24/02/1994 - 9° - trascrizione

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24/02/1994 - 9° - trascrizione
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940224SP1.pdf
data
24/02/1994
Contesto
ANTE
Relatori
MA Aliverti
A Colombo
R Colombo
GB Contri
F Malagola
Liv. revisione
Trascrizione
SEMINARIO DI SCUOLA PRATICA DI PSICOLOGIA E PSICOPATOLOGIA 1993-1994
NORMALITÀ E IMPUTABILITÀ
NELLE QUATTRO PSICOPATOLOGIE
24 febbraio 1994
12° LEZIONE
TESTO INTEGRALE
(Mancano i testi di M. Antonietta Aliverti e Raffaella Colombo)
GIACOMO B. CONTRI
INTRODUZIONE
Solo una breve parola di introduzione, non a ciò che oggi ascolteremo innanzitutto da Nietta Aliverti
e Raffaella Colombo su temi già introdotti, quindi si tratta di supplementi, ma soprattutto per dire mezza
parola sull’inizio del nuovo corso, ciclo, che inizia questa sera sulla coppia di termini Io - coscienza, affidata
ad Alberto Colombo e Franco Malagola.
La mezza introduzione è per dire che non è poco, per loro, per me, per ciascuno, per tutti, il provare
— la parola provare non vuol dire ―andare a casaccio‖, vuol dire ―mettere alla prova‖, vuol dire esperienza,
vuol dire la coppia scienza-esperienza — non è una cosa da poco il provare, il mettere alla prova i due
termini Io - coscienza.
Prima osservazione
Intanto — ma al momento ciò è astratto — osservando che è una coppia.
Nessuno saprebbe ben dire fin dove va l’Io e fin dove va la coscienza. Ma non saranno solo due
modi del vocabolario di dire la stessa cosa? e così via. Allora vedete che per il solo fatto di distinguerli noi,
visto che abbiamo una certa serietà, vuol dire che noi li distinguiamo con una certa precisione, asseriamo
questa distinzione. Ma questo, ripeto, al momento è ancora astratto.
Seconda osservazione
Su Io e coscienza ne sono state dette nella storia del nostro secolo — perché ormai la datazione della
storia della psicologia vuol dire cent’anni.—; ma non è solo la storia della psicologia ufficiale. Avete visto
che parliamo di letteratura: noi sappiamo di stare facendo la storia della psicologia, come faremo sabato con
Musil, o Dostoevskij, o con Edipo o Hartman: è quello che fa digrignare i denti agli psicologi: quella è
letteratura. Noi abbiamo rifatto le mappe sull’argomento. Non so se questa è l’intuizione, almeno come
intuizione di base. Parlare di Re Lear come abbiamo fatto è avere rifatto le mappe, proprio di dov’è il nord e
dov’è il sud, come sono composte le regioni, quante sono, qual è la geografia politica dell’universo. In questi
cento anni, su Io e coscienza sono state dette e progressivamente le cose peggiori e più gravi. Ma questo ci
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riguarda, appunto non per… Avrete notato che il nostro primo atteggiamento non è mai polemista. Noi
facciamo la nostra strada. Non siamo polemisti, ma semplicemente descriviamo le differenze, o quando sono
opposizioni, opposizioni, rispetto a quanti altri operano diversamente o anche in opposizione. Ma anche
stilisticamente, non è polemico il nostro stile. Diciamo ciò che pensiamo dei cognitivisti e diciamo che non
siamo cognitivisti ed è finita lì. Poi ricominciamo la nostra strada. Anzi, anche mentre diciamo ciò che ne
pensiamo, non abbiamo mai smesso di farlo. Anzi, poi delle volte è meglio non polemizzare neanche tanto,
perché se polemizzi tanto poi ti impediscono di farlo. Ora, dato che l’interesse è di farlo, è inutile andare a
spiegare a certa gente dei concetti: se me li spieghi e sono contro diventeranno ancora più avversari. Quindi
non spiegarli. E’ meglio che non capiscano.
Non siamo illuministi: illuministi vuol dire: ah, facciamo sapere il sapere a tutti! No. Lo facciamo
sapere a chi? Solo a noi stessi: questo lo facevano gli gnostici, che oltretutto sono un po’ ignoranti: dicono di
sapere, si autodefiniscono come coloro che sanno e non sanno niente. Il nostro criterio è: sapere perché si
desidera — non ho detto che si desidera sapere — e se si desidera si sa: c’è un nesso fra desiderio e sapere.
Allora, non è far sapere a tutti perché il popolo deve sapere. Non è: sappiamo solo noi, che poi vuol dire non
sapere niente; ma è il far sapere a chi desidera. Non basta neanche dire: a chi è interessato.
Io - coscienza non è una bella vicenda se facessimo una rassegna del destino che nelle teorie, certo
non solo in queste, ha avuto questa coppia nel nostro secolo, vedremmo che non è finita lì.
Terza osservazione
Temi Io - coscienza, come tutti gli altri affrontati, sono, almeno nel tentativo di chi di volta in volta
è incaricato di questi argomenti, nel tentativo sono temi destinati ad andare a vedere che cosa ne è, che modo
d’essere, che conformazione hanno, che faccia hanno, che siluette hanno, i nostri argomenti, in questo caso
Io e coscienza, nella nevrosi, nello handicap, nella psicosi, nella perversione.
Vedete quanto di già siete in grado, quale che sia il vostro grado di cultura. E noi non facciamo mai
cultura qui; fare cultura è proprio ciò che non facciamo; nella misura stessa in cui mi pare che entriamo di
quando in quando sufficientemente, in cui siamo decisamente abbastanza colti. Chi vuole fare cultura, la
porta è quella, come si dice. Il colto è una cosa; fare cultura è un’altra. Abbiamo parlato già del bambino,
come colto; è quando si ammala che comincia a diventare incolto. Il vero analfabetismo di ritorno
incomincia con l’inizio della patologia personale. Anche quello successivo, a mio parere, è debitore della
patologia.
Quale che sia il nostro grado di cultura, almeno una cosa secondo me è accessibile immediatamente a
tutti: l’osservazione — anche se non ci avete fatto ancora mente locale — che quando si dice per esempio «la
coscienza» ma anche quando si dice «l’Io» si dà per ovvio che in ogni caso l’Io è immutato. Se è buono, se è
cattivo, se è malato in un modo, se è malato in un altro, in ogni caso l’Io è lì. E’ quello, come si dice che
questo oggetto è questo oggetto, quella cosa è quella cosa. L’Io sarebbe sempre lui. Perciò, ci sarebbe l’Io,
non l’Io dell’handicappato. Voi l’avete mai incontrato l’Io dell’handicappato? L’avete mai visto, l’avete
individuato? A mio avviso è deficiente, …
Se c’è l’Io dell’handicappato, non è la stessa cosa dell’Io di un perverso. Allora il compito è innanzitutto
di…
Rinforzo ciò che dicevo, ossia sul fatto che è falso dire che l’Io è pur sempre lo stesso in queste
quattro posizioni, che è molto più corretto chiamare non posizioni ma indisposizioni. Per una volta la vecchia
parola sono indisposto è una parola adeguata per tutto ciò che è psicopatologia. Ma mi classifica essere
indisposto e non essere posto, essere in posizione. E’ essere nell’indisposizione. Ero piccolo che si diceva la
mamma è indisposta. La parola mi piaceva, anche se poi fra me e me trovavo che se la mamma era
indisposta ma non lo diceva non era proprio nel senso che diceva il dottore, che era indisposta; era indisposta
in un senso un po’ diverso che capivo soltanto io.
Rinforzo l’osservazione… E pensate: in qualsiasi contesto, può essere predicatorio-religioso o può
essere da comizio politico, ma uno che dica — quindi in televisione, in piazza o in chiesa, nella
conversazione personale — uno che dica a un altro o a cinque, dieci o diecimila altri: «siate coscienti». Vi
sto illustrando la conseguenza del dire che c’è la coscienza del perverso, la coscienza del normale, la
coscienza del ritardato, … Perché se io dico a un perverso: «sii cosciente» gli dico: «sii ancora peggio di
quello che già sei» . Una volta che le cose vengono messe in questo modo, vedete come vengono fuori come
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l’acqua dal rubinetto? E’ facile. Mi piacerebbe avere un reazione sentendo che qualcuno invece trova che
non è stato facile ciò che ho detto: «Non era vero».
Fa parte del nostro lavoro. Visto che siamo abbastanza numerosi, ma non metà di mille, in qualsiasi
momento…
Mi sembrava di avere detto in modo facile e intellegibile che è addirittura un grave errore ogni
appello alla coscienza: siate coscienti. Quindi siate morali. Che morale! Anche il razzismo — ma mi sembra
di parlare dalla televisione, il Maurizio Costanzo Show… — anche il razzismo è una morale. Qualsiasi cosa
è una morale. Anche la perversione è una morale. La parola morale tanti si sono accorti che non è la
migliore, e allora hanno detto etica. Indubbiamente ogni perversione è un’etica. Allora l’appello siate morali,
abbiate il senso del vostro Io è la stessa cosa che l’appello all’essere coscienti. Nella nevrosi l’appello
all’essere coscienti è soltanto un invito a rinforzare la propria opposizione a certe cose, a rimuovere più di
prima.
IO E COSCIENZA
(PRIMA PARTE)
FRANCO MALAGOLA
Comincio riproponendovi il gioiello [schema a clessidra], o una parte di esso.
Perché ho riproposto questo? Per due motivi: il primo è che pensando un po’ di articolare qualcosa
intorno a Io, e che poi ci articoleremo un po’ io e Alberto Colombo su Io e coscienza, mi è venuto subito da
pensare che lo schema della legge, il nostro gioiello, prima ha degli antecedenti e nel 1990 nel corso sulle
perversioni è stato messo a punto un altro schema che a mio avviso viene arricchito da questo e lo
arricchisce, proprio anche per quello che riguarda la distinzione tra Io e coscienza. Si trattava di una lettura
delle due topiche freudiane: conscio-inconscio-preconscio e Io-Es-super-io.
Il secondo motivo è che una delle cose che mi è balzata alla mente è che il discorso che sull’Io si fa
oggi ha due versanti opposti, che però sono sulla stessa linea. Da un canto c’è il discorso della destituzione
dell’Io. Dall’altro c’è il contrario: l’assolutizzazione dell’Io. Allora, vedendo lo schema e il rapporto S-A, mi
sembra che il secondo aspetto corrispondente al fatto di una sorta di assolutizzazione dell’Io è che è così
incolto, ignorante, il pensiero della norma personale a livello di diffusione sociale, che ha riflessi sulla stessa
legge o punti della legge, così come noi la stiamo considerando. Vale a dire: io non so se A, in rapporto con
A, andirivieni, reciprocità, scomparsa in A nel secondo tempo del rapporto uomo-donna, solo relazione
maschio-femmina, è un discorso appartenente solo alla psicosi. Credo comunque di potere affermare che in
un certo discorso perverso sull’Io, tutti diventano dei signorinetti, dei maiuscoletti. Appunto, non so se si può
coniare una formulazione un po’ più in piccolo di questo A grande. In ogni caso, nel rapporto soggetto-altro
non è che il soggetto sia meno grande di A. E’ in una posizione dissimmetrica. Invece in una certa
concezione dell’Io, dove da una parte c’è l’assoluto Io — vediamo anche le vicende di questi tempi, no —
dove c’è una assenza di legge del rapporto, cioè quella norma del soggetto che si mette in rapporto con
l’altro per il proprio beneficio, tutti diventano maiuscoletti e allora si chiedono… Addirittura diventano
maiuscoletti i parlamentari che fanno determinate leggi pro-perversione. La seconda cosa è appunto subito in
conseguenza. A me sembra che uno degli aspetti più rilevanti nella concezione dell’Io… Potrei anche dire
così: che il discorso dell’Io così come attualmente viene diffuso — ed è responsabile anche una certa
diffusione di concetti, derivante dalla psicoanalisi — fa sì che questo Io che nel pensiero di Freud
corrisponde al pensiero del soggetto e non alla psiche, alla psicologia di un soggetto, è una parte e non
invasiva, nel discorso invece diffuso diventa una parte talmente invasiva che potrei allora ritradurre questo Io
in un Super-io. Cioè diventa una specie di Sùper-Io, tanto impotente quanto diffuso, tanto legiferante,
quanto mancante di criterio, di legge, di norma. Questa è una cosa che mi veniva ascoltando anche Contri.
GIACOMO B. CONTRI
Mi ha fatto piacere come Malagola ha pronunciato la parola; ha detto Sùper-Io. Mi sono accorto
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subito che ciò che la parola mi ha fatto venire in mente non è la solita parola il Super-Io. Non so se ha fatto
lo stesso effetto a voi.
FRANCO MALAGOLA
Una prima osservazione: il tema dell’Io o il tema di Io può essere accostato in un modo che è, nel
caso mio specifico, di cominciare a metterlo in relazione con altre coppie di termini. La prima coppia di
termini è vocazione-tentazione. Ed ecco che ho riportato lo schema della nostra legge.
Il secondo tema è quello di bambino-adulto. Il terzo tema è quello di dipendenza-indipendenza. E ce
ne sono anche altri.
Riguardo al tema vocazione-tentazione pensando che vocazione è traduzione di pulsione, la pulsione
è un corpo ―vocato‖, chiamato, pensavo che si è avuto ragione quando qui parlando di pulsione si diceva: ma
non parliamo di pulsione, così come non parliamo di inconscio, per almeno sei mesi. Perché questi sono
termini che sono circolati ampiamente, nel discorso del trivio, e sono stati assolutamente azzerati nella loro
capacità di creazione di aderenza alla cosa che Freud voleva dire. Traducendo allora pulsione con vocazione,
e tentazione con perversione, noi abbiamo già due mondi diversi, il mondo di un corpo chiamato, e il mondo
della perversione, che hanno due strutture diverse. E in queste due strutture diverse ci sono due Io diversi.
Notiamo anche che il pericolo di chiamare pulsione la compulsione, porta come tentazione a concepire la
pulsione come perversione naturale dell’inconscio, oppure come la precondizione di tutto il patologico. A
questo segue che pensando a pulsione, a inconscio, come una pre-condizione patologica per cui siamo tutti
un po’ malati per cui si tratta di aggiustarci tutti un pochino, etc., viene ad essere ridotto ad una serie di
realtà, ad esempio la realtà bambino, viene ad essere ridotta come quel qualcuno che è nato in quella certa
situazione, con quelle certe pulsioni, con quel certo inconscio, legato alle pulsioni, con quella certa legge che
però si deve abbandonare appunto perché infantile.
A questo si contrappone invece nettissimamente Freud quando dice che c’è un pensiero che viene al
bambino ed è un pensiero della legge ed è un pensiero che indica una facoltà astrattiva ben formata e che è a
tal punto un pensiero pensato che il bambino pensa il Padre o pensa il pensiero del Padre indifferentemente a
partire dall’esperienza empirica del padre e della madre; indifferentemente. Quindi si parte da una capacità
intellettuale del bambino che non è più quel bambino che in prospettiva evolutiva deve diventare il grande —
sì, questo bambino lo si cura perché è un bel bambino, però il discorso è che è tutto in prospettiva del
diventare grande —. No. Noi diciamo che la realtà del pensiero, cioè la risposta alla domanda Che cos’è
pensare? comincia dal rispondere a che cos’è l’infans, il bambino.
Abbiamo parlato di un pensiero, un pensiero che ha un certo inizio: è databile, in ogni singolo. Il
pensiero normativo che questa legge, che questa norma ha, ha una data origine. Ha degli anni di formazione
— molto pochi — non ha alcun bisogno di rinviare a una psicogenesi o una logogenesi di questi pensieri,
immemoriale e comunque antecedente. Questa legge, questa norma posta è un terminus ad quo da cui si può
iniziare. Affronterei adesso un appunto.
Lo affronterei indicandovi un testo di Freud, del 1916, che è Una difficoltà della psicoanalisi. In
questo testo Freud parla delle tre ferite narcisistiche all’umanità. E tra le ferite narcisistiche colloca con
precisione una ferita narcisistica che riguarda l’Io e proprio la frase in corsivo che mette quasi alla fine del
suo saggio, dice:
Così la psicoanalisi voleva istruire l’Io. Ma le due spiegazioni — che la vita pulsionale della
sessualità non si può domare completamente in noi, e che i processi psichici sono per sé stessi
inconsci e soltanto attraverso una percezione incompleta e inattendibile divengono accessibili
all’Io e gli si sottomettono — equivalgono all’asserzione che l’Io non è padrone in casa propria.
(…) Non c’è quindi da meravigliarsi se l’Io non concede la propria benevolenza alla psicoanalisi e
continua ostinatamente a non crederle
Questa cosa mi ricordo che è stata detta da Contri, almeno quattro anni fa. Comunque, criticava la traduzione
del saggio Das Unheimliche era stato tradotto ne Il perturbante e Contri diceva che questa traduzione era
utile soltanto ad omologare la pulsione al patologico e l’inconscio al patologico. Una volta posto questo
perturbante che è un po’ in tutti, nei più sani e nei più malati, in quella e in quell’altra forma critica. Ora
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nello stesso testo di Freud dove c’è un’indagine di questo termine, anche in lingue che non siano il tedesco,
si rileva che Freud non dà il significato di umheimliche come ―perturbante‖; la sua accezione, attraverso
anche il prendere in considerazione Schiller e qualcun altro, è che unheimliche vuol dire semplicemente che
non si è in casa propria. Allora, la frase di Freud che dice: «L’Io non è padrone in casa propria» in un senso
positivo vuol dire che l’Io non è padrone a casa sua perché la sua casa è il proprio corpo e il proprio corpo
non è casa sua perché il concetto di pulsione è il concetto di una relazione essenziale con un altro. Avete
visto che lì uso il concetto di pulsione, ma in questo caso si potrebbe parlare di moto del corpo. Perché
pulsione vuol dire: si sta a casa d’altri, se è soddisfazione, ossia è fasullo il concetto di ―casa propria‖. Allora
c’è un curioso rovesciamento, perché mentre heimliche vuol dire familiare, e sembrerebbe che si sta bene a
casa propria, sembrerebbe che essendo questa casa, casa d’altri, e si sta bene in casa d’altri, allora il dicorso
di heimliche potrebbe essere convertito in quello di Unheimliche. Questo sta a significare che Freud dice:
«L’Io non è padrone in casa propria», cioè l’Io dipende da altri, e nella sua costituzione, buona o cattiva, è in
diretta dipendenza dalla bontà o non bontà di una relazione con un altro. Nel caso specifico, la dipendenza
dell’Io è in direzione della legge posta da lui come legge oggettiva, corrispondente al concetto psicoanalitico
di inconscio, norma oggettiva alle cui dipendenze poi si pone, l’Io si pone alle dipendenze di quel corpo che
è diventato un’altro corpo una volta che questo corpo è stato umanizzato come noi abbiamo detto, anche
negli anni precedenti, allora l’Io dipende da questo moto, da questa vocazione, ma — altra forma di
dipendenza — è lo stesso tipo di dipendenza quello che Io ha dal Super-Io? Può essere dipendente dal SuperIo? Traduco subito: Super-Io è l’usurpatore di una legge che è la legge del beneficio personale, individuale,
nel rapporto con un altro soddisfacente. Mancando questo punto della legge, che cosa si diventa? Non si
rimane senza legge, ma se ne costutuisce un’altra usurpatrice, tirannica. Allora, la dipendenza dell’Io può
essere anche la dipendenza dal Super-Io, vale a dire da questa tirannia. Non è assolutamente la stessa cosa.
Non è la stessa cosa sul piano pratico, non è la stessa cosa sul piano teorico, non è la stessa cosa sul
piano strutturale.
ALBERTO COLOMBO
Delineo brevemente la finalità che mi sono ripromesso nello stendere alcune note che ora vado
esponendo. E’ una finalità che può essere espressa dicendo che ho inteso fare una sorta di compendio delle
risultanze salienti, più rilevanti, dell’insegnamento della Scuola, in merito a questo tema e cioè al tema Io coscienza.
Una prima cosa che si può dire per quanto riguarda il depositum doctrinae nostro è che in prima
istanza noi abbiamo una buona opinione dell’Io. In opposizione al già ricordato spirito del mondo
contemporaneo, che in realtà dell’ Io per lo più non pensa bene e non pensa bene né a livello di cultura dotta,
accademica o non accademica, né a livello di senso comune diffuso. Ricordo come siano stati correnti sino a
qualche tempo fa e ancora se ne coglie la presenza, espressioni come morte dell’uomo, dissoluzione del
soggetto, scissione originaria dell’Io, deterritorializzazione dell’Io. Ecco, per esempio, per quanto riguarda
questa deterritorializzazione ciò che qui si sostiene è che il territorio dell’Io è una cosa del tutto certa ed è il
suo corpo. Se c’è qualche cosa che non è deterritorializzata ma che ha un suo preciso territorio, questo è per
l’appunto il soggetto e l’Io.
Sino a sostenere che l’Io stesso, e qui mi riferisco a un insegnamento particolare nell’ambito psicoanalitico, è
sintomo o addirittura la malattia mentale dell’uomo.
Il dr. Contri, riferendosi a un salmo, si domandava: «Che cosa è l’uomo perché qualcuno se ne
ricordi?». Noi non siamo metafisici e quindi non ci pronunciamo in sede di metafisica sull’essenza
dell’uomo, ma qualche cosa in merito a questa domanda si è detta. Ricordo tre risposte a questa domanda,
che appartengono al nostro patrimonio comune e che sono risposte in qualche modo intercambiabili, che sia
pure attraverso formulazioni diverse dicono la stessa cosa.
Ricordo, per esempio, ―L’uomo è quel punto in cui la natura si fa questione di soddisfazione‖,
―l’uomo è un soggetto pulsionale‖, ―l’uomo è colui che è o ha un corpo‖. Dico l’uomo, dovrei dire però
obbedienza al comandamento del linguaggio inclusivo l’essere umano…
In questo senso emerge che il tratto in qualche modo distintivo dell’essere dell’uomo è per l’appunto
l’essere soggetto pulsionale, la pulsionalità. E’ un connotazione diversa, ma non oppositiva, rispetto alla
vecchia tradizione di origine greca che definisce l’uomo come animale razionale. Diversa; non
necessariamente oppositiva. Non mi trattengo sul concetto di pulsione, concetto sul quale i è ritornati più
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volte anche all’interno di questo corso. Ricordo che lo si guadagna sommariamente, lo si guadagna attraverso
l’opposizione a istinto, il che vuol dire riprendere in qualche modo quella nozione di pulsione come concetto
limite fra il somatico e lo psichico che già appartiene a Freud, ricordando che la bilateralità della pulsione è
definibile anche rispetto due altri aspetti: alla completezza e alla incompletezza.
Da un lato la pulsione è completa, completa nei suoi articoli: fonte – spinta – oggetto – meta;
dall’altro è segnata però da una incompletezza, nel senso che la meta non è determinata. Potremmo dire con
altre parole che la pulsione, che ciò che essendo destinato a meta, non ha una meta predestinata. Appunto per
questo, l’uomo come soggetto in pulsione è interpellato da una questione, che è in qualche modo il suo primo
oggetto: ben può accadere che qualcuno, l’uomo appunto, abbia come oggetto una questione. Quella
appunto, della meta del suo moto. Potremmo anche dire che l’uomo è quell’ente che ha come oggetto
innanzitutto questa questione.
Una questione che è una e ineludibile. Ovverosia, non eludibile, almeno senza conseguenze. Si può provare a
eluderla, ma si paga il tributo a questo tentativo.
Questi richiami consentono di trarre alcune implicazioni notevoli, che enumero concisamente.
1° implicazione
In quando l’uomo è un soggetto investito dalla questione del moto pulsionale, (…), già per ciò stesso
esso si presenta come il soggetto di una imputazione. E viene collocato sul registro della imputabilità e non
su quello della causalità naturale, naturalisticamente intesa. Anche se, in un più vasto concetto di causalità, si
può includere anche quello di imputabilità. Ma si tratta appunto di ricalibrare il concetto.
2° implicazione
In quanto all’uomo è data la questione della meta pulsionale, si apre la distinzione tra due momenti,
che sono tali sia sotto il profilo logico, sia sotto il profilo cronologico, il primo essendo il momento del
costituirsi stesso dell’uomo come corpo pulsionale, che poi è lo stesso trasmutarsi della natura in corpo, cioè
lo stesso umanizzarsi di quell’ente che è l’uomo. Il secondo è quello per cui l’essere umano che non è in
quanto soggetto colui che produce e pone la questione, non è l’uomo che crea, produce la questione della
meta pulsionale. Tuttavia la riceve, la assume e vi risponde. Ovvero i due momenti si configurano come
l’essere investito dalla e l’essere investito nella questione pulsionale.
3° implicazione
In quanto quello del moto a meta è una questione, è tale, essendo una questione, proprio perché
ammette delle alternative. Essa quindi da un lato si configura, apre un campo di possibilità, dall’altro implica
che il soggetto che in essa si impegna, che si impegni in questa questione, debba esercitare una qualche
competenza.
4° implicazione
Poiché è la meta del moto il contenuto della questione, ne conseguono i nomi della meta, che sono:
soddisfazione, che è la meta stessa in quanto beneficio personale del soggetto della pulsione; conclusione,
che è la meta stessa in quanto termine o fine del moto; soluzione, che è la meta in quanto risposta a un
problema-questione. E da ultimo, ma primariamente, per così dire ubiquitariamente presente in tutti gli altri
nomi, il quarto nome è legge in quanto la meta essendo ciò secondo cui si dirige la pulsione ne é la norma.
Queste premesse hanno definito così le coordinate concettuali e per quali si disegna, prende forma
per così dire la figura dell’Io, giustificando un uso appropriato di tale pronome.
Dell’Io se ne sono dette di cotte e di crude; vediamo di dirne di giuste.
Come esso viene indicato, affermato, lo stesso soggetto pulsionale, in quanto accusa ricevuta della
questione della pulsione e assume la questione del moto della pulsione rispondendovi attraverso l’esercizio
di una competenza, che per quanto detto non pu essere che una competenza normativa e cioè elaborazione
delle condizioni che rendono possibile la meta di un moto soddisfacente.
Così in un primo abbozzo di può definire ciò che si può intendere in una psicologia quale noi
proponiamo ciò che si intende per Io.
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L’Io è lo stesso soggetto pulsionale, in quanto accusa ricevuta e assume la questione della pulsione in
posizione di elaborante.
Noto a margine che il termine che noi prediligiamo per quanto riguarda il tema della pulsione, è il
termine moto; più volte lo si è ricordato in altre occasioni; esso è un termine più inclusivo, più esteso,
direbbero i logici, del termine azione, per esempio, o del termine condotta. Anzi, oserei dire che per pensare
il soggetto pulsionale, non come il soggetto di un moto, ma di un’azione è il segnale linguistico di una
concezione patologica del soggetto pulsionale. In quanto concepire il soggetto pulsionale come il soggetto
azionistico o attivistico è una concezione patologica perché tende a cancellare la dimensione di passività, che
è un aspetto essenziale della normalità del soggetto pulsionale.
Ho introdotto così il concetto di Io e la rilevanza di questa introduzione del concetto di Io, la si
apprezza secondo me, tenendo conto dei corollari che ne conseguono. E anche qui procedo pedantescamente
enumerandoli.
1° corollario
L’Io, in quanto è il soggetto che assume la questione della meta del suo moto, non è un’istanza —
noto che istanza è un termine giuridico — primaria, primaria essendo la questione che gli è data. Non è da
lui posta, questa questione, né creata. L’Io interviene, in un certo senso, in seconda battuta, sopraggiungendo
e in questo senso è un’istanza che si costituisce distinguendosi dal corpo pulsionale, che possiamo anche
chiamare secondo la vecchia nomenclatura psicoanalitica Es, nell’atto stesso in cui ad esso di rivolge,
prendendosene cura. E non avendo peraltro questo rivolgersi dell’Io al proprio corpo pulsionale nessuna
valenza di involuzione narcisistica. Qui il narcisismo non c’entra niente. Non essendo lì un’istanza primaria,
ne consegue inoltre che il suo concetto non sta inoltre tra i concetti primitivi e fondativi di una psicologia
correttamente istituita e senza nessuno svilimento del concetto di Io per il fatto che esso non è fra i concetti
primitivi. Ci possono essere dei teoremi molto più importanti come ricchezza di contenuto degli assiomi da
cui discendono.
2° corollario
L’Io è il soggetto dei seguenti rapporti di dipendenza, senza sudditanza. E qui incrocio ciò a cui ha
già fatto accenno Malagola.
A) della già nominata questione del moto pulsionale: l’Io dipende dalla questione del moto pulsionale, nel
senso che si trova, se dovessimo usare un termine patologico, a gestirla, diremmo; cerchiamo un termine
non patologico: governarla, in fondo, non sarebbe neanche male.
B) l’Io dipende dalle alternative che riguardano gli esiti della questione della legge del moto, che non sono
alternative, né illimitate né inventate arbitrariamente dal soggetto o dall’Io, ma sono limitate di numero e
individuabili ultimativamente negli esiti, innanzitutto, di normalità e patologia. E per quanto riguarda la
patologia – nevrosi, psicosi, perversione e handicap psichico –, naturalmente dovendo ricordare che
questa quadripartizione va riportata sotto la distinzione patologie cliniche e patologie non cliniche.
C) L’Io dipende dalla realtà, segnatamente dalla realtà dell’offerta, di apporti di legge supplementare da
parte di altri per il compimento del moto pulsionale.
GIACOMO B. CONTRI
Grazie a chi abbiamo appena ascoltato per avere introdotto — è la parola — in ambedue i casi con
una disseminazione di termini. Fino al momento si è trattato di semina.
Mi sembra di fare bene a mettere lì, come si fissa un paletto, poi magari non è messo proprio nel
punto giusto, si corregge la posizione… insomma un paletto indicatore. E terra terra, al riguardo di Io e
coscienza. Poi alcuni che mi conoscono meglio sanno che non sono ingenuo nell’usare l’espressione terra
terra. Non esiste qualcosa di diverso dalla terra; c’è soltanto la terra; se, secondo certe promesse, sarà terra
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nuova, anche in quel caso ci sarà soltanto terra. Non c’è il cielo e la terra. C’è la terra. Poi saranno terra
nuova e cieli nuovi ma fanno parte della stessa terra. C’è soltanto la terra.
Ricordo che uno degli amici che ci lasciò, ormai due anni fa, e lavorava con una parte di noi, si era
un po’ scandalizzato quando dissi che per tutte le cose che diciamo vale la metafora della suola delle scarpe:
non ci alziamo mai al di sopra delle suole delle scarpe, il corpo che si alza al di sopra delle suole delle
scarpe. Ma le nostre idee, teorie, sono suole delle scarpe.
Mi veniva da suggerire: non il minimo dell’Io, ma il più terra terra dell’Io, dell’Io normale, dell’Io
quando è normale. Quando non è normale si fa sfuggente, come il timido o come il ladro.
Come il ladro che dice che il furto non è un delitto. Dire che il furto non è un delitto, che cosa è dire? Che
l’Io del ladro non esiste; va bene? E’ terra terra, questo. Depenalizzare in toto una fattispecie penale —
l’omicidio, il furto, la falsa testimonianza, lo stupro, etc. — depenalizzare in toto, non solo per una parte —
se uccide per legittima difesa è e resta omicidio ed è proprio l’omicidio così com’è configurato dal codice
penale, proprio quell’omicidio lì; ma semplicemente il nostro diritto dice: ci sono casi in cui proprio quel
delitto, che resta delitto, anche se è stato per la più limpida e cristallina difesa, resta delitto; però è
depenalizzato. Ossia, l’Io resta. Mentre se si toglie l’intera specie dell’omicidio, ciò equivale a dire che non
esiste l’Io dell’omicida. In qualsiasi modo siano andate le cose, le cose sono andate secondo una legge,
mettiamo causale, o del raptus, che significa dire che l’Io non esiste. E’ terra terra, questo; proprio una vera
dottrina dell’Io. Una dottrina perversa dell’Io. E’ quella che con solo pseudo-comicità, il perverso stesso
esprimerebbe con una battuta: «L’ho ucciso, però non so se l’ho ucciso. Se c’ero, dormivo». E’ una delle
formule. Come quell’altra: qui lo dico, qui lo nego.
Allora, il terra terra in cui individuerei l’Io è nel solo posto dove per millenni non si è mai andato a
cercarlo. Eppure lì, l’Io è veramente lui. L’Io è veramente lui nel sonno. Non ho ancora detto: nel sogno. E’
veramente lui nel sonno, perché in quel momento — dovreste immediatamente comprendere che non c’è
ingenuità nel riferimento, tanto è vero che tutti sanno cos’è l’insonnia, cosa spiacevole per il piacere. Perciò,
il termine accoppiato e opposto a sonno non è stato di veglia. Non è vero. E’ l’insonnia. Allora, abbiamo già:
l’Io nel caso del sonno e l’Io nel caso dell’insonnia.
Vedete che qui punto tutto sul terra terra, parlando dell’Io, riguardo alla più comune delle esperienze: dormo
o non dormo questa notte. E tutte le nostre definizioni, quali che siano: psicologiche, metafisiche, o
quant’altre — giusto il riferimento di Colombo — che non siano delle immediate risposte a tutto ciò che di
casistica umana, a partire dal sonno, ci offre, non va con un nome in partenza. Il proprio di una teoria vera,
psicologica, è di essere parlante intorno al ciò di cui si tratta nell’esperienza comune. Il che non è affatto
poco di una teoria fisica vera. Le teorie fisiche non parlano; le teorie di matematica non parlano. Il proprio
della nostra… noi non siamo cognitivisti: la teoria cognitivista non parla, è muta, è senza la parola, per
definzione. La nostra teoria psicologica è una teoria è una teoria che è parlante — nel senso dell’italiano —
intorno ai fenomeni di comunissima esperienza, indipendentemente da qualsiasi grado scolastico o culturale,
età, sesso, razza, religione. Perché nel sonno esiste l’Io, una volta che si ha ben presente che la controparte è
l’Io nell’insonnia, termine di paragone? Per il fatto — tema il sonno — lasciatemelo esprimere, sempre a
costo di esagerare sul terra terra — perché il sonno è il caso in cui l’Io s’è fatto furbo: lascia che ad agire
siano gli altri. Ma l’ho detto intenzionalmente in modo sciatto. Diciamolo in un modo formale o rigoroso.
Basta aggiungere una parola: l’Io s’è fatto furbo — espressione ancora andante — perché per un momento
che dura n ore lascia che ad agire siano tutti gli altri: l’universo. Mai l’Io raggiunge l’universalità — sto
usando la categoria di universalità nel modo più formale possibile —; mai l’Io raggiunge l’universalità più
che nel momento del sonno. E anche questa m’è venuta bene. Nel momento in cui il massimo della
dipendenza è lasciare che ad agire siano tutti gli altri, dato che l’agire degli altri, o come va il mondo pur
sempre mi tocca, e se viene la guerra ci resto sotto… Quindi, mi riguarda effettivamente come va la politica,
come va l’economia, come si comporta la mia famiglia, i miei conoscenti, i miei vicini, i miei collaboratori
di lavoro. Mi importa sì. Il caso dell’indifferenza non esiste. Non esiste il caso: vado a dormire e me ne
infischio… Andare a dormire anche se uno getta lì la battuta pseudo-spiritosa dell’ andate al diavolo, io vado
a dormire è soltanto una battuta pseudo-spiritosa. E’ un atto di affidamento, di obbedienza alla totalità
dell’universo. E l’insonne lo sa. L’insonnia è la caduta di questa obbedienza; è corretto usare questa parola,
applicata in un certo modo piuttosto che in un certo altro.
E’ buona come prima, basale — proprio come si dice la temperatura basale — individuazione
dell’Io: eccolo qua. Normale e nella piena potenza dell’universalità. Ecco un caso di obbedienza che a
nessuno verrebbe in mente di considerare pedissequa, servile, sull’attenti… Al tempo stesso se solo si
aggiunge alla considerazione del sonno la considerazione del sogno, vediamo che questa obbedienza è
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persino vigile, perché l’Io, senza fare ancora ulteriori articolazioni teoriche, è arcinoto a tutti, anche se hanno
sognato una sola volta nella vita, o meglio che ricordano un solo sogno nella vita, che l’Io di notte è vigile.
Se c’è uno di cui si può ben dire che di notte non dorme è l’Io. E si alza riposatissimo. Il che significa che o
il piacere notturno non è una questione di spesa energetica, oppure che l’Io ha a sua disposizione risorse
energetiche infinite. Ho aggiunto un’altra parola: prima universo, ora infinito. Ho applicato le risorse, un
concetto economico.
Finisco con questa aggiunta su Coscienza e Io: non ho ancora bene controllato questa frase, che mi è
venuta ascoltando prima. Mi sembra che sia abbastanza degna per essere proposta, dovesse anche essere
corretta o … Non è da irresponsabile proporla senza averla verificata attentamente. Sul rapporto di
distinzione coscienza-Io: è proprio riferendosi al gergo secondo il quale si dice che una ci sta, uno ci sta, o
che negli affari ci si sta, ci si sta, il partner ci sta, che la coscienza è l’Io quando ci sta. Cioè, in cosa consiste
la distinzione? Perché la distinzione nel rapporto di interesse? Perché l’Io che ci sta — ed è la stessa
considerazione di fondo fatta per l’Io nel sonno, ossia che ci sta, nel senso che ci sta con tutto il resto
dell’universo, lascia che ad agire sia l’universo, — allo stesso modo questa definizione che la coscienza è
l’Io che ci sta, la coscienza risulta essere l’Io che è quando cessa di essere ciò che è il più spesso, ossia il
soggetto dell’azione. Il ci sto di un partner all’invito, offerta, dell’altro partner, è il lasciare l’azione al
partner. Sto definendo la coscienza come l’Io quando cede al partner l’azione; il momento, il tempo, la
funzione dell’azione. O la funzione dell’azione per un certo tempo.
Non basta: — e finisco con questa aggiunta — allora la coscienza è l’Io quando lascia l’azione
all’altro come il proprio consenso. Ecco recuperata la radice con- della parola coscienza. La coscienza
implica il pensiero dell’altro, in questo caso consenziente. E’ per questo che ho usato l’espressione ci sta,
facendo come prima, ossia prendendo il termine di paragone antitetico così come il sonno ho suggerito di
paragonarlo all’insonnia; così in questo caso consideriamo la coscienza il soggetto patologico.
Se patologico, non ci sta. Nell’isteria si s-viene, non ci sta. Proprio, viene meno fisicamente. Viene
meno la coscienza, il consenso. E tutta un’altra serie di sintomi psicopatologici, compresa la frigidità… La
frigidità è quello che si potrebbe chiamare un vizio di consenso. Non ti darò la soddisfazione della mia
partecipazione a ciò che svolgi. Ecco, mi era sembrato utile, spero poi di non avere avuto torto, a suggerirvi.
C’è una base di idee che può servirci da immediato punto di riferimento. Su qualche cosa che volevo
aggiungere in riferimento all’handicap, che è diventato per me sempre più il termine di paragone assai più
che le psicosi. Oggi le psicosi non mi interessano più. Basta. Abbiamo già dato… Cinquant’anni che sono lì
sulla psicosi, come si fa a curare la psicosi, bisogna occuparsi degli psicotici, non se ne può più. Chi se ne
frega degli psicotici!
(…)
GIACOMO B. CONTRI
CONCLUSIONE
Faccio il mio block notes, quello che si dice il block notes.
1. Super-eroi
Il primo si intitola Super-eroi. Abbiamo finora la verifica empirica: il campo dell’handicap in effetti
è quello con cui mi confronto di più, intellettualmente o nel pensare. E’ diventato un termine di paragone. Se
è giusta l’idea che ora dirò sui super-eroi, allora quest’idea stessa segnala empiricamente una volta in più che
è vero che la formazione, vostra, è riforma e non apprendimento di ulteriori accezioni conoscitive. Mi è
venuto a proposito di Sùper-Io, allora super-eroi. I super-eroi, io ne conosco un bel numero, Superman,
Capitan America, e poi tutta una serie, e naturalmente il più intelligentemente elaborato Batman, i super-eroi
sono vistosamente, non c’è una lunga dimostrazione da fare, sono una rappresentazione culturale di quel
gruppo particolare di handicappati che sono gli idiot sàvant, di cui ha parlato l’anno passato il prof. Moretti.
Ricordate? L’ idiot sàvant è quello che è anche peggio del solito handicappato della strada, l’handicappato
comune; è quello che ha imparato tutta la guida telefonica, a moltiplicare numeri di quattro cifre, ossia delle
super specializzazioni in abilità molto limitate, precisamente definite e sempre quelle. Le variazioni sono
solo all’interno del numero di quattro cifre.
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E’ per dire a tutti coloro che si occupano di handicappati che i libri di testo riempiono le edicole,
perché le edicole sono piene di fumetti di super-eroi e anche ogni tanto il cinema. Questo per la vostra
formazione, riforma pratica, è un’indicazione fra le tante raccoglibile dalla vostra individuale competenza,
perché le edicole sono a disposizione di tutti. E inoltre se non tutti, almeno tanti, hanno già letto un po’ di
fumetti. Se non che non gli è venuto in mente che si tratta precisamente di un caso particolare di handicap. E
a poco a poco, grazie all’introduzione di queste cose che devo a Nietta, a poco a poco mi è venuto un certo
occhio per quel tanto di abile che anche gli handicappati della strada, in qualche misura hanno. Alcuni sono
diventati dei savant nell’orrore, nel far schifo: anche questa è un’abilità. Io stesso, se in questo mi proponessi
di farvi davvero schifo, io non credo che ci riuscirei in questo istante, saltando sulla cattedra e cercando di
inventarmi delle cose. Mi ci vorrebbe una formazione per almeno sei mesi, per riuscire a farvi schifo. Non
sono capace. Non ho questa abilità. E so benissimo che mi ci vorrebbe un addestramento non da poco. E’
bene importante. Nessuno di voi, credo, sia già equipaggiato per questa abilità. La gran parte di quelli che
seguite sono già così. Avete ancora il difetto di ridere, ma comunque…
Allora, mettetevi in questa prospettiva dal punto di vista del trattamento possibile. Del come è
trattabile un individuo in questa abilità che ha sviluppato e che magari apparentemente non sia neanche
troppo handicappato dal punto di vista sociale. Caso incontrabile. Però senza essere uno psicotico. Quelli che
si chiamerebbero dei maniaci non nel senso psichiatrico. Le fisse sistematiche altamente sviluppate e
altamente impegnative, nel tempo, nel dispendio delle risorse, fino alla barca a vela tutti i week-end.
Le note che sto facendo gravitano tutte intorno all’Io. E’ indubbio che è stato l’Io di quel soggetto a
inventarsi, a dedicarsi a moltiplicare due numeri di quattro cifre. Non gli è saltato in mente. E’ la mente che
l’ha inventato. E’ indubbio che se avessimo un Superman o Capitan America, se abbiamo ancora un filo di
buon senso, ne deduciamo che sono incurabili. E’ impossibile fare qualcosa a un soggetto del genere. Allora
l’idea di ripartire dall’impossibilità è la migliore idea per una qualche concezione della curabilità di queste
cose. Vi suggerisco di partire dalla constatazione, peraltro dalla verità empiricamente verificata da tutti, che
non potete farci niente. Partite dall’idea di impossibilità; allora forse qualche ideuzza verrà fuori. Questo è il
mio attuale compito. La scoperta dell’impossibile è la più fantastica scoperta che uno possa fare.
2. Selvaggi
Seconda nota: a proposito di selvaggi. E’ venuta fuori a proposito di psicanalisti. Due sottoosservazioni sul tema. Sempre il metodo deve essere quello di evitare due pesi e due misure. Se si applica la
parola selvaggio e parliamo di psicanalisti, vediamo a chi altri potremmo applicarla. Facciamo la serie:
handicappati selvaggi, perversi selvaggi, psicotici selvaggi, nevrotici selvaggi. Cos’è il perverso selvaggio?
E’ soltanto uno che non ha ancora capito bene che cos’è la perversione. Il giorno che non sarà più selvaggio,
allora sì che diventa pericoloso.
La maggior parte degli psicoterapeuti, sul piano specialmente dell’Albo, sono degli psicoterapeuti selvaggi
che sono passati … Formali. Nessuno ha cercato una propria formazione …
Dato che selvaggio equivale a ingenuo, a quello che non ha ancora capito bene in che modo è combinato;
quanto più un selvaggio esce dall’ingenuità, allora si combina, diventa un fatto culturale e cosciente, prende
coscienza. E per questo curare non dev’essere mica far prendere coscienza. Quelli che ammettono una cosa
di questo genere, il lavoro di coscientizzazione…
L’altra osservazione a proposito di selvaggio: ma chissà perché nel caso psicanalisti… Della
quarantena della psicanalisi parlerò sabato mattina. Come è venuto in mente a qualcuno di dire selvaggio?
Sono stati psicoanalisti, psicoterapeuti selvaggi. La prima spiegazione sarebbe che voleva essere un epiteto
un po’ insultante, come ciarlatano. In effetti c’era questo. (…) Però non è stata usata solo così. E’ stata
usata anche in modo ingenuo, la parola selvaggio alla buon selvaggio. Trattandosi — eravamo in ben altri
decenni — di dopo tutto persone che non erano appena venute fuori dalla campagna, dagli zoccoli, avevano
un po’ vissuto una vita, una certa cultura, qualche studio l’avevano fatto, magari medicina, compiuto studi
superiori, avrebbe potuto venire in mente un altro aggettivo, del tutto corretto, che è l’aggettivo dilettante o
amatore. Per esempio, considero che sono un dilettante; se so fare quello che faccio sono un dilettante. Mi
annotavo che la parola dilettante è abbastanza notevole perché è a doppio senso: mi diletto io, ma diletto te.
E’ la freccia in basso della formula.
Con il tempo che c’è, ancora pochissimo, qualcosa sul nesso Io - oligofrenia. Allora solo una, che
è: — ancora stessa funzione che mi sono presa prima nell’intermezzo — a proposito dell’Io. Imposto solo la
questione e quella che suggerisco come risposta alla questione. Sì, detto proprio elementarmente va non
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neanche detto in un’altra maniera: se non si può dire l’Io è la coscienza, perché essa muta a seconda del
campo patologico al quale appartiene, perché parlare ancora di Io e non dire che sono delle cose diverse:
Chiamiamole con quattro parole diverse. E’ un sano misto di spirito un tantinello scientifico e razionale e
anche di saper usare le parole.
Se sono tanto diverse da non poter dire l’Io, come se ci fosse comunque uno che resta immutato in
questi profondi variare, da essere handicappato, nevrotico, per quale ragione non dirsi che dopo tutto, a
essere un tantinello rigorosi, bisognerebbe usare nomi diversi e non dire più l’Io.
Se all’obiezione suddetta non si risponde è valida obiezione. Ma allora se è valida l’obiezione non ha
più senso dire l’Io, in qualsivoglia.
Allora, fine dell’Io, dissoluzione del soggetto, … E’ corretto. L’obiezione è buona. Questa sembra
molto buona. L’Io del perverso è la massima ostilità all’Io normale.
La risposta, a mio giudizio, è questa: è che ogni Io, dove ogni non vuol dire quello di ognuno, ma
quello di ognuna delle appartenenze patologiche, — sono appartenenze senza essere obbedienze — che
questi Io sono tutti definiti, ossia è qualcosa di più dall’avere in comune un alcunché, un x in comune,
essendo diverso tutto il resto, e se fossero tutti pur sempre Io per il fatto che hanno qualcosa in comune
ritorneremmo all’idea che c’è un nucleo dell’Io pur sempre identico in tutti. Non sto a tirar fuori la solita
storia degli gnostici, ma è quello che han detto gli gnostici: che io sia santo, che sia assassino, qualsiasi cosa
io combini, avrò sempre la scintilla — la grande parola gnostica — l’Io ineffabile, vero pur sempre, benché
affondato nel fango dell’umano, nella storia e nel tempo. La metafora della scintilla è scelta appositamente:
la scintilla va sempre in alto, verso Dio. Allora non si tratta del qualcosa in comune, seppure un’infima parte;
la scintilla cos’è? Quasi un nulla. Si può individuare la materia, ma per il concetto la scintilla è quasi senza
materia.
Allora, che cosa nella conclusione propongo per dire che si tratta di Io come un duplicato? Una e una
sola cosa e cioè il requisito, il primo requisito di ogni Io è l’imputabilità. Sul primo quaderno, La città dei
malati, c’è abbastanza a questo riguardo.
3.Chi se ne frega?
Finisco sul Chi se ne frega. Il primo era venuto bene. Vi suggerisco di scrivere la domanda e di
occuparvi personalmente di ognuna delle parole della frase: chi se ne frega degli… e mettete pure psicotici,
handicappati, perversi, …
La parola se ne frega potete subito tradurla in un linguaggio un po’ più onesto, un po’ più degno.
Vuole dire cosa, se ne frega? Non è anzitutto con la parola interesse, che la tradurrei. Ma mettiamo, diciamo:
a chi interessa che vuol dire occuparsene.
Saltiamo un momento alla parola Io e finisco sulla traduzione della parola chi se ne frega. Chi è uno
che dovrebbe rispondere con la parola di Don Abbondio: «Io?!?!?». Sono io che devo occuparmene di questi
qui? Come se uno si sentisse chiamato a un compito parabolico. Se non ne avete voglia, può darsi che siate
anche formabili a fare uno dei lavori di cui parliamo qui. E’ inconcepibile fregarsene. … ma già in questa
frase è collocato in qualche punto l’Io, con un insieme di punti esclamativi e interrogativi: «Io?!?!?»
Finisco con un’altra traduzione. E’ in ogni caso ovvio che l’espressione triviale, fregarsene di
qualche cosa, vuole dire principio di piacere: mi va; per qualsiasi ragione mi vada, mi va.
Quale mai principio di piacere si potrebbe avere con soggetti, compreso me stesso nella misura in cui
appartengo a una di quelle quattro categorie, quale piacere, quale esercizio del vostro principio di piacere
potreste mai esprimere verso di me, psicotico, perverso…? Rigorosamente nessuno.
Ma se non vi regolate secondo principio di piacere, quello che noi chiamiamo più maturamente la
legge, che cosa ci state a fare? In ogni caso è escluso che possiate servire alcunché. Quindi, in ogni caso siete
fuori causa. Allora, l’altra volta avevo suggerito una risposta: la sola ragione per occuparsi di… sono i
dollari, perché mi pagano. E chi ormai mi conosce un po’ sa che non è una battuta. Voi, in ogni caso, provate
ad occuparvi gratis di nevrosi, psicosi o perversione e vedete cosa vi capita. Nel peggiore dei casi se ne
vanno. E ci perdete il reddito, fallite. Se c’è qualcuno che apprezza altamente che voi apprezzate i dollari
sono esattamente le persone di cui stiamo parlando nella psicopatologia11
C’è solo una seconda risposta, che non è la carità cristiana o il samaritanismo… Lo dico in forma
anche testimoniale; però anche è assertiva, formale. E in effetti, a me non me ne frega degli psicotici,
nemmeno dei nevrotici. A me mi frega dei miei colleghi. Colleghi significa delle persone con cui ho una
meta comune, un destino comune. Ecco qua di cosa me ne frega. E in effetti con questi colleghi — notate il
nome di questa Scuola, di questa scuola di psicologia — con questi colleghi lavoriamo alla psicologia, non
lavoriamo innanzitutto alla psicopatologia. Lavoriamo a una cosa che reputiamo buona, nella sua precisa
distinzione da quella valutata come cattiva.
La sola aggiunta a questo riguardo è che, quale che sia la tecnica usata lì o là, con questo o con quello, ma
questo lo riprendo sabato mattina, in ogni caso la condizione per poter impostare un trattamento, quale che
ne sia la metodica, in ogni caso deve trattarsi di un metodo tecnico che esige, che impone, con tutta la
leggerezza se possibile del caso, ma impone al soggetto una condizione: che è la condizione che quel
soggetto dia un qualche segno della freccia T. Se no, non cominciate neanche. Comunque, se non dà un
qualche segno di quella freccia T, vuol dire che se anche vi siete illusi d’avere cominciato, non avete
neanche cominciato.
© Studium Cartello – 2007
Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine
senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright
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