Diego Rivera e la metamorfosi del concetto di lavoro

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Diego Rivera e la metamorfosi del concetto di lavoro
 Diego Rivera e la metamorfosi del concetto di lavoro Saggio in catalogo di Juan Rafael Coronel Rivera Ognuno è il frutto delle proprie azioni e l’individuo è il modo in cui concepisce se stesso. Nel titolo di questo saggio, dedicato a Diego Rivera e alla sua concezione del lavoro, cito Ovidio perché, nel corso della sua vita, le idee dell’artista sulla propria pratica e le motivazioni di una pittura pensata per il pubblico formarono due ambiti storici e filosofici distinti. Queste idee dominarono la sua concezione del lavoro facendo emergere di volta in volta un individuo diverso, capace di inventare se stesso attraverso metafore concrete, che descrivevano il paesaggio teorico dei suoi lavori. Diego Rivera si trasformava letteralmente, usciva da una crisalide cognitiva per entrare in un’altra che lo portava al rinnovamento successivo: metamorfosi. Ogni mio gesto è un autoritratto. Partiamo da questo per comprendere il divenire dell’individuo. Nessuna circostanza può essere messa in dubbio. Alla base dell’alcolista, del genio, dell’operaio e di tutte le attività umane ci sono i tratti essenziali della nostra società, con la sua storia e la sua cultura. A definirci sono i nostri profili nevrotici, l’attività sportiva che scegliamo, il modo in cui ci puliamo le unghie. La differenza sta nel modo in cui la collettività, nelle diverse epoche, giudica e descrive l’organizzazione del lavoro, così come viene determinata dai processi di produzione da cui deriva. La visione del lavoro osservata e descritta da Diego Rivera era nata con la Rivoluzione industriale e il sistema di produzione capitalista. Diego non visse mai sotto un regime comunista, anzi, potendo scegliere, decise di sviluppare il proprio lavoro artistico nell’ambito economico capitalista. Si tratta di un fattore importante, perché, trovandosi in quella trincea, ne poté criticare i risultati. Se avesse lavorato in uno dei paesi che rientravano nella sfera d’influenza dell’Unione Sovietica, la sua opera avrebbe avuto un significato diverso, divenendo un panegirico dei risultati politici conseguiti. Rivera visse in un periodo privilegiato per l’analisi filosofica, dal 1886 al 1957. Mi riferisco alle ultime accademie e a tutta la concettualizzazione del pensiero elaborata dall’arte moderna. Sul piano politico, l’Occidente attraversò una fase molto complessa: la fine delle monarchie assolute, il marxismo, la nascita della democrazia moderna, i fascismi. Fu un’epoca di grandi rivoluzioni sociali, in cui le ideologie radicalizzarono gli uomini: o si era dentro il gruppo o si attentava al pragmatismo. L’ideologia modellava l’individuo. Era un mondo con convinzioni molto concrete, fondate su valori etici, in molti casi tendenti al proselitismo, in cui il bene comune assunse un rilievo mai visto prima. Fu il periodo di Gandhi, Zapata, Rosa Luxemburg, tutti personaggi che lottarono contro l’organizzazione del lavoro imposta nelle rispettive società, facendo emergere l’ingiustizia insita nel profitto ottenuto attraverso lo sfruttamento di operai o contadini, in contrapposizione all’accumulo illimitato di beni nelle mani dei padroni. Durante la sua vita, ciascuno dei due fronti ebbe una visione concreta del lavoro e dei suoi valori sociali. I dittatori tolleravano gli abusi contro le masse, mentre i marxisti fondavano sindacati in difesa di operai e contadini. Si parlava di ripartire la ricchezza, la terra, di uguaglianza tra gli uomini. A mio parere, il grande merito dell’era moderna è stato quello di porre le basi di una straordinaria opera di educazione, soprattutto nei paesi dell’America del Sud e in particolare in Messico, che conobbero una fase che esperti di arti plastiche come lo statunitense Bertram Wolfe e il francese Jean Charlot paragonarono al Rinascimento. Diego Rivera fu uno dei frutti più evidenti di quel periodo. L’attuazione di questa struttura educativa fu possibile grazie al titanico sforzo lavorativo compiuto nel paese, mediante il quale si fissarono i primi parametri di una classe operaia salariata, pagata regolarmente e bene, e grazie allo sviluppo di una classe media agiata che sostenne lo slancio di una società in crescita. Fu proprio durante gli anni quaranta e cinquanta del Novecento che questa società visse il periodo che nel paese è noto come il “miracolo messicano”, due decenni consecutivi in cui si registrò una crescita economica (PIL) superiore al 5 per cento. Prima trasformazione: 1886‐1906 L’infanzia e l’adolescenza di Diego Rivera ebbero come sfondo l’instaurazione del capitalismo moderno in Messico, all’interno di un regime militare segnato da un accento dittatoriale e capeggiato dal generale Porfirio Díaz. Eletto presidente costituzionale nel 1884, Díaz avrebbe dovuto terminare il suo mandato nel 1888. Tuttavia, in un periodo in cui i governanti si potevano rieleggere, il generale rimase in carica per altri cinque mandati, dal 1888 al 1892, dal 1892 al 1896, dal 1896 al 1900, dal 1900 al 1904 e dal 1904 al 1910. Diego Rivera partì per l’Europa con una borsa di studio nel 1906, a vent’anni, e tornò definitivamente in Messico solo nel 1921. Durante tutta l’infanzia e la giovinezza, quindi, il suo concetto di lavoro e la sua formazione razionale furono segnati dalle influenze filosofiche del positivismo, dottrina sviluppata durante tutto il porfiriato. Lo storico Luis González ci descrive il contesto: “I commercianti, in qualità di principali beneficiari delle infrastrutture di comunicazione e di trasporto, offrono al presidente Díaz un banchetto presso il Castello di Chapultepec [a Città del Messico]. In quell’occasione si ribadiscono le idee chiave del progresso: la colonizzazione delle terre vergini, la ferrovia e il telegrafo, gli investimenti e i prestiti stranieri, l’ordine, la politica di conciliazione e la presenza del generale Díaz nella magistratura suprema del paese. In quel 12 gennaio [del 1888] il presidente viene acclamato come l’eroe dell’integrazione nazionale, della concordia internazionale, della pace e del progresso.” Diego Rivera Acosta, padre del pittore Diego Rivera Barrientos, era un insegnante e aveva all’attivo anche la pubblicazione di un libro di grammatica. Liberale e massone, impartì al figlio un’educazione positivista e, influenzata dalla filosofia di Comte, in qualche misura anticlericale. La madre era una fervente cattolica e anche questo incise sulla sua formazione. Il filosofo messicano Samuel Ramos colloca il periodo positivista del paese negli anni dal 1867 al 1910 e descrive il modo in cui la dottrina fu istituzionalizzata: “Nel 1867 il dottor Gabino Barreda, che era stato allievo di Auguste Comte a Parigi, formulò le proprie idee sulla storia del Messico in un discorso pronunciato a Guanajuato [città natale di Diego Rivera]. […] Gabino Barreda, ormai divenuto un ardente positivista, pensava che la dottrina di Comte fosse la più adatta per suscitare nei messicani un nuovo spirito, destinato a garantire un nuovo ordine sociale. Era necessario, però, cambiarle segno e trasformarla in una tesi rivoluzionaria. 2 Per questo Barreda modificò semplicemente il motto di Comte ‘L’amore per principio, l’ordine per base, il progresso per fine’ in ‘La libertà come mezzo, l’ordine come base e il progresso come fine.’” Da quanto detto finora, è possibile individuare alcuni punti chiave per comprendere l’atteggiamento di Diego nei confronti del lavoro. Risulta subito evidente che, quando a Guanajuato il positivismo veniva proclamato come dottrina dominante del paese, il padre del pittore propendeva già per quella visione. Viene dunque da pensare che molto probabilmente Rivera padre ascoltò e discusse quelle proposte filosofiche e le trasmise al figlio. La metodologia di Comte ci fornisce gli strumenti per analizzare i lavori che Rivera eseguì durante l’infanzia, che, di conseguenza, assumono un significato diverso. Secondo questa filosofia, per determinare il progresso di una società era necessario sostituire la religione con la scienza mediante un sistema metodologico costante e preciso. Questo tipo di educazione trovò un terreno fertile nel piccolo Diego, che fin da allora sviluppò un concetto di disciplina lavorativa sorprendente e ferreo, e spiega anche perché molte opere di questo periodo raffigurino treni e animali disegnati da una prospettiva scientifica. In campo artistico, nella città di Guanajuato esistevano due tendenze che si svilupparono parallelamente. Una, definita “colta”, era considerata dotta e sofisticata, ancorata alla tradizione europea e segnata dai dettami delle accademie allora in voga, soprattutto quella francese. L’altra, molto vitale, aveva come punto di riferimento le tradizioni indigene del bassopiano messicano, la zona geografica in cui si trova Guanajuato. I postulati estetici delle culture otomí e nahua sono importanti per comprendere lo sviluppo artistico della regione. Sul territorio, diversi artisti, istruiti e non, che si dedicavano alla pittura religiosa e decorativa, definite “popolari” durante il periodo rivoluzionario, avevano in Hermenegildo Bustos il principale esponente. Da adulto Diego Rivera nutrì una profonda ammirazione per questo artista, ma non sappiamo se da bambino ebbe modo di vedere direttamente le sue opere. Di certo, però, il piccolo Diego conosceva lo stile “popolare guanajuatense”, presente in quasi tutte le case, in particolare con le immagini della Vergine Addolorata, cui era dedicata un’importante festa religiosa. Anche gli altari erano un elemento culturale significativo e Diego Rivera ne fu molto attratto, non tanto per il valore religioso quanto piuttosto per le loro tecniche di realizzazione. Il forte impatto che le due correnti ebbero su di lui ci suggerisce un’altra analisi per individuare le influenze accademiche e popolari nei lavori realizzati da bambino. Entrambi i punti di vista estetici, in ogni caso, rimarranno una costante in tutta la sua arte, soprattutto nei murales. Nella prima parte della vita di Diego Rivera si possono individuare due periodi: il primo, trascorso nella città natale di Guanajuato, che va dal 1886 al 1893; il secondo vissuto a Città del Messico, dove si trasferì la sua famiglia, dalla fine del 1893 al 1906. Gli anni di Guanajuato furono fondamentali per la sua formazione. Già alla tenera età di tre anni Diego mostrava inclinazioni artistiche ben definite e si rendeva conto che questa attività poteva contribuire alla sua autostima. Conosciamo alcuni suoi scritti infantili e nei due più antichi, che risalgono a quando aveva nove anni, il bambino menziona la propria attività di disegnatore. Il primo, vergato sul retro con un disegno intitolato Testa di capra e datato 1895, recita: “Cara zia, ieri ho chiesto perché non mi hai scritto. Sono dispiaciuto. Ti mando alcuni disegni. Saluti a te e allo zio Mon. D.R.” A ben guardare, Diego parla di più lavori e dunque possiamo dedurne che in quel periodo disegnasse in modo più o meno continuo. Tale considerazione trova conferma negli oltre venti disegni riconducibili a quel periodo di cui siamo a conoscenza. Certo, tanti bambini si 3 divertono a disegnare ma, malgrado la sua giovane età, gli schizzi di Diego esprimevano già un senso plastico. Il bambino sperimentava persino alcune teorie artistiche praticate nell’Academia de San Carlos4. Ecco come Rivera descrisse i suoi lavori infantili: “Per quanto ricordi, ho sempre disegnato. Non appena le mie dita paffute riuscirono ad afferrare una matita iniziai a scarabocchiare sulle pareti, sulle porte e sui mobili. Per impedirmi di distruggere tutta la casa, mio padre mi riservò una stanza speciale in cui potevo scrivere dovunque volessi. In questo primo ‘studio’ le pareti e il pavimento erano coperti di tela nera. Lì realizzai i miei primi ‘murales’.” Seconda trasformazione: 1906‐1921 In che modo gli europei vedevano l’America Latina in quegli anni? La questione è cruciale per capire l’importanza dell’opera pittorica di quel gruppo di artisti di formazione mista – non del tutto occidentale e influenzata dalle culture indigene dei rispettivi paesi – che da un certo momento in poi trasferirono nei loro lavori diversi elementi delle rispettive culture d’origine. Nel caso di Rivera questo aspetto è ben noto e fu ciò che lo distinse dal resto dei pittori, in particolare dai componenti del circolo cubista cui appartenne dal 1912 al 1917. Ma la frattura avverrà solo successivamente. Prima di lasciare il Messico nel 1906, Diego studiò all’Academia de San Carlos, dove la sua formazione positivista fu rafforzata, soprattutto sotto il profilo metodologico. Durante la permanenza in quella scuola i suoi maestri, alcuni dei quali italiani (ricordiamo Eugenio Landesio), gli trasmisero delle conoscenze fondamentali, come l’applicazione della “sezione aurea”. In quegli anni studiò alla perfezione l’anatomia umana: raccontò di avere persino dissezionato alcuni cadaveri, riuscendo così a osservare in situ la struttura di ogni legamento del corpo, esperienza che gli fornì una prospettiva privilegiata per sviluppare il proprio lavoro. Un altro elemento cardine della sua educazione fu la presenza all’interno dell’accademia di una corrente nazionalista che, già dal 1869, elaborò uno stile particolare, centrato sulla ricostruzione idilliaca – basata sulle teorie neoclassiche – delle culture aborigene, soprattutto quella azteca. Gli artisti riconducibili a questa corrente realizzavano dipinti di grandi dimensioni che Rivera ebbe modo di conoscere bene e senza dubbio rappresentarono una fonte di ispirazione quando, nel periodo muralista, volle costruire la propria versione monumentale di México‐Tenochtitlán. Infine, negli anni dell’accademia, Rivera apprese un mestiere e fece un importante apprendistato; studiò i pigmenti e le miscele, imparò a preparare l’imprimitura delle tele e a fabbricarsi i telai. Tutto ciò gli fece acquisire una prospettiva molto diversa da quella idilliaca del pittore borghese che stava davanti al cavalletto in attesa dell’ispirazione. Attraverso queste attività comprese il modo in cui erano organizzati i vari mestieri, come la carpenteria, che in Messico era legata a un processo artigianale sviluppato dal proletariato urbano. Erano gli anni in cui la formazione artistica non poteva dirsi completa senza un viaggio in Europa. Rivera ottenne una borsa di studio concessa da uno dei più convinti sostenitori di Porfirio Díaz, il governatore di Veracruz Teodoro Dehesa, e partì per il Vecchio Continente. Arrivò a La Coruña, in Spagna, il 2 febbraio 1907. Benché le avanguardie europee fossero molto attive, Diego non si unì a nessuna di esse, anzi proseguì la propria formazione accademica. In quegli anni lavorò nel rispetto dei canoni classici, alla pari degli artisti più illustri dell’Ottocento. Sotto il profilo professionale 4 mirava soprattutto a uniformarsi, un tipico errore che si riscontra in quasi tutti gli artisti latinoamericani attivi in Europa in quegli anni. Perché? Non volevano essere diversi né innovare un punto di vista consolidato, quanto piuttosto dimostrare le stesse qualità lavorative e metodologiche della civiltà in cui operavano e dare prova di aver compreso alla perfezione la visione artistica degli europei, che rappresentava l’approccio dominante. Gli artisti latinoamericani erano tenuti a dimostrare di essere raffinati secondo i canoni fissati dall’Occidente e quando non riuscivano a celare le proprie radici aborigene si sentivano del tutto fuori contesto. Rivera racconta: “Arrivai in Spagna il 6 gennaio [sic] 1907. Avevo vent’anni, ero alto più di un metro e ottanta centimetri e pesavo centotrentasei chili. Ero una dinamo di energia. Non appena trovai lo studio di [Eduardo] Chicarro [y Agüera], montai il mio cavalletto e iniziai a dipingere. Per moltissimi giorni dipinsi dall’alba fino a dopo mezzanotte. […] Per distrarmi, vagavo nel meraviglioso Museo del Prado di Madrid o in altre gallerie dove si trovavano i capolavori. Entrare in contatto con l’arte spagnola, tuttavia, mi influenzò nella maniera peggiore. Le qualità che avevano caratterizzato i miei primi lavori in Messico furono gradualmente soffocate dall’ordinaria maestria pittorica spagnola. Sicuramente i miei quadri più insipidi e banali sono quelli eseguiti in Spagna nel 1907 e nel 1908.” Alcuni dei compagni di studi di Diego Rivera compirono lo stesso viaggio di andata e ritorno senza che la loro carriera pittorica mostrasse alcuna evoluzione, come per esempio Mateo Herrera, che Diego incontrò in Spagna. Molti scelsero di percorrere strade già battute e si guadagnarono da vivere dipingendo ritratti convenzionali, paesaggi pittoreschi e fiori per le sale da pranzo dei benestanti. In alcuni casi si trattava di opere di straordinaria fattura ma, considerando la realtà artistica di Montparnasse e i movimenti sociali che attraversavano la Russia e il Messico, erano una chiara dimostrazione dell’incapacità di questi pittori di comprendere il mondo circostante e il suo sviluppo. Negli anni spagnoli Rivera apprese una lezione importante che lo portò a consolidare un sistema di lavoro che non avrebbe più abbandonato. Dipingeva e studiava dall’alba al tramonto, tutti i giorni della settimana, trecentosessantacinque giorni l’anno. Non gli importava di trascurare mogli o figli. La sua condizione di essere umano non era governata dai rapporti familiari o sociali, ma da quelli lavorativi e politici. Si tratta di una visione complessa della vita che non segue le norme collettive, fondate sui valori della famiglia monogama eterosessuale, e attribuisce maggiore importanza alla creazione artistica che alla paternità. A proposito della sua prima relazione sentimentale importante, quella con la pittrice russa Angelina Beloff, Rivera racconta: “Nei dieci anni che rimasi in Europa, Angelina visse con me consensualmente come mia moglie. In tutto quel periodo mi diede tutto ciò che una brava moglie può dare a un uomo. In cambio ricevette tutte le sofferenze morali e tutto il dolore che un uomo può infliggere a una donna. Più tardi avemmo un figlio, l’unico figlio maschio che abbia mai avuto; morì di meningite prima di compiere due anni.” In un altro momento racconta che la convivenza con il figlio gli era intollerabile perché interrompeva il suo lavoro: “Gli dettero il nome di Diego. Poiché era impossibile tenerlo in studio, vuoi per la mancanza d’igiene e per il freddo, ma anche per la ‘musica naturale di tutti i bambini con cui è impossibile 5 lavorare’, decisero di portarlo in un asilo infantile a Fontenay‐aux‐Roses, vicino a Parigi. Lì rimase fino a un anno e mezzo d’età.” Rivera non si fermava per niente e per nessuno. Nel 1912 la sua arte e il suo concetto di lavoro subirono una trasformazione radicale. Che cosa scatenò un simile cambiamento? Uno dei tratti principali della sua personalità era la capacità di trasformazione. Diego sapeva che se avesse proseguito lungo la strada percorsa fino a quel momento sarebbe diventato un uomo ricco, con una posizione sociale di rilievo, che poteva vivere agiatamente del proprio lavoro, come gli era stato suggerito dal pittore accademico Joaquín Sorolla. Ma egli non era interessato a costruirsi una dimensione di comodità borghese, per lui l’arte e le sue connotazioni erano legate allo sviluppo cognitivo dell’essere umano e non all’economia. L’aspetto saliente dell’essere creativi era proprio cercare il significato della Creazione con la C maiuscola. L’arte doveva essere governata dalla filosofia, dalla politica, dall’innovazione e dall’etica. È qui che entra in scena la sua prima compagna. Per Diego Rivera, Angelina Beloff non fu soltanto una buona moglie. A mio parere, il contributo più importante della donna fu l’avergli fatto conoscere una visione politica concreta, quella bolscevica, senza la quale Diego non sarebbe giunto all’implosione filosofica di quegli anni. Olivier Debroise osserva: “Grazie ad Angelina, ma anche alla sua posizione ideologica, gli amici più stretti di Diego erano i russi, per la maggior parte bolscevichi in esilio: Erenburg, Vološin, Anatolij Lunačarskij, che sarebbe diventato commissario del popolo per la Cultura dell’URSS, e Menzinskij, che poi sarebbe stato il primo capo della GPU. In contatto con questi personaggi, e forse con lo stesso Trotskij e sua moglie Natalia che, insieme a Lenin, preparavano da Parigi la futura rivoluzione, Diego si formò politicamente, condividendo le idee rivoluzionarie di quelli che furono gli eroi dell’insurrezione fallita del 1905…” La visione di Rivera cominciò a cambiare nel 1911, quando si recò a Londra e, “sottoponendosi a una dieta salutare, risparmiò alcuni penny per comprare e leggere i primi libri di Karl Marx”10. Nel paese in cui era nata la Rivoluzione industriale e dove scoprì per la prima volta il significato politico e filosofico del termine “proletariato”, la sua dottrina filosofica si trasformò. In quegli anni in Europa cominciavano anche a prendere forza le idee nazionaliste che avrebbero portato il continente alla guerra mondiale. Tutto ciò si rifletté su di lui e gli fece capire che fino ad allora la sua pittura si era rivolta alla classe dominante, alla borghesia. Non era questo ciò che voleva per sé. Tra il 1910 e il 1911 abbandonò definitivamente, si potrebbe dire da un quadro all’altro, lo stile accademico e iniziò a muoversi nell’ambito dell’arte moderna. Sul finire del 1910 dipinse Natura morta con zucca, che recava ancora tracce dell’influenza di Chicharro. La tela successiva, la prima del 1911, si intitolava Paesaggio catalano ed era un dipinto eseguito secondo i canoni più rigorosi del divisionismo dell’epoca. Il cambiamento era avvenuto, Rivera si presentava con un’altra pelle, proponendosi di cercare una propria identità tra i profili pittorici più avanzati. Benché il pointillisme esistesse da oltre trent’anni, nell’adottarlo Rivera si liberò una volta per tutte del rigore dell’Ottocento. Da questo momento in poi tutto portò alla rottura, alla ricerca. Nel 1913 dipinse un’opera cruciale, Donna al pozzo, in cui elaborava una serie di idee molto interessanti attingendo al cubismo sia analitico sia sintetico; nel movimento della manovella, inoltre, impiegò elementi del futurismo italiano. Debroise racconta: 6 “Nel 1912 arrivò a Parigi, ormai capitale mondiale dell’avanguardia artistica, un gruppo di pittori italiani: Carlo Carrà, Gino Severini, Filippo Marinetti, Carlo Boccioni ecc. Nel 1910 avevano pubblicato contemporaneamente a Milano e a Parigi un testo esplosivo: il manifesto dei pittori futuristi, in cui esprimevano l’odio verso l’arte classica e le leggi immutabili delle accademie e professavano la loro ammirazione per il progresso tecnico – aerei, treni, macchine di ogni genere – le scoperte scientifiche, gli impressionanti record di velocità, insomma tutto quello che caratterizzava la vita moderna.” La visione del lavoro di Diego cambiò completamente. In quel momento comprese che l’arte doveva operare all’interno di un contesto sociale e soprattutto politico. Sentì di dover elaborare una serie di proposte tematiche e compositive per rafforzare una propria, personale posizione, al cui interno i regionalismi fossero un’affermazione perentoria dell’appartenenza a una cultura specifica e contraria a quanto proposto dalla corrente utilizzata. Approdando al cubismo tra il 1912 e il 1913, Diego mostrò un atteggiamento diverso dagli altri. Utilizzò il ritratto come modalità d’espressione prevalente e introdusse, per la prima volta nella storia dell’arte, un oggetto popolare messicano in un quadro di taglio occidentale. Ribaltò la teoria e usò una tavolozza tra le più ricche e varie del momento, adoperando la vibrazione di colori complementari per mettere in risalto la volumetria cubista. La cosa infastidì i francesi. “Nel 1914 dipinse Marinaio che mangia e beve e subito dopo La sveglia. A partire da questa tela il suo cubismo fu caratterizzato da elementi cromatici e qualità mai adoperati fino ad allora. In alcuni ritratti dei pittori giapponesi Kawashima e Foujita, di Jorge Enciso e Adolfo Best si fece strada con chiarezza la definizione di qualcosa che proveniva dalla pittura azteca. Quando lo capì ebbe un sussulto. Dentro di sé forse si era risolto il complesso di inferiorità semicoloniale ma, invece di saltare e gridare per la gioia, ne fu intimorito, giacché cominciò a sentire tutt’intorno un brusio che ripeteva: ‘esotico, esotico’.” Terza trasformazione: 1921‐1957 È deludente vedere che nel mondo dell’arte moderna, e in particolare del cubismo, i vari esponenti avessero una posizione tanto rigida rispetto ai contenuti di un’opera. Da questo punto di vista gli interlocutori di quel gruppo non erano diversi dai maestri dell’accademia. Le proposte di Rivera furono accolte nel peggiore dei modi, non furono considerate un contributo o una sfida, ma piuttosto una minaccia. Pablo Picasso non poteva permettere che un artista d’oltreoceano lo superasse. La sua reazione fu categorica. Nel 1917 Rivera visse sulla propria pelle gli effetti del nazionalismo europeo di quegli anni e quando tornò nel suo paese, nel 1921, era stato praticamente isolato da artisti, critici, gallerie e musei. Nell’ultimo periodo della sua vita ricordava quell’epoca con una certa nostalgia ma soprattutto con malizia. Afferma: “Non posso negare di sentire la mancanza di quel centro di malignità che avevamo creato Picasso e io. Non per niente, l’immenso maestro mi manda a salutare attraverso amici e conoscenti che vanno e vengono da Parigi. Ricevo messaggi in cui mi chiede di tornare perché ‘si annoia moltissimo’ e si dice sicuro che ‘anch’io mi annoi’, perché solo noi, quando chiacchieriamo, sappiamo parlare male 7 della gente, una delle cose più divertenti in questo mondo. Da questo punto di vista, in effetti, sento molto la mancanza del grande pittore e amico.” Picasso non fu indifferente al muralismo messicano, né alle proposte di Rivera; quasi nessun artista moderno lo fu. Il pittore spagnolo contribuì a questa visione con una grande opera come Guernica, realizzata nel 1937, sedici anni dopo la nascita del movimento. A mio parere il dipinto è la risposta di Picasso al periodo cubista di Rivera, e penso in particolare al Guerrigliero eseguito otto anni dopo la comparsa del cubismo. Il fatto che Rivera fosse stato espulso dall’ambiente artistico europeo fu fondamentale per la sua crescita artistica. Benché la situazione potesse essere interpretata come una sventura (di ordine classico), Diego la volse a suo favore per elaborare, sempre nel 1921, la prima proposta avanzata dal continente americano all’arte moderna universale, il muralismo. Arrivò a questo risultato insieme ad altri artisti messicani, tra cui Dr. Atl, Roberto Montenegro, Fernando Leal, Xavier Guerrero, David Alfaro Siqueiros, José Clemente Orozco e Fermín Revueltas. Cambiò di nuovo concetto e metodologia di lavoro. Per la prima volta nella sua carriera, trovò una voce del tutto originale. Pur avendo eseguito opere di pregiata fattura anche nel periodo accademico – tra cui Le port de la Tournelle (Notre‐Dame nella nebbia) del 1909 – e lavori cubisti fondamentali come Il guerrigliero (Paesaggio zapatista) del 1915, fu il periodo messicano, che si sarebbe protratto fino alla morte, a dimostrare la sua genialità. Le opere di questo ciclo sono caratterizzate da innovazioni e proposte assolutamente straordinarie. Tutto iniziò in Italia alla fine del 1920. Rivera nutriva da tempo il sogno di un lungo viaggio in Italia ma la condizione marginale e la mancanza di denaro gli avevano impedito di realizzarlo. Nel periodo postrivoluzionario, grazie a José Vasconcelos, rettore dell’Universidad de México, Diego ottenne le risorse per il tanto desiderato viaggio. Come narra la sua biografa Loló de la Torriente: “Il suo proposito era di andare in Italia per studiare l’arte degli affreschi lì dove se ne era prodotta la massima quantità e dove aveva raggiunto il livello più alto, dal Medioevo al Rinascimento. […] Comprò un biglietto per diciassettemila chilometri e trascorse un anno e mezzo dormendo su panche di legno, nei vagoni ferroviari di terza classe. In questo periodo dormì soltanto quarantatré volte in un letto – e ne tenne il conto perché si trattava di un evento eccezionale – quindici delle quali in una camera dell’Accademia di Spagna a Roma, all’epoca diretta dal suo maestro di Madrid, Eduardo Chicharro, che gli diede asilo.” Oltre che artista, Diego fu un grande oratore, dote che sviluppò ampiamente durante il suo periodo messicano e che è fondamentale per comprendere la sua visione del lavoro in quegli anni. Se ne servì anche per fondare il primo sindacato che riuniva un gruppo di artisti. Pochi sanno però a chi Rivera deve la tecnica oratoria che gli permetteva di rimanere sul podio per ore. I suoi discorsi dalla tribuna del Partito comunista messicano erano memorabili e il pubblico gremiva le sale per ascoltarlo. Il pittore spiega: “Solo una volta mi commossi tanto profondamente per la morte di qualcuno [eccetto quella del mio primogenito]. Qualche tempo prima della guerra, salì alla ribalta una figura politica importante della sinistra francese. Tutti, me incluso, andavamo a sentire i discorsi di Jean Jaurès. Era un oratore 8 dal vigore incendiario, con una mente che sembrava fatta d’acciaio. Vedere e sentire Jaurès che si rivolgeva alle masse e guardare la reazione delle migliaia di persone che componevano il suo pubblico è stata un’ispirazione.” La lucidità e l’impegno di Jaurès furono la fonte di ispirazione delle arringhe di Rivera. Nel luglio 1921 egli lavorava in Messico, come scopriamo da un bozzetto firmato e datato nella città di Puebla il 3 di quello stesso mese. I suoi schizzi di quegli anni e il primo murale – intitolato La creazione e inaugurato nel marzo 1923 – costituiscono un ponte tra i lavori europei e le opere successive. In essi si percepisce ancora uno stile legato alle avanguardie europee e una lettura contemporanea dello stile bizantino. Così la pensava al riguardo Vasconcelos, all’epoca ministro dell’Istruzione del governo postrivoluzionario, che, quasi a complemento del viaggio italiano, finanziò anche quello nel Sud del Messico. Rivera aveva vissuto all’estero per quindici anni e a trentasette anni non era mai stato nella regione meridionale del paese, la più indigena. L’incontro con le culture nahua, mixteca e zapoteca ebbe un effetto dirompente. Diego comprese la struttura politica ed economica della società messicana e soprattutto ne colse la complessità plurietnica e multiculturale. Il suo stile e la sua tavolozza cambiarono definitivamente. Riuscì a raggiungere una sintesi molto particolare, basata sulla ieraticità dell’arte popolare messicana combinata alla forza plastica delle culture aborigene. Tutto lo sorprendeva e fu in quel periodo che cominciò a collezionare opere d’arte popolare e precolombiana, le sue due passioni. Per avere un’idea del suo interesse per i reperti archeologici, basti pensare che la sua collezione, conservata nel museo da lui progettato e costruito a tale scopo, comprendeva oltre cinquantaquattromila opere. Nel giugno 1923 Rivera lavorò ai murales del ministero dell’Istruzione e il soggetto prescelto fu proprio quello del lavoro. È interessante notare come la sua ottica fosse legata alla nuova militanza. Diego Rivera si iscrisse al Partido Comunista Mexicano, che era stato fondato dall’induista Manabendra Nath Roy. Per altri versi, tutte le sue creazioni sono caratterizzate da una visione dinamica. Diego Rivera osserva il mondo e sostituisce definitivamente il pensiero positivista con un’altra dottrina filosofica, in qualche modo contrastante con la sua ideologia politica, in quanto non è una posizione scientifica bensì metafisica: in questo stesso anno entra nella fratellanza rosacroce AMORC. Racconta de la Torriente: “Il 22 febbraio 1923 iniziò a decorare i muri del Patio del Trabajo. Al pianterreno volle raffigurare le attività di base di ogni regione, con gli aspetti e le procedure più tradizionali e primitivi. Riflettendo sui sistemi di produzione, tentò di rappresentare l’arretratezza dei metodi di elaborazione, dovuta al carattere semicoloniale del paese e all’eccessivo sfruttamento degli operai e degli artigiani.” La visione di Diego, senza dubbio realistica, solleva una questione interessante. Egli si esprimeva come un europeo, figlio della Rivoluzione industriale. È chiaro che in Messico ancora oggi i processi industriali sono spesso legati a un aspetto artigianale, manuale, e non a una linea di produzione. Questo è il caso, per esempio, del disegno industriale messicano, che storicamente è associato alla manodopera. Rivera riteneva che nel continente americano ci fosse un solo paese capace di sostenere una rivoluzione socialista, gli Stati Uniti, in cui esistevano le basi produttive necessarie di cui il proletariato, operaio e contadino, poteva impadronirsi per svilupparle a vantaggio proprio e non dei padroni. Ciò spiega come mai fosse tanto interessato a dipingere in quel paese. 9 Credeva che la forza lavoro dovesse essere considerata come una risorsa e mantenne questa visione socialista fino alla morte. Soltanto impadronendosi dei mezzi di produzione per usarli a proprio vantaggio il popolo – vale a dire il proletariato – poteva diventare una classe sociale di successo. Per questo l’educazione delle masse era un’attività insostituibile e Rivera la considerava fondamentale. Le opere pubbliche, i murales, dovevano contribuire a che tutti avessero questa opportunità. Quei grandi testi plastici sono una lezione per l’arte contemporanea. Molte volte furono realizzati a titolo gratuito, pensando cioè a un beneficio collettivo: il successo dell’essere umano come individuo partecipe della società. Il frutto di quel lavoro, eseguito con un’aspettativa meramente creativa, erano le opere, inalienabili in quanto parte di edifici pubblici. La volontà artistica che mosse quei testi plastici fu una reale necessità creativa. È per questo che durante ogni crisi sociale – quella del 2008 a New York, per esempio – la gente, “The New Masses”, adotta le opere di Rivera come un simbolo, una bandiera, com’è giusto che sia. 10