Il Califfato Islamico fra complotti e carneficine

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Il Califfato Islamico fra complotti e carneficine
[IL CALIFFATO ISLAMICO, FRA IPOTESI DI COMPLOTTI E CARNEFICINE]
IL CALIFFATO ISLAMICO, FRA IPOTESI DI COMPLOTTI
E CARNEFICINE
Germana Tappero Merlo
Le svolte nella storia delle lotte
rivoluzionarie sono sempre state contrassegnate da azioni
per nulla casuali e dalla forte simbologia. Ciò è accaduto
anche con la proclamazione il 29 giugno scorso, tramite un
comunicato audio via internet, del Califfato o Stato islamico,
da parte dello sceicco Abu Muhammad al-Adnani al-Sham,
portavoce della forza sunnita salafita dell’ ISIS (o ISIL), ossia
quel raggruppamento di terroristi-guerriglieri jihadisti che
più ha saputo contrastare sul campo e per lungo
tempo l’esercito del siriano Assad, e che ora sta
imperversando nel nord iracheno.
Nello stesso giorno, Abu Bakr al-Bagdadi, leader dell’ISIS, si
è autoproclamato Califfo dello Stato Islamico di Iraq e Siria
con il nome Ibrahim al-Qureshi (ossia membro dei
coreisciti, tribù del profeta Maometto, per cui diretto
discendente). La stessa compagine armata ISIS è diventata
esclusivamente “Stato Islamico (IS)” e con questo nome
opera sul territorio iracheno e siriano.
La carica simbolica di quell’azione sta in pochi elementi.
E’ stato, infatti, sottolineato come la proclamazione del
Califfato sia avvenuta nel corso del ramadan, volendo dare
così maggior rilievo alla notizia nel periodo più carico di
sacralità per i musulmani. Inoltre, in passato e nel corso dei
ramadan, sono avvenute le grandi conquiste, dalla Mecca a
Gerusalemme, Costantinopoli e Andalusia: tale sincronismo
non poteva non essere un richiamo alla lotta armata per le
menti più fanatiche, considerando che la proclamazione è
avvenuta a pochi giorni dalla conquista, da parte dell’ISIS,
delle zone di frontiera fra Iraq e Siria, che ha garantito così
continuità territoriale alle aree controllate dai suoi jihadisti.
Il richiamo simbolico è stato, inoltre, affiancato da notevole
e inevitabile retorica. Già nella dichiarazione audio di alAdnani dominavano termini come “trionfo”, “legittimità”,
“doveri” e “stabilità”: l’enfasi era elevata per far
comprendere ai combattenti dell’intera galassia jihadista che
era giunto il momento di prendere posizione, ossia “o con
noi o contro di noi”.
La conseguente apparizione (il 5 luglio), nella grande
moschea di Mosul, di al-Bagdadi, ossia di colui che sino a
poco tempo prima era più una leggenda che dotato di
concreta fisicità, ha ufficializzato la nascita del Califfato. Il
mostrarsi al pubblico mondiale, infatti, a differenza del
terrorista Osama bin Laden per anni costretto a nascondersi
in grotte e rifugi non degni certo di uno sceicco, ha
significato sottolineare la sua diversità dal fondatore di alQaeda. Il Califfo Ibrahim ha voluto così mostrare che
l’appellativo terrorista non gli appartiene, essendo un
conquistatore e, soprattutto, il capo di uno Stato Islamico
vero, concreto e definito territorialmente.
Il Califfo ha avuto, inoltre, una grande eco mediatica per via
dell’ abbigliamento nero indossato, proprio come si
conviene quando la comunità islamica è in guerra, accanto
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all’ ennesima ostentazione durante il suo khutbah (sermone)
del tipico linguaggio jihadista, in cui lotta al taghut
(dittatore corrotto), sharia, hakimiyya (sovranità esclusiva
divina) e ummah (comunità musulmana) sono state ripetute
con cadenza litanica, propria dei sermoni propagandistici.
Il tempismo circa il ramadan, l’abbigliamento e la retorica
jihadista hanno sicuramente colpito l’osservatore di ogni
angolo del mondo, che ha finito per giudicare il tutto come
una carnevalata di un fanatico, fra l’altro accolto persino con
distacco dalla platea presente che non ha risposto con il
rituale “Allah Akbar” onnipresente, invece, nei comizi e
sermoni, fra gli altri, degli ulema e degli ayatollah iraniani. In
parte può essere vero, ma quell’azione è più gravida di
simboli e relative conseguenze di quanto sia stata
considerata sino ad ora e, seppur i conoscitori della storia e
delle leggi islamiche abbiano sottolineato l’assoluta
inefficacia di quella proclamazione e la conseguente
invalidità del Califfato, quell’azione deve servire a imporre
un segnale di arresto e di maggior riflessione su quanto sta
avvenendo nella galassia jihadista e, di conseguenza, quella
affine qaedista.
Occorre, quindi, andare oltre l’apparenza.
La data della proclamazione del nuovo Califfato da parte di
al-Bagdadi, infatti, non è casuale: il 29 giugno 1914 avveniva
l’assassinio dell’arciduca Ferdinando d’Austria e il
conseguente avvio della prima guerra mondiale, con tutto
ciò che essa ha poi comportato per la fine dell’impero
ottomano, la sua spartizione con gli accordi Sykes-Picot fra le
influenze di Gran Bretagna e Francia, e la conseguente
ridefinizione dei confini del Vicino Oriente. Nella logica
ricostruzione, da parte degli esponenti del nuovo corso della
guerriglia islamista, di quella che è considerata la “calamità
lunga un secolo”, il 29 giugno 1914 segna realmente la fine
del califfato, e ben una decina di anni prima della
dichiarazione ufficiale in tal senso da parte del laico Ataturk.
Già lo stesso ISIS, per sua stessa definizione originale e, in
particolare, dopo lo sganciamento da al-Qaeda e le vittorie
sul campo contro l’esercito siriano, nei suoi reclami ha
indirizzato più decisamente la sua lotta contro gli accordi
anglo-francesi, persino nella sua espressione più tecnologica,
ossia con twitter, utilizzando, fra gli altri, il profilo
#SykesPicotOver, e riscuotendo per questo notevoli
consensi.
La componente geografica ha, di fatto, un peso eccezionale
in tale manovra, in quanto la definizione del Califfato o
Stato Islamico espande l’ambito d’azione dei suoi
combattenti dall’ area circoscritta dagli attuali confini
nazionali - peraltro non riconosciuti e che penalizzano l’
unità dell’ ummah – intendendo fare dell’Iraq e della Siria
non più la periferia ma il centro nevralgico del mondo
musulmano per tutti i suoi credenti.
Lo Stato Islamico appena nato, anche se senza
legittimazione, ha già abbattuto infatti parte dei confini fra
Siria e Iraq, avanzando con i suoi guerriglieri dal teatro
bellico siriano, fra rapimenti, torture e uccisioni di
oppositori, persecuzioni di minoranze, crocifissioni di
cristiani e battaglie cruente con i peshmerga curdi, e
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conquistando quell’area nordoccidentale irachena sunnita
da cui l’ISIS passerebbe all’azione militare verso Bagdad per
la sua relativa, anche se difficile, conquista o anche solo per
il suo isolamento. La stessa capitale irachena, infatti, è già
stata pesantemente oggetto dell’azione terroristica dei
combattenti dell’ISIS che con gli attentati terroristici, solo nel
2013, hanno fatto oltre 9500 morti e circa 5000 nei primi sei
mesi del 2014. Una vera e propria offensiva terroristica che
dovrebbe preludere all’azione bellica vera e propria.
Non da meno, il suo braccio armato ha già agito in Libano
con autobombe contro obiettivi civili, come si conviene
all’operatività propria del terrorismo islamico, e con azioni di
vera e propria guerriglia, con la presa della città di Ersal
nella Beka’a, il 3 agosto scorso, assestando un vero attacco
militare mirato al Paese dei Cedri e rimarcando così la
volontà di allargare il conflitto siriano anche al Libano.
Azioni così eclatanti in fronti così diversi o controllati da
forze sciite, come i quartieri di Beirut di “competenza”
hezbollah, in cui l’ISIS ha agito con autobombe, dimostrano
la forte rete di supporto anche al di fuori delle zone sunnite
in cui – come nel nord dell’Iraq o in area addirittura curda –
esso si avvale del sostegno di numerose tribù.
Guerriglia e terrorismo, quindi, sono il mix operativo delle
forze dello Stato Islamico che contano dai 15mila ai 22mila
elementi, di provenienza soprattutto tunisina, algerina,
libica, cecena ma anche turca ed europea (belgi e francesi, in
particolare), con inevitabili preoccupazioni delle
intelligence circa il ritorno di questi combattenti nei Paesi di
origine, con il loro know how operativo ma soprattutto con
la loro rete di rapporti interpersonali fra guerriglieri.
Costoro stanno dimostrando – anche se, è vero, a fronte di
una scarsa resistenza dell’esercito regolare iracheno e delle
forze di confine libanesi – indubbie capacità organizzative e
operative (disponendo anche di analisti militari), come ha
dimostrato la presa non solo di numerosi centri urbani ma
anche delle basi e relativi aeroporti militari del nord
dell’Iraq, così come di dighe, raffinerie e pozzi petroliferi
dell’area curda. Sebbene sia stato evidenziato da numerosi
osservatori che le forze dell’IS non avrebbero né le
competenze né il supporto locale per trarre vantaggi
economici da queste conquiste, tuttavia, il blocco delle
attività petrolifere o l’uso dissennato delle dighe (quella di
Haditha garantisce la fornitura di corrente elettrica e quella
di Falluja, entrambe controllate dall’ISIS, riforniscono di
acqua Bagdad e se rilasciate inonderebbero l’area a
maggioranza sciita) debbono essere considerati come rischi
da non sottovalutare e, già da ora, sicuramente un vantaggio
tattico non indifferente.
Non chiamiamoli quindi solo “terroristi” o solo “guerriglieri”:
rappresentano, almeno sino ad ora, una reale forza
combattente che si adatta agli scenari in cui intende agire,
riuscendovi con capacità operative, disponibilità di uomini,
armi e finanziamenti che debbono essere vagliate con
cautela e non affatto sottovalutate.
Perché, infatti, non intervenire quando l’ISIS era composta
per lo più da piccoli gruppi armati, vaganti su pick up che
scorrazzavano sulle strade irachene con ben in vista la loro
insegna nera, distinguibili anche da satelliti e droni,
permettendo invece di prosperare in armamento sottratto
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alle forze nemiche e con finanziamenti provenienti da
rapine, rapimenti, estorsioni e anche da facoltosi privati?
Sottovalutazione del pericolo – soprattutto dell’intelligence
statunitense – secondo il giudizio dato dai critici più
benevoli? Oppure complicità in un progetto di
destabilizzazione come affermano i più critici sostenitori del
complotto?
E’ rischioso farsi abbindolare dalle letture superficiali e
ricorrenti del fenomeno “Califfato” o “Stato Islamico”: per
alcuni, infatti, sarebbe solo la buffonata di un genuino ma
fanatico esibizionista da ignorare e lasciare fino a che il
fenomeno si sgonfi da sé mentre, per altri osservatori, il
nuovo Califfo con il suo esercito di tagliagole sarebbe un
pericolo creato ad hoc per alimentare quella guerra al
terrorismo che è alla base della generalizzata instabilità
dell’intera regione, con conseguente politica di forte riarmo
voluta da potenze mondiali (Stati Uniti in connubio con
Israele e Regno Unito, per contenere l’Iran) o regionali
(Arabia Saudita, Turchia e Qatar, per imporre ciascuno il
proprio dominio).
Comune a tutte queste letture è la convinzione, ribadita
anche dalle autorità religiose musulmane, che il Califfato
non abbia la forza per istituirsi concretamente, non
disponendo di fondamenta legali nemmeno per la legge
islamica e soprattutto senza il consenso della popolazione
locale, in particolare fuori dalle aree sunnite. Il perpetuare di
violenze e di epurazioni in massa dei nemici sciiti non
favorisce certamente l’IS e nemmeno potrebbe continuare
ad oltranza con violenze e terrore.
Il Califfato e il suo braccio armato, ex ISIS e ora IS, sono solo
quindi una buffonata, un fenomeno destinato a scomparire
o anche solo uno strumento momentaneo per realizzare
l’ennesimo complotto tipico della regione?
Ridurre tutto al complotto di potenze può essere una
spiegazione della forza militare dell’IS, ossia un contingente
creato e abbondantemente sostenuto per alimentare
l’instabilità nella regione e per la realizzazione di quel piano
di spartizione dell’Iraq in tre stati-enclave (curdi, sciiti e
sunniti) che, secondo numerosi osservatori, sarebbe il
progetto di divide et impera ordito da Stati Uniti, Arabia
Saudita e Israele per meglio porre sotto controllo militare e
strategico l’Iraq e le sue riserve di greggio e contenere, con
quello Stato cuscinetto, il rischio iraniano con Teheran e
Damasco più isolate.
A sostenere questa versione del fenomeno IS attraverso
il complotto vi sono anche le voci – già fatte circolare a suo
tempo da Snowden – circa al-Bagdadi come uomo dei servizi
di intelligence statunitensi, dopo che questi lo avevano
tenuto prigioniero a Fort Bucca, in Iraq, dal 2004 al 2009 e
liberato perché non considerato elemento pericoloso.
Supposizioni di un ingaggio da parte della CIA non suffragate
da dati certi, come accade da sempre in quella regione dalla
storia più segreta di ogni altra parte del pianeta e di cui solo
a documenti desegretati si potrà avere conferma o smentita.
Altri, invece, trovano conferma del complotto del piano di
spartizione dell’Iraq attraverso l’istituzione del Califfato dalle
pagine del rapporto del National Intelligence Council del
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2004, Mapping the Global Future, disponibile on line, in cui
già allora, e per la prima volta, veniva ipotizzata l’istituzione
del Califfato entro il 2020 nell’ampia regione che va dal
Mediterraneo occidentale, centro e sud-est asiatico.
Secondo questi critici, la “minaccia musulmana di una
crociata”, in cui il “Califfato non sarebbe più una chimera”
viene delineata ampiamente nella sezione Pervasive
Insecurity, divenendo poi la base su cui ha poggiato in
seguito la dottrina militare statunitense e della Nato. A
costoro forse sfugge il fatto che i rapporti NIC non
rappresentano un piano programmatico delle
amministrazioni statunitensi ma un ventaglio di ipotesi di
scenari, attraverso l’analisi e i contributi di agenzie di
intelligence differenti, studiosi e accademici di varia
provenienza.
L’ interpretazione più diffusa, e sicuramente con più
fondamento, considera l’IS come l’elemento scatenante e
propulsivo di un sanguinario conflitto intra-musulmano, fra i
sunniti (a cui appartiene) e gli sciiti (del governo centrale
iracheno di Maliki) in funzione anti-iraniana e contro tutto
ciò che la teocrazia di Teheran può rappresentare per la
sicurezza regionale (la questione nucleare, in primis) e per la
sua influenza sulla minoranza sciita delle varie comunità
degli Stati del Golfo in cui è presente. E sarebbe, quindi, da
diverse case regnanti della Penisola Arabica che otterrebbe
sostegno finanziario.
Non da meno, la penetrazione dell’IS soprattutto a nord
verso l’area curda servirebbe di monito anche alla Turchia:
destabilizzando quell’area cuscinetto si
comprometterebbero fragili equilibri di riavvicinamento
fondati sull’esportazione del petrolio e che erano l’unico
risultato di stabilità raggiunto nell’Iraq del dopo Saddam
Hussein e relativa guerra. Ne deriva che la tenuta del
Kurdistan, ossia di quella regione che da anni ambisce
all’autonomia in un progetto ostacolato da tutti gli Stati
coinvolti (Turchia, Iraq, Iran e Siria), sembra diventare il
perno strategico su cui puntare per disfarsi di quel nemico
comune a tutti, ormai, che è l’ IS.
Lo stesso governo centrale iracheno starebbe garantendo ai
curdi, superando i tradizionali attriti, la protezione aerea per
contrastare l’avanzata dell’IS, così come avrebbe raggiunto,
a tal fine, un’intesa con l’amministrazione Obama per la
fornitura di apparecchiature militari, 5000 missili Hellfire e
aerei da combattimento AC-208 Cessna Caravan. Lo stesso
Presidente americano, inoltre, di fronte al massacro di civili e
l’esodo di cristiani nel Nord dell’Iraq, come preludio di una
tragedia umanitaria, ha autorizzato l’invio di supporti
alimentari e sanitari ma soprattutto non ha escluso
interventi aerei mirati di forze statunitensi contro le forze
dell’IS e per proteggere il personale americano presente in
Iraq.
Non disponendo di forza aerea e contraerea, l’IS dovrebbe,
quindi, collassare nel giro di poche settimane – almeno
stando agli strateghi del Pentagono – permettendo il ritorno
del controllo sul territorio da parte dell’esercito regolare
iracheno (ma in che condizioni di forze, di organizzazione e
di comando?), appoggiato dai curdi (ormai allo stremo) e
magari con l’aiuto dell’Iran stesso.Tutto ciò non farebbe che
sostenere la tesi dell’IS come funzionale a una forte politica
di riarmo regionale e di relativa spartizione della nazione
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irachena, con il coinvolgimento nel conflitto di nemici storici
come l’Iran – distraendolo fra l’altro dai negoziati sul
nucleare - da parte di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele.
Tuttavia, l’ interpretazione complottista – come sempre
accade con tale approccio – in apparenza tutto spiega, ma
lascia irrisolti troppi aspetti della questione, mancando
soprattutto di una verifica delle fonti e, di conseguenza, dei
contenuti delle informazioni. E attraverso facili
interpretazioni su supposizioni infondate si rischiano solo
analisi deviate, dalle conseguenze imprevedibili e peggiori
del fenomeno stesso che si vuole capire e contrastare.
E’ accaduto con Hamas, per molti osservatori creata da
Israele stessa in funzione anti-Olp e per il diretto controllo
dei Territori: ma se questa è la versione più maligna
e rigorosa ma senza fondamento, più veritiera perché
ammessa ufficialmente dalle stesse autorità ebraiche, è
quella che sottolinea la miope e superficiale tolleranza da
parte di Tel Aviv del fenomeno Hamas al suo apparire ed
espandersi nei Territori, dalle conseguenze poi terribilmente
gravide di tragedie negli anni seguenti come, da ultimo, la
sanguinosa guerra in Gaza.
Lo stesso starebbe avvenendo con il Califfo Ibrahim: che sia
stato creato ad hoc (per le più svariate esigenze
geopolitiche) o che sia una manifestazione autentica e poi
alimentata da potenze regionali o straniere, non farà alcuna
differenza, in particolare quando il fenomeno dei “califfati”,
con alla testa elementi di tale calibro, non sarà possibile
contenere o gestire.
Dai mujaheddin in funzione antisovietica in Afghanistan,
negli anni ’80, ad Hamas in funzione anti-Olp nei Territori,
nei seguenti anni ’90, sono tutti aspetti di una storia che
sembra ripetersi. Meglio, quindi, tentare di prevederne
l’evoluzione. Qualsiasi siano la natura originaria del Califfo
Ibrahim e i responsabili del suo attuale supporto, è
opportuno, infatti, concentrarsi su quanto sia influente la
sua comparsa sulla scena della lotta e del terrorismo
jihadista, anche e soprattutto nei confronti dell’altra grande
minaccia che ancora permane, ossia al-Qaeda.
A differenza, infatti, di quest’ultima (sebbene l’ISIS ne sia
stata parte, come Al-Qaeda in Iraq in origine e poi ne sia
stata allontanata dal suo nuovo leader al-Zawahiri) lo Stato
Islamico del Califfo Ibrahim sta fornendo agli stessi qaedisti e
jihadisti - soprattutto quelli sparsi nelle aree più remote e
instabili, dal Centro Asia al Nord Africa e quella subsahariana
- un reale e concreto obiettivo politico, ossia la conquista e il
controllo territoriale di quei Paesi che un tempo
componevano il Califfato, iniziato con gli Omayyadi del VII
secolo e diventato con gli Abbasidi, e sino alla metà del XIII
secolo, l’ espressione del massimo splendore della storia
musulmana.
Lo stesso Califfato (da khalifa, successore) per i sunniti
rappresenta, dalle sue origini, la continuità
politica dell’impresa spirituale di Maometto: per questo
motivo, nella logica della simbologia vista più sopra, la sua
proclamazione palesa la realizzazione “politica” del più
sacro jihad. La consacrazione di questo progetto politico,
però, secondo i suoi sostenitori, deve partire dalla sconfitta
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del “nemico vicino”, ossia la componente sciita la cui
esistenza, per le frange sunnite estreme salafite, a cui
appartiene l’IS, è apostasia o tradimento della vera fede in
Allah e nel suo Profeta.
Anche al-Qaeda intende raggiungere lo stesso obiettivo, ma
agendo con maggior cautela, selezionando persone e luoghi
per definire emiri e relativi emirati e, soprattutto, con
prudente imposizione della sharia nei territori da essa
controllata. L’IS del Califfo Ibrahim intende, invece,
accorciare i tempi, accelerando il tutto con una massiccia
dose di violenza criminale contro gli stessi fratelli
musulmani, non risparmiando nel suo percorso di conquista
neppure i cristiani e le numerose minoranze etniche presenti
su quei territori.
Per l’ISIS non si tratta più, infatti, di una confusa e ambigua
guerra santa contro i Crociati, gli Ebrei e la superpotenza
americana (nemico lontano) che è stata propria di al-Qaeda
e che ha portato più morti fra i musulmani che fra quei
nemici dichiarati solennemente e attaccati brutalmente l’11
settembre 2001.
Proprio mettere nell’angolo il tradizionale nemico
americano, non rivolgendogli più invettive, aveva fatto
ritenere e dichiarare all’amministrazione Obama, già nei
mesi passati e di fronte all’avanzare dell’ISIS, che “questa
non è la nostra guerra”: la decisione delle ultime ore, di
fronte alle violenze e all’esodo forzato dei cristiani iracheni,
sembra invece contraddirla, anche se il tutto presentato
come ennesimo “intervento umanitario” e senza quei boots
on the ground che, dopo la lunga guerra voluta da George
W. Bush, non piacciono più, soprattutto all’elettorato
statunitense.
Nelle sue innumerevoli esternazioni, il sunnita salafita IS da
tempo dichiara che l’obiettivo supremo da contrastare
immediatamente per la realizzazione del Califfato, sono gli
stessi sciiti, considerati appunto apostati per la tradizione
(sunna) musulmana e, quindi, più pericolosi degli infedeli,
anche degli stessi ebrei.
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dell’Arabia Saudita sarebbe il più importante obiettivo da
raggiungere in futuro, dopo la liberazione di Bagdad e
Damasco dai loro governanti empi, il coinvolgimento nella
guerra di Libano e Giordania con la inevitabile ridefinizione
dei confini di quella regione. Solo allora - secondo quanto
affermato da una fonte dell’IS interpellata dalla rivista on
line al-Akhbar sul perché i suoi combattenti non
intervenivano a sostenere Hamas nella recente guerra a
Gaza - le forze del Califfato, forte e così composto,
interverranno (dal Golan e Quneitra) contro Israele “per la
guerra finale per la Palestina”: assurdo quindi pensare di
liberare i palestinesi se non vi è un Califfato che confina con i
Territori e in grado di difenderlo. “Nemmeno al-Qaeda continuava la fonte - aveva mai previsto un jihad in
Palestina, perché dovrebbe l’IS”?
Il progetto del Califfato, quindi, è di lungo periodo, realizzato
attraverso l’uso di violenze, anche indiscriminate, al fine di
contrastare qualsiasi forma di opposizione. E di quanto sia
capace l’IS vi è ampia testimonianza, anche se i media non
informano adeguatamente di tutti i crimini, come è
avvenuto per l’uccisione dell’imam sunnita Mohammad al
Mansuri della moschea di Mosul – da cui al-Bagdadi aveva
parlato pochi giorni prima - solo perché non aveva giurato
fedeltà al nuovo Califfo.
Ed è sull’estrema ed indiscriminata violenza della sua azione
che è avvenuta la rottura fra ISIS e al-Qaeda.
Le atrocità commesse contro gli sciiti già a suo tempo, ossia
durante l’occupazione statunitense, da quell’al-Qaeda in Iraq
(AQI) di al-Zarqawi da cui l’ISIS e ora IS provengono, erano
state pesantemente condannate dalla stessa leadership di
al-Qaeda in Pakistan (al-Qaeda Core). Dopo un iniziale
ravvedimento e con nuovi capi sempre più coinvolti nella
guerra in Siria a fianco della qaedista al-Nusra, sembrava che
i combattenti di al-Bagdadi avessero attenuato la loro
violenza. Si trattava, però, di una mera illusione: con
l’avanzare delle conquiste sul territorio siriano erano riprese
le esecuzioni sommarie di civili sciiti e cristiani, e di altre
minoranze, obbligati così a dolorosi esodi forzosi dai loro
territori.
Già nel giugno scorso erano state testimoniate esecuzioni di
massa da parte delle forze dell’IS, con almeno 1700 soldati
sciiti uccisi in un unico massacro a Tikrit: maschi trucidati
perché, nella perversa distorsione del Corano da parte dei
salafiti, gli sciiti non sono musulmani e il destino delle loro
donne e dei loro bambini è la sottomissione o, addirittura, la
cessione come schiavi. Si tratta di un sentimento razzista
intra-musulmano turpe e settario, fortemente anti-sciita,
così estremo e terrorizzante che affascina le giovani leve di
combattenti sunniti, indottrinati oltre che dai sermoni nelle
moschee, anche attraverso i mezzi di comunicazione più
tradizionali, come le reti televisive o siti web, sino a quelli
più avanzati come i social media su internet.
L’al-Qaeda di Ayman al-Zawahiri, succeduto a Osama bin
Laden, aveva quindi preso definitivamente le distanze
dall’ISIS che, secondo invece i suoi appartenenti, avrebbe
potuto realizzare sul campo quel jihad contro Crociati ed
Ebrei, di cui lo stesso al-Zawahiri aveva parlato nei suoi
scritti programmatici su al-Qaeda già nel lontano 1998.
L’allontanamento dell’ISIS da al-Qaeda ha rappresentato,
quindi, il culmine di una crisi iniziata anni prima e chiudeva
un’era di dissidi fra i vertici delle due organizzazioni circa la
tempistica e le modalità operative per la realizzazione del
Califfato.
Inoltre, sul web, all'indomani della proclamazione del
Califfato, è apparso Dabiq, il primo giornale ufficiale dell’IS,
in numerose lingue oltre l'arabo tanto da considerarlo come
uno strumento di eccellenza di propaganda: nel suo primo
numero, infatti, si spiegano la direzione politico-militare
strategica intrapresa dall’IS, i metodi di reclutamento, le
alleanze tribali e perché la destabilizzazione del regno
Troppa violenza e troppa premura nell’imporre la sharia non
erano e non sono tuttora consone all’azione della nuova alQaeda post bin Laden. Questo atteggiamento più cauto,
meno aggressivo e dai tempi decisamente troppo dilatati,
non sembra però rientrare né nel programma di jihad dell’IS
e nemmeno per quelle frange di jihadisti più estreme che
sino a poco tempo fa rappresentavano la punta di diamante
dell’azione qaedista, ossia quell’al-Qaeda nel Magreb
Islamico (AQIM) che, di quella regione, attraverso l’azione
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armata ne sta controllando e influenzando l’evoluzione
politica dopo il fallimento delle primavere arabe.
Per costoro, infatti, il progetto del Califfato trae la sua forza
e relativo sostegno nella sua volontà di proiezione di
potenza oltre i propri confini, soprattutto là dove è
necessario stabilire un’autorità di governo legittima. Non è
un caso che, sebbene l’IS contenga in sé elementi di
debolezza, come l’estrema violenza e il rifiuto di qualsiasi
compromesso con i nemici (tipico degli estremismi, come sta
dimostrando Hamas, ad esempio), il suo modello operativo e
programmatico esercita una forte attrazione in aree anche
lontane dall’Iraq e dalla Siria.
E’ nella proclamazione del Califfato della Cirenaica libica da
parte della leadership di Ansar al-Sharia, affiliata all’AQIM,
che da Bengasi sembra spingersi verso Tripoli e Misurata,
che si deve, infatti, scorgere il pericolo vero e concreto di
emulazione del modello al-Bagdadi e, nello sfondo, la lotta
ideologica fra il suo IS e la “vecchia” leadership di al-Qaeda.
Secondo alcune dichiarazioni circolate sui siti jihadisti, già il
26 giugno scorso, ossia 3 giorni prima della proclamazione
ufficiale del Califfato Islamico, l’AQIM elogiava l’allora ISIS
per l’iniziativa che stava per intraprendere: anche se ciò non
rappresenta, al momento, un’alleanza, certamente è un
passo verso quella direzione da parte del più importante
gruppo jihadista africano.
Non da ultimo, qualcuno ha visto in quell’entusiasmo per il
Califfato, il tentativo di AQIM di rafforzare con un progetto
simile, dal Maghreb al Sahel, anche i legami con Boko
Haram nigeriano e al-Shabaab somalo, ossia un alleato e un
affiliato ad al-Qaeda in territorio africano.
Un duro colpo per l’al-Qaeda Core in Pakistan. Infatti, alQaeda, sebbene offuscata in Medio Oriente e in Africa
dall’avanzata dell’IS, riscuote però ancora notevoli consensi
ed appoggi in Pakistan.
Il progetto del Califfato, infatti, non è di esclusiva pertinenza
di al-Bagdadi o delle milizie libiche di Ansar al-Sharia: lo
stesso Hizb-ut Tahrir in Pakistan (nato dai Fratelli musulmani
di Palestina nel 1953 e legato ora ad al-Qaeda) è stato
bandito nel 2013 da Musharaff non per attività terroristiche
ma per l’estrema influenza che stava guadagnando presso i
massimi esponenti delle forze armate del Paese (in
particolare ufficiali delle forze speciali) con il rischio di colpo
di stato e relativa imposizione di un progetto molto simile al
Califfato. Si tratta di azzardi delle nuove “leve” jihadiste,
sfuggite al controllo di al-Qaeda Core che avrebbero
minacciato con la loro azione persino la nazione che, in
apparenza, condanna ma in realtà tollera e – come
dimostrato con l’affare bin Laden – appoggia la stessa alQaeda.
Tutto ciò non può che risolversi nell’ennesimo interrogativo
circa la sicurezza e relativa stabilità di quella parte di Asia
una volta avviato il ritiro delle forze multinazionali
dall’Afghanistan, e il possibile rischio di uno scontro aperto
fra questi due approcci operativi, quello più lento e cauto di
al-Qaeda e quello più rapido e violento dei jihadisti dell’IS
del nuovo Califfo.
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Ciò che sta avvenendo all’interno del mondo di al-Qaeda è
anche il risultato di mesi di crisi nei rapporti fra questa e le
sue branche regionali, iniziata con l’eliminazione di Osama
bin Laden e del suo carisma di leader, con la mancanza di
finanziamenti ma soprattutto con quel ricorso al franchising
dell’al-Qaeda Core - che accetta gruppi affiliati se i loro
progetti e le loro azioni sono conformi al suo manifesto
programmatico, con precisa tempistica e obiettivi da
realizzare – che, però, di fatto ha finito per negare all’intera
galassia qaedista una regia unica, decisa e coerente. Ciò,
quindi, secondo i suoi critici, ha fatto perdere l’occasione
storica ad al-Qaeda di sferrare azioni decisive contro i
“nemici vicini” (governanti empi) quando erano stati
indeboliti dalle rivolte arabe, volendo inseguire sempre
chimere di jihad contro i “nemici lontani”, come gli Stati
Uniti e l’Occidente, ma non ottenendo nulla di fatto.
Se poi venisse verificata la notizia circolata su quotidiani –
come l’algerino el-Khabar e il marocchino Assabah - secondo
la quale si sarebbe svolto un incontro fra i leader delle varie
componenti jihadiste e qaediste sia del Maghreb che del
Sahel, nel sud-est della Libia a fine luglio, al fine di eleggere
un nuovo emiro e di creare uno Stato Islamico del Maghreb
al-Aqsa, sul modello di quello dell’IS, e di trovare una
strategia d’azione comune di conquista di territori lasciati
completamente allo sbando dopo la caduta dei vari regimi
della regione (non solo Libia, ma anche parte della Tunisia e
il Sinai egiziano), ecco che l’effetto della proclamazione del
Califfato di Iraq e Siria potrebbe sortire gravi effetti di
emulazione.
Ciò sarebbe inoltre complementare a un fenomeno che è
piuttosto comune in molte aree dell’Africa, ossia la
comparsa di quei domini di milizie armate con a capo
elementi che i media amano definire “signori della guerra” e
che con il caos post-rivolte e guerre, la dilagante corruzione
delle istituzioni centrali (in particolare della sicurezza e
dell’intelligence), e gli interessi economici, soprattutto
illeciti, stanno prendendo sempre più il controllo del
territorio. Se ai “signori della guerra” si sostituisce il termine
“emiro” e si affianca un progetto politico che si chiama
Califfato e relativa sua gestione del territorio secondo la
legge islamica, ecco che emerge la potenza di quanto fatto e
dichiarato da al-Adnani e al-Bagdadi fra fine giugno e inizio
luglio 2014.
Non è, quindi, così improbabile il rischio di emulazione e
relativi tentativi violenti di imporre finalmente questo
progetto politico legato al jihad anche e soprattutto in aree
destabilizzate: la lotta per la riconquista dei confini
del Califfato e l’imposizione di un’autorità di governo
legittima secondo la legge e la storia islamica,
rappresentano risultati concreti, tangibili, attuabili di quel
jihad inteso dai combattenti salafiti dell’IS o dell’AQIM come
sesto dovere del buon musulmano, rifacendosi agli
insegnamenti di quel Sayyed Qutb che, predicando in tal
senso la lotta armata, a metà degli anni ’50, aveva provocato
la svolta radicale, violenta e rivoluzionaria all’interno della
Fratellanza Musulmana, da cui questi movimenti sunniti
salafiti provengono, sebbene siano oggi l’espressione
esclusiva di una minoranza facinorosa e dispotica presente
all’interno dell’organizzazione.
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[IL CALIFFATO ISLAMICO, FRA IPOTESI DI COMPLOTTI E CARNEFICINE]
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Califfato come obiettivo e jihad come
strumento rappresentano, quindi, per i combattenti dell’IS e
della sfera qaedista nordafricana una sorta di quella che in
Occidente è definibile come nation building, ossia la
costruzione di un’entità statuale in cui l’ ummah, la
comunità musulmana, si riconosce, condividendone leggi
(sharia), valori tribali (secondo i luoghi) e religiosi (secondo il
comune Corano) e relativa storia (dallo splendore del
Califfato alle tragedie del colonialismo e oltre).
Ed è per questo che nella retorica del nuovo Califfo si parla
di rinascimento islamico, ossia della volontà di colmare
attraverso un sanguinario, intra settario e razzista jihad, il
vuoto lasciato dalla sua abolizione, un secolo fa. E che ciò
faccia il gioco di potenze, mondiali e regionali, non fa la
differenza, essendo solo la continuazione di una vecchia
pratica perversa, iniziata dall’Occidente, la cui logica ha
portato alle drammatiche conseguenze che ancora
insanguinano il Medio Oriente.
Non è immaginabile, al momento, comprendere quanto il
Califfato di al-Bagdadi possa durare e quanta resistenza
potranno avere i suoi combattenti di fronte ad un’azione
militare massiccia e più mirata anche se vergognosamente
tardiva: il Califfato e la potenza dell’ISIS stanno, infatti, nel
ritardo nella comprensione di un fenomeno criminale
maledettamente sanguinario e pericoloso, nel suo mancato
accerchiamento e annullamento già al suo apparire. Anche
se venisse sconfitto con una pesante azione militare sul
terreno, il modello al-Bagdadi - e ciò che sta rappresentando
per la galassia jihadista - ha già trovato proseliti, a iniziare
dalla Libia. E intervenire il quest’ultimo contesto, così come
in altri luoghi in cui il richiamo al Califfato suona come
appello all’unione, alla stabilità e alla potenza, dalle zone
desertiche del Sahel, Ciad sino alla Somalia o sui monti del
Waziristan pachistano rappresenta l’ennesima grande sfida
del movimento terroristico, al momento, più forte
della stessa temibile e mutevole al-Qaeda.
8/8/2014
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Germana Tappero Merlo©Copyright 2014 Global Trends &
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