Parte 2 - Pro Varallo Pombia

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Parte 2 - Pro Varallo Pombia
Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le
più antiche carte dell'archivio di San Gaudenzio di Novara, doc.
1°: "Maginardo, Visconte di Pombia, dona alla Chiesa di San
Gaudenzio un podere in Garbagna (giugno 841) " "... ego Maginardo
ex genere Francorum Vice Comes Plumbiense abitator in loco
Casaliglo ...").
Un successivo documento del 16 aprile 867 (n° 243, cod.
dip. lang.)
porta: "Gnerulfus ministeriali domni Imperatori di
legge salica, per mezzo del giudice Pietro del fu Paolo, e del suo
vassallo Ercembaldo, stabilisce di elargire in elemosina i beni da
lui posseduti: "... tam in Valetelina iudicairia Mediolanensis et
in Casale iudiciaria Plumbiensis".
Essendo il termine "iudiciaria" una dizione longobardica
per le località che avevano una propria giurisdizione, è
accreditata da questo documento l'ipotesi
dell'esistenza del Ducato di Pombia (Gabotto "Per la
storia Novarese nell'Alto Medioevo - Ducati e Comitati", B.S.S.N.
1917 n° 1-2).
Tale termine fu poi usato nel periodo Franco per le
Contee rurali.
In un'altra carta, già da noi menzionata, troviamo:
“(17-7-885)
Raginaldus
Archidiaconus
e
Vicedominus
sancte
novariensis ecclesie, figli bone memorie Rapaldi de castro
Plumbiae" dona alla Luminaria della Chiesa di Novara un campo in
Mergozzo.
Fra i testimoni figura "Madalberti qui beto vocatur filio
Ioannemperti de Plumbia - Luoni de Uuaralo".
Il re Berengario dà a Leone, Visdomino della Chiesa di
Novara, fra il 911 e il 915 la facoltà di costruire castelli in
propriis suis rebus finibus Plumbiensis Comitatus, in vocabulis
villulis in sunt Peronate, Terdoblade, Cammari ed Galliade; nello
stesso periodo dona alla Chiesa di S. Maria "mansos duos in villa
Nebbiola actenus pertinentes de Comitato Plumbiense, cum omni
eorum integritate" (Gabotto o.c.).
Successivamente nell'Aprile del 942, tale Arnaldo di
Biulaco lascia per testamento alla Chiesa di S. Maria al monte
sopra Varese, proprietà "in vico et fundo Cassiate Comitatum
Plumbiense" (Cod. Dip. Lang. Doc. 567).
Da queste carte si ha notizia diretta che fra il 911 e il
915 Pombia è già sede di Comitato, ma non compare sino ad ora
nessun Conte di Pombia.
Nel documento 70 delle Carte dell'Archivio Capitolare di
S. Maria in Novara, troviamo tal Elgerico del fu Manginardo,
Conte, che vende a Uberto, Vescovo di Parma, la metà di un suo
castello "in Comitato Plombiensis locus quae dicitur Meecia".
TAV. IV - AGRO NOVARESE NEL MEDIO EVO
Carta ricopiata dalla carta geografica del Giulini
in “ Ager Mediolanensis Aevi”.
PARTE QUINTA
contenuta
V
SOMMARIO DI STORIA GENERALE
ITALIANA
1-5 S M E M B R A M E N T O
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Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi
occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia
generale italiana.
Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore
d'Italia, assoggettati Sassoni, Bavari, Longobardi e Slavi
ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente.
I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera
e con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò.
I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i
feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui
dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi.
Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere
la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla
finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924.
Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale,
ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio
Lotario, sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea.
Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico
sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui
Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide,
che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere
aiuto al re di Germania Ottone I.
Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa
Adelaide e con essa torna in Germania.
Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un
accordo dichiarandosi vassallo del tedesco.
I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel
961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia.
A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo,
figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario
II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal
Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con
l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato
dall'isola di San Giulio d'Orta.
Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino,
mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva
nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo
dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola,
la coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni,
poi si arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che
nel frattempo si era rifugiato a Monte Feltro.
La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i
vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi
e terre che in seguito Ottone I restituiva loro.
A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto
giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli
ventidue anni.
L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai
feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando
l'indipendenza del regno d'Italia.
Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea,
nell'anno 1004.
Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi
piemontesi.
L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi
calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei
momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece
incoronare a Pavia re d'Italia.
Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un
decennio (1004-1O14).
alla vittoria dei Tornielli furono poi distrutti (fra
questi i castelli di Borgosesia, Pombia, Revislate, e altri; Rizzo “Compendio di Storia Novarese”). Avido di vendette non ebbe
però forze sufficienti per fronteggiare i Vescovi e i Signori
laici, benché riuscisse a togliere molti privilegi e terre
specialmente ai primi.
Tornato Enrico verso la fine del 1013 il Marchese si
rinchiuse nelle sue rocche Canavesane finché stanco, ammalato,
impotente, rimasto solo ad affrontare la situazione, si ritirò nel
monastero della Fruttuaria ove morì nel 1015.
I suoi sostenitori rimasero così soli a lottare contro i
Vescovi, pure essendo certi di soccombere.
Con la morte di Enrico II (1024), fatto santo dalla
Chiesa, si estinse la casa di Sassonia e la corona passò con
Corrado II (1024-1039) alla casa di Franconia o Salica.
La potenza dei Vescovi-Conti, di nomina imperiale, era
divenuta enorme a danno dei grandi e piccoli feudatari laici.
Il loro massimo rappresentante fu Ariberto, Arcivescovo
di Milano che si fece nominare da Corrado II Vicario Imperiale.
A Corrado II successe Enrico III (1039-1056) poi Enrico
IV: durante questo periodo la spinta antifeudale dei comuni
nascenti cominciava a manifestarsi mentre ancora fervevano le
lotte per le investiture fra il Re e il Papato.
Con Enrico V (1106-1125) si arrivò al famoso concordato
di Worms (1122) con il quale il sovrano rinunciava a qualsiasi
ingerenza nell'elezione dei Papi e dei Vescovi, mentre il Papa
riconosceva all'imperatore il diritto di dare ai Vescovi i feudi,
non con lo scettro ma con il pastorale.
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Nel periodo feudale i Vescovi-Conti governavano le città
e la loro
giurisdizione si
estendeva anche ai territori
circostanti, ove si trovavano i piccoli feudatari vassalli del
Vescovo.
Nelle numerose lotte di quel tempo i Vescovi-Conti sono
costretti a chiedere l'aiuto dei feudatari minori e del popolo per
costituire un vero e proprio esercito cittadino.
I feudatari, però, chiedono in cambio di cooperare nel
governo della città con la costituzione di un "Consiglio" degli
uomini più eminenti, presieduti da un Vice-Comes (Visconte) che
sostituisce il Vescovo nelle cose politiche e militari.
A poco a poco, queste nuove istituzioni prendono il
sopravvento e al vescovo, rimangono soltanto le mansioni di
carattere religioso.
Il governo cittadino diventa laico, regolare e mirante al
benessere di tutti: nasce così il Comune.
Compaiono i primi Consoli, i Podestà, i Capitani del
popolo e i Consigli. Sorgono le corporazioni delle industrie,
dell’artigianato e del commercio.
In una parola ci si avvia verso una nuova era.
Il
Comune,
sorto
con
intento
di
sostituirsi
al
feudalesimo, era riuscito a imporsi, o quasi, nell’Italia
settentrionale.
Sostituitosi ai feudatari nel godimento delle terre, si
trovò ad assumere una posizione di rottura nei confronti
dell’Imperatore, che, per diritto feudale aveva la prerogativa di
imporre balzelli, nominare magistrati, ecc.
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I Comuni avevano avuto modo di raggiungere tale
condizione anche poiché l’Imperatore era sconvolto della rivalità
di due grandi Case in lizza per il trono: la Casa di Svevia o di
Honenstaufen i cui seguaci erano detti Ghibellini, dal castello di
Waiblinghen, e la Casa di Sassonia, che, da Welf, fondatore della
casa di Baviera, era chiamata Guelfa.
In Italia, invece, i partigiani della Casa di Svevia, che
combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i
sostenitori dei Comuni e della Chiesa.
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Nel 1152, in Germania, le lotte dinastiche cessarono con
l’ascesa al trono di Federico di Svevia, “IL BARBAROSSA”,
ghibellino.
L’ambizione di Federico è grande, vorrebbe restaurare
l’autorità imperiale in Italia, dove fra i liberi Comuni primeggia
Milano, tanto potente da minacciare il Marchese del Monferrato,
fautore dell’Imperatore.
Nel 1154 Federico scende in Italia per rivendicare i
diritti Imperiali: Milano si oppone ed è messa al bando. Incendia
Chieri, Asti e distrugge Tortona, Trecate e Galliate, alleate di
Milano, poi, a Pavia, assume la corona di Re d’Italia e
successivamente a Roma, il 18 giugno 1155, riceve dal Papa la
corona Imperiale.
Tornato in Germania, Milano si riprende, ricostruisce
Tortona e apre la lotta contro le città ghibelline.
Nell’estate del 1158 il Barbarossa è di nuovo in Italia,
a lui si uniscono le ghibelline Lodi, Como, Pavia e Cremona.
Assediato Milano, questa è costretta alla resa, poi
Federico, a Roncaglia, dichiara di non riconoscere le usurpazioni
dei Comuni.
Nella città invia podestà imperiali, ma i Comuni, Milano
in testa, si rivoltano e scacciano i podestà.
Allora Federico distrugge Crema, si precipita su Milano,
la assedia e la fa distruggere, nel 1162, dai Pavesi e Cremonesi,
quindi rientra in Germania.
La rivolta contro l’imperatore è ormai in atto, Milano
risorge, le rivalità scompaiono e i rappresentanti dei grandi
Comuni Veneto-Lombardi a Pontida fondano la Lega Lombarda cui
aderiscono i Comuni dell’Emilia e del Piemonte (fra cui Novara).
Per tagliare la via fra il Marchese del Monferrato e
Pavia, ghibelline più che mai, la Lega Lombarda fonda la città di
Alessandria.
Nel 1174 Federico è di nuovo in Italia, devasta la
Lombardia, e dopo un assedio di sei mesi prende Alessandria, ma a
Legnano il 29 maggio 1176 è sconfitto in maniera disastrosa dalla
Lega Lombarda.
Nel 1177 a Venezia firma col Papa e con i delegati dei
Comuni una tregua di sei anni, mentre nel 1183, col trattato di
Costanza, riconosce i diritti dei Comuni a patto che questi
riconoscano l’autorità Imperiale.
Non ci dilungheremo oltre in questa cronologia storica,
diremo soltanto che la lotta fra i Comuni e gli Imperatori
continuò con alterne vicende.
Ricorderemo Federico II, figlio del Barbarossa, celebre
per le sue dispute con la Chiesa; Lodovico di Baviera, il Bavaro,
Imperatore dal 1327 al 1347 e Giovanni di Boemia che fra il 1330 e
il 1333, anno del suo ritorno in Boemia, era divenuto Signore di
molte città, fra cui Novara, Pavia e Vercelli.
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I Comuni ormai avevano fatto il loro tempo: a essi
subentrarono le Signorie, sorta di dittature ereditarie che
riconoscevano la sovranità dell’Imperatore.
L’istituzione Comunale perse di importanza politica
riducendosi a semplice organismo amministrativo.
A Milano come capi-popolo primeggiavano i Torriani,
guelfi, contro i quali si posero i Visconti, ghibellini, assurti a
grande potenza.
Dal 1240 al 1277 prevalsero i Torriani, ma a Desio in
quell’anno l’Arcivescovo Ottone Visconti sconfisse Napoleone Della
Torre, facendolo poi morire barbaramente in gabbia, esposto al
pubblico ludibrio.
Secondo il Bascapè nel 1275 Ottone Visconti occupò Pombia
e il suo castello che sembra fosse stato tolto precedentemente dai
Torriani alla Chiesa di Novara.
Matteo Visconti, figlio di Ottone, fu poi espulso dalla
città dai Torriani, ma nel 1311 riuscì ad avere il sopravvento e a
stabilire definitivamente la Signoria Viscontea.
Prima di essere Arcivescovo di Milano, Ottone Visconti fu
Podestà di Novara nel 1260 e canonico della Cattedrale nel 1261.
A Novara intorno al 1310 le lotte fra i Sanguigni
(famiglia Brusati) e i Rotondi (famiglia Tornielli) sfociarono
nella cacciata dei Sanguigni dalla città che si rifugiarono nei
loro castelli che, in seguito alla vittoria dei Tornielli furono
poi distrutti (fra questi i castelli di Borgosesia, Pombia,
Revislate, e altri; - Rizzo “Compendio di Storia Novarese”).
Approfittando delle lotte fra le fazioni Novaresi,
essendo morto nel 1329 il Vescovo Uguccione Borromeo, gli successe
Giovanni Visconti figlio di Matteo.
Prima di essere Vescovo, Giovanni Visconti era stato
nominato Cardinale dall’antipapa Nicolò V, creato da Ludovico il
Bavaro.
Al rientro in Germania di Ludovico, Il Visconti si
rappacificò col Papa, dal quale fu nominato Vescovo di Novara.
Resi impotenti i capi delle fazioni rivali Novaresi con
uno stratagemma, intenzionato a ripristinare l’autorità del
Vescovo sulle terre Novaresi e di Pombia, il Visconti unì questi
territori a quelli già appartenenti alla sua famiglia.
Il
Papa
che
approvava
il
suo
operato,
lo
fece
amministratore della Diocesi di Milano e nel 1342 Arcivescovo.
Passata sotto la Diocesi di Milano, Novara e il contado
rimasero sotto la Signoria dei Visconti.
L’apogeo dei Visconti si ebbe con Gian Galeazzo che nel
1395 ottiene dall’Imperatore il titolo di Duca di Milano.
Nelle lotte fra Gian Galeazzo e il Marchese del
Monferrato che nel 1356 aveva occupato Novara e posto un
castellano a Pombia (Bascapè o.c.), il Visconti nel 1958 recuperò
Novara e per ripagarsi incendiò e distrusse borghi e villaggi fra
cui Pombia e Varallo Pombia (Bascapè o.c. - Giovannetti “Le risaie
Novaresi”).
Per non dilungarsi troppo, facciamo un bel balzo in
avanti e vediamo che nel 1450, a Milano, prende il sopravvento
Francesco Sforza.
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A Francesco Sforza successe fraudolentemente Ludovico il
Moro al quale si attribuisce la responsabilità di avere nuovamente
data l’Italia allo straniero.
Infatti, nel 1494 Carlo VIII di Francia scendeva in
Italia, invitato dal Moro che temeva la vendetta del Re di Napoli,
Ludovico, infatti, si era impadronito del Ducato dopo avere ucciso
Galeazzo Maria Sforza, suo fratello, e rinchiuso il figlio di
questi nel castello di Pavia.
In seguito ad alterne vicende i principi Italiani
sconfissero a Fornovo (8 luglio 1495) Carlo VIII.
Luigi XII, re di Francia, poiché accampava pretese di
successione sul ducato dei Visconti, d’accordo con i Veneziani,
dopo avere messo in fuga Ludovico il Moro, si impadronì di Milano.
Il Moro tentò la riconquista del ducato, ma il francese
corrompe i mercenari di Ludovico, e quando a Novara i due eserciti
si incontrarono non si combatterono e il Moro abbandonato fu fatto
prigioniero e portato a morire in Francia.
Per opera di Papa Giulio II, promotore con i Veneziani e
Spagnoli della Lega Santa, i Francesi dovettero abbandonare
l’Italia.
Il
ducato
di
Milano
venne,
quindi,
assegnato
a
Massimiliano Sforza, figlio del Moro, ma sotto la tutela della
Spagna.
Nel 1515 Francesco I re di Francia, succeduto a Luigi
XVI, rivendicando diritti su Milano se ne impadronisce (battaglia
di Melegnano).
Carlo V, re di Spagna, Imperatore d’Austria, re di
Napoli, in lotta con la Francia per il predominio in Europa, nel
1521 scaccia i Francesi dal Ducato di Milano e vi insedia l’ultimo
dei figli del Moro: Francesco Maria.
Verso la fine del 1523 un nuovo esercito francese scende
in Italia e rioccupa parte della Lombardia, ma l’esercito del
Borbone lo ricaccia di là del Ticino e il 30 aprile 1524, a
Romagnano Sesia, sconfigge i Francesi.
Francesco I non cede, ma, successivamente, a Pavia, fra
il Ticino e il Po, è sconfitto e fatto prigioniero.
Morto l’ultimo Sforza, Carlo V rivendicò la successione
del ducato di Milano.
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Ha così inizio la dominazione Spagnola: in questo periodo
il Novarese è tormentato dalla continua lotta fra i Francesi e
Carlo V fino a quando quest’ultimo non ne rimase l’assoluto
dominatore.
Carlo V cede il Novarese a Pier Luigi Farnese, nipote di
Paolo III.
Assassinato il Farnese, morto Paolo III, il Marchesato di
Novara passa a un certo Dal Monte, nipote di Giulio III.
La Francia ne trae occasione per riprendere le ostilità
che cessano solamente con la morte del Dal Monte. Con la “Pace di
Castel Cambresis” del 1559 si consolidò il predominio Spagnolo
sull’Italia.
Il Ducato di Milano si estendeva dall’Adda al Sesia.
Il dominio Spagnolo fu dannoso per l’Italia: il disordine
amministrativo,
l’intollerabile
contegno
di
una
nobiltà
debilitata, il pesantissimo aggravio fiscale, la terribile miseria
e l’ignoranza sono gli effetti di tale dominazione.
In questo clima scoppiarono rivolte sempre soffocate
dagli Spagnoli, mentre i Signori, i Nobili favorivano il padrone
Spagnolo.
La dominazione Spagnola in Italia durò fino alla Pace di
Utrecht-Rastad (1713-1714) e a essa subentrò la dominazione
Austriaca.
Finalmente con gli accordi di Vienna del 3 ottobre 1735 e
ancora con quelli di Vienna del 1 novembre 1738, Novara, fino al
Ticino, era annessa al Regno Sabaudo.
Con il trattato di Worms del 13 settembre 1743 passava al
Re di Sardegna l’Alto Novarese e il Vigevanese. Si formava così la
provincia novarese comprendente la Lomellina, il Vigevanese, la
bassa e alta Ossola, il Lago Maggiore
e la riviera di Orta cui
rinunciavano i Vescovi il 3 giugno 1777, e parte della Valsesia.
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Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi
occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia
generale italiana.
Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore
d'Italia, assoggettati Sassoni, Bavari, Longobardi e Slavi
ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente.
I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera
e con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò.
I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i
feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui
dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi.
Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere
la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla
finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924.
Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale,
ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio
Lotario, sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea.
Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico
sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui
Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide,
che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere
aiuto al re di Germania Ottone I.
Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa
Adelaide e con essa torna in Germania.
Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un
accordo dichiarandosi vassallo del tedesco.
I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel
961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia.
A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo,
figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario
II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal
Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con
l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato
dall'isola di San Giulio d'Orta.
Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino,
mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva
nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo
dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola,
la coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni,
poi si arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che
nel frattempo si era rifugiato a Monte Feltro.
La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i
vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi
e terre che in seguito Ottone I restituiva loro.
A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto
giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli
ventidue anni.
L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai
feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando
l'indipendenza del regno d'Italia.
Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea,
nell'anno 1004.
Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi
piemontesi.
L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi
calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei
momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece
incoronare a Pavia re d'Italia.
Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un
decennio (1004-1O14).
Avido di vendette non ebbe però forze sufficienti per
fronteggiare i Vescovi e i Signori laici, benché riuscisse a
togliere molti privilegi e terre specialmente ai primi.
Tornato Enrico verso la fine del 1013 il Marchese si
rinchiuse nelle sue rocche Canavesane finché stanco, ammalato,
impotente, rimasto solo ad affrontare la situazione, si ritirò nel
monastero della Fruttuaria ove morì nel 1015.
I suoi sostenitori rimasero così soli a lottare contro i
Vescovi, pure essendo certi di soccombere.
Con la morte di Enrico II (1024), fatto santo dalla
Chiesa, si estinse la casa di Sassonia e la corona passò con
Corrado II (1024-1039) alla casa di Franconia o Salica.
La potenza dei Vescovi-Conti, di nomina imperiale, era
divenuta enorme a danno dei grandi e piccoli feudatari laici.
Il loro massimo rappresentante fu Ariberto, Arcivescovo
di Milano che si fece nominare da Corrado II Vicario Imperiale.
A Corrado II successe Enrico III (1039-1056) poi Enrico
IV: durante questo periodo la spinta antifeudale dei comuni
nascenti cominciava a manifestarsi mentre ancora fervevano le
lotte per le investiture fra il Re e il Papato.
Con Enrico V (1106-1125) si arrivò al famoso concordato
di Worms (1122) con il quale il sovrano rinunciava a qualsiasi
ingerenza nell'elezione dei Papi e dei Vescovi, mentre il Papa
riconosceva all'imperatore il diritto di dare ai Vescovi i feudi,
non con lo scettro ma con il pastorale.
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Nel periodo feudale i Vescovi-Conti governavano le città
e la loro
giurisdizione si
estendeva anche ai territori
circostanti, ove si trovavano i piccoli feudatari vassalli del
Vescovo.
Nelle numerose lotte di quel tempo i Vescovi-Conti sono
costretti a chiedere l'aiuto dei feudatari minori e del popolo per
costituire un vero e proprio esercito cittadino.
I feudatari, però, chiedono in cambio di cooperare nel
governo della città con la costituzione di un "Consiglio" degli
uomini più eminenti, presieduti da un Vice-Comes (Visconte) che
sostituisce il Vescovo nelle cose politiche e militari.
A poco a poco, queste nuove istituzioni prendono il
sopravvento e al vescovo, rimangono soltanto le mansioni di
carattere religioso.
Il governo cittadino diventa laico, regolare e mirante al
benessere di tutti: nasce così il Comune.
Compaiono i primi Consoli, i Podestà, i Capitani del
popolo e i Consigli. Sorgono le corporazioni delle industrie,
dell’artigianato e del commercio.
In una parola ci si avvia verso una nuova era.
Il
Comune,
sorto
con
intento
di
sostituirsi
al
feudalesimo, era riuscito a imporsi, o quasi, nell’Italia
settentrionale.
Sostituitosi ai feudatari nel godimento delle terre, si
trovò ad assumere una posizione di rottura nei confronti
dell’Imperatore, che, per diritto feudale aveva la prerogativa di
imporre balzelli, nominare magistrati, ecc.
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I Comuni avevano avuto modo di raggiungere tale
condizione anche poiché l’Imperatore era sconvolto della rivalità
di due grandi Case in lizza per il trono: la Casa di Svevia o di
Honenstaufen i cui seguaci erano detti Ghibellini, dal castello di
Waiblinghen, e la Casa di Sassonia, che, da Welf, fondatore della
casa di Baviera, era chiamata Guelfa.
In Italia, invece, i partigiani della Casa di Svevia, che
combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i
sostenitori dei Comuni e della Chiesa.
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Nel 1152, in Germania, le lotte dinastiche cessarono con
l’ascesa al trono di Federico di Svevia, “IL BARBAROSSA”,
ghibellino.
L’ambizione di Federico è grande, vorrebbe restaurare
l’autorità imperiale in Italia, dove fra i liberi Comuni primeggia
Milano, tanto potente da minacciare il Marchese del Monferrato,
fautore dell’Imperatore.
Nel 1154 Federico scende in Italia per rivendicare i
diritti Imperiali: Milano si oppone ed è messa al bando. Incendia
Chieri, Asti e distrugge Tortona, Trecate e Galliate, alleate di
Milano, poi, a Pavia, assume la corona di Re d’Italia e
successivamente a Roma, il 18 giugno 1155, riceve dal Papa la
corona Imperiale.
Tornato in Germania, Milano si riprende, ricostruisce
Tortona e apre la lotta contro le città ghibelline.
Nell’estate del 1158 il Barbarossa è di nuovo in Italia,
a lui si uniscono le ghibelline Lodi, Como, Pavia e Cremona.
Assediato Milano, questa è costretta alla resa, poi
Federico, a Roncaglia, dichiara di non riconoscere le usurpazioni
dei Comuni.
Nella città invia podestà imperiali, ma i Comuni, Milano
in testa, si rivoltano e scacciano i podestà.
Allora Federico distrugge Crema, si precipita su Milano,
la assedia e la fa distruggere, nel 1162, dai Pavesi e Cremonesi,
quindi rientra in Germania.
La rivolta contro l’imperatore è ormai in atto, Milano
risorge, le rivalità scompaiono e i rappresentanti dei grandi
Comuni Veneto-Lombardi a Pontida fondano la Lega Lombarda cui
aderiscono i Comuni dell’Emilia e del Piemonte (fra cui Novara).
Per tagliare la via fra il Marchese del Monferrato e
Pavia, ghibelline più che mai, la Lega Lombarda fonda la città di
Alessandria.
Nel 1174 Federico è di nuovo in Italia, devasta la
Lombardia, e dopo un assedio di sei mesi prende Alessandria, ma a
Legnano il 29 maggio 1176 è sconfitto in maniera disastrosa dalla
Lega Lombarda.
Nel 1177 a Venezia firma col Papa e con i delegati dei
Comuni una tregua di sei anni, mentre nel 1183, col trattato di
Costanza, riconosce i diritti dei Comuni a patto che questi
riconoscano l’autorità Imperiale.
Non ci dilungheremo oltre in questa cronologia storica,
diremo soltanto che la lotta fra i Comuni e gli Imperatori
continuò con alterne vicende.
Ricorderemo Federico II, figlio del Barbarossa, celebre
per le sue dispute con la Chiesa; Lodovico di Baviera, il Bavaro,
Imperatore dal 1327 al 1347 e Giovanni di Boemia che fra il 1330 e
il 1333, anno del suo ritorno in Boemia, era divenuto Signore di
molte città, fra cui Novara, Pavia e Vercelli.
5-5
L E
S I G N O R I E
I
V I S C O N T I
I Comuni ormai avevano fatto il loro tempo: a essi
subentrarono le Signorie, sorta di dittature ereditarie che
riconoscevano la sovranità dell’Imperatore.
L’istituzione Comunale perse di importanza politica
riducendosi a semplice organismo amministrativo.
A Milano come capi-popolo primeggiavano i Torriani,
guelfi, contro i quali si posero i Visconti, ghibellini, assurti a
grande potenza.
Dal 1240 al 1277 prevalsero i Torriani, ma a Desio in
quell’anno l’Arcivescovo Ottone Visconti sconfisse Napoleone Della
Torre, facendolo poi morire barbaramente in gabbia, esposto al
pubblico ludibrio.
Secondo il Bascapè nel 1275 Ottone Visconti occupò Pombia
e il suo castello che sembra fosse stato tolto precedentemente dai
Torriani alla Chiesa di Novara.
Matteo Visconti, figlio di Ottone, fu poi espulso dalla
città dai Torriani, ma nel 1311 riuscì ad avere il sopravvento e a
stabilire definitivamente la Signoria Viscontea.
Prima di essere Arcivescovo di Milano, Ottone Visconti fu
Podestà di Novara nel 1260 e canonico della Cattedrale nel 1261.
A Novara intorno al 1310 le lotte fra i Sanguigni
(famiglia Brusati) e i Rotondi (famiglia Tornielli) sfociarono
nella cacciata dei Sanguigni dalla città che si rifugiarono nei
loro castelli che, in seguito
Approfittando delle lotte fra le fazioni Novaresi,
essendo morto nel 1329 il Vescovo Uguccione Borromeo, gli successe
Giovanni Visconti figlio di Matteo.
Prima di essere Vescovo, Giovanni Visconti era stato
nominato Cardinale dall’antipapa Nicolò V, creato da Ludovico il
Bavaro.
Al rientro in Germania di Ludovico, Il Visconti si
rappacificò col Papa, dal quale fu nominato Vescovo di Novara.
Resi impotenti i capi delle fazioni rivali Novaresi con
uno stratagemma, intenzionato a ripristinare l’autorità del
Vescovo sulle terre Novaresi e di Pombia, il Visconti unì questi
territori a quelli già appartenenti alla sua famiglia.
Il
Papa
che
approvava
il
suo
operato,
lo
fece
amministratore della Diocesi di Milano e nel 1342 Arcivescovo.
Passata sotto la Diocesi di Milano, Novara e il contado
rimasero sotto la Signoria dei Visconti.
L’apogeo dei Visconti si ebbe con Gian Galeazzo che nel
1395 ottiene dall’Imperatore il titolo di Duca di Milano.
Nelle lotte fra Gian Galeazzo e il Marchese del
Monferrato che nel 1356 aveva occupato Novara e posto un
castellano a Pombia (Bascapè o.c.), il Visconti nel 1958 recuperò
Novara e per ripagarsi incendiò e distrusse borghi e villaggi fra
cui Pombia e Varallo Pombia (Bascapè o.c. - Giovannetti “Le risaie
Novaresi”).
Per non dilungarsi troppo, facciamo un bel balzo in
avanti e vediamo che nel 1450, a Milano, prende il sopravvento
Francesco Sforza.
6-5
G L I
C E S E
S F O R Z A
- L A
D O M I N A Z I O N E
F R A N
A Francesco Sforza successe fraudolentemente Ludovico il
Moro al quale si attribuisce la responsabilità di avere nuovamente
data l’Italia allo straniero.
Infatti, nel 1494 Carlo VIII di Francia scendeva in
Italia, invitato dal Moro che temeva la vendetta del Re di Napoli,
Ludovico, infatti, si era impadronito del Ducato dopo avere ucciso
Galeazzo Maria Sforza, suo fratello, e rinchiuso il figlio di
questi nel castello di Pavia.
In seguito ad alterne vicende i principi Italiani
sconfissero a Fornovo (8 luglio 1495) Carlo VIII.
Luigi XII, re di Francia, poiché accampava pretese di
successione sul ducato dei Visconti, d’accordo con i Veneziani,
dopo avere messo in fuga Ludovico il Moro, si impadronì di Milano.
Il Moro tentò la riconquista del ducato, ma il francese
corrompe i mercenari di Ludovico, e quando a Novara i due eserciti
si incontrarono non si combatterono e il Moro abbandonato fu fatto
prigioniero e portato a morire in Francia.
Per opera di Papa Giulio II, promotore con i Veneziani e
Spagnoli della Lega Santa, i Francesi dovettero abbandonare
l’Italia.
Il
ducato
di
Milano
venne,
quindi,
assegnato
a
Massimiliano Sforza, figlio del Moro, ma sotto la tutela della
Spagna.
Nel 1515 Francesco I re di Francia, succeduto a Luigi
XVI, rivendicando diritti su Milano se ne impadronisce (battaglia
di Melegnano).
Carlo V, re di Spagna, Imperatore d’Austria, re di
Napoli, in lotta con la Francia per il predominio in Europa, nel
1521 scaccia i Francesi dal Ducato di Milano e vi insedia l’ultimo
dei figli del Moro: Francesco Maria.
Verso la fine del 1523 un nuovo esercito francese scende
in Italia e rioccupa parte della Lombardia, ma l’esercito del
Borbone lo ricaccia di là del Ticino e il 30 aprile 1524, a
Romagnano Sesia, sconfigge i Francesi.
Francesco I non cede, ma, successivamente, a Pavia, fra
il Ticino e il Po, è sconfitto e fatto prigioniero.
Morto l’ultimo Sforza, Carlo V rivendicò la successione
del ducato di Milano.
7-5
L A
D O M I N A Z I O N E
S P A G N O L A
Ha così inizio la dominazione Spagnola: in questo periodo
il Novarese è tormentato dalla continua lotta fra i Francesi e
Carlo V fino a quando quest’ultimo non ne rimase l’assoluto
dominatore.
Carlo V cede il Novarese a Pier Luigi Farnese, nipote di
Paolo III.
Assassinato il Farnese, morto Paolo III, il Marchesato di
Novara passa a un certo Dal Monte, nipote di Giulio III.
La Francia ne trae occasione per riprendere le ostilità
che cessano solamente con la morte del Dal Monte. Con la “Pace di
Castel Cambresis” del 1559 si consolidò il predominio Spagnolo
sull’Italia.
Il Ducato di Milano si estendeva dall’Adda al Sesia.
Il dominio Spagnolo fu dannoso per l’Italia: il disordine
amministrativo,
l’intollerabile
contegno
di
una
nobiltà
debilitata, il pesantissimo aggravio fiscale, la terribile miseria
e l’ignoranza sono gli effetti di tale dominazione.
In questo clima scoppiarono rivolte sempre soffocate
dagli Spagnoli, mentre i Signori, i Nobili favorivano il padrone
Spagnolo.
La dominazione Spagnola in Italia durò fino alla Pace di
Utrecht-Rastad (1713-1714) e a essa subentrò la dominazione
Austriaca.
Finalmente con gli accordi di Vienna del 3 ottobre 1735 e
ancora con quelli di Vienna del 1 novembre 1738, Novara, fino al
Ticino, era annessa al Regno Sabaudo.
Con il trattato di Worms del 13 settembre 1743 passava al
Re di Sardegna l’Alto Novarese e il Vigevanese. Si formava così la
provincia novarese
comprendente la Lomellina, il Vigevanese, la bassa e alta Ossola,
il Lago Maggiore e la riviera di Orta cui rinunciavano i Vescovi
il 3 giugno 1777, e parte della Valsesia.
V
PARTE SESTA
VARALLO P. LEGATO AL CONTADO DI
POMBIA
1-6
I
C O N T I
D I
P O M B I A
Nel diploma del 29 luglio 962 (C.A.S.M. di Novara) doc.
54, l’Imperatore Ottone I restituì alla Chiesa di Novara il
Castello di San Giulio che Berengario II le aveva tolto, donando
anche: “Quosdam res nostro iuri et dominatione actenus subiectas
infra Comitatum Plumbiensen coniacentes, hoc est curtes duas
Barazzolam et Aggredade”.
In altra carta, doc. 56, compare Adalberto Conte di
Pombia (4-11-962), “Adalbertus comes Comitatu huius Plumbiensis”.
Il Gabotto (o.c.) sostiene che il Conte Adalberto sia un
discendente del Marchese di Ivrea Ascanio I, forse suo zio.
Nell’atto di permuta, doc. 58; fra Apualdo Vescovo di
Novara e certo Dagiprando di Galliate (marzo 965) figura un altro
Conte di altra casata: “Uuiberti filius quodam Angelbertj de loco
Plumbia testis” .
Ancora nella carta dell’Aprile 963, doc. 63, dove
Apualdo, Vescovo di Novara, permuta beni in territorio di
Conturbia con Anginone, si legge: “In eodem loco et fundo Plumbia
dicitur a Lentjglaria coerjt ej da duas partes Dadonis comes”.
Dadone, come dice il Gabotto, è il Conte del Comitato
Pombiese: e, inoltre, è padre di Arduino re d’Italia e di Guiberto
che successe ad Adalberto (ma per il momento non entriamo nella
complicata questione della parentela tuttora in discussione).
Nel doc. 103, del 28 novembre 991, compaiono altri figli
di Dadone: “... nobis qui supra Ubertus comes et Uualbertus
clericus germanis tollere presumat usque e uiginti”.
Nel Cod. Dip. long. abbiamo prova di quanto sopra: in
data 10 agosto 1000, in Ghemme, Guibertus, Comes filius bone
memorie Dadoni, vende a prete Bornone in fundo et loco Bunio.
Nel diploma di Ottone III, dato a Pavia, del 14 ottobre
1001, interviene anche “Wibertus comes filius bone memorie Dadonis
itemque comitis”. (Gabotto o.c.)
Dopo il 1000, signore di Pombia appare Uberto o Giuberto
che, come Conte, agisce anche in Novara ed è sempre della stirpe
di Dadone.
Caduto Arduino, re d’Italia, i Vescovi cominciarono a
vendicarsi dei presunti torti subiti.
Infatti, il 10 giugno 1025 l’Imperatore Corrado, il
Salico, concedeva al Vescovo di Novara, Pietro III l’intero
Comitato di Pombia, ma gli eredi di Guiberto, per alcuni decenni,
furono i veri padroni della Contea.
La prova di ciò si ha nel fatto che il 4 luglio 1034 il
Conte Adalberto del fu Uberto stando in Stodegarda, nel Comitato
di Pombia, permuta dei beni. (Muratori R. A. M. E. tomo II)
La casata dei Conti di Pombia si divise poi in tre rami:
quello del Canavese, quello di Biandrate e infine quello
Piacentino.
Nominato Vescovo di Novara Riprando, parente dei Conti di
Pombia, la contesa naturalmente s’acquietò (1039-1053) per non
toccare e ledere i beni di famiglia.
2-6
L A
C O N T E A
D I
P O M B I A
Le
origini
di
Pombia
e
di
Varallo
Pombia
sono
antichissime; archeologicamente sono comprese nell’area della
Civiltà di Golasecca.
Subentrati i Romani, verso la fine dell’impero, Pombia
era Municipio con il titolo di Civitas. E’ presumibile che anche
Varallo rivestisse notevole importanza come lo testimoniano la
lapide e il tempio dedicati a Nettuno.
Perché Pombia fosse diventata Municipio nessuno storico
lo
dice:
l’unica
traccia
è
rappresentata
dagli
scritti
dell’Anonimo Ravennate e di Guido. La sua costituzione a Municipio
è comunque provata dalla successiva trasformazione, per merito dei
Longobardi, in Ducato, e in seguito a sede comitale.
Riteniamo che la felice posizione geografica di Pombia –
facile alla difesa, la vicinanza del Ticino e delle vie consolari,
il castrum che presumibilmente vi sorgeva - e per ragioni di
carattere
politico
e
militare
abbiano
giocato
un
ruolo
determinante per la sua creazione a Municipio, dopo l’ordinamento
della “Lex Iulia Municipalis”.
Pombia e Varallo, anche se geograficamente distanti un
paio di chilometri, erano un tutt’uno nell’ambito politico e tali
rimasero per parecchi secoli.
Il termine “Municipio” non deve essere inteso nel
significato moderno del termine, bensì come una circoscrizione
territoriale
comprendente
diversi
borghi
sui
quali
la
giurisdizione spettava al borgo predominante insignito del titolo.
Con i Longobardi le circoscrizioni Romane Novaresi
(Novaria, Plumbia, Laumellum, Staziona e Oxilla) non subirono
modifiche e furono trasformate in “Ducati” e in seguito in
“Gastaldati”. Si spostarono temporaneamente solamente i centri di
due Municipi e si ebbe così i Ducati di San Giulio d’Orta,
Bulgaria, Pombia e Lomello; per Ossola gli storici sono incerti.
Caduti i Longobardi (773 d.C.) i Franchi trasformarono i
Ducati in Comitati: si ebbe così la Contea di Pombia, di Bulgaria,
di Lomello, di Orta-Stazzona, di Ossola.
Inoltre fra il Sesia e l’Agogna si insediava il piccolo
comitato di Fontaneto, che in seguito fu assorbito dai comitati
maggiori.
In
pratica
che
cos’era
questa
contesissima
Contea
di
Pombia?
Il Duranti (Alpi Graie e Pennine) e il Giulini (Memorie
della città di Milano e della campagna nei secoli bassi) dicono
che la Contea di Pombia comprendeva, fra l’altro, Varallo Pombia,
Conturbia, Divignano, Revislate, Agrate, Mezzomerico, Cressa,
Suno, Vaprio, Momo, Alzate, Caltignaga, Oleggio, Bellinzago,
Dulzago, Cavagliano, Cameri e forse anche Bornate, Galliate,
Terdobbiate, Trecate, Olengo, Vespolate, Nibbiola, Stodegarda.
Una prova che quest’ultima località appartenesse al
Comitato di Pombia si ha nella carta prima citata del 4-7-1034.
Questa Contea, quindi, era un grande e ricco possedimento
che avrebbe destato invidia a chiunque, soprattutto perché posto
in una felice posizione geografica, politica ed economica.
Ne erano proprietari i Marchesi d’Ivrea da cui sortì
Arduino, che fu poi l’unico re d’Italia italiano fra tanti
stranieri fino all’avvento dei Savoia.
La Marca d’Ivrea, nel novarese, da Carlo Magno in poi,
comprendeva cinque comitati: Bulgaro, Pombia, Fontaneto, San
Giulio d’Orta-Stazzona e Ossola, oltre ai limitrofi comitati
d’Ivrea, Santhià, Vercelli e Lomello.
Fra le genti Longobardiche stanziatesi nel Novarese, come
attesta P. Diacono, molti furono i Bulgari, dai quali derivarono i
nomi di Bulgarum (Borgovercelli) e Bulgaria (Borgolavezzaro). Da
qui prese il nome il Comitato di Bulgaro o di Bulgaria, come
appare nel documento 65 delle Carte dell’Archivio di Santa Maria,
del 18-6-969, di Ottone, dove si legge: “… coniacentes infra
Regnum
Italicum
in
Comitatibus
uidilicet
Bulgariensis,
Laumellensi, Plumbiensi, Mediolanensi…” e ancora continua “… et
uilla Sazago seu infra ciuitatem nouariensem cortem de ueratelino
(da ueratelim, verectelim), cum castro super habentem…”.
Secondo il Rusconi (I Conti di Pombia e di Biandrate) il
“Veratelino” è nientemeno che la corte di Varallo Pombia.
Le “corti”, dice il Volpe (o.c.), erano quelle località
ove esistevano complessi di case coloniche, di edifici padronali,
piccole officine, terre coltivate, boschi e pascoli, in altre
parole una specie di azienda autosufficiente.
Il Pezza (Profilo della Bulgaria Italiana in B.S.S.N.
1935, n° 1-2) pone il Veratelino in Novara e noi siamo propensi a
dargli ragione se soltanto interpretiamo alla lettera il diploma,
infatti, il termine “Ciuitatem” sta per Novara, sede municipale.
Il Ruasconi errava quando affermava che in una carta del
marzo 931 si aveva la prova dell’esistenza del castello di Varallo
Pombia: tale carta (doc. 44, Carte A.C.S.N. di Novara) si legge:
“… de loco Castro Plumbia uassallo predicto Uualoni istj testjs.”.
Si potrebbe interpretare che tale corte, con il suo
castello, fosse una dipendenza di Novara, in una località per noi
incerta, ma senz’altro non facente parte del Comitato di Pombia.
Il Comitato Bulgaro o Bulgaria ha dato luogo a parecchie
controversie. Inizialmente, secondo il Gabotto (o.c.), aveva il
suo centro in Borgolavezzaro e Novara, che faceva parte di tale
Comitato, non poteva appartenere al Comitato di Pombia, che
veniamo a conoscere solo in seguito.
In seguito, nei documenti, non è più citato il Comitato
di Bulgaria, sostituito con quello di Novara. Presumibilmente la
sede si trasferì quando i vescovi assunsero, assieme ai religiosi,
i poteri civili.
Il Pezza ritiene che Novara fosse appartenuta, per
qualche tempo, al Comitato di Pombia, e localizza Bulgaro di là
del Ticino, in Lombardia. Divide, poi, la storia dei due comitati
in tre periodi ben distinti. Il primo, fra il secolo VIII e il IX,
che vede il Comitato Novarese indipendente. Il secondo, dall’813
al 968, durante il quale Pombia assorbe Novara. Il terzo vede
nuovamente i due comitati indipendenti e si termina con
l’investitura al vescovo di Novara, nell’anno 1025, del Comitato
di Pombia.
3-6
I
C O N T I
D I
B I A N D R A T E
Nel novarese le lotte fra i Vescovi e i Marchesi di Ivrea
raggiunsero il massimo con Arduino che, approfittando della lotta
che gli derivava dal possesso della corona d’Italia aveva
insediato i suoi sostenitori nei punti chiave del territorio a
danno del Vescovo a cui toglieva privilegi, decime e terre.
Scomparso Arduino con l’aiuto dello straniero asceso al
trono, incominciarono le vendette e, nonostante la resistenza dei
Conti, la cospicua Contea pombiese passò al Vescovo.
Ma la cessione del Comitato di Pombia al Vescovo di
Novara, avvenuta nel 1025, rimase per qualche decennio un fatto
puramente formale: al Vescovo, tolta forse Pombia e qualche terra,
non rimaneva che il titolo. Le località più importanti erano
possedute dai Conti di Pombia e da qui continuarono le dispute.
Con la salita alla cattedra di San Gaudenzio del vescovo
Oddone si ha la riconferma, con il diploma del 3 aprile 1060 di
Enrico III (IV), della cessione del Comitato Plumbiense al Vescovo
di Novara con l’aggiunta della riva del Ticino da Cameri fino alla
Pietra Mora (Cum ripa Ticini a loco Camararum usque a Petram
Mauram).
Morto Oddone, il nuovo vescovo Alberto riprese con
rinnovato vigore la lotta per il possesso del Comitato ma “fu
ingiustamente ucciso da iniqui conti” che il dittico di San
Gaudenzio precisa di “Biandrate” (di Pombia).
Per ottenere il perdono è probabile che i Conti di Pombia
cedessero definitivamente i loro possessi e si ritirassero in
Biandrate assumendone il nome (1093) per mascherare l’infamia
dell’assassinio.
Sotto questo nome assunsero a grande potenza con Federico
Barbarossa, tanto che, se per diritto imperiale la Contea di
Pombia apparteneva al Vescovo di Novara, di fatto era alla mercè
del Conte Guido di Biandrate, il più famoso di tale dinastia.
I successivi imperatori confermarono tale donazione
(Federico Barbarossa con il diploma del 3-1-1155 ed Enrico VII con
quello del 20-4-1311) e la Contea di Pombia rimase ai Vescovi di
Novara fino al 1413.
Federico Barbarossa, con il diploma del 1152, conferma ai
Conti da Castello il possesso del castello di Marano Ticino e i
loro possessi in Pombia e nella Contea con il mercato di Scozola
ai due lati del Ticino e i diritti di pedaggio del porto di Sesto
Calende. Tale concessione fu riconfermata da Ottone IV il 15-41210.
4-6
A R D U I N O
Per un millennio abbiamo visto Pombia nello splendore
della sua grandezza: dai Romani ai Longobardi e al periodo
comitale chiusosi, di fatto, nel 1093. Con il definitivo passaggio
ai Vescovi di Novara e in seguito ai Visconti e ai Ferrero, Pombia
progressivamente decadde.
Della sua grandezza non restano che pochi e incerti
ricordi. Il suo apogeo si ebbe con Dadone e con suo figlio Arduino
e di questo personaggio, forse nativo di Pombia, sicuro conte di
questa località narreremo le vicende, non per fini meramente
campanilistici, ma perché fu un grande italiano.
Arduino nacque verso l’anno 955 da Dadone, Conte di
Pombia, e da una figlia di Arduino III Glabrione. Fu prima Conte
di Pombia, poi succedette al cugino Corrado Conone, intorno
all’anno 989, nel governo della Marca di Ivrea che allora
comprendeva i comitati di Ivrea, Pombia, Bulgaria, Vercelli,
dell’Ossola, Stazzona e di Lomello.
Era un grande feudatario, ostile a Ottone III ed alla
feudalità ecclesiastica dei vescovi-conti creati e protetti dagli
Ottoni.
Ottone I aveva trovato la feudalità laica molto potente
e, non potendo annientarla, tentò di diminuirne i poteri con la
collaborazione dei vescovi-conti sensibili ai bisogni della
corona. Anche i suoi successori continuarono questa politica che
sfociò nel forte antagonismo dei feudatari laici capeggiati da
Arduino.
Nel 995 con la donazione della Corte di Caresana ai
canonici vercellesi da parte dell’imperatrice Adelaide, Arduino
ebbe occasione di scatenare il conflitto contro Pietro, vescovo di
Vercelli. Occupata la città anche il Vescovo fu ucciso e il suo
corpo bruciato con la chiesa (13/2 – 17/3/997).
Continuò la lotta contro il Vescovo di Ivrea Marmondo,
dal quale fu scomunicato due volte.
Sulla cattedra di Vercelli, dopo la morte di Pietro,
salirono Raginfredo ad Adalberto, partigiani di Arduino.
Nel 999 la sede di Vercelli, per ordine del Papa, è
affidata al monaco tedesco Leone della curia imperiale.
Nonostante le scomuniche e la minaccia dell’anatema del
predecessore di Silvestro II, Gregorio V (morto nel 999), e
l’opposizione di Leone, Arduino si presenta al Sinodo Romano,
indetto da Silvestro II e Ottone III, a sostenere i suoi diritti.
Il Sinodo, fra l’aprile e il maggio del 999, lo condanna:
”che egli debba deporre le armi, non mangiare carne, non dare
bacio né a uomo né a donna, non vestir lino, non dormire più di
due notti, se sano, nel medesimo luogo, non ricevere il corpo del
Signore se non in morte e condurre penitenza dove nessuno possa
offendere dei suoi avversari, o farsi monaco immantinente”.
I suoi beni con diploma del 7-5-999 sono concessi al
Vescovo Leone, al quale, con altro diploma in pari data, sono
concessi i comitati di Vercelli e di Santhià.
I poteri di Arduino passano così al figlio Arduino II
(Ardicino).
Arduino non cede alla condanna e, ritornato nelle sue
terre, riprende la situazione scacciando dalle rispettive sedi i
Vescovi di Ivrea e di Vercelli.
I nemici richiamano Ottone III che alla fine del 999
giunge a Pavia, chiama in sua presenza Arduino II (Ardicino) che
si presenta, ma fugge ai primi sentori di tradimento.
Da qui una nuova messa al bando tanto per Arduino che per
Ardicino.
Ritornato Ottone III in Germania, Arduino risale il
terreno perduto e, sembrerebbe, fosse proclamato re dai feudatari
dell’Italia settentrionale nella primavera dell’anno 1000.
Morto Ottone III il 23-1-1002, il 15 febbraio dello
stesso anno, in Pavia, Arduino ricevette la seconda incoronazione
con tutta la solennità del rito.
L’incoronazione non servì a riconciliare le parti: da un
lato i suoi sostenitori per i quali era “il nobile Marchese
d’Ivrea”, eletto a Pavia re di tutti “I Longobardi”, per gli altri
era l’usurpatore del trono, l’uccisore del Vescovo.
Intanto in Germania la corona imperiale passava a Enrico
II, pronipote di Ottone I e continuatore della sua politica a
favore dei vescovi-conti.
I vescovi di varie città, con Arnolfo arcivescovo di
Milano in testa, si rivolsero a Enrico II per avere aiuto a
combattere Arduino.
Enrico mandò allora in Italia Oddone, duca di Carinzia e
Conte di Verona. Arduino, data l’inimicizia dei vescovi e dei
feudatari più ossequenti, per gelosia, al tedesco non poteva avere
un grande esercito. Ciononostante, appoggiato dai secondi militi
(la piccola nobiltà campagnola) approntò un piccolo esercito e con
una indovinatissima mossa strategica passò all’offensiva occupando
la marca di Verona e in una memorabile battaglia al Campo della
Fabbrica sconfiggeva Oddone fino a costringerlo a rivalicare le
Alpi (dicembre 1002 – gennaio 1003).
Nella primavera del 1004 Enrico giungeva in Italia con un
grande esercito per assecondare i desideri dei vescovi e dei
feudatari che temevano sempre più l’autorità di Arduino.
Purtroppo i “Longobardi” di Arduino, ridotti di numero
per le continue defezioni, furono sconfitti e il Conte Pombiese fu
costretto a ritirarsi nel Canavese dove, asserragliandosi nella
rocca di Sparone, faceva l’estremo tentativo di fermare il
tedesco.
Enrico, intanto, si recava a Pavia, dove il clero e la
nobiltà lo incoronò Re d’Italia. I “plebei” il giorno stesso si
rivoltarono tanto che Enrico, per reprimere la rivolta, incendiò
la città punendo poi crudelmente i ribelli.
In seguito Enrico dovette ritornare in Germania per
arginare un tentativo d’invasione dei Polacchi. Da questo fatto
Arduino ne trasse immediato vantaggio, riprendendosi la Marca
d‘Ivrea e alcuni comitati limitrofi, ma la sua autorità non tornò
ristabilita in tante altre parti del regno. Comunque, nonostante
continuassero le contese tra Enriciani e Arduinici, Arduino poté
regnare con relativa tranquillità per qualche anno ancora.
Nel dicembre del 1013 Enrico era di nuovo in Italia e i
feudatari ne trassero argomento per ribellarsi. Occupata con
facilità la Lombardia, Enrico giungeva a Roma, dove il 14 febbraio
1014 riceveva da Benedetto VII la Corona Imperiale.
Arduino propose allora a Enrico un accordo che fu
respinto dal tedesco. Arduino, sdegnato, attese il momento
propizio per vendicarsi e l’occasione non si fece attendere. Otto
giorni dopo l’incoronazione, il popolo romano si ribellava al
tedesco che, trovandosi in difficoltà, rientrava in Germania.
Arduino, allora, sostenuto dai suoi fedeli, si impadroniva di
Vercelli, dove il Vescovo Leone riusciva a sfuggirgli a stento, di
Novara, Como ed anche Milano e Piacenza si disponevano a
sottomettersi. Improvvisamente i seguaci di Enrico, sostenuti,
parrebbe, dal Marchese di Toscana e appoggiati da Arnolfo,
Arcivescovo di Milano, riprendevano il sopravvento e Vercelli era
restituita a Leone.
Arduino, intanto, gravemente malato, persa ogni speranza,
abbandonato da tutti, deponeva allora lo scettro e la corona
sull’altare del monastero della Fruttuaria per vestire l’abito
secolare. Lì lo colse la morte il 14 dicembre 1015.
Nel sepolcro i monaci lo composero con le vesti regali
tanto che nella ricognizione nel secolo XVII il Cardinale Ferrero
così lo trovò.
Fuori dalle ire dei suoi contemporanei italiani e
tedeschi, nella quiete monastica, i santi monaci, sopra di ogni
contesa, l’avevano riconsacrato per la storia, assegnandogli il
titolo che per diritto gli spettava.
Se da un lato aveva difeso gli interessi feudali laici
contro i vescovi-conti sostenuti dal papato e appoggiati dagli
imperatori, dall’altro combatteva il tedesco sia perché questi
mirava a frammentare il potere feudale laico, sia per una naturale
insofferenza al giogo straniero, preludio di una nascitura
coscienza nazionale.
5-6
I
V I S C O N T I
L’Imperatore Ludovico il Bavaro, con diploma dato in
Pavia il 6-8-1329, infeudava Castelletto Ticino a Ottorino
Visconti a cui succedesse il figlio Bartolomeo e in seguito il
nipote Alberto.
Nel 1407 il Duca di Milano Filippo Maria Visconti
nominava Alberto signore di Borgo Ticino e Varallo Pombia; poi lo
stesso Duca con diploma del 7-5-1413 (Milano Archivio di Stato)
investiva i figli di Alberto: a Ermes concedeva il titolo di
Barone di Ornavasso, con le terre del Vergante, di Invorio
Inferiore, di Borgo Ticino, Varallo Pombia e Pombia per sé e i
suoi eredi. (Nominative terram de Ornavasso, terram Invorio
Superiori, terram de Burgo Ticini, terram de Varale Pombie, terram
Pombia, Vergantium, diocesis Novariensis.)
6-6
N I B B I A
-
C A C C I A
-
F E R R E R O
Il 6-10-1469 il Duca Galeazzo Maria Sforza concedeva a
Martino Nibbia, segretario del Marchese del Monferrato, il feudo
di Varallo Pombia; il 31-7-1628, Paolo e Martino Nibbia alienavano
mezzo feudo a favore di Camillo Caccia.
Successivamente il 5-4-1685 Luigi Nibbia cedeva l’altra
metà di feudo a Ottavio Caccia e al Cardinale Federico Caccia,
Arcivescovo di Milano (1693-1712), la cui abitazione era l’attuale
Casa Simonetta.
Nel 1690, una parte del feudo passava al Marchese Pietro
Antonio Ferrero, feudatario di Pombia.
7-6
A
A N N E S S I O N E
A L
R E G N O
D I
S A R D E G N
Col passare degli anni, assopite per sempre le discordie
fra Conti, Vescovi e Comuni, le nostre terre assunsero, con
l’annessione del Novarese al Piemonte (Trattato di Worms, 1748)
l’aspetto attuale.
Le terre furono frazionate, si formarono le piccole
proprietà
terriere,
le
aziende
individuali,
fiorirono
le
industrie, i commerci, avviando così le premesse della vita
attuale.
Però dobbiamo trarre una amara conclusione: le vicende di
secoli hanno fatto decadere i borghi di Pombia e di Varallo a due
località povere e sottosviluppate.
8-6
Z E
D O M I N A Z I O N E
S P A G N O L A -
P E S T I L E N
Durante la dominazione Spagnola, il Contado Novarese come
del resto le terre Lombarde e viciniore, furono flagellate dalla
peste, immortalata dalla descrizione che il Manzoni ne fa ne’“I
Promessi Sposi”.
Date le pessime condizioni igieniche e profilattiche, nei
tempi antichi erano soventi le epidemie.
Paolo Diacono (o.c.) ricorda di una epidemia di peste
verso il 680.
Il Giulini (o.c.) ricorda l’epidemia del 1004 e quella
terribile del 1187, del 1361 e come se ciò non bastasse nel 1364,
1373 e 1378 le cavallette provocarono una terribile carestia.
Il Contado di Milano subì altre epidemie di peste fra il
1450 e il 1451 e nel 1485 che durò più di quattro anni, provocando
oltre 100 mila morti.
Il De Vit (Storia del Lago Maggiore)
ci dice che il
Capis ricorda che l’Ossolano e il Novarese ebbero pestilenze nel
1513, 1528, 1550, 1564.
Il Medoni narra che la peste del 1524 fece morire più di
140 mila persone nella Lombardia.
Notissima è la peste di San Carlo, preceduta da una
grande carestia, fra gli anni 1574 e 1575.
Il Medoni scrive, inoltre, che venne dal Tirolo, proseguì
per il Veneto e il Mantovano e si portò poi sul Lago Maggiore.
Paruzzaro fu il primo paese toccato (14-3-1576); poi essa
si diffuse verso il Cusio e, quindi, nel Milanese.
La peste del 1629-1631, fu preceduta da una grande
carestia tra il 1627 e il 1628, che mostrò bene
le pessime
condizioni dell’agricoltura, la prostrazione e il debilitante
stato delle genti povere. Esse, private a causa della carestia,
dei se pure miseri sostegni che potevano dare la terra e prostrate
dai continui passaggi e distruzioni compiute dalle genti straniere
assoldate dai potenti, sempre in lotta fra loro, e assoggettate
all’autorità Spagnola, che, tutta impegnata nell’assedio di
Casale, non si curava dello stato della popolazione, erano
destinati a essere preda della peste senza possibilità di scampo.
Alla miseria e alla fame che decimavano sempre più le
genti, subentrò, quindi, la peste che contribuì all’eccidio con
migliaia di vittime.
A nulla valsero le istrioniche cure dei medici del tempo,
né a calmare la popolazione di Milano, esasperata dalla cecità
ipocrita dei governanti e dall’incertezza dei tempi, e il ricorso
alla violenza come testimonia il processo agli untori che
avrebbero propagato la peste facendo uso di unguenti medicinali su
mandato di potenti Signori, se non a rendere più tragica una
situazione di per sé già drammatica.
Senza dubbio fu un autentico disastro che si ripercosse
per decenni sulle terre che ebbero a soffrire l’epidemia.
Fu anche però una sorta di giustizia che non risparmiava
né ricchi né poveri, rendendo tutti, almeno una volta, uguali.
I morti furono complessivamente diverse centinaia di
migliaia. La relazione dell’Arnali (B.S.S.N. 1939 - fasc. II-III)
deputato del tribunale di sanità, del 17-6-1631, dice che Oleggio
ebbe nel primo contagio 1062 morti, nel secondo 115.
Di Pombia non parla, di Varallo dice che restavano 125
famiglie con 750 abitanti e che nel secondo contagio i morti
furono 23.
Il soprintendente era Gerolamo Caccia.
Sempre in tema di calamità, ricordiamo le piene del
Ticino e del Lago Maggiore descritte dal Muratori: nel 1717, ad
esempio, il Lago si alzò di 10,80 metri sul livello normale.
Le altre piene degne di nota furono quelle del 1566,
1570, 1571, 1587, 1601, 1640, 1704
VII
PARTE SETTIMA
CRISTIANESIMO – MONUMENTI PIU’
IMPORTANTI
1-7
I L
T E R R E
C R I S T I A N E S I M O N E L L E
N O S T R E
E’ presumibile che dopo l’editto di Milano del 313 il
Cristianesimo cominciasse a diffondersi anche nelle nostre
contrade.
La tradizione pone Gaudenzio (397-417) primo Vescovo
Novarese, ma il Lizier (Episcopato e Comitato in Novara nell’alto
medioevo) mette in dubbio la tradizione e pone San Lorenzo quale
primo Vescovo, ritenendo già organizzata la Chiesa Novarese
attorno al 356.
Il Gabotto (Storia dell’Italia Occidentale) ritiene che
inizialmente in ogni Municipio Romano si trovasse una sede
Vescovile, in ogni pago (villaggio del Municipio) una pieve, e in
ogni vico (borgata) un titolo o cappella.
Quindi, in ogni sede municipale risiedeva un Vescovo, e
in ogni villaggio un pievano o un arciprete (archipresbiter).
Secondo questa tesi anche Pombia era sede vescovile, però
in merito non si ha nessuna traccia.
In proposito, la lapide che si trova nella Parrocchia di
Varallo,
fra
l’altro,
dice:
“...
IN
PROVINCIA
CAPUT
IMEMO(RA)BILI ARCHI(EPISCO) - PALE - VETUSTATE SUBLIME ...”. (...
centro arcivescovile della provincia di antichità immemorabile).
Siccome sia a Varallo Pombia sia a Pombia le chiese
parrocchiali sono dedicate a San Vincenzo, nulla toglie che nel
1755 (anno della lapide) l’estensore della stessa, memore di
qualche
antica
tradizione
pombiese,
volesse
ricordare
(confusionariamente) la dignità assunta dalle chiese locali.
Nel Comitato di Pombia, secondo il Gabotto (B. S. S. N. 1918 - fasc. II) “Le Pievi della Diocesi”), si trovano le seguenti
pievi: Ponzana, Canceriano, Casalvolone, Biandrate, Mosezzo,
Trebbiate, Cameri, Dulzago, Oleggio, Contengo, Pro, Seso, Sizzano,
Ghemme, Camodegia, Grignasco, Cureggio, Suno, Pombia (poi Varallo
Pombia).
Pombia, secondo il Bascapè, è indicata come pieve in un
documento del Vescovo Guglielmo (1° o 2°). Litifredo, Vescovo di
Novara dal 1124 al 1151, ottenne da Papa Innocenzo II, nell’anno
1133, un diploma nel quale figurano le pievi della diocesi sopra
le quali il Vescovo aveva diritti: “Innocenzo Vescovo servo dei
servi di Dio. Al venerabile fratello Litifredo, Vescovo di Novara,
ed ai di lui successori che saranno canonicamente sostituiti in
perpetuo... Plebem Olegli cum capellis suis. Plebem Dunciagi cum
capellis suis. Ecclesias Santi Iulii nouam et antiquam. Plebem
Varadi (Pombia) cum capellis suis. Plebem de Gatico cum capellis
suis ... “(26-6-1133). (C. A. S. M. vol. 2° - doc. CCCXX).
Nelle testimoniali del 2-3-1157 troviamo che “Presbit
Otto Gagia” ricorda l’elezione di “magistrum nebulonem in
archipresbiterium in plebe uarali” (C. A. S. M. vol. 2° - doc.
CCCXCIV).
Nelle “Consignationes” di tutti i benefici ecclesiastici
ordinate dal Vescovo Guglielmo Amidano nel 1347, a Varallo non
compare nessun pievano, ma il solo chierico Giacobino da Casteno,
mentre è ricordato Arnaldo pievano della Chiesa di San Vincenzo di
Pombia.
E’ probabile che con il decadimento politico di Pombia,
la dignità pievana, verso il 1133, passasse a Varallo Pombia,
benché non sia possibile dare una risposta precisa, come abbiamo
già fatto cenno, nelle “Consignationes” della dignità pievana è
investito Arnaldo di Pombia.
Se però consideriamo che nelle “Rationes Decimarum
Italiae” del 1335-1336 imposte dal Papa Benedetto XII, nelle
collettorie al n° 200 - Diocesis Novariensis - foglio 60,
troviamo: “Item pro Iohanne de Vaegiis archispresbytero plebis
Varalli iuxta Pombia pro prebenda sua dicte plebis assignarunt V
libras imper.” (F. Pezza - “Tributi pontifici e le scomuniche
fiscali ecc.” in B. S. S. N. - 1947), dunque abbiamo un Arciprete
a Varallo Pombia e non a Pombia appena dodici anni prima
l’ordinamento delle “Consignationes”.
Si
potrebbe
anche
terminare
che
dopo
il
1133
l’arcipretura fosse passata definitivamente a Varallo Pombia e che
durante
le
“Consignationes”
l’arcipretura
stessa
fosse
provvisoriamente vacante.
Il Vicariato foraneo di Varallo Pombia fu istituito dal
Vescovo Speciano (1590) e comprendeva Varallo Pombia, Marano
Ticino, Pombia, Divignano, Conturbia, Castelletto Ticino, Borgo
Ticino e i suoi parroci erano insigniti del titolo di Arciprete.
In seguito Marano Ticino vene unita al vicariato di
Oleggio.
Nelle “Consignationes” compaiono per la prima volta i
nomi delle più antiche famiglie di Varallo Pombia: gli Albertalli
ed i Favini.
Nelle stesse carte si parla dei possedimenti delle
“Humiliate”, delle quali tratteremo brevemente.
Il Romussi (o. c.) narra che alcuni cittadini di Milano e
Contado, fatti prigionieri dall’Imperatore di Germania Enrico,
fecero voto che, se fossero ritornati in Italia, si sarebbero
ritirati insieme a fare vita devota.
Assunsero il nome di Humiliati e si divisero in seguito
in tre ordini: il primo dei Primissimi, che comunemente vestiva in
grigio; il secondo, istituito da San Bernardo, i cui appartenenti
eressero la loro casa in un luogo di Milano detto Brera (da Baida,
podere) . La casa di Milano diede poi origine ad altre case che
non si chiamarono mai conventi a causa della loro indipendenza
laicale.
Il terzo ordine fu istituito dal Beato Giovanni di Meda.
San Bernardo aveva trasformato i laici Humiliati in una
sorta di frati, Giovanni li cambiò in una specie di preti.
Il Cardinale Jacopo di Vitri nel 1240 così descriveva gli
Humiliati; “In Lombardia vi sono certe congregazioni di uomini e
di donne che chiamansi Umiliati perché e nella povertà e
nell’asprezza e nella compostezza esteriore e nella gravità dei
costumi, in tutte le loro parole e opere insomma danno grande
esempio di umiltà. Vivono in comune e in gran parte del lavoro
delle proprie mani; perciocché non hanno molti redditi o
possessioni, né è lecito ad alcuno di loro di possedere alcunché
di proprio... scacciano l’ozio colle lezioni, colle orazioni e
coll’assiduo lavoro delle loro mani e molti nobili e potenti
cittadini e molte matrone e vergini si sono consacrate al Signore:
dei
quali personaggi alcuni sono entrati nella religione; altri
rimasti nel mondo con i loro figlioli e colle loro mogli, ciò
nonostante Umiliati, in abito religioso, sobri nel vitto e pieni
d’opere di misericordia, sono nel secolo come se non vi fossero”.
Questi frati, “solo a metà”, si diedero all’industria
manifatturiera della lana, in Italia e in Europa, ricavando dalle
loro attività grandi ricchezze (si pensi alla grandiosità di
palazzo Brera).
Quest’ordine
assurto
a
grande
potenza
economicocommerciale si era inserito vigorosamente nella società, ma le
grandi ricchezze portarono gli Humiliati alla corruzione e al
lusso sfrenato, tanto che San Carlo Borromeo, nel 1570, chiese
l’abolizione dell’ordine destinando i suoi possedimenti ai
Gesuiti.
Palazzo Brera venne così destinato all’accademia delle
Belle Arti.
La via Brera di Varallo potrebbe anche indicare la
vecchia strada che portava alle braide (poderi) degli Umiliati che
compaiono nelle “Consignationes” di Pombia.
2-7
I
M O N U M E N T I P I U’
I M P O R T A N T I
§ 1 - RESTI DI CHIESA A SAN GIORGIO
A San Giorgio di Pombia esistono, in un boschetto pieno
di rovi, i resti di una cappella.
Da quel poco che rimane si può dedurre che la cappella
aveva tre absidi. Dei due laterali rimane ben poco, mentre quella
centrale è quasi completa e, inoltre, vi si vede traccia di un
affresco che sembra proto-romanico.
La costruzione di tale cappella è databile fra il VII e
l’VIII secolo.
§ 2 - IL CASTELLO DI POMBIA
Poco discosto dalla Chiesa di San Vincenzo di Pombia si
trovano i ruderi di un antichissimo castello. Vi sono i resti di
due muri perimetrali, in ciottoli di fiume e pietre squadrate
negli angoli.
Quasi al centro di questa doppia recinzione si trova la
torre quadrata.
Il castello, posto in posizione strategica, al limite del
ciglio della collina che guarda al Ticino, fu costruito sul
modello dei primi castelli piemontesi e romani che erano
costituiti da una torre posta al centro di uno spiazzo recintato.
Il Nigra (Torri, castelli e case forti del Piemonte) lo fa
risalire all’XI secolo.
Il Bascapè (o.c.) ricorda che queste rovine furono
denominate Castel Dogno, da Castel Domino, appellativo che
anticamente si attribuiva ai Vescovi e il luogo appartiene ancora
alla Chiesa.
Avanziamo l’ipotesi che Castel Dogno derivi piuttosto dal
latino volgare “dunio” che sta per montagnola, poi trasformato in
don jon, che stava appunto a indicare i primitivi castelli posti a
difesa di luoghi rialzati, com’è il caso del castello di Pombia
che può, quindi, essere sorto in epoca anteriore all’XI secolo,
forse sulle rovine di un castrum romano.
Un altro castello si trova poco discosto da Castel Dogno,
è di epoca più recente, XVI secolo, ed è posto anch’esso sul
ciglio della collina e guarda verso il Ticino.
Forse è sorto sui resti di una costruzione trecentesca,
come si può ritenere considerando alcuni elementi incorporati
nella costruzione.
Sono notevoli alcune parti della costruzione e alcuni
affreschi che sembrerebbero riprodurre Pombia con la valle del
Ticino.
§ 3 - SAN VINCENZO DI POMBIA
La Chiesa parrocchiale di San Vincenzo di Pombia, insigne
monumento romanico, è stata da poco riportata, in parte, al
primitivo stato a cura della Soprintendenza ai Monumenti di
Torino, sotto la personale direzione del Soprintendente Prof.
Chierici.
Il Ravizza, annotatore della Novaria Sacra, presume, a
causa di certe analogie con il Duomo di Casale Monferrato, che la
sua costruzione sia avvenuta in epoca longobarda.
Il Verzone (l’Architettura Romanica nel Novarese, in B.
S. S. N. - 1935-37)
data la costruzione fra il 1025 e il 1050,
motivando la sua opinione con l’indicazione del tipo di muratura e
di volte a crociera con tre absidi sul lato di levante.
Dinanzi l’ingresso fu costruito un nartece a due piani.
Attualmente il piano terra è stato sfondato per ripristinare gli
arconi che formavano l’ingresso, più basso del piano della Chiesa
alla quale si accedeva mediante una gradinata.
Fra il 1754 e il 1756 il monumento fu ripristinato in
stile Barocco, furono demoliti gli apsidi laterali e all’interno
si fecero delle decorazioni non troppo ortodosse per cui il
complesso, anche a causa di successive modifiche, perse il suo
valore.
Notevole
è
l’unico
affresco
romanico
conservato,
rappresentante una Madonna.
Nelle vicinanze della Chiesa doveva esserci il battistero
già ridotto in pessime condizioni fin dal XVIII secolo (Verzone,
o.c.).
§ 4 - SAN MARTINO DI POMBIA
La Chiesa di San Martino è un piccolo monumento romanico
che si componeva, originariamente, di tre piccole navate con
absidi. Adesso rimane solo la navata centrale, le laterali furono
demolite non si sa quando.
La muratura è di ciottoli misti a mattoni romani, il
tetto è in parte coperto da tegole romane.
La sua costruzione risale fra il 1000 e il 1025 (Verzone
o.c.)
e pare fosse un priorato dell’abbazia di Arona, la quale
rivendicava l’indipendenza dall’Episcopato Novarese.
A causa del suo stato di decadenza nel 1758 o 1759 la
chiesa fu sospesa dalle funzioni religiose. Ora è proprietà
privata ed è adibita a ripostiglio e cantina.
§ 5 - SAN VINCENZO DI VARALLO POMBIA
A nostro modesto giudizio, se questo monumento non fosse
stato deturpato dalle modifiche e aggiustamenti, se ad esso non
fossero state avvicinate le altre fabbriche che formano il
complesso
della
parrocchia,
senza
tema
di
ricorrere
in
campanilismi, esso sarebbe veramente uno dei migliori esempi di
architettura romanica del Novarese.
Secondo il Verzone (o.c.) sorse verso il 1100 o 1125,
mentre il campanile è più antico.
La basilica fu innalzata sui resti di un delubro dedicato
a Nettuno, come ricorda la lapide che si trova ora nella Canonica
di Novara: “NEPTUN - SACRUM - L. LABIENUS - BUCCULUS - COMU ...”.
La lapide della parrocchiale del 1755 ricorda: “...
TEMPLUM HOC - NEPTUM SUPERST(ITIO)NE - ...”
questo tempio
(dedicato) a Nettuno (nel tempo della e dalla superstizione).
Escludiamo a priori che tale lapide provenga da Borgosesia, come
alcuni hanno affermato.
Il campanile è in rozza muratura di ciottoli, disposti
senza alcun ordine, ha tre ordini di cornici ed è decorato da
semplici archetti in mattoni. La parte alta fu sfondata per fare
luogo alla cella campanaria.
La basilica era, invece, interamente costruita con conci
di pietra squadrata e levigata.
Sulla fronte dell’ingresso esiste una croce luminosa a
foggia greco-romana.
L’ingresso era munito di portale ad arco.
La basilica è addossata al campanile che ne sostituisce
la muratura nel tratto di addossamento. La chiesa era costituita
praticamente da due ambienti all’incirca rettangolari: il primo,
contenente l’ingresso, si eleva più alto del resto della basilica,
il secondo vano, relativamente più basso, era la chiesa vera e
propria e si prolungava fino a metà degli attuali arconi laterali
del transetto.
Non era coperta da nessuna volta, ma semplicemente dal
tetto, infatti, ancora si notano le sedi di appoggio delle
capriate alla sommità della muratura. Il restringimento del vano
d’ingresso è dovuto all’inserimento del campanile, davanti cui
rimaneva una rientranza libera da costruzioni.
La muratura in pietra squadrata è ben curata, tanto che
le lesene dividono esternamente la fabbrica in moduli uguali,
formando dei pannelli sfondati rispetto le lesene nelle cui
mezzerie sono poste le pregevolissime finestre strombate.
Questo tipo di muratura, come abbiamo costatato in
minuziose ricerche, continua anche nella parte cui fu addossata
l’attuale navata si San Giovanni.
Anche le lesene continuano lungo questo lato con lo
stesso modulo e le finestre strombate hanno l’archivolto in pietre
e mattoni.
I tipi di finestre, architettonicamente parlando, sono
due: quelle a giorno hanno tre archivolti in pietra aggettanti
l’uno rispetto all’altro, sormontati da due anelli in mattoni di
cui il primo è doppio dell’altro, mentre i mattoni sono posti a
losanga.
Le finestre non visibili dall’esterno (lato San Giovanni)
constano di tre archivolti in pietra e mattoni in aggetto l’uno
nell’altro. All’esterno, il timpano della facciata è decorato da
archetti,
quasi
tutti
in
cotto,
che
coprono
un
concio
semicircolare in pietra.
Sul lato a giorno esiste (visibile dalla scala di accesso
al campanile) un gruppo di tre archetti ricavati da un unico
blocco di pietra, mentre gli altri sono simili a quelli della
facciata d’ingresso. Sul lato di San Giovanni esistono archetti di
foggia analoga agli altri con un concio in cotto, ad archi, sotto
la linea di gronda.
La basilica, per ragioni statiche, non poteva avere
un’abside di diametro uguale alla larghezza della navata. Al
massimo ci poteva essere un’absidiola di dimensioni ridotte,
appoggiata al muro di levante, come abbiamo esempio in numerose
basiliche dell’epoca.
In seconda ipotesi si ritiene che non esistessero né
abside, né transetto. Di qui lo sviluppo della ricostruzione della
pieve riportata in appendice terza.
L’unione fra il corpo dell’ingresso e il resto della
chiesa era costituita da un semplice arcone, impostato fra il
campanile e la muratura del lato di San Giovanni, con timpano in
mattoni a chiusura del dislivello fra i due corpi di fabbrica.
Nella sua forma la chiesa richiama le primitive basiliche
romaniche costituite da un semplice vano coperto dal tetto senza
abside e transetto.
E’ presumibile che il battistero fosse costituito da una
semplice vaschetta posta nel vano dell’ingresso e nulla impedisce
di ritenere che fosse la stessa che ora si trova nel muro del
campanile nel lato destro dell’ingresso.
In seguito la primitiva basilica fu rialzata, trasformata
internamente secondo lo stile barocco, la rientranza del campanile
fu chiusa, la parte riguardante l’ingresso ridotta e notevolmente
ribassata con un sistema di volte e murature in parte rette da una
rozza colonna.
I lavori successivi portarono la nostra parrocchiale allo
stato attuale, a detrimento del primitivo monumento, verso il
1755, e la chiesa così trasformata fu consacrata dal Vescovo
Balbis Bertone il 3 agosto 1758.
Diremo che, a nostro giudizio, il campanile della chiesa
della Beata Vergine del Rosario sembrerebbe databile al XIII
secolo; resto, forse, di un primitivo castello alla vecchia
maniera e posto a baluardo della vallata in una posizione
strategicamente notevole.
*
*
*
Scuole elementari
VARALLO POMBIA -
Vedute caratteristiche degli anni ‘40
Giardini e monumento ai caduti
VIII
PARTE OTTAVA
APPENDICE
A P P E N D I C E
1
Da: “I Romani ed i loro precursori sulle rive del
Verbano, nell’Alto Novarese e nell’agro Varesino”, di
Filippo Ponti, Regio Ispettore degli scavi e monumenti
(Intra 1896).
Un rapporto dell’Egregio prof. Castelfranco alla Società Italiana
di Scienze Naturali (vol. XVI fasc. 1° - seduta del 23 febbraio
1873) illustra un’altra stazione preistorica posta ai piedi
dell’altipiano di Golasecca, sulla riva sinistra del Ticino, in
una località denominata Molinaccio, dalle rovine di un antico
mulino ivi esistente.
Il chiarissimo professore nella prima e successive escursioni in
questa località rinveniva molti cocci di stoviglie di comunissimo
impasto, modellate a mano con argilla arenosa e cotta a libera
fiamma o semplicemente essiccata ai raggi solari; tali frammenti,
disposti in vari gruppi nel terreno dell’alluvione sottostante al
terriccio vegetale, appartenevano a fittili di forme e dimensioni
assai variabili: taluni con anse, altri senza, ma privi tutti di
qualsiasi ornamentazione grafica e plasmata, ove si accentuino
alcune tracce o impressioni fatte con la stecca sul collo del vaso
e presso l’orlo.
Accompagnavano i cocci alcune ossa di cervo, di bue a spigoli
taglienti. I caratteri di queste reliquie, i particolari della
loro distribuzione e l’esistenza di piccoli focolari sparsi nello
strato sabbioso, conferiscono alla stazione preistorica del
Molinaccio una fisionomia affatto speciale, che la distingue da
tutte le altre dell’altipiano di Somma Lombardo, avvicinandole a
quelle de Basso Varesotto.
Le
ricerche
dell’egregio
prof.
Castelfranco
ci
rivelano,
sull’opposta riva del Ticino, l’esistenza di un’altra stazione
preistorica coeva a quella dell’altipiano di Golasecca, alla quale
accenneremo
valendoci
della
dotta
relazione
dello
stesso
scopritore.
La stazione preistorica dei Merlotitt si trova sulla riva destra
del Ticino, di rimpetto al passo di Presualdo, in una delle
piccole valli che si sono formate per l’erosione dell’altipiano
morenico entro il quale il fiume, uscito dal Lago Maggiore sotto
Sesto Calende, si scava un letto profondissimo e tortuoso, e vi
accede per un sentiero serpeggiante nel Ghiareto che parte dal
cascinale dei “Savoia”.
Gli avanzi dell’umana industria si rinvengono in questa stazione
disseminati nella massa ghiaiosa sottostante all’esilissimo strato
di terreno vegetale che ricopre quei colli morenici e vi sono
variamente distribuiti.
Nel fondo della valletta abbondano le scorie di ferro miste a
pochi cocci e a carboni, al centro i cocci e i carboni sono
abbondantissimi, mentre scarseggiano le scorie che cessano affatto
sul limite inferiore della stazione, presso lo sbocco della valle.
L’analisi di questi cocci, e i confronti istituiti dal loro
chiarissimo scopritore fra i medesimi e i fittili interi o
frammenti esumati in altre località dell’altipiano di Somma
Lombardo e Golasecca, massime in quest’ultima necropoli, elimina
il dubbio che la stazione dei Merlotitt debba cronologicamente
ritenersi anteriore a quest’ultime, quantunque i cocci che vi si
rinvengono frammisti alle scorie di ferro siano in gran parte
rozzissimi e tali da essere preferibilmente paragonati a quelli
caratteristici dell’età della pietra.
Non vi mancano, infatti, i frammenti di alcuni fittili che trovano
il riscontro più palese in quelli delle tombe di Golasecca, per la
forma, per la natura dell’impasto, per la vernice a ingubbiatura e
per l’ornamentazione; se questi ultimi sono rarissimi in confronto
dei
materiali
più
rozzi,
appare
sempre
evidentissimo
il
sincronismo di questo deposito, comunque non costituente una vera
e propria necropoli, con quelli di Sesto Calende, di Castelletto
Ticino e di Golasecca e le reliquie che vi tornarono alla luce si
può, quindi, indubbiamente considerare come appartenenti a una
stazione, forse temporanea, della prima etˆ del ferro, vista la
scarsità degli avanzi organici e l’assoluta mancanza di oggetti
metallici.
La necropoli di Golasecca occupa il quadrilatero irregolare
compreso fra l’Abbadia di Sesto Calende, Vergiate, Somma Lombardo
e Borgo Ticino, territorio con una superficie di 37 Km quadrati
all'incirca, dimezzato longitudinalmente dal corso del Ticino.
I
monumenti
che
la
costituiscono,
siano
essi
le
tombe
caratteristiche della prima età del ferro, o i recinti di rozze
pietre, tuttora visibili a fior di terra, sono disseminati in
molti punti di questo territorio, nei pressi di Sesona, al
Galiasco, al Monsoriso, ai Guasti, a Impiovo e specialmente alle
Corneliane, distesa di campi compresa fra Sesto Calende, i
casolari di Sesona e il villaggio di Golasecca, dal quale questa
estesissima necropoli dell’altipiano di Somma Lombardo prende la
sua denominazione che non è forse la più esatta, quantunque un
gruppo di tombe, delle più notevoli, sia apparso, per primo,
appunto nelle immediate vicinanze di quel villaggio.
Queste stazioni preistoriche sparse sulle rive del Ticino, a
mezzogiorno del Lago Maggiore, esplorate fin dai primordi del
nostro secolo, descritte dal Giani, dal Mortillet e dal Biondello
vennero da questi autori erroneamente attribuite ai Romani, ai
Celti, ai Galli ed agli Etruschi, formulando tesi che le odierne e
ripetute ricerche dell’egregio prof. Castelfranco ed un cumulo di
prove, le più evidenti, da lui recate, dimostrarono completamente
erronee, assegnandole, invece,