allo Zimbabwe e delle polemiche sull’eventuale presenza del presidente Robert Mugabe.
A quattro anni di distanza è ancora il
vecchio dittatore a tenere banco. Il Portogallo si trova preso tra due fuochi. Da
una parte i Paesi africani che più volte
hanno messo in chiaro che se Mugabe
non sarà della partita, nessuno di loro
raggiungerà la capitale lusitana. Dall’altra la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi
che sono contrari alla sua presenza perché accusato di gravi violazioni dei diritti umani. Pur senza nulla togliere alla
portata simbolica della questione, l’at-
tenzione che i media stanno riservando
alla querelle diplomatica (oppure alla
scelta del leader libico Moammar
Gheddafi di alloggiare in una tenda beduina piuttosto che in uno degli alberghi ufficiali del summit), la dice lunga
sugli esiti possibili di questo vertice. Nonostante le parole d’ordine ufficiali siano “sviluppo e diritti umani”, non c’è
nessun dibattito reale che precede il
vertice e soprattutto nessun segnale di
inversione di tendenza nelle relazioni
tra Unione Europea e Africa.
Come gli ultimi due Forum sociali mondiali (quello di Bamako nel 2006 e di
Nairobi nel 2007) ci hanno insegnato, le
richieste all’Occidente non riguardano
solo la restituzione del maltolto negli ul-
Il mercato che crea
magicamente sviluppo per
gli “ultimi della terra” è un
illusione. Il ritorno agli
accordi bilaterali, con
singoli Stati o con blocchi
regionali, è obbligatorio
timi due secoli, bensì la rinuncia a proseguire nel saccheggio sistematico di
tutte quelle risorse naturali e umane capaci di traghettare l’Africa verso il destino che vorrà scegliersi. Tradotto in pratica ciò significherebbe: cancellazione
totale e incondizionata del debito; riforma radicale delle organizzazioni finanziarie internazionali (Fondo monetario,
Banca mondiale) e dell’Organizzazione
mondiale del commercio; sovranità alimentare e accesso universale ai farmaci
salvavita; potere decisionale sulle politiche economiche e tariffarie; conservazione e valorizzazione dei beni comuni come l’acqua, la terra e l’energia.
Non serve altro ai popoli africani.
Ma questi argomenti, purtroppo, non saranno in agenda a Lisbona.
DICEMBRE,5,1926 A PROPOSITO DI ARTE...
Claude-Oscar Monet, pittore francese e uno dei fondatori dell’movimento impressionista, muore di tumore dopo una straordinaria vita artistica che ne avrà fatto uno degli immortali della sua epoca.
«La gente discute la mia arte,a volte pretendendo di capire come se ci fosse qualcosa da capire.In
realtà non c’è niente da capire,l’unica cosa necessaria è amarla oppure no».
Claude Oscar Monet,(Parigi,14 novembre 1840 – Giverny,6 dicembre 1926)
Da Bruxelles parte la campagna globale per la messa al bando. Colpire chi fa affari con i prodottori
Le armi all’uranio impoverito
devono uscire dalla storia umana
di Luisa Morgantini
N
ella foto in bianco e nero, in primo piano gli occhi severi di un
anziano curdo iracheno ci guardano
appesantiti dalle occhiaie e dalle rughe. Ha in braccio suo figlio di sei o
sette anni, lo sguardo spaurito, è malato di leucemia e ha una visibile
malformazione al collo. La fotografia
colpisce allo stomaco: sono solo due
dei tanti volti invisibili dei costi umani dell’uranio impoverito. Sono immagini del fotoreporter giapponese
Naomi Toyoda che insieme alla parlamentare De Groen ho ospitato al Parlamento Europeo lo scorso 5 novembre, in occasione della giornata di
mobilitazione internazionale contro
le armi all’uranio impoverito. In quel
giorno abbiamo lanciato da Bruxelles la campagna globale della Coalizione Internazionale per la messa al
bando delle armi all’uranio (International Coalition to Ban Uranium
Weapons) contro gli investimenti di
banche e compagnie finanziarie di
tutto il mondo nella fabbricazione di
questo tipo micidiale di armi.
Molto più economico del tungsteno,
rende più letali le armi e allo stesso
tempo aiuta a smaltire parte delle
scorie radioattive che altrimenti non
si saprebbe dove mettere: l’uranio
impoverito, depleted uranium, è e rimane un residuo nucleare messo in
circolo: oltre 2000 tonnellate di uranio impoverito sono state utilizzate
dal 1991 al 2003.
Il primo novembre scorso, nel silen-
zio dei mass media italiani, è stata votata a grandissima maggioranza (122
paesi a favore, 6 contro, 35 astenuti)
una risoluzione Onu per chiedere verifiche sulla sua pericolosità: nell’atto
dell’esplosione, infatti, i proiettili
«speciali», irradiando polveri sottili
altamente contaminanti, inquinano
irreparabilmente aria, suolo e falde
acquifere, penetrano nel sistema respiratorio e nei polmoni, accrescendo di molto le probabilità di affezioni
tumorali, del morbo di Hodkin e di
leucemia per chiunque ne venga a
contatto o ne inali i residui. Proprio
come il bambino della foto, come
molti soldati americani o italiani, i loro figli e i civili di zone di guerra, nati
con tumori del sangue o malformazioni.
segue a pagina 2
Se i diritti sono
legati al censo
l’Europa torna
al medioevo
di Roberto Musacchio
C
on un voto a larga maggioranza il Parlamento
europeo ha ribadito che la cittadinanza
europea non tollera rigurgiti xenofobi e razzisti,
prevede la libertà di movimento e soggiorno che
non può essere revocata per questioni di reddito.
Si è chiusa così una prima fase di una questione
spinosa apertasi con l’omicidio di una donna
italiana da parte di un cittadino romeno, Rom, e
l’emanazione fatta dal governo italiano di un
decreto di dubbia corrispondenza allo spirito e alla
lettera delle direttive e dei Trattati europei.
Così come sono state giudicate non consoni allo
spirito e alla lettera europee alcune affermazioni
del Commissario Frattini. In realtà la costruzione
della risoluzione poi approvata non è stato del tutto
lineare.
La consueta alleanza di civiltà, che unisce un ampia
forza che va dai liberali a noi del Gue, passando per
verdi e socialisti, ha subìto il tentativo di incursione
da parte dei neo-democrat italiani, in nome di una
sicurezza che finisce con il prescindere dai principi
di diritto.
Tentativo fermamente respinto. Ma non per questo
si è arrivati alla fine della vicenda. Basta vedere cosa
sta succedendo ancora in Italia dove un gruppo di
sindaci leghisti ha sottoscritto ordinanze per
prescrivere requisiti di reddito per ”concedere” la
residenza nei loro comuni a cittadini comunitari.
Cosa in contrasto con le norme europee.
Come detto dallo stesso ministro Amato che però
ha aggiunto che è probabilmente necessario
cambiare le direttive. Ha sostenuto cioè che siamo
in presenza di flussi molto forti, non previsti, dovuti
alle disparità sociale dell’Europa a 27.
Prima ancora di contestare con forza le posizioni
leghiste e anche quelle del ministro, occorre
sottolineare la portata delle questioni in campo. La
prima riguarda il concetto di cittadinanza. Non so
se ci si rende conto di che cosa significherebbe
legare la cittadinanza al reddito. Un salto indietro
di secoli.
L’idea di diritti subordinati al censo è aborrita dal
pensiero liberale ancora prima che da quello
socialista. E’ la messa fuori legge dei poveri, invece
che della povertà come si dovrebbe proporre di fare
una società moderna.
Siamo al medioevo e all’oscurantismo. La seconda
è sul concetto d’Europa. Chi sostiene i diritti
subordinati al reddito si difende considerando
”altri” i cittadini che arrivano da altri paesi
d’Europa, dimenticando che l’Europa è ormai un
unico Paese.
Negare il diritto di cittadinanza alla mobilità e al
soggiorno significa negare l’Europa, tornare alle
frontiere nazionali e al pre-Schengen.
Due questioni enormi che la dicono lunga sulla
crisi di civiltà cui rischiamo di arrivare. Ne
dobbiamo essere consapevoli per affrontare le
cause che la determinano e smontare l’impalcatura
che il potere costruisce per sopravvivere alle
proprie contraddizioni.
Contraddizioni che ci rimandano alla
globalizzazione liberista e cioè a una forma di
modernizzazione regressiva, di rivoluzione
conservatrice.
Uno ” sviluppo” delle forze produttive che invece di
determinare progresso mette a rischio diritti. La
globalizzazione pretende totale libertà di
movimento per il capitale e totale disponibilità di
lavoro e natura. Ma lavoro e natura nel ”mettersi a
disposizione” determinano contraddizioni, quella
ambientale e quella migratoria. Occorre dunque
ridurre a totale mutezza, a incapacità d’espressione
soggettiva. Impossibile per la natura. Ci si prova per
il lavoro. Come ridurlo a moderna schiavitù?
Ecco qui la diabolica accoppiata tra precarietà e
sicuritarismo. L’estrema mobilità del lavoro
determina flussi che scuotono gli equilibri
territoriali. Questo lavoro è tenuto in stato di
precarietà e vive e provoca insicurezza. Ecco che si
costruisce l’impalcatura securitaria per ”governare”
la contraddizione. Il securitarismo come pensiero
unico riduzionista, che taglia la complessità e
rompe con la costruzione storica del pensiero e del
diritto moderni. Non solo con quello di matrice
sociale ma con quello liberale. Ma la sua spirale è
talmente impazzita che il pensiero securitario
puo´arrivare a cortocircuitare con lo stesso
liberismo che lo ha prodotto.
Il liberismo ha infatti bisogno di un lavoro
deprivato di soggettività ma ”disponibile”, non
impedito a muoversi. Oltre l’ipocrisia c’è proprio la
contraddizione. E infatti Confindustria che ”ama” la
precarietà non è così contenta del decreto fermaromeni. Tutte le costruzioni moderne e progressive
sono scosse alle fondamenta dalla
autoreferenzialità del modello securitario. La
costruzione liberale. La costruzione sociale.
L’Europa. E allora, contro questa deriva regressiva,
le costruzioni moderne devono allearsi e rifondarsi.
Il diritto liberale, quello sociale e l’Europa hanno
bisogno l’uno dell’altra.
Diritti delle persone e diritti sociali oggi più che mai
sono indissolubili. E l’Europa vive solo in questa
dimensione di indissolubilità . Negare la libertà di
movimento o sottometterla al censo significa
negare l’Europa. Ma il diritto di mobilità ha bisogno
anche di diritti sociali e di un lavoro costante per
ricostruire la coesione sociale, lottando contro il
dumping. Libertà e uguaglianza, cioè, oggi più che
ieri.
inserzione pubblicitaria della delegazione di Rifondazione Comunista del gruppo GUE/NGL al Parlamento Europeo
II
dicembre 2007
Televisione, Bruxelles vara la deregulation Lettera da Vicenza, siamo dei sognatori
In arrivo una pioggia di spot (anche occulti) e non vogliamo armi e missile nel cortile
Vincono la destra e le major: la riforma «Tv senza frontiere» a misura di spot e televendite Il 15 dicembre il corteo contro l’allargamento dell’aeroporto militare Dal Molin
di Edoardo Boggio Marzet
Bruxelles
D
opo quasi due anni di negoziazioni,
si è chiuso l’iter legislativo della cosiddetta direttiva ”Televisioni senza
Frontiere”, adottata in seconda lettura lo
scorso 29 Novembre dall’Europarlamento di Bruxelles.
Il nuovo strumento europeo ha come
scopo la regolamentazione del settore
degli audiovisivi, allargato per la prima
volta a quelli che sono definiti ”servizi
non lineari”, ovvero le televisioni a pagamento. Sono trattate tutte le forme pubblicitarie, dai minispot durante la partite
di calcio, al product placement, ovvero
l’inserimento di un prodotto commerciale nel contesto di film e di altre produzioni
televisive.
La direzione indicata dall’Unione europea promuove un’ulteriore liberalizzazione del mercato pubblicitario per i vettori tradizionali, mentre sostiene la piena
deregolamentazione per il settore della
televisione on-demand. Secondo la
Commissione europea, che ha salutato
l’approvazione della direttiva come ”l’inizio di una nuova era degli audiovisivi”, il
provvedimento era necessario per adattare il panorama televisivo alla nuova
realtà economica del settore.
A fronte del moltiplicarsi di canali a pagamento (tematici), anche le regole della televisione tradizionale devono cambiare,
per non comportare perdita di competitività e d’interessi economici. Ma questa
rincorsa verso orizzonti sempre più deregolarizzati si consuma sulla pelle di telespettatori, che saranno sottoposti a molteplici forme di pubblicità sempre più invasive, ma avranno effetti importanti anche sul grado di autonomia e di indipendenza degli stessi editori televisivi, le cui
attività saranno sempre di più legate alle
risorse pubblicitarie. Saranno da vedere
quali effetti avrà questa riforma sulle televisioni pubbliche, proiettate in uno scenario più concorrenziale, ma anche sulla
qualità della stessa programmazione televisiva, con il rischio di un’omologazione dei format e, di conseguenza, di un ulteriore appiattimento di idee, poiché si
accentuerà la tendenza a finanziare programmi più seguiti da pubblico, lasciando poco spazio agli già scarsi tentativi
d’innovazione e sperimentazione.
Il nuovo strumento europeo promuove la
liberalizzazione dei minispot, abbassa i
divieti per le interruzioni nei programmi
d’informazione e nelle trasmissioni per
bambini a 30 minuti (il testo iniziale proponeva 35 minuti), nessun limite giornaliero a televendite e le telepromozioni
non conteggiate nella quota massima di
pubblicità (20 % orario).
L’aspetto più delicato è rappresentato
dall’introduzione, per la prima volta nella
legislazione comunitaria, della nozione
di product placement. Il testo approvato
dall’Europarlamento permette, di fatto,
la pubblicità occulta nei film e altri prodotti televisivi, a condizione che la presenza di qualsiasi prodotto nel programma sia segnalata prima dell’inizio e dopo
la fine del programma.
La direttiva europea introduce inoltre alcune regole sulla qualità delle programmazioni televisive. La pubblicità mandata in onda durante le trasmissioni per
bambini non dovrà sfruttare la ”credulità
infantile” ma seguire un codice di condotta che le aziende televisive dovranno
sviluppare. Si richiede agli Stati membri
lo sviluppo di programmi più accessibili
per persone con disabilità visiva o uditiva,
oltre al divieto di pubblicizzare sigarette e
medicinali che richiedono la prescrizione medica. Rispetto alla pubblicità subliminale, il volume del suono non dovrà eccedere la media del volume del resto della
trasmissione, mentre i programmi sponsorizzati devono essere chiaramente
identificabili. Gli spot, inoltre, non dovranno recare offese in termini di discriminazione o «contro la dignità umana».
In realtà, quest’ultimo voto del Parlamento europeo rappresenta solo una tappa
formale (si doveva infatti solo approvare
in forma semplificata l’accordo informale di conciliazione fra Consiglio e Parlamento) per l’adozione di un provvedimento già definito nelle fase precedenti.
La vera battaglia si era infatti consumata
prima in Commissione Cultura e poi, in
Plenaria, per la prima lettura, quasi un
anno fa. In questo contesto, le proposte
della Sinistra unitaria europea, congiuntamente a quelle di una buona parte dei
socialisti, verdi e liberali italiani, sono state sconfitte dall’asse trasversale socialisti,
liberali e popolari europei.
Gli emendamenti presentati dai gruppi
della sinistra italiana chiedevano la proibizione del product placement, la riduzione del tetto giornaliero di pubblicità e
maggior attenzione verso il pluralismo
nei media. Gli stati dell’Unione europea
hanno due anni di tempo per poter adattare le proprie legislazioni nazionali alla
nuova direttiva ”Televisioni senza Frontiere”.
N
on lo nascondiamo: siamo dei sognatori; vorremmo impedire alla
più grande potenza militare mondiale
di mettere casa nel nostro cortile. E’ vero, siamo anche un pò testardi; ce lo
hanno detto in tutte le salse: «cari vicentini, mettetevela via, gli interessi della
guerra saranno più forti dei vostri presidi». Pazzi? Può darsi: del resto, chi
avrebbe montato un Festival-campeggio di 10 giorni?
Eppure, siamo ancora qui. In questi
giorni raddoppiamo il nostro Presidio
Permanente; tutto intorno, un silenzio
assordante, fatto di quotidiani e telegiornali che, dopo aver assediato Vicenza in concomitanza con il grande corteo
del 17 febbraio, ora non hanno più nulla
da dire su un movimento che ha continuato a vivere di passione e determinazione. Un movimento che si esprime tra
e con la gente di Vicenza, attraverso iniziative e manifestazioni continue: abbiamo tagliato i cavidotti funzionali alla
nuova base Usa, occupato la Basilica
Palladiana, piantato 150 alberi all’interno del Dal Molin; abbiamo bloccato,
per tre giorni e tre notti, le bonifiche belliche - iniziate un mese fa - necessarie
per iniziare la costruzione dell’installazione militare, e le donne del Presidio,
sono andate a Firenze per boicottare
l’ABC - azienda incaricata delle bonifiche - e proseguire la campagna dei
blocchi.
Con i primi blocchi dei lavori abbiamo
imparato, ancor di più, ad essere una
CLAUDE MONET
The Economist elogia la Commissione sui
voli della Cia. «Fava deputato dell’anno»
C
laudio Fava, europarlamentare della
Sinistra democratica e relatore della
commissione di inchiesta temporanea Ue sui
voli Cia, è stato nominato deputato dell’anno
dai lettori del settimanale European Voice, del
gruppo The Economist. Il politico italiano, che
sulla sua esperienza in Commissione ha
scritto anche un libro, ”Quei bravi ragazzi”
(2007, 208 p., brossura Editore - Sperling &
Kupfer collana Saggi), si è distinto secondo i
lettori del periodico per «aver ottenuto
l’appoggio trasversale nell’emiciclo al
rapporto sulle attività illecite della Cia in
Europa». La Commissione Cia, criticata dalla
lobby filo-Atlantica sin dalla sua nascita, ha
tolto il coperchio sul grande calderone delle
attività illecite dell’agenzie di spionaggio Usa
nel territorio europeo, mettendo a nudo
incredbili violazioni dei diritti umani, anche a
danno di innocenti, nell’ambito delle
cosiddette ”norme speciali” per la guerra al
terrorismo.
Decisamente da leggere il libro, dove Fava,
figlio del giornalista assassinato dalla mafia,
racconta i due anni come relatore con
particolari e narrazione da romanzo,
mettendo insieme un avvincente quadro delle
relazioni euro-atlantiche e il racconto pure
delle incredibili storie di uomini deportati in
carceri mediorientali, torturati, abbandonati
per anni dai Paesi dove risiedevano o
addirittura dove sono cittadini. La
Commissione, che alla fine è riuscita ad avere
il voto del parlamento in una relazione di
comunità; e abbiamo sentito, da tante
parti d’Italia, la solidarietà e la condivisione che tante donne e tanti uomini
esprimono per la lotta vicentina.
Abbiamo chiesto, anche, che i 170 Parlamentari che si sono dichiarati contrari alla realizzazione della nuova base
Usa mantengano la propria promessa:
portare subito in Parlamento la moratoria sui lavori in attesa dello svolgimento della Seconda Conferenza sulle
servitù militari e chiedere la desecreta-
condanna agli abusi, ha dato voce a chi,
all’interno dell’Europa, pensa che il
terrorismo si batta con le armi del diritto e
della democrazia.
Molti sono stati poi gli altri volti noti europei
premiati nelle altre categorie dal settimanale
del gruppo The Economist. Viviane Reding,
responsabile Ue alla comunicazione e ai
media, è andata la medaglia di miglior
commissario 2007 , per aver alleggerito i costi
delle vacanze degli europei «convincendo i
legislatori Ue a ridurre le tariffe del roaming».
La collega Benita Ferrero-Waldner,
responsabile alle Relazioni esterne è
«diplomatico 2007” per il suo ”contributo alla
liberazione dello staff medico bulgaro dalle
prigioni libiche». Jean-Paul Trichet,
presidente della Banca Centrale europea, è
premiato per «aver difeso l’indipendenza delle
banche dalle interferenze dei politici».
Tra i premiati anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, per i suoi sforzi per un nuovo trattato Ue. Il britannico Richard Branson, leader
della compagnia aerea Virgin, è eletto miglior
businessman” per le sue iniziative volte«a ridurre le emissioni di Co2 dei voli della sua compagnia e per aver creato Virgin Fuel, per lo sviluppo di fonti energetiche alternative». Sempre
l’impegno ambientale è premiato Arnold
Schwarzenegger, governatore della California.
Infine il russo Garry Kasparov, ex-campione di
scacchi, è «cittadino modellonon-europeo» per
la lotta per la libertà politica in Russia.
zione degli accordi militari bilaterali.
Questo, ad oggi, non è avvenuto: abbiamo già visto il Governo promettere di
ascoltare la comunità vicentina e poi
tradirla: c’è qualcuno che vuol seguire il
solco tracciato da Prodi? Non portare
subito in Parlamento la moratoria, infatti, significa comportarsi nello stesso
modo del Presidente del Consiglio che,
dopo aver promesso di voler considerare la vicenda alla luce della volontà della
comunità locale, dichiarò dall’estero di
non opporsi alle richieste statunitensi
svendendo la nostra città.
Lo scorso 17 febbraio, insieme, abbiamo dimostrato quanto grande è il movimento che vuol battersi contro la guerra e la militarizzazione del territorio,
per la difesa della terra e la costruzione
di nuove pratiche di democrazia; ma Vicenza, da sola, è insufficiente a sostenere questa lotta che, pure, accomuna
gran parte della popolazione locale: Vicenza è solo un villaggio nella grande
comunità che crede in un altro mondo
possibile. Abbiamo bisogno, ancora
una volta, della vostra condivisione,
della vostra partecipazione, della vostra
solidarietà.
Abbiamo convocato, a dicembre, una
tre giorni europea di confronto, contaminazione, approfondimento; vogliamo allargare i nostri orizzonti, conoscere nuove comunità, condividere altre
lotte. Ma vogliamo, anche, dimostrare
che la vicenda del Dal Molin è ancora
aperta: per questo il 15 dicembre un
grande corteo attraverserà le strade della nostra città. Abbiamo sempre detto
che ”se si sogna da soli è solo un sogno,
se si sogna insieme è la realtà che comincia”: vi chiediamo di condividere il
nostro sogno, ancora una volta, perché
una terra senza basi di guerra possa diventare realtà. Se non ora, quando? Vicenza chiama, ancora una volta: e noi
siamo sicuri che risponderete in tanti.
Perché Vicenza vive già al di fuori dei
suoi confini.
Presidio Permanente,
Vicenza 27 novembre 2007
Il 1 novembre è stata approvata la risoluzione Onu che ne denuncia la pericolosità
Usa, Israele, Inghilterra, Francia, Repubblica Ceca e Olanda gli unici Paesi contrari
Leucemie, tumori, natura e vite distrutte
E’ ora di bandire l’uranio impoverito
segue dalla prima
di Luisa Morgantini
N
onostante queste drammatiche,
ripetute e documentate evidenze, hanno votato contro la risoluzione
delle Nazioni Unite, i Paesi dotati di
arsenali di armi all’uranio, ovviamente: gli Usa, Israele, Inghilterra, Francia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi,
quest’ultimi membri dell’Unione Europea non hanno minimamente tenuto in conto di come, sin dal 2001, il
Parlamento Europeo abbia chiesto
più volte l’introduzione di una moratoria nell’uso di questi ordigni. Invece
di seguire l’esempio del Belgio che,
primo paese al mondo, il 7 marzo di
quest’anno ha senza mezzi termini
messo al bando l’uso di armi, corazze,
equipaggiamenti militari all’uranio
impoverito per le conseguenze dannose derivanti dal suo grado elevatissimo di tossicità chimica, l’industria
bellica tende al contrario a nascondere le cifre e i fatti: gli oltre 11mila soldati Usa, che a partire dal 1991 sono
morti a causa della sindrome della
guerra del Golfo (le cifre son dell’americana Veterans for Constitutional
Law Society), ma anche le innumerevoli malformazioni causate dalle nanoparticelle ai figli di militari e ai civili
in Somalia, Kosovo, Iraq, Afghanistan,
Libano.
Inutile dire che quando si tratta di riciclare materiale radioattivo per
rafforzare gli armamenti anche le gerarchie militari e gli Stati, oltre all’industria bellica, hanno le loro responsabilità: le omissioni e i segreti militari, la mancata attuazione delle norme
di protezione e del principio precauzionale, la negazione degli indennizzi
agli ammalati hanno contribuito a insabbiare di fatto la pericolosità dell’uranio e la possibilità di evitare tante
morti. Anche in Italia.
Proprio nel nostro paese abbiamo assistito di recente ad un’indegna guerra di cifre sulle vittime dell’uranio tuttora all’esame della Commissione di
inchiesta istituita ad hoc e che visti gli
innumerevoli capitoli ancora aperti
sull’uranio e sulle sue vittime, prolungherà il suo mandato anche oltre il 31
dicembre. Di fatto comunque, per l’Anavafaf, l’associazione che tutela le
vittime in uniforme, per bocca del suo
Il Belgio, primo paese al
mondo, il 7 marzo ha messo
al bando l’uso di armi,
corazze, equipaggiamenti
militari all’uranio impoverito
per le conseguenze dannose
derivanti dal suo grado
elevatissimo di tossicità
chimica
Presidente Falco Accame che sull’argomento nel 2006 ha scritto l’importante volume ”Uranio Impoverito: la
verità” (scaricabile gratuitamente dal
sito http://inchiestauranio.blogspot.com) «il trattamento ufficiale del
problema dell’uranio impoverito è indecente, abbiamo avuto morti e malati di tumore nella guerra del Golfo,
nel ’91, poi in Somalia nel ’93, poi in
Bosnia nel ’94: è sconfortante constatare che ancora oggi non si disponga
di una base attendibile necessaria per
effettuare uno studio epidemiologico
serio».
Per il ministero della Difesa - rettificando le proprie stime originarie che
parlavano di 255 malati di cancro e di
37 decessi tra i militari italiani che negli ultimi dieci anni hanno partecipato a missioni all’estero- sarebbero
1.682 i soldati colpiti da tumore a causa dell’uranio impoverito. Un altro
studio in arrivo da parte dell’Osserva-
torio Militare però già parla di 2536
casi di tumore riscontrati e di almeno
156 decessi già verificati. Ma aldilà del
drammatico balletto di cifre, al centro
anche dell’inchiesta «Uranio impoverito», i conti non tornano” di Maurizio
Torrealta e Flaviano Masella in questi
giorni in onda su Rainews24 (sabato
alle 7.03, domenica alle 18.03 e lunedì
alle 3.33), resta comunque inaccettabile l’assenza di qualsiasi trasparenza
sulle missioni militari e sull’attività
dei poligoni italiani: «una delle difficoltà maggiori incontrate finora sono
state proprio le ostilità e le reticenze
delle autorità militari» ha dichiarato
Mauro Bulgarelli, senatore dei Verdi e
Vice Presidente della Commissione
d’inchiesta sull’Uranio impoverito,
che ha già chiesto la chiusura del poligono di Salto di Quirra, in Sardegna
«almeno fino a quando non sarà fatta
piena luce sul nesso esistente tra le attività che si svolgono al suo interno e
l’abnorme percentuale di malattie
neoplastiche che sono state riscontrate tra la popolazione dei centri circostanti». A favore di un urgente risanamento dei tanti siti inquinati dall’attività dei poligoni e delle basi si è
espresso più volte anche Francesco
Martone, Senatore Prc, precisando
che «la Sardegna, gravata da decenni
da un’abnorme presenza di insediamenti militari, ha certo bisogno di finanziamenti da destinare soprattutto
alla bonifica» piuttosto che all’organizzazione del vertice G8 del 2009 all’isola della Maddalena, «che sarebbe
una vera calamità».
Purtroppo però sempre nuovi casi di
vittime dell’uranio impoverito vengono segnalati e molto spesso in forma
non ufficiale: l’ultimo è del 15 novembre, arriva dall’Anavafaf e riguarda un
militare di Sparanise, in provincia di
Caserta, operante nel Reggimento di
stanza a Vercelli ma che potrebbe essere stato contaminato dall’uranio
impoverito durante un’esercitazione
nel poligono di Teulada. Oppure la
preoccupazione degli abitanti di Frigole nel Salento già formalizzata in
un’interrogazione parlamentare presentata dall’On. Teresa Bellanova (Ds)
e indirizzata al Ministro della Difesa
Arturo Parisi per indagare se nel Poligono di Torre Veneri, adiacente al paese, si faccia uso di uranio impoverito
vista l’alta incidenza di patologie neoplastiche verificatesi in quei luoghi
soprattutto negli ultimi anni.
Sulla salute dei cittadini non sono
ammesse ignavie, negligenze né segreti di stato: l’uso di armi all’uranio
ha conseguenze devastanti e irreparabili, è una violazione della legge
umanitaria internazionale e il loro
utilizzo deve essere messo al bando
immediatamente mentre deve essere
garantita la massima trasparenza sui
luoghi dove queste armi sono state e
continuano ad essere usate, evitando
ulteriori contaminazioni.
Se la finanziaria 2007 ha destinato 170
milioni di euro ”per risarcire le vittime
del dovere” - tra queste anche chi si è
ammalato in Bosnia e Kosovo, contaminati dai bombardamenti degli Usa,
a cui spetterebbe l’onere dei risarcimenti - e se il Senato ha dimostrato fi-
L’industria bellica nasconde
gli oltre 11mila soldati Usa
morti a causa della sindrome
della guerra del Golfo, come
le malformazioni causate
dalle nanoparticelle ai figli di
militari e ai civili in Somalia,
Kosovo, Iraq, Afghanistan,
Libano
nalmente una certa sensibilità con il
via libera alla costituzione di un fondo
da 30 milioni di euro (10 milioni per
ogni anno dal 2008 al 2010) per i danni
”di coloro che abbiano contratto infermità o patologie tumorali connesse all’esposizione e all’utilizzo di
proiettili all’uranio impoverito”, altrettanta decisione si dovrebbe mostrare nei confronti di chi specula con
questo mercato di morte: l’Ogn belga
Netwerk Vlandereen ha pubblicato
uno studio intitolato ”Too risky for
business - Financial Institutions and
Uranium weapons”. Nel rapporto
compaiono 50 banche che hanno rapporti con tre imprese statunitensi
produttrici di armi all’uranio impoverito: la Allianz Techsystems (Atk), la
General Dynamics Ordnance and
Tactical Systems e la GenCorp. La
maggior parte degli istituti di credito
finanziatori sono statunitensi, ma vi
sono anche –tra le altre- banche tede-
sche, francesi e una italiana, Intesa
Sanpaolo IMI, che nell’estate del 2003
avrebbe partecipato con 22 milioni di
dollari a un prestito obbligazionario
emesso dalla General Dynamics per
coprire debiti preesistenti.
«Poco più di un anno fa mi è stato diagnosticato un tumore, molto probabilmente per una contaminazione da
uranio impoverito subita in Iraq forse,
o in Afghanistan, o in Somalia o in un
altro dannato posto di guerra. Sono
storie spesso taciute, ma reali e diffuse» ha scritto il giornalista di guerra
Mimmo Candito nell’articolo ”Soldati, reporter e civili contaminati dall’uranio” pubblicato il 9 novembre scorso su La Stampa.
Vale la pena concludere con un pensiero a lui e ai costi umani, orribili,
dell’uranio impoverito: «Sì, è la guerra. Ma, delle decine di migliaia di civili
senza nome, senza divisa, senza storia, che in quei territori contaminati,
in Iraq, in Afghanistan, nel Kosovo o in
Bosnia o in Somalia, ha continuato a
vivere inconsapevole la propria quotidianità, della loro sorte, dei loro tumori, chi mai si è interessato? Chi ha
cercato di raccontarne la cronaca, le
sofferenze, la fine tragica? Il reporter
ha un giornale per scriverne, i soldati
hanno le associazioni che li tutelano;
ma quegli iracheni, quegli afgani,
quei bosniaci o kosovari senza nome
né uniforme, dove mai troveranno
una voce che venga fuori dalla loro
storia finita per sempre e dia certezza
di chi davvero li ha ammazzati?»
(Mimmo Candito, ” Soldati, reporter e
civili contaminati dall’uranio” 9 novembre 2007 La Stampa). E’ urgente
che il nostro governo faccia come il
Belgio, nel Parlamento Europeo continueremo ad insistere e sostenere la
Campagna per la messa al bando delle armi al’uranio impoverito.
inserzione pubblicitaria della delegazione di Rifondazione Comunista del gruppo GUE/NGL al Parlamento Europeo
dicembre 2007
III
Per l’Italia
agricola
la minaccia
dei “tarocchi”
I
Vincono i ”nuovi produttori”, paesi nordici e multinazionali, che potranno usare zuccheri e sofisticazioni per competere con le uve milgiori del Sud
Riforma vino, da Bruxelles colpo all’Italia
Ci rimettono i contadini e la qualità
di Vincenzo Aita
I
l Ministro De Castro era a
Bruxelles questa settimana in occasione della
riunione del Consiglio dei
Ministri dell’Agricoltura
dell’Unione Europea: in
agenda non vi era la negoziazione sulla Riforma dell’Organizzazione Comune
di Mercato sul vino, ma una
sua dichiarazione su tale
spinoso dossier non si è fatta attendere, e il giudizio è
stato perentorio. «Il risultato del voto in Commissione
al Parlamento Europeo è
addirittura peggiorativo per
il settore italiano rispetto alla proposta iniziale della
Commissaria Fisher Boel».
E come dargli torto.
Nonostante il relatore fosse
un italiano, l’On. di Forza
Italia Castiglione, con una
provata esperienza nel settore agricolo, quale Assessore all’Agricoltura alla Regione Sicilia, l’Italia ha persona una partita importante sul fronte.
Sotto le pressioni provenienti dai paesi del Nord
Europa, il compromesso
raggiunto penalizza, infatti,
i vini dell’area del Mediterraneo, proprio quelli che
hanno fatto grande il settore europeo e che hanno dato fama alla viticoltura del
vecchio continente. Nello
specifico, l’accordo prevede, oltre al già previsto sradicamento di 200mila ettari, la possibilità di effettuare
arricchimento attraverso
zucchero, esclusa invece
dalla Commissione Euro-
pea. Non solo: si prevede
che il limite all’aumento del
tasso alcolometrico naturale attraverso l’uso di glucosio posso arrivare ad un livello pari al 4,5%, permettendo, di fatto, di vinificare
uve che hanno un tasso alcolico di base di soli 6 gradi
alcolici.
Ma ai danni al nostro comparto vanno addirittura oltre; oltre a favorire le uve del
nord Europa, per natura caratterizzate da un grado
zuccherino particolarmente basso, d’ora in avanti si
potranno trovare sul mercato prodotti non derivanti da
uva, bensì da frutta, come
D’ora in avanti si
potranno trovare sul
mercato prodotti non
derivanti da uva,
bensì da frutta,
come ad esempio il
vino da mele
ad esempio il vino da mele
(apfel wein)
Quello che è interessante è
vedere come la riforma, nella sua forma attuale, derivante anche dagli accordi
all’interno del Consiglio
(che vedono già affermarsi
le posizioni dell’asse nordico a favore dello zuccheraggio), stia andando in senso
contrario all’obiettivo fondamentale prefissatosi inizialmente. Aldilà della valutazione sulla sua opportunità o meno, la riforma partiva da un’esigenza di rispondere ad un mercato caratterizzato da un eccesso
di produzione, a cui si è ten-
tato di rispondere attraverso 2 vie: fondi per lo sradicamento da un lato e la soppressione
dell’arricchimento da zucchero e mosto,
dall’altro, togliendo quindi
dal mercato stesso quelle
uve meno zuccherine, che
naturalmente non avrebbero potuto essere vinificate.
La situazione ora invece si è
completamente capovolta:
mantenendo lo sradicamento e allo stesso tempo
permettendo lo zuccheraggio, l’effetto finale sarà
quello di perdite di quote
produttive nel sud Europa,
dove si concentrano maggiormente le aziende agricole di più piccole dimensioni, che agiscono al di fuori del sistema delle grandi
multinazionali della distribuzione e della commercializzazione. E proprie tali
multinazionali saranno avvantaggiate anche dallo
schema di liberalizzazione
dei vigneti, che si realizzerà
a partire dal 2013.
Tale proposta di riforma ha
ottenuto solo 7 voti contrari
in Commissione: ciò che se
ne deriva è che buona parte
dei deputati europei appartenenti all’aerea della maggioranza di governo in Italia
si sono dichiarati a favore
dello smantellamento del
sistema vitivinicolo italiano
e delle sue specificità biologiche e produttive.
Speriamo almeno che si
possa costruire in vista della
votazione in plenaria un’azione comune da parte dei
paesi del sud Europa affinché tale riforma assuma un
L’effetto finale sarà
quello di perdite
di quote produttive
nel sud Europa,
dove si concentrano
maggiormente
le aziende
agricole di più
piccole dimensioni
connotato finalmente più
positivo. I margini di miglioramento in Parlamento
esistono e possono rappresentare se non un appiglio
di tipo vincolante almeno di
carattere politico per i negoziatori in Consiglio a fine
Dicembre. Il contrattacco si
potrebbe basare su una
strategia volta ad ottenere
alcuni risultati centrali: un
no allo zuccheraggio e alla
commercializzazione di vini da frutta; la possibilità di
arricchire le uve attraverso
il mosto, un metodo questo
sicuramente più costoso
dello zuccheraggio ma che
potrebbe essere accompa-
La Germania vuole diventare il modello globale su clima anche perché conviene
L’Ambiente non è solo un dovere ma un’occasione
Merkel e la Germania lo hanno capito, l’Italia no
di Ivan Bonfanti
S
e c’è una cosa da cui il
grado di civilizzazione di
un popolo specchia il progresso delle società di cui si è
dotato, è quando i singoli individui di una comunità sono chiamati ad affrontare
esigenze collettive, riuscendo a percepirle e trasformarle in piccoli gesti privati come in grandi scelte politiche.
E’ precisamente il caso dell’ambiente, con l’emergenza
climatica che chiama da un
lato i privati cittadini a un
processo di responsabilizzazione rispetto alle risorse e ai
consumi, dall’altro gli Stati e i
governi a favorire questo
processo e a mettere a punto
strategie e infrastrutture per
gestirlo in modo adeguato.
Non è casuale che in alcuni
Paesi l’educazione generale
abbia conseguito risultati
positivi, dal riciclaggio ai
consumi energetici al rispetto dei diritti degli animali,
mentre altrove solo l’imminente collasso del pianeta
terra sta, lentamente, producendo qualche pigro cambiamento. Che rischia di non
bastare.
L’Europa è un esempio lampante di come educazione
ambientale e ignoranza siano ripartite in modo trasver-
sale. In Scandinavia, in Germania e nei Paesi della fascia
nordica la sensibilità al tema
ambientale dei cittadini è altissima, ormai anche trasversale tra desta e sinistra, con
un’opinione pubblica che
spinge la politica, e viceversa. Non che l’ambiente sia
ovunque rispettato o che
non continuino assurdi sprechi energetici, ma tutto sommato la bilancia tra gli ambientalisti e i gruppi economici che continuano a negare il problema in modo criminale si sta orientando finalmente verso i primi.
In Italia, esempio opposto,
l’ignoranza generale favorisce l’irresponsabilità banditesca di chi gestisce al cosa
pubblica, e l’ambiente fatica
ad imporsi come necessità,
dovere o responsabilità collettiva. L’Italia nonostante le
sue dimensioni ridotte è al
decimo posto della classifica
mondiale dei Paesi che
emettono più anidride carbonica e pesa l’1.7% sul bilancio delle emissioni globali, con una media di 7.8 tonnellate di Co2 per ogni suo
abitante.
Si tratta di un livello di emissioni inferiore a quelle di
molti paesi europei e degli
Stati in testa alla classifica dei
”trasgressori”: Usa, Russia e
Cina. Ma rimane comunque
un dato elevatissimo, frutto
di una politica ambientalista
che al contrario degli altri
Paesi europei rispecchia una
divisione politica che, nel
nostro Paese più che altrove,
vede la sinistra generalmente schierata dalla parte ambientalista e la destra che nega il problema, naturalmente con molte eccezioni dall’una e dall’altra parte.
L’Europa resta alta nella lista
dei Paesi inquinanti, ma
qualche progresso lo si registra, per esempio nei raggiungimenti del protocollo
di Kyoto che chiede ai 15 Paesi fondatori di ridurre entro il
2012 l’8% delle emissioni.
Poca roba, ma comunque un
inizio che già sta facendo
scuola. In particolare è la
Germania guidata dalla cancelliera Angela Merkel ha deciso di non limitarsi agli
obiettivi fissati dall’Unione,
ma di puntare ancora più in
alto, con un ambiziosissimo
piano per arrivare ad una riduzione del 40% entro il
2020. Una scelta impensabile in Italia, che tuttavia non
nasconde solo la responsabilità rispetto ad un’emergenza mondiale e la maggiore
educazione ambientaliste
del popolo tedesco.
La signora Merkel e il suo mi-
nistro dell’Ambiente Sigmar
Gabriel hanno capito come
questa sia anche un’occasione per proiettare l’economia
tedesca nel Ventunesimo Secolo, se è vero che quello legato all’ambiente, e in particolare quello delle energie alternative ai combustibili fossili, sarà uno dei business a
maggiore crescita. «Il Programma Integrato per l’Energia e il Clima è la cornice
entro la quale la signora
Merkel fa rientrare i suoi
obiettivi. In essenza, - scriveva il Corriere della Sera in un
ampio reportage sul tema - la
cancelliera ha un piano per
ridurre le emissioni tedesche
di anidride carbonica del
40% (rispetto al livello del
1990) entro il 2020. E vuole
che in quell’anno le energie
rinnovabili arrivino a coprire
il 20% di tutte le fonti, dall’8%
o 12% attuale (a seconda di
chi fa i calcoli). Se riuscisse in
questo secondo obiettivo, la
Germania diventerebbe il
modello globale di lotta al
”pianeta caldo”. E conquisterebbe un vantaggio competitivo in fatto di tecnologie del
vento, del solare delle biomasse sugli altri Paesi».
Quanto a Kyoto l’Unione Europea è vicina al raggiungimento dei suoi obiettivi
dell’8 per cento, anche se so-
lo riteuti molto bassi rispetto
alle esigenze reali del pianeta
e rischiano di essere un pagliativo. «L’Ue - si legge in un
comunicato della Commissione - si sta avvicinando agli
obiettivi di riduzione dei gas
serra fissati a Kyoto, ma per la
riuscita dell’impresa occorre
adottare e mettere in atto al
più presto altre iniziative».
Secondo la Commissione,
«dalle ultime proiezioni fornite dagli Stati membri si desume che i provvedimenti
già in atto, uniti all’acquisto
di crediti di emissione da
paesi terzi e alle attività di forestazione che assorbono
carbonio dall’atmosfera, serviranno a ridurre le emissioni
dell’UE-15 del 7,4% nel 2010
rispetto ai valori dell’anno
scelto come riferimento. In
questo modo l’obiettivo da
raggiungere per il 2012 (-8%)
sarà a portata di mano».
Tuttavia, anche in questo caso, per l’Italia il dato è meno
positivo: in effetti, secondo la
tabella diffusa a Bruxelles anche attuando tutte le misure
il nostro paese resterà indietro di 0,5% rispetto all’obiettivo intermedio pari al 6,5%
di riduzione entro il 2010. Il
messaggio implicito è chiaro: l’Italia deve intensificare
gli sforzi. Peggio di noi fa la
Danimarca (2% punti di di-
vario dall’obiettivo 2010) e
soprattutto, la Spagna (ben
14,2%), sempre utilizzando a
pieno tutte le misure. I più
virtuosi sono invece, nell’ordine, il Regno Unito (11,2% di
taglio in più rispetto all’obiettivo), la Svezia (10,4%) e
la Germania (4,7%).
«Le ultime proiezioni - ha dichiarato il commissario all’Ambiente, Stavros Dimas mostrano che l’obiettivo di
Kyoto sarà raggiungibile dopo che gli Stati membri
avranno adottato e messo in
atto le iniziative supplementari attualmente in discussione. Personalmente li sollecito pertanto a farlo al più
presto». Dimas ricorda che
”la Commissione ha già dato
un importante contributo alla realizzazione dell’obiettivo di Kyoto con le sue decisioni sui piani nazionali di
assegnazione delle quote per
il 2008-2012 nell’ambito del
sistema Ue di scambio delle
quote di emissione». Per
quanto riguarda i 12 nuovi
stati membri che hanno aderito all’Ue nel 2004 e nel 2007,
la maggior parte ha obiettivi
nazionali di riduzione del 6%
o dell’8% rispetto ai valori
dell’anno di riferimento. Gli
unici Stati membri che non
hanno impegni da onorare
sono Cipro e Malta.
gnato da una linea di budget europeo in grado di coprire la differenza di costi
tra le due pratiche; infine,
l’eliminazione dello sradicamento, re-indirizzando
quei fondi previsti a tale
scopo a favore, invece, di
procedure di riconversione
dei vigneti.
Europa
Sorpresa,
le foreste
ora crescono
L
e foreste europee hanno
ripreso a crescere, ad
un ritmo peraltro superiore
alle aspettative. Il dato,
sorprendente, potrebbe
dare un aiuto non da poco
agli obiettivi di ridurre le
emissioni. Le foreste e i
boschi dell’Europa, in
declino costante fino agli
anni ’70, si sono espanse
del 10% all’Ovest e del 15%
all’Est dal 1990 al 2005,
conclude uno studio
dell’università di Helsinky.
Gli alberi hanno l’effetto di
raccogliere il diossido di
carbonio, e secondo gli
scienziati la sola crescita
delle foreste ne assorbe
126 millioni di tonnellate
derivanti dall’attività
umana, l’11 per cento del
totale. A guidare la
classifica la Lituania,
Lettonia, Svezia, Slovenia,
Bulgaria e Finlandia,
mentre la chiudono il
Belgio, Irlanda, Danimarca
e Cipro. Dal 1990 la
crescita delle foreste ha
contribuito alla lotta alle
emissioni almeno quanto
tutte le misure prese dagli
Stati per promuovere
energie rinnovabili.
Secondo lo studio, datato
2006, per la prima volta nel
2000 si è invertita la
tendenza sulla
deforestazione in tutto il
mondo.
l pericolo per
l’agroalimentare italiano
ed europeo si chiama Cina.
Un dato per tutti: il 75 per
cento dei 255 milioni di
articoli contraffatti
sequestrati, nel 2006,
nell’Unione europea
provengono dal paese
asiatico. E i tarocchi
agroalimentari tolti dal
commercio ammontano a
più di 8 milioni. E’ quanto
emerso dal convegno a
Bruxelles promosso dalla
Cia-Confederazione
italiana agricoltori e
dall’Unione avvocati
europei sulla tutela
comunitaria dei prodotti
agroalimentari Ue. Oltre
che dalla Cina, che ormai
sta invadendo con prodotti
”taroccati” i mercati di
tutta Europa, soprattutto
quello italiano, gli
agroalimentari sequestrati
provengono - afferma la
Cia - per il 14 per cento da
Hong Kong e per il 4 per
cento dal Taiwan. A seguire
Svizzera, Repubblica Araba,
Turchia, Ucraina e Russia.
Le esportazioni cinesi,
tuttavia, rappresentano
l’elemento più
preoccupante. In Italia, in
particolare, si registra una
vera e propria invasione di
derivati del pomodoro
(cresciuti di oltre il 130 per
cento), di aglio (più del 20
per cento), di mele, di
funghi e di verdure in
scatola. Tutti prodotti che
possono essere facilmente
spacciati come ”made in
Italy”, proprio per la
mancanza dell’obbligo di
indicare in etichetta la
provenienza. Non solo. Ci
possono essere anche
rischi per la salute, visto
che tantissime confezioni come è stato denunciato
dalle stesse forze preposte
ai controlli e alla vigilanza mancano nell’etichetta
elementi essenziali, come
quello relativo alla
scadenza. Tra i prodotti
maggiormente falsificati sottolinea la Cia- troviamo
le sigarette,
l’abbigliamento e gli
strumenti tecnologici,
profumi, medicinali, Cd,
Dvd, materiali elettrici,
orologi, oggetti di
bigiotteria.
Ma è proprio
nell’agroalimentare che si
riscontra una crescente
contraffazione. I prodotti
contraffatti -avverte la Cia
- risultano quelli a
denominazione d’origine,
Dop e Igp, il cui peso
economico nell’Unione
europea è crescente. Nel
2006 il fatturato Ue al
consumo di questi prodotti
è stato di 32 miliardi 500
milioni di euro, con un
aumento del 3,5 per cento.
Consistente anche l’export:
sempre l’anno scorso è
stato di 4 miliardi 890
milioni di euro, con un
incremento del 9,4 per
cento nei confronti del
2005.
Attualmente i prodotti
europei Dop e Igp
riconosciuti sono 776, ma
in lista di attesa per il
riconoscimento da parte
dell’Ue ce ne sono
moltissimi. Tanti dossier di
richieste provengono dai
nuovi stati membri,
Romania in testa. Davanti
questi problemi - conclude
la Cia - occorre immaginare
un approccio diversificato
alla tutela delle nostre
produzioni di qualità. Tra
gli strumenti a disposizione
vi sono i rapporti bilaterali
con i paesi partner, le
sinergie di sistema tra
produttori e distributori, il
rafforzamento della tutela
legale contro i fenomeni
dell’agropirateria. E’
necessario, in primo luogo,
impostare una vera politica
commerciale, che fissi
obiettivi e priorità oggi non
ancora evidenti in Italia.
IV
dicembre 2007
Salviamo lo sport dai violenti
Senza calpestare i diritti
Non servono leggi speciali negli stadi, basterebbe applicare bene cio’ che è già previsto dalle legislazioni in vigore
Va favorita la cooperazione tra questure per individuare i soggetti pericolosi, ma occorre anche prevenire con l’educazione allo sport
di Giusto Catania
I
l 28 e 29 novembre a
Bruxelles si è svolta un
conferenza dal titolo “Verso un strategia europea contro la violenza nello sport”, organizzata dalla Commissione
Europea.
L’iniziativa è stata introdotta
dal Commissario europeo allo sport, Jan Figel; dal sottosegretario allo sport Diamantino Dias; dal Vice-presidente
della Commissione Giustizia
del Parlamento Europeo, Giusto Catania.
Le conclusioni sono state affidate al Vice-presidente della
Commissione Europea, Franco Frattini; dal Ministro degli
Interni portoghese Rui Periera e da Michel Platini, presidente dell’Uefa.
Sotto riportiamo l’intervento
integrale del parlamentare di
Rifondazione e del Gue/Ngl,
Giusto Catania.
In occasione degli incontri di
calcio, negli ultimi anni, abbiamo assistito a ricorrenti e
costanti manifestazioni di
violenza che, di fatto, hanno
trasformato la natura spettacolare delle stesse manifestazioni sportive. Troppi episodi
di violenza, tante manifestazioni di intolleranza, espliciti
atti di xenofobia e razzismo
hanno caratterizzato la metamorfosi di uno degli sport più
amati e seguiti dal popolo europeo.
Questi fatti, purtroppo, non
sono stati eventi isolati, ma
sono iscritti in una trasformazione generale del calcio che
lentamente ha perso la sua valenza agostico-sportiva per
trasformarsi in una fiorente
industria economico-finanziaria. Numerose solo le società sportive ormai quotate
in Borsa con un giro astronomico di capitali. Il calcio, oltre
che diventa necessario attuare misure adeguate al fine di
far disputare le partite nella
massima tranquillità e sicurezza per gli spettatori, evitando manifestazioni di violenza
e di razzismo.
Purtroppo negli stadi la violenza si diffonde. Quest’anno
si sono susseguiti drammatici
eventi: personalmente da siciliano sono rimasto particolarmente scosso delle morte
del poliziotto Filippo Raciti,
che ha perso la vita in occasione dell’incontro tra Catania e
Palermo.
La morte di un poliziotto in
servizio di ordine pubblico allo stadio mostra che la violenza delle frange estreme di presunti tifosi si accanisce anche
contro le forze dell’ordine e
non soltanto nei confronti dei
tifosi della squadra avversaria. Nel corso dell’ultimo anno potremmo citare vari episodi: a Madrid nel febbraio
2007, in occasione del derby
tra Atletico e Real, abbiamo
assistito a scene terribili e ad
autentici momenti di paura,
numerosi feriti nel derby di
Belgrado tra Stella Rossa e
Partizan; nella partita tra Arsenal e Chelsea la rissa ha
coinvolto perfino i calciatori, i
quali hanno mostrato una
pessima professionalità.
Venti giorni fa un tifoso italiano, presumibilmente coinvolto in una rissa tra tifosi che
andavano allo stadio, è stato
ucciso da un poliziotto in una
stazione di servizio dell’autostrada. Una tragedia che ha
avuto un impatto fortissimo
sul mondo del calcio, malgrado si sia svolta in un contesto
estraneo allo svolgimento
della partita.
Del resto accadimenti simili
non riguardano solo le categorie maggiori ma sempre più
anche quelle minori e questo
induce notevole preoccupazione per il livello di infiltrazione della violenza nello
sport.
L’azione di prevenzione in occasione delle partite di football è la priorità e deve assolutamente sostituirsi alle azioni
repressive e alla militarizzazione degli stadi che sembra
ormai diventare la prassi più
consolidata nel contrasto alla
violenza negli stadi. La militarizzazione degli stadi non è, in
sè, un deterrente alla violenza, anzi spesso la presenza
massiccia di forze dell’ordine
rischia di essere percepita come un elemento di provocazione o come l’indice di un
surriscaldamento immotivato degli animi.
La scelta di privilegiare l’opzione repressiva, che sempre
più sta prendendo corpo nelle
legislazioni nazionali, non è
da incentivare e rischia di aumentare ostilità tra le forze di
polizia e i tifosi, oltre che di
produrre una pericolosa generalizzazione sul grado di
Uno sport amato e
meraviglioso che
lentamente ha perso
la sua valenza
agostico-sportiva per
trasformarsi in una
fiorente industria
economico-finanziaria
pericolosità di tutte le persone che si recano allo stadio.
In alcuni paesi europei è stata
introdotta la punizione di interdizione dallo stadio, ma
spesso ci sono stati abusi nell’applicazione di questa norma, poiché essa si realizza in
assenza di qualsiasi condanna per atti violenti allo stadio
ma, esclusivamente, nei confronti di soggetti solo sospettati, a seguito di informazioni
fornite dai servizi di sicurezza.
Tali provvedimenti generalmente non colpiscono le singole persone che, secondo il
principio della responsabilità
penale individuale (il quale rimane un caposaldo da salvaguardare nel nostro sistema
giuridico), non meritano più
di accedere allo stadio; ma
colpiscono generalmente, in
modo indistinto, soggetti che
fanno parte di determinati
gruppi di tifoseria organizzata, considerata a rischio.
Spesso per impedire la partecipazione di gruppi di tifosi
agli incontri di calcio internazionali si è proceduto con la
restrizione dello spazio di circolazione delle persone, reintroducendo il controllo alle
frontiere interne dei paesi firmatari degli accordi di Schengen.
Già nel 2001, il Parlamento
Europeo ha denunciato la trasformazione di una misura
eccezionale in una regola ordinaria che, di fatto, ha limitato la libera circolazione dei
cittadini in modo assolutamente inaccettabile.
Bisogna, invece, insistere
molto sulla prevenzione, a
partire dalla necessità di migliorare, in occasione degli incontri internazionali, il ruolo
delle cosiddette ”antenne nazionali.”
Il 25 aprile 2002 il Consiglio ha
adottato una decisione che
prevede la creazione, in ciascuno Stato membro, di un
punto nazionale d’informazione sul calcio che funge da
punto di contatto per lo scambio delle informazioni di polizia in relazione alle partite di
calcio internazionali.
Negli ultimi anni il numero
dei tifosi che si recano a vedere partite all’estero è costantemente aumentato. Pertanto, è
necessario che gli organismi
Troppe
manifestazioni di
intolleranza, espliciti
atti di xenofobia e
razzismo hanno
caratterizzato la
metamorfosi del
calcio
ad essere uno sport molto popolare, rappresenta un evento
di grande impatto spettacolare, tanto da avere indotto
aziende di telecomunicazione a fare grandi investimenti
per l’acquisizione dei diritti
televisivi delle partite di calcio.
Questo elemento ha contribuito ad una lenta ed inesorabile trasformazione degli
eventi sportivi, caricandoli di
una valenza estranea alla stessa natura dello sport e alimentando, di conseguenza, una
rottura dello spirito collettivo.
Si è prodotta una competizione economica che ha determinato la rottura del senso di
appartenenza ad una collettività definita; si è rinunciati alla
messa in scena corale in cui si
riconosce la propria partecipazione attiva ad un processo
collettivo ed unitario, a prescindere dalla propria appartenenza ad una singola comunità di tifosi.
Malgrado, il ruolo della televisione sia aumentato moltissimo in questi anni, il calcio non
puo’ vivere senza pubblico.
Tutte le volte che si sceglie di
far disputare una partita senza spettatori, è una grave
sconfitta per l’essenza stessa
dello sport.
La partecipazione del pubblico è un elemento insito nella
“spettacolarizzazione dell’evento”, organico alla stessa genesi degli incontri di calcio. La
presenza di pubblico negli
stadi è necessario, senza tale
presenza la stessa valenza
sportiva, oltre che ovviamente quella spettacolare, sarebbe privata di un suo elemento
obbligatorio e fondamentale.
Alla luce di tali considerazioni
è necessario acquisire il fatto
competenti rafforzino la loro
cooperazione e professionalizzino lo scambio di informazioni al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico e
di consentire a ogni Stato
membro di effettuare un’efficace valutazione dei rischi.
Recentemente sono state
avanzate alcune modifiche,
esse rappresentano il risultato delle esperienze raccolte da
vari punti nazionali d’informazione sul calcio nel loro lavoro quotidiano e dovrebbero
consentire di lavorare in modo più strutturato e professionale, assicurando lo scambio
di informazioni di alta qualità.
Ma in assenza di una definizione giuridica sul fenomeno
dei tifosi violenti (hooligans),
la vaga definizione di ”supporter ” rischia di coinvolgere
tutti i cittadini che rischiano
essere individuati come potenziali turbatori dell’ordine
pubblico o propensi a comportamenti anti-sociali.
I punti nazionali di informazione sul calcio, “le antenne”
incaricate di monitorare la
presenza dei tifosi negli stadi e
di acquisire dati sulla natura
delle tifoserie organizzate, sono uno strumento utile che
deve, tuttavia, funzionare
esclusivamente in applicazione delle legislazioni nazionali
e in attuazione delle direttive
europee e della convenzioni
internazionali a tutela dei dati
personali.
Non è accettabile trasformare
lo stadio in un territorio “extra
legem”, occorre evitare abusi
nel controllo di tutti i cittadini
che, in quanto tifosi di una
squadra di calcio, rischiano di
essere classificati come potenziali criminali e, allo stesso
tempo, evitare che reati commessi all’interno o in prossimità dello stadio siano derubricati come fenomeni scatu-
riti da eccesso di tifo in un
“contesto de-criminalizzato”.
Non servono leggi speciali per
prevenire atti di violenza negli
stadi, basterebbe applicare
bene cio’ che è già previsto
dalle legislazioni in vigore.
È un elemento di tutela per
tutti, evitando attuazione di
regole o norme, dettate da logiche emergenziali, che non
garantiscono la stessa protezione dei diritti umani e delle
libertà individuali.
Con lo stesso spirito, i dati acquisiti dalle “antenne nazionali” in occasione degli incontri di football internazionali devono essere conservati
ed utilizzati esclusivamente
in occasione degli incontri di
calcio e non possano essere
messi a disposizione delle autorità giudiziarie per altre attività investigative estranee alle
manifestazioni sportive.
In caso contrario, la funzione
delle antenne nazionali rischierebbe di trasformarsi da
strumento di prevenzione degli atti di violenza negli stadi a
strumento di controllo sociale che agirebbe in modo indiscriminato.
L’esperienza dei punti di comunicazione nazionale potrebbe essere estesa anche a
livello locale, favorendo, in
questo modo, una specializzazione delle forze di polizia
in un’azione preventiva di
supporto al servizio di ordine
Ma nonostante i
miliardi delle tv gli
stadi si sono
svuotati anche
perché si è trattato il
fenomeno solo come
”ordine pubblico” e
nell’emergenza
pubblico negli stadi.
Si potrebbero istituire delle
”antenne locali” che abbiano
il compito di individuare i soggetti a rischio, in un costante
scambio di informazioni tra le
questure.
Tuttavia, un’azione seria di
contrasto della violenza negli
stadi non può essere oggetto
esclusivo della cooperazione
di polizia. Occorre in via prioritaria un’azione culturale e
sociale che privilegi la prevenzione e l’educazione ai valori
interculturali dello sport.
Non servono scorciatoie né
esistono modelli applicabili
in ogni contesto. Non è esportabile in tutta Europa, cosi come afferma qualcuno, il modello inglese in cui il costo del
biglietto è ormai inaccessibile
alle tasche perfino dei ceti
medi e la sicurezza interna è
garantita esclusivamente da
agenzie private e da un sistema di video-sorveglianza da
grande fratello.
Mentre mi sembra praticabile
l’idea di istituire posti nominativi per tutti, a condizione
che i dati di colui che acquista
il biglietto vengano distrutti il
giorno dopo della partita.
Bisogna soprattutto rilanciare
il dialogo con le curve. In occasione del Campionato Europeo di calcio del 2000 fu
sperimentato il modello
”friendly but firm” che, stabilendo una separazione tra le
frange di violenti e il resto del
pubblico, ha favorito un’accoglienza amichevole, addirittura festosa, basata su una
certa fiducia reciproca tra forze dell’ordine e pubblico.
L’assenza di incidenti nei tornei internazionali in cui è stato applicato questo piano
conferma che la sicurezza sugli incontri di calcio è strettamente legata alle azioni preventive e al dialogo diretto con
i tifosi. Essi devono sempre essere considerati parte integrante dell’evento sportivo e
spettacolare e, cosi come calciatori e società, non possono
subire provvedimenti imposti
dall’alto.
Le organizzazioni dei tifosi
devono essere riconosciute
come interlocutrici privilegiate per giungere ad un piano
condiviso nella gestione della
sicurezza pubblica negli stadi.
Eliminare la violenza è l’unico
modo serio per salvare la natura di questo grande sport
popolare, per tutelare, come
dice Edoardo Galeano, le miserie e lo splendore del gioco
del calcio.
Al Parlamento europeo l’incontro con le associazioni che lavorano, all’insegna della non violenza, in zone di guerra
«A fianco di chi è ostaggio della violenza». Semi di pace al Parlamento Europeo
di Alessandro Rossi
Bruxelles
O
tto e mezza di sera. Fa già buio ai
tropici di Jaffna, Sri Lanka. «Hanno ammazzato quasi tutta la famiglia,
8 persone, sono qui con due superstiti
che hanno bisogno di aiuto urgente!»,
urla il prete al telefono con Pramila,
l’operatrice di pace indo-canadese,
membra della squadra di Nonviolent
Peaceforce (NP) che 24 ore al giorno e
sette giorni su sette vive con le comunità più vulnerabili del Nord dello Sri
Lanka, in preda a una guerra sporca
fra ribelli Tamil e governo Cingalese.
Da quel giorno per una settimana gli
operatori di NP si danno il cambio
giorno e notte per essere presenti a
fianco della comunità locale terrorizzata da questa spedizione punitiva. E
grazie al paziente lavoro di tessitura
di relazioni dei mesi precedenti con
tutti gli attori armati e non, locali e internazionali, questa “risposta rapida”
garantisce quel minimo di sicurezza
di cui la comunità ha bisogno per an-
Una rivista della sinistra nel Parlamento
Europeo. Le istituzioni come spazio del nostro
lavoro dedicato al progresso sociale
e alla difesa degli sfruttati. Per riaffermare
il diritto alla vita delle donne, degli uomini
e degli altri esseri viventi di questo pianeta.
Dignità, salute, lavoro e ambiente
come priorità geostrategiche contro guerre
e liberismo selvaggio. Con le altre forze
del Gue-Ngl, perché in Europa non siamo soli...
dare avanti.
E’ solo un esempio di quelli che, grazie all’ incontro voluto da Luisa Morgantini, che nel suo intervento ha ricordato il lavoro svolto da Alex Langer, è stato finalmente possibile
ascoltare anche al Parlamento Europeo, dove “i Semi di Pace” hanno preso la forma di interventi civili in zone
di conflitto, dalla Palestina alla Colombia alle Filippine. «La Commissione Europea è veramente pronta ad
aiutare le associazioni europee che in
zone di conflitto armato portano appoggio ai gruppi locali per la pace e i
diritti umani?», si chiede Morgantini.
In effetti la Commissione ha ora a disposizione lo “Strumento per la Stabilità”, cioè oltre 170 milioni di euro
l’anno per “risposte rapide e flessibili” alle situazioni di crisi. E addirittura
una somma – di molto minore- per la
“Peacebuilding Partnership”, un’alleanza di costruzione della pace che
dovrebbe permettere alla UE di consultarsi più spesso con le Ong della
pace e anche di facilitarne la crescita.
Ma le esitazioni a promuovere gli interventi civili in zona di conflitto,
mentre scompaiono quando la missione ha dietro governi potenti come
quello francese nel caso del Chad – 10
milioni per poliziotti a fianco dei militari della missione Ue - riappaiono
quando a dover essere finanziate sono le missioni dal basso delle ONG e
delle associazioni.
Eppure le esperienze europee di “servizi civili di pace” o di veri e propri
Per saperne di più si possono visitare
i siti nonviolentpeaceforce.org
(sito internazionale, in inglese)
o nonviolentpeaceforce.it
(la campagna italiana di sostegno
a Nonviolent Peaceforce,
a cura del Centro Studi Difesa Civile).
Su ENCPS, si veda encps.org.
Il coordinamento delle ONG euopee
per la pace avviene nella piattaforma
dello European Peacebuilding Liason
Office, eplo.org. Per l’Italia,
www.reteccp.org o pacedifesa.org
“corpi civili di pace” non mancano.
Intanto ci sono le associazioni internazionali come Nonviolent Peaceforce, basata a Bruxelles ma con oltre 60
organizzazioni membro di tutto il
mondo, che invia su richiesta dei
gruppi locali delle squadre multinazionali di professionisti ben formati a
lavorare in zona di conflitto armato,
accompagnando, mediando, facilitando il dialogo di comunità minacciate e divise.
E poi quelle raccolte nella Rete Europea per i Servizi Civili di Pace – European Network for Civil Peace Services,EN-CPS. Ad esempio il forum
ZFD, associazione tedesca che ha
premia lottato per ottenere il riconoscimento statale dei Servizi civili di
Pace, e dopo averlo ottenuto con il governo rosso-verde ha avviato progetti
di “consulenti di pace” a livello di comunità in 80 diversi “luoghi caldi” del
pianeta. Oppure il “Comité pour l’intervention civile de paix”, coordinamento francese che cura la formazione dei volontari poi inviati da associa-
è in edicola con Liberazione
zioni come Peace Brigades International o i Balkan Peace Teams sul terreno.
Bisogna ammettere che l’Unione Europea, anche sotto la spinta dei parlamentari come la Morgantini o Angelika Beer (dei Verdi tedeschi), ha fatto
dei passi in avanti nella “gestione civile delle crisi” rispetto agli inizi della
propria politica estera comune, la
“PESC”. In qualche modo, la società
civile che propone mezzi civili di prevenzione e gestione dei conflitti internazionali ha ora a Bruxelles più occasioni ma anche più responsabilità
nel far sentire la propria voce.
Perché a ogni passo bisogna dimostrare che i nostri “operatori di pace”
portano più valore aggiunto, e più disinteressato, delle migliaia di funzionari governativi che i paesi europei si
preparano a inviare ad esempio in
Kossovo. Questa è anche la sfida cui
dovranno rispondere i movimenti
italiani che dialogano oggi con la Farnesina attraverso il Tavolo per i corpi
civili di pace.
il primo sabato di ogni mese
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della sinistra alternativa.
Perché nel mondo non siamo soli...