Mie care nipoti

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Mie care nipoti
Antonio Ciancio
Mie care nipoti ...
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Stampa: Brandolini, Chieti Scalo
Con il contributo di
A Valentina Benedetta Elisa Martina
Il giorno dopo sarà come lo vorremo noi...
(da un compito di Valentina in seconda elementare)
Antonio Ciancio
MIE CARE
NIPOTI...
Prologo
Un giorno mia nipote, Valentina, che allora aveva poco più di sei anni, mentre la
riportavo con la macchina da scuola a casa, mi chiese: Nonno, ma tu prima che lavoro
facevi?, intendendo con prima il tempo che lei non era ancora nata.
Lì per lì rimasi un po’ stupito della domanda, anche se a quella età è naturale la voglia
di sapere; poi allo stupore subentrò l’imbarazzo.
Ve l’immaginate rispondere a una bambina di quella età: Il nonno faceva il funzionario
di partito e il dirigente politico; o addirittura: Il nonno era un rivoluzionario di
professione, secondo la definizione che diede Lenin di chi, comunista, dell’impegno
politico permanente a servizio del partito faceva una scelta di vita (definizione celebre
anche questa, ma di Giorgio Amendola).
Dare a chicchessia oggi una risposta del genere, se non è un po’ in là con gli anni e
non ha una certa conoscenza della storia delle forze politiche del ‘900, significa parlare
arabo; figuratevi a una bambina!
Così non risposi; le dissi semplicemente: Quando sarai più grande, il nonno te lo
spiegherà.
Oggi, scrivendo ogni volta che me ne verrà la voglia queste pagine e se Valentina un
giorno, fatta grande (e con lei anche Benedetta, Elisa e Martina, la più piccola, che
prima o poi faranno la stessa domanda), le leggerà, spero di dare attraverso di esse la
risposta che lei attende ancora.
D’altra parte, cara Valentina, anche il tuo papà e lo zio Stefano, che rivolsero alla nonna,
più o meno alla tua stessa età, la stessa domanda, si lamentavano che a scuola non
riuscivano a spiegare bene il mestiere che faceva il loro padre, perché non l’avevano
capito bene neanche loro, e solo quando diventarono più grandi ebbero chiara la
risposta.
Già spiegare che uno ha come lavoro quello di fare politica a tempo pieno era difficile
allora, figuriamoci oggi; se poi si tratta di politica a tempo pieno fatta con il PCI, la cosa
risultava allora e a maggior ragione risulta oggi ancora più complicata da far capire.
E pensare che Tucidide, il grande storico greco del V secolo a.C., già scriveva quasi
2500 anni fa: “Da noi, le medesime persone si curano nello stesso tempo e dei loro
interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività
particolari, sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi
assolutamente non si curi, (noi ateniesi) siamo i soli a considerarlo non già un uomo
pacifico, ma addirittura un inutile” !
Il ‘900 è stato il secolo delle grandi utopie, in nome delle quali milioni di uomini hanno
combattuto e in tanti sono morti; e la loro storia si è intrecciata con guasti immensi ma
anche con progressi sul terreno economico e sociale mai visti prima, e non più solo
per pochi come è stato per millenni, ma per masse sempre più grandi di uomini e di
donne.
Tra queste grandi utopie, vi è stato il comunismo.
Non è certo questo il luogo per ripercorrerne la lunga e tormentata vicenda, ma liquidare
la storia del comunismo a livello mondiale come una storia di orrori (come si fa da
destra, ma anche da settori liberali e di una certa sinistra) non solo è fuori di ogni realtà
storica, ma significa anche ignorare, contro ogni evidenza, la enorme spinta che dal
movimento comunista è venuta per l’avvio di un processo concreto di liberazione di
ceti sociali subalterni e di intere società, della quale sono stati parte essenziale e, per
certi aspetti decisiva, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e la instaurazione di un potere
operaio in Russia, comunque se ne giudichino poi gli sviluppi successivi e gli esiti.
Né ha senso l’equazione che tanti oggi fanno, che, anzi, è stata in determinati periodi del
secolo appena trascorso ripetuta fino alla sazietà: comunismo uguale fascismo!
Proprio no, il fascismo e, con esso, il nazismo, oltre a essere stati gli iniziatori consapevoli
della seconda guerra mondiale, la più distruttiva e la più crudele che l’umanità ricordi,
sono stati una ideologia profondamente reazionaria i cui obiettivi fondamentali erano
la negazione stessa della civiltà europea così come essa si era formata nei secoli e la
repressione portata fino all’estremo di ogni aspirazione di uguaglianza e di liberazione
dei popoli e degli individui.
Questo non toglie nulla naturalmente agli errori, alle infamie e anche agli orrori che in
nome del comunismo sono stati commessi, specie nelle società di socialismo realizzato,
ma ridurre a questo un processo storico così complesso e di quella portata è sicuramente
fuori di ogni logica.
Tanto più che il comunismo non è stato uno solo.
Vi sono stati tanti comunismi, e ognuno con storie e risultati diversi.
Il comunismo che io ho conosciuto e che è diventato la mia ragione di vita, con una
militanza piena lunga quasi cinquanta anni, e cioè quello italiano, ha anch’esso le sue
pagine opache, ma non si trascina dietro né orrori né infamie; al contrario, può vantare di
aver dato un contributo decisivo alla sconfitta del fascismo e del nazismo, alla conquista
e alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese e alla crescita di una società più
giusta e più moderna, con più diritti per tutti sia sul piano economico e sociale che sul
piano civile.
Qualcuno però, a questo punto, mi dirà: Ma che c’entra tutto questo con la risposta che
devi a Valentina (e anche a Benedetta, Elisa e Martina)?
C’entra, eccome!
Innanzitutto perché è bene, mie care nipoti, che voi sappiate per che cosa ho combattuto
nella mia vita.
Poi, c’è un legame diretto tra questa storia e la vita del nonno e la scelta che ho fatto, un
giorno molto lontano della mia giovinezza, di lavorare a tempo pieno per organizzare
e far funzionare lo strumento, e cioè il partito, che la mia utopia, che è stata non a caso
anche l’utopia e la scelta politica ed elettorale di milioni di italiani, si era data per
suscitare e far vincere movimenti sociali e politici diretti a cambiare lo Stato e la società
e a renderli più giusti e più liberi per tutti.
Questo è stato, cara Valentina e care Benedetta, Elisa e Martina, il mio lavoro prima che
voi nasceste e che ha coinvolto nelle sue scelte, nei suoi ritmi, nelle sue esigenze, nelle
sue rinunce, nei suoi sacrifici, nei suoi successi e nelle sue sconfitte non solo il nonno
ma anche la nonna e i vostri stessi papà.
Oggi, forse, i vostri genitori non lo ricordano più, ma quante volte non hanno potuto
avere quello che avevano gli altri bambini della loro età, perché i soldi erano sempre
pochi, anche se tutto sommato io credo che la loro infanzia e la loro adolescenza siano
state felici e serene e non sia mai mancato loro, non il superfluo, ma il giusto e il
necessario! E quante volte sono andati in giro, fino a ora tarda, con il loro papà e la loro
mamma per i paesini della provincia di Chieti o anche a Roma, e quante volte, mentre
partecipavano a una riunione o a una manifestazione perché nessuno li poteva guardare
a casa, cascavano dal sonno!
E’ costata anche a loro, dunque, la mia scelta di vita. Ma parliamoci chiaro, la esperienza
che in questo modo essi hanno compiuto è servita a dar loro anche una maggiore
intelligenza della vita, una capacità critica che sicuramente non avrebbero avuta nella
stessa misura se fossero vissuti nella bambagia e, soprattutto, la fermezza delle loro idee
e un senso della dignità affidato, non alla roba, ma alla intelligenza.
I ricordi che seguono raccontano un po’ a ruota libera, senza un ordine né cronologico
né di altro tipo, momenti di questa mia attività, con lunghe scorribande anche in periodi
e fatti della mia vita che hanno poco a che fare con la politica; e sono destinati a voi,
alle mie bellissime nipoti: come dice Virgilio, il più grande poeta latino, insere, Daphni,
piros; carpent tua poma nepotes: inserta, o Dafni, i peri; i nipoti coglieranno i tuoi
frutti!
Oggi, all’età di poco più di settanta anni, posso dire di essere nella condizione di chi, per
ripetere l’espressione dantesca, è uscito fuor del pelago alla riva, e può guardare quindi
con un certo distacco dentro la fitta trama dei ricordi accumulatisi negli anni; e riandare
con l’occhio della mente non tanto all’acqua perigliosa, che ormai è dietro le spalle,
quanto a quel ricco e complesso intreccio di avvenimenti, anche tragici, che hanno
segnato la seconda metà del secolo scorso e alle aspirazioni, agli ideali, alle ambizioni,
alle scelte che -dentro quegli avvenimenti- io ho coltivato e compiuto.
Si dice che la storia è magistra vitae, in generale non è vero perché, a cercarlo con il
lanternino, non esiste un animale più ripetitivo dell’uomo, soprattutto nel commettere
sempre gli stessi errori, ma vai a vedere che a volte la memoria di ciò che è stato riesce
a insegnare qualcosa a chi viene dopo.
In ogni modo, il racconto degli avvenimenti che mi hanno visto partecipe o protagonista
può certamente aiutare Valentina, Benedetta, Elisa e Martina a conoscere meglio il loro
nonno e il mondo in cui è vissuto e ha combattuto per le sue idee, ma può forse anche
dar loro una mano per cercare e trovare ognuna la propria strada e per contribuire così,
anch’esse, al progresso del mondo, avendo un occhio a quella che è stata la vita del
nonno.
Ma è ora di chiudere questa ormai già lunga premessa; e, se le mie pazienti nipoti
me lo consentono, vorrei farlo con un’ultima citazione dantesca, tratta dal X canto del
Paradiso, il canto dell’ascesa del poeta al cielo del Sole:
Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba.
In altre parole, mie care nipotine, il mondo, se si vuole, può essere letto, decifrato e
compreso, almeno nei suoi aspetti essenziali; si può anche, avendone davvero la voglia,
trarre qualche piccolo insegnamento da ciò che hanno fatto gli altri prima di noi e
cibarsene; e tutto questo aiuta a volte a inoltrarsi con più sicurezza sulle strade del
proprio futuro.
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Capitolo I
Alla fine degli anni ’30, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, io avevo poco più
di cinque anni.
Vivevamo allora in campagna, quasi a mezza strada tra Orsogna e Poggiofiorito, in un
bel casolare a due piani che distava solo poche decine di metri dalla statale Marrucina
che porta verso Ortona: ricordo che avevamo a disposizione tutto il piano terra mentre il
piano superiore, dove erano le camere da letto, veniva in parte utilizzato, per le vacanze
estive, dai proprietari che risiedevano a Lanciano.
Non era da molto che ci eravamo trasferiti, da Orsogna, nella nuova residenza. Solo
da qualche mese, infatti, mio padre aveva preso a mezzadria quel podere, con annessa
masseria, non avendo terreno suo da lavorare.
Mio padre proveniva da una famiglia di braccianti, era nullatenente e spesso, in
gioventù, si era dovuto recare in Puglia, nella zona della Capitanata, nella grande piana
del Tavoliere, per la mietitura del grano assieme a tanti altri giovani di Orsogna.
Mia madre invece apparteneva a una famiglia che possedeva un po’ di terra, cosa che
consentì alla famiglia stessa di sopravvivere alla tragedia che si era abbattuta su di essa
con la morte, a causa della guerra del ’15-’18, del mio nonno materno (dato ufficialmente
per disperso) e a mia nonna di crescere da sola ben quattro figli.
Così essa, quando si sposò con mio padre (si sposarono nel 1932, mia madre aveva poco
più di diciannove anni e ventiquattro mio padre, ma cominciarono a vivere insieme
solo nel 1933), poté portare in dote un po’ di quella terra, forse poco più di un ettaro,
ma si trattava di due appezzamenti distinti e situati in contrade assai distanti tra loro e
quindi disagevoli da lavorare. Del tutto insufficienti comunque a sfamare la famiglia
che intanto si arricchiva rapidamente di due figli: io nacqui infatti subito dopo la loro
unione, il 23 dicembre del 1934, e la mia prima sorella appena l’anno dopo, gli altri
tre figli invece arrivarono un po’ più tardi, la mia sorella minore in coincidenza con lo
scoppio della guerra e i miei due fratelli, dei quali il più piccolo morirà a poco più di
venti anni, addirittura dopo la guerra.
Per queste ragioni, la conduzione a mezzadria di terra altrui fu il destino di mio padre,
a cui egli cercò di sottrarsi negli anni ’50 emigrando negli Stati Uniti.
Gli anni ‘50 sono stati, infatti, gli anni della grande migrazione dei miei compaesani
-che potevano utilizzare la qualifica di profughi, avendo Orsogna subìto danni davvero
gravissimi dalla guerra- verso gli Stati Uniti dove proprio in quel periodo si sono formate
grosse comunità di orsognesi.
Ma la sua rimase solo un’aspirazione, perché non arrivò mai dalla parrocchia e dalla
caserma dei carabinieri il parere favorevole alla sua richiesta di espatrio, che all’epoca
era indispensabile per volare verso il nuovo mondo: suo figlio era comunista!
Anche se fino al momento del nostro trasferimento nella nuova abitazione avevo vissuto
in paese dove in qualunque ora del giorno era possibile incontrare altri bambini della
mia età e giocare con loro, tuttavia non mi creò problemi la nostra nuova sistemazione:
è vero, vivere in campagna mi costringeva a passare la gran parte del tempo con la
compagnia soltanto di mia sorella (anche perché a Orsogna si tornava solo raramente),
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ma potevo anche correre per i campi, rotolarmi e sbizzarrirmi come volevo in mezzo al
grano e all’erba alta nei mesi di primavera e durante l’estate.
Ricordo, anzi, che spesso d’estate, soprattutto nel primo pomeriggio quando la calura
si faceva più intensa, mi piaceva trascorrere parte del mio tempo a fantasticare lungo
disteso in mezzo all’erba fresca che ti avvolgeva tutto e ti sottraeva alla vista degli altri,
all’ombra magari di un albero tra le cui foglie si vedeva tralucere l’azzurro brillante del
cielo; e ancora oggi rivado volentieri con la memoria a questi momenti deliziosi e mi
sembra, come allora, che tutto il corpo sia come percorso da flussi di frescura e immerso
in un lago di piacere quasi sensuale.
Negli immediati dintorni abitava anche qualche altro bambino e quindi ogni tanto
potevo giocare con qualcuno di loro, ma questo non accadeva spesso.
Insomma, passavo giorni tranquilli e tutto sommato felici, nonostante che la nostra
vita si svolgesse di fatto in una condizione di isolamento e di solitudine che aveva però
anche i suoi vantaggi: ti abituava, ad esempio, ad apprezzare il silenzio e ad avere un
rapporto diretto e vivo con la natura e le sue più varie manifestazioni, e ad apprezzare
le scoperte che ogni tanto mi accadeva di fare.
Ricordo, ad esempio, ancora oggi, con un misto di timore e piacere, le lunghe ore
trascorse ad osservare lo stuolo numerosissimo di bisce che si erano raccolte e avevano
nidificato attorno a un pozzo non lontano dalla nostra masseria, eleggendo quel posto
a loro sede abituale, evidentemente per la presenza dell’acqua e anche perché il pozzo
non veniva usato, quindi nessuno le disturbava.
Era d’estate, e ciò per me rappresentava uno spettacolo del tutto nuovo e straordinario,
a cui non avevo mai assistito in precedenza e che non mi accadrà più di osservare: mi
impressionò soprattutto il gran numero di bisce che si intrecciavano e si avvoltolavano
l’una all’altra, senza mai fermarsi un istante.
Io le guardavo naturalmente da debita distanza, preso da molta paura ma anche
affascinato.
Di quegli anni ricordo anche alcuni passatempi, con cui riempivo la giornata: ad esempio,
quello di osservare, stando al di qua della siepe che separava la campagna dalla strada,
ciò che accadeva sulla statale, o quello ancora di attraversare la strada e salire sui binari
della ferrovia locale che le correvano a fianco.
Non si vedevano automobili allora da noi, che io ricordi. Ogni tanto però attirava la
mia attenzione il passaggio di un carro agricolo, tirato dai buoi, o di ‘nu trajìne, il
biroccio trainato dal mulo o più spesso da un vecchio ronzino piuttosto malandato,
oppure l’approssimarsi di gruppi di contadini che si recavano al lavoro in campagna o
tornavano in paese, spesso a dorso d’asino.
Il momento migliore era però quando passava il treno, la Sangritana, che dovevo
utilizzare in seguito, durante gli anni del liceo, per raggiungere Lanciano.
Era per noi bambini un vero spettacolo, il passaggio del treno, che avveniva più volte
al giorno. Anche perché qualche volta potevo assistervi dal casello ferroviario che si
trovava a meno di un centinaio di metri dalla mia casa ed era l’abitazione di alcuni
bambini della mia stessa età, con i quali mi ritrovavo a volte a giocare: la littorina e i
pochi vagoni che vi erano attaccati ci passavano accanto alla distanza di poco più di un
metro e volendo bastava allungare la mano per toccare le ruote del trenino che correvano
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piuttosto lente sui binari ma sferragliando comunque con un rumore assordante...!
Ma sulla statale si potevano osservare anche altri spettacoli, di tutt’altro genere e che
oggi non si potrebbe più, anche se lo si volesse.
Mi capitò, infatti, un giorno di vedere che la strada veniva attraversata velocemente nei
due sensi da un gruppo di faine (almeno credo che di esse si trattasse), dalle quali allora i
pollai dovevano essere difesi con cura se si voleva evitare una strage di galline: con una
furia inusitata, spinte da non so bene che cosa, le faine uscivano da una siepe, infilandosi
in quella che si trovava sul lato opposto della strada, e poi tornavano indietro...
La storia si trascinò così per un po’ di tempo, e fu per me uno spettacolo davvero
insolito ma anche divertente!
Di queste piccole cose era fatta allora la mia vita, come in generale quella dei bambini
della mia età; e, poiché non vi erano sollecitazioni di alcun tipo che spingessero a
chiedere altro, che solo pochi d’altra parte si sarebbero potuti permettere, si trattava
tutto sommato di una vita abbastanza idilliaca, pur con le durezze della campagna e
soprattutto la miseria che a quel tempo colpiva la quasi totalità della popolazione.
Tuttavia, un bel giorno, quella vita fu turbata e rotta da un avvenimento che avrebbe
avuto un seguito assai penoso e pericoloso sia per noi bambini che per i grandi.
Mussolini aveva deciso che l’Italia doveva entrare in guerra a fianco dei tedeschi, per
partecipare alla spartizione del bottino nell’imminenza del trionfo del grande Reich, e
l’aveva comunicato per radio agli italiani, con gli altoparlanti dislocati nelle piazze anche
dei paesini, con il tono solenne di chi annuncia l’approssimarsi di chi sa quale grande
evento destinato a cambiare sicuramente in meglio la vita della gente, pretendendo che
anche mio padre e i poveri diavoli come lui fossero contenti per questo!
Era la fine di giugno del 1940, era una giornata piena di sole e faceva molto caldo e mio
padre, lo ricordo benissimo, quel giorno stava falciando l’erba vicino casa.
Tutto era tranquillo attorno a noi, e io giocavo a pochi metri da lui.
A un certo punto, però, arriva da Orsogna, non molto distante in linea d’aria dal nostro
casolare, lo scampanio a festa delle campane della chiesa maggiore del paese (all’epoca,
a Orsogna, che era un importante centro agricolo, c’erano ben cinque chiese, distrutte
poi per più della metà dalla guerra: la chiesa arcipretale di S. Nicola, la più importante,
e quelle di S. Giovanni Battista, di S. Rocco, del Purgatorio e della Madonna nera del
rifugio, sulle cui rovine sorgerà nel dopoguerra il belvedere che guarda alla Maiella e
da cui si gode un bellissimo panorama).
Era l’annuncio festoso, dato dai fascisti del paese, con la benedizione del vecchio
arciprete e della parrocchia, dello scoppio della guerra che tutti pensavano, a partire dal
duce, sarebbe stata una semplice passeggiata: mai classe dirigente fu più sciocca, così
poco lungimirante e criminale!
Mio padre, che aveva allora poco più di trent’anni, tuttavia non apprezzò e come lui
in generale i contadini delle nostre terre che sapevano bene che sarebbe innanzitutto
toccato a loro partire per la guerra. Come sentì, infatti, il suono a distesa delle campane,
comprese subito che quell’allegro scampanio salutava l’entrata in guerra dell’Italia,
così d’istinto gettò con rabbia lontano da sé la falce e se ne andò via bestemmiando.
Ricordo ancora bene questo suo gesto, e fu proprio esso che mi fece avvertire che
qualcosa di veramente grave era accaduto, anche se non potevo capire di che cosa si
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trattasse. Lo dovevo capire solo qualche anno dopo, a mie spese e a spese della mia
famiglia e dell’intera popolazione di Orsogna e dei paesi vicini!
Fu così, dunque, che anche la nostra famiglia entrò in guerra, anche se erano altri ad
averla voluta.
Di lì a poco, mio padre fu richiamato alle armi e venne mandato in Sicilia; e assieme a
lui partirono anche i miei zii, due dei quali finirono per loro fortuna prigionieri, l’uno, lo
zio Antonio, degli inglesi e l’altro, lo zio Nicolino, dei tedeschi (gli toccò però una sorte
assai grama e pericolosa durante la prigionia, perché fu tra gli italiani caduti in mano ai
tedeschi dopo l’8 settembre che si rifiutarono di arruolarsi nell’esercito messo in piedi
dalla repubblica di Salò), mentre un altro, lo zio Giuseppe, il fratello più giovane di
mio padre, sempre così allegro e scanzonato (mi ricordo ancora le volte che giocava
con me bambino), sposato da soli pochi mesi, doveva sparire, lasciando un figlio che
non conobbe mai, nelle acque dell’Egeo, di fronte alle coste della Grecia, a seguito
dell’affondamento da parte degli inglesi della nave che trasportava i nostri soldati.
Mia madre, rimasta sola con due figli piccoli e mia sorella minore ancora in fasce, senza
mio padre non era naturalmente in grado di lavorare la campagna; e così dovemmo
lasciare tutto e tornare a Orsogna.
Andammo a stare in una casa situata lungo la strada, allora tutta lastricata di ciottoli, che
porta a quella che gli orsognesi chiamano la fonte vecchia e che io ricordo soprattutto
perché durante l’unico inverno che vi abbiamo abitato, grazie al fatto che la strada era
tutta in forte discesa, noi bambini ci divertimmo un mondo a fare grandi scivolate sulla
poltiglia ghiacciata che ricopriva l’acciottolato. Qualche volta facevamo anche brutte
cadute, ma questo non faceva che accrescere il nostro divertimento!
Con l’arrivo della primavera ci trasferimmo, sempre in affitto, in una nuova abitazione
lontana appena un centinaio di metri dalla vecchia: si trovava dietro la caserma dei
carabinieri, in una zona popolata di bambini, proprio al margine dello strapiombo che
dà sulla angusta valle dell’Arenale e dal quale si scorgeva in lontananza il mare di
Ortona.
Nella nuova casa, la vita scorreva senza particolari problemi. E la nostra giornata era
quella solita: la scuola (frequentavo allora la seconda elementare), i giochi con gli altri
bambini del vicinato, le partite di calcio con la palla di pezza davanti alla caserma dei
carabinieri o le scorribande con i miei amici di allora da una zona all’altra del paese…
Insomma, della guerra che imperversava in tutta l’Europa a noi bambini non arrivava
neppure l‘eco. Gli unici indizi erano l’assenza dei padri e le lettere che ogni tanto
arrivavano dal fronte, ma neanche ciò turbava più di tanto le nostre giornate.
Le cose cominciarono a cambiare qualche anno dopo, all’indomani della caduta del
fascismo nel luglio del ’43 e poi dopo l’8 settembre, quando anche noi bambini ci
trovammo di fronte a fatti e situazioni per noi del tutto nuovi e sconosciuti e che
dovevano in un breve giro di mesi mutare radicalmente la nostra vita.
Ho ancora vive, ad esempio, nella mia mente le immagini di un gruppo di uomini
impegnato con molto entusiasmo e anche un certo furore a togliere dal municipio e da
altri edifici pubblici i simboli del fascismo, buttati poi a terra e fracassati, subito dopo
la caduta di Mussolini.
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Era, in parte, gente venuta da fuori, altri invece erano di Orsogna: essi reagivano così
alla fine della dittatura e alla disgregazione del fascismo, ma anche alle tante angherie
subìte nel ventennio!
Si trattava probabilmente di socialisti.
A Orsogna, negli anni ‘20, i socialisti erano assai forti; e, anzi, proprio in quel periodo
essi avevano conquistato l’Amministrazione comunale spazzata poi via dopo appena
qualche anno dalle squadracce del fascismo avanzante.
Essi erano molto numerosi anche a Ortona; e forse proprio da Ortona proveniva una
parte di quegli uomini.
In piazza quel giorno c’era un gran fermento, del tutto inusitato per realtà sonnolente
come quelle dei nostri paesi, che richiamò subito anche la curiosità dei bambini; ma in
generale la gente stava a guardare: evidentemente, aveva ancora dei timori per il futuro
o semplicemente non voleva immischiarsi!
Noi bambini assistevamo piuttosto frastornati, anche perché non ci rendevamo affatto
conto di cosa esattamente stesse accadendo e delle ragioni che l’avevano provocato.
Del fascismo infatti non sapevamo nulla, non solo cosa fosse ma neppure che
esistesse.
Cominciammo in realtà a conoscerlo solo allora e meglio dovevamo poi conoscerlo nei
mesi e negli anni immediatamente successivi per le conseguenze che la guerra, voluta
dal fascismo, doveva avere sulle nostre vite. E non è un caso, d’altra parte, che io del
fascismo abbia solo qualche ricordo riferito appunto a fatti accaduti in quel periodo.
Tra questi, ne voglio ricordare un paio, che mi colpirono particolarmente.
Il primo è quello di quando, in occasione di una adunata alla quale partecipavano tutti
gli alunni della scuola elementare, io mi sentii rimproverare dal maestro perché non
avevo la divisa dei figli della lupa che mia madre non avrebbe mai potuto comprarmi!
L’altro ricordo è legato all’arrivo in paese, nell’estate del ’43, prima della caduta del
fascismo, di una colonia di giovani del Littorio, gli avanguardisti, che venne ospitata
presso la scuola elementare.
Saranno stati sicuramente bravi ragazzi, come ha scritto qualche orsognese ricordando
quegli anni, sta di fatto però che io, che avevo ormai intorno agli otto anni, li ricordo
per le scorribande che facevano a gruppi nelle campagne attorno a Orsogna, dove
razziavano non solo frutta di stagione ma anche galline e conigli, con grande rabbia e
anche qualche spavento da parte dei contadini.
Ricordo scorribande del genere anche nel nuovo podere che la mia famiglia aveva,
come al solito, preso a mezzadria: esso si trovava solo a poco più di un chilometro dal
paese, lungo la provinciale che da Orsogna porta a Lanciano, all’altezza di Colle S.
Giacomo, e quindi facilmente raggiungibile dai vari gruppi di avanguardisti.
Mio padre allora era ancora sotto le armi, di stanza in Sicilia; sarebbe tornato solo dopo
l’8 settembre, dopo un viaggio molto avventuroso e pieno di traversie dal Nord, dov’era
finito dopo lo sbarco degli Alleati nell’isola nel luglio del ’43 e la ritirata precipitosa
del nostro esercito. Così, qualche volta mi sono trovato proprio io ad assistere da solo,
impotente, a queste visite di gruppo, mentre mia madre era affaccendata nei campi.
D’altra parte, anche se lei fosse stata presente non sarebbe cambiato nulla, anzi doveva
stare attenta a quel che diceva e faceva perché quei bravi ragazzi non ci avrebbero
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pensato due volte a usare le mani!
Dopo la caduta del fascismo e i disordini che ne seguirono subito dopo, nei nostri paesi
tutto sembrò tornare nella normalità.
Ma di lì a poco doveva sopraggiungere l’8 settembre che portò novità importanti anche
da noi.
A cominciare dalle notizie che arrivarono naturalmente anche in paese sulla fuga del re e
del governo Badoglio da Roma, per imbarcarsi a Ortona verso Brindisi, e del soggiorno
di poche ore della famiglia reale nel castello di Crecchio, un paesino ad appena qualche
decina di chilometri da Orsogna.
Non era certamente un buon segnale per chi aveva pensato che, con l’8 settembre e
la firma dell’armistizio da parte dell’Italia con gli Alleati, fossimo ormai fuori della
guerra.
In realtà, l’Italia poteva solo cambiare di spalla al fucile, e non altro, come di fatto poi
avvenne quando, il 13 ottobre, il governo Badoglio insediatosi, dopo l’abbandono della
capitale, nel Sud del Paese dichiarò lo stato di guerra nei confronti della Germania!
Con la fuga del re, l’Italia precipitò nel caos, anche perché, dopo la firma dell’armistizio,
nulla era stato predisposto dalle autorità italiane per fronteggiare la prevedibile e
feroce reazione dei tedeschi; e le conseguenze furono terribili: lo sbandamento e lo
scioglimento di fatto del nostro esercito, tanti nostri soldati uccisi o fatti prigionieri
dai tedeschi o abbandonati a se stessi ed esposti a mille pericoli mentre cercavano in
qualche modo di raggiungere le proprie case, l’occupazione rapida dell’Italia da parte
delle truppe germaniche e il loro arrivo anche nei nostri paesi che via via si trovarono
così sempre di più dentro il ciclone della guerra guerreggiata, subendo un gran numero
di vittime civili e distruzioni materiali enormi.
Orsogna fu tra i paesi dell’Abruzzo che più di altri pagò un tale prezzo: distruzione, per
oltre il 90%, delle sue case a causa dei bombardamenti alleati e delle mine tedesche, e
tante donne bambini e uomini vittime della guerra, per non parlare dello sfollamento
totale della popolazione per il periodo che va dal tardo autunno del ’43 all’estate del
‘44, della fame, delle malattie, dei disagi patiti per tanti mesi. L’inverno del ’43-‘44 fu,
tra l’altro, tra i più rigidi che si ricordino, e anche questo ebbe i suoi effetti micidiali
soprattutto sui più deboli.
I tedeschi arrivarono a Orsogna verso la fine di settembre del 1943.
Nella strategia dei tedeschi, Orsogna -come scrivono studiosi della seconda guerra
mondiale- faceva parte di quella che, dopo il ritiro dell’esercito germanico dal Sud,
veniva considerata la linea difensiva principale per bloccare l’avanzata degli Alleati
verso il Nord.
Nella relazione presentata al convegno di Atessa dell’aprile 1990 da Gerhard Schreiber
che esamina lo svolgimento della battaglia sul fiume Sangro dal punto di vista della
Wehrmacht e riportata nel volume La guerra sul Sangro – Eserciti e popolazione
in Abruzzo – 1943/1944, a cura di Costantino Felice, si dice: “Il 25 settembre 1943
Kesselring dichiarò che lo schieramento fortificato che si estendeva dalla sponda
occidentale del Garigliano fino ad Ortona, passando per Montecassino, la zona a nord
di Mignano, le alture ad occidente di Colli, Alfedena, Roccaraso, i monti della Maiella
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e Orsogna, andava considerato come la linea difensiva principale…”.
Orsogna era dunque destinata ad essere uno dei capisaldi di un fronte che attraversava
l’Italia dall’Adriatico al Tirreno e che doveva dimostrarsi inespugnabile fino al giugno
del 1944, quando i soldati italiani della Nembo vi poterono finalmente penetrare dopo
il ritiro dei tedeschi.
Il nuovo esercito italiano, che combatteva contro i nazifascisti, trovò un paese quasi
completamente raso al suolo, con edifici, strade e le campagne circostanti minate con
mine antiuomo e anticarro, e molti carrarmati alleati ridotti in rottami lungo la strada
provinciale Lanciano-Orsogna, a testimonianza dei diversi, inutili tentativi messi in atto
dagli anglo-americani per conquistare Orsogna, rimediando solo grandi perdite di vite
umane e di mezzi.
Ricordo ancora oggi la comparsa dei carrarmati tedeschi nella piazza centrale del paese.
Era una giornata piena di sole; e la piazza era tutta un riverbero di luce accecante.
Ero anch’io in piazza quel giorno, non c’era per la verità molta gente in giro, quando vidi
arrivare dalla parte alta del paese, per la strada che viene dalla stazioncina ferroviaria
della Sangritana, un carrarmato tedesco.
Il carrarmato si fermò nel mezzo della grande piazza, fece qualche giro su se stesso e
poi rifece all’indietro la stessa strada per riunirsi agli altri carri parcheggiati sotto gli
alberi, nel piccolo Parco della rimembranza che si trova all’ingresso del paese, venendo
da Guardiagrele, per nasconderli alla vista degli aerei da ricognizione alleati.
Dopo l’arrivo dei tedeschi, molte cose cambiarono nella vita del paese.
Gli uomini, soprattutto i più giovani, dovevano nascondersi per non farsi prendere dai
soldati del Reich ed essere condotti a lavorare, senza risparmio di fatica e di pericoli, in
zone anche lontane dal paese e magari vicine al fronte, nelle opere di fortificazione della
nuova linea di difesa tedesca.
Anche mio padre, che era da poco ritornato a Orsogna, era costretto a nascondersi.
Proprio per questa ragione, anzi, passava prevalentemente il suo tempo in campagna
da dove tornava solo di rado, restando a dormire nella masseria di terra di Colle S.
Giacomo.
Durante il giorno, naturalmente, oltre a tenersi sempre a buona distanza dalla strada
provinciale, doveva stare costantemente sul chi vive per non farsi scorgere mentre
lavorava nei campi e, quando c’erano in giro i tedeschi, poter correre subito a nascondersi
in qualche fosso, agli estremi lembi della campagna, nella parte più vicina al vallone in
cui scorre il torrente che, provenendo dalla fonte vecchia, si butta nel Moro, per evitare
di farsi catturare.
Se poi il rastrellamento dei tedeschi lo sorprendeva in paese, il suo nascondiglio era nel
sottotetto della casa.
In questi casi, si ficcava dentro un baule vuoto (per sua fortuna, era di corporatura assai
magra!), collocato appunto nel sottotetto, e si copriva di panni, mentre mia madre si
metteva davanti alla porta di casa e mostrava ai tedeschi le lettere spedite da mio padre
dalla Sicilia.
Così, egli riuscì a non farsi mai prendere, tirando avanti nello stesso tempo come meglio
poteva nei lavori della campagna, perché comunque nel frattempo la famiglia doveva
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mangiare!
Anche i bombardamenti incominciarono a interessare il nostro piccolo e sonnacchioso
paese.
Prima gli aerei ci passavano solo sulla testa, e noi, ormai ragazzini, ci divertivamo a
guardare i cacciabombardieri che volavano in formazione nel cielo di Orsogna diretti,
con il loro terribile fardello di morte, verso luoghi lontani e sconosciuti.
Ma un bel giorno la meta dei bombardamenti alleati fu Orsogna, e così anche il nostro
paese subì il suo primo bombardamento.
Per fortuna, se non ricordo male, quel primo bombardamento fu opera di un solo aereo
(forse un aereo da ricognizione), che però sganciò diverse bombe sul quartiere di S.
Giovanni, probabilmente per colpire le prime opere di fortificazione nemiche, mentre
la contraerea tedesca cercava di reagire. Nulla a che fare quindi con ciò che sarebbe
accaduto nei mesi successivi, quando i bombardamenti non si contavano più e la loro
violenza e intensità divennero davvero indescrivibili! Ma erano i primi colpi inferti
al nostro territorio dalla guerra, e proprio ciò fece impressione e suscitò una forte
preoccupazione tra la gente.
Noi in quel periodo ci eravamo trasferiti in campagna, a Colle S. Giacomo, e dormivamo
nella masseria di terra. Ma non eravamo soli: con noi c’erano anche la zia Giacinta,
sorella di mia madre, e i suoi due figli poco più piccoli di me (mancava naturalmente,
perché prigioniero in Germania, lo zio Nicolino, il marito di mia zia); e così, quel giorno,
io e i miei due cugini potemmo assistere dalla strada provinciale che si trova sul crinale
della collina, non distante dalla masseria, alla caduta delle prime bombe su Orsogna,
uno spettacolo per noi ragazzi davvero nuovo e insolito.
Ricordo che le bombe che vedevamo esplodere sul costone di S. Giovanni non ci fecero
per la verità molta paura, ma una qualche apprensione la suscitarono anche in noi; in
ogni modo esse rappresentavano, al di là della nostra incoscienza, il segnale più vistoso
di un pericolo che per noi si faceva sempre più incombente.
Già agli inizi di ottobre, chi poteva aveva cercato rifugio nelle campagne.
Anche noi l’avevamo fatto, ma la nuova sistemazione non era affatto rassicurante.
Infatti, a ridosso com’essa era della strada provinciale, la masseria di Colle S. Giacomo
rischiava di farci ritrovare da un momento all’altro nel cuore degli scontri ripetuti che,
poi, realmente vi furono tra i tedeschi arroccati a Orsogna e gli alleati provenienti da
Lanciano, senza poter disporre tra l’altro di ripari di alcun genere, in grado di proteggerci
dai bombardamenti e dai furiosi combattimenti che, sul finire del ’43 e poi in primavera
l’anno successivo, si svolsero lungo di essa. E poi: non avevamo messo nel conto che
Colle S. Giacomo era troppo vicino a Orsogna, e la masseria poteva diventare, come di
fatto in seguito avvenne, meta frequente di pattuglie tedesche...
Tentammo anche di scavare una grotta davanti alla masseria, lungo il pendio della
collina. Ma fu fatica vana. Non solo avevamo a che fare con un terreno argilloso, ma
per costruire il nostro rifugio ci volevano ben altro che la zappa e il bidente!
Nella masseria di Colle S. Giacomo restammo così solo qualche settimana: un tempo
sufficiente comunque, oltre che per assistere al primo bombardamento su Orsogna,
anche per sentire arrivare fino a noi, da Lanciano (che, in linea d’aria, dista sì e no
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una quindicina di chilometri) anche l’eco dei colpi di cannone sparati dai tedeschi per
reprimere nel sangue il generoso ma inutile tentativo di rivolta messo in atto, tra il 5 e
il 6 ottobre del 1943, da parte di un gruppo di giovani lancianesi contro gli occupanti
germanici.
La rivolta di Lanciano fu, dopo le quattro giornate di Napoli, uno dei primi segnali della
profonda ostilità rapidamente maturata tra la gente nei confronti dei tedeschi e delle
loro angherie e sopraffazioni che si trasformò nei mesi successivi, nelle zone dell’Alto
Aventino, in vera e propria lotta partigiana, con la costituzione di bande partigiane che
si riunirono poi nella Brigata Maiella.
A lasciare la zona e a cercare altrove una sistemazione più sicura fummo obbligati però
non soltanto dai timori legati all’avvicinarsi del fronte, ma anche e forse soprattutto
dal fatto che, sul finire del mese di ottobre, arrivò l’ordine tassativo dei tedeschi di
sgomberare Orsogna, al massimo entro i primi dieci giorni di novembre.
L’ordine non riguardava solo il nostro paese ma anche tutti i comuni vicini (in tutto,
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pubblico che porta la data del 25 di ottobre del 1943, dal nuovo prefetto di Chieti,
Giuseppe Girgenti.
Era, insomma, lo sfollamento di massa che si aprì come un baratro davanti a noi e alle
popolazioni della zona e fece pagare, non solo agli orsognesi, un prezzo particolarmente
pesante in vite umane.
Così la nostra famiglia, che intanto era ritornata in paese, si trasferì di nuovo in
campagna, questa volta però presso l’abitazione di uno zio, lo zio Camillo, che aveva
sposato una sorella di mio padre, nel territorio di Arielli.
Assieme a noi, c’erano anche la mia nonna paterna (il nonno era morto, abbastanza
giovane, già da alcuni anni) e la zia Linuccia, moglie del fratello di mio padre, lo zio
Giuseppe, morto nei primi mesi di guerra nelle acque della Grecia, mentre gli altri
nostri parenti si erano dispersi in altre direzioni e ci saremmo rincontrati solo dopo la
fine della guerra.
Naturalmente, prima di abbandonare la nostra casa di Orsogna, ci demmo da fare, come
tutti, per murare e nascondere le nostre poche cose, in primo luogo la biancheria, frutto
della dote di mia madre e costata molta fatica e denaro, il poco oro che lei possedeva e
poi piatti e utensili da cucina e altre suppellettili varie: insomma, quel poco che avevamo
e che ci era indispensabile per la nostra vita di tutti i giorni, nella quasi certezza che non
sarebbe passato molto tempo prima del nostro ritorno!
Una operazione analoga fece mio padre nella masseria di Colle S. Giacomo, seppellendo
dentro il pagliaio posto lì accanto la raccolta d’olio di quell’anno.
La cosa funzionò, ma la fortuna ci mise molto di suo. Così, dopo la guerra, nonostante
la nostra casa fosse diventata un fortino e venisse utilizzata dal comando tedesco,
ritrovammo intatto il muro che chiudeva il sottoscala, a difesa dei nostri scarsi ma
preziosi beni; inoltre, nel pieno della guerra, mio padre, affrontando il rischio di essere
preso e fucilato dai tedeschi mentre si recava di notte, passando per le campagne, verso
la masseria di terra, poté recuperare l’olio sepolto nel pagliaio.
Nella nostra nuova sistemazione, la vita, sia pure con i disagi e i problemi legati a una
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situazione non certo normale, procedette tuttavia in modo abbastanza tranquillo per
quasi tutto il mese di novembre.
Anche perché la casa dello zio si trovava verso l’interno rispetto alla statale per Ortona,
ad alcuni chilometri da essa, lontana quindi dal traffico di truppe e mezzi militari che
vi si svolgeva; e forse fu anche per questo che non avemmo visite dei tedeschi, come
accadde invece ad altri, che ci avrebbero obbligato ad andare verso il nord, meta di
tantissime famiglie di orsognesi: prima a Chieti, ospiti non molto graditi, e poi appunto
verso zone del nord, soprattutto l’Emilia.
I problemi cominciarono a sorgere verso la fine del mese e gli inizi di dicembre. E la
ragione era semplice.
Chi scorra oggi le pagine dei libri di storia che raccontano dei violenti combattimenti
che insanguinarono le nostre contrade durante la battaglia del Sangro e del Moro,
mietendo tantissime vittime civili e militari e provocando distruzioni inaudite, sa infatti
che proprio tra la fine di novembre e i primi giorni di dicembre del ‘43 iniziò l’offensiva
degli alleati contro i tedeschi.
Ma tale offensiva non fu né facile né di breve durata perché la zona interessata
presentava caratteristiche tali da rendere particolarmente difficoltosa l’avanzata degli
attaccanti, mentre offriva vantaggi assai consistenti ai tedeschi che, non a caso, dopo il
ritiro dal Sangro riuscirono a bloccare l’avanzata sul Moro perdendo solo Ortona dopo
sanguinosi combattimenti e a resistere a Orsogna fino al giugno successivo.
Churchill, nel suo libro La seconda guerra mondiale, così descrive la posizione tenuta
dai tedeschi sul fronte del Sangro e del Moro: “Le particolarità fisiche di quella regione,
le sue montagne impervie e i suoi torrenti impetuosi rendevano questa posizione, che
aveva una profondità di parecchi chilometri, straordinariamente forte”.
Con una situazione di tal genere, non è difficile immaginare quale fu la scelta degli
alleati per aprire la strada all’avanzata di terra: la intensificazione dell’intervento aereo
e dell’artiglieria pesante sulle zone controllate dai tedeschi, con rischi naturalmente
sempre maggiori per i civili che, come noi, non si erano allontanati dai paesi obbligati
allo sfollamento e ora al centro della battaglia.
Così, mano a mano che passavano i giorni, sempre più vicino e incombente si faceva il
rumore sordo dei cacciabombardieri che si dirigevano verso i paesi vicini, soprattutto
verso Orsogna e Ortona, con il loro enorme carico di bombe, mentre sempre più
percepibile e frequente si faceva il sibilo dei proiettili di cannone sparati dalle artiglierie
alleate sulle linee nemiche e che cadevano non molto distanti dalla zona dove ci eravamo
rifugiati.
Era il fronte che ormai ci minacciava da vicino.
La nostra condizione si faceva dunque sempre più precaria; così un bel giorno, ai primi
di dicembre, dovemmo lasciare anche la casa dello zio e cercare un rifugio più adatto
alla nuova drammatica situazione che era in procinto di travolgerci.
Per nostra fortuna, non lontano dalla campagna di mio zio, scavata a una certa altezza
del costone, non molto elevato, che fiancheggia sulla sinistra l’Arielli, un torrentello
insignificante ma che fu al centro di aspri scontri durante l’attacco degli anglo-americani
su Ortona e su Orsogna, si trovava una grotta che divenne la nostra nuova casa fino
al 24 di dicembre, quando potemmo consegnarci nelle mani degli alleati, che in quel
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punto avevano sfondato il fronte e travolta la resistenza tedesca, e così allontanarci dalla
prima linea, trasferendoci nelle retrovie controllate dai nostri liberatori.
La grotta era molto profonda e ampia, con un soffitto abbastanza alto e sopra,
all’esterno, roccia e terra di uno spessore tale che si dimostrò capace di resistere alla
penetrazione delle bombe che ci caddero sulla testa di lì a qualche settimana in una
quantità incredibile.
Essa inoltre era ripartita in tante nicchie, su tutte e due le pareti, capaci di ospitare
ciascuna una famiglia, e comunicava direttamente dall’interno, attraverso un breve
passaggio, con un’altra piccola grotta, a forma di torre, che aveva, in alto, una presa
d’aria non grande ma molto utile, e fungeva anche da toilette almeno per i più piccoli.
Insomma, una grotta abitabile che si diceva fosse stata attrezzata e utilizzata dai briganti
che imperversarono tra Orsogna e Arielli negli anni immediatamente successivi all’unità
d’Italia.
Il nostro nuovo e inconsueto alloggio era stato naturalmente ripulito e mimetizzato con
cura prima dell’uso: la bocca della grotta era stata quasi totalmente richiusa con terra
e fascine di rami, lasciando appena un pertugio attraverso il quale si poteva passare
solo carponi e che poi veniva a sua volta fatto scomparire dall’interno sempre con
una fascina di rami; e dall’esterno era difficile individuarla, anche perché il maltempo
contribuì rapidamente a cancellare le tracce del lavoro di mimetizzazione e a rendere
omogenea tutta la parete esterna.
Fummo in molti a rifugiarci nella grotta: le famiglie della zona, innanzitutto, più quelle
venute da Orsogna, che avevano trovato ospitalità nella contrada da amici e parenti.
In tutto saremo stati intorno a 60-70 persone (almeno nel mio ricordo: mia sorella
Ida sostiene invece che eravamo una novantina), tra donne bambini (tanti) e adulti.
Ogni famiglia aveva la sua nicchia, naturalmente quelle che avevano bambini piccoli
erano state sistemate nella parte più interna, ad evitare che i loro pianti e i loro lamenti
potessero essere captati dall’esterno e quindi farci scoprire.
Trascorremmo molti giorni nella grotta, più o meno una quindicina, perché, se la
memoria non mi inganna, traslocammo in essa il giorno dell’Immacolata Concezione,
all’indomani cioè del violentissimo bombardamento di artiglieria (furono sparate circa
10.000 granate) che si scatenò il 7 dicembre su Orsogna, intorno a mezzogiorno; e ne
uscimmo la vigilia di Natale.
Dire che nella grotta passammo giorni difficili è usare un eufemismo, anche se noi
bambini non ce ne rendevamo del tutto conto se non per la fame e i bombardamenti
continui, con le bombe che cadevano anche sulle nostre teste, nella parte sovrastante
della grotta.
Mangiare tutti i giorni e in quantità sufficiente era il nostro primo problema, soprattutto
era il problema dei bambini, a partire dai più piccoli che reagivano ai morsi della
fame piangendo in continuazione, nonostante i rimbrotti e le minacce degli adulti e le
sollecitazioni accorate delle madri ai loro figlioletti perché smettessero di piangere.
Per i primi giorni, furono sufficienti le provviste portate da ciascuna famiglia al momento
dell’entrata nella grotta; ma esse non durarono, purtroppo, a lungo! Così fu necessario
che i padri tornassero nelle case a prendere altre provviste, con il rischio o di finire
sotto i bombardamenti o di incappare in qualche pattuglia tedesca. Per fortuna, le cose
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andarono sempre per il meglio!
Anche mio padre e mio zio si allontanarono varie volte dalla grotta, senza incorrere mai
nei mille pericoli che li aspettavano fuori.
Essi, però, non uscivano solo per procurare il cibo necessario alle nostre famiglie, ma
anche per accudire le pecore che, se ricordo bene, erano nostre e mio padre aveva
portate con sé nella masseria dello zio da Colle S. Giacomo e nascoste, al momento di
rifugiarci nella grotta, nel pagliaio dello zio, dentro una grossa buca scavata nel terreno
e ricoperta di frasche, paglia e fieno per sottrarle alla vista di eventuali visitatori.
Che fine abbiano fatto queste pecore, dopo la nostra uscita dalla grotta, francamente
non lo ricordo né ho mai chiesto notizie ai miei in proposito, sta di fatto comunque che,
avendo anch’esse, come noi, bisogno di mangiare e di bere, mio padre cercò sempre in
quel periodo, nonostante i rischi, di rifornirle ogni tanto di fieno e di acqua!
A quei tempi, anche il possesso di un piccolissimo gregge rappresentava una ricchezza
per la famiglia contadina; e la loro perdita avrebbe significato un colpo molto duro,
perciò una tale attenzione alle nostre poche pecore, in una situazione in cui bisognava
preoccuparsi di ben altro, non deve affatto stupire.
All’epoca, chi poteva, facendo anche grossi sacrifici, con una agricoltura destinata
essenzialmente all’autoconsumo, si preoccupava, per soddisfare necessità elementari
della famiglia, non solo di avere nella stalla qualche pecora ma di allevare, oltre a galline
e conigli, anche il maiale che poi, quand’era ingrassato a dovere, finiva ammazzato e
trasformato in salsicce, prosciutto, ventresca, ecc., ricordo che le operazioni si svolgevano,
d’inverno, tutte in casa, ed era una festa per tutti, soprattutto per i bambini!
Ci si garantiva così, oltre alla provvista di carne, la possibilità di vendere, assieme
ad alcuni prodotti della terra, anche uova, polli, ricotta, formaggio, facendo entrare in
questo modo dei soldi in casa, che in genere i contadini non avevano altra maniera di
procurarsi, per provvedere agli acquisti di vestiti, scarpe, attrezzi necessari al lavoro dei
campi e agli altri bisogni della famiglia.
L’altro grande problema, per grandi e piccini, era quello della pulizia.
Non che prima, all’epoca, si avesse molta dimestichezza con l’acqua.
Nelle case non c’era neppure l’acqua corrente, figuriamoci docce, vasche da bagno e
altre cose del genere. Erano tutte cose di là da venire, come del resto i servizi igienici.
Ci si lavava appena la faccia tutti i giorni, o con l’acqua presa alla fontana se si viveva in
paese o, se si abitava in campagna, con l’acqua del pozzo, molte volte scavato a ridosso
dei depositi del letame prodotto dalla stalla, e poi, ogni morte di papa, ci si faceva
il bagno nella tinozza, di solito questo accadeva in occasioni importanti: quando, per
esempio, si doveva andare fuori, così se ti accadeva qualcosa eri pulito!
Ma, in quei giorni, nella grotta non ci si poteva neppure lavare la faccia!
Non solo, ma tra i capelli e dentro le maglie invernali fatte di lana grossa che indossavamo
allora e che, bisogna dire, tenevano abbastanza caldo, molti animaletti assai fastidiosi
bivaccavano tranquillamente, e l’unico rimedio era grattarsi grattarsi grattarsi…
Per il resto, la paura di ciò che accadeva fuori era sufficiente a far superare a tutti i disagi
inevitabili derivanti da una convivenza forzata, in uno spazio ristretto, e che si protrasse
per giorni e giorni.
Il pensiero di tutti era a come e quando si sarebbe usciti di lì, e se sani e salvi, e questo
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aiutava anche a non far venire meno un minimo di solidarietà tra quanti vivevano nella
grotta.
Pur con questi problemi e la preoccupazione costante che qualcosa di grave ci potesse
capitare all’improvviso, da un giorno all’altro, tuttavia il tempo scorreva senza grandi
scossoni dentro la grotta; e forse saremmo potuti arrivare senza sorprese al 24 dicembre,
il giorno della nostra liberazione, se il diavolo non ci avesse messo la coda.
Nella grotta, aveva trovato posto anche una famiglia che abitava non lontano da noi
in paese e che quindi conoscevamo bene, il cui figlio più grande, mal sopportando di
vivere rinchiuso, un bel giorno decise di attraversare le linee tedesche per raggiungere
il territorio controllato dagli alleati.
Uscì così dalla grotta, nonostante la disperazione dei genitori, e affrontò da solo l’ignoto
da cui purtroppo non riemerse più e nessuno mai seppe che cosa fosse realmente
accaduto, dove e come fosse andato a morire.
Il tentativo di attraversamento del fronte ebbe luogo non molti giorni prima dell’attacco
sferrato dagli alleati sulla direttrice dove si trovava anche la nostra grotta e che si concluse
con l’arretramento dei tedeschi; ma il fatto non avrebbe avuto per noi conseguenza
alcuna se il padre del giovane, nella convinzione che il figlio, se ci avesse ripensato o
fosse stato costretto dalle circostanze a tornare indietro, non sarebbe stato in grado da
solo di ritrovare il nostro rifugio, non avesse deciso, nonostante le proteste di tutti, di
piazzarsi, allorché cominciava a fare buio, lui all’esterno della grotta e diventare così
punto di riferimento per l’eventuale ritorno del figlio.
La cosa si protrasse per alcuni giorni, ma per nostra fortuna non accadde mai nulla,
almeno fino alla notte del 23 dicembre, quando invece si verificò quello che temevamo
più di ogni altra cosa: la scoperta della grotta da parte dei tedeschi!
Era intorno alle undici di notte, e ricordo ancora come fosse oggi il nostro spavento di
fronte a un tedesco che, pistola in pugno, con davanti quel disgraziato che si era fatto
scoprire, entra nella grotta e ci intima di uscire di lì al massimo entro un’ora.
Probabilmente il tedesco era solo a ispezionare le linee di comunicazione germaniche
che correvano lungo l’Arielli. Se fosse stato con una pattuglia, lo avremmo sicuramente
visto entrare in forze, accompagnato dai suoi commilitoni, e forse in quel caso ci avrebbe
obbligato a sgomberare immediatamente.
Il tedesco andò poi via minacciando che sarebbe tornato più tardi, ma la buona sorte
fu ancora dalla nostra parte, perché né lui né altri tedeschi ebbero la possibilità di farsi
di nuovo vivi. Non passò infatti più di una mezzora dal suo allontanamento che lungo
l’Arielli e sulla nostra stessa grotta si scatenò l’inferno.
Il bombardamento dell’artiglieria, che preparava l’attacco alleato, fu di una violenza
inimmaginabile e durò quasi tutta la notte, seguito poi dall’avanzata delle truppe di
terra.
Ma fu solo a giorno inoltrato e quando ormai la furia della battaglia si era del tutto
placata che decidemmo di uscire.
Ormai anche dall’interno della grotta era possibile non solo percepire l’eco dell’intenso
andirivieni che si stava svolgendo nei pressi del nostro rifugio, ma anche ascoltare le
voci provenienti dall’esterno e capire che non parlavano tedesco. Così i nostri genitori
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(forse qualcuno spiò anche fuori, attraverso lo stretto pertugio di ingresso alla grotta)
compresero che avevamo a che fare con gli inglesi (in realtà, canadesi) e decisero che
era arrivato il momento di lasciare il nostro provvidenziale e insolito ricovero.
Fino a quel momento, anche se i soldati vi passavano e ripassavano quasi davanti, la
grotta non era stata scoperta, tanto era ben mimetizzata, neppure dagli alleati.
Ma il rischio per noi era che l’apparizione improvvisa di un numero abbastanza
consistente di persone potesse essere scambiata dagli alleati per un agguato ordito da
un gruppo di tedeschi e quindi metterci in mezzo ai guai.
Della cosa naturalmente i nostri genitori erano molto preoccupati, ma risolsero il
problema stabilendo di mandare avanti i bambini e i ragazzini: fummo così noi i primi
a uscire all’esterno, ne eravamo parecchi, sventolando fazzoletti e stracci di vario
colore!
Quando abbandonammo la grotta, era la tarda mattinata del 24 dicembre del 1943;
e quel giorno, anche se circondati da lutti e rovine e con la guerra attorno a noi che
continuava, fummo tutti molto felici perché finalmente avevamo riacquistata la libertà.
Lo spettacolo che ci si presentò, quando uscimmo a riveder il sole (per parafrasare
Dante), fu quello di un ininterrotto via vai di soldati: gruppi che tornavano dal fronte,
altri che vi si recavano. Visi stanchi, divise sporche e strappate, soldati feriti, gente
insomma che tornava dall’inferno alla ricerca di un po’ di tregua e riposo nelle retrovie,
per riprendere poi l’indomani la stessa via all’inverso!
Mentre anche noi ci apprestavamo, accompagnati da alcuni soldati che ci avevano preso
in consegna, a prendere la strada delle retrovie, ecco arrivare una colonna abbastanza
numerosa di soldati tedeschi fatti prigionieri, la gran parte giovanissimi e anch’essi
visibilmente assai provati e malridotti.
Ci passarono proprio accanto, e a quel punto alcuni dei nostri non poterono trattenersi
dall’inveire violentemente contro di loro, qualcuno, anzi, tentò anche di avvicinarsi per
colpirli fisicamente.
Fu, bisogna dire, una reazione istintiva, più forte di qualunque altro sentimento: essi
erano i responsabili dei grandi patimenti sofferti durante i lunghi mesi della occupazione
delle nostre terre e l’odio nei loro confronti era cresciuto in tutti nella stessa misura
della paura che ci attanagliava ogni volta che si vedeva apparire una divisa tedesca
all’orizzonte!
I soldati che ci accompagnavano ci portarono in direzione della statale per Ortona; e
la nostra prima tappa fu un ospedaletto da campo, organizzato in una casupola che si
trovava in aperta campagna, a qualche centinaio di metri dalla strada e quasi all’altezza
del casolare in cui abitavamo al momento dell’entrata in guerra dell’Italia.
Si trattava in realtà di una rimessa per utensili agricoli, quindi assai piccola e poco
capiente, utilizzata alla meglio per prestare i primi soccorsi ai soldati feriti.
Quella rimessa, almeno fino a qualche anno fa, era ancora in piedi e, ogni volta che
mi è capitato di percorrere con l’auto la Marrucina, non ho mai mancato passando di
lì di rallentare e gettarle uno sguardo, perché essa è sempre restata uno dei punti vivi e
indelebili dei miei ricordi di guerra.
Forse i soldati feriti che vi abbiamo incontrato al nostro arrivo, tra i quali ricordo molto
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bene anche il soldato che mi mostrò con un sorriso appena accennato il moncherino
insanguinato reciso da una pallottola o da una scheggia all’altezza del polso, hanno
contribuito a fissare nella mia mente la sua immagine. O forse, più semplicemente,
perché l’immagine di quella rimessa coincide, nonostante lo spettacolo orribile che vi
abbiamo trovato, con il giorno della nostra liberazione e del nostro ritorno al futuro!
Anche noi avemmo i primi soccorsi all’ospedaletto da campo, nel senso che lì qualcuno
si diede da fare per rifocillarci e rifornirci di un po’ di viveri per il lungo viaggio a piedi
che ci attendeva, verso la nostra nuova tappa, Lanciano, ormai saldamente in mano agli
alleati.
Lanciano distava dal punto in cui eravamo almeno una ventina di chilometri, non si
trattava quindi di un viaggio facile, anche perché con noi, oltre ai bambini, c’erano
anche persone anziane debilitate dai numerosi disagi ai quali erano state sottoposte
dalle circostanze.
Inoltre il percorso, che subito di là della statale incontrava la contrada Martorella
(appartenente al Comune di Poggiofiorito) dove avevo frequentato la prima elementare,
era fatto di stradine di campagna rese fangose e scivolose dal maltempo di quei giorni
ed era perciò non poco disagevole. All’inizio, esso era piuttosto pianeggiante, poi
scendeva verso il Moro per risalire successivamente, nella sua parte finale che era anche
la più lunga, verso Lanciano. Contavamo, comunque, di fermarci a riposare e mangiare
qualcosa presso una delle masserie che sicuramente, lungo il cammino, avremmo
incontrato.
Ricordo però che ci fermammo, per qualche ora, solo una volta, e la sosta avvenne in un
casolare colpito da un lutto recentissimo: durante la notte, a causa dei colpi di cannone
scambiati tra tedeschi e alleati, era morto il più anziano della famiglia.
Appena entrati nella casa, trovammo il povero morto posto nel mezzo di una grande
stanza a pian terreno e, attorno, i pochi parenti presenti che lo vegliavano.
Non c’erano manifestazioni di disperazione, ma piuttosto una rassegnazione pacata
e senza pianti, l’accettazione insomma di un destino davvero ineluttabile, date le
circostanze.
Arrivammo a Lanciano a notte ormai fatta, e francamente non ricordo dove alloggiammo
per il resto della notte.
Ricordo solo che il giorno dopo, che era Natale, ripartimmo, sempre a piedi, anche da
Lanciano per dirigerci, la nostra famiglia, mia zia con il figlio piccolissimo e mia nonna,
verso Orsogna tuttora occupata dai tedeschi, mentre tutti gli altri nostri compagni di
grotta e di viaggio avevano preso altre direzioni.
Quando arrivammo a Spaccarelli, l’ultima contrada della città frentana che s’incontra
andando verso Orsogna lungo la provinciale, era ormai intorno a mezzogiorno: eravamo
stanchi e soprattutto affamati, così decidemmo di chiedere ospitalità a una famiglia di
contadini la cui masseria si trovava ai limiti della strada, e con loro consumammo il
pranzo di Natale, un pranzo non certo lauto e succulento.
Al centro della tavola infatti, in un clima non proprio di allegria e di festa, c’era solo
una vazzije piena di verdura cotta, scondita perché il sale era introvabile, con poco olio e
senza neppure la pizza di granturco che i contadini mangiavano mescolata alla verdura,
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ma il pasto fu ugualmente apprezzato da tutti!
All’epoca non è che le tavole dei contadini e in generale della povera gente abbondassero
di leccornie.
Durante l’anno, anzi, la pizze ‘nghe li fojje era uno dei piatti più ricorrenti, tuttavia per
alcune date, assai poche per la verità, le cose andavano diversamente e si mangiava
anche la carne (pollo o coniglio), cotta di solito sotto il coppo, assieme alle patate
tagliate a fette, ciò che le dava un profumo assai intenso e un sapore particolarmente
buono.
Il Natale era una di queste date, assieme alla Pasqua, alla festa del patrono, al giorno
della trebbiatura e a qualche altra ricorrenza particolare. Questa volta però ci dovemmo
accontentare e considerarci pure fortunati, perché con la miseria che c’era in giro ci
poteva anche capitare di rimanere a digiuno!
Nel pomeriggio, riprendemmo il cammino traversando poco dopo il Moro, che segna il
confine tra Lanciano e Orsogna.
Il Moro, il cui nome è diventato celebre nel corso della seconda guerra mondiale per
l’accanita resistenza che vi incontrarono le truppe alleate, è in realtà un fiumiciattolo
senza importanza che però, soprattutto d’inverno quando le sue acque si gonfiano,
diventa un ostacolo serio da superare perché scorre generalmente tra due strapiombi
fatti di calanchi e i ponti che l’attraversano sono pochissimi: ad esempio, il ponte che
avevamo appena attraversato è l’unico che porta a Orsogna venendo da Lanciano.
Nonostante questo però i tedeschi, stranamente, non l’avevano fatto saltare dopo il loro
ritiro da Lanciano, a seguito dell’offensiva scatenata dagli alleati sul Sangro.
Evidentemente, nella fretta della ritirata, non ne avevano neppure avuto il tempo; o
forse non ne vedevano la necessità: non solo il ponte era a notevole distanza dal paese,
ma la sua presenza era comunque assai difficile che potesse agevolare il successo di un
attacco contro Orsogna che aveva una posizione tale ed era così fortificata, con una rete
molto estesa di mine antiuomo e anticarro che copriva sia le campagne verso est (le più
attaccabili) che le strade di accesso al paese, che in nessun modo sarebbe stato facile
occuparla (come poi si dimostrò).
Il ponte, comunque, era ormai nelle mani degli alleati e sotto il loro controllo; e, anzi, a
ridosso di esso, sulla parte destra del fiume gli alleati avevano collocato una batteria di
cannoni che teneva sotto tiro proprio Orsogna, mentre al di là non vi erano postazioni e
vi si svolgevano solo azioni di pattuglia e di osservazione.
Finalmente, dopo un cammino non lungo, arrivammo alla nostra definitiva destinazione,
nel senso che lì rimanemmo fino alla liberazione di Orsogna, nel giugno del 1944:
si trattava della casa di una famiglia contadina, con la quale i miei genitori avevano
antichi rapporti.
Il casolare nel quale fummo ospitati era abbastanza grande per accogliere altre due
famiglie, così non fu difficile sistemarci. Esso si trovava ai limiti del ciglio di una collina,
dal quale si poteva scorgere il paese e anche la nostra masseria di Colle S. Giacomo,
ma sul versante non visibile da Orsogna; era poi lontano a sufficienza dal paese per
cui era difficile che pattuglie tedesche si spingessero fin lì, così come era lontano dalla
provinciale lungo la quale gli alleati tentarono nei mesi successivi di marciare, con i
carrarmati, su Orsogna, neppure in questo caso corremmo perciò rischi e non fummo
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costretti a cercare altrove un nuovo rifugio.
La nostra nuova sistemazione non ci creò problemi particolari.
Solo una volta partirono da Orsogna tre colpi di cannone sparati dai tedeschi contro un
gruppo di ufficiali alleati che, sulla stradina che correva lungo il ciglio della collina,
stavano scrutando con il binocolo verso il paese. Le bombe caddero non distanti dalla
casa, in un tratto di campagna dove in quel momento (era di mattina) stavano lavorando
le donne, ma per fortuna senza conseguenza alcuna.
Per tutto il tempo della nostra permanenza presso la famiglia che ci aveva accolto, non
stemmo naturalmente con le mani in mano.
Mia madre, Ida, la zia e la nonna partecipavano normalmente al lavoro dei campi,
così tra l’altro potevamo ripagare i nostri amici della ospitalità e anche del cibo che ci
offrivano (non so però se i miei dovevano anche pagare qualcosa, una specie d’affitto
insomma, probabilmente sì a quel che dice mia sorella).
Mio padre ed io invece avevamo trovato lavoro presso gli alleati e venivamo impiegati,
dietro regolare compenso, a sistemare la strada brecciata che da Lanciano porta verso
Poggiofiorito, utilizzata per il trasporto di truppe e mezzi verso il fronte.
Così ogni mattina mio padre ed io, pala e piccone in spalla, dovevamo attraversare il
Moro per recarci al lavoro, rifacendo la sera, sull’imbrunire, all’incontrario la stessa
strada.
Fu per me, quella, una esperienza molto divertente, oltre che utile dal punto di vista
delle finanze familiari perché anch’io vi contribuivo con il mio piccolo gruzzolo.
Avevo naturalmente, come tutti gli altri, la mia pala, ma in realtà il mio compito principale
era quello di andare a prendere e distribuire l’acqua tra gli operai e, quando passavano
i camion di soldati che tornavano o si recavano al fronte e ci buttavano pacchetti di
sigarette, darmi da fare per raccoglierne per mio padre quanti più ne potevo.
Il lavoro con gli alleati consentì a mio padre anche di stabilire rapporti con qualche
soldato, per procurare cibo, coperte, vestiario vario per la famiglia, egli cercava insomma
di arrangiarsi come meglio poteva in una situazione non certo facile per noi.
Ricordo anche qualche episodio legato a questa sua attività. Come quando, ad esempio,
dopo la fine della nostra giornata lavorativa, mio padre mi portò in un accampamento di
soldati indiani dislocato nei dintorni della nostra zona di lavoro: era un accampamento
abbastanza grande, e lì fummo ospiti della tenda di un indiano, forse, chissà, un sikh
visto il gran turbante che aveva in testa e la lunghezza e abbondanza della barba e dei
capelli, che ci offrì il tè, un tè nero e denso che fu il primo della mia vita e che però non
sapevo affatto che bevanda fosse, non l’avevo mai sentito neppure nominare.
Ma non si trattava sempre di un traffico tranquillo. Un giorno, infatti, capitò a mio padre
di avere a che fare con un soldato ubriaco che minacciò di sparargli con la pistola.
Un altro giorno, mentre eravamo sul lavoro, ci accadde invece di incontrare uno zio,
lo zio Antonio, che nessuno sapeva dove fosse, sapevamo solo che era stato fatto
prigioniero dagli inglesi, come non sapevamo nulla della sua famiglia che non era
riuscita ad attraversare le linee tedesche e si trovava ancora dall’altra parte del fronte,
chissà dove.
Naturalmente, tutti fummo contenti dell’incontro ma egli si fermò con noi solo pochi
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minuti, lavorava anche lui con gli inglesi (anche se non ho mai saputo che cosa facesse
esattamente), e perciò andò via subito salendo su un camion e lo rivedemmo solo alla
fine della guerra.
Insomma, la nostra vita stava quasi tornando alla normalità, soprattutto se paragonata
a quella di chi viveva ancora sotto i tedeschi, con l’incubo dei bombardamenti e della
fame, ma non era naturalmente la normalità.
E’ vero, dopo la conquista di Ortona e i tentativi di sfondamento su Orsogna costati
-come del resto tutta la battaglia del Sangro e del Moro- tantissime vite, di soldati
innanzitutto di cui sono testimonianza i due cimiteri di guerra di Ortona e di Torino
di Sangro, ma anche di civili, durante i mesi invernali l’attività militare si era ridotta
al minimo dall’una e dall’altra parte, e il lungo e rigido inverno servì agli alleati per
accumulare forze in vista dell’arrivo della primavera, quando riprese l’offensiva per
cacciare i tedeschi dall’Italia e, intanto, sloggiarli da Orsogna.
Tuttavia i fatti si incaricavano, ogni tanto, di ricordarci che eravamo sempre in guerra.
Ad esempio, le bombe di aereo che i tedeschi un giorno lanciarono sulla strada dove
stavamo lavorando.
Fu un fuggi fuggi generale, ma per fortuna gli aerei (ne erano due), che rappresentarono
una vera sorpresa perché i tedeschi non avevano ormai quasi più aviazione, andarono
via subito e sganciarono solo qualche bomba.
Ogni tanto ci capitava anche di assistere a bombardamenti su Orsogna o di vedere
pattuglie tedesche che si spostavano nelle campagne ai margini del paese, una volta ne
vedemmo anche una che si aggirava attorno alla masseria di Colle S. Giacomo.
Alla vigilia dell’estate, proprio agli inizi di giugno del ’44, anche Orsogna fu strappata
ai tedeschi, e si aprì così finalmente per noi la via del ritorno.
Noi fummo tra i primi a rimettere piede in paese, assieme a tutti gli altri che, come noi,
avevano passato il fronte o, comunque, non si erano, con lo sfollamento, allontanati
dall’Abruzzo.
Quello che trovammo non ci sono parole per descriverlo: eravamo di fronte a un cumulo
di macerie, che nascondevano anche insidie mortali, e gli edifici che non avevano subìto
gravi danni si potevano davvero contare sulle dita di poche mani!
La nostra casa in paese, come anche le case del vicinato, fu tra quelle non danneggiate,
anche se sulle pareti esterne erano evidenti i segni delle schegge che le avevano
colpite.
Tra l’altro, trovammo tutto il piano terra fortificato con il legname di una vicina
falegnameria, segno che essa era stata utilizzata dai tedeschi, più che come punto di
difesa, come osservatorio, forse in ragione del fatto che affacciava direttamente sulla
valle dell’Arenale e da lì quindi si potevano tenere sotto controllo alcune possibili
vie d’attacco da parte degli alleati, e cioè la valle, appunto, e la statale che viene da
Ortona.
Ritrovammo intatto anche il muretto che chiudeva il sottoscala, con il suo prezioso
piccolo tesoro, e in più i tedeschi avevano portato in casa -prendendolo chi sa doveanche un tavolo da cucina molto grande e robusto che restò nostro, mentre tutto il
legname del pian terreno tornò al suo legittimo proprietario.
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Ma il ritorno a casa non mise, purtroppo, la parola fine alle nostre traversie.
Da questo punto di vista, anzi, il dopoguerra non fu meno avventuroso del periodo di
guerra, per certi aspetti anzi fu anche più pericoloso.
Ma anche questa parte della nostra vita noi, divenuti ormai ragazzini, la vivemmo, certo
subendone i disagi, ma anche con quella dose di incoscienza che ti consente di trovare
sempre il lato divertente delle cose.
Intanto, dovemmo ospitare in casa anche la famiglia di mia zia, la zia Giacinta, con i
suoi due figli (lo zio era ancora prigioniero in Germania, tornò solo a guerra finita):
erano rientrati anch’essi, qualche settimana dopo di noi, dalla zona nella quale si erano
rifugiati per sfuggire ai pericoli della guerra, ma la loro casa non era al momento in
grado di accoglierli.
Ma alla coabitazione eravamo ormai abituati, la loro presenza non costituiva perciò
in nessun modo un problema. Consentiva, anzi, a noi ragazzi di stare di più assieme a
giocare e divertirci.
Di solito, il giorno stavamo in campagna con i nostri genitori e passavamo il tempo o
ad aiutarli nel lavoro o a scorrazzare liberamente per i campi, alla ricerca delle schegge
di rame e ferro disseminate dalle bombe d’aereo o di cannone esplose nei dintorni, che
poi rivendevamo guadagnandoci qualche soldo. Quando invece restavamo a casa, ci
univamo agli altri ragazzi del vicinato, che erano numerosi, e tutti insieme facevamo i
giochi più diversi.
In genere, con gli altri ragazzi andavamo d’amore e d’accordo. Ma ogni tanto finivamo
col litigare e allora non solo si faceva a pugni ma poteva anche accadere che, durante la
lite, qualche scriteriato ti scagliasse contro all’improvviso, alla traditora, un sasso che
non ti faceva certo bene (come capitò a me una volta, ricordo che fui colpito alla testa
e mi uscì anche un po’ di sangue); ma erano cose, che io ricordi, che non succedevano
spesso.
I nostri giochi erano i giochi del tempo.
A sticchie: ogni giocatore depositava il suo soldo sul mattone piazzato a terra a coltello,
poi a turno da una certa distanza ognuno con la sua pietra tentava di rovesciare il
mattone, facendo cadere a terra i soldi: ogni giocatore vinceva i soldi che aveva più
vicini alla sua pietra. A guardie e ladri. A nascondino (alé, in dialetto). A mazziche:
erano due i giocatori e si giocava con due bastoncini di legno di diversa grandezza, il
primo giocatore colpiva e cercava di lanciare il più lontano possibile, col bastoncino
più grande, quello più piccolo, mentre il secondo, raccoltolo, lo rilanciava a sua volta
da dov’era caduto, cercando di colpire e far cadere il bastoncino grande dai due mattoni
su cui era stato posato in sospensione. A bottoni (ci strappavamo i bottoni dai pantaloni
per giocare, con grande disperazione delle nostre madri). A soldi: chi avvicinava di più
il soldo al muro, aveva il diritto di giocarsi per primo a testa e croce i soldi di tutti gli
altri giocatori.
Oppure partecipavamo a giochi legati ad alcune ricorrenze, girando, ad esempio, in
gruppo per le vie del paese -durante la settimana santa- con le raganelle: le costruivamo
noi stessi incastrando il rocchetto di legno che le nostre madri ci davano, dopo aver
consumato tutto il filo che vi era avvolto, in un pezzo di canna spaccata a metà e con
una linguetta flessibile su un lato, e il suo suono stridulo non rallegrava certo le orecchie
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della gente; oppure -alla vigilia del giorno dei morti- portando in giro la sera per il
paese, per la festa della veracire (termine dialettale di cui ancora oggi non conosco il
significato), una zucca svuotata della polpa dentro la quale veniva accesa una candela
la cui luce fuoriusciva all’esterno attraverso alcune piccole fessure: sembravamo tante
lucciole giganti (le massamane, come a Orsogna vengono chiamate le lucciole) nella
notte senza luce elettrica dell’epoca.
Altro gioco che ci appassionava era quello di correre per le strade con una ruota di
bicicletta, spogliata del suo copertone, e una martinicchie in mano per guidarla nella
corsa, così come la partita a calcio con la palla di pezza; i più fortunati poi si potevano
permettere di fare la discesa di S. Rocco con la carrozze, guidandola -alla maniera dei
cavalli- con una specie di cavezza che manovrava le ruote davanti: una piccola carrozza
appunto, fatta di un pianale di legno lungo all’incirca un metro e largo una trentina di
centimetri e di quattro rotelle, anch’esse di legno.
Essa era molto appetita dai ragazzi che, per averla, cercavano innanzitutto di farsi
amico il falegname del quartiere; e divenne ancora più ricercata quando, al posto delle
tradizionali rotelle di legno che si usuravano abbastanza rapidamente, si poterono usare
i cuscinetti a sfera prelevati dai carrarmati alleati abbandonati lungo la provinciale per
Lanciano (anch’io, a un certo punto, entrai nel novero dei fortunati costruendomi una
carrozze con i cuscinetti a sfera).
Qualche volta facevamo anche giochi più movimentati e meno pacifici: ad esempio,
scontrandoci a sassate con i ragazzi di altri quartieri.
Era in realtà un gioco meno pericoloso di quel che sembrava, certo qualche rischio lo
correvamo, ma di solito la sassaiola finiva senza danni per nessuno.
Il gruppo di ragazzi del nostro quartiere, un pezzo di lu quart’abballe, normalmente si
scontrava con i ragazzi del quartiere che avevamo di fronte, quelli di lu quarte de la
ville dai quali ci separava uno strapiombo largo quasi un centinaio di metri, al fondo del
quale corre la strada che porta alla fonte vecchia: ci fronteggiavamo quindi a distanza e,
armati di fionde o usando le nude mani, cominciavamo subito a scagliarci sassi che si
incrociavano allegramente al di sopra del burrone, finché non ci prendeva la stanchezza
o arrivava l’ora di andare a cena.
Insomma, ci divertivamo come potevamo e come sapevamo.
Ma le circostanze ci offrirono, almeno per tutta l’estate, l’opportunità di praticare giochi
del tutto nuovi, a causa dei quali più di un ragazzo rischiò seriamente la pelle e alcuni si
sono portati dietro per tutta la vita mutilazioni a volte anche gravi.
I tedeschi, andando via, avevano lasciato in paese qualche arma e soprattutto un gran
numero di proiettili e bombe di vario tipo: dalle bombe di cannone ai proiettili di fucile
e di mitragliatrice, alle bombe a mano. C’erano poi (non molte) le bombe di aereo o di
cannone sparate dagli alleati ma non esplose, oltre alle mine messe dai tedeschi.
Questa situazione, prima che avvenisse lo sminamento e che ci fosse la raccolta da parte
delle autorità delle armi e bombe abbandonate, costituiva già di per sé un pericolo. E
infatti più di un poveraccio in quei giorni perse la vita o su una mina antiuomo o su una
anticarro, fatta esplodere dal passaggio di carri agricoli o di un traìno.
Vi furono diverse vittime anche tra gli uomini mandati a sminare le campagne attorno
al paese, senza parlare di quelli che, tornando dallo sfollamento, morirono aprendo la
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porta di casa o rimuovendo un oggetto dietro cui i tedeschi avevano nascosto la mina.
In quei giorni poteva anche capitare che qualche pallottola di fucile finisse sul focolare
di casa assieme ai ceppi messi ad ardere: arroventandosi, ad un certo punto la pallottola
esplodeva, facendo partire il proiettile che rischiava di causare guai grossi. Un simile
rischio un giorno lo corremmo anche a casa nostra quando un proiettile di fucile, partito
dal focolare, colpì, per fortuna solo di striscio, la gamba di mia zia.
Noi ragazzi trovammo tuttavia il modo di trasformare una situazione così pericolosa in
una occasione di gioco.
Ricordo, ad esempio, che ci ritrovavamo spesso in tanti nel deposito di grosse bombe da
cannone, lasciate dai tedeschi, che si trovava sotto a lu ponte di Cillone, di fronte alla
caserma dei carabinieri, in uno spazioso scantinato. E qui tutti a darci un gran da fare
per svellere il proiettile dal bossolo nel quale era contenuta la polvere da sparo di cui
poi ci servivamo per giocare, felici finalmente quando quella polvere diventava nostra
e più felici ancora se dal bossolo sbucavano fuori quelli che chiamavamo i maccheroni,
un esplosivo assai ricercato perché, quando il maccherone veniva acceso, esso andava
zigzagando tra le gambe della gente e tutti ci divertivamo a guardare lo spettacolo.
L’operazione era naturalmente tra le più rischiose: si batteva per terra, con molta forza,
la testa del proiettile per allargare il collo del bossolo nel quale era incassato finché non
se ne staccava, facendo così venir fuori il suo contenuto. Per nostra buona stella, non
successe mai niente, ma nulla impediva che un bel giorno potesse saltare tutto per aria
con noi dentro.
Bombe di altro tipo si potevano poi trovare tranquillamente in giro, a disposizione di chi
le volesse raccogliere: per esempio, le bombe a mano tedesche.
Un giorno, ne trovò una mio cugino Salvatore, qualche anno meno di me: senza nessuna
preoccupazione, egli legò una corda alla linguetta di sicurezza della bomba a mano,
si nascose dietro un muricciolo e la fece esplodere alla presenza di altri ragazzi che
assistevano, a una certa distanza ovviamente, all’audace gesta.
Anch’io, naturalmente, ho partecipato con impegno a queste imprese. Anzi, nel nostro
vicinato, assieme agli altri ragazzini miei compagni di gioco, facevo anche altro perché,
vicino alla nostra abitazione, in una casa ancora abbandonata, trovammo un giorno un
ricco deposito di casse piene di pallottole di fucile. Ci impadronimmo subito delle casse
e le nascondemmo in un piccolo rifugio in muratura che era diventata la nostra sede,
la sede anzi della banda perché nel frattempo ci eravamo appunto costituiti in banda:
potemmo così avere a disposizione solo per noi un numero incredibile di pallottole di
fucile con le quali passammo l’estate a divertirci.
Il nostro gioco consisteva o nello svuotare i bossoli della polvere da sparo, con la quale
imbastivamo poi altri giochi, oppure nel conficcare una pallottola per terra e colpirne
quindi la capsula con un’altra che la faceva esplodere e spingeva così il proiettile a
penetrare nel terreno.
Era, com’è evidente, un gioco piuttosto stupido ma a noi ci divertiva, finché un bel giorno
non ce ne stancammo e seppellimmo le casse rimaste nel piccolissimo appezzamento di
terra che ospitava la sede della banda; e forse sono ancora lì, nascoste.
Prima però di seppellire la nostra scorta di pallottole, chi disponeva di una specie di
minuscolo fucile di nostra fabbricazione poté provare anche l’emozione di spararne
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alcune per aria.
Di che si trattava?
Alcuni di noi, e io tra questi, venimmo in possesso, non ricordo più come, dell’aggeggio
che provocava lo scoppio delle mine antiuomo.
Esso era costituito da un piccolo cilindro, lungo non più di dieci centimetri, al cui interno
delle dimensioni di qualche centimetro, incassato in una molla potente, si trovava una
specie di punteruolo trattenuto da un morsetto posto su un lato del cilindro: quando il
morsetto veniva strappato, il punteruolo scattava spinto dalla molla e faceva scoppiare
la mina.
Noi usammo invece il congegno per spararci pallottole di fucile, avendo però l’accortezza
di proteggere la mano che reggeva l’insolita arma con un bossolo di mitragliatrice
tagliato dalla parte della capsula e infilato nella bocca del cilindro: ci andava proprio
bene, e dentro di esso veniva introdotta la pallottola.
Ricordo che, per procurarci i bossoli di mitragliatrice, incappammo un giorno, io e mio
cugino Salvatore, in un nido di vespe molto arrabbiate dalle quali dovemmo scappare in
tutta fretta, il tempo appena di raccogliere i bossoli che cercavamo sparsi per terra.
I bossoli li trovammo non lontano dalla masseria di Colle S. Giacomo, lungo la
provinciale per Lanciano, accanto a una mitragliatrice abbandonata in mezzo alla
campagna, a qualche decina di metri dalla strada, ma per nostra sfortuna proprio lì le
vespe avevano disposto il loro puntuto accampamento.
Insomma, ne combinammo delle belle. Ma le circostanze erano quelle; né in giro vi era
altro di tanto importante e divertente che potesse attirare la nostra attenzione!
L’altra grande, pericolosa avventura di quei giorni nella quale eravamo tutti coinvolti,
bambini ragazzi e adulti, erano le malattie che imperversarono a Orsogna nei mesi
successivi al nostro rientro.
Pidocchi e cimici che scorrazzavano in folla nei letti, nei vestiti e tra i capelli, il tifo
petecchiale che mieté diverse vittime in paese colpendo soprattutto le donne, la rogna
di cui ci si poteva liberare solo ricoprendo per diversi giorni il corpo con un impasto di
zolfo: questo era il quadro sanitario di quei mesi!
Sembrava che l’aria stessa del paese fosse impregnata di miasmi malefici, l’acqua o
non c’era o era inquinata, i cumuli di sporcizia erano sparsi dappertutto, i vestiti e la
biancheria intima erano ridotti a stracci e non si cambiavano perché non ne avevamo
altri, l’assenza di ogni igiene personale era poi la norma, frutto delle circostanze; inoltre,
il fisico sfibrato dalla sottoalimentazione imposta dalla guerra e che continuava nel
dopoguerra non aiutava certo a resistere alle malattie.
Naturalmente, contro le malattie ci si difendeva come si poteva: contro il tifo, ad
esempio, con vaccinazioni che non avevano però sempre il loro effetto.
Io, di vaccinazioni contro il tifo, ne feci addirittura due.
La prima assieme alle mie sorelle presso un medico polacco, di origine ebraica, che
era stato internato dai fascisti a Orsogna: se il mio ricordo è esatto, la vaccinazione
consisteva in tre iniezioni fatte, nel giro di qualche settimana, alla spina dorsale, ma alla
seconda iniezione io svenni e caddi come corpo morto cade sotto l’occhio del medico,
così mi guardai bene dal completare la cura.
La seconda vaccinazione, con una sola iniezione al petto praticata dal medico condotto,
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la feci invece qualche mese dopo: la facemmo anzi in due, io e un mio compagno di
scuola, di ritorno da una bella camminata lungo la Pescarese, la strada (allora brecciata)
che da Orsogna porta a Canosa Sannita. Doveva essere piena estate perché ricordo che,
quando ci recammo da don Levino, il nostro medico condotto, faceva molto caldo ed
eravamo tutto sudati, ovviamente non mi domandai se una nuova vaccinazione, diversa
da quella fatta in precedenza, potesse comportare qualche pericolo!
La situazione sanitaria della nostra famiglia non era naturalmente migliore di quella
delle altre famiglie, anzi…
Tutti in casa infatti facemmo conoscenza di cimici e pidocchi, che ti succhiavano il
sangue che era una bellezza e dai quali non ti potevi proprio liberare, le mie sorelle e
io avemmo inoltre anche a che fare con la rogna, ricordo che restammo per tre giorni
rinchiusi in casa con addosso la puzza dello zolfo che mio padre ci aveva sparso sul
corpo, mentre mia madre si prese il tifo petecchiale che la portò a un punto dalla morte.
Il tifo, poi, era infettivo, e perciò, anche se noi eravamo stati vaccinati, non potemmo
avvicinare mia madre per tutto il periodo della malattia.
Mia madre se la vide proprio brutta, in preda per diverse settimane a febbri violente che
la facevano vaneggiare e l’avevano ridotta una larva; e, visto quello che era accaduto ad
altre donne colpite dallo stesso male, tutti ormai in casa pensavamo che non l’avrebbe
scampata. Ma per fortuna, quando tutto sembrava perduto, lei riuscì a superare la crisi
e, sia pure lentamente, a riacquistare le forze e anche i capelli che le erano caduti nel
corso della malattia.
A poco a poco, tuttavia, anche a Orsogna la vita tornò a farsi normale.
Superata la fase più acuta delle malattie e ripulito ormai il paese delle bombe e delle
armi lasciate dai tedeschi, rimosse anche le carcasse dei carrarmati alleati rimasti ad
arrugginire sulla provinciale per Lanciano, diventarono altre le preoccupazioni degli
orsognesi: ricostruire alla meglio un tessuto istituzionale in grado di provvedere
ai bisogni più impellenti, riavviare le varie attività andate in malora con la guerra,
cominciare la ricostruzione anche fisica del paese.
Non si trattò di cosa facile, ma sia pure con fatica e con molta lentezza tornò a riaprirsi
finalmente la strada per il futuro.
Anche per i bambini ricominciò la normalità.
La scuola venne riaperta, e anche i giochi tornarono a essere quelli di sempre.
Ritornai a scuola anch’io, naturalmente, ripartendo dalla quarta elementare, dopo l’anno
perso a causa della guerra.
Riandando oggi alla vita di quei giorni, bisogna anche dire però che il ritorno alla
normalità non significò affatto il ritorno a quella immobilità, sociale e culturale, che fu
tipica degli anni del fascismo e dalla quale si poteva tentare di uscire solo arruolandosi
come volontari per le avventure del regime in Africa o nella guerra di Spagna dove
molti poveracci, alcuni anche di Orsogna, andarono a combattere e morire per pochi
soldi, a fianco dei franchisti, contro il legittimo governo repubblicano.
Il fascismo aveva persino chiuso le vie dell’emigrazione; e non si poteva così neppure
più cercare fortuna altrove!
Insomma, prima della guerra, i destini di ciascuno erano segnati.
E in genere il destino dei figli era quello dei padri, e chi nasceva povero tale rimaneva
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per il resto della sua vita; e così i suoi figli, in una vicenda sempre immutabile come
le stagioni (almeno quelle di una volta, oggi anche il variare delle stagioni sembra
impazzito!).
Anche i mestieri erano ereditari: studiare, ad esempio, era un privilegio di cui potevano
godere solo i figli dei professionisti e comunque di gente agiata se non proprio ricca, che
si trasmettevano il mestiere di medico, avvocato, ecc., di padre in figlio, anche quando
i figli erano teste di rapa (come si dice da noi).
Qualche volta accadeva anche che, con molti sacrifici, figli di impiegati comunali o di
artigiani e contadini con una discreta quantità di terra riuscissero anche loro a diventare
geometri, maestri elementari, periti agrari; o addirittura a laurearsi, ma si trattava solo
di casi sporadici che non rientravano nelle regole dell’epoca.
Il grosso della popolazione invece passava la sua vita, anche con rassegnazione,
nell’analfabetismo e nell’ignoranza, anzi venivano indicati a dito i ragazzi che, a quei
tempi, erano riusciti ad arrivare alla quinta elementare: il popolino li considerava
persone quasi istruite!
Il dopoguerra nacque dunque con segni diversi; e aprì le porte a un diverso futuro anche
per i più svantaggiati.
Si potevano cogliere questi segni anche nelle piccole cose, come ad esempio il rapporto
tra le persone che non era più quello reverenziale del cafone nei confronti di uomini e
ceti che ieri comandavano, si poteva parlare liberamente e il bisogno spingeva tutti a far
valere le proprie ragioni senza molti timori.
La guerra stessa contribuì a questo cambiamento. E non solo per il passaggio sulle
nostre terre, con le truppe alleate, di uomini che avevano un’altra idea della vita e delle
relazioni tra gli uomini e provenivano dall’esperienza della democrazia che, a memoria
d’uomo, nessuno da noi aveva mai conosciuta.
Per noi ragazzi la guerra, anche in ragione dei disagi e dei pericoli che ci aveva rovesciato
addosso, fu anzi una grande scuola di formazione: eravamo arrivati alla guerra che
eravamo bambini e ne uscivamo appunto ragazzi, con un carico di esperienze che ci
diede più forza, carattere e determinazione e certamente anche qualche ambizione in
più dei nostri genitori che doveva poi fruttificare negli anni successivi.
Il ritorno alla libertà, la conquista di istituzioni democratiche con la cacciata dei Savoia
e la proclamazione della Repubblica e poi l’approvazione della nuova Costituzione
costituirono l’intelaiatura necessaria, frutto dell’unità e della grande lungimiranza delle
forze antifasciste, che consentì a quei segni di rinnovamento di mettere radici e di dare
nuovo slancio e nuove prospettive ai singoli e a tutta la collettività.
Il consolidarsi dei partiti di massa, negli anni immediatamente successivi alla guerra,
in ogni angolo del paese, fu l’altro pilastro attorno a cui si costruì, oltre a un futuro
di libertà e di democrazia per l’Italia, anche la possibilità di un avanzamento sociale
individuale, a prescindere dalle origini e appartenenze sociali: non erano più i tempi
in cui sindaco, assessore, consigliere comunale di un comune, consiglieri provinciali o
addirittura parlamentari erano sempre e solo espressione di ceti agiati.
L’intelligenza cominciò a valere di più, soprattutto quando -già appena dopo la guerraanche la possibilità di accedere agli studi, sia pure in modo molto ridotto e in forme
anche singolari, non fu più solo un privilegio di alcuni.
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Ricordo, ad esempio, che in seminario, dove io entrai nell’autunno del ’46, in tanti
erano figli di povera gente: era un modo antico, tipicamente meridionale, di cambiare
condizione sociale, solo che questa volta, dopo aver terminato il ginnasio, la gran parte
di quei ragazzi abbandonò la strada del sacerdozio e continuò gli studi nella scuola
pubblica!
Insomma, iniziava una storia nuova che si trascinò dietro anche realtà che fino ad allora
erano state relegate ai limiti del vivere civile.
Anche la mia famiglia riprese le sue consuete attività; e mio padre continuò a coltivare a
mezzadria il podere di Colle S. Giacomo, con il lavoro dell’intero nucleo familiare. Con
una piccola eccezione però, che mi riguardava e che produsse per me un futuro assai
diverso da quello che era nella tradizione.
Dopo il ritorno a scuola, io cominciai infatti a frequentare la parrocchia, assieme ad
altri ragazzi della mia età, anch’essi in maggioranza provenienti da famiglie contadine
(anche questo era un segno dei tempi).
A scuola, inoltre, pur non avendo in casa nessun aiuto, andavo bene ed ero, se non il
migliore, certo tra i pochissimi che se la cavavano discretamente; e lo stesso accadeva
in parrocchia, nel servir messa e nel partecipare alle varie altre funzioni religiose della
giornata.
In poche parole, venivo considerato un tipo sveglio e promettente. E tutto questo non fu
naturalmente senza conseguenze: la frequentazione attiva della parrocchia e il contatto
con un mondo che per me era nuovo e si presentava, a quella età, pieno di suggestioni e
di fascino mi portarono infatti a entrare in seminario.
Dovetti naturalmente affrontare anche gli esami di ammissione alla scuola media che
diedi a Ortona, nei locali dell’Istituto Nautico.
A prepararmi agli esami, durante l’estate, fu la signorina Di Bene, grazie all’intervento
nei suoi confronti dell’allora giovane vice-parroco, che poi divenne, dopo la morte
dell’arciprete Fonzi, il nuovo parroco della Chiesa di S. Nicola: parlo di don Vincenzo
Camplone che ebbe un ruolo assai importante in quegli anni per il mio futuro, assieme
alla signorina Olga che si accollò una parte delle spese per la mia permanenza in
seminario.
La signorina Olga era veneta, ma non so per quali circostanze si trovava già da prima
della guerra a Orsogna, dove svolgeva un ruolo importante a servizio del parroco e in
generale nella vita della parrocchia: era una donna ormai abbastanza avanti negli anni,
assai devota e dal cuore veramente buono!
Non so se avessi, come si dice in questi casi, la vocazione, sta di fatto comunque che
mi incamminai animato da grande convinzione per una strada che cambiò radicalmente
la mia vita, finché le irrequietudini e i turbamenti dell’adolescenza non mi spinsero a
lasciare il seminario e a continuare gli studi presso il liceo classico di Lanciano.
Al di là in ogni modo di questo esito, il seminario fu per me una esperienza formativa
fondamentale, sia dal punto di vista intellettuale che morale, che ho sempre considerata
altamente positiva e che mi è sempre stata di grande aiuto anche nella costruzione negli
anni successivi del mio futuro.
L’entrata in seminario pose in pratica, almeno per me, la parola fine alla lunga e
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travagliata vicenda della guerra e del dopoguerra che ho cercato di raccontare in queste
pagine.
Ma, come accadeva una volta anche nei romanzi, non può mancare a questo punto, mie
care nipoti, una piccola morale conclusiva, a vostra edificazione naturalmente.
E quale può essere questa morale, se non la lezione di libertà che ci viene anche dalla
più grande tragedia del ‘900, quale appunto è stata la seconda guerra mondiale, una
guerra tra le più violente e sanguinose che la storia ricordi?
La guerra fu una scelta del nazismo e del fascismo, nella illusione di ridurre il mondo ai
propri piedi e fondare su questo un potere dispotico sui popoli vinti, con il soffocamento,
per chissà quanto tempo, di ogni libertà e democrazia come già era avvenuto in Italia e
in Germania prima della guerra.
Ma per fortuna, grazie al sacrificio di milioni di uomini e donne, le cose andarono
diversamente e il folle sogno di Hitler, il sanguinario capo della Germania nazista, fu
sconfitto!
La guerra, mie care nipoti, è sempre una bruttissima cosa, soprattutto per i bambini,
perciò bisogna sempre darsi da fare per impedire lo scoppio di nuove guerre, mantenere
la pace e risolvere i contrasti tra i popoli con l’arma della politica e del dialogo.
Ma quando c’è chi ti costringe a ricorrere alla forza, ad accettare la sfida della guerra,
come è accaduto con il fascismo e il nazismo per scongiurare l’incubo di una vita da
schiavi, non bisogna tirarsi indietro, altrimenti i prepotenti avranno sempre ragione e
l’avranno sempre vinta.
Certo, la cosa migliore è prevenire e lavorare con tenacia e convinzione perché i
prepotenti e i malintenzionati siano costretti a rigare dritto, purtroppo però non sempre
un tale obiettivo viene raggiunto e allora succedono i disastri.
Tuttavia, anche in queste circostanze non bisogna rassegnarsi facilmente, occorre al
contrario insistere finché è possibile nella ricerca del dialogo, e solo quando non vi sono
più altre strade da percorrere imboccare quella del ricorso alla forza.
La politica, checché ne pensino o dicano gli ignoranti e coloro che speculano
sull’ignoranza, è l’unico, reale strumento che può imbrigliare e sconfiggere chi lavora
contro la pace e si propone di rendere schiavi gli altri uomini.
Ritorniamo così a Tucidide: il cittadino che si interessa agli affari politici fa cosa utile
per sé, per la città e per il mondo e contribuisce in questo modo ad aprire nuovi orizzonti
di progresso alla civiltà umana.
In fondo, questa è la morale, non tanto piccola poi, che si può trarre da un momento
così altamente drammatico della storia più recente del mondo contemporaneo: la
democrazia, a guardar bene, è la vera, grande risorsa del nostro tempo che può aiutare
gli uomini a sconfiggere i prepotenti e a costruire un futuro di pace e di giustizia per gli
individui e i popoli, facendo vivere il dialogo tra di loro e non lo scontro; ed è proprio
nella democrazia la garanzia della pace e della solidarietà tra gli uomini.
Ma che cos’è la democrazia (e la politica) se non soprattutto, assieme a regole e
istituzioni, proprio questo interessarsi, come dice Tucidide, da parte di ogni cittadino
dei problemi del proprio paese e del mondo?
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Capitolo II
I miei primi rapporti con il PCI risalgono all’estate del 1952, a distanza quindi di appena
qualche mese dal mio ritorno a Orsogna, dopo l’abbandono -nel marzo di quell’annodel seminario.
Le circostanze che portarono a questo incontro furono per la verità del tutto casuali e
anche, se volete, banali, esso tuttavia segnò una svolta profonda e definitiva nella mia
vita.
Per l’età che avevo, poco più di diciassette anni, ma anche per la estraneità della vita di
seminario rispetto alle vicende politiche e sociali del Paese che pure in quegli anni si
presentavano spesso con risvolti assai drammatici e coinvolgevano in termini di forte
passione politica tantissima parte della società italiana, mai avrei pensato che il mio
approdo, dopo l’esperienza del seminario, sarebbe stato il PCI.
Negli anni del seminario, infatti, di ciò che avveniva all’esterno appena qualche eco,
molto ovattata, arrivava a volte fino a noi.
Ad esempio, ricordo che giunse anche a noi, all’interno dei grandi e chiassosi cameroni
nei quali vivevamo la nostra adolescenza, l’eco della vittoria della DC nel ’48 sul Fronte
popolare, ma si trattava di un fatto del tutto eccezionale a cui comunque noi ragazzi non
demmo alcuna importanza: normalmente, la nostra giornata (o meglio: la nostra vita)
era fatta di preghiera, studio, gioco.
In fondo, eravamo solo una frotta, assai numerosa allora, di ragazzini il cui sogno era
quello di diventare sacerdoti e che a ciò che avveniva fuori del grande palazzone che ci
ospitava, addossato alle mura della cattedrale, non pensavamo neppure lontanamente;
né forse ce ne importava molto!
L’episodio che produsse una simile svolta nella mia vita accadde, tra la fine della
primavera e l’inizio dell’estate, all’interno dello stanzone parrocchiale nel quale
si trovava il tavolo da ping pong dove i ragazzi che frequentavano la parrocchia si
trattenevano a giocare.
In quei giorni anch’io passavo molto del mio tempo a giocare a ping pong.
Dopo l’uscita dal seminario avevo, infatti, continuato a recarmi regolarmente in
parrocchia, anche se non partecipavo più alle funzioni religiose.
Non si trattava di una scelta quanto piuttosto di un fatto, per così dire, inerziale. Diciamolo
francamente: anche se di ciò non ricordo che avessi una particolare consapevolezza,
in realtà c’era in questo la mia difficoltà a intessere, in un breve giro di tempo, altre
relazioni, fare nuove conoscenze fuori dall’ambiente che era stato fino a quel momento
il mio, imparare a impiegare diversamente il mio tempo.
Negli anni del seminario, anche quando durante i mesi estivi tornavamo in paese per
le vacanze, la nostra giornata se ne andava in pratica tra la casa e la chiesa madre di S.
Nicola: la mattina, a partire da un’ora quasi antelucana, impegnati a servire messa fino
a mezzogiorno, nel tardo pomeriggio di nuovo in chiesa per le funzioni della sera.
Uso il plurale, perché all’epoca i seminaristi, a Orsogna, erano un bel numero: almeno
cinque che io ricordi, forse sei.
Ancora oggi, appesa al muro del mio studio, conservo una fotografia nella quale siamo
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tutti raccolti attorno a don Vincenzo. Manca solo Nandino che era il più grande della
compagnia. Tra i chierichetti, poi, c’è Ruccucce che entrò in seminario qualche anno
più tardi e si fece davvero prete: don Ferdinando e don Rocco furono, anzi, gli unici a
raggiungere il sacerdozio, mentre tutti gli altri, uno dopo l’altro, presero altre strade.
Insomma, non c’era proprio molto tempo per fare altre cose, e passavamo così la gran
parte dell’estate quasi sempre in compagnia delle stesse persone.
Continuare a frequentare la parrocchia, anche dopo l’abbandono degli abiti da
seminarista, fu per me quindi del tutto naturale, frutto di un’abitudine ormai antica; e
sinceramente non mi sarei mai aspettato che qualcuno, a partire dal parroco, potesse un
bel giorno eccepire sulla mia presenza in quei locali e che mi sarebbe potuto accadere
quel che poi mi accadde.
Ma che cosa avvenne esattamente quel giorno, tra la primavera e l’estate del 1952?
Una cosa per me davvero singolare, che mi prese alla sprovvista e mi lasciò senza
parole, e cioè che don Vincenzo, che era già divenuto il nuovo parroco di S. Nicola e
con il quale avevo una certa dimestichezza sin da ragazzino, mi cacciasse letteralmente
dalla parrocchia proibendomi di rimettervi piede.
Non ricordo affatto che cosa avesse scatenato in quel momento la sua ira, ricordo solo
che mi aggredì in un modo violento e che non ammetteva obiezioni di sorta: sembrava,
nella sua furia, l’arcangelo, che vediamo raffigurato in tante pitture, che caccia, con la
spada sguainata e fiammeggiante, Adamo ed Eva dal paradiso terrestre!
Ricordo ancora che io me ne andai senza fiatare e che da allora non rimisi più piede né
in chiesa né nei locali della parrocchia. Neppure don Vincenzo mi rivolse, da allora, più
la parola, anzi quando gli capitava di incontrarmi per il paese si girava puntualmente
dall’altra parte, con uno scatto imperioso e collerico della testa! Fu, insomma, una
separazione con inimicizia, che è durata fino al 1985, quando venni eletto sindaco di
Orsogna.
Quell’anno, già nel corso della campagna elettorale, don Vincenzo, che non si era mai
preso molto con il candidato sindaco della DC, si atteggiò nei confronti miei e della
lista che capeggiavo in maniera non ostile, atteggiamento che, dopo la nostra vittoria, si
tramutò, sia pure a distanza di qualche mese, in una ripresa di rapporti e di amicizia che
non sono poi mai più venuti meno, fino alla sua morte.
Non dimenticherò mai anzi, a questo proposito, un episodio che allora mi colpì molto.
A Orsogna c’è l’usanza che la sera del 31 dicembre il sindaco, assieme alla giunta e ai
consiglieri comunali, partecipi con il gonfalone del Comune portato dai vigili urbani in
grande uniforme al Te Deum di ringraziamento celebrato nella chiesa di S. Nicola.
Molti si aspettavano che io non andassi (i pregiudizi nei confronti dei comunisti, ancora
in quegli anni, erano davvero duri a morire), io invece stetti alla tradizione e mi recai in
chiesa con la giunta e il Consiglio comunale.
Assistemmo alla funzione religiosa in prima fila, tra la curiosità della grandissima
folla presente, ma quando ormai essa volgeva al termine avvenne qualcosa che colse
di sorpresa un po’ tutti ma soprattutto me: don Vincenzo lascia l’altare, scende i gradini
che separano l’altare dallo spazio riservato ai fedeli e viene a stringermi la mano!
Lo fece, tra l’altro, in maniera piuttosto plateale e anche calorosa, come era d’altra parte
nel suo carattere.
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Dopo di allora l’andai a trovare diverse volte in parrocchia, così come mi recai in
ospedale a salutarlo quando fu assalito dal male che doveva portarlo alla morte; e nel
periodo in cui io fui sindaco trovammo anche il modo di fargli avere dal Comune un
cospicuo contributo (che la Regione gli aveva negato) per lavori di restauro della chiesa
e dei locali parrocchiali.
In realtà, quello che spinse don Vincenzo a cacciarmi dalla parrocchia nel 1952 e poi, nel
1985, a ritrovare con me un rapporto di amicizia era, in tutte e due le circostanze, quel
suo carattere fortemente passionale che si esprimeva a volte in grandi atti di generosità e
altre volte invece lo rendeva preda di furie improvvise e violente e anche di risentimenti
profondi e duraturi.
Don Vincenzo aveva scommesso molto sulla mia vocazione e sul fatto che io arrivassi
fino al traguardo, e quando ciò non avvenne egli si sentì come tradito.
La sua reazione non fu immediata, ma questo non fece che rendere ancora più esplosivo
il rancore nei miei confronti che intanto si andava accumulando dentro di lui e che,
alla prima occasione, non poteva non deflagrare, e proprio nel modo assordante che ho
ricordato.
In seminario io ero uno dei seminaristi più promettenti: mi impegnavo sempre con
scrupolo e intelligenza nelle cose da fare, avevo buoni rapporti con gli altri ragazzi e
andavo bene negli studi, vinsi anzi quando passai nel seminario regionale, all’inizio
del primo liceo, addirittura un concorso di poesia con una lunga canzone di tipo
petrarchesco ispirata nel titolo al Faust (il titolo era infatti Margherita all’arcolaio)
e nei contenuti, oltre che al monologo disperato di Margherita davanti all’arcolaio,
sola nella sua stanza, alla canzone alla Vergine del Petrarca. Ricordo ancora la sera
in cui avvenne la premiazione per la conquista dell’alloro poetico: eravamo nell’aula
magna del seminario, ed erano presenti tutti, i seminaristi che frequentavano il liceo, gli
studenti di teologia, i professori e anche molti ospiti esterni!
La sua delusione quindi fu, per questo, ancora più cocente.
Ma io non potevo farci proprio niente, quel che mi spingeva sia pure in modo molto
confuso a lasciare il seminario aveva messo ormai radici così profonde dentro di me
che neppure per un istante, quando decisi di andarmene, fui toccato dal dubbio circa la
giustezza della scelta che stavo compiendo, una scelta tra l’altro, a ripensarci oggi con
il senno del poi, anche azzardata, visti i tempi, che poteva finire anche col perdermi.
Quando mi risolsi a un passo così impegnativo, non pensai anzi neanche per un momento
a queste cose e neppure mi preoccupai di come avrebbero reagito i miei genitori o la
gente, anche perché a quell’età si ha, per fortuna, sempre una grande fiducia in se stessi
e nel proprio avvenire, almeno io l’avevo.
La mia decisione obbedì soltanto alle mie ragioni più profonde, molto legate all’età ma
anche ad alcuni interrogativi che già allora, dopo l’inizio dello studio della filosofia,
cominciavo a pormi, e a porre anche agli altri: interrogativi che mettevano in discussione
tante certezze, compresa la scelta di entrare in seminario, compiuta cinque anni prima
quand’ero poco più che un bambino.
Dopo la mia cacciata dall’Eden, cominciai a frequentare il gruppo dei comunisti di
Orsogna, che non era particolarmente numeroso e non godeva a quel tempo neppure di
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un grande consenso elettorale.
In paese, i più forti a sinistra erano allora i socialisti, continuando una tradizione che
risaliva a prima del fascismo, poi vi era una notevole presenza repubblicana che sul
piano amministrativo si faceva addirittura maggioritaria rispetto alle altre forze politiche
locali, tanto è vero che il PRI ha amministrato il Comune dal 1946 (in questa occasione,
in coalizione con la DC) fino al 1960, i comunisti invece venivano al terzo posto e
ancora alle elezioni per la Camera dei deputati del 1953 essi superavano di poco i 200
voti, mentre i socialisti erano oltre i 1000 voti e i repubblicani oltre i 700.
Nonostante questa evidente debolezza rispetto al PSI e persino al PRI che, salvo alcune
isole (come Lanciano e, fino alla fine degli anni ‘50, appunto Orsogna), era altrove
debolissimo, la presenza dei comunisti era tuttavia ugualmente una presenza vivace che
però non riusciva a trasformarsi in consenso elettorale, principalmente per la mancanza
nelle loro fila di un leader locale forte e riconosciuto.
In genere, a quei tempi, la forza organizzata dai comunisti nelle sezioni, e di conseguenza
la composizione dei loro organismi direttivi sezionali e delle liste per le elezioni
amministrative, era fatta di contadini e lavoratori generici (rappresentavano la grande
maggioranza degli iscritti), artigiani, qualche commerciante e solo raramente qualche
professionista.
Certo non stava soltanto in questo la ragione degli scarsi consensi elettorali raccolti dai
comunisti a Orsogna come in tantissimi altri comuni dell’Abruzzo e del Mezzogiorno:
pesavano molto anche altri motivi, che in parte dovevano venir meno negli anni
successivi, in particolare pesava la forte chiusura settaria che allora li distingueva,
indotta anche dall’asprezza dei contrasti politici e sociali del tempo.
Bene, fu proprio con loro comunque che mi ritrovai a quel punto della mia vita. E non
nascondo che anche quel loro settarismo, almeno nei primi tempi, aveva su di me un
forte fascino perché lo consideravo come la necessaria espressione del rigore, della
coerenza e della determinazione indispensabili per portare a compimento una grande
impresa di trasformazione del mondo come, ai tempi della rivoluzione francese, era
avvenuto con Robespierre e Saint-Just (ho sempre avuto, anzi, una grande ammirazione
soprattutto per Robespierre, fino al punto da chiamare Massimiliano il nostro primo
figlio, con grande disappunto -ce lo confessò mia madre molti anni dopo- di mio padre
che si aspettava Domenico, com’era d’uso a quei tempi, mentre il secondo figlio lo
chiamammo Stefano perché era un nome che suonava bene e mi piaceva il suo significato
principale in greco: corona, serto, ghirlanda).
Per la verità, l’incontro con i comunisti di Orsogna non fu una mia scelta: furono
invece alcuni di loro, che avevano saputo dell’episodio accaduto in parrocchia, che mi
avvicinarono; ma io accettai subito e volentieri, così d’istinto, la profferta di amicizia
che essi mi fecero.
I comunisti all’epoca non godevano di buona fama, non solo tra i ceti bene dei nostri
paesi ma anche tra tanta parte del popolino, i peggiori da questo punto di vista erano
anzi i più poveri e i più ignoranti.
Tra i ceti popolari, a dire il vero, c’era anche molta gente in buona fede, convinta
tuttavia che comunque i comunisti andavano evitati e tenuti lontani, tanto che -poco
tempo dopo i fatti che ho ricordato- una brava donna che conosceva mia madre e che mi
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vedeva spesso assieme a noti comunisti del paese, un giorno incontrandola le si rivolse
tutta scandalizzata (e anche preoccupata) dicendole: A Marì (Maria era il nome di mia
madre), ma come! Chi lu bone fijje (che ero io) mo’ z’à messe ‘nghe li comuniste!, quasi
mi fossi lasciato intrappolare in una compagnia particolarmente pericolosa. Per fortuna
mia madre non si scompose e le replicò a tono: Mio figlio sa bene quello che fa.
In realtà però, da un certo punto di vista, quella compagnia era davvero pericolosa.
A quei tempi (e ancora, bisogna dire, nei decenni successivi, fino all’inizio degli anni ‘70)
le discriminazioni di ogni genere nei confronti dei comunisti facevano, senza scandalo
alcuno per la maggioranza della gente, parte del normale panorama dell’epoca.
Pio XII aveva perfino provveduto a scomunicare i comunisti e chiunque fosse loro alleato,
per cui è accaduto anche che qualche (rarissimo) parroco di paese, particolarmente
zelante, non ne ammettesse i figli alla cresima o alla comunione, riscuotendo però in
genere una diffusa disapprovazione perché allora si verificava anche questo, e cioè che
la repulsa nei confronti dei comunisti non si traduceva di solito mai in una disistima
verso i singoli. Spesso, anzi, capitava di sentir dire: E’ un bravo lavoratore; oppure: E’
un buon padre di famiglia, peccato che sia un comunista! Eh sì, anche questo erano
quei tempi…!
Fino a qualche anno prima, tuttavia, le cose in Italia non stavano in questo modo.
Durante la Resistenza e la lotta contro il fascismo e negli anni seguiti alla liberazione
dell’Italia dai tedeschi, c’era collaborazione tra le forze antifasciste e tutte assieme esse
erano al governo del Paese.
Le cose cambiarono all’indomani della rottura tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la
crisi dell’alleanza contro il nazi-fascismo che aveva consentito di sconfiggere Hitler e di
riportare la pace e la libertà in Europa e nel mondo. Era l’inizio della guerra fredda che
doveva portare alla divisione in due dell’Europa e del mondo per quasi mezzo secolo,
fino alla sconfitta dell’URSS e alla sua dissoluzione dopo la caduta del muro di Berlino
nel 1989.
Gli effetti di questa rottura seguirono a catena anche in Italia: i comunisti e i socialisti
furono cacciati dal governo, su sollecitazione degli Stati Uniti, e si determinò un clima
di contrapposizione frontale che ebbe il suo culmine nelle elezioni politiche del 1948.
Nel ‘48, a fronteggiarsi erano da un lato il Fronte popolare (socialisti e comunisti uniti),
con la testa di Garibaldi come simbolo, e dall’altro la DC, con quello dello scudo
crociato. La partita finì con la vittoria della DC, ottenuta soprattutto al Sud e grazie a
una mobilitazione straordinaria della chiesa, e la sconfitta del Fronte popolare che però
non solo non fu umiliato ma riuscì a raccogliere una messe di voti pari a oltre un terzo
dell’elettorato e che era maggioritaria in alcune grandi regioni del centro-nord.
I veleni del ’48, quando dei comunisti si diceva perfino che mangiavano i bambini (guarda
caso, si tratta della stessa accusa che tra i romani circolava nei confronti dei cristiani, ma
anche dei seguaci di altre religioni, nei primi tempi della diffusione del cristianesimo),
continuarono tuttavia ad agire in profondità anche nei decenni successivi.
Più in generale, poi, l’asprezza della lotta politica e sociale di quegli anni -le lotte per
il lavoro, gli scioperi a rovescio, la repressione scelbiana e i lavoratori ammazzati dalle
forze dell’ordine durante le lotte per rivendicare il lavoro o la terra-, a cui si aggiungeva
anche la violenza dello scontro a livello internazionale tra Stati Uniti e Unione Sovietica,
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non faceva che rendere ancora più incandescente il clima del Paese.
Tutto questo naturalmente non poteva non inoculare in strati larghi della popolazione,
anche tra persone del tutto aliene da simili eccessi, se non odio quanto meno una
diffidenza profonda e diffusa nei confronti dei comunisti. L’anticomunismo di quegli
anni è, anzi, penetrato così addentro nelle viscere della società italiana che esso per
molti aspetti agisce ancora oggi contro la sinistra, quando il PCI non esiste più e l’URSS
è ormai scomparsa da tempo.
L’incontro con il PCI significò naturalmente, in primo luogo, che cambiò la gente
che frequentavo e che nuove furono le mie amicizie come anche il modo di passare il
mio tempo: molte discussioni, soprattutto con Bonaldo, l’unico studente universitario
iscritto alla sezione, molte passeggiate per il bellissimo viale alberato che attraversa
longitudinalmente Orsogna (è la sede del vecchio tratturo, all’epoca della transumanza
delle greggi), molte partite a scopa e a tressette al bar di Casullo o alla cantina di
Staccone; e, tra passeggiate discussioni e partite a carte, incominciai pure a imparare le
cose, anche spicciole, della politica e del modo di far politica.
Il bar di Casullo, che oggi non c’è più (come anche la cantina di Staccone), si trovava
all’inizio del viale intitolato a Raffaele Paolucci, sulla destra per chi va verso la
stazione, a ridosso della grande piazza centrale di Orsogna, e affacciava direttamente
sul larghissimo marciapiede che accompagna il viale; ed era a quei tempi il luogo di
ritrovo dei comunisti e dei socialisti, mentre i democristiani e in genere la gente bene
frequentavano altri bar o l’Enal, il vecchio dopolavoro fascista, che disponeva di locali
ampi e accoglienti e che, per democratizzarsi e divenire un punto d’incontro per tutti, a
prescindere dal censo e dagli orientamenti politici di ciascuno, dovette aspettare ancora
più di un decennio.
All’epoca, infatti, ognuno aveva i suoi locali pubblici. E anche per questo i bar erano
molto frequentati, come anche alcune cantine (a Orsogna, oltre a quella di Staccone,
c’erano anche quelle di Ciccone e di Bacane) che resistevano ancora all’ondata
modernizzatrice del dopoguerra: anche perché non c’erano altri punti di ritrovo e, poi,
non era ancora arrivata la TV a rinchiudere la sera la gente in casa.
La TV da noi fece la sua comparsa tra il ’55 e il ’56 e, poiché solo pochissimi potevano
permettersi di avere un televisore in casa, il suo arrivo nei primi anni accentuò ancora di
più il ruolo dei bar trasformandoli in luoghi di ritrovo collettivi, con la presenza qualche
volta anche delle donne in occasione di programmi molto popolari.
Proprio per questa loro funzione, nei paesi i bar avevano quindi una grande importanza
anche dal punto di vista della politica locale: lì si veniva a conoscenza e si discuteva dei
fatti, pubblici e privati, accaduti in paese, lì si formavano opinioni e posizioni politiche
che poi giravano tra la popolazione, lì si decidevano molte volte anche le cose da fare
da parte dei partiti.
Dal punto di vista politico, parecchia importanza aveva a quei tempi anche quello che un
compagno di spirito, un po’ bizzarro ma simpatico, chiamava il controllo della piazza.
In genere, in piazza, soprattutto la domenica e i giorni di festa, si formavano numerosi
capannelli dove si discuteva di tutto, assai spesso anche di politica; e di solito, quando
era la politica a tenere banco, ai capannelli si accodavano molti curiosi che ascoltavano
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soltanto, senza partecipare alla discussione.
La piazza diventava perciò anch’essa, come i bar, uno dei punti cruciali per propagandare
le proprie idee e conquistare consensi, se si sapeva stare nei capannelli. A Orsogna,
anzi, il compagno spiritoso e bizzarro che ho prima ricordato teorizzava addirittura
come essenziale questa presenza per vincere le elezioni e comunque per tenere botta
nei confronti degli avversari: presidiare la piazza, insomma, come metafora di una delle
casematte da cui far partire e far arrivare messaggi tra il grosso pubblico!
I comizi in piazza erano naturalmente un’altra cosa; e spesso essi avevano veramente
una grandissima influenza sul risultato elettorale e nella formazione degli orientamenti
dell’opinione pubblica.
I comizi, infatti, all’epoca richiamavano quasi sempre un pubblico assai numeroso,
soprattutto durante le campagne elettorali, e la ragione era semplice: i comizi
rappresentavano una delle poche occasioni per la grande maggioranza della gente di
venire a conoscenza di fatti e cose che altrimenti avrebbe ignorato o attorno ai quali non
avrebbe saputo diversamente formarsi alcuna opinione.
Noi comunisti (non così gli altri partiti, soprattutto la DC che preferiva utilizzare altri
canali nel rapporto con la gente) ne tenevamo spesso anche durante l’anno, perché per
noi il comizio era uno strumento davvero fondamentale, così, ogni volta che vi erano
avvenimenti di grande rilievo nazionale o internazionale, si convocava il comizio; e di
solito c’era sempre una buona presenza di pubblico.
L’incontro con il PCI non cambiò soltanto le mie amicizie e i miei modi di vita. Esso
incise anche, e profondamente, sulla mia formazione, assieme agli studi che avrei
ripreso di lì a qualche mese frequentando il secondo anno del liceo classico a Lanciano,
e mutò alla radice i miei orizzonti culturali e di vita.
In altre parole, cominciai allora a percepire e comprendere cose che, pur avendole prima
ugualmente sotto gli occhi, tuttavia non avvertivo o non comprendevo, di conseguenza
una trasformazione radicale subì anche il mio rapporto con la vita di tutti i giorni e i
problemi della gente.
A provocare questa mia diversa sensibilità ebbe naturalmente la sua importanza
la vicinanza e anche la comunanza con gente che quotidianamente si scontrava con
problemi assillanti come quelli del lavoro o con condizioni di vita difficili per sé e la
propria famiglia.
A questa realtà intessuta fondamentalmente di miseria e fatica, ma anche di subalternità
culturale e politica nei confronti dei ceti dominanti, non sfuggiva del resto la mia stessa
famiglia e neppure quella dei miei parenti, ma solo adesso iniziavo a percepirla e viverla
in maniera diversa dal passato.
Cominciò così a maturare dentro di me, sia pure in modo assai vago e approssimativo,
un forte sentimento di protesta e di rifiuto di una società e di uno Stato che producevano
disuguaglianze e ingiustizie profonde e diffuse, soprattutto nel Mezzogiorno, di cui
all’epoca anche i nostri paesi portavano ben evidenti le stimmate: qui la secolare
arretratezza non solo economica e sociale ma anche culturale rispetto al resto dell’Italia
e la persistente incapacità delle masse popolari di sottrarsi al dominio dei gruppi
dominanti rendeva questo stato di cose ancora più intollerabile.
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Insomma, sia pure confusamente, cominciavo ad avvertire, come una esigenza morale
prima che politica, la necessità di combattere queste disuguaglianze e ingiustizie e
lottare per una società fondata su nuovi valori di uguaglianza e di libertà per tutti e non
solo per pochi; e man mano che si allargava la mia conoscenza, anche attraverso nuove
letture, delle idee di fondo che muovevano i comunisti e del ruolo che essi stavano
giocando nella vita del Paese e del mondo, a partire dalla rivoluzione russa dell’ottobre
1917, mi convincevo sempre di più che l’unica forza in grado di cambiare in maniera
radicale e definitiva questo stato di cose era appunto quella comunista.
La verità è che il ruolo e l’influenza dei comunisti nella vita dell’Italia andavano, in
quegli anni, crescendo sempre di più; e sempre di più essi diventavano il punto di
riferimento, oltre che delle masse operaie e lavoratrici, anche delle forze più vive e
innovative della cultura italiana: stavano diventando insomma, sia sul piano politico e
culturale che delle grandi battaglie civili e sociali che segnarono la storia dei primi anni
‘50 in particolare nel Mezzogiorno, i protagonisti principali e più determinati di quel
vasto movimento che si batteva per trasformare e rendere più moderna e giusta l’Italia.
La stessa storia elettorale di quegli anni, che vede il sorpasso, divenuto poi stabile e
definitivo, dei comunisti rispetto ai socialisti, ne è la testimonianza.
All’indomani della liberazione, nelle prime elezioni del dopoguerra, il Partito socialista
riscuoteva ancora un consenso elettorale assai più elevato di quello che andava ai
comunisti, ma già con le elezioni del ’48 il rapporto di forza tra i due partiti della
sinistra, alleati tra di loro attraverso il patto di unità d’azione, era mutato a vantaggio
dei comunisti; e ciò fu solo l’inizio di un processo che doveva portare il PCI a diventare
di gran lunga il più forte partito della sinistra italiana e anche il più forte dei partiti
comunisti dell’Occidente.
Tutto questo non avvenne naturalmente per caso, ma fu il frutto sia del ruolo svolto
dai comunisti nella lotta contro il fascismo e durante la Resistenza sia, all’indomani
della liberazione, della grande coerenza, ma anche realismo, che contraddistinse il loro
impegno nella battaglia per la conquista della Repubblica e della Costituzione e per la
costruzione di uno Stato fondato sulla democrazia e sulla partecipazione.
Questo ruolo dei comunisti fu possibile grazie alla riflessione di Antonio Gramsci negli
anni del carcere e, poi, per le scelte compiute, anche (e forse soprattutto) grazie a questa
riflessione, da Palmiro Togliatti, dopo il suo rientro in Italia, a partire da quella che fu
chiamata la svolta di Salerno.
Togliatti, sta qui forse il suo merito più grande, fece del PCI un partito profondamente
nazionale, anche se legato nello stesso tempo all’URSS e al movimento comunista
internazionale; e ne fondò la peculiare funzione nella vita dell’Italia moderna puntando
essenzialmente sulla prospettiva della costruzione di una democrazia avanzata e
partecipata, assai lontana -anzi in contrasto- dai modelli che si erano imposti nei Paesi
controllati dall’Unione Sovietica, con una caratterizzazione della presenza del PCI anche
come grande movimento culturale, oltre che politico, le cui radici risalivano fino alle
migliori tradizioni delle correnti progressiste e di sinistra del Risorgimento italiano.
La scoperta del PCI da parte mia avvenne dunque in una temperie culturale e politica
sempre più fortemente segnata dalla presenza dei comunisti e nel contesto di una realtà
difficile e anche per certi aspetti drammatica quale era allora quella del Mezzogiorno e
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dello stesso Abruzzo; e tutto ciò non poteva non portarmi a compiere, in primo luogo,
la scelta di militare attivamente nel partito e successivamente le altre scelte, ancora più
impegnative, che poi ho compiuto.
Sono convinto che, a spingermi in questa direzione, ha avuto la sua importanza anche
quella tensione morale che mi portò, essendo poco più che un bambino, a entrare in
seminario e che segnò comunque la mia esperienza di seminarista, esperienza che
mi è sempre rimasta dentro come un aspetto nient’affatto marginale del mio modo di
essere.
La stessa decisione di diventare funzionario di partito o, meglio, per usare l’espressione
del tempo, rivoluzionario di professione, ha probabilmente anch’essa il suo punto di
partenza proprio in questa esperienza, soltanto che questa volta il terreno scelto per
il mio impegno totale a servizio di una grande idea di trasformazione della società
riguardava non più un mondo fuori del tempo e della storia ma il concreto mondo degli
uomini, con tutte le loro aspirazioni e i loro problemi anch’essi molto concreti.
Giorgio Amendola, in un suo libro molto bello del 1976, definì nel titolo stesso del libro,
Una scelta di vita, il senso più profondo della duplice scelta che un grande intellettuale
come lui ebbe il coraggio di fare negli anni difficili della clandestinità: la scelta del PCI,
lui figlio del liberale Giovanni Amendola morto a seguito di una aggressione subìta dai
fascisti, e quindi quella di funzionario del PCI clandestino, nell’Italia ancora sotto il
tallone del fascismo.
Quella definizione fa emergere appunto, con grande forza, il senso di un impegno che
coinvolgeva, in tutti i suoi aspetti e in modo totale, la vita di chi la compiva, votandola a
una causa collettiva a scapito di una prospettiva tutta individuale, e che richiedeva perciò,
proprio per questo, una grande tensione morale, oltre che una grande consapevolezza
politica e ideale.
Negli anni più recenti qualche intellettuale, anche di sinistra, ha rilanciato, nei confronti
dei funzionari di partito, polemiche per la verità non nuove tentando di rappresentarli
come uomini votati solo a difendere in ogni modo il potere e individuando in essi uno
degli ostacoli principali al rinnovamento della sinistra.
L’accusa è profondamente ingiusta e caricaturale. Anzi, credo di poter rivendicare con
orgoglio il valore politico e ideale di questa scelta della mia gioventù, proprio alla luce
del grandissimo contributo dato dai comunisti al progresso civile e sociale dell’Italia,
e come me possono farlo quei tanti che in ogni parte del Paese compirono una identica
scelta.
Certo, oggi non ha più senso un partito con le caratteristiche avute dal PCI, perché i
tempi richiedono un partito più agile e flessibile, ma ciò non inficia in nessun modo il
grande ruolo svolto dai funzionari di partito -che costituivano l’ossatura fondamentale
dei gruppi dirigenti del PCI- sia nella storia del comunismo italiano che in quella
dell’Italia negli ultimi cinquanta anni del XX secolo.
Senza di loro, difficilmente il PCI sarebbe diventato il grande partito che è diventato e
altrettanto difficilmente il suo ruolo nella storia dell’Italia moderna e nella promozione e
rinnovamento della democrazia italiana sarebbe stato dell’importanza che conosciamo.
Ostacoli al rinnovamento della sinistra?
Finché le condizioni storiche nazionali e internazionali ne hanno consentito la esistenza,
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è innanzitutto ad essi che il PCI deve la sua capacità di rinnovare via via i contenuti,
anche culturali, della sua politica e del suo rapporto con il popolo italiano. Se poi, però,
com’è probabile, per rinnovamento della sinistra si intendono prospettive politiche e
culturali che volta a volta, nei cinquanta anni trascorsi, hanno agitato pezzi della sinistra
ma che la storia stessa ha puntualmente sconfitto, è chiaro allora che il discorso diventa
un altro!
Ma poi, chi erano veramente i funzionari di partito?
Essi erano, allo stesso tempo, impiegati, dirigenti politici, agitatori sociali, propagandisti,
ecc., insomma intellettuali organici, come si diceva una volta, che mettevano a
disposizione del partito e della causa per la quale lottavano tutte le proprie capacità
intellettuali e di lavoro e la propria cultura.
Per giunta, essi conducevano una vita assai grama dal punto di vista della loro condizione
economica, anzi fino a quasi l’inizio degli anni ’60 molte volte non disponevano neppure
dei soldi necessari per soddisfare le esigenze più elementari proprie e delle loro famiglie
(chi lo farebbe oggi?), sobbarcandosi fatiche enormi di notte e di giorno per far crescere
l’Italia e migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle classi più deboli e per costruire
e consolidare la presenza del partito sul territorio, rischiando qualche volta anche la
galera per ragioni politiche, come ad esempio accadeva ai tempi di Scelba.
Tutto questo poteva nascere solo da una carica morale e ideale non comune e forse, a
ripensarci bene, essi oggi avrebbero diritto a qualche ringraziamento sia per ciò che
hanno dato alla sinistra italiana sia per quel che hanno dato all’Italia!
Questo radicale cambiamento nella mia vita e nella mia visione del mondo non si
verificò naturalmente nel giro di qualche giorno.
Esso fu il risultato di un processo lungo, anche segnato da spinte e aspirazioni a volte
confuse e contraddittorie, alimentato e scandito sia dall’esperienza fatta giorno per
giorno a contatto con i problemi, anche minuti, della gente e successivamente nel
concreto dell’attività politica, sia dallo sforzo compiuto per cercare di chiarire e dare un
senso anche teorico alle ragioni che mi avevano portato a compiere la scelta del PCI.
All’epoca, nelle sezioni del PCI era possibile trovare piccole biblioteche, nelle quali
erano presenti soprattutto edizioni della Universale Economica e delle Edizioni
Rinascita (di esse, io conservo ancora oggi molti volumi, un po’ ingialliti e qualche
volta anche malridotti dal tempo).
C’erano anche opuscoli provenienti direttamente da Mosca, si trattava in genere
di scritti di Lenin e Stalin e altri marxisti russi, stampati a Mosca nelle varie lingue
appositamente per l’estero.
Le Edizioni Rinascita erano invece direttamente legate al PCI e pubblicavano testi
di Marx, Engels e di dirigenti del movimento comunista internazionale, mentre la
Universale economica pubblicava autori di cultura progressista e rivoluzionaria; in
particolare nella serie rossa, dedicata alla storia e alla filosofia, era possibile acquistare
a prezzi bassissimi opere fondamentali nella storia della moderna cultura rivoluzionaria
e progressista dell’Europa.
Naturalmente non è che fossero in molti, nelle sezioni del PCI, quelli che approfittavano
della presenza di queste piccole biblioteche, perché la quasi totalità degli iscritti a quei
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tempi poteva vantare sì e no la quinta elementare e, poi, c’erano comunque la durezza
del lavoro che ti aspettava il giorno dopo e la fatica di doversi alzare all’alba, solo
qualcuno perciò, tra i più giovani, ogni tanto si riportava un libro a casa e tentava di
leggerlo, scontando grosse difficoltà.
Io fui comunque tra quelli che approfittarono subito della esistenza di queste piccole
biblioteche, perché avevo il tempo per farlo, spinto tra l’altro da un’ansia di conoscenza
che era stata sempre molto forte dentro di me: i libri mi hanno sempre incuriosito, sin
da piccolo, anche se non potevo comprarli, poterne disporre ora senza avere il problema
di acquistarli rappresentava per me una vera fortuna.
A soddisfare questa mia esigenza, potei anche giovarmi della generosità di un compagno
romano, il geometra Raffaele Rossi, approdato proprio in quegli anni a Orsogna, dove
poi si stabilì con la famiglia, al seguito della ditta edile con la quale lavorava.
Rossi mi regalò in pratica tutti i libri “politici” che possedeva: ne erano parecchi, debbo
dire, ed essi rappresentarono il primo nucleo, sia pur ridottissimo, di una mia personale
biblioteca al quale si aggiunsero via via i libri che cominciai a comprare proprio in
quegli anni (tra questi, anche molti libri di letteratura pubblicati dalla BUR a prezzi
accessibili), e che incrementai poi in maniera costante nel tempo fino a mettere in piedi
una biblioteca ragguardevole quale quella che oggi mi ritrovo.
Mi potei accostare così a testi che per me erano del tutto nuovi e che di fatto hanno
costituito il punto di partenza e la base della mia formazione culturale successiva,
assieme al nutrimento che mi è venuto dall’incontro negli anni del liceo, sempre poi
rinnovato nel tempo, con la grande cultura classica greca e latina e quella italiana
naturalmente, ma anche con altre culture, europee e non, soprattutto antiche.
Quelle letture mi spalancarono un mondo nuovo, inedito per me che avevo alle spalle
la esperienza del seminario.
Negli anni del seminario, l’insegnamento che avevo ricevuto era in realtà un insegnamento
molto chiuso e povero di contenuti.
Che io ricordi, non esisteva nel seminario diocesano, dove avevo frequentato le scuole
medie e ginnasiali, una biblioteca; e i libri a nostra disposizione erano solo quelli di
scuola.
Tra questi, ricordo che prediligevo in particolare le antologie di poeti e scrittori italiani
che mi permettevano di avere una qualche conoscenza diretta della nostra letteratura,
mi piacevano poi l’Iliade (tifavo, come tutti, ovviamente per Ettore, lo sfortunato
difensore di Troia) e l’Odissea della quale mi ha sempre affascinato il fondamentale
tono favolistico, per il resto ci dovevamo accontentare delle nozioni che ci forniva
l’insegnamento scolastico.
Io ho cominciato, ad esempio, a leggere -ma di nascosto- un romanzo quando frequentavo
ormai non rammento bene se il primo o il secondo ginnasio.
Si trattava de L’innocente di D’Annunzio, una lettura proibitissima e che io avevo
acquistato, approfittando di una delle nostre solite passeggiate in gruppo per la città,
alla libreria Minerva che allora si trovava in piazza della Trinità a Chieti: lo tenevo
naturalmente sotto il materasso e ne leggevo qualche passo nelle ore più diverse ma
sempre stando attento a non farmi cogliere sul fatto, aiutato in questo anche dalla
complicità dei compagni di camerata.
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Anche sul piano dell’insegnamento religioso, non è che le cose andassero meglio.
In realtà non avevamo un insegnamento specifico, tutta la nostra formazione religiosa era
affidata alla partecipazione giornaliera alle varie funzioni liturgiche e, all’ora di pranzo
e di cena (durante i pasti, si restava in silenzio, salvo la domenica e i giorni festivi),
alla lettura di passi del vangelo, delle vite dei santi e del martirologio che raccontava
la vicenda tragica ma esemplare dei martiri cristiani caduti sotto le persecuzioni degli
imperatori romani.
Io personalmente possedevo, e tuttora posseggo, una bellissima edizione latina del
Nuovo Testamento.
Essa mi era capitata tra le mani appena dopo, con la fine della guerra, il nostro ritorno
in paese, rovistando per caso tra i libri sparsi per terra (dai tedeschi, prima di scappare?
O da qualcuno, alla caccia non certo di libri, che aveva pensato bene di approfittare del
caos che c’era in quelle settimane a Orsogna?), nell’atrio di un palazzo signorile del
paese, il palazzo Parladore, che si trovava a due passi dalla scalinata della chiesa di S.
Nicola, sul lato opposto della strada.
I libri erano tanti, probabilmente solo una piccola parte di una biblioteca molto ricca
soprattutto di testi di argomento religioso, ma io mi limitai a raccogliere soltanto quel
piccolo volume che mi sembrava, ed era, di particolare interesse.
(Ne La vergine Anna, una delle Novelle della Pescara, D’Annunzio accenna due o tre
volte a un arcivescovo di Orsogna: probabilmente si tratta di Livio Parladore, vissuto
nell’Ottocento, che fu vescovo di S. Marco e Bisignano in Calabria; il nome dei Parladore
è poi legato a una cappella mortuaria nella quale erano sepolti il vescovo e altri preti
della famiglia, conosciuta da tutti in paese come lu casine di Munsignore: prima della
guerra, la cappella si stagliava tutta sola nel bel mezzo della campagna, lungo la statale
per Ortona e a poche decine di metri da essa, ma la guerra l’ha letteralmente cancellata
e oggi non ne rimangono che pochi resti informi).
Il mio Nuovo Testamento era una edizione di fine ‘800, di formato tascabile, così me
lo potevo portare dietro quando andavamo in chiesa e leggerlo durante le funzioni
religiose.
Amavo in particolare leggere i vangeli dei quali mi è sempre piaciuto lo stile semplice,
diretto, immediato e comprensibile a tutti, ma ero molto sedotto anche dall’Apocalisse;
dei vangeli poi mi affascinavano soprattutto alcuni passi come, ad esempio, l’inizio del
vangelo di S. Giovanni e le bellissime parabole.
Ma queste letture, che ho coltivato anche dopo l’uscita dal seminario e l’abbandono di
ogni credenza religiosa, erano tuttavia un fatto mio personale, non un obbligo, frutto
innanzitutto della grande curiosità che mi portava a leggere tutto quello che trovavo.
Anche il fatto che la vita che conducevamo da seminaristi si svolgesse sostanzialmente,
anche quando eravamo in vacanza, fuori di un rapporto con la vita reale della gente, non
contribuiva certo a stimolare in noi la esigenza di formarsi una visione più ampia del
mondo; e nessuno del resto, che io ricordi, ci spinse mai a letture che andassero fuori
dei tradizionali testi scolastici.
Qualche sollecitazione in questo senso mi parve di coglierla all’inizio del liceo, quando
iniziammo lo studio della filosofia, non so dire però quanto questa mia impressione
fosse fondata perché non ebbi neppure il tempo di verificarla.
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La nostra giornata, in sostanza, si svolgeva tutta dentro il seminario, sia fisicamente che
intellettualmente; e i nostri orizzonti culturali e religiosi non ne ricevevano certo un
arricchimento, come anche il nostro rapporto con la realtà.
Ricordo, ad esempio, che ogni giorno, il pomeriggio, facevamo una passeggiata per
la città, ma tutti in gruppo naturalmente e senza alcun contatto con i ragazzi che
incontravamo per strada, seguendo di solito percorsi scarsamente frequentati; di
domenica e negli altri giorni festivi si stava invece fuori più tempo e spesso andavamo
a giocare a calcio nella vecchia caserma Berardi, in quegli anni utilizzata per ospitare i
senza tetto, ma anche in quel caso i contatti con l’esterno erano inesistenti, giocavamo
solo tra di noi.
Di quel periodo, anzi, ricordo solo, come un avvenimento davvero straordinario e fuori
dalla routine a cui eravamo abituati, il giorno che fummo portati ad assistere a uno
spettacolo teatrale nel piccolo teatro, di proprietà del seminario, che si trovava lungo
il Corso Marrucino, a poca distanza dall’incrocio con Via Arniense. Non so più di che
spettacolo si trattasse, ricordo però che esso mi colpì particolarmente, soprattutto mi colpì
la giovane attrice la cui immagine mi tornava frequentemente alla mente nelle settimane
successive (era l’adolescenza che reclamava i suoi diritti), sia pure accompagnata da
molti sensi di colpa.
Il primo libro che lessi, tra quelli dei quali ora potevo disporre, forse solo per caso o forse
anche perché spinto da una voglia inconscia di fare i conti con un aspetto decisivo della
mia precedente esperienza, fu L’essenza del cristianesimo di L. Feuerbach, pubblicata
dalla Universale Economica.
A dire il vero, già nei mesi immediatamente precedenti il mio abbandono del seminario
erano andati maturando in me dubbi molto forti circa i fondamenti stessi delle mie
convinzioni religiose, la lettura di Feuerbach trovò così un terreno già in parte arato e
disposto a ricevere la nuova semente.
Di questi dubbi ricordo anche che parlavo apertamente con gli altri ragazzi, la cosa anzi
preoccupò a tal punto i responsabili del seminario che, quando dissi loro che non mi
sentivo più la vocazione e pensavo di andare via, non mi invitarono neppure a riflettere,
come di solito accadeva in questi casi.
Mi intimarono invece -senza alcuna possibilità di ripensamenti- di lasciare subito il
seminario, non dandomi neanche il tempo di avvertire i miei genitori. Penseremo noi a
questo, mi dissero, e così avvenne: tramite il parroco di Orsogna, informarono i miei del
mio ritorno e, quando scesi dal pullman, trovai mio padre che mi aspettava in piazza e
mi aiutò a riportare a casa le mie poche cose.
Insomma, già nelle ultime settimane della mia permanenza in seminario non ero più
quello di un tempo, e di questo fatto si erano resi conto anche quelli che mi stavano
attorno, innanzitutto i miei compagni; e forse fu proprio questo, e il fatto che certamente
se ne parlò anche dopo la mia andata via, che mi rese addirittura protagonista di un
romanzo, scritto qualche anno dopo, da un mio compagno di vocazione, Cesarino Di
Giovanni, che però aveva lasciato il seminario prima di me, alla conclusione del quinto
ginnasio.
Il romanzo si intitolava Un ateo in seminario, e di esso appunto io avrei ispirato il
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personaggio principale, come mi disse non ricordo bene se l’autore stesso che poi ho
perso completamente di vista o qualche altro che aveva letto il romanzo.
Io purtroppo, pur avendolo cercato anche in tempi recenti, non sono mai riuscito a
entrarne in possesso e quindi a leggerlo, la cosa anzi mi incuriosisce ancora oggi, spero
comunque che il mio compagno di un tempo, rimasto legato agli ambienti ecclesiastici
anche dopo la crisi della sua vocazione, non mi abbia trattato molto male.
Dopo Feuerbach, ho letto naturalmente anche gli altri opuscoli che si trovavano
nella bibliotechina della sezione o che mi erano stati regalati dal mio amico romano,
soprattutto Marx, Engels, Lenin, Stalin, ecc., ma anche Voltaire, Diderot e altri autori
del periodo dell’illuminismo come delle correnti rivoluzionarie pre-marxiste.
Tra gli autori che ho letto in quel periodo non c’era però Gramsci: solo negli anni
seguenti ho potuto leggere i Quaderni del carcere (come anche le bellissime Lettere dal
carcere), nella edizione tematica fattane da Einaudi.
Tra i volumetti a mia disposizione e che lessi in quel periodo c’era invece, ma non sono
molto sicuro del ricordo, La questione meridionale, una raccolta di scritti di Gramsci
sulla questione meridionale risalenti a prima del 1926, a prima cioè del suo arresto
da parte dei fascisti e la condanna al carcere che lo portò alla morte nel 1937, il più
importante dei quali -Alcuni temi della questione meridionale- lasciato incompiuto
proprio a seguito dell’arresto.
Ad accostarmi negli anni successivi alla riflessione di Gramsci, compiuta durante gli
anni terribili della prigionia, una particolare sollecitazione mi venne dagli esiti dell’VIII
Congresso nazionale del PCI.
Il Congresso, che si svolse nel dicembre del 1956, appena dopo i tragici fatti d’Ungheria,
partendo proprio dalla riflessione gramsciana seppe trarre da questi fatti forse l’unica
lezione possibile in quegli anni di netta divisione del mondo in due blocchi contrapposti:
il rifiuto dello stalinismo da un lato, la scelta della strategia della via italiana al socialismo
dall’altro.
Ma fu soprattutto la partecipazione, nel 1958, a un corso di formazione politica -presso
la scuola centrale per quadri del PCI- a spingermi a conoscere meglio e in modo più
approfondito il pensiero di Gramsci, uno dei più grandi pensatori italiani del ‘900.
In queste mie letture non c’erano, per la verità, né un metodo né delle priorità, come
sicuramente sarebbe stato utile; per ragioni anche facilmente comprensibili, sono
stato anzi piuttosto un autodidatta, nonostante questo però quel mio primo contatto
con il pensiero marxista, nelle sue varie espressioni e peculiarità, e in genere con la
cultura progressista e rivoluzionaria soprattutto europea, ha comunque rappresentato
un momento fondamentale della mia formazione intellettuale e culturale, che si è poi
consolidata e arricchita negli anni successivi.
Oggi è difficile trovare, tra i giovani, qualcuno che abbia, non dico la passione che
abbiamo avuta allora noi, ma quantomeno la curiosità per un complesso di idee così
ricco e storicamente fecondo, che ha influenzato e orientato le scelte, non solo di singoli
e di grandi gruppi, ma anche di popoli e addirittura di Stati nel corso di tutto il XX
secolo.
Il tracollo, sul finire del ‘900, dell’URSS e degli altri paesi del cosiddetto socialismo
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realizzato hanno travolto non solo una esperienza storica quale quella aperta, in Russia,
dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 e successivamente, nei paesi dell’est europeo, dalla
conclusione vittoriosa della seconda guerra mondiale che vide l’URSS tra le potenze
vincitrici, ma anche quei movimenti, come il comunismo italiano, che avevano cercato
e percorso strade diverse, e lo stesso pensiero di Marx e tante delle idee che ci vengono
dall’illuminismo e da altre correnti progressiste del pensiero europeo.
Eppure, ancora oggi, in un mondo globalizzato nel quale le ingiustizie e le disuguaglianze
hanno raggiunto livelli inediti e colpiscono la grande parte del pianeta, quelle idee, se
sfrondate da ciò che in esse vi è di caduco e di sbagliato, possono tornare ancora utili
per capire ciò che accade e quale strada imboccare per uscirne.
In ogni modo, per me come per le tante generazioni del ‘900 che a quelle idee si sono
accostate, esse hanno avuto il merito enorme di averci aiutato a conquistare diritti e
tutele che i nostri nonni e i nostri padri neppure si sognavano, contribuendo così in
maniera decisiva a farci vivere in una Italia più moderna e civile.
L’esito catastrofico del comunismo sovietico non cancella perciò in nessun modo il
fatto che tanta parte dei progressi conosciuti dalle masse lavoratrici nel XX secolo, così
come la liberazione di interi popoli dal giogo del colonialismo, si deve proprio a quelle
idee e alle lotte di emancipazione, che ne sono nate, di popoli e individui.
A voler essere onesti, anche la esperienza sovietica, che da quelle stesse idee è nata, in
realtà non era sbagliata nei suoi obiettivi di fondo: la incapacità di coniugare democrazia
e uguaglianza, ecco il punto debole, e il tarlo che ne ha provocato la rovina, di questa
esperienza grandiosa e tragica del XX secolo che ha visto l’URSS e altri paesi tentare di
costruire società e Stati che ispirassero la propria esistenza e la propria ragion d’essere
al bisogno di libertà e uguaglianza di grandi masse di sfruttati e di oppressi.
Da questo punto di vista, anzi, è avvenuto qualcosa di particolarmente paradossale,
la trasformazione cioè nel loro contrario di quelle stesse idee di libertà e uguaglianza,
con la conseguenza di tragedie inenarrabili che non possono certo essere dimenticate o
taciute.
Ma, ciò nonostante, io resto convinto che la sinistra non può non ripartire ancora una
volta da esse, liberandosi naturalmente con coraggio e in modo chiaro e definitivo degli
errori e delle storture che l’hanno portata nei decenni che stanno alle nostre spalle ad
approdi non solo fallimentari ma anche pericolosi.
Mi rendo conto che queste considerazioni possono suonare un po’ estranee e anche,
forse, un po’ troppo interessate, le cose di cui parlo sono state infatti la mia vita. Ma non
è così, o meglio non è solo così, c’è bisogno che, prima o poi, una sinistra che voglia
tornare al centro della storia dell’Italia e, oggi, dell’Europa, ripercorra con spirito di
verità questo suo passato e sappia utilizzarlo anche per il futuro.
L’idea, ad esempio, che ha mosso alcuni dei protagonisti, molto vicini ad Occhetto,
della trasformazione del PCI in PDS, che l’unico modo per rilanciare la sinistra era
quello di ricominciare da capo, facendo tabula rasa non solo della ideologia comunista
ma anche della stessa esperienza storica del PCI, non è stato solo un suicidio politico
che ha disperso gratuitamente un patrimonio di lotte e di diritti conquistati di cui i
comunisti italiani sono stati protagonisti ma anche il modo peggiore per fare i conti con
la propria storia e aprire un capitolo nuovo.
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Con lo stesso spirito credo che la sinistra, e in generale le forze progressiste, debbano
guardare ad altri aspetti del proprio passato, ugualmente importanti per una nuova
crescita democratica dell’Italia. Parlo soprattutto del ruolo avuto dai partiti di massa
nella costruzione di una Italia democratica e moderna.
La storia dei partiti di massa, se ci si riflette bene, in realtà fa tutt’uno con la storia di
progresso conosciuta dall’Italia nella seconda metà del ‘900.
Eppure, anch’essi sono finiti nel mirino di chi -compresi anche certi settori della
sinistra- ha pensato di poter costruire sulle rovine del sistema politico italiano uscito
dalla Resistenza e sancito dalla Costituzione repubblicana le proprie fortune.
In discussione non è il fatto che i partiti di massa, che sono stati un fenomeno tipico del
‘900, abbiano ormai esaurito la propria funzione storica, a causa non solo di un mondo
profondamente cambiato ma anche dei vizi e delle interne contraddizioni che ne hanno
minato la credibilità dal di dentro.
Il fatto inaccettabile è che si tenti di negare il ruolo grandemente positivo che essi hanno
avuto, sia pure da versanti politici diversi e anche contrapposti, nel fare dell’Italia un
paese moderno e progredito, con l’obiettivo, financo proclamato, di rendere marginale
nella situazione attuale il ruolo che ancora una volta, sia pure in condizioni diverse
e in forme rinnovate, solo i partiti possono svolgere per difendere e consolidare la
democrazia italiana.
Dietro questi tentativi c’è poi, oltre che una visione sbagliata e pericolosa delle forme di
organizzazione della democrazia e della partecipazione dei cittadini alla politica, anche
una mistificazione sul piano più strettamente storico.
Che cosa, infatti, sono stati veramente i partiti del ‘900, dei quali molti oggi parlano con
disprezzo e sufficienza cercando di identificarli e di ridurli a puri strumenti di potere e
di corruzione come se il segno distintivo della loro presenza nella vita del Paese fosse
tutta e solo racchiusa dentro la stagione di Tangentopoli?
In realtà, essi sono stati molto di più che la semplice rappresentanza, dentro le istituzioni,
di interessi e aspirazioni dei ceti che organizzavano. Se fossero stati solo questo, il loro
ruolo ne sarebbe risultato assai meno importante di quel che storicamente è stato.
I partiti di massa, almeno fino all’inizio degli anni ’80, quando si avvertono i primi
scricchiolii di una crisi che doveva poi esplodere in maniera violenta e distruttiva negli
anni ’90, hanno rappresentato il motore e l’architrave della democrazia italiana, lo
strumento decisivo non solo per il riscatto di grandi masse oppresse e sfruttate ma
anche per la formazione di una coscienza civica e democratica degli italiani che, non
dimentichiamolo, uscivano dall’esperienza del fascismo.
Essi, anzi, sono stati anche altro, con ricadute anche da questo punto di vista non meno
rilevanti e positive per la crescita dell’Italia.
Parlo innanzitutto del fatto che i partiti di massa del ‘900 hanno rappresentato il luogo
privilegiato per la formazione, fuori di ogni selezione affidata al censo e all’appartenenza
a ceti benestanti, delle nuove classi dirigenti del Paese e, inoltre, il tramite principale
per l’apertura dell’Italia al mondo e a una visione non meschina e ristretta dell’interesse
nazionale.
Parlo anche del fatto che essi sono stati il vero punto di coesione e di raccordo di un
Paese sempre percorso da contraddizioni profonde e da una dialettica vivace e qualche
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volta anche da scontri violenti tra idee, posizioni e interessi assai divergenti tra loro.
Naturalmente, a questo ruolo primario e complesso nella storia italiana più recente i
singoli partiti hanno corrisposto in maniera diversa l’uno dall’altro, e sta alla ricerca
storica individuare e definire i modi e i contenuti del contributo specifico che ciascuno
di essi ha portato allo sviluppo economico sociale e civile dell’Italia nell’ultimo mezzo
secolo.
Ma, è questo il punto irrinunciabile, nessuno -pur nella ricerca di limiti ed errori anche
gravi- può cancellare questo ruolo, sia per onestà verso il passato sia nell’interesse del
futuro stesso dell’Italia.
Credo, tra l’altro, che, in quel che hanno rappresentato i partiti nella storia nazionale
degli ultimi cinquant’anni, vi sia anche un aspetto forse meno rilevante dal punto di
vista politico ma sicuramente molto importante sul piano della vita individuale e di
gruppo di tanta parte del popolo italiano.
Gli iscritti ai partiti in Italia sono stati milioni, certo per molti l’impegno politico non
andava al di là della semplice iscrizione, per tutti però il partito era, oltre che un punto di
riferimento elettorale, anche una rete che ha consentito e favorito l’intrecciarsi di storie,
rapporti, solidarietà e l’affermarsi del senso di una comune appartenenza a un mondo
di valori condivisi, a una comunità solidale la cui importanza andava ben al di là della
politica e che ha inciso profondamente sul grado di coesione della società italiana.
Questo è stato vero, poi, soprattutto per il PCI che, più degli altri partiti di massa del
‘900, anche per le sue caratteristiche di forza fortemente ideologizzata, ha esaltato questa
sua funzione di comunità solidale dove si sono intessute amicizie, relazioni personali e
di gruppo, amori, ecc.
Se debbo essere sincero, io ho molto sofferto per lo scioglimento del PCI e di ciò che
poi ne è seguito. Non che non fosse giusta e necessaria quella scelta che io ho condiviso
e per la quale anzi mi sono battuto, era una scelta inevitabile, imposta dalla storia.
Il modo però come essa è stata fatta e portata avanti grida ancora vendetta; e le lacerazioni,
le rotture e persino le scissioni che ne sono derivate, oltre a favorire la dispersione
silenziosa di una grande massa di iscritti ed elettori, ha avuto effetti davvero devastanti
anche sulla nuova immagine della sinistra, ben distante nel suo modo di essere attuale
dalla caratteristica di comunità viva e solidale che è stata incarnata dal PCI.
Ognuno di noi, semplici iscritti o dirigenti, a un certo punto si è ritrovato come orfano:
scomparivano i luoghi e le tante occasioni di incontro che il PCI aveva sempre saputo
creare, tanta gente si perdeva definitivamente di vista, soprattutto si rompeva quel
legame di solidarietà che è sempre stato un grande punto di forza del PCI e dei suoi
gruppi dirigenti.
E’ capitato anche a me di dover ricostruire una rete di amicizie, fuori dell’ambiente
-quello del partito- che per decenni era stato quasi il mio unico punto di riferimento,
perché i vecchi rapporti o si erano definitivamente logorati o si erano come volatilizzati,
c’era chi aveva preso strade diverse o semplicemente si era tirato fuori dalla politica ed
era tornato a casa.
A volte, quando penso alla dissipazione insensata che è stata fatta, oltre che di un
grande patrimonio politico e ideale qual è stato quello del PCI, anche di tante energie e
intelligenze e della straordinaria rete di solidarietà e relazioni costruita nel corso di circa
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un cinquantennio, mi vengono alla mente i bellissimi versi della Dedica, soprattutto
alcuni suoi passaggi, che Goethe premette al Faust (attingo alla bella traduzione in
prosa, del 1835, che ne fece il patriota e letterato italiano Giovita Scalvini).
Mi assale allora la stessa struggente nostalgia che pervade quei versi, quel senso della
perdita e della impossibilità del ritorno di ciò che non è più che di essi costituisce la
trama essenziale. E così anch’io allora mi sento preso da rimpianti e malinconie, mentre
mi passano davanti agli occhi tantissime immagini di quegli anni della mia vita che si
sono strettamente intrecciati con la storia del PCI:
Voi mi tornate innanzi aeree immagini, già un tempo apparse al turbato
mio sguardo. Tenterò ora di rattenervi? Propende ancora il mio cuore a
quella illusione? Voi vi stringete intorno a me…Spira da voi un’aura
incantevole che riaccende nel mio petto il fervido senso della giovinezza.
Voi riconducete i fantasmi dei giorni felici; e oh quante amabili ombre
mi sorgono intorno! Come un fatto per antica fama mal ricordato,
mi rivive nell’anima il primo amore e la prima amicizia;
i miei dolori si rinnovano: mi ripercuote il lamento
che suona lungo l’avviluppato, fallace cammino della vita,
e mi reca all’orecchio il nome dei buoni che,
dalla fortuna defraudati dell’ore serene,
sparvero dinanzi a me per sempre…
Lo stuolo degli amici è disperso, e, ahi, muta è l’eco che reiterava la mia voce…
Naturalmente, il modo inaccettabile con cui si è scelto di porre fine a una storia gloriosa
come quella del PCI non può far passare sotto silenzio il fatto che comunque, ancora
prima del suo scioglimento, nel partito i segnali di affievolimento di certi valori c’erano
già tutti, sin dall’inizio degli anni ’80.
Ricordo a questo proposito alcuni episodi che ho vissuto direttamente, e sulla mia pelle,
proprio negli anni ’80.
Il primo risale all’indomani della mia elezione a deputato, nel 1983.
Quando gli organismi dirigenti della federazione di Chieti decisero la mia candidatura
alla Camera dei deputati, io ero ancora nel Molise con l’incarico di segretario regionale
di quella organizzazione.
La decisione di candidarmi fu una decisione perfettamente in linea con la tradizione del
PCI, che tra i suoi punti fermi ha sempre avuto anche quello di non abbandonare per
strada chi aveva rivestito nel partito ruoli importanti e impegnativi.
Dopo le elezioni, però, mi dovetti rendere conto, mio malgrado, che le cose nel partito
avevano cominciato a prendere una piega inconsueta, e che il conflitto e la concorrenza
all’interno dei gruppi dirigenti tendevano sempre di più a prevalere sulla solidarietà
e che alla saggia pratica del rinnovamento nella continuità propugnata da Togliatti si
sostituiva in modo sempre più frequente quella della emarginazione di forze ancora in
grado di dare un contributo rilevante per fare spazio, si diceva, a forze nuove...
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L’occasione fu piuttosto banale, tuttavia non meno significativa.
Avendo lavorato, fino all’inizio della campagna elettorale del 1983, in Molise, io non
facevo parte naturalmente degli organismi dirigenti della federazione di Chieti, Comitato
federale e Comitato direttivo (quest’ultimo era l’organismo, più ristretto, che aveva in
mano l’effettiva direzione della federazione).
Il buon senso, oltre alla logica, avrebbe voluto che, appena tornato a Chieti, io fossi
reinserito negli organismi di direzione del partito senza frapporre indugi del tutto inutili
e incomprensibili, io però fui subito cooptato nel Comitato federale, per il Comitato
direttivo di federazione invece dovetti aspettare ben nove mesi, eppure ero il nuovo
deputato della provincia...!
In più, i nuovi gruppi dirigenti provinciali, in nome di un malinteso rinnovamento
che faceva premio sull’età e assai poco sulle capacità, evitavano di mandarmi nelle
sezioni, salvo che non fosse indispensabile la presenza del parlamentare, mentre potevo
impegnarmi tranquillamente nei tagli di nastri e cose simili perché qui nessuno poteva
sostituirmi.
Insomma, sembrava che la nuova parola d’ordine già in quegli anni fosse, nei rapporti
interni ai gruppi dirigenti, con tutti i riflessi negativi che questo provocava sull’attività
del partito, quella, fondamentalmente estranea alla storia del PCI, del mors tua vita
mea!
Una parola d’ordine che, purtroppo, ebbi modo di sperimentare in termini ancora più
terribili qualche anno dopo, quando non fui rieletto in Parlamento, pur essendo candidato
e indicato per la elezione.
Un simile esito fu certamente per grande parte il frutto di logiche e scelte regionali
sbagliate, anche perverse per certi aspetti; ma anche, bisogna subito aggiungere, di una
assoluta incapacità di direzione dei nuovi gruppi dirigenti della federazione.
Quel che, tuttavia, più contraddistinse la vicenda elettorale del 1987, quando non fui
rieletto, e che più mi colpì sia politicamente sia moralmente, fu la volontà non più
dissimulata di questi nuovi gruppi di farsi spazio a colpi di spada, senza alcun riguardo
per nessuno.
Poté così accadere in quella occasione qualcosa che non mi sarei mai aspettato, e cioè
che una parte dell’apparato della federazione fosse impegnato durante la campagna
elettorale -soprattutto a Chieti- a dirottare le preferenze su candidati, più amici di altri,
di altre zone della regione, anziché orientarle sul mio nome come sarebbe stato logico
e corretto vista la scelta unanime fatta dagli organismi dirigenti del partito e dalle
sezioni!
Il risultato naturalmente non poteva essere che quello annunciato (e ricordo ancora oggi
la rabbia e l’amarezza di quei giorni, lenite appena dalla solidarietà di tanti compagni):
la non elezione, per la prima volta nella storia politica ed elettorale della provincia di
Chieti, anche se soltanto per una manciata di preferenze, del parlamentare del PCI,
pur avendo il nostro partito in provincia un consenso elettorale tale in cifre assolute,
rispetto alle altre province abruzzesi, da poter eleggere da solo il deputato, mentre altre
federazioni non erano in grado di farlo!
Nei Quaderni del carcere c’è una nota di Gramsci sui rapporti tra generazioni che mi
sembra colga molto bene il modo come, nella fase conclusiva del PCI, una parte della
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generazione più giovane si è riferita alla generazione che l’ha preceduta, anche se il
problema non riguarda solo il PCI ma vale anche per l’atteggiamento di grande parte dei
nuovi gruppi dirigenti del Paese nei confronti delle forze di governo e di opposizione
che hanno guidato la cosiddetta Prima Repubblica.
“Una generazione -scrive Gramsci- può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa
dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare
il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione
precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può
che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e
smania di grandezza. E’ il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il
deserto per distinguersi. Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito
del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei
figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del
presente”.
La trasformazione del PCI, per il modo in cui avvenne, non fece che acutizzare e rendere
più rapido questo processo, sono così svaniti nel nulla valori di solidarietà, di rispetto
della storia di ciascuno, dell’ascolto reciproco, della ricerca di un ruolo utile e adeguato
per tutti, sono emersi invece con prepotenza modi di pensare e comportamenti che poco
hanno a che vedere con la tradizione del PCI e che sono tuttora presenti nella vita dei
DS, e i danni sono ben evidenti.
In tempi recenti, sembra riemergere la consapevolezza della necessità di recuperare
alcuni di questi valori, a cominciare da quelli della solidarietà e della responsabilità
collettiva e individuale di fronte al Paese, ma sono segnali ancora molto flebili e, com’è
noto, una rondine non fa primavera!
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Capitolo III
Cominciai a impegnarmi concretamente nell’attività politica, e in modo non più
episodico, solo qualche tempo dopo il mio primo incontro con il PCI.
Non che mi mancasse, come dire, la vocazione alla politica. Anzi, è una vocazione che
mi sono scoperto molto precocemente, ancora prima del mio ingresso in seminario, ne
è testimonianza un episodio di cui fui protagonista proprio qualche mese prima della
mia partenza per Chieti.
Siamo nella tarda primavera del 1946, al tempo del referendum istituzionale repubblicamonarchia. In giro c’è molto fermento, i comizi in piazza sono tanti e tra la gente si fa
un gran parlare di monarchia e repubblica.
Io allora frequentavo, ormai già da diverso tempo, la parrocchia e mi stavo preparando
agli esami di ammissione alle medie in previsione appunto del seminario.
Naturalmente, anche in parrocchia si parlava del referendum, non ricordo cosa ci
dicessero don Vincenzo e il vecchio arciprete, ma non c’erano dubbi: la parrocchia
era schierata con la monarchia, e di conseguenza anche noi chierichetti lo eravamo,
anche se nessuno di noi era in grado di capirci granché in tutta la faccenda. Ma, ecco il
fatto nuovo rispetto all’atteggiamento degli altri ragazzini: io decisi che bisognava fare
qualcosa per far trionfare la causa della monarchia!
Non ricordo affatto se fosse don Vincenzo a spingerci a questo o se addirittura lui non
ne sapesse niente, sta di fatto che un bel giorno io presi con me un mio amichetto, più
piccolo di me (non ne rammento neppure il nome: di lì a qualche anno egli emigrò negli
Stati Uniti o, forse, in Argentina, comunque da allora non l’ho più rivisto e non ne ho
saputo più niente), preparammo il materiale necessario per scrivere sui muri -allora
si poteva- e attaccare i pochi manifesti scritti a mano da noi che invitavano a votare
monarchia, e così la sera sull’imbrunire uscimmo per compiere la nostra impresa.
La cosa tuttavia non si concluse bene, almeno per me.
Il giorno dopo infatti, mentre mi recavo in parrocchia, nel passare davanti alla
bottega del sarto che si trovava proprio all’angolo della chiesa di S. Nicola e dove
si davano convegno abitualmente alcuni giovani di orientamento socialista, vidi a un
certo punto alzarsi dalla sedia il figlio, socialista, della proprietaria della campagna
condotta a mezzadria da mio padre e dirigersi verso di me in atteggiamento minaccioso,
rivolgendomi anche un po’ di male parole.
Da quello che diceva, capii subito che ce l’aveva con me per ciò che avevo fatto la sera
prima, così cominciai immediatamente a correre per paura di prenderle, perdendomi poi
nelle strette stradine del quartiere di S. Giovanni; lui cercò di rincorrermi, ma fu tutto
inutile, io ero molto più veloce di lui.
La mia campagna pro-monarchia durò così appena un giorno e, per fortuna, non solo
in Italia ma anche a Orsogna non giovò molto ai Savoia: Orsogna, assieme alla vicina
Ortona, fu uno dei pochissimi comuni in provincia di Chieti dove vinse la repubblica!
Insomma, sin da piccolo era presente in me una certa propensione alla politica attiva,
non mi era mai piaciuto infatti tirarmi fuori dai problemi o fare da spettatore, al contrario
ho sempre sentito il bisogno di dire la mia. Del resto, per me è sempre stato così: anche
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nel gioco che è uno specchio assai veritiero del modo di essere delle persone.
Ma il problema ora non era di avere la vocazione, né mi trovavo di fronte a un gioco
come quand’ero solo un ragazzino.
Scegliere di impegnarsi a tempo pieno dentro una prospettiva di trasformazione della
società e dello Stato non poteva essere né il frutto di un gioco né di una scelta dettata
dall’istinto, sentivo al contrario prepotente dentro di me il bisogno di consapevolezza,
di dare a questo impegno fondamenta solide, di capire meglio come, dove e attorno a
che cosa portare avanti la mia attività.
Da questo punto di vista, di grande aiuto mi furono innanzitutto le letture che intanto
andavo facendo.
Oltre a offrirmi nuove e più efficaci chiavi di comprensione della realtà nella quale
vivevo, mi consentirono anche di dare via via risposte agli interrogativi che mi portavo
dentro e di chiarire a me stesso anche il senso e la portata delle scelte che stavo
compiendo.
Ma di non minore utilità fu l’impatto, in un’ottica nuova, con la vita concreta degli
uomini in carne e ossa, con quello insomma che andavo allora giornalmente imparando
nel rapporto sia con la gente che con i compagni.
Tuttavia, fu soprattutto un punto quel che mi fece decidere a compiere senza riserve la
mia scelta di vita: la lettura dell’ultima delle tesi marxiane su Feuerbach.
Secondo Marx, “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però
di mutarlo”: questo fu per me illuminante e decisivo.
Non solo mi fece comprendere come la politica è necessaria e ha senso se si propone un
cambiamento radicale della società e dello Stato, per costruire un mondo migliore per
tutti; ma anche di quale tensione morale e ideale c’era bisogno per corrispondere a un
tale compito: in una visione del mondo, che ha come suo obiettivo di fondo appunto la
trasformazione rivoluzionaria dell’esistente, è possibile collocarsi a questa altezza solo
se dentro di te, a un certo momento, si incontrano passione, capacità di conoscenza dei
processi storici, forte senso morale e ideale.
I comunisti, proprio per questa loro concezione della politica, hanno sempre avuto
una visione alta dell’impegno politico, diversa da quella di altri, affine per certi aspetti
alla concezione, propria di un certo mondo cattolico democratico, della politica come
servizio; e questo spiega anche perché tra i comunisti l’impegno politico ha sempre
assunto un carattere totalizzante, fino a prevalere molte volte su aspetti ed esigenze della
propria vita privata, anzi rendendo pubblico e subordinando ad esso anche il privato!
La decisione a cui alla fine approdai, con la scelta di un impegno crescente nella
politica attiva, fu quindi il risultato di una riflessione non breve e anche molto sofferta
e contrastata: sapevo bene infatti che, anche per il mio modo di essere e di vivere le
scelte, quella decisione avrebbe avuto inevitabilmente un carattere irreversibile e totale,
come di fatto poi avvenne.
Naturalmente, questa mia esigenza di riflessione non significò affatto che intanto io
mi estraniassi da quanto mi accadeva intorno e mi ritraessi dal partecipare all’attività
politica.
Cominciai, anzi, subito a fare le mie prime esperienze. Solo che non ne ero io il
protagonista; e poi, si trattava di esperienze modeste che però, debbo dire, sono state
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ugualmente molto importanti per me: esse, anzi, sono state per me come i primi mattoni
di quel cospicuo patrimonio di conoscenze e di penetrazione della realtà che via via si è
poi andato stratificando dentro di me e che mi è stato sempre assai utile nel mio lavoro
di dirigente di un partito grande e complesso come il PCI.
La mia prima esperienza politica di un certo interesse risale alle elezioni per il Parlamento
del giugno del 1953.
Avevo allora poco più di diciassette anni, e naturalmente non disponevo ancora del
diritto di voto che maturava all’epoca, per la Camera, solo a 21 anni e, per il Senato,
addirittura a 25.
Al centro dello scontro elettorale c’era la cosiddetta “legge truffa”, una legge elettorale
cioè che, in forza di un sistema di apparentamenti tra partiti, avrebbe consentito alla
lista o al gruppo di liste apparentate che avesse conquistato il 50% più uno dei voti di
usufruire di un consistente premio di maggioranza.
Si trattava insomma di una legge di tipo maggioritario che oggi non provocherebbe
grandi contrasti, salvo discuterne convenienza, efficacia, meccanismi, ecc., ma che a
quei tempi, se fosse passata, avrebbe avuto effetti dirompenti sugli equilibri e la tenuta
stessa della democrazia italiana.
Ricorda Celso Ghini, che fu uno dei dirigenti del PCI in quegli anni, nel suo libro Il voto
degli italiani, 1946-1974 (Editori Riuniti, 1975), che “lo scopo della legge -dicevano
i loro padrini democratici cristiani, liberali, socialdemocratici e repubblicani- era di
garantire una maggioranza parlamentare ed un governo stabili. L’obiettivo inconfessato
era di assicurare ai partiti governativi la perpetuazione del monopolio del potere e una
maggioranza sufficiente ad emendare la Costituzione in senso limitativo delle libertà,
senza tenere conto della volontà degli elettori e delle ragioni dell’opposizione”.
Le affermazioni di Ghini, che erano poi il succo della posizione del PCI e di altri settori
politici di destra e di sinistra, acquistano un senso ben preciso se riferite da un lato a
ciò che significò lo scelbismo in quegli anni, in termini di repressione anche sanguinosa
delle grandi lotte per la terra e il lavoro e di limitazione arbitraria di libertà costituzionali,
dall’altro a ciò che nel rapporto maggioranza-opposizione avrebbe comportato la legge
truffa se non fosse stata sconfitta.
In Italia, una delle conseguenze principali della guerra fredda sulla nostra vita
democratica è stata rappresentata dal fatto che il PCI poteva essere forte e governare
regioni e comuni ma mai diventare governo del Paese!
Questa è stata una delle leggi non scritte dell’Italia repubblicana, fino alla caduta del
muro di Berlino nel 1989 e alla trasformazione del PCI in PDS, Partito democratico
della sinistra, qualche anno dopo, dalla quale a nessuno era consentito derogare; ed è a
tutti noto quale sorte fu riservata a Moro che, negli anni ’70, pensò che era ormai giunto
il momento di riportare i comunisti nel governo del Paese (ne erano stati già parte
appena dopo la Liberazione, fino al maggio del 1947) per ridare respiro e vigore a un
sistema politico sempre più asfittico e in difficoltà!
In sostanza, la legge truffa, se fosse risultata vincente, avrebbe alterato profondamente
per legge e non per scelta degli elettori, a favore della DC e dei suoi alleati, la
rappresentanza politica nelle istituzioni, in un contesto internazionale peraltro nel quale
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la divisione del mondo in due blocchi contrapposti riservava già di per sé un destino
diverso alle forze in campo: da un lato la DC non poteva non governare, dall’altro alla
sinistra, in particolare al PCI, era preclusa ogni possibile alternanza di governo.
Una tale rottura rischiava naturalmente non solo di mettere in pericolo la normale
dialettica democratica tra maggioranza e opposizione, ma anche di aprire la strada a
conflitti sempre più aspri e pericolosi per la stessa democrazia.
All’approvazione della legge truffa in Parlamento si arrivò dopo una dura battaglia
da parte delle opposizioni sia di destra che di sinistra, ma la partita vera si giocò nella
campagna elettorale alla quale parteciparono anche liste e movimenti messi in piedi
proprio per l’occasione, nel tentativo di sottrarre voti alla DC e agli altri partiti con essa
apparentati e impedire così a quella che fu la sola coalizione presente alle elezioni il
raggiungimento del 50% più un voto.
Come in tutta Italia, anche ad Orsogna lo scontro fu aspro e violento, e sui balconi che si
affacciavano sulla piazza, dai quali si tenevano i comizi, si alternavano in continuazione
gli oratori dei diversi partiti.
Ogni partito aveva naturalmente il suo balcone e, quando i comizi si susseguivano
l’uno all’altro, era un vero e proprio spettacolo vedere la folla -di solito sempre molto
numerosa- sciamare da un lato all’altro della piazza, solo i più pavidi o quelli ai quali
era stata fatta qualche promessa in cambio del voto e avevano bisogno perciò di farsi
vedere solo al comizio della DC, pur ascoltando ugualmente i comizi degli altri partiti,
si tenevano tuttavia a debita distanza dai balconi avversari.
A Orsogna, anzi, la campagna elettorale fu particolarmente animata, perché tra i
candidati al Senato c’era anche un personaggio assai famoso, sia come medico che
come eroe nazionale, originario del paese e al quale molti orsognesi erano legati per
ragioni anche di riconoscenza.
Parlo di Raffaele Paolucci, chirurgo di fama e direttore della clinica chirurgica
dell’Università di Roma e noto per aver partecipato, con l’ufficiale del Genio Navale
Raffaele Rossetti, all’affondamento della corazzata austriaca Viribus Unitis nel porto
di Pola, durante la prima guerra mondiale. Egli però non era candidato con la DC, che
nel ’48 a Orsogna aveva superato sia pure non di molto il Fronte del popolo, ma con il
Partito nazionale monarchico e quindi anche lui era contro la legge truffa.
La presenza di Paolucci, come del suo partito, contribuì perciò anch’essa a sconfiggere
in paese la DC e i suoi apparentati e, più in generale, il disegno politico che stava
dietro la legge truffa, tuttavia quello che mi colpì, nel risultato elettorale di Orsogna, fu
soprattutto la diversità di voto tra la Camera e il Senato.
Alla Camera, l’elettorato orsognese si orientò sulla base di una scelta politica generale,
infatti i monarchici raggranellarono poco più di 100 voti, al Senato invece quel risultato
ne uscì completamente stravolto: i monarchici raccolsero quasi 1800 voti, e cioè oltre
il 50% dei voti validi, pur avendo gli orsognesi nel referendum istituzionale del ‘46
dimostrato di preferire largamente la repubblica, e quei voti provenivano addirittura da
gente che alla Camera aveva votato non solo DC ma anche i partiti della sinistra!
Era la prima volta che mi trovavo di fronte a un fenomeno di trasformismo in cui, più
della scelta politica, contava la scelta del candidato.
Oggi un fenomeno di questo genere forse non stupirebbe nessuno, ma allora, quando il
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voto aveva sempre una forte connotazione politica e ideologica, la cosa non poteva non
provocare stupore!
E così anch’io rimasi assai sconcertato da quel risultato, ma col tempo dovetti
abituarmi: non solo a Orsogna ma anche nel resto del Mezzogiorno, quel fenomeno era
piuttosto ricorrente e diffuso, anche se esso riguardava soprattutto elezioni di carattere
amministrativo e solo raramente (almeno a Orsogna) elezioni politiche.
A Orsogna, per definire il fenomeno, venne anche coniata una espressione, non
dispregiativa, quanto piuttosto dettata da una certa ironia sdrammatizzante, tanto esso
era dato ormai per scontato, questa espressione era: la licenza, quella appunto che gruppi
di elettori si prendevano in occasione di elezioni amministrative rispetto alle scelte che
normalmente compivano nelle elezioni politiche!
Il 1956 fu un anno davvero denso di avvenimenti, anche drammatici; e anche di nuove,
fondamentali esperienze per la mia formazione politica.
A febbraio, si svolge a Mosca il XX Congresso del PCUS con la denuncia da parte di
Krusciov, attraverso il cosiddetto rapporto segreto reso pubblico in Italia solo nell’estate
successiva, dei delitti di Stalin e dello stalinismo; nella tarda primavera hanno luogo
le elezioni amministrative; a ottobre scoppia in Ungheria la rivolta contro il governo
comunista presieduto da Geroe, un uomo di Stalin, che si conclude nel sangue ai primi
di novembre con l’occupazione di Budapest da parte dell’Armata Rossa; in coincidenza
con i fatti d’Ungheria -dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasserprima Israele attacca le truppe egiziane e occupa il Sinai e poi, a distanza solo di qualche
giorno, Francia e Inghilterra occupano Suez; a metà dicembre si apre a Roma l’VIII
Congresso nazionale del PCI che proclama la via italiana al socialismo.
Insomma, un anno davvero da brividi sul piano internazionale ma anche di straordinario
interesse per il futuro del comunismo italiano, se solo si pensa alle grandi implicazioni
che hanno avuto nella successiva evoluzione del PCI la riflessione sullo stalinismo e le
conclusioni di natura strategica dell’VIII Congresso.
Il precipitare degli avvenimenti internazionali, e anche la crisi interna al PCUS, ebbero
naturalmente echi profondi in Italia; e provocarono uno scontro politico violento tra i
contrapposti schieramenti politici, ma anche un dibattito intenso e, anzi, assai aspro
e violento, all’interno dei partiti della sinistra che non giovò certo ad avvicinare le
rispettive posizioni.
Al contrario, alcuni di questi avvenimenti, parlo del XX Congresso e poi dei fatti
d’Ungheria, non fecero che approfondire ulteriormente le crepe già esistenti nel
rapporto tra i comunisti e i socialisti, favorendo una ripresa di rapporti tra socialisti e
socialdemocratici: l’incontro di Pralognan, avvenuto nell’agosto, tra Nenni e Saragat
non fu da questo punto di vista affatto casuale, esso servì a gettare le basi di questo
riavvicinamento che doveva di lì a qualche anno portare agli accordi di centro-sinistra,
con l’obiettivo di contrastare e isolare il PCI.
Tuttavia, l’incombere di questi processi non impedì che alle elezioni comunali e
provinciali di quell’anno continuasse a funzionare il rapporto unitario tra comunisti e
socialisti.
Anche a Orsogna i comunisti e i socialisti si presentarono alle comunali con una lista
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unitaria e, alle provinciali, con un candidato unico per tutti e due i partiti.
Candidato alla Provincia, infatti, fu scelto quello che era allora l’uomo più rappresentativo
di tutta la sinistra orsognese, e cioè l’avvocato socialista Giuseppe Tenaglia il quale
capeggiò contemporaneamente anche la lista per il Comune.
In quelle elezioni io votai per la prima volta, un fatto davvero molto importante per me,
e fui anche indicato dal PCI e dal PSI come scrutatore in una delle sezioni elettorali del
paese, tuttavia le elezioni non andarono affatto bene per noi. O meglio: eleggemmo con
una bella messe di voti, oltre 1500 se non ricordo male, il nostro candidato unitario alla
provincia, ma prendemmo una sonora batosta alle comunali: i 1500 voti delle provinciali
si ridussero ad appena 500!
La famosa licenza aveva funzionato ancora una volta, a danno nostro naturalmente.
Ricordo che ce la prendemmo molto, noi comunisti, con il candidato socialista,
accusato di essersi messo d’accordo sottobanco con i repubblicani -che vinsero le
elezioni comunali- per uno scambio di voti tra provincia e comune: i repubblicani
avrebbero votato alla provincia il candidato socialista, mentre al comune i socialisti
avrebbero votato per la lista della frunnetelle (come veniva chiamata a Orsogna la lista
repubblicana, per via della foglia d’edera che era nel suo simbolo).
E’ difficile dire quanto e se ci fosse qualcosa di vero in questa accusa, con molta
probabilità -come nel ’53, con Paolucci- anche in questa occasione aveva funzionato un
certo trasformismo spontaneo messo in moto e favorito da ragioni anche molto diverse
tra loro: ad esempio, la convinzione presente in settori di opinione pubblica di sinistra
che, contro li macaciuce (vale a dire i democristiani, definiti così forse per assimilazione
agli incappucciati delle confraternite), era più facile che al Comune ce la potessero fare
i repubblicani che già l’amministravano, e non i partiti della sinistra; e in tutto questo
gli intrighi non c’entravano davvero nulla.
Ricordo, quando di queste cose si discuteva nelle nostre riunioni provinciali, che la
spiegazione più gettonata era che a determinare il fenomeno concorresse in maniera
decisiva, assieme al clientelismo, lo scarso spessore dei nostri gruppi dirigenti locali, in
sostanza il PCI si dimostrava più credibile a livello nazionale che non a livello locale.
Dubito che una tale spiegazione fosse fondata, qualcosa di vero c’era sicuramente, più
probabile però è che intervenissero, in zone dell’elettorato, fattori del tutto spontanei
difficilmente controllabili, innescati da motivazioni non sempre comprensibili e
soprattutto in grado di essere arginate, legate a fatti e interessi locali, di singoli o di
gruppi di famiglie, che, in una elezione comunale, hanno sempre un grande peso: non a
caso, del resto, il fenomeno toccava anche il PSI e, in certe circostanze, perfino la DC
che pure disponeva di molte armi di pressione clientelare.
A Orsogna, comunque, la divaricazione tra voto politico e voto amministrativo si è
ripetuta di frequente, in genere a sfavore della sinistra.
D’altra parte, non è un caso che questo fenomeno si sia ripetuto anche nel 1960, quando
candidato per il PCI (non era più tempo di candidature unitarie) al Consiglio provinciale,
nel collegio di Orsogna, ero io.
Anche allora, io presi oltre 700 voti in paese, che tuttavia non furono sufficienti per farmi
eleggere perché nel resto del collegio il risultato non fu altrettanto positivo, mentre al
Comune, dove era presente ancora una volta una lista unitaria di comunisti e socialisti,
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le cose andarono male: molti di quelli che avevano votato per me preferirono votare
per i democristiani che vinsero le elezioni comunali, evidentemente chi ce l’aveva con
l’amministrazione repubblicana uscente (ed erano in tanti) pensò che l’unica possibilità
di cambiare amministrazione era rappresentata dal voto alla lista dc e non alla lista della
sinistra.
In ogni modo, gli strascichi tra i due partiti, provocati dal voto del ’56, si trascinarono
per qualche tempo; e del clima che si era creato il PCI ne trasse anche qualche beneficio,
nel senso che un certo numero di socialisti si spostò verso di noi a causa appunto del
risultato elettorale deludente.
Il rapporto tra socialisti e comunisti, a livello locale, non fu invece molto turbato dalle
notizie che arrivavano da Mosca a proposito della denuncia fatta da Krusciov, nel corso
del XX Congresso del PCUS, dei delitti commessi da Stalin e dei gravi danni provocati
alla società sovietica dallo stalinismo. Che io ricordi, né tra i comunisti e nemmeno tra
i socialisti di Orsogna la cosa fece grande impressione.
Per quanto riguarda il PCI, anzi, in generale la massa degli iscritti e dei gruppi dirigenti
locali, non solo a Orsogna, non cadde affatto in preda a grandi turbamenti.
La coraggiosa iniziativa di Krusciov suscitò piuttosto, più che consenso, stupore e
incredulità e anche polemiche molto aspre, soprattutto alla base, nei confronti del nuovo
capo del Cremlino. E ricordo ancora oggi le cose che si dicevano in sezione a difesa
di Stalin, utilizzando un armamentario ideologico che lo stesso Stalin aveva messo in
circolazione per spiegare e giustificare le scelte tremende compiute nei lunghi anni
del suo potere assoluto e dispotico, che colpirono in primo luogo proprio i comunisti
sovietici.
Quando scoppiarono i moti d’Ungheria, anzi, non furono pochi quelli che addebitarono
proprio a Krusciov, alla sua denuncia degli arbitrii di Stalin e dello stalinismo, la
responsabilità di quei fatti.
In verità, Krusciov avrebbe meritato ben altra accoglienza; e comunque quello che egli
stava facendo era il meno che si potesse fare.
La soffocante realtà dell’Unione sovietica e degli altri paesi socialisti imponevano anzi
che si andasse più a fondo nella ricerca delle ragioni, politiche e teoriche, che avevano
reso possibile lo stalinismo; e non ci si limitasse a una denuncia di tipo tutto sommato
non politico ma moralistico, anche perché solo in questo modo era possibile riprendere
un cammino e imboccare con decisione una strada nuova.
Stalin però all’epoca godeva di un grande prestigio internazionale, non solo tra i
comunisti: egli era stato infatti in maniera incontestabile uno dei protagonisti decisivi
della lotta contro il nazismo e della vittoria degli alleati nella seconda guerra mondiale,
aveva trasformato un paese arretrato come la Russia portandola nel novero delle nazioni
moderne e l’URSS per merito suo era assurta al ruolo di grande potenza mondiale.
La leggenda di Stalin era, anzi, penetrata così profondamente nell’animo di grandi
masse popolari, soprattutto degli strati più poveri della popolazione, dei diseredati, che
la sua figura si identificava -nell’immaginario collettivo- con quella del vendicatore dei
torti e delle angherie subìte, perché non era altro che questo il significato della battuta
ricorrente in quegli anni: Addavenì Baffone!
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Del resto, anche il PCI aveva grandemente contribuito a radicare tra i ceti popolari
il mito di Stalin, basti pensare alle cose scritte, dette e fatte -da Togliatti al più umile
dirigente di base- in occasione della morte di Stalin, il 6 marzo del 1953!
Il culto di Stalin fu, anzi, coscientemente alimentato, come il mito dell’URSS, per dare
più forza all’idea che la rivoluzione poteva vincere, e avrebbe sconfitto anche i nemici
più accaniti e agguerriti.
Qualche mese fa ho rincontrato in una libreria di Pisa -dove mi trovavo, mie care nipoti,
assieme alla nonna, per il primo compleanno di Martina- un bel libriccino, che avevo
comprato e letto a suo tempo ma che, non so come, non trovavo più tra i miei libri: si
tratta di un poemetto in versi firmato Anonimo Romano ma il cui vero autore è Maurizio
Ferrara, per tanti anni segretario di Palmiro Togliatti.
Naturalmente, ho ricomprato e riletto il poemetto, con molto diletto debbo dire: non
solo per la godibilità dei versi così pieni di spirito e scritti in un graffiante romanesco
belliano, ma per l’argomento stesso che è al centro della relazzione, quella che appunto
l’Anonimo Romano tiene, nel 1956, davanti agli iscritti al PCI di una sezione romana
su er fatto de Stalin e de Krusciov all’epoca del XX Congresso del PCUS. E, andando
avanti nella lettura, che ti trovo a un certo punto? Questi versi su Stalin, che danno bene
l’idea di che cosa egli rappresentava negli anni ‘50 per i comunisti italiani:
Pe’ noi che d’era Baffo? Un sacramento,
ce serviva a soffià su la passione...
Non c’è quindi affatto da meravigliarsi se la sua figura resse bene, nella coscienza
popolare, alle denunce di Krusciov.
Ovviamente, ciò non toglie nulla alle gravissime responsabilità che pesano su di lui
e che hanno condizionato, in modo profondamente negativo, la storia e la capacità
dell’URSS di reggere alla prova del futuro.
E’ principalmente a Stalin, infatti, che si deve se, dopo la morte di Lenin, il processo di
costruzione del socialismo in Russia assunse caratteri profondamente antidemocratici e
repressivi di ogni forma di libertà, con costi umani e politici elevatissimi.
A guardare oggi all’esito disastroso a cui questo processo è approdato, possiamo anzi
ben dire che fu essenzialmente sua la responsabilità se negli anni del suo potere si
crearono le condizioni di fondo che hanno portato nei decenni successivi prima allo
svuotamento di ogni carica innovativa della rivoluzione d’ottobre e del comunismo
sovietico e quindi, nel 1989, alla dissoluzione dell’URSS e alla fine tragica di un
esperimento politico-ideologico che non ha precedenti nella storia e che pure tante
speranze aveva suscitato tra gli sfruttati di tutto il mondo.
Certo, non tutto è attribuibile a Stalin, molti aspetti del tipo di società e Stato che
emersero sotto la sua direzione si ritrovano già nelle teorie formulate da Lenin, solo
che Lenin dimostrò anche di saper cambiare di fronte alle lezioni della storia come
accadde ad esempio con la Nep, la Nuova Politica Economica, che lasciava spazio al
mercato, all’indomani della conquista del potere; Lenin poi, nonostante le polemiche
violentissime all’interno del gruppo dirigente bolscevico che lo videro più di una
volta in minoranza, non risolse mai i contrasti ricorrendo alla eliminazione fisica degli
avversari, cosa che invece fece sistematicamente Stalin.
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Comunque, quel che in quei giorni prevalse tra i nostri militanti, pur presi dallo sconcerto
per quanto stava accadendo, fu la esigenza di respingere senza tentennamenti l’attacco
scatenato dagli avversari contro il partito, utilizzando le cose dette da Krusciov.
Da questo punto di vista, giocava tra i compagni anche la convinzione, molto diffusa
nel partito e che anch’io sostenevo, che, tutto sommato, i metodi usati da Stalin -pur
essendo sommamente riprovevoli- erano in realtà il frutto di una scelta obbligata per
spezzare, di fronte ad avversari interni ed esterni decisi a tutto, le resistenze opposte
alla trasformazione della vecchia Russia assolutista, come avvenne del resto nel 1793,
quando -per salvare la rivoluzione- Robespierre e Saint Just furono costretti a ricorrere
al terrore e alla ghigliottina!
Questo spiega anche perché, nonostante il XX Congresso, ancora per diversi anni le
opere di Stalin continuarono a essere lette, e io fui tra questi, in primo luogo Le questioni
del leninismo che era l’opera sua più nota e forse anche la più distorcente del pensiero
di Lenin.
C’è una bellissima poesia di Bertolt Brecht, del 1938, significativamente intitolata A
coloro che verranno, che io voglio qui citare perché rende bene questa convinzione
fondamentalmente giustificazionista, assai corrente in quegli anni nelle sezioni: è la
durezza dei tempi, quella stessa denunciata nel Lied dal grande poeta tedesco, a impedire
la gentilezza, a rendere impossibili scelte diverse!
Ma ecco Brecht, nella traduzione di Franco Fortini:
Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.
Quali tempi sono questi, quando
un dialogo sugli alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!…
Vorrei anche essere un saggio…
Spogliarsi di violenza,
rendere bene per male.
Non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai assieme a loro…
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Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura guardai con impazienza…
Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo…
Ma ecco l’invito rivolto a coloro che verranno:
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.
Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.
Neanche l’esplosione dei fatti d’Ungheria, nell’ottobre, preceduta da una sommossa
operaia in Polonia intorno alla fine di giugno, provocò nel grande corpo degli iscritti
(il PCI superava allora i due milioni, ai quali si aggiungevano i 400 mila aderenti alla
FGCI) conseguenze particolarmente traumatiche dal punto di vista della loro fiducia
nel partito, anche se lo sbigottimento e gli interrogativi sulle cause di avvenimenti così
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tragici erano molti.
Una crisi seria, che fu però contenuta grazie alla intelligenza e all’abilità di Togliatti e
alle risposte che poi maturarono nell’VIII Congresso nazionale del partito, ci fu invece
nel gruppo dirigente nazionale e soprattutto tra gli intellettuali, con abbandoni anche
clamorosi.
Alla base invece, anche in questa occasione, prevalse -segno a suo modo della grande
vitalità del comunismo italiano- la esigenza di stringersi attorno al partito, difenderlo
dagli attacchi violentissimi cui era sottoposto e tenere ferma la solidarietà con l’Unione
Sovietica vista come il baluardo decisivo per il futuro di ogni processo di trasformazione
dell’Italia e del mondo.
Fu, tutto questo, il frutto di un atteggiamento fideistico? O del fatto che i comunisti italiani
erano inguaribilmente stalinisti, come qualcuno tenta ancora oggi di accreditarli?
Sono sciocchezze, credo che la questione meriti analisi un po’ più attente di quelle
correnti, non prescindendo mai dal concreto contesto storico nel quale i comunisti
agivano.
Le conclusioni alle quali arrivò l’VIII Congresso, che incardinò tutta la strategia
della via italiana al socialismo su “il rispetto, la difesa, l’applicazione integrale
della Costituzione repubblicana”, come si legge nella Dichiarazione programmatica
approvata dal Congresso, affidandone la realizzazione ad “una lotta parlamentare,
politica e di massa che sia sostenuta dagli strati decisivi della popolazione”, sono la
migliore risposta a queste accuse del tutto pretestuose.
Certo, almeno fino a un certo periodo, non sono mancate durezze anche inaccettabili
nella vita interna del partito, ma queste furono un’altra cosa…
Il problema, semmai, è di quanto fu lenta la penetrazione nella base del partito delle
scelte di fondo compiute con l’VIII Congresso, scelte che hanno rappresentato, più che
una svolta, lo sviluppo coerente, reso necessario anche dall’incalzare degli avvenimenti,
di una linea che viene da Gramsci e che era già presente nella impostazione data dai
comunisti alla lotta contro il fascismo e alla Resistenza.
Quello che invece va rimproverato al PCI è piuttosto la reticenza persistente sulla realtà
sovietica e degli altri paesi socialisti, rifiutando su questo aspetto fondamentale una
discussione aperta che avrebbe aiutato, oltre che a capire, anche a dare più forza alla
scelta fatta dai comunisti italiani della via democratica al socialismo.
Questa reticenza fu presente anche nel modo in cui fu affrontata la vicenda ungherese
da parte del gruppo dirigente.
Dovevano passare ancora molti anni, infatti, prima che il PCI riconoscesse l’errore
compiuto nell’avallare l’intervento militare a Budapest e prendesse con nettezza le
distanze da altre scelte aberranti del potere sovietico, con la condanna nel ‘68 della
invasione della Cecoslovacchia decisa da Breznev e dai paesi del Patto di Varsavia,
per stroncare la rivoluzione democratica guidata dal comunista Dubcek, e, nel ‘79,
dell’invasione dell’Afghanistan.
Ma, detto questo, bisogna anche comprendere bene il clima che si creò, non solo in
Italia ma nel mondo, a seguito degli avvenimenti ungheresi i quali, non lo si dimentichi,
esplodevano in coincidenza con l’occupazione del canale di Suez da parte degli inglesi
e dei francesi e l’attacco da parte degli israeliani all’Egitto di Nasser; e come anche per
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questa ragione la reazione della base fu innanzitutto di difesa: non era certamente quello
il momento di una discussione aperta su quegli avvenimenti pur così dolorosi e, almeno
per la base del partito, anche inaspettati.
La rivolta d’Ungheria, questo che io ricordi era il giudizio prevalente alla base, era
sicuramente la espressione drammatica di scelte sbagliate, c’era però chi -e la piega
che stavano prendendo gli eventi lo dimostrava ampiamente-, approfittando degli errori
commessi, mestava nel torbido per cercare di far andare indietro la storia: bene, questo
qualcuno andava fermato in ogni modo.
In altri termini, la rivolta popolare non era tanto percepita come la spia di un fallimento
quanto piuttosto come la conseguenza, certo di errori, ma soprattutto di un attacco
violento nei confronti della nuova Ungheria da parte delle forze sconfitte con la seconda
guerra mondiale, gli ungheresi infatti si erano schierati con i nazisti durante la guerra e,
all’inizio degli anni ’20, la destra ungherese aveva represso nel sangue la rivoluzione
proletaria guidata da Bela Kun.
Ricordo bene ancora oggi l’angoscia con cui sia io che gli altri compagni abbiamo
vissuto quelle settimane: le preoccupazioni per gli sviluppi possibili della situazione
quando forze potenti premevano in maniera esplicita per sottrarre l’Ungheria al campo
socialista e riconquistare vecchi privilegi (ad esempio, i grandi proprietari fondiari
espropriati e cacciati dal paese), l’orrore per gli ammazzamenti indiscriminati dei quadri
comunisti per le vie di Budapest, i riflessi che la rivolta avrebbe avuto sul futuro del
socialismo...
Contro di noi si era poi scatenata in tutto il Paese, utilizzando ogni arma possibile, una
aggressione di tale violenza e proporzioni, che io non ne ricordo altre simili nei decenni
successivi. I comunisti erano davvero isolati, eravamo proprio rimasti soli a contrastare
l’attacco contro di noi.
Ho ancora oggi negli occhi, ad esempio, le trasmissioni televisive da Budapest di quel
periodo, le guardavo al bar, ed erano trasmissioni agghiaccianti: ogni giorno, vedevamo
apparire sullo schermo, con la sua faccia sorridente e soddisfatta, il famigerato cronista
incaricato dei servizi sulla rivolta, il quale faceva partecipi tutti gli italiani della sua
gioia nel vedere impiccati i comunisti ai lampioni della città!
Questo era il clima che si respirava in quei giorni, c’erano anzi anche manifestazioni
contro il PCI da parte degli studenti, una ce ne fu anche a Chieti, sotto la sede del partito
che allora si trovava a palazzo Tabassi, sul corso Marrucino. Non c’era da stupirsi,
perché, all’epoca, gli studenti erano generalmente di destra o votavano DC ed erano
veramente pochi quelli che sceglievano la sinistra.
Tuttavia i nostri sentimenti, che pure erano di smarrimento e di preoccupazione,
non ci indussero mai, non dico a disertare, ma neppure ad assistere inerti all’attacco
dell’avversario, insomma non ci facemmo prendere dallo scoramento o dalla paura.
Fu questa, anzi, paradossalmente l’occasione per riaprire un dialogo con la gente.
Anche a Orsogna, la nostra reazione fu forte; e il mio contributo fu tutt’altro che
marginale, animato com’ero da uno spirito battagliero e da una determinazione che fino
ad allora non mi conoscevo.
Tra le varie cose che facemmo ci fu anche, su mia proposta, l’invio di un ordine del
giorno discusso e approvato dalla sezione all’ambasciata sovietica di Budapest: in esso
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non solo esprimevamo solidarietà e consenso all’intervento sovietico in nome della
difesa delle conquiste del socialismo e contro ogni tentativo controrivoluzionario, ma ci
dicemmo anche (udite, udite!) disponibili a dare direttamente una mano, se fosse stato
necessario...!
Mi capitò anche un’altra volta di compiere un gesto simile, all’inizio degli anni ’60,
quando Cuba rischiò l’invasione da parte degli americani.
La rivoluzione cubana esercitava allora sui giovani davvero un grande fascino
tramutatosi, purtroppo, da tempo in una delusione profonda: ebbene, mie care nipoti,
anche in quella occasione io e un altro compagno scrivemmo all’ambasciata cubana
dichiarandoci pronti a partire per Cuba, e, poiché in quel periodo era in atto nell’isola,
da parte del nuovo potere castrista, la cosiddetta campagna di alfabetizzazione, anche a
questa eravamo naturalmente disposti a dare il nostro apporto!
Eh sì, in gioventù ho avuto anch’io i miei impulsi romantici, era nel mio carattere,
eppure mi è capitato non una sola volta di sentirmi accusare di essere un tipo troppo
controllato e razionale, un’accusa in verità senza senso perché ho sempre considerato
una virtù, non un difetto, la capacità di farsi guidare in ogni circostanza da una visione
razionale…
E poi, perché ci dovrebbe essere un contrasto insanabile tra questo sforzo di autocontrollo
e di autodisciplina, che è solo il frutto di una conquista interiore, e una capacità di slanci
ideali e, appunto, qualche volta romantici? Se ci fosse questo contrasto, avrei fatto
sicuramente scelte diverse nella mia vita.
Ma, tornando alle vicende terribili di quelle settimane, non c’era in noi, comunque
non c’era in me, alcun tentennamento sulla scelta di campo da compiere in una così
drammatica contingenza!
Di quanto stava accadendo si discuteva naturalmente tra la gente, e noi non ci
sottraevamo affatto a questa discussione, così in piazza i capannelli erano frequenti e i
toni diventavano anche assai aspri quando ci si trovava di fronte a persone che stavano
dall’altra parte.
Ricordo che io fui protagonista di uno di questi scontri, mi sembra che fosse di domenica,
sta di fatto che attorno a me e al mio contraddittore si radunò davvero tanta gente che
ascoltava e seguiva con molto interesse le cose che dicevamo.
Il nostro uditorio era formato, in gran parte, da operai e contadini, e il mio avversario non
era neppure un democristiano ma un socialdemocratico (un saragattiano, anzi, come
venivano chiamati allora in Italia i socialdemocratici), animato però da un violento
anticomunismo che non lo ha mai abbandonato neanche in seguito.
Nella singolar tenzone, debbo dire che me la cavai molto brillantemente; grazie a
questo, anzi, il mio credito tra la gente, e anche tra gli avversari, crebbe notevolmente e
non mancai di agghindarmi anche con qualche penna di pavone!
Mi aiutò molto, da questo punto di vista, il fatto che -ormai da tempo- leggevo
regolarmente l’Unità, erano pochi in paese quelli che allora leggevano un giornale tutti
i giorni, e altrettanto accadeva per Rinascita, la rivista mensile di politica e di cultura
fondata da Palmiro Togliatti, potevo così disporre, rispetto agli altri, oltre che di una
informazione accurata sui vari avvenimenti, anche di una visione politica e culturale di
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un certo respiro che mi consentiva di comprendere meglio e di spiegare anche agli altri
il senso e la natura di ciò che stava accadendo.
La nostra battaglia attorno ai fatti d’Ungheria continuò senza tentennamenti anche nel
momento in cui Krusciov occupò con l’Armata rossa Budapest, che era il cuore della
rivolta, per ristabilire una situazione di normalità.
La reazione della gente non ci era del resto così sfavorevole come si poteva pensare.
Tra le carte del PCI conservate presso l’attuale federazione provinciale dei Democratici di
sinistra, ho ritrovato una mia lettera del 5 novembre 1956, indirizzata all’allora segretario
provinciale del partito, Edoardo Ottaviano, nella quale scrivevo che “a Orsogna…sia i
contadini che gli operai e artigiani non hanno riserve da fare sull’intervento sovietico.
Qualche esitazione c’è fra gli intellettuali, e solo raramente fra gli altri...”.
Negli anni successivi, naturalmente, la mia opinione sulla rivolta ungherese è cambiata.
Grazie innanzitutto all’VIII Congresso del PCI, che ha rappresentato per me un momento
essenziale nella formazione dei miei orientamenti politici di fondo e grazie anche al
dibattito che ci fu nel partito, tra il ‘61 e il ‘62, sulla nuova denuncia da parte di Krusciov
al XXII Congresso del PCUS su Stalin e lo stalinismo. Tuttavia non mi rimprovero
affatto l’impegno profuso in quei giorni così difficili, per difendere le ragioni nelle quali
credevo, assieme a milioni di persone.
E’ vero, in Ungheria era esplosa in maniera violenta, prima che un tentativo
controrivoluzionario che pure era presente, una richiesta di libertà e di democrazia che
andava compresa e alla quale andava data una risposta convincente e nuova, cosa che
non avvenne e sta qui anzi una delle più grandi responsabilità del comunismo sovietico,
è anche vero però che in un mondo così profondamente diviso e pronto ognuno ad
approfittare senza troppi scrupoli degli errori dell’altro non era facile muoversi usando
il fioretto!
La risposta che bisognava dare era quella che poi diede il PCI con l’VIII Congresso, pur
scontando la riconferma del legame speciale con l’URSS.
Ma questa risposta fu possibile anche perché, nel frattempo, eravamo riusciti a fermare
l’attacco avversario e a impedire che parte consistente delle nostre forze venisse
distrutta!
Negli anni che seguirono, il mio apprendistato politico si arricchì di sempre nuove
esperienze, con un ruolo che intanto era anche mutato all’interno della sezione.
Non ricordo più esattamente in che periodo, forse agli inizi del ’57 o già nel ‘56, ero
stato eletto segretario di sezione, mentre prima ero solo membro del Comitato direttivo
nonché corrispondente, per Orsogna, de l’Unità, anche se, in questa veste, non ricordo
di aver scritto alcunché (o forse sì, come mi rammenta proprio in questi giorni un antico
amico democristiano che dice di essersi ritrovato, all’epoca, bersaglio di un mio articolo
intitolato Carnevale in parrocchia?!).
La mia elezione a segretario di sezione è stato il primo passo di un lungo cammino nel
partito, con funzioni dirigenti, che nel corso degli anni mi ha visto ricoprire via via i più
diversi incarichi di lavoro, davvero nessuno escluso, dai più modesti ai più prestigiosi.
Sono stato responsabile di zona, in periodi diversi, prima a Lanciano e poi nel vastese;
ho diretto settori di lavoro, tra i più varii, nella federazione di Chieti e in quella di
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Avezzano; sono stato segretario provinciale dei giovani comunisti e anche membro
del Comitato centrale della FGCI all’inizio degli anni ‘60; ho rivestito la carica
di segretario di federazione, prima a Chieti e poi a Pescara; sono stato responsabile
dell’organizzazione nella segreteria regionale dell’Abruzzo per quasi tutta la seconda
metà degli anni ’70; sono divenuto infine segretario regionale del Molise e membro del
Comitato Centrale del partito.
Per la verità, non ho mai dovuto brigare per avere incarichi; qualche volta, semmai, ho
dovuto darmi da fare per scansarli.
In genere, sono stati sempre gli altri a chiamarmi: da questo punto di vista, anzi, credo
di poter dire che ho sempre avuto dai compagni il riconoscimento, oltre che delle mie
qualità, anche della mia capacità di impegnare sempre, fino in fondo, tutto me stesso
nel lavoro che mi veniva affidato, senza mai tirarmi indietro di fronte alle difficoltà e,
quando c’erano contrasti, cercando sempre di ascoltare tutti pur decidendo alla fine
secondo i miei convincimenti.
Insomma, per dirla in linguaggio aulico, posso vantare un bel cursus honorum, fatto
però, più che di onori, essenzialmente di lavoro e di fatica fisica e intellettuale!
Credo, per esempio, che non sia facile per nessuno percorrere tutti i chilometri che io ho
percorso in oltre quaranta anni di attività (se ci metto anche l’attività che ho continuato
a dare, prima nel PDS e poi nei DS), contare tutte le volte che sono tornato a casa, a ore
molto piccole, da paesi lontanissimi e percorrendo strade allora davvero disagevoli, e
poi le domeniche e tutti gli altri giorni di festa (allora si usava così) passati nelle sezioni
o sulle piazze in comizi, riunioni, ecc.
Accanto al lavoro di partito c’è stato poi quello nelle istituzioni.
Per tantissimi anni sono stato, infatti, consigliere comunale, d’opposizione naturalmente:
prima a Lanciano, per oltre 7 anni, dal ’64 al ’70, poi a Chieti, nel periodo ’70-‘80, quindi
a Pescara, anche se solo per pochi mesi perché mi dimisi appena dopo la mia elezione
a segretario regionale del Molise, infine a Orsogna dove sono stato prima sindaco e poi
consigliere di opposizione: insomma, una specie di globetrotter costretto a macinare per
questo fatica e lavoro!
A conti fatti, anche se la cosa è solo parzialmente veritiera, l’incarico che si è rivelato
per me meno gravoso dal punto di vista fisico è stato quello di parlamentare!
Nel mio nuovo incarico di segretario di sezione, cercai naturalmente di mettermi subito
al lavoro, senza adagiarmi sugli allori; e debbo dire che i risultati non mancarono:
aumento degli iscritti, diffusione domenicale de l’Unità che era allora tra i compiti più
importanti di una sezione e che in precedenza non si faceva, organizzazione di comizi,
riunioni nelle contrade, ecc.: in altre parole, mi diedi da fare seriamente per rendere più
costante e incisivo il ruolo dei comunisti nella vita del paese.
I risultati, qualche anno dopo, arrivarono anche con il raddoppio dei nostri consensi
elettorali, con le elezioni politiche del 1958.
Quelle elezioni erano le prime che si svolgevano in Italia dopo i fatti d’Ungheria,
rappresentavano quindi un appuntamento assai delicato per i comunisti, che mettevano
alla prova anche le scelte fatte con l’VIII Congresso e la via italiana al socialismo.
Esse, inoltre, avevano luogo in una fase nella quale il centrismo, che aveva governato
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fino ad allora l’Italia, era ormai alle sue battute conclusive, ma il centro-sinistra non
riusciva ancora a sbocciare: diventarono così anche il terreno di confronto tra prospettive
politiche diverse che impegnava tutte le forze in campo, compreso il PCI, tenendo conto
che uno degli obiettivi del centro-sinistra, nella strategia dei capi democristiani, era
quello di isolare i comunisti.
Le elezioni, a livello nazionale, andarono bene alla DC e al PSI, che guadagnarono a
spese delle cosiddette forze intermedie e delle destre, ma il PCI tenne con un guadagno
di voti sia pure solo dello 0,1% sul ’53, insomma usciva vincente la prospettiva del
centro-sinistra ma l’indebolimento del PCI non ci fu.
A Orsogna, il risultato fu un po’ diverso: noi raddoppiammo i voti alla Camera rispetto
al ’53 (564 contro 235), mentre al Senato avevamo raggiunto quasi i 450 voti; aveva
perso però molto il PSI che scendeva, alla Camera, dai 1052 voti del ’53 a 678 e i due
partiti assieme avevano addirittura raggranellato una quarantina di voti in meno rispetto
alle precedenti elezioni politiche, mentre la DC recuperava tutti i voti persi nel ’53 e
tornava ad essere il partito più forte!
Tuttavia quelle elezioni non furono importanti per me solo per questo. Fu infatti proprio
in questa occasione che feci i miei primi discorsi in pubblico, da un balcone e con
un microfono davanti: l’emozione era forte, perché in quel momento era come se mi
trovassi solo davanti a un esercito ostile pronto a infilzarti al primo errore, ma non mi
lasciai spaventare...
Tenemmo molti comizi quell’anno, nel corso della campagna elettorale; e fu anche una
campagna, oltre che intensa, brillante. E avemmo a disposizione anche molti oratori.
Tra questi ricordo con particolare simpatia Orialdo Soverini, un emiliano venuto,
credo, da Budrio, in provincia di Bologna, per fare il segretario provinciale della CGIL,
era bravissimo nei comizi con battute fulminanti nei confronti degli avversari che
piacevano tanto alla gente, e così lo facemmo venire addirittura due volte, all’inizio e
alla conclusione della campagna elettorale.
A presentare gli oratori, con brevi interventi, pensavo invece io, come segretario di
sezione; e debbo dire che la cosa fu accolta bene, tanto è vero che, per l’ultima sera di
campagna elettorale, fui invitato dai compagni di Arielli a tenere il comizio di chiusura
nel loro piccolissimo comune, poco più di 800 elettori.
La richiesta mi mise piuttosto in ansia, sarebbe stato un comizio vero e proprio e non
una semplice presentazione, tuttavia accettai.
Mi preparai naturalmente con cura, scrivendo tutto il testo del comizio che poi cercai
di pronunciare senza leggere, le cose stavano andando tutto sommato bene, anche se
quel che dicevo peccava di una certa astrattezza, a un certo punto però mi capitò un
fatto piuttosto singolare, non previsto: il tempo a mia disposizione per il comizio era
ancora parecchio, ma io avevo esaurito gli argomenti che mi ero preparati e non sapevo
come andare avanti. Confesso che mi trovai in grande imbarazzo, anche perché non
utilizzare tutto il tempo che ci era stato assegnato avrebbe significato dare un vantaggio
all’avversario, tenni però duro e così, cercando di arrabattarmi alla meglio, tirai avanti
fino all’ultimo rintocco di orologio!
Tuttavia, in fatto di comizi, mi rifeci ampiamente qualche anno dopo, in occasione delle
elezioni amministrative del 1960.
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Come ho già ricordato, in quelle elezioni il partito mi candidò al Consiglio provinciale,
per il collegio di Orsogna. E pur se contemporaneamente ero candidato anche a Lanciano,
come capolista al Comune, tuttavia ciò non mi impedì affatto di condurre una vigorosa
campagna elettorale in paese, oltre che negli altri comuni del collegio.
Ricordo che tenni, a Orsogna, addirittura tre o quattro comizi, sempre molto affollati; e,
in più, anche qualche riunione di quartiere e di contrada. E la scelta che compiemmo, sul
piano propagandistico, fu quella di attaccare senza risparmio di colpi l’Amministrazione
uscente, repubblicana, che si tirava dietro un lungo strascico di malcontenti, senza
graziare per questo la DC che tuttavia si avvantaggiò del nostro attacco.
Il clima nel corso della campagna elettorale si fece davvero rovente; e ci furono scambi
molto duri da una parte e dall’altra. Il fatto, poi, che io martellassi con forza ed efficacia
gli avversari portò non solo gli orsognesi ma anche molti dei paesi vicini a non perdersi
un comizio, così anche in questa occasione tantissima gente si spostava da un lato
all’altro della grande piazza.
A fare spettacolo erano soprattutto le donne, molte delle quali si portavano dietro la
sediolina per assistere sedute ai comizi della serata: di solito si raccoglievano tutte sul
largo marciapiede che si trova a fianco della chiesa di S. Rocco e di lì si godevano fino
alla fine lo scontro, con tanto di rilancio reciproco di cortesie, fra i duellanti.
La campagna elettorale del ’60 è tra quelle che più mi è rimasta viva nella memoria,
anche in una serie di particolari. E non solo per la intensità che la caratterizzò, ma anche
per il fatto che mai tanto calore ho sentito attorno a me.
Sono stato candidato anche altre volte a Orsogna, ancora nel ’64 per la provincia e
poi nel 1985 e nel 1990 per il Comune, un calore simile però l’ho ritrovato solo nelle
elezioni comunali del 1985, quando fui eletto sindaco, e poi nel 1983 e nel 1987, in
occasione delle mie due candidature al Parlamento.
Ricordo ancora i mazzi di fiori che mi portava, alla fine di ogni comizio, una vecchia
compagna, la Scucchie, questo era il suo soprannome, che non aveva paura di nulla
e faceva campagna elettorale per cento persone; come ricordo anche il lungo corteo
festoso di compagni e simpatizzanti che si formava dietro di me quando scendevo dal
balcone dove avevo parlato…
Il ’58 fu anche l’anno nel quale partecipai, presso la scuola centrale del PCI, al corso di
formazione politica, della durata di tre mesi, al quale ho già fatto cenno.
Il corso, se ben rammento, si svolse prima delle elezioni politiche. Nelle fotografie fatte
alla scuola, abbiamo tutti il pullover o la giacca, è probabile quindi che fosse tra la fine
dell’inverno e gli inizi della primavera.
La scuola aveva sede alle Frattocchie, una località non molto distante da Roma, ed era
ospitata in una grande villa (allora di proprietà del PCI, oggi credo che sia stata venduta)
che s’incontra lungo l’Appia, sulla sinistra andando verso Napoli, qualche chilometro
dopo il bivio che porta a Castelgandolfo e prima di Albano. Era tutta immersa nel verde
e circondata dai vigneti che risalgono il pendio della collina ai cui piedi la villa era stata
costruita, insomma un posto bellissimo dove si stava proprio bene.
Era dotata tra l’altro di tutti i servizi, oltre che di una ben fornita biblioteca e delle aule per
le lezioni, e poteva accogliere all’incirca una cinquantina di persone, infatti nel periodo
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in cui anch’io fui ospite della villa vi si svolgevano contemporaneamente due corsi: uno,
per i più giovani, appunto di tre mesi, e l’altro, per dirigenti periferici già con una certa
esperienza, di otto mesi.
La nostra vita si svolgeva tutta dentro la grande villa, era come stare in un college dove
non solo si dormiva, in camerette che potevano alloggiare ognuna due persone, ma si
mangiava, c’era il bar, si poteva giocare a biliardo, a scacchi e naturalmente a carte,
e c’era poi un bel giardino, non grande ma dove era comunque possibile fare brevi
passeggiate.
La nostra giornata era prevalentemente votata allo studio.
In genere le lezioni, che di solito si concludevano con domande ai nostri insegnanti o
l’avvio di una prima discussione sull’argomento affrontato, c’erano la mattina, mentre
il pomeriggio, fino all’ora di cena, eravamo impegnati nello studio individuale; dopo la
cena, invece, passavamo il nostro tempo o a giocare o a guardare la TV, solo ogni tanto
accadeva che facessimo una scappata ad Albano, una sola volta ricordo che siamo andati
a Roma: i pochi soldi che ci erano stati dati dalle rispettive federazioni di provenienza
non ci consentivano certamente di darci alla bella vita!
Le lezioni erano tenute normalmente da Luciano Gruppi che dirigeva il corso, ma per
certe lezioni venivano appositamente da Roma dirigenti nazionali del partito (ricordo,
tra questi, in particolare Giorgio Amendola); e avevano al centro fondamentalmente
i documenti programmatici dell’VIII Congresso, anche se contemporaneamente
larghissimo spazio era riservato ad aspetti essenziali del pensiero gramsciano, in primo
luogo il concetto di egemonia, e alla storia d’Italia, in particolare al Risorgimento riletto
attraverso la interpretazione che ne aveva dato Gramsci, cosa che rappresentò per me
una vera novità.
Da questo punto di vista, debbo dire che i tre mesi trascorsi alle Frattocchie mi sono stati
di grande aiuto e di stimolo a scoprire nuovi orizzonti, soprattutto mi hanno pungolato
a conoscere ed approfondire un pensiero come quello di Antonio Gramsci che rimane
ancora oggi un punto di riferimento essenziale per la comprensione dei processi che
hanno portato alla formazione dello Stato unitario e delle sue classi dirigenti e che,
anche sotto altri profili, conserva tuttora a mio modesto avviso una grande attualità.
Ma anche per altre ragioni i giorni passati nel verde delle Frattocchie sono stati
interessanti e, debbo aggiungere, anche piacevoli.
Era la prima volta che venivo a contatto con ragazzi, più o meno della mia età, provenienti
da ogni parte d’Italia, e ciò mi offrì la possibilità di confrontarmi con esperienze e punti
di vista anche molto diversi tra loro, oltre che di stringere amicizie che ricordo con
piacere, anche se si è trattato di amicizie assai labili, durate poco più di una stagione
e fatalmente annegate, col passare degli anni, nell’oblio più completo, infatti dei miei
compagni di corso solo qualcuno ho avuto modo di rincontrare, una o due volte, in
seguito.
Di quel mio soggiorno vi è poi un avvenimento assai particolare, che più di altri
ovviamente è rimasto impresso nella memoria: parlo dell’incontro con Palmiro Togliatti
che per noi giovani era una figura mitica, per me tra l’altro era la prima volta, e rimase
anche l’unica, che mi capitava di trovarmi faccia a faccia niente meno che con il capo
del PCI che sembrava così inavvicinabile!
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Togliatti in quel periodo era venuto a passare un po’ di giorni in una villa, dove usava
recarsi spesso, che si trovava proprio a ridosso della scuola, forse a meno di cento
metri.
La villa, di proprietà anch’essa del PCI, era assai più modesta di quella che ospitava
la scuola ma ugualmente accogliente e riposante, e veniva utilizzata, oltre che per il
soggiorno di delegazioni straniere di particolare rango, da Togliatti e da altre personalità
del partito per ragioni di studio o di riposo.
Un tale uso della villa cessò solo nella seconda metà degli anni ’70, quando anch’essa
venne trasformata in scuola di formazione politica, a disposizione dei Comitati regionali
che vi potevano organizzare propri corsi. E fu proprio per questa circostanza che io ebbi
modo di entrarvi, per la prima volta, tra il ’77 e il ’78, quando anche il nostro Comitato
regionale vi organizzò un corso riservato alle compagne alle quali io tenni una lezione
sulla formazione del gruppo dirigente abruzzese del PCI, il cui testo conservo ancora.
La presenza di Togliatti nella villa in quelle settimane era nota anche a noi, ma nessuno
pensava che lo potessimo incontrare, invece un bel giorno egli venne a trovarci e ci
rivolse anche qualche parola di cortesia chiedendoci notizie sui nostri studi e sul nostro
soggiorno nella scuola: lascio immaginare la nostra emozione e poi tutti che ci demmo
da fare, per la foto di rito in bianco e nero, per stargli il più vicino possibile, io sono
proprio lì dietro a Togliatti, si vede la mia testa che spunta accanto alla sua...!
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Capitolo IV
Dopo l’incontro con il PCI, la mia vita non si esaurì naturalmente tutta nella militanza
politica: intanto perché ero impegnato con la scuola, e poi perché, a quell’età, si pensa
anche a tante altre cose, diverse dalla politica.
Mi animavano inoltre anche passioni, che ho coltivato sin dagli anni del seminario,
quali la letteratura e la poesia soprattutto, ­e che ho continuato a frequentare, in maniera
particolarmente intensa, anche dopo la scoperta della politica.
Sotto questo aspetto, l’impegno politico non ha mai rappresentato un ostacolo.
L’una passione ha sempre marciato accanto all’altra, quasi fossero due mondi distinti
che non s’incontravano ma neppure si intralciavano a vicenda: l’uno era il mondo
delle sensazioni e dei sogni, tutto privato, l’altro quello del mio rapporto col mondo
degli uomini e con la necessità della sua trasformazione, né l’uno era la proiezione
dell’altro, chissà forse c’era in questo (o meglio: avrebbe potuto esserci) una qualche
contraddizione ma io non l’ho mai avvertito.
Qualche giorno fa mi sono messo a rovistare tra le carte di quegli anni che si trovano
ancora raccolte, un po’ alla rinfusa, in uno scatolone non grande, e che sono sempre
riuscito, nonostante i tanti traslochi cui sono stato obbligato, anche da città a città, a
evitare che andassero disperse.
Ho sempre pensato infatti che non disperdere le tante carte che ho via via ricoperto
d’inchiostro nel tempo fosse, anche questo, un modo per lasciare almeno una piccola
traccia di te a chi ti segue nell’incessante cammino della vita, c’è poi da dire che, quando
hai voglia di riguardare fatti e avvenimenti che ti hanno coinvolto in prima persona, li
puoi rileggere meglio se non sei costretto a ricorrere agli altri, puoi anzi farlo quasi con
lo stesso occhio con il quale li hai già visti e vissuti una volta.
Ho trovato di tutto: fotografie, lettere, appunti vari (solo qualcuno di natura politica),
abbozzi di racconti, perfino un diario che poi non era un diario ma una sorta di mio
piccolo zibaldone segreto al quale ho confidato per alcuni anni le mie riflessioni sulla
vita, i miei innamoramenti, i miei sogni, le mie delusioni e anche il contrasto che si
agitava dentro di me tra il desiderio romantico di una vita scandita dal sogno e tutta
vissuta in una dimensione letteraria e poetica e la esigenza morale di non fare da
spettatore rispetto a ciò che accadeva nel mondo.
Ho ritrovato perfino un saggio su R. Tagore, il grande poeta indiano che amavo allora
molto e che avevo cominciato a leggere nelle edizioni Carabba ora introvabili, e poi
i testi di tante poesie composte da me, molte cancellate, altre corrette e ricorrette:
insomma un mare di cose che sono stati come tanti lampi di flash su un periodo della
mia vita molto intenso e ricco, attraversato da sogni, amori, amicizie, giornate luminose
e giornate buie che sono là e alle quali ora posso solo guardare con l’occhio della
nostalgia, ma anche con la consapevolezza che quegli anni così lontani sono stati anche
gli anni della faticosa ricerca di me stesso: come recita un mio verso di allora, erra a
lungo l’uomo nella ricerca di se stesso...!
Tra quelle tante pagine ingiallite, c’è anche un foglio volante con l’inizio di una poesia
poi mai completata, che rende bene il senso di questa nostalgia che è la nostalgia della
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mia giovinezza:
Ora, anche il crisantemo è sfiorito;
e della nostra giovinezza
non restano che questi
pochi fogli ingialliti
che una volta parlavano d’amore.
Di te, di me…
Ho scritto poesie sin dagli anni delle medie, in seminario, e ho continuato a scriverne
fino all’inizio degli anni ’60, credo che l’ultima porti la data del ’63, poi ho smesso
preso da altre esigenze.
La gran parte di esse ha fatto naturalmente la fine che meritavano, ne ho conservate
tuttavia un certo numero che forse, care Valentina e Benedetta e care Elisa e Martina,
trascriverò a margine di questi ricordi a ruota libera, qualcuna di esse mi pare ancora
oggi non disprezzabile se non addirittura bella, non le ha lette finora mai nessuno, ma
voi sì, le potete leggere, così potrete conoscere proprio bene il nonno e il suo mondo di
tantissimo tempo fa.
Con l’avvio del nuovo anno scolastico, nell’autunno del 1952, iniziai a frequentare
la seconda classe del liceo classico di Lanciano. La sede che l’ospitava, un vecchio
palazzo che si trova proprio sul Corso, oggi è chiusa e fa piuttosto pena a guardarla per
quanto è malridotta, abbandonata a se stessa ormai da molti anni.
Per accedervi, dovetti naturalmente sostenere, come privatista, gli esami di passaggio
dal primo al secondo liceo, il seminario infatti era a tutti gli effetti un istituto privato
(ricordo che anche a conclusione del quinto ginnasio dovemmo sottoporci a un esame
analogo, che si svolse in un istituto scolastico di Vasto, con una commissione esterna).
Le cose andarono bene, salvo che per la matematica.
Non ho mai amato la matematica, così non mi sono mai impegnato seriamente a studiarla
e soprattutto a capirla (forse la colpa è stata anche dei miei insegnanti che non me
l’hanno mai fatta né amare né capire), all’epoca tra l’altro per chi seguiva studi classici
la matematica aveva un valore del tutto secondario.
Così, fui bocciato appunto in matematica e durante l’estate dovetti fare anche delle
ripetizioni per affrontare gli esami di riparazione.
Non è però che imparassi molto di più di quello che sapevo, tuttavia a ottobre me la
cavai ugualmente grazie anche, o forse soprattutto, al sostegno strenuo che ricevetti
dalla professoressa di italiano che poi ebbi come insegnante nei due anni di liceo.
Raccontata così, sembra che la continuazione degli studi da parte mia, dopo l’uscita dal
seminario, sia stato un fatto del tutto scontato, in realtà non fu così.
Fu, al contrario, il risultato molto sofferto di uno scontro anche aspro con mio padre,
il quale, da questo punto di vista, continuava a pensarla alla vecchia maniera: venuto
meno il seminario, non essendoci i soldi necessari per mantenere un figlio agli studi,
cosa fa il figlio di un contadino povero? Fa quello che hanno sempre fatto i figli dei
contadini poveri, e cioè fa il contadino anche lui, al massimo emigra!
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La mia opinione invece era molto diversa. Continuare gli studi era, per me, assolutamente
fuori discussione.
Iniziò così un braccio di ferro con mio padre che durò diverso tempo, intanto mi
preparavo agli esami, ma alla fine fui io che la spuntai, grazie anche a mia madre che
è sempre stata più attenta alle mie aspirazioni e ai miei interessi e ha cercato sempre di
darmi una mano, qualche volta anche di nascosto da mio padre.
Questa non fu l’unica volta che mi scontrai con mio padre: non solo la pensavamo in
maniera diversa su tante cose ma, essendo tutti e due molto ostinati nelle proprie idee e
anche sufficientemente orgogliosi ognuno di proprio, le occasioni di conflitto era quasi
naturale che si presentassero spesso.
Per questa ragione, le ho anche prese spesso.
Lui usava lu cintrine per domare la mia ostinazione e la mia indipendenza, ‘nci mitte
proprie judizie mi ripeteva, anche se all’epoca non era per nulla il solo a servirsi di
metodi tanto duri. Anche a scuola i maestri usavano volentieri e spesso nodose e pesanti
ferule o ti mettevano in ginocchio dietro la lavagna con i ceci sotto le ginocchia, e non è
che i genitori protestassero per questo, la convinzione diffusa (e chissà che non avessero
anche un po’ di ragione) era che mazze e panelle fanne li fijje bbelle!
Ne ricordo parecchi di questi scontri. Uno addirittura quando avevo intorno ai dieci anni
e frequentavo ancora la quinta elementare.
Dalla fine della guerra era passato ormai un anno o poco più e a Orsogna la vita si andava
normalizzando. E tra i segni di questo ritorno alla normalità c’era anche l’apertura in un
grande cortile recintato da mura di un cinema all’aperto che restò in piedi per qualche
decennio, fino alla inaugurazione del nuovo cinema nel vecchio teatro comunale.
Il cinema allora richiamava sempre una grande folla, e tutti, anche i ragazzini, cercavano
in ogni modo di non mancare lo spettacolo.
Anch’io, ovviamente, avevo una grande voglia di andare al cinema, e così mi diedi da
fare per soddisfare questo mio desiderio: data l’età, non pagavo neppure il biglietto,
c’era bisogno però di un adulto che mi accompagnasse, ma nessuno dei miei andava
mai al cinema.
Finalmente però un bel giorno il mio sogno si avverò.
Tra i miei compagni di scuola, all’ultimo anno delle elementari, c’era il figlio di un
commerciante di Orsogna, Filippo, con il quale sono rimasto amico per molti anni,
finché almeno abbiamo avuto l’opportunità di vederci.
Egli andava al cinema con i genitori tutti i sabato sera, e io per questo lo invidiavo
proprio. Anzi, glielo dissi pure, lui evidentemente ne parlò con i suoi e così un giorno
mi annunciò che, se volevo, potevo andare con lui.
Io naturalmente ne fui molto contento e, senza pensarci troppo, il sabato sera successivo
mi feci trovare puntuale davanti al cinema: così entrai con lui, accompagnato dai suoi
genitori, a godermi lo spettacolo.
Quando il film finì, era ormai passata la mezzanotte; e io, manco a dirlo, mi precipitai
subito verso casa, allora abitavamo ancora in paese: ma con mia grande sorpresa trovai
la porta di casa sbarrata dall’interno, mio padre che non voleva che andassi al cinema
mi aveva chiuso fuori!
Bussai naturalmente, ma non si affacciò nessuno, non mi rimase perciò altro che tentare
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di scalare -cosa che non mi fu difficile- la parete di casa e arrivare al balcone del primo
piano, e quando vi saltai dentro, poiché era chiusa anche la finestra, mettermi a dormire
lì, sul pavimento, per fortuna era estate e faceva caldo.
La mattina dopo, all’alba, ci pensò mio padre a svegliarmi con la solita cinta!
Un fatto analogo mi capitò, sempre d’estate, quando avevo già intorno ai diciannovevent’anni, allora abitavamo in campagna, finii però questa volta con l’andare a dormire
su un albero di fico, anche perché non c’erano balconi nella nuova casa e a terra non era
proprio il caso, c’era troppa umidità.
Il treno che ci portava a scuola, a Lanciano, era quello che tante volte avevo visto
passare, quand’ero ancora bambino, dalla casa di campagna dove mio padre fu colto
dallo scoppio della guerra, la masseria di Sacchedimbrujie (il significato è chiaro, non
c’è bisogno di spiegarlo, ma non ne conosco l’origine); e ha sempre avuto il nome
con il quale tutti lo conoscevamo: la Sangritana, anche se in realtà questo era il nome
della società che gestiva in concessione, per conto dello Stato, quella linea ferroviaria a
carattere locale, a trazione elettrica ed a scartamento ridotto.
Il nostro treno partiva tutte le mattine da Ortona e correva a fianco della statale Marrucina
fino a Melone, una contrada di Guardiagrele, ai confini con Orsogna, dove svoltava in
direzione di Lanciano, raccogliendo una grande folla di studenti lungo il percorso e
collegando tutti i paesini dell’interno con i due centri maggiori della zona: appunto
Lanciano e Ortona, all’epoca infatti non c’erano altri collegamenti e l’unica corriera che
partiva da Orsogna portava a Chieti passando per Tollo.
Oggi la Sangritana -dopo molti salvataggi, di qualcuno dei quali mi sono anch’io
interessato quand’ero parlamentare: ma i suoi bilanci erano sempre in rosso- è passata
alla regione e continua a funzionare solo per il tratto Lanciano-S. Vito, per il resto
la sede ferroviaria è ormai invasa da un’erba folta e i binari vengono mangiati dalla
ruggine.
Anch’io naturalmente mi imbarcavo ogni mattina sulla Sangritana, ma dovevo
muovermi in fretta da casa per arrivare a tempo alla stazione se il treno, che riprendeva,
da Orsogna, la sua corsa verso Lanciano intorno alle sei e mezza-sette, non volevo
soltanto vederlo passare. Così, tutti i santi giorni, finché non arrivavano le vacanze, ero
costretto ad alzarmi la mattina intorno alle cinque (e, l’inverno, a quell’ora non solo era
buio pesto ma faceva anche un freddo cane) e a fare a piedi, a passo di bersagliere, con
il borsone dei libri in una mano, una bella camminata di quasi tre chilometri: abitavamo
allora in campagna, a Colle S. Giacomo, dove i miei si erano trasferiti qualche anno
dopo il mio ingresso in seminario.
Ricordo che eravamo ogni mattina una bella e chiassosa frotta di ragazze e ragazzi. Tutti
con i visi ancora un po’ insonnoliti quando ci incontravamo alla stazione, appena saliti
però sul treno, nei vagoni si sentivano solo le nostre chiacchiere e le nostre risate.
Erano in molti adesso che mandavano i figli (e anche le figlie) a scuola, a conquistare un
diploma, segno tangibile non solo di un grande passo avanti per tanti nella scala sociale
e nel costume ma anche delle nuove possibilità che si aprivano ai giovani di accedere
a un lavoro leggero, come si diceva allora, e cioè non duro e a volte massacrante come
quello dei padri, preferibilmente alle dipendenze dello Stato o del Comune.
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La quasi totalità delle ragazze frequentava le magistrali, i ragazzi invece le scuole
tecniche.
A frequentare il liceo eravamo invece solo in tre: io, Filippo (sì, proprio quello che mi
aveva dato la possibilità di andare per la prima volta al cinema) e Giovanni, il figlio di
un macellaio, che poi, preso il diploma, si iscrisse all’Accademia Militare e non lo vidi
più. Pur frequentando la stessa classe, ci avevano però assegnati a sezioni diverse, e così
non ci si vedeva molto tra di noi; ma, mentre con Filippo funzionava ancora la vecchia
amicizia, con Giovanni invece non ci fu mai un grande feeling.
Tornavamo da Lanciano in genere intorno alle due del pomeriggio. Dalla stazione allora
era tutto uno sciamare chiassoso di ragazze e ragazzi che si riversavano sul lungo viale
che ci portava fino in piazza, poi ognuno imboccava la direzione di casa.
A noi del liceo non era però sempre possibile tornare assieme agli altri.
Due o tre volte la settimana infatti uscivamo all’una e mezza da scuola, quando ormai il
nostro treno aveva già preso il largo, e dovevamo perciò attendere la corsa successiva.
Un’attesa di oltre due ore, assai stressante per chi, come noi, aveva iniziato di primo
mattino la giornata e saremmo arrivati a casa non prima delle cinque: d’inverno, era
già quasi buio e i compiti per l’indomani bisognava comunque prepararli, per giunta
(almeno per me) a lume di carburo perché ancora in quegli anni da noi, nelle campagne,
non c’era la luce elettrica...
Ma c’era poco da lamentarsi. E così, dopo aver mangiato la nostra stozza, e cioè il panino
abbondante portato da casa, per rinfrancare le nostre forze, consumavamo l’attesa in
chiacchiere, passeggiando o stravaccati su qualcuno dei tanti sedili disseminati tra i
viali e le aiuole che si trovano ancora oggi attorno alla stazione di Lanciano.
Il momento migliore per noi ragazzi era il viaggio che durava quasi un’ora (un po’ di
più all’andata, perché c’era la salita di Castelfrentano): il trenino si fermava a ogni
paese e imbarcava (o buttava fuori) via via altri ragazzi, quando poi affrontava le salite
cominciava a sbuffare e rallentava, in ogni modo c’era per noi tutto il tempo per ripassare
una lezione, chiacchierare del più e del meno, corteggiare una ragazza…
In genere, sul treno ci si ritrovava sempre con lo stesso gruppo, quindi era normale
che nel corso dell’anno si intrecciassero storie, magari assai fragili e di breve durata;
qualche volta si cambiava gruppo ma era un’eccezione, in ogni modo ci si conosceva
tutti e i rapporti tra noi erano molto liberi, parlo soprattutto del rapporto tra ragazze e
ragazzi.
Da questo punto di vista, la situazione era davvero curiosa, nel senso che quando si
scendeva dal treno ognuno era costretto a riprendere il suo posto, tornando all’antico:
le ragazze con le ragazze, i ragazzi con i ragazzi e quando ci si incontrava per le vie
del paese ci lanciavamo sguardi intensi e ammiccanti ma non ci si fermava neppure a
parlare, così voleva la morale dell’epoca!
Ma era già uno straordinario passo avanti.
Prima della guerra infatti era peggio.
C’era addirittura chi praticava ancora, per prendere in moglie la ragazza che gli piaceva,
il rito del rapimento sia pure soltanto simbolico: era sufficiente scoprire, davanti alla
gente, la testa della ragazza agognata impossessandosi di lu fazzole, la pezzola di stoffa
colorata che la copriva. A quel punto la ragazza era considerata da tutti come rapita e
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perciò compromessa, e difficilmente qualcuno si sarebbe fatto avanti per sposarla. J’à
levate lu fazzole, non c’era proprio rimedio! Anche se bisogna dire che, almeno negli
anni prima della guerra, il rapimento era diventato in realtà (e forse era sempre stato)
solo ammuina: la sceneggiata si rendeva necessaria soprattutto per superare d’un balzo
divieti familiari, quando i ragazzi erano già d’accordo tra loro; o, più spesso, per evitare
di spendere in vestiti e pranzi quel che molti non possedevano.
Tra le rapite per amore c’è stata anche mia zia Linuccia; e ancora oggi essa racconta con
orgoglio come il marito, lo zio Giuseppe, le togliesse lu fazzole, così la madre di lei non
poté più opporsi alle nozze della figlia.
Le cose a scuola andavano bene.
Io ero stato aggregato alla sezione C, mentre la crema della Lanciano bene era tutta
nella A e, in mezzo, c’erano quelli della B.
La nostra sezione, insomma, si collocava all’ultimo gradino della scala sociale scolastica
e raccoglieva, oltre agli ultimi arrivati come me, i ripetenti e quasi tutti quelli che
venivano da fuori Lanciano.
Ciononostante, non eravamo affatto gli ultimi sul piano delle capacità e del profitto.
C’erano naturalmente anche tra di noi alcuni ragazzi un po’ duri di comprendonio, ma
nel complesso eravamo una buona classe che diede una positiva prova di sé in diverse
occasioni.
Ricordo, ad esempio, quando alcuni dei nostri si diedero da fare per mettere in piedi
una iniziativa abbastanza inusuale all’epoca come la pubblicazione di un giornalino di
contenuto non goliardico, al quale anch’io collaborai pubblicando sull’unico numero un
mio racconto dedicato, guarda caso, a una ragazza con la quale viaggiavo tutti i giorni
e che mi piaceva molto.
Anche agli esami di terza liceo le cose andarono discretamente per noi; io poi, pur
essendo della C, non solo aiutai ragazzi delle altre sezioni per i compiti di latino e greco
ma fui tra quelli che ebbero il risultato migliore di tutta la scuola per le materie letterarie
e il mio tema di italiano fu addirittura inviato al Ministero, assieme ai migliori temi
degli altri licei d’Italia.
Insomma, ce la cavammo con onore!
Molti dei miei compagni di scuola li ho persi ovviamente di vista dopo il liceo. Tuttavia,
con alcuni di essi, lancianesi, ho mantenuto anche in seguito dei rapporti sia pure saltuari,
anche perché nel periodo che sono stato a Lanciano come responsabile di zona del
partito e poi, fino al 1970, come consigliere comunale mi accadeva spesso di incontrarli.
Qualche altro invece l’ho risentito solo molti decenni dopo: uno di questi è Basilio
che avevo avuto come compagno di classe e di camerata in seminario, fino al quinto
ginnasio, ed ebbi poi, un paio d’anni dopo, compagno di classe al liceo, a Lanciano.
Con Basilio ci siamo ritrovati un giorno del 1994, era intorno alla metà di agosto,
attraverso una lettera che mi vidi arrivare del tutto inaspettatamente e nella quale egli
proponeva un incontro conviviale tra tutti quelli che avevano conseguito la licenza
liceale nel lontanissimo 1954.
Io gli feci subito sapere di essere d’accordo, tuttavia l’iniziativa non andò in porto: forse
fu giusto così perché a quarant’anni di distanza si confrontano, non più le speranze,
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ma gli esiti, non sempre soddisfacenti (a volte, anzi, c’è proprio da piangere...), del
percorso compiuto da ciascuno.
Quando ci sentimmo per telefono, ci ripromettemmo anche un incontro in tempi brevi,
ma la cosa rimase lettera morta per parecchi anni. Finalmente però, un bel giorno,
l’incontro quagliò e ci demmo appuntamento a Pescara.
Debbo dire che fui molto contento di rivedere il mio antico amico: negli anni del
seminario, ma anche ai tempi del liceo, c’era sempre stato un buon rapporto tra noi.
Ricordo, quando eravamo ancora ragazzini e muovevamo assieme, tra le mura del
seminario, i primi passi sulla via dello studio e della vita, la sua vivacità e la sua allegria;
e come amava scherzare, ogni occasione era buona, mettendoci in questo sempre un
pizzico di ironia e a volte, se così si può definire una certa sua scanzonata strafottenza
nel rapporto con gli altri, anche di cinismo. Né, bisogna dire, gli faceva difetto il gusto
della battuta goliardica.
Ricordo anche che durante gli anni del seminario discutevamo spesso tra noi, a volte
anche animatamente. Qualche volta, invece, ci scontravamo solo per gioco, quasi a
misurare davanti ai compagni le rispettive capacità dialettiche. Come quando, una sera,
dopo cena -eravamo già tornati in camerata e ci stavamo godendo l’ultima ricreazione
della giornata prima che scoccasse l’ora del silenzio e del tutti a letto- ci sfidammo sul
comunismo (dovevamo essere già grandicelli e conoscere qualcosa di più del mondo
esterno): io, le strane coincidenze della vita!, a sostenerne le ragioni, che non conoscevo
affatto; e lui, che ne sapeva quanto me, a contrastarle!
Quando ci siamo rivisti a Pescara, erano passati quasi cinquant’anni dai tempi del
liceo.
Ma non ci fu alcun imbarazzo né da parte mia né da parte sua, ricominciammo a
chiacchierare come se ci fossimo lasciati il giorno prima. E sicuramente, almeno per
quanto mi riguardava, a questo contribuì l’impressione che subito ebbi, e della quale
fui assai lieto, di avere di fronte, nonostante il tanto tempo trascorso, il Basilio di
una volta: non mi sembrava affatto cambiato da come l’avevo conosciuto negli anni
dell’adolescenza e della giovinezza. La stessa impressione, insomma, che avevo
ricavato dal biglietto di auguri che egli mi inviò per le feste di Natale alcuni anni prima
che ci rivedessimo.
Tra le mie carte conservo tuttora quel biglietto; e in esso si possono ancora leggere i due
versi in tardo latino utilizzati per farmi gli auguri.
Sono versi tratti da un antico inno religioso, scritto dal poeta cristiano Celio Sedulio e
adottato, successivamente, dalla liturgia natalizia:
Venter puellae baiulat
Secreta quae non noverat…
Un biglietto, ammetterete, piuttosto singolare. Non tanto per la citazione quanto per il
fatto che i due versi, letti fuori del loro contesto, si prestano facilmente a una lettura
tutt’altro che pia, come se a scriverli non fosse stato il poeta cristiano devoto del V secolo dopo Cristo, ma un chierico vagante medievale in vena di lascivie: il ventre della
fanciulla porta dentro di sé le dolcezze segrete che non ha conosciuto...
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E così infatti, sono sincero, io subito li lessi, felice di ritrovare in questo l’amico spiritoso
e allegro di un tempo, lo stesso che ho poi ritrovato a Pescara, con la sua vivacità e la
sua voglia d’ironia e del gioco divertito e divertente, sempre un po’ malizioso e anche
intriso di goliardia, mai musone...
Di quegli anni ricordo con grande piacere anche alcuni professori.
Alcuni di essi non è che mi abbiano dato molto. Parlo, ad esempio, della professoressa
di filosofia che era sempre un po’ legnosa e parsimoniosa nelle sue lezioni, ma anche dei
miei professori di matematica (ne ho avuti più di uno) e di scienze.
Quest’ultimo, ormai vicino alla pensione, ricordo che l’unico sforzo che faceva era
quello di venire a scuola e dettarci i suoi appunti di chimica e storia naturale che
avevano ormai assunto, già da molti anni, la veste di testi canonici immutabili, senza
riuscire naturalmente in nessun modo a suscitare il nostro interesse (ma non ci provava
neppure), pur trattandosi di argomenti davvero meravigliosi, era insomma proprio una
noia assistere alle sue lezioni.
Altra cosa invece erano Lidia P., la nostra giovane professoressa d’italiano (non ricordo se
ci insegnava anche latino, lei comunque era molto brava soprattutto per l’insegnamento
dell’italiano), e don Antonio, il nostro professore di greco.
Don Antonio, che aveva tra le altre cose una non comune conoscenza della metrica
greca che ci spiegava sempre in maniera accurata, ci ha trasmesso soprattutto il suo
grande amore per la poesia greca, principalmente per i poeti lirici, e di questo io gli sono
molto grato ancora oggi.
Lidia P., che mi prese subito, sin dal giorno dei miei esami come privatista per accedere al
secondo liceo, sotto la sua protezione, contribuì moltissimo a rafforzare la mia passione
per la letteratura e a stimolare la mia voglia di cimentarmi con la creazione poetica.
Anche nello studio del latino, non so dire però -lo ripeto- se il merito è suo o invece di
don Antonio, mi ha fatto amare molto i grandi poeti latini, da Catullo a Orazio a Ovidio
e, soprattutto, a Virgilio e Lucrezio.
Don Antonio oggi lo incontro spesso per Chieti, ormai abbastanza vecchio e curvo, ma
non ci siamo mai né salutati né parlati, intanto perché l’ho rivisto a distanza di molti
anni da quando ci teneva le sue belle lezioni di letteratura greca; e, poi, tra noi non c’è
mai stata confidenza, egli per la verità non la dava a nessuno ed era sempre piuttosto
distaccato e severo nel rapporto con gli alunni.
Lidia P. invece non la vedo ormai da decenni, anche se ho sempre chiesto e ancora
oggi chiedo notizie di lei e so che anche lei ha chiesto qualche volta notizie di me,
sia quand’ero ancora consigliere comunale a Lanciano che dopo la mia elezione a
deputato.
Solo qualche anno fa, parlo del 1999, l’ho come rincontrata, sia pure attraverso mio
figlio Stefano, che ha utilizzato il giardino della villa che la sua famiglia possiede a S.
Vito per fare una parte delle fotografie che di solito si fanno nel giorno delle nozze: lei
era al corrente del fatto e incontrandolo, mentre si spostava nel giardino con la moglie
e il fotografo per cercare le inquadrature migliori, gli ha chiesto se era mio figlio, oltre
a questo, però, nulla più, mi resta solo il buon ricordo che ho di lei e del suo contagioso
entusiasmo per la letteratura italiana e per la poesia.
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Concluso il liceo, all’inizio dell’autunno del 1954 mi sono iscritto all’Università, alla
Sapienza di Roma.
Naturalmente per l’iscrizione dovevo recarmi a Roma, dove non ero mai stato, a mie
spese, ma fui fortunato: durante l’estate avevo conosciuto gli zii di Filippo, che mi
ospitarono assieme al nipote nella loro casa, nella zona di Monteverde.
Così potei restare a Roma una quindicina di giorni, provvedere con tutta calma agli
adempimenti necessari alla iscrizione, io mi iscrissi alla facoltà di Lettere e Filosofia,
corso di laurea di Lettere antiche, mentre Filippo si iscrisse a Farmacia, e approfittare
della circostanza anche per conoscere qualcosa di Roma. Ci accompagnava lo zio,
Cesare, e ricordo che ci portò a visitare, oltre al Vaticano, anche il Mosè di Michelangelo
nella chiesa di S. Pietro in Vincolis.
Gli zii di Filippo furono davvero gentili con me, in seguito non ho avuto più l’opportunità
di essere loro ospite, ma ho sempre mantenuto un contatto -sia pure sporadico- con loro,
perché quasi ogni anno venivano a passare le vacanze a Orsogna.
Avevano due figlie, ma la più grande, che aveva tra i dodici e i tredici anni, purtroppo
era malata di tisi (credo) e di lì a qualche anno sarebbe morta. Si chiamava Maddalena,
un viso triste e pallidissimo già quando la conobbi, e la sua morte mi colpì moltissimo
tanto che le dedicai una mia poesia piena di commozione, anche se i suoi genitori non
l’hanno mai letta. Eccola ora, si intitola A una fanciulla morta:
Tu che ora hai nera la bocca
come la terra,
eri un canto sommesso
nella trepida attesa di un sogno.
Con tacito incanto
il tuo leggero passo di danza
si perde nel buio.
A quale intatto sorriso volasti,
a quale stupita fiaba
di colori e di suoni?
La mia vita universitaria, che non si è poi mai conclusa con la laurea, in realtà fu quasi
inesistente.
Essa si esauriva tutta nello studio fatto a casa e nel recarmi a Roma ogni volta che
dovevo dare un esame, anche se questo non era certo il modo migliore per accostarmi
all’insegnamento universitario: mi toccava studiare solo sui testi e sulle dispense, senza
poter mai assistere alle lezioni dei professori, sobbarcandomi poi una fatica improba
quando arrivava il giorno degli esami.
D’altra parte, non avevo altra scelta. Così, ogni volta che dovevo dare un esame,
qualche giorno prima della data fissata, salivo nel tardo pomeriggio sulla Sangritana
che mi portava a Ortona, a Ortona poi aspettavo il treno proveniente dalla Puglia e con
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esso arrivavo a Pescara dove finalmente, ormai a notte già avanzata, potevo salire sulla
carrozza che alla mattina presto mi avrebbe scaricato nella Città Eterna.
Restavo a Roma naturalmente solo il tempo necessario per fare gli esami, due o tre
giorni al massimo, e poi di nuovo a casa facendo all’inverso lo stesso percorso!
Ho potuto soggiornare a Roma, nel periodo dei miei studi universitari, e fu un soggiorno
addirittura di tre mesi, soltanto una volta, tra gli inizi di gennaio e la metà di marzo del
‘56.
Avevo messo da parte un po’ di soldi facendo ripetizioni tutti i giorni, salvo la domenica,
di italiano e di latino a un gruppo di oltre quindici ragazze e ragazzi rimandati a ottobre;
e i soldi che guadagnavo li usavo per pagarmi tasse e libri.
Per la verità, per il mio soggiorno a Roma, i soldi di cui disponevo non mi erano
sufficienti, ma mi venne in soccorso la mia nonna materna, la Stelline come tutti la
chiamavano (era poi il suo cognome, Stellini, mentre il nome era Concetta), noi nipoti
invece la chiamavamo mammarosse, alla francese.
La Stelline era davvero una persona straordinaria, dotata di grande energia e
determinazione, che non si lasciava per nulla abbattere dalle difficoltà, e lei ne aveva
dovute affrontare tante, da sola, dopo la scomparsa del marito nel corso della prima
guerra mondiale.
Dopo che i figli andarono via da casa (uno, a 16 anni, era emigrato in Argentina, dove si
trovavano già le sorelle di mia nonna, Giacinta Sabbiuccia e Colomba), è vissuta sempre
da sola, fino a tarda età, e solo quando non ce l’ha fatta più si è trasferita a casa nostra
dove poi è morta a oltre novant’anni; ha avuto sempre molto spirito di indipendenza e
di autonomia e anche in politica aveva le sue idee, votava socialista e poi -quando sono
arrivato io- cominciò a votare comunista.
Con lei, io ho avuto sempre un buon rapporto; e, anche quando sono andato via da
Orsogna, tornando a casa non mancavo mai di farle almeno una visitina, e ogni volta
mi regalava qualcosa.
Non era così con l’altra nonna, Macole (Marianicola), essa era piuttosto fredda e
scostante, e poi -dopo il matrimonio delle mie zie che si erano sposate fuori di Orsogna,
l’una ad Arielli e l’altra a Ortona- i rapporti della mia famiglia con lei, che viveva con la
nuora e il nipote rimasto orfano a causa della guerra, si erano fatti abbastanza radi, di lei
ricordo solo il racconto che una volta ci fece di quando era bambina e aveva conosciuto
i briganti.
Con le mie zie invece no, il rapporto era diverso, soprattutto con zia Rachele, la più
piccola delle sorelle di mio padre, era sempre allegra, le piaceva scherzare e giocare
con me, a lei è legato anche il mio ricordo più lontano nel tempo: avevo forse intorno
ai due-tre anni, mi vedo sopra ‘nu trajìne assieme a mia madre e alla zia che ha il volto
sorridente e mi prende in braccio, e poi mi ritrovo a Pescara, a correre sotto la pineta,
a poca distanza dal mare, credo che si trattasse di un pellegrinaggio al santuario della
Madonna dei sette dolori che si trova ai Colli di Pescara, fatto appunto sopra un biroccio
trainato dal cavallo (a quell’epoca, siamo prima della guerra, i pullman da noi neppure
esistevano), con una sosta in pineta prima del ritorno a Orsogna.
Il soggiorno a Roma, sia pure solo per tre mesi, fu molto interessante. Non solo frequentai
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le lezioni di latino tenute da Paratore (se non le si frequentava, con tanto di firma, per
un periodo di due anni non si poteva dare l’esame di latino, che era appunto biennale),
ma ascoltai anche le lezioni di altri professori, soprattutto ebbi l’occasione di assistere
ad alcune lezioni di Giuseppe Ungaretti, di cui conoscevo già e leggevo con passione le
raccolte di poesia più importanti, su Leopardi.
Ungaretti parlava con lentezza ma anche con una certa enfasi, il suo volto mentre
parlava era come trasognato e quando un sorriso lo illuminava diventava come il volto
innocente di un bimbo; inoltre accompagnava sempre con molti e ampi gesti le cose che
diceva quasi volesse, con il suo gesticolare, far cogliere nelle parole che pronunciava
non so quale altro misterioso significato.
Ricordo che, in quei tre mesi, alloggiai in una pensione vicino a Piazza Bologna, tenuta
da una vecchia signora che in gioventù aveva lavorato nel varietà, qualche volta ne
accennava anche, chiacchierando con noi; nella pensione poi ritrovai anche un mio
vecchio compagno di classe, Augusto, iscritto alla facoltà di giurisprudenza: era di
destra già quando frequentavamo il liceo, ma con lui questo fatto non ha mai costituito
un problema e siamo sempre riusciti ad andare d’accordo, in seguito -tra gli anni ‘60 e
‘70- ho avuto modo di incontrarlo spesso e anche oggi, quando capito a Lanciano, non
mi dispiace di vederlo e scambiare qualche chiacchiera con lui.
Nonostante tuttavia le tante difficoltà che ho dovuto affrontare e il non poco tempo
dedicato all’attività politica, oltre che alle mie letture e alle mie velleità di poeta, ho
sostenuto ugualmente quasi tutti gli esami previsti dal mio corso di laurea.
Fino al ’59, anzi, ho dato a volte due a volte tre esami all’anno; non è che i voti fossero
particolarmente brillanti, essi avevano piuttosto un andamento alterno, all’inizio mi
sono beccato anche un respinto in geografia, tuttavia, accanto ad alcuni diciotto e alcuni
venti e ventidue-ventitre, riuscii a rimediare anche diversi venticinque e ventisette e
perfino due trenta.
Dopo il ’59, invece, non ho dato più esami, anche se me ne mancavano solo due: latino
e greco. Avevo troppo da fare. Tuttavia nel ‘62 ripresi in mano i testi universitari e
ne diedi un altro: quello biennale di latino. Ma fu l’ultimo. Feci l’esame, tra l’altro,
all’Università di Urbino, dove mi ero intanto trasferito perché a Roma non potevo farlo
in quanto mi mancavano le firme di frequenza necessarie, quelle del secondo anno.
Per laurearmi avrei dovuto dare quindi solo l’esame di greco, che però non ho mai dato
pur avendolo in parte preparato; avevo oltretutto anche concordato nel frattempo la
tesi con il professore di latino, un argomento (La lingua di Catullo) della cui difficoltà
solo in seguito mi sono reso veramente conto, ma anch’essa, come l’esame di greco e
la mia laurea in lettere antiche, è rimasta lì, in mente Iovis, in attesa di essere scritta e
discussa.
La fine prematura della mia possibile carriera di professore è stata tuttavia l’esito, più
che di difficoltà di vario tipo che pure ci sono state, soprattutto di una scelta politica e
culturale che, all’epoca, non è stata solo mia ma di molti di quelli che, a sinistra, avevano
fatto la scelta di vita di cui parla Amendola: per chi come me era impegnato a cambiare
il mondo e credeva fermamente in questa possibilità, che importanza o utilità poteva
avere una laurea? E poi, parliamoci chiaro, non è che avessi tanto tempo a disposizione
per lo studio.
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Oltre a stare dietro alla normale attività di partito, all’epoca -se si voleva corrispondere
fino in fondo al proprio ruolo di dirigente di un partito come il PCI- bisognava sempre
tenersi al corrente di quel che succedeva in giro, dai problemi locali a quelli di carattere
generale, approfondire tematiche specifiche, arricchire continuamente la propria cultura
storico-politica e mettersi sempre più in grado di comprendere anche da un punto di
vista teorico i processi in atto nella società italiana e nel mondo.
Non è perciò che leggessi e studiassi poco: solo che non era semplice, ad esempio,
conciliare la preparazione dell’esame di greco, un esame tosto e con tanti testi da
conoscere e tradurre, o della tesi su Catullo con tutto quel che avevo da fare, non perché
l’una cosa non ci azzeccasse molto con l’altra, ma perché il tempo era quel che era.
Della mia mancata laurea, ricordo che mio padre dava la colpa a Rosetta, perché non mi
pungolava a sufficienza; ma, com’è evidente, essa davvero non c’entra nulla…
Cantica gignit amor et amorem cantica gignunt.
Cantandum est ut ametur et ut cantetur, amandum.
Sono due dei pochissimi versi che restano di un oscuro poeta latino della decadenza,
Tucciano, del terzo secolo dopo Cristo.
Mi sono venuti in mente ripensando a quegli anni della mia giovinezza e alle tante volte
che mi sono innamorato e al fatto che sempre questi miei innamoramenti si sono tradotti
in tentativi poetici.
Come scrive appunto Tucciano, l’amore ispira canti e i canti ispirano amore, cantate
per amare e amate per cantare, insomma una specie di cortocircuito lirico-sentimentale
favorito naturalmente dall’età giovanile ma anche dalla dimensione romantico-letteraria
entro cui quegli episodi venivano vissuti.
Sandra, Lavinia, Livia…: sono alcuni dei nomi che hanno scaldato in quegli anni il mio
cuore e sono state anche le mie muse ispiratrici.
Ce n’è stata anche qualche altra, ma nessuna di esse ha lasciato tracce significative nella
mia memoria, eccetto una ragazza di Poggiofiorito, un piccolo comune non distante da
Orsogna, della quale però non riesco più a ricordare il nome: bionda, capelli lunghi,
corporatura esile e ben fatta, mi capitava di vederla spesso la domenica a Orsogna,
oltre che puntualmente in occasione delle feste di mezzo agosto; una volta, io e i miei
amici siamo andati addirittura a piedi a Poggiofiorito, alla festa patronale del paese, per
cercare di corteggiarla, ma era sempre accompagnata dai suoi...
Sandra, che aveva un carattere solare, molto espansivo, e alla quale dedicai il racconto
pubblicato sul giornalino del liceo, la incontravo tutti i giorni sul treno e viaggiavamo
sempre insieme, mentre Lavinia l’ho conosciuta all’ospedale di Ortona dove assistevo
mio padre che si era operato di ulcera, doveva essere tra il ’54 e il ’55.
All’ospedale era ricoverata anche mia zia, la zia Rachele che risiedeva a Villa Grande
di Ortona, essa soffriva di cuore, il male che doveva poi portarla alla morte ancora
abbastanza giovane. Ebbene, mia zia si era messa in testa che era ormai arrivata l’ora
che cominciassi a pensare al domani, allora avevo vent’anni o poco più, e lei, manco
a dirlo, pensava di avere per le mani la ragazza giusta, Lavinia appunto, ricoverata
accanto a lei. Così me la presentò, era una ragazza delle ville di Ortona, di famiglia
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contadina benestante, molto simpatica e di una bellezza semplice e dolce, la cosa però
non durò che tre o quattro giorni, il tempo che rimasi in ospedale, dopodiché non l’ho
più incontrata, ma la sua bellezza e la sua semplicità schietta e spontanea lasciarono
qualche ferita dentro di me testimoniata da una breve poesia che le dedicai qualche
settimana dopo:
Di tanta dolcezza
non resta che un sogno,
fuggevole e stanco.
Leggera vola al mio cuore
la melodia del tuo sguardo sereno.
Livia invece fu una cosa diversa, una passione che durò qualche stagione, una volta
sembrava che le cose dovessero andare per il meglio, altre volte invece…; e questo
andamento alterno mi faceva molto soffrire, e confidavo naturalmente le mie pene
d’amore al mio diario.
Con lei ho passato momenti davvero felici.
Se non ricordo male ci vedevamo spesso nella biblioteca del paese, solo una volta ci
siamo trovati soli, lungo la strada vecchia per il convento; e quando non potevamo
incontrarci ci scambiavamo naturalmente delle lettere, recapitate sempre da qualche
amico comune, allora era così e forse era un vantaggio: io che sono fondamentalmente
un timido, nelle lettere trovavo invece il coraggio di scrivere cose che a voce non avrei
mai detto! Come dice Cicerone, epistula non erubescit...
La cosa più bella di lei era il suo sorriso; e anche quel suo modo molto dolce e intrigante
di guardarti e parlarti mi stregava.
Ricordo ancora la gita che facemmo alla Grotta del Cavallone, a Lama dei Peligni, che
ci consentì di stare insieme tutta la giornata.
La gita, alla quale parteciparono giovani e meno giovani, era stata organizzata da
Zigulare, un simpatico commerciante di Orsogna che aveva una specie di bazar dove
si poteva trovare di tutto; egli aveva anche la passione della musica, in particolare
dell’opera, e possedeva un numero sterminato di dischi e ce ne fece ascoltare parecchi
organizzando ogni tanto, anche per periodi di più settimane, nella sala della biblioteca,
l’ascolto appunto di opere ma anche delle più celebri sinfonie di Beethoven e Schubert
e di tanti preludi e concerti di Chopin.
La memoria di quel giorno, è il 17 luglio del 1955, è ancora molto viva dentro di me
e conservo ancora la fotografia scattata a Torricella Peligna, dove ci fermammo per
il pranzo, mentre siamo a tavola, io e lei siamo di fronte a chiacchierare e lei ha quel
sorriso e quello sguardo che mi avevano conquistato.
Un bel giorno tuttavia l’incanto finì, ricordo ancora la lettera che essa mi mandò per
dirmi che le dispiaceva ma…
Ne ebbi per diverso tempo ma alla fine, come si sa, il tempo guarisce anche le ferite
d’amore: come dice Virgilio, omnia fert aetas!
Oggi che anch’essa è nonna la incontro qualche volta, siamo restati amici, ma di quel
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tempo che pure fu felice non accenniamo neppure, chissà forse dovrei darle qualcuna
delle poesie che scrissi per lei e che lei allora non lesse: che senso ha disperdere o
ignorare i ricordi della propria giovinezza?
Negli anni del liceo, la mia giornata era assorbita prevalentemente dallo studio.
D’altra parte, soprattutto d’inverno quando faceva buio presto, le ore a disposizione per
preparare i compiti del giorno successivo erano proprio ridotte all’osso e poi, la sera,
bisognava andare a letto a un’ora decente, altrimenti il giorno dopo non mi reggevo in
piedi.
La domenica però era il mio giorno libero, ricordo che la mattina mi affrettavo per
arrivare il più presto possibile in paese dove mi aspettavano gli amici e con loro o
si chiacchierava in piazza o facevamo una passeggiata lungo il viale alberato della
stazione, fino alle prime propaggini della bellissima pineta che si incontra arrivando a
Orsogna da Guardiagrele; allo scoccare del mezzogiorno però eravamo di nuovo tutti in
piazza per non perdere lo spettacolo della sfilata delle ragazze che uscivano dall’ultima
messa, tutte belle e agghindate, con il vestito della festa, consapevoli dell’esame attento
a cui sarebbero state sottoposte dai tanti ragazzi in attesa del loro passaggio: un rito
antichissimo che si ripeteva puntualmente tutte le domeniche e negli altri giorni festivi,
con soddisfazione sia dei ragazzi che delle ragazze.
Anche nel pomeriggio il rito continuava. Gruppi di ragazze e di ragazzi, ognuno per
conto proprio, si incrociavano e si lanciavano muti segnali di intesa quando si incontrava
la ragazza dei propri sogni; ma all’ora di cena la sceneggiata si concludeva e lungo il
viale, sia pure ancora per poco, restavamo solo noi ragazzi.
D’estate invece, dopo la chiusura della scuola, quando arrivava il caldo e le giornate
erano belle, ogni giorno era buono per ritrovarsi con gli amici a chiacchierare e a fare
lunghe passeggiate. Discorrevamo di tutto, di politica, di letteratura e naturalmente
anche di ragazze.
Molte delle ragazze che incrociavamo la domenica e negli altri giorni di festa le
ritrovavamo di solito il giorno dopo, sul treno. Vi erano invece gruppi che potevamo
ammirare solo durante le ore del passeggio, soprattutto a primavera e nei mesi estivi.
Tra questi, vi era il piccolo gruppo formato da tre sorelle, le più ricche del paese, che
non si mescolavano con le altre ragazze, una di esse era veramente bella mentre le altre
due erano solo carine.
Le vedo ancora nel mio ricordo passeggiare tutte sole o, al massimo, accompagnate
dalla tata, sempre con lo stesso passo e anche con una certa grazia e tutti che le
sogguardavamo incontrandole.
All’epoca non conoscevo ancora Dino Campana, il nostro geniale poeta maledetto del
primo quarto di secolo del ‘900, ma quando lessi le sue poesie una in particolare mi
colpì riportandomi alla memoria l’immagine delle tre sorelle che passeggiano, parlo
della lirica intitolata Tre giovani fiorentine camminano:
Ondulava sul passo verginale
Ondulava la chioma musicale
Nello splendore del tiepido sole
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Eran tre vergini e una grazia sola
Ondulava sul passo verginale
Crespa e nera la chioma musicale
Eran tre vergini e una grazia sola
E sei piedini in marcia militare.
Erano proprio loro, le tre sorelle, una grazia sola e i sei piedini in marcia militare, anche
se la loro passeggiata procedeva in realtà sempre a ritmo piuttosto lento!
Le feste di mezzo agosto, quando Orsogna festeggia S. Rocco e l’Assunta, erano una
occasione speciale per ammirare le bellezze non solo del paese ma anche dei paesini
vicini.
Ma, al di là di questo, le feste patronali rimangono nella mia memoria come una delle
cose più belle ed eccitanti di quegli anni, esse infatti hanno già di per sé un fascino
particolare.
C’erano i tanti colori delle bancarelle, la novità delle giostre, una folla vestita a festa,
di bambini giovani e adulti, che inonda la grande piazza e gremisce il viale dove è
addirittura difficile passeggiare senza urtare qualcuno, e poi, su un lato della piazza,
la cassa armonica tutta illuminata e la banda che suona di solito brani di opere celebri
e i contadini che ascoltano con attenzione, non mancava proprio nessuno, in quei
giorni era raro che qualcuno, anche in campagna, restasse a casa! E a mezzanotte, o
poco più, dell’ultima sera lo sparo, uno spettacolo quasi sempre bellissimo che veniva
accompagnato anche allora da tanti oh! di meraviglia ogni volta che c’era un numero
ben confezionato.
Naturalmente, in quegli anni come del resto in quelli successivi, l’interesse di noi
ragazzi si rivolgeva anche ad altre cose, non solo alle ragazze.
Per me c’erano ovviamente la politica e l’università, ma anche la lettura dei poeti
moderni che a scuola non ci avevano fatto conoscere, e poi le lunghe ore passate a
fantasticare e comporre poesie.
C’era, inoltre, la biblioteca comunale nella quale ero di casa e dove non si leggeva
soltanto o si prendevano libri a prestito, di solito romanzi, ma si organizzavano anche
molte e varie attività.
La biblioteca era stata fondata e veniva gestita da Emiliana Zecchini; e si trovava in una
sala del municipio, quella che guarda su Via Roma e dove oggi si svolgono le sedute
del Consiglio comunale.
Emiliana veniva dal Trentino ed era arrivata a Orsogna per conto di una organizzazione,
di cui adesso non ricordo più il nome, legata alla ricostruzione post-bellica; e il centro
della sua attività era proprio qui, nel nostro paese, dove aveva messo in piedi non solo
la biblioteca, ma anche altre iniziative rivolte soprattutto ai giovani.
Era sempre impegnata a organizzare qualcosa: aveva doti davvero eccezionali di
organizzatrice ed era instancabile; sapeva poi parlare con tutti, così che la biblioteca
era diventata il punto di riferimento e di ritrovo di tanti ragazzi e ragazze ma anche di
contadini che vi hanno frequentato i corsi serali, assistito a conferenze e partecipato ai
concerti con i dischi di Zigulare.
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Nella biblioteca infatti, soprattutto d’inverno, oltre ai concerti, spesso si organizzavano
anche conferenze, le ricordo bene perché anch’io ne tenni una, non so se proprio
inappuntabile nel linguaggio e negli argomenti usati, sul romanzo di J. Steinbeck Al dio
sconosciuto.
Insomma, sono stati anni intensi dei quali conservo davvero un buon ricordo.
Scrive Dante nel XII canto del Purgatorio: …molte volte si ripiagne / per la puntura de
la rimembranza.
Ripensando a quegli anni mi capita ancora oggi di sentirmi preso dalla nostalgia, per
la puntura appunto de la rimembranza. Non vivevamo certo nell’età dell’oro, tutt’altro
anzi, visti i tanti problemi sociali e anche politici dell’epoca, ma la giovinezza è davvero
l’età dell’oro o, almeno, è come se lo fosse!
Il concetto di rimembranza è largamente presente, assieme a quello di lontananza, nella
poesia d’amore provenzale e poi nella lirica d’amore italiana del ‘200 e del ‘300: la
lontananza e la rimembranza rafforzano il desiderio della donna amata, e così, come
canta in una sua lirica Giacomo da Lentini, lo squisito poeta-notaio siciliano del ‘200,
la rimembranza
di voi, aulente cosa,
gli occhi m’arrosa
di un’aigua d’amore.
Anche per la giovinezza le cose non stanno diversamente. La rimembranza di essa,
unita alla lontananza da una stagione ormai finita da così tanto tempo, arrosa ancora i
nostri occhi di un’acqua d’amore...
Dopo la fine del liceo, quasi tutti i giorni all’imbrunire, anche d’inverno, tornavo in
paese, di solito non cenavo neppure, lo facevo solo al ritorno alla luce del lume a
carburo, mia madre o le mie sorelle mi lasciavano la cena sulla tavola.
A volte avevo impegni di partito che spesso occupavano la serata in discussioni fino a
tardi, altre volte invece mi recavo in biblioteca oppure, quando faceva freddo, passavamo
la serata al bar a giocare a carte, diversamente passeggiavamo abbandonandoci a lunghe
e seriose chiacchierate.
Avevo un gruppo di amici fissi, più o meno della mia età: Remo, Fausto, Rocco,
Vincenzo e Giovanni, erano i più intimi, poi naturalmente ogni tanto si aggiungeva
qualche altro.
La nostra amicizia in quegli anni non conobbe incrinature, ma dopo che lasciai Orsogna
ci siamo persi completamente di vista, ognuno ha preso la sua strada; qualcuno, come
Rocco, ha abbandonato anche prima la nostra compagnia finendo addirittura in Argentina
dove già da tempo viveva il padre, per qualche tempo ci siamo anche scritti ma la cosa
naturalmente non durò.
Passavo una parte del mio tempo anche con gruppi di compagni ormai di una certa età,
iscritti al partito, e spesso con loro si finiva in cantina, a Staccone o a Ciccone, dove di
solito si chiacchierava bevendo vino, tre quarti e ‘na gazzosa.
Tra questi compagni, c’era un quintetto che si ritrovava spesso assieme ed erano tutti di
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uno spasso e di una simpatia incredibili.
Erano ‘Ntonie di Mezzafemmine, muratore, Rocche di Baffone, contadino, Ciammette,
anche lui contadino, un altro muratore, Duminiche di Mauselle (il soprannome gli
derivava dal possesso di una Mauser, abbandonata da qualche tedesco e finita nelle sue
mani all’indomani della guerra), e poi Scenna Nicolò, anche lui muratore, conosciuto
da tutti come Cikulinov, egli era stato per diverso tempo segretario della sezione e
durante il fascismo -allora lavorava a Roma- veniva spesso prelevato dalla polizia in
occasione di manifestazioni per essere trattenuto in galera per tutta la loro durata, di lui
si diceva anche che discendesse da uno dei briganti più famosi di Orsogna, Salvatore
di Cuntine.
Erano tutti dei grandi lavoratori, ma quando stavano assieme sembravano tornare
bambini, ed era proprio uno spettacolo sentirli battibeccare tra di loro o scambiarsi
battute e panzane a tutto spiano, spesso raccontavano episodi boccacceschi o comunque
spassosi accaduti a questo o a quello in paese, e possedevano tutti un fine senso
dell’ironia e, quando capitava loro a tiro qualcuno un po’ sprovveduto, c’era davvero
da divertirsi.
Di due di loro, oggi tutti scomparsi, mi capita di ritrovarmi ogni tanto con i figli, Niculine
di Mauselle che è stato anche assessore con me durante la mia amministrazione ed è
un carissimo amico, e Gianni di Mezzafemmine: hanno tutti e due conservato lo spirito
e l’ironia dei padri, dei quali hanno anche continuato il mestiere, e, come loro, sono
anch’essi delle buone forchette, confermando anche in questo la tradizione paterna!
Gianni poi, che è, come il padre, un cultore di cose rare e curiose delle tradizioni
paesane, mi ha anche fatto partecipe qualche tempo fa di alcuni termini dialettali di
gergo che forse solo lui ancora conosce e che io non avevo mai sentito pronunciare:
la spezzarole, la vaschetta di cemento in cui una volta si lavavano i piatti, lu ìfije, il
sottoscala utilizzato come ripostiglio all’interno delle case, lu uiccette, la finestrella
della porta di casa attraverso la quale si guarda all’esterno, la muscìja, il fagottino di
cibo che ci si portava dietro sul lavoro per il pranzo, le salivastrelle, le salsicce di fegato
sempre così buone da mangiare...
Durante gli anni del liceo e, poi, dell’Università, finché sono restato a Orsogna, ho
trascorso tanta parte del mio tempo in campagna.
I miei infatti, come ho già ricordato, quando io ero ancora in seminario, anche per
ragioni di lavoro, avevano deciso di trasferirsi a Colle S. Giacomo, dove, intanto, un
nuovo immobile in muratura, più accogliente e sicuro, aveva preso il posto della vecchia
masseria di terra.
Vivere in campagna non mi è mai dispiaciuto; e anche oggi, del resto, abito con piacere
in un quartiere che è proprio ai margini della campagna, con la possibilità anche di
godere di un bellissimo panorama fatto di colline coltivate e impreziosito, all’orizzonte,
a nord dal Gran Sasso e dai monti della Laga e, a est, da scorci di azzurro del mare di
Francavilla, alla confluenza della vallata dell’Alento con l’Adriatico.
La vita in campagna ha sicuramente i suoi aspetti poco gradevoli, ma ti offre anche cose
che superano largamente i disagi: grandi spazi che ti chiamano ad approfittarne, almeno
con la fantasia, libertà nella scelta dei tuoi modi di vita e anche tante leccornie a portata
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di mano.
Da quest’ultimo punto di vista, ho ancora oggi l’acquolina in bocca per il siero con frusti
di ricotta e pane che mi aspettava allora quasi ogni mattina, dopo la nascita degli agnelli
nella nostra stalla; e ricordo con nostalgia le grandi abbuffate di pane sotto il coppo con
olio e zucchero o con i fichi, colti direttamente dall’albero, durante l’estate, così come
è viva in me la memoria del tempo passato tra le coltivazioni di fave, ceci e piselli, al
tempo della loro maturazione, per il gusto di assaporarli appena sradicati da terra o
staccati dal gambo, la stessa cosa accadeva anche con le noci e le mandorle assaporate
quand’erano ancora quasi acerbe e, poi, con l’uva, mi piacevano soprattutto l’uva fragola
e la malvasia, che richiamava la tua attenzione occhieggiando tra i pampini folti delle
viti coltivate a filari e sorrette ciascuna da un palo o una canna ficcati nel terreno, mi
vedo, inoltre, ancora sdraiato nel campo così colorato di rosso della lampalupine (l’erba
sulla?), per gustarne -oltre alla frescura- la parte più dolce e tenera dei gambi.
Naturalmente, io non ho mai guardato alla campagna con l’occhio del contadino; e
la cosa era possibile perché io non partecipavo, se non in misura del tutto marginale
e occasionale, al lavoro della mia famiglia, avevo infatti il privilegio di essere uno
studente, mi potevo così tranquillamente dedicare ad altre attività e godermi nello stesso
tempo anche i vantaggi e le bellezze della campagna.
Il lavoro dei contadini è un lavoro duro, soggetto per giunta a una sorta di precarietà
permanente legata innanzitutto all’andamento delle stagioni, per il contadino perciò
la campagna non è il luogo dell’idillio poetico, una specie di Eden da vivere con tutta
l’intensità del sentimento, ma è lavoro, fatica a volte anche improba, un reddito non
proprio soddisfacente (almeno allora).
Del resto, bastava guardare alla vita dei miei per rendersene conto: qualunque fosse la
stagione, c’era sempre da fare, anche d’inverno quando pure il lavoro diminuisce.
Spesso, negli anni del liceo ma anche in occasione della preparazione del mio esame di
latino per l’Università, mi è capitato di leggere e tradurre passi delle Bucoliche e delle
Georgiche.
Uno dei passi che più mi colpì allora fu quando, nelle Georgiche, Virgilio esclama
parlando dei contadini:
O fortunatos nimium, sua si bona norint,
agricolas!
E poi, poco più sotto, aggiunge:
at secura quies et nescia fallere vita,
dives opum variarum, at latis otia fundis,
speluncae vivique lacus et frigida tempe
mugitusque bovum mollesque sub arbore somni
non absunt...
In realtà, Virgilio esalta la fortuna dei contadini e i beni di cui essi possono disporre,
mettendo in relazione la vita dei campi con gli affanni che segnano la vita di chi cerca
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ricchezza e agi attraverso la corsa affannosa agli affari, e con i pericoli che corre chi
sceglie la vita militare, ai contadini inoltre -nota ancora Virgilio- la terra produce facilem
victum, ad essi perciò non mancano una pace sicura e una vita priva d’inganni, ricca
di beni diversi, un riposo in grandi fondi, grotte e laghi pieni di vita, fresche vallate e
muggiti di buoi e dolci sonni sotto gli alberi…
Com’è evidente, non è questa la vita dei contadini, siamo di fronte a una visione tutta
letteraria (e anche politica, per assecondare il tentativo augusteo di ricostruzione di una
forte presenza di contadini ricchi nella campagna italiana) nella quale però Virgilio
esprime con una intensità straordinaria, nelle Georgiche come nelle Bucoliche, il suo
amore per il mondo agro-pastorale che è il suo ambiente di provenienza, riuscendo a
trasformare questo suo amore e il rapporto profondo che egli intrattiene con la natura in
grandissima poesia, intessuta di una magica bellezza e musicalità!
Virgilio, nell’Ecloga V delle Bucoliche, fa dire a uno dei suoi poeti-pastori:
Tale tuum carmen nobis, divine poeta,
quale sopor fessis in gramine, quale per aestum
dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo.
Virgilio parla evidentemente di se stesso, il suo canto è come quello di Orfeo che
soggioga il mondo animato e inanimato: Tale è il tuo canto per noi, divino poeta, come
il sonno per chi, stanco, giace sull’erba, come durante la calura estiva spegnere la sete
ad un ruscello zampillante di acqua dolce!
Anche il mio modo di guardare alla campagna, fortemente influenzato dalla lettura di
Virgilio come di tanta poesia italiana, era dunque l’espressione di una visione letteraria,
comunque mediata dalla letteratura; d’altra parte, al di fuori di questo approccio, è
difficile cogliere e apprezzare le bellezze e le forti sensazioni che provoca la vita a
contatto quotidiano con la terra, chi coltiva la terra coglie innanzitutto la durezza e la
fatica del suo lavoro.
Il podere di Colle S. Giacomo, coltivato a mezzadria dalla mia famiglia, non aveva
una grande estensione, arrivava sì e no ai 4-5 ettari ed era situato lungo il pendio che
si dirama sulla sinistra della strada provinciale, guardando verso Lanciano. La strada
provinciale infatti è posta proprio al culmine della collina e fa così da discrimine tra il
versante, a destra, che volge verso la vallata del Moro e quello, appunto a sinistra, che
si dirige verso il vallone dove scorre il torrente che parte dalla fonte vecchia di Orsogna
e confluisce a un certo punto nel Moro.
Il nostro podere seguiva il pendio verso il vallone, ed aveva una forma all’incirca
triangolare: la base era costituita dal confine che correva a monte, dal lato del paese,
per circa un chilometro in linea quasi retta dalla masseria al pozzo scavato su un
pronunciato rialzo del terreno, che utilizzavamo per adacquare il piccolo orto coltivato
a ortaggi, mentre i lati erano rappresentati l’uno, a sud, da un torrentello tutto ricoperto
di pioppi, olmi e arbusti vari, e l’altro, a nord est, dalla parte di terreno coltivato a vigna,
e tutti e due convergevano verso il basso, in direzione appunto del vallone ma senza
raggiungerlo, si fermavano qualche chilometro prima.
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La masseria si trovava all’inizio della base del triangolo, a ridosso del tratturo, a meno di
cento metri dalla strada provinciale, e aveva davanti uno spiazzo abbastanza largo dove
normalmente razzolavano le galline e il nostro volpino dormiva i suoi sonni tranquilli a
guardia della casa, e ai cui lati svettavano alcuni pioppi e fioriva un albero di gelso.
Dietro la casa, dopo la guerra era stato piantato un noce che si era fatto alto e robusto, e
a poca distanza c’era l’altro pozzo dal quale attingevamo l’acqua per bere; a una diecina
di metri dal fianco della casa invece, verso valle, si stagliava il pagliaio, abbastanza
capiente, nel quale, oltre a provviste varie, veniva accatastato il fieno per il poco
bestiame che i miei allevavano.
Nella campagna, mio padre coltivava di tutto, l’agricoltura intensiva da noi non era
ancora arrivata: c’era l’orto, la vigna che ci forniva a sufficienza il vino per tutto l’anno,
e, sparse per tutto il podere, un buon numero di piante di ulivo; e poi il grano, che
copriva la parte maggiore del terreno, il granturco, l’erba medica e la lampalupine per
le bestie, piccole piantagioni di fave, ceci e piselli, alberi da frutta, ecc.
Oggi, la campagna che ho cercato qui di descrivere ha cambiato completamente volto.
Molte volte negli anni successivi, quando mio padre era ormai andato in pensione,
la famiglia era tornata ad abitare in paese e il terreno che lui aveva lavorato per una
vita era stato venduto dalla proprietaria per raggiungere il figlio negli Stati Uniti, mi è
capitato di percorrere in auto la provinciale per Lanciano e, passando, di lanciare uno
sguardo al vecchio podere: non solo accanto alla masseria i nuovi proprietari avevano
costruito un secondo immobile più spazioso e più rifinito, ma tutta la campagna era
stata ricoperta da un grande vigneto a capanna i cui larghi pampini, in autunno inoltrato,
inondavano di un rosso sfatto e smangiato dalla ruggine il variegato panorama che io
una volta conoscevo.
Bene, mie care nipoti: questo era dunque il piccolo mondo nel quale passavo di solito
buona parte della mia giornata, e dove, soprattutto negli anni del liceo e in quelli
immediatamente successivi alla mia iscrizione all’Università, ho vissuto sensazioni ed
emozioni il cui ricordo è ancora molto forte in me.
Soprattutto d’estate, quando la stagione era ormai al suo culmine e il caldo si faceva
sentire, mi piaceva scorrazzare per i campi, alla ricerca di oasi di frescura, spesso portavo
con me qualche libro e all’ombra di un albero passavo il mio tempo a leggere, altre volte
invece, disteso su un tappeto d’erba, amavo fantasticare, o anche, più semplicemente,
sonnecchiare avvolto dal fresco dell’erba alta: da questa parte, come sempre, la siepe
che segna il confine, dopo che le api Iblee hanno succhiato il fiore del salice, spesso ti
inviterà ad assopirti al lieve sussurro del vento.
E’ ancora Virgilio, nelle Bucoliche:
hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro…
Mentre preparavo gli esami di licenza liceale, nel periodo tra maggio e giugno e la prima
parte di luglio, ho passato quasi tutti i giorni a studiare immerso nella tranquillità della
campagna, proprio all’ombra di una siepe come quella cantata da Virgilio, mancava
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solo il salice -lenta salix, lo definisce il grande poeta latino- che però era a non grande
distanza da lì, non c’era il silenzio attorno ma i mille suoni della campagna, eppure quel
luogo mi aiutava a concentrarmi, così potei preparare senza particolari difficoltà esami
che all’epoca erano davvero impegnativi dovendo portare il programma degli ultimi tre
anni.
Durante i mesi estivi, nel tardo pomeriggio, quando la calura si era attenuata, avevo
spesso il compito di portare al pascolo le pecore, era una delle poche cose che facevo
per tacitare mio padre che reclamava in continuazione un mio impegno nel lavoro della
campagna, non c’era granché da fare naturalmente, così mentre le nostre poche pecore
brucavano quete l’erba, io o giocavo col nostro volpino che mi faceva compagnia
mentre guardavo il piccolo gregge oppure mi sdraiavo per terra e mi abbandonavo,
anche qui, alle mie fantasie cercando l’ispirazione giusta per le mie imprese poetiche,
o seguivo nel loro lento viaggio i cirri sparsi nel cielo o mi incantavo ad ammirare i
tramonti mentre di lontano cominciavano a fumare i comignoli delle masserie e più
grandi le ombre della sera scendevano dagli alti monti, i monti raccolti attorno alla
Maiella, e i contadini abbandonavano il lavoro e le mogli accendevano il fuoco nelle
case e preparavano la cena per gli uomini che tornavano stanchi dai campi:
et jam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
E’ sempre Virgilio, che questi aspetti della vita contadina conosceva benissimo e sapeva
trarne versi stupendi !
Nelle altre stagioni, parlo in particolare della primavera ma anche dell’autunno, mi
piaceva immergermi nei profumi e nei colori della campagna.
Come non è difficile avvertire, il ritmo delle stagioni in campagna è essenzialmente
scandito dai profumi e dai colori, che variano da stagione a stagione.
Ovidio lo sapeva benissimo, e così nel secondo libro delle Metamorfosi assegna a ogni
stagione i suoi colori e quindi i suoi profumi: la Primavera con la sua corona di fiori
di mille colori e il profumo stordente di ogni fiore che si riversa nell’aria, l’Estate che
sta nuda, esibendo il suo serto di spighe mature che ondeggiano alla brezza estiva, e
diffonde un odore acuto di stoppie già disseccate o bruciate, l’Autunno con il rosso delle
uve pigiate dal contadino a piedi scalzi e l’odore forte del mosto, solo l’Inverno, con i
suoi ispidi capelli canuti, non ha odori, ha solo il bianco infinito della neve che ricopre
la campagna e i luccichii abbaglianti dei rami rivestiti di ghiaccio al sole che fa capolino
tra le nuvole:
Verque novum stabat cinctum florente corona,
Stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat,
Stabat et Autumnus, calcatis sordidus uvis,
Et glacialis Hiems, canos hirsuta capillos.
Ascoltare i suoni della notte e osservare il cielo, stando in aperta campagna, era l’altro
mio passatempo che mi concedevo ogni volta che tornavo a casa dal paese e quando la
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notte era dolce e chiara e senza vento.
In campagna, appena annotta, il cielo ti si offre in tutto il suo splendore, con il suo
fitto brulichio di stelle quando non c’è la luna; se invece la luna sta lì, a solcare le vie
dell’infinito, soprattutto se è luna piena, una pallida luce diffusa nasconde le stelle e
rischiara le colline e le valli tutt’attorno e di lontan rivela / serena ogni montagna.
La citazione, come la precedente, è da La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi, uno
dei grandi poeti che ho sempre amato e letto; e c’è una ragione per questa citazione.
Spesso ci accade di leggere delle poesie bellissime chiusi nella nostra stanza, la poesia
naturalmente non perde nulla della sua bellezza, ma è altra cosa se quei versi noi li
gustiamo vivendo direttamente l’intreccio di sensazioni ed emozioni che il poeta
descrive, quel che si prova ha come il sapore di un rapimento mistico o, piuttosto, della
esplosione di una indicibile festa dei sensi.
Ricordo che, in quegli anni, ognuno di questi diversi momenti del mio rapporto con la
natura vissuto nella solitudine della campagna aveva, tratto dalle mie letture, un suo
riferimento poetico, e ciò mi consentiva sia di vivere più intensamente questi momenti
sia di cogliere meglio il fascino più profondo della espressione poetica.
Ad esempio, una grande emozione mi hanno sempre procurato, nella notte d’estate, al
chiarore della luna piena, i versi di questo frammento di Saffo, li ripetevo in silenzio, in
greco naturalmente, dentro di me e subito mi si stagliava davanti la figura sottile della
poetessa greca che, stupita, ammira con le sue compagne del tiaso uno spettacolo di così
rara bellezza nella notte di Lesbo, mentre lo sciabordare monotono delle onde dell’Egeo
fa da colonna sonora:
Le stelle intorno alla bella luna
nascondono il volto luminoso
quando soprattutto, piena, essa risplende
su tutta la terra…
A fare da colonna sonora alla mia contemplazione del cielo notturno erano invece i
mille rumori della campagna.
Nella campagna, di notte, non c’è silenzio, tutt’altro. E’ invece tutto un rincorrersi di
suoni e di rumori a volte appena percettibili che giungono da tutte le direzioni e si
alternano o si mescolano tra loro.
Ci sono i cani che, all’improvviso, si mettono ad abbaiare e si rispondono da un casolare
all’altro, sembrano come eccitati e impegnati senza esclusione di colpi in una gara a chi
abbaia più forte e con i toni più minacciosi, poi altrettanto all’improvviso essi tacciono
e ritornano i suoni e i rumori che avevano riempito la notte fino a quel momento; così
come ci sono gli scoppi subitanei e brevi del canto di un usignolo dal vicino boschetto
a cui fanno da controcanto il gemito ripetuto di qualche civetta, lo sbattere legnoso
delle ali del pipistrello che si aggira attorno alla casa, la nenia ininterrotta dei grilli o
il mormorio discreto delle foglie degli alberi appena mosse dalla brezza, qualche volta
arriva da lontano, quando c’è aria di pioggia, il gracidare di una rana, e spesso, a fare
da cornice opalescente a un concerto così vario, quando la calura non demorde neppure
di notte, ci sono le lucciole simili a una folla infinita di minuscoli lumini vaganti per la
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campagna.
A primavera e in autunno, invece, spesso le giornate erano piovose, bisognava perciò
restare in casa, a maggior ragione in autunno quando i primi freddi cominciavano a farsi
sentire.
In giornate così, tuttavia, era difficile che mi lasciassi prendere dalla noia, avevo
sempre qualcosa da fare, di solito leggevo o poetavo, poi, quando mi stancavo o finiva
l’ispirazione, mi piaceva, da dietro i vetri della finestra del piano di sopra, dove erano
il mio tavolino da studio, piuttosto sgangherato, e le camere da letto, contemplare il
picchiettare tranquillo e monotono della pioggia sulla campagna, l’acqua scivolava sui
fili d’erba e sulle foglie degli alberi e, quando spioveva, appena si affacciava un raggio
di sole, l’erba per terra era come un tappeto pieno di brillanti, anche le foglie degli alberi
mandavano barbagli improvvisi ai riflessi del sole. A volte, la pioggia continuava anche
durante la notte, e allora era bello coglierne, accucciato nel letto, il bruire ostinato e
sommesso; così come, d’inverno, ascoltare il lamentoso, interminabile ululato del vento
di tramontana, mentre fuori la tempesta imperversava e il canale di gronda rovesciava
a fiotti l’acqua lungo i muri e dai vetri delle finestre, battuti dalla pioggia violenta,
arrivava fino al mio letto un ticchettio incessante.
Giornate così erano sempre piene di malinconia, ma la sera il calore del focolare acceso
e le fiamme che salivano lungo il camino e si accompagnavano alla luce chiara del lume
a carburo stimolavano sia la lettura che la voglia di fantasticare ma, anche, di seguire
attento, magari sgranocchiando i ceci abbrustoliti, i racconti di mio padre sulla guerra
o di quando andava in Puglia -nel periodo della mietitura- a lavorare come bracciante,
oppure di ascoltare, e anche trascrivere qualche volta, le canzoni che costringevo mia
madre a cantarmi, non perché essa avesse chissà quale voce ma soltanto perché a me
quelle canzoni, quelle della sua giovinezza, mi affascinavano da morire.
Tra gli avvenimenti che una volta segnavano la vita dei contadini, ve ne erano alcuni
che rivestivano una particolare importanza, e che spesso avevano anche il carattere di
riti collettivi.
Parlo della semina, della mietitura e della trebbiatura, della vendemmia, della raccolta
delle olive; alcuni di essi, poi, avevano come caratteristica di avere una particolare
colonna sonora, fatta di quelle che chiamiamo le canzoni popolari, trasmesse -ancora
alcuni decenni fa- dalle generazioni più anziane a quelle più giovani.
Da noi, che io ricordi, il canto accompagnava il lavoro soprattutto in occasione della
mietitura e della spannocchiatura del granturco, quando venivano a dare una mano
anche parenti e gente del vicinato, allora si faceva a scambiagiornate per aiutarsi a
vicenda quando il lavoro era più intenso e incombente; durante la trebbiatura invece
tutti erano troppo impegnati a star dietro al ritmo della trebbiatrice, per cui era difficile
che qualcuno avesse tempo e voglia di intonare canzoni e altri di tenergli dietro, in
compenso, alla fine del lavoro, ci si rifaceva della fatica con pranzi a quell’epoca
davvero succulenti.
Con la mietitura, invece, e quando ss’ascieve le marrocche, c’era sempre qualcuno, in
genere una donna, che dava inizio al canto.
Durante la mietitura, non era raro che i canti rimbalzassero da una campagna all’altra,
mentre nel periodo della spannocchiatura si stava più raccolti, dietro casa, seduti accanto
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al cumulo delle pannocchie, e il canto, che si inframezzava con i pettegolezzi vari
raccontati da questo o da quella, aveva meno il tono del canto spiegato, a tutta voce.
Già da quand’ero ragazzino, negli anni del seminario, questi momenti collettivi avevano
un grande fascino su di me, era come una festa anche perché non mancavano mai ragazze
e ragazzi del vicinato con cui chiacchierare e passare una giornata divertente, così li ho
sempre attesi con ansia; in queste occasioni anzi, ad esempio quando si trebbiava o
quando, in autunno, si raccoglievano le olive, cercavo sempre di dare una mano, questo
accadeva poi soprattutto quando si trattava di sscije le marrocche.
Debbo dire che, neppure con il passare degli anni, il fascino di questi momenti è venuto
meno, anche perché mi è sempre piaciuto stare assieme agli altri, ma dopo che ho
lasciato Orsogna raramente, purtroppo, ho avuto la possibilità di viverli di nuovo.
Ciò che però, in queste occasioni, mi seduceva più di ogni altra cosa erano appunto le
canzoni.
Ancora oggi ascoltare le canzoni popolari mi dà una emozione particolare, pari a quella
che provo ascoltando, ad esempio, le grandi melodie di Vincenzo Bellini, quelle che
Verdi definiva lunghe lunghe: anche adesso, quando le ascolto, mi si smuove come
qualcosa dentro e mi sento preso da una grande nostalgia, saranno quelle loro melodie
così piene di malinconia, anche quando le canzoni sono allegre e scherzose, o quel loro
cantare continuamente l’amore e la giovinezza, sta di fatto che esse non cessano affatto
di esercitare su di me, come una volta, una straordinaria suggestione.
Cesare De Titta, un grande poeta dialettale oggi quasi sconosciuto, nonché grande
latinista, di Sant’Eusanio del Sangro in provincia di Chieti, ha scritto canzoni in dialetto
abruzzese bellissime, alcune delle quali sono state anche musicate.
Tra le sue poesie, che hanno in genere l’andamento delle canzonette meliche del
Chiabrera, un poeta italiano a cavallo tra il ‘500 e il‘600, ve n’è una bellissima, che
coglie assai bene il senso della nostalgia che ti prende l’anima fin nel profondo quando
ascolti le nostre canzoni nate tra il popolo e dal popolo.
La poesia s’intitola Lu piante de le fojje, è il pianto delle foglie gialle che cadono a una
a una mentre ssi cojje la live, e la campagne / tra la nebbie aresone di canzune…
Ma forse è il caso di trascriverla per intero, tanto essa è bella:
Lu ciel’è cchiuse e cchiuse è la muntagne,
le fojje gialle casche a un’a une,
e ssi cojje la live, e la campagne
tra la nebbie aresone di canzune…
Sempre sta nebbie, amore, gna si cojje
la live, e casch’a ll’arbere le fojje!
S’alz’a lu ciele tant’e ttante scale
gne tra nu sonne che nen sacce dire;
sajje cantenne l’anem’e rrecale
da ‘n ciele ‘n terre e jjette nu suspire…
Puorteme tra la nebbie, tra le rame,
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na scale, amore, a ll’aneme che cchiame.
‘N cim’a na scale ci sta na fijole
che ‘m mezz’a ll’atre voce fa da prime,
e, gna vuless’aretruvà lu sole,
s’aalz’aalze e sse ne va cchiù ‘n cime…
Ah cchela voce che ffa da suprane,
amor’amore, falle cantà piane!
Le fojje fa nu piante pe’ la vie,
e lu cant’aresone entr’a lu core
gne nu salut’afflitte, gne n’addie
di tante cose bbielle che ssi more,
di tante care nuode che ss’asciojje,
amore, tra lu piante de le fojje.
Nella seconda metà del 1959, verso la fine dell’autunno, ho lasciato definitivamente
Orsogna.
La prima tappa di questo mio nuovo cammino fu Lanciano, ma vi sono restato
pochissimo tempo: appena pochi mesi più tardi, il partito mi chiamò a Chieti che, da
allora, è diventata la mia residenza abituale.
Anche quando, per esigenze di lavoro, mi sono trasferito in altre città, parlo di Avezzano
Vasto e Campobasso, il mio punto di riferimento è rimasto sempre Chieti, una sola volta
ho cambiato città portando con me l’intera famiglia, e fu quando andai a dirigere la zona
di partito del Vastese e ci trasferimmo tutti a Vasto dove rimasi per circa tre anni.
Con la mia partenza da Orsogna, si è chiusa una fase della mia vita che, tuttavia, più
di altre continua a restare viva dentro di me e a legarmi a sé e che, ancora oggi, sento
come un momento essenziale della mia formazione non solo culturale e politica ma
anche sentimentale.
Non solo: Orsogna resta per me innanzitutto il luogo delle radici e la espressione più
intensa di una stagione attraversata da sogni, aspirazioni, emozioni profonde, insomma
il luogo dell’infanzia e, poi, dell’adolescenza e della giovinezza, da questo punto di
vista gli anni del seminario -che pure mi hanno portato a vivere a Chieti per quasi sei
anni- non hanno mai avuto il senso della separazione.
A rifletterci, a Orsogna sono vissuto solo pochi anni, molto meno che a Chieti, ma il
rapporto affettivo con il mio paese natio è stato sempre un’altra cosa, non è per nulla
paragonabile con quello che ho con Chieti.
Orsogna è dentro di me, non così Chieti o le altre città dove sono vissuto, anche se
ugualmente tante cose mi legano ad esse.
A volte, al culmine della mia carriera politica, ho pensato (e la cosa è, poi, realmente
accaduta) che sarebbe stato bello se avessi potuto concludere la mia attività con la
elezione a sindaco di Orsogna, a sottolineare appunto quanto forte e radicato è sempre
stato il sentimento che mi lega ad essa; e spesso, quando mi reco in paese, mi capita
101
ancora oggi di sentirmi come preso da un forte turbamento al primo apparire delle
campagne e delle case che conosco da ragazzo, anche se molte cose sono intanto
cambiate.
Ne La canzune de li pahise, Cesare De Titta dedica un simpatico medaglione anche ad
Orsogna:
Luce, Ursogne, dov’appare
sse fijole pignatare:
come ttè s’arechenosce
sse demuonie da lu rosce
è gne ttè rebbielle e ‘ntiste,
è gne ttè sucialiste.
Ci sono molte cose in questa poesiola di De Titta che colgono bene aspetti della vita di
Orsogna e della sua storia, egli non scriveva solo per sentito dire.
C’è innanzitutto l’eco di una canzone popolare molto nota a Orsogna: ti si messe la vesta
rosce / da luntane ss’arichenosce…, c’è poi il richiamo ai socialisti che allora, quando
egli scriveva (siamo negli anni ’20), amministravano Orsogna, c’è infine l’accenno a
Orsogna come a uno dei centri di produzione di terrecotte dell’epoca.
(Orsogna ha continuato a produrre terrecotte ancora per diversi anni dopo la guerra;
la fine è arrivata con la morte degli ultimi artigiani che le lavoravano, uno di questi
era il simpaticissimo e allegro cumpà Tome il cui nome è entrato in un modo di dire
tipicamente orsognese: quando uno chiede la luna nel pozzo, gli si risponde ancora
oggi: cumpà Tome z’à morte!, neppure volendo c’è più qualcuno in grado di fabbricare
con la terracotta quel che tu agogni).
Quello che però mi ha più colpito in questi pochi ottonari è il riferimento alle fijole
pignatare, sse demuonie, indicate come rebbielle e ‘ntiste, ribelli e intelligenti e anche
piuttosto anticonformiste, vista la preferenza accordata ai corpetti rossi.
Orsogna è sempre stata, nel tempo, aperta a idee di progresso: all’arrivo di Napoleone,
era contro i Borboni; e, agli inizi dell’Ottocento, vi furono preti (in paese allora ce
n’erano parecchi) e galantuomini iscritti alla carboneria, vi fu anche, dopo l’unità
d’Italia, una forte opposizione al brigantaggio.
Anche nel corso del ‘900 questa disponibilità verso idee di progresso non è mai venuta
meno, come testimoniano la vittoria della repubblica nel referendum istituzionale del
’46 e la presenza costante, già da prima del fascismo, di una forte sinistra, anche se essa
oggi attraversa momenti di grande difficoltà e non ha capi.
Ed è certamente anche per questa sua caratteristica che Orsogna mi è sempre rimasta
nel cuore.
102
Capitolo V
“Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante”.
E’ l’incipit dello Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, la prima annotazione che
egli fa di abbozzi poetici che è possibile ritrovare, sparsi qua e là, anche in altre parti
dello Zibaldone e che il poeta ha spesso utilizzato nei Canti.
Ma, tra le mie nipoti, sicuramente qualcuna dirà a questo punto: Ma, caro nonno, che
c’entra lo Zibaldone con le cose che ci stai raccontando?
Eppure, c’entra! Perché questo passo, che pure disegna nella sua essenzialità un paesaggio
notturno romantico e di tutto riposo, mi torna tuttavia sempre alla mente ogni volta che
ripenso alle tante scarpinate che mi è toccato sciropparmi, quand’ero a Lanciano per
conto del partito, per tornare, a notte alta e a piedi, nel mio alloggio lancianese, da una
contrada o da uno dei paesini vicini, dopo aver concluso una riunione: salvo il palazzo
bello di cui parla il poeta di Recanati, il resto descrive bene la scena della quale piuttosto
spesso, nei pochi mesi del mio soggiorno in città, sono stato il protagonista, in cui ero io
il viandante al quale i cani abbaiavano dai casolari situati di solito a poca distanza dalla
strada che stavo percorrendo da solo o in compagnia.
A quel tempo non era semplice per nessuno spostarsi in provincia; e questo era vero
ovviamente anche per i funzionari del PCI.
Il partito, all’epoca, disponeva solo di una autovettura, una 1100 rossa, ma la potevano
usare soltanto i compagni che lavoravano in federazione, mentre io dovevo arrangiarmi
come potevo per recarmi ogni tanto nelle contrade (e a Lanciano ce ne sono tante) o
nei comuni del Sangro, almeno in quelli, come dire?, più a portata di piede. Perché, in
realtà, l’unico vero mezzo a mia disposizione era allora il cavallo di S. Francesco.
Ho potuto utilizzare un mezzo motorizzato, più esattamente una vespa (o una lambretta?),
solo alcuni mesi dopo, quando mi sono trasferito a Chieti.
Me lo rammento bene perché debbo proprio ad essa una rovinosa caduta che mi
procurai un giorno, per mia inesperienza, lungo la vecchia nazionale Adriatica, in una
delle tantissime curve che punteggiano ancora oggi il tratto tra Fossacesia e S. Vito:
per fortuna, la caduta fu senza conseguenze, e a rimetterci furono solo la mia pelle, con
escoriazioni diffuse su tutto il corpo, e la camicia e i pantaloni che indossavo ridotti a
stracci. Anche se, ad essere sincero, il colpo per me più duro fu quello della perdita della
camicia e dei pantaloni, una mazzata ben più pesante delle ferite riportate.
In quegli anni anch’io facevo parte della larghissima schiera dei truscianti, una tipica
espressione lancianese per indicare i morti di fame, e non potevo quindi permettermi,
non dico un qualunque mezzo motorizzato, ma neppure un solo capo di vestiario in più
dell’indispensabile.
Ricordo anzi che, per questa ragione, proprio nei primi anni ‘60 sono stato costretto ad
andare in giro nei mesi freddi, non so bene più per quanto tempo, con un impermeabile
che di giorno in giorno si faceva sempre più unto e liso e il cui miserevole stato non
poteva certo sfuggire all’occhio anche distratto delle persone con le quali avevo a che
fare.
A dire il vero, non è che questo mi creasse particolari problemi nel rapporto con gli
103
altri. Tuttavia, mi è sempre rimasto ben vivo nella memoria, e ricordo che mi fece anche
un po’ vergognare, il consiglio che, a proposito di questo impermeabile, mi venne, un
giorno che ero stato a casa sua, tramite il figlio, dalla madre di Enrico Graziani che avevo
conosciuto proprio in quegli anni: non era il caso, mi fece sapere, che lo tenessi infilato
quando incontravo gente, mettendo così in mostra, coram populo, tutta la tavolozza
di colori che vi si era ormai stampata sopra col tempo ed esibendo innanzitutto le così
tante e sempre più corpose sdruciture del collo, era meglio se lo portavo arrotolato sul
braccio, a conti fatti poteva anche fare più chic...!
La signora Graziani, morta ormai da qualche anno, era una donna di spirito e si è sempre
dimostrata nei miei confronti una persona simpatica e disponibile e, debbo dire, anche
discreta, ma in quella occasione non mancò certo di metterci un po’ di sale nel suo
consiglio.
Ma non c’era solo il problema della macchina, per gli spostamenti nei comuni della
zona. Anche potendo disporre di qualche lira (e non era davvero il mio caso), in genere
non c’era all’epoca nei paesi neppure l’ombra di un alberghetto dove fermarsi la notte e
ripartire la mattina dopo con il pullman.
Mi è capitato così più di una volta di dover tornare a piedi a Lanciano, per giunta da
solo. Tutte le volte, ad esempio, che sono stato a tenere riunioni con i mezzadri di
Marcantonio, che si svolgevano di solito nella casa di Giovanni Di Nucci, anche lui
mezzadro del grosso latifondista.
La masseria del compagno si trovava in contrada Romagnoli, nel comune di
Mozzagrogna, quasi a mezza costa lungo la collina che digrada verso il Sangro, quindi
fuori del percorso seguito dai pullmans; e così, quando dovevo recarmi da lui per una
riunione, partivo da Lanciano il pomeriggio, utilizzando fino al bivio di Romagnoli il
pullman, per proseguire poi a piedi verso la masseria che distava di lì almeno un paio
di chilometri.
Non si trattava comunque di una gran fatica.
Da questo punto di vista ero ben allenato visti i tanti chilometri macinati, quando vivevo
ancora a Orsogna, per arrivare fino alla stazione a prendere la Sangritana o anche soltanto
per recarmi in paese; avevamo oltretutto l’abitudine, io e i miei amici, di spostarci ogni
tanto a piedi, in occasione di feste, nei paesi vicini: ricordo, ad esempio, quando -dopo
la fine del liceo- partimmo una notte da Orsogna, era più o meno l’una, per assistere
la mattina successiva, poco dopo il sorgere dell’alba, all’apertura (con sontuosi fuochi
d’artificio) delle feste lancianesi di settembre.
Il problema era il ritorno: all’ora in cui la riunione finiva, non c’erano più mezzi per
raggiungere Lanciano, dovevo così servirmi per forza del cavallo di S. Francesco,
rassegnato a qualche ora e passa di cammino solitario e notturno.
Ma a impensierirmi non era neppure questa volta la distanza, era invece l’ansia che
al momento di mettermi in viaggio si impadroniva di me e non mi lasciava per tutto
il tragitto, dalla masseria di Di Nucci fino alle porte di Lanciano, mentre affrontavo a
passo svelto la strada che portava in città. Un’ansia che minacciava continuamente di
trasformarsi, se non in paura, comunque in un certo qual timore di non so bene che cosa,
un timore insomma vago, indistinto, indefinito.
Sembrerà strano, ma era proprio così, anche se non so ancora oggi spiegarmene bene
104
il perché!
Chissà, forse era lo scenario nel quale mi muovevo, a quell’ora ormai avanzata della
notte, uno scenario di totale solitudine, non si scorgeva infatti proprio anima viva in
giro. O era perché mi trovavo ad attraversare, tutto solo, luoghi per me affatto nuovi e
sconosciuti e a percorrere sentieri circondati da ogni lato dalla campagna deserta nella
quale si rincorrevano soltanto l’abbaiare dei cani dai casolari addormentati e i mille
rumori della notte. O forse, piuttosto, perché, con i rumori che salivano dalla campagna,
mille fantasie si destavano e si agitavano dentro di me, fantasie che certo nascevano
e si alimentavano dei tanti racconti dell’infanzia sedimentati nella mia memoria più
profonda, senza senso quindi e tanto meno fondamento, ma che tuttavia riuscivo con
difficoltà a tenere a bada, si sa bene d’altronde che le paure immaginarie sono molto più
coinvolgenti sul piano emotivo di quelle provocate dal presentarsi di pericoli reali!
Ricordo che per sentirmi più sicuro, quando salutavo i compagni e stavo per imboccare
la strada del ritorno, prima di lasciare la casa del buon Di Nucci mi munivo di un
bastone che, chissà!, poteva sempre tornare utile lungo il cammino, e poi via, gambe in
spalla, per arrivare quanto prima a casa.
Ma era poi davvero così strana e inusitata una tale ansia, e le paure che
l’accompagnavano?
Leopardi, fine conoscitore dell’animo umano, scrive che “le cose ignote fanno più
paura che le conosciute”, egli cita poi in un passo della sua opera giovanile sugli errori
popolari degli antichi quei versi del De rerum natura in cui Lucrezio “paragona i timori,
che bene spesso concepiscono gli uomini per cose vane e da nulla, alle angustie che i
fanciulli provano nelle tenebre...”.
Paure fanciullesche, dunque.
Pueri trepidant, atque omnia caecis / in tenebris metuunt, solo che queste paure -afferma
Lucrezio- possono assalire anche gli adulti che temono le stesse cose quae pueri in
tenebris pavitant finguntque futura (anche Voltaire, nota Leopardi nel suo saggio,
“quel banderaio degli spiriti forti, quell’uomo sì ragionevole”, com’egli lo definisce,
“tremava nelle tenebre come un fanciullo...”).
Ricordo che mi accadeva ogni tanto di lasciarmi prendere da simili paure anche quando,
quasi ventenne, dal paese tornavo a casa, a notte alta e naturalmente a piedi, nella
masseria di Colle S. Giacomo.
Anche allora mi ritrovavo in mezzo all’abbaiare dei cani e ai rumori della campagna
avvolta dalle tenebre o, se c’era la luna, tutta punteggiata di chiazze d’ombra a causa
degli alberi e dei cespugli che la popolavano; e anche allora, nonostante conoscessi
bene i luoghi, avvertivo l’emergere prepotente, dentro di me, di timori indefiniti, irreali
appunto, che in nessun modo però mi abbandonavano finché non arrivavo a casa, era
come se dai mille anfratti di rovi che popolavano i margini della strada o dai boschetti che
si intravvedevano nelle campagne adiacenti dovesse all’improvviso sbucare qualcosa
d’insolito, di strano e naturalmente tale da incutere terrore!
Ricordo anche che in quelle occasioni il mio modo per esorcizzare l’ansia era quello
di accelerare il passo, qualche volta avevi anche la sensazione che qualcuno ti stesse
seguendo, ti sembrava addirittura di sentirne il passo, e dovevi fare un grande sforzo su
te stesso per convincerti che era tutto frutto della tua fantasia, tuttavia ti voltavi sempre
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con una certa apprensione e acceleravi ancora di più il passo o ti mettevi a cantarellare,
come se questo potesse farti compagnia o comunque distrarti, ed era forse invece solo
un modo inconscio per “dare a intendere a noi stessi di non temere”, come sottolinea
molto acutamente Leopardi in un passo dello Zibaldone.
Insomma, anche se poi andando avanti negli anni sono -come dire- migliorato, ero
anch’io allora preda come tanti, pur non essendo più un bambino, di quelle “ombre,
larve, spettri, fantasmi, visioni…, gli oggetti terribili che facevano tremare i poveri
antichi, e che, convien pur dirlo, ispirano ancora a noi dello spavento”, di cui discorre
Leopardi nel saggio citato parlando dei terrori notturni degli antichi!
Ciò non mi impediva naturalmente, anche se le paure non scomparivano mai del tutto
e l’orecchio rimaneva sempre vigile e gli occhi bene aperti, di apprezzare e gustare lo
spettacolo che la campagna ti offre anche di notte, soprattutto nelle notti di luna, la luna
ti viaggia sopra la testa, accompagnando il tuo cammino, e scodella intanto davanti
ai tuoi occhi le innumerevoli bellezze di un paesaggio davvero unico che ti invita ad
abbandonarti ad altre fantasticherie, più dilettevoli e appaganti.
In occasione di altre riunioni nei comuni della zona, sono stato invece più fortunato.
Non ero costretto, in quei casi, a inforcare il cavallo di S. Francesco, ma potevo contare
sul buon cuore di qualche compagno che mi caricava sul suo mezzo (al massimo,
una motocicletta, le automobili all’epoca erano davvero merce rara, soprattutto tra i
lavoratori) e mi portava a casa.
Mi è capitato diverse volte, ma ricordo in particolare una sera, a Fossacesia, quando il
compagno Rotondi (questo, se la memoria non mi tradisce, il suo cognome), finita la
riunione, mi prese sulla sua moto e si avviò sulla strada per Lanciano.
Rotondi, che aveva potuto comprarsi la motocicletta grazie ai risparmi accumulati con
la sua vita da emigrato, abitava a Villa Scorciosa, una contrada di Fossacesia, e per
tornare a casa doveva fare comunque un pezzo della attuale provinciale che porta verso
il capoluogo frentano; e poi, Villa Scorciosa non era lontana da Lanciano.
Salii così sul sellino posteriore della moto e via a tutto gas verso la città, ma il diavolo
ci mise proprio la coda: avevamo percorso appena qualche chilometro ed ecco arrivarci
addosso il diluvio. Saggiamente a quel punto, senza pensarci troppo, Rotondi prese
la strada di casa sua, dove quella notte fui suo ospite, eravamo naturalmente affamati
e fradici di pioggia ma la moglie ci preparò subito qualcosa da mettere sotto i denti
e soprattutto accese un bel fuoco che ci consentì di asciugarci i panni che avevamo
addosso.
Il mattino dopo, per tornare a Lanciano, presi anch’io il pullman che portava le tabacchine
di Villa Scorciosa, tra le quali c’era anche la moglie di Rotondi, all’ATI (l’ATI, che oggi
non esiste più, era l’azienda statale che lavorava il tabacco coltivato nelle campagne del
Sangro e occupava circa un migliaio di tabacchine provenienti, in genere, dalle contrade
di Lanciano e dai paesi limitrofi).
Sono arrivato a Lanciano nel 1959, quando ormai l’inverno era quasi alle porte; ma vi
sono restato solo pochi mesi, più o meno fino alla primavera inoltrata del 1960, un tempo
comunque sufficiente per fare una esperienza che considero ancora oggi di grande utilità
per la mia formazione politica: anche perché è stata la mia prima esperienza esterna.
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Essa, inoltre, fu così intensa che mi consentì di stabilire legami assai forti con i compagni
tanto che essi mi chiesero di capeggiare la lista del PCI nelle elezioni comunali del
1960 e mi rielessero poi, sempre come capolista, consigliere comunale ancora nelle
amministrative del 1964, dandomi la possibilità di restarlo addirittura fino al 1970,
nonostante che nel frattempo non vivessi più in città e avessi altri rilevanti impegni di
partito prima a livello provinciale e successivamente nel vastese.
Lanciano fu importante per me anche dal punto di vista del mio incontro con le istituzioni
e con la necessità nella quale mi venni a trovare di impadronirmi rapidamente di una
serie di conoscenze di natura istituzionale: infatti, fu proprio a Lanciano che entrai per
la prima volta, come consigliere, in un’aula di Consiglio comunale, ignorando però
tutto del suo funzionamento!
La frequentazione del Consiglio comunale mi abituò presto a stare al merito dei
problemi nel confronto con le altre forze politiche e amministrative della città, fuori di
ogni propaganda generica o demagogica; a impegnarmi inoltre in uno sforzo continuo
di messa a punto e di approfondimento dei problemi attraverso un rapporto costante e
positivo con il partito in primo luogo ma anche con l’opinione pubblica a noi più vicina;
e a cercare di intrecciare, ogni volta che se ne presentava la possibilità, la battaglia nelle
istituzioni con la iniziativa politica rivolta all’esterno, alla gente comune.
A Lanciano ero stato mandato dalla federazione con l’incarico di responsabile di
zona, anche se con compiti puramente organizzativi, le zone all’epoca non avevano
alcuna funzione di direzione politica, tuttavia finii per occupare gran parte del mio
tempo facendo di fatto il segretario della sezione, se ben ricordo anzi fui anche investito
formalmente di questa responsabilità da parte dei compagni.
D’altra parte, era forse anche la cosa giusta da fare, vista la difficoltà di arrivare negli
altri comuni del Sangro.
A Lanciano, il partito era proprio debole, sovrastato a sinistra sia dal partito socialista
sia, soprattutto, dal partito repubblicano che aveva in Francesco Paolo Memmo un
dirigente di grande caratura.
All’epoca, il PCI non riusciva neppure a esprimere consiglieri comunali locali; e il
suo gruppo dirigente era composto fondamentalmente da compagni ormai di una certa
età, bravi, volenterosi, ma non più di tanto, e parecchi di essi non erano neppure di
Lanciano, ma provenivano dai paesi del Sangro.
L’unico giovane era Nicolino Stella, lancianese doc, che veniva da una famiglia molto
povera, nella quale la truscia, come teneva a sottolineare lui stesso, era di casa.
Lo ricordo ancora oggi con molto affetto; e mi dispiace di non aver avuto più, ormai
da molto tempo, occasione di incontrarlo: è da tantissimi anni, infatti, che ha lasciato
Lanciano e si è trasferito a Teramo, nella città della moglie.
Quando l’ho conosciuto, ricordo che lavorava già alla Camera del Lavoro locale, della
quale divenne in seguito segretario: a causa della sua provenienza sociale, non aveva
certo fatto grandi studi ma la sua naturale intelligenza gli consentì di diventare un
dirigente non solo sindacale ma anche politico, egli fu infatti, per un periodo di tempo,
anche responsabile della zona del partito nel Sangro; Nicolino poi era una persona seria,
posata, scrupolosa, di cui ci si poteva fidare a occhi chiusi. E non a caso fu proprio lui la
prima espressione autoctona del PCI lancianese nel Consiglio comunale della città, nel
107
quale fu eletto per la prima volta, assieme a me, nelle amministrative del 1964.
Il PCI elesse, infatti, in quelle elezioni appena due consiglieri, sui trenta che ne contava
il Consiglio comunale: davvero pochini, ma fu ugualmente una vittoria perché fino ad
allora ne avevamo sempre eletto uno solo!
A partire dagli anni ’70, la situazione invece cambiò radicalmente.
La nostra rappresentanza nelle istituzioni locali cominciò a essere non solo tutta
lancianese ma anche abbastanza numerosa e qualificata, era arrivata infatti al partito,
sulla fine degli anni ‘60, una folta schiera di giovani intellettuali e di lavoratori, artigiani,
piccoli commercianti e anche contadini, il PCI inoltre in quegli anni poté capitalizzare
anche la crisi che nella seconda metà degli anni ’60 aveva investito alle radici il PSI
lancianese, spostando una grossa fetta dell’elettorato socialista verso di noi.
Una spinta decisiva a questa crescita del PCI venne certamente dalle lotte delle
tabacchine costrette, nella primavera del 1968, a scendere in piazza e anche a scontrarsi
duramente con le forze di polizia fatte affluire in grande numero da Foggia, per difendere
la sopravvivenza dell’ATI; ma decisiva fu forse la nascita anche in città di un forte
movimento studentesco, assieme al nuovo clima culturale e politico che già allora si
respirava in tutto il Paese.
Negli anni ‘70, anche i riferimenti sociali del PCI lancianese si fecero più ampi e robusti.
Non era così invece all’inizio degli anni ‘60.
Da questo punto di vista, balzava subito agli occhi la strutturale debolezza dei nostri
rapporti con gli strati fondamentali della popolazione.
Non solo essi erano assai fragili, ma si limitavano sostanzialmente a pezzi di
sottoproletariato, all’epoca assai consistente in città, e ad alcune realtà operaie: in
particolare eravamo forti tra le tabacchine, sempre molto combattive e determinate a
far valere i propri diritti, non a caso del resto proprio tra di loro emersero in quegli anni
alcune forti figure di compagne che giocarono poi un ruolo di primo piano nelle lotte
(ricordo per tutte Ersilia Cascinelli, una vera capa sindacale e politica in fabbrica, la cui
casa ho avuto modo di frequentare spesso durante i pochi mesi della mia permanenza
a Lanciano).
Per il resto, zero o quasi.
Era così per i rapporti con i ceti urbani legati in particolare al commercio (il commercio
rappresenta da sempre, a Lanciano, una parte fondamentale ed estesa dell’economia
cittadina, e per questa ragione i commercianti hanno sempre esercitato un ruolo sociale
e politico di primo piano nella vita della città) e alle professioni.
Ma era così anche tra i contadini che, all’epoca, erano quasi la metà della popolazione.
In realtà, il partito di Lanciano era un partito molto chiuso e settario e vi era persino,
tra i compagni, chi faceva, ad esempio, ai contadini (meglio: ai cafoni) questo discorso:
Quando arriveranno i comunisti, porteranno la luce elettrica in campagna per farvi
lavorare anche di notte!, insomma i contadini -per molti comunisti lancianesi- erano
l’equivalente dei kulaki durante la rivoluzione bolscevica e, per questo, essi non
potevano meritare altro che l’annientamento, come in Russia!
A Lanciano comunque mi sono trovato bene; e credo di aver dato sia nei pochi mesi del
mio soggiorno che negli anni successivi un qualche contributo a svecchiare il partito,
facendo emergere forze nuove, e a emarginare e neutralizzare le spinte più settarie,
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legando sempre di più la presenza dei comunisti ai problemi della città e alle battaglie
necessarie per risolverli.
Da questo punto di vista, anzi, il PCI lancianese fece un bel passo avanti rispetto alle
sue tradizioni di chiusura e di settarismo. Riuscendo, ad esempio, a fare politica, e
quindi a non farsi isolare, nel periodo in cui, siamo ai primi anni ‘60, su iniziativa della
sinistra dc, si costituì in città la prima giunta di centro-sinistra (tra le primissime, se
non la prima, in Italia); e anche quando si avviò, tra il ‘65 e il ‘66, nel Sangro, sotto la
spinta sempre di settori della DC, un dibattito intenso e diffuso in tutta la vallata sulle
prospettive di Lanciano e della zona.
Nella seconda metà degli anni ‘60, Lanciano e il Sangro si sentivano fortemente frustrati
a causa della loro esclusione dai programmi d’investimento e di sviluppo definiti, per
la regione, dal governo nazionale e dalla DC abruzzese. Così, cominciarono a farsi
sentire i primi mugugni tra gli stessi democristiani, innanzitutto tra i sindaci (quasi tutti
dc) della valle, e a fiorire le prime iniziative per la creazione di un movimento per la
rinascita della vallata. L’obiettivo era certo, in primo luogo, di premere sul governo e su
Gaspari (che era già allora il padre-padrone della DC abruzzese), ma anche di governare
il malcontento e volgerlo a favore della stessa DC e degli altri partiti di governo, in
modo da impedire all’opposizione (in altre parole, al PCI) di fare della battaglia contro
l’arretratezza e per lo sviluppo della città e della zona un’arma contro lo strapotere
democristiano.
Ma il PCI fu capace di reagire in maniera efficace a questo disegno e alla situazione
che si stava creando; e costruì a sua volta, con diverse iniziative tra la gente e negli enti
locali, una propria proposta alternativa che ci consentì poi di crescere sia in consensi
elettorali che in influenza politica e, nei primi anni ‘70, di essere noi alla testa della
battaglia decisiva per aprire le porte dello sviluppo a Lanciano e all’intera vallata:
la battaglia contro l’insediamento della Sangrochimica e per l’arrivo della FIAT nel
Sangro.
Anche in questa fase naturalmente, nella mia qualità e di consigliere comunale e di
dirigente provinciale della federazione, io fui tra gli animatori principali delle iniziative
e delle proposte che il PCI mise in campo.
Insomma, mie care nipoti, un fatto è certo: il ruolo del PCI è stato essenziale per dare
un futuro diverso a Lanciano e al Sangro, e proprio per questo un po’ di merito va anche
al nonno!
Quando giunsi a Lanciano, ricordo che, proprio per le caratteristiche che aveva allora il
partito in città, non fu per nulla facile mettere in moto la sezione. Costava, anzi, sempre
una gran fatica e spesso, pur avendo deciso assieme ai compagni le varie iniziative, alla
fine mi ritrovavo da solo a cercare di tradurle in fatti.
Rammento, a questo proposito, un episodio che mi fece molto arrabbiare e che, debbo
dire, mi colse anche un po’ di sorpresa, perché francamente non me l’aspettavo...!
Eravamo nel 1960, forse all’inizio della primavera, nel periodo comunque in cui a
Lanciano si svolgeva all’Iconicella, una contrada appena fuori della cinta urbana, sulla
provinciale per Fossacesia, la tradizionale fiera dell’agricoltura alla quale accorreva
sempre una grandissima folla di contadini e di commercianti di bestiame e di altri prodotti
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agricoli sia del posto che della zona.
Ebbene, anche in considerazione della situazione di malcontento che c’era allora
nelle campagne, decidemmo in sezione che quella occasione andava utilizzata per far
conoscere ai contadini il punto di vista, che era molto critico, dei comunisti, sintetizzato
in un volantone, sulla politica agricola del MEC (il Mercato Europeo Comune),
concordando contemporaneamente che saremmo andati io e un giovane compagno,
apprendista barbiere, a distribuirlo agli interessati.
Ma il compagno, quando la mattina ci incontrammo sul corso cittadino per recarci
insieme alla fiera, trovò una scusa per allontanarsi: mi assicurò tuttavia che comunque
ci saremmo ritrovati più tardi all’Iconicella, ma io sono ancora lì ad attenderlo, si guardò
bene infatti dal farsi vedere e il volantone fui costretto a distribuirlo da solo...
Di lì a qualche mese il giovane compagno si trasferì in Inghilterra, dove credo abbia
scelto di vivere definitivamente la sua vita: da allora, infatti, non mi è più capitato di
incontrarlo. E chissà: forse la ragione per cui quella mattina decise di scomparire era
proprio legata a questa sua scelta, ebbe paura cioè di esporsi a possibili e prevedibili
-anzi normali, all’epoca- rappresaglie da parte della DC, che gli avrebbero impedito di
partire o, in ogni modo, sicuramente creato dei problemi.
Tuttavia, nonostante questi contrattempi, riuscimmo ugualmente a portare avanti una
serie di iniziative sia in città, tra le tabacchine e gli studenti, che nelle campagne.
Ricordo anche che riuscimmo a mettere in piedi un Comitato cittadino per la costituzione
dell’Ente Regione, con la partecipazione nostra, dei socialisti, dei repubblicani e anche
di qualche frangia democristiana. In quegli anni era molto forte in Abruzzo la battaglia
regionalista, che si sviluppò con caratteri largamente unitari; la presenza in diverse parti
della provincia di consulte regionaliste giocò, tra l’altro, un ruolo importante anche
nelle lotte per il metano dell’inizio degli anni ‘60.
Il fatto poi che avessi amicizie tra gli ex studenti del liceo, ora universitari, mi diede
anche modo di partecipare a qualche iniziativa, di natura politico-culturale, organizzata
dal circolo universitario cittadino.
A Lanciano mi sono trovato comunque bene: anche dal punto di vista, come dire,
umano.
Lanciano è una città aperta, accogliente, colta, nella quale anche l’ironia dei suoi
abitanti, pure a volte un po’ greve e sboccata e con una certa tendenza al pecoreccio,
risulta sempre piacevole. E poi, è anche una città bella (almeno lo era allora, oggi non
so) sul piano urbanistico e architettonico, con un centro storico davvero invidiabile.
Io, tra l’altro, ebbi la fortuna di trovare casa proprio in una zona molto suggestiva
del centro storico, presso una famiglia artigiana (moglie e marito, lui era falegname)
davvero ospitale.
La casa si trovava a Largo dei Frentani, una piazzetta deliziosa tutta chiusa dalle
abitazioni e alla quale accedevo dalla salita Fenaroli, attraverso una antica porta, a poco
più di un centinaio di metri dal palazzo municipale; e la mia stanza dava proprio sulla
piazzetta, così dalla finestra, quando non ero fuori, potevo osservare quel che accadeva
giù, soprattutto ammirare le ragazze che entravano e uscivano di casa andando a prendere
l’acqua alla fontana che si trovava in un angolo della piazza.
Nei pochi mesi che ho abitato a Lanciano mi sono ritrovato spesso anche con parecchi
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dei ragazzi che avevano frequentato con me il liceo; e ciò mi consentì di non dover
passare il mio tempo libero solo con i compagni e quindi di vivere la vita cittadina quasi
come un lancianese.
Quando, tra la primavera e l’estate del 1960, arrivai a Chieti, il mio primo impatto con
la città non fu certo dei più felici; e l’impressione che ne ricavai non fu davvero molto
lusinghiera.
All’epoca, Chieti non aveva ancora registrato un grande afflusso di popolazione dai
paesi della provincia. Ciò avverrà nei mesi e negli anni seguenti, in coincidenza con la
industrializzazione della vallata dello Scalo e l’avvio dei primi corsi universitari liberi.
Era quindi ancora una città essenzialmente impiegatizia e, dal punto di vista culturale e
politico, piuttosto chiusa e sonnacchiosa, alla camomilla insomma.
Ma che cosa accadde esattamente, in occasione di questo mio primo, o forse meglio,
tenendo conto degli anni del seminario, secondo incontro con Chieti?
Com’era normale che facessi, prima di trasferirmi nel capoluogo di provincia da
Lanciano, con le mie poche e sbrindellate masserizie, mi preoccupai di trovare un
alloggio dove stare come pensionante, e mi raccomandai per questo a Mario Palombaro
che allora lavorava ancora in federazione.
Mario si diede subito da fare e mi trovò in pochissimi giorni una famiglia che abitava
in una casa popolare di Madonna degli Angeli, nella zona vicina alla scuola elementare,
così appena misi piede in città potei andare a prendere possesso del nuovo alloggio.
Ricordo che era il primo pomeriggio quando conobbi la mia nuova padrona di
casa (il marito era al lavoro) e che, appena sistemate le mie cose, mi recai subito in
federazione.
Ma quale non fu la mia sorpresa la sera quando, tornando a casa per la cena, mentre stavo
ancora salendo i gradini della scala esterna di ingresso all’abitazione, vidi, arrotolate sul
pianerottolo su cui si affacciava la porta di casa, le mie povere suppellettili?!
Suonai allora il campanello e tentai di avere delle spiegazioni, ma tutto fu inutile: il
marito della donna, che evidentemente non era stato informato dell’arrivo del nuovo
inquilino o aveva cambiato idea e che comunque non sembrava gradire la presenza di
un estraneo in casa, mi aprì appena la porta e mi cacciò via in malo modo.
Insomma, fu un incontro piuttosto traumatico che, proprio per questo, mi è rimasto nella
memoria.
A Chieti, avevo vissuto da seminarista per molti anni, ma questo non comportò mai, in
realtà, un rapporto vero con la città, e i suoi abitanti perciò non li conoscevo affatto.
In fin dei conti, eravamo solo dei ragazzi il cui ambiente di vita non era mai andato al di
là delle mura del seminario, e quindi la gente la incontravamo soltanto.
Conoscevamo certo le strade e i palazzi della città ma solo perché vi passeggiavamo in
gruppo, nell’ora della nostra libera uscita quotidiana. Come, in occasione del Venerdì
Santo, percorrevamo Corso Marrucino in processione, con indosso le cotte bianche e
recitando ad alta voce le preghiere di rito e c’era tanta gente lungo il percorso, devota
o semplicemente curiosa; o servivamo messa in cattedrale nelle ricorrenze liturgiche
solenni, quando la cattedrale era piena e a officiare le funzioni religiose era l’arcivescovo:
la settimana santa, la Pasqua, le feste di Natale, il Corpus Domini e altre feste comandate
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importanti. Ma la gente vera non era quella che vedevamo!
La giornata finì così, dopo una tale bella accoglienza, nella stanza squallida di un
alberghetto di quint’ordine, Scatenato, che si trovava proprio a fianco della Cassa
di risparmio e che oggi non esiste più; e lì fui costretto a restare ancora nei giorni
successivi, in attesa di una nuova sistemazione.
Naturalmente, una tale singolare disavventura non mi diede certo di Chieti l’idea di
una città pronta ad accogliere, non dico a braccia aperte, ma comunque con una certa
disponibilità, i nuovi arrivati.
Per chi come me veniva dalla provincia e conosceva le storie raccontate anche da
gente di Orsogna su come Chieti aveva accolto, durante la guerra, la massa di profughi
proveniente da tanti comuni dell’ortonese nell’inverno del 1943, e aveva modo
di ascoltare quasi ogni giorno le lamentele di chi, venendo magari anche da paesi
lontanissimi, si ritrovava a subire i continui rinvii o la strafottenza e il menefreghismo
della burocrazia del capoluogo, era inevitabile che in qualche modo fosse prevenuto nei
confronti della città. Ebbene, dopo quel che m’era capitato, un tale pregiudizio ne uscì
rafforzato!
Tra l’altro, nei primi tempi del mio nuovo soggiorno in città, anche le prime conoscenze
che feci fuori del partito (ricordo che con Licio Bevilacqua ogni tanto passavo qualche
serata all’Enal, all’imbocco del viale che porta alla villa comunale, che allora funzionava
ancora come sala da giochi, sempre affollatissima) non mi aiutarono certo a superare
questo pregiudizio.
La prima idea che ti facevi delle persone con le quali ti incontravi era in genere di gente
abituata a guardare gli altri dall’alto in basso, con una alterigia tutta piccolo-borghese,
quella tipica appunto dei ceti burocratici che allora dominavano la città.
Col tempo, ho maturato una idea un po’ meno severa nei confronti della città e dei
suoi abitanti, non tanto però da farmi dimenticare quel primo incontro. Anche perché
il comportamento politico della città è stato sempre molto conservatore e, in alcune
frange, al limite della reazione. E anche i cambiamenti che negli anni l’hanno segnata
positivamente, modificandone dati di costume e culturali e consentendo addirittura
l’approdo di una giunta di centrosinistra al Comune, non hanno cancellato le tante
stimmate negative lasciate dalla storia.
In ogni modo, già la famiglia presso la quale mi sistemai dopo i giorni passati a Scatenato
mi offrì una immagine un po’ diversa di Chieti: una famiglia povera ma dignitosa, molto
ospitale (non solo perché era pagata) e pronta a darti una mano se occorreva, che aveva
casa nel quartiere di Santa Maria, a Via dei Tintori.
Nella mia nuova abitazione ebbi anche la fortuna di ritrovarmi in compagnia di alcuni
studenti, che frequentavano i due istituti tecnici della città (il commerciale e l’industriale);
inoltre, qualche mese dopo, fui raggiunto da un compagno di S. Salvo (fummo messi a
dormire nella stessa stanza), Michelino Raspa, chiamato dal partito a lavorare alla FGCI
provinciale.
Michelino era un compagno assai gioviale e disponibile, anche generoso quando le
circostanze lo richiedevano, ma a volte anche piuttosto ingenuo, con lui comunque si
stava bene, ma rimase a Chieti sì e no un anno e mezzo o poco più, poi dovette andare
militare, e quando si concluse il suo turno di leva, se ne tornò a Vasto dove cominciò a
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lavorare alla CGIL.
Anch’io non mi fermai troppo a lungo a Chieti. Vi restai poco meno di due anni, fino al
mio nuovo trasferimento, questa volta ad Avezzano, nella Marsica.
In quei due anni, lavorai naturalmente in federazione, era il mio primo incarico a
carattere provinciale, e mi fu affidata la propaganda; contemporaneamente seguivo
anche la FGCI, la organizzazione dei giovani comunisti.
Il gruppo dirigente della federazione era costituito in quel periodo ancora dai compagni
che provenivano dall’esperienza della guerra e, per alcuni di essi, dalla partecipazione
alla guerra di liberazione.
Ma già allora cominciavano a esserci inserimenti di forze più giovani: uno di questi ero
io, che infatti al VI Congresso provinciale del 16 e 17 gennaio del 1960 (a quel tempo
ero ancora di stanza a Lanciano) venni eletto nel Comitato Federale.
Ricordo bene quel Congresso, soprattutto per una ragione, chiamiamola così,
climatica.
Il Congresso si svolse a Chieti, al cinema Eden, dove però faceva un freddo cane: questo
particolare ce l’ho ancora ben presente nella memoria perché, in quella occasione, io e
Graziani, i due giovani intellettuali emergenti della compagnia, io con gli occhialetti alla
Gramsci e l’aria un po’ patita, lui con quel suo linguaggio assertivo e sempre tendente
all’enfasi, fummo messi a verbalizzare il dibattito congressuale, seduti a un tavolino
che stava proprio sul palco, e questo ci impediva di muoverci liberamente nonostante il
bisogno di sgranchire ogni tanto le gambe e di riscaldarci.
La situazione in federazione, quando io vi cominciai a lavorare, era nel complesso
buona, anche se il partito scontava all’esterno un isolamento che era iniziato con
la sconfitta subìta nel ’48: c’erano Ottaviano, segretario provinciale, Bevilacqua,
responsabile di organizzazione, Tina (la moglie di Ottaviano) che seguiva le questioni
dell’amministrazione anche se c’era poco da amministrare, io naturalmente, Michelino
Raspa, Mario Palombaro e qualche altro compagno che poi lasciò il partito.
Nel gruppo c’erano anche due compagne, tutte e due molto giovani. E una di esse,
Rosetta Spaziani, era quella che, qualche anno dopo, sarebbe diventata mia moglie e poi,
mie care nipoti, vostra nonna: era da tempo che lavorava al partito, battendo a macchina
e in generale svolgendo lavori di segreteria, e veniva da una famiglia di comunisti di
antica data. Ricordo che essa, al contrario dell’altra compagna che amava vestirsi in
modo vistoso, preferiva invece vestiti semplici e sobri; e forse fu anche questo, assieme
al suo carattere riservato e senza grilli per la testa, che mi portò nel giro di qualche mese
dal mio arrivo a Chieti a innamorarmi di lei.
A quell’epoca, la federazione era in Via della Liberazione, sotto la villa comunale,
quasi all’altezza della clinica Spatocco; e si trattava di un normale appartamento, al
primo piano sotto il livello della strada, con un salone non molto grande ma in grado
comunque di ospitare le riunioni del Comitato Federale.
In pratica la federazione, rispetto alla mia abitazione e a quella di Rosetta, si trovava
dall’altra parte della città e bisognava attraversare perciò tutto il corso per arrivarvi,
io da Santa Maria e lei dalla discesa del gas dove allora abitava, a qualche decina di
metri prima del grosso piazzale che ospitava l’impianto di decompressione del gas di
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città gestito dalla Camuzzi: un bel po’ di strada, insomma, che allora facevamo spesso
assieme, soprattutto per tornare alle rispettive abitazioni.
In quei due anni, ebbi modo di intrecciare rapporti con alcuni ragazzi, rappresentanti
delle diverse organizzazioni politiche giovanili della città, c’era allora una certa vivacità
a Chieti sul terreno della politica giovanile da parte dei partiti (si tentò anche di arrivare,
con un accordo tra le varie forze giovanili, alla costituzione di una Consulta comunale
della gioventù, ma la DC teatina non ne volle sapere, così il progetto naufragò) e noi
comunisti facevamo naturalmente la nostra parte.
Di quegli anni ricordo anche gli incontri politico-culturali, ai quali anch’io partecipavo
intervenendo spesso nel dibattito.
Essi erano organizzati da vari gruppi, con la proiezione di cicli di film, in genere si trattava
di film impegnati come usava all’epoca, e di solito si svolgevano al cinema Enal, allora tra
le sale cinematografiche più attive della città (ne esistevano tre, se ben rammento: l’Enal
appunto -o, meglio, Gardencine- e poi l’Eden, un pidocchietto in Via De Lollis molto
frequentato dagli studenti in cerca di qualche pomiciata d’occasione con le ragazze, e
un’altra sala a metà corso, appunto il cinema Corso che si trovava sotto i portici, di fronte
al bellissimo Palazzo De Mayo).
Ovviamente, andavo spesso a tenere riunioni in provincia, nelle sezioni, inforcando la
vespa che mi era stata messa a disposizione dal partito; e fu proprio in occasione di una
di queste uscite, mie care nipoti, che rimasi vittima della pericolosa caduta di cui vi ho
già raccontato.
La mia più importante esperienza di quei mesi fu tuttavia quella legata alle lotte per il
metano, nell’estate e nell’autunno del 1961.
Di solito, infatti, ero io a tenere le riunioni che si svolgevano a Cupello e negli altri
comuni del vastese, per cercare di costituire Comitati di agitazione e mettere in piedi
le varie iniziative, a scrivere articoli su l’Unità e ad essere incaricato di organizzare le
manifestazioni, sia di partito sia unitarie, che si sono svolte in quel periodo a Vasto e
nella zona.
Le lotte per il metano hanno rappresentato un discrimine fondamentale per la storia
del vastese e dello stesso Abruzzo. E’ da esse infatti che parte il processo, fatto di
industrializzazione modernizzazione dell’agricoltura e diffusione di strutture e servizi
civili fino a quel momento quasi del tutto assenti non solo nei paesi ma anche nelle città,
che porterà negli anni successivi la nostra regione a fuoriuscire dal Mezzogiorno.
L’Abruzzo era allora terra di miseria, analfabetismo, emigrazione, isolamento culturale
e civile. Non è certo l’Abruzzo che voi oggi conoscete, ma se le cose non stanno più
così, ebbene è perché quelle lotte hanno contato moltissimo.
Esse avevano un obiettivo semplice ma decisivo: costringere il governo a utilizzare
il metano scoperto nella zona dall’ENI anche per lo sviluppo del vastese e dell’intera
regione, ed evitare che si ripetesse ancora quel che negli anni ‘50 era accaduto con
l’energia elettrica prodotta dalle acque delle nostre montagne ma portata altrove, senza
alcuna ricaduta positiva per le popolazioni.
Il pericolo, da questo punto di vista, non era per niente frutto di immaginazione:
nell’aprile del 1961, il governo aveva detto sì all’ENI che puntava a utilizzare a Roma
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e Terni la preziosa risorsa racchiusa nelle viscere del vastese.
Di qui la rabbia della gente, la nascita di Comitati di agitazione e il fiorire, anche fuori
della zona, di manifestazioni e iniziative di varia natura, che in qualche momento
(penso soprattutto alle manifestazioni che si ebbero a Cupello) assunsero anche caratteri
tipicamente ribellistici, meridionali.
Ma alla fine la battaglia la vinsero gli abruzzesi; e fu proprio ciò che rese possibile
l’avvio di quel cambiamento profondo che ha trasformato via via il volto del vastese e
dell’Abruzzo.
Ebbene, mie care nipoti, io ho vissuto direttamente quel periodo così intenso e cruciale;
e di quelle lotte, alle quali ho dato anch’io il mio piccolo contributo, ho naturalmente
molti ricordi.
Ricordo i dibattiti nelle sezioni, gli scontri anche assai vivaci con posizioni di compagni
e di parte anche del nostro elettorato -circa i contenuti e gli obiettivi da dare alle lotteche noi consideravamo subalterne alla DC e inefficaci a raggiungere risultati reali e
duraturi, la difficoltà a volte di far capire a pezzi del partito l’importanza di quelle lotte
e del ruolo che in esse il PCI poteva e doveva giocare, la fatica anche fisica di girare
come una trottola per i vari comuni...
Vi assicuro, mie care nipoti, non fu una passeggiata, ma di pazienza e ostinazione ne
avevo anche allora; e così, tutto sommato, me la cavai abbastanza bene, imparando
nello stesso tempo anche molte cose.
Ma quella esperienza non fu, per me, soltanto questo: fu anche altro, soprattutto sul
piano umano.
Più di una volta, in quei mesi, mi è capitato di dovermi fermare per alcuni giorni, in
qualche caso anche per più di una settimana, a Vasto.
Di solito andavo in albergo (conservo ancora sui miei block-notes del tempo gli appunti
delle spese affrontate, per il rendiconto da fare in federazione), alcune volte invece
sono stato ospite di Nicola e Nicoletta Di Bussolo, due compagni non più tanto giovani
ormai, che non avevano avuto figli e dedicavano il loro tempo al lavoro e al partito.
Ebbene, di essi ricordo ancora oggi con piacere la disponibilità e la generosità, anche se
le vicende della politica (che spesso, purtroppo!, non concedono nulla ai sentimenti) mi
hanno portato, alcuni anni dopo, a scontrarmi con Nicola, rompendo così un’amicizia
che si era rinnovata anche all’indomani del mio arrivo a Vasto nella primavera del ‘67.
Nicola Di Bussolo finì infatti espulso dal PCI, per vicende connesse con l’Amministrazione
comunale Faro-PCI, proprio nel periodo in cui ero io il responsabile della zona del
Vastese: egli era un bravo artigiano (lavorava il marmo) e, soprattutto, una persona
simpatica e allegra, al quale piaceva molto cantare, me lo ricordo bene, ad esempio,
quando, alla fine degli anni ‘50, si esibiva, con grande successo, nelle feste de l’Unità di
Comino, la contrada rossa di Guardiagrele, e il suo cavallo di battaglia era Vasto, terra
d’oro…, cantata naturalmente in un dialetto vastese molto stretto.
Al periodo delle lotte per il metano e a una delle mie permanenze a Vasto per più giorni
appartiene anche il ricordo che ho di un altro compagno, questa volta però arrivato dalla
Lombardia, più esattamente da Pavia, dove era stato segretario di federazione. Parlo di
Marinoni (non ne rammento più il nome), che la Direzione nazionale aveva inviato a
Chieti con l’intenzione non del tutto recondita di proporlo più in là come segretario di
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federazione, in sostituzione di Ottaviano che incontrava difficoltà sempre maggiori nel
suo rapporto con i compagni del gruppo dirigente provinciale.
Marinoni, che da operaio era diventato funzionario di partito, era una persona squisita,
con cui si chiacchierava e si discuteva volentieri, e che, almeno con me, si dimostrò
sempre molto amabile e disponibile, mentre era assai critico nei confronti di altri
compagni; e proprio a lui debbo una piccola lezione che non ho mai dimenticato e che
mi risultò assai utile negli anni successivi.
La ricordo come se fosse ora, come ricordo anche il mio imbarazzo di fronte al suo
commento quando non seppi rispondere a una sua domanda su Cupello, credo che mi
chiedesse notizie sulle tradizioni religiose del paesino che era allora al centro della
battaglia per il metano e noi dovevamo decidere delle iniziative in quei giorni che
riguardavano proprio Cupello: ti sei scordato, mi fece tra il serio e il faceto, di quel che
dice Gramsci a proposito della necessità di operare sempre una attenta ricognizione
del terreno di lotta prima di decidere una strategia? Se vuoi dirigere il partito, devi
conoscere anche queste cose!
Una battuta un po’ da lana caprina, ma in fondo non del tutto fuori luogo...
Marinoni non resistette a lungo a Chieti, non solo perché chi doveva farsi sostituire
resisteva.
Egli era certamente un uomo capace, intelligente, in grado quindi di assolvere a incarichi
di un certo livello, ma non era questo il punto come non lo erano alcune spigolosità del
suo carattere. C’era soprattutto in lui una certa visione schematica delle cose che gli
derivava, oltre che dalla sua esperienza di operaio del Nord, anche dalla sua cultura
di autodidatta, e che non gli avrebbe mai permesso di comprendere fino in fondo una
realtà contadina e, per tanti aspetti, meridionale quale era allora la nostra, decise così di
andare via, e mi dispiace di non aver più avuto modo, in seguito, di incontrarlo ancora,
se non, sì e no, un paio di volte.
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CAPITOLO VI
Inde genus durum sumus experiensque laborum
et documenta damus qua simus origine nati.
Sono gli esametri che concludono il racconto di Ovidio, nelle Metamorfosi, sul diluvio
provocato da Giove per punire la malvagità degli uomini e sul ripopolamento della terra
da parte dei due superstiti, Deucalione e Pirra: seguendo il consiglio della dea Temi,
ossa…post tergum magnae iactate parentis, essi si gettano dietro la schiena le pietre, le
ossa della grande madre, la terra, ed avviene il miracolo, dalle pietre nascono uomini
e donne e prende forma un nuovo genere umano definito, dalla sua stessa origine,
appunto duro, petroso, temprato alle fatiche e che ogni giorno di questa sua origine dà
testimonianza.
Ma ecco, a questo punto, ancora una volta l’osservazione delle mie nipoti: Ma, nonno,
continui a divertirti con le citazioni, raccontaci invece senza tanti giri di parole le cose
che ti sono capitate!
Voi avete ragione, rispondo, solo che non sapete ancora che il vero, condito in molli
versi, / i più schivi allettando ha persuaso; e che a volte le parole di un poeta colgono
meglio l’essenza delle cose che tu vuoi dire, e così mi permetto ogni tanto una citazione,
compresa l’ultima che è del grande Torquato Tasso.
Ma torniamo a Ovidio.
Conoscevo da tempo questo passo delle Metamorfosi, ma mi è accaduto di rileggerlo
recentemente, nella prima quindicina di settembre del 2004, a Sciacca, in Sicilia, dove
io e la nonna siamo stati, con Enrico e Mariangela Graziani, per le cure termali.
Così oggi, mentre mi accingevo a rimettere assieme i ricordi e le esperienze che ho fatto
nel corso del mio breve soggiorno, di poco più di un anno, nella Marsica, tra l’estate del
1962 e i primi di settembre del 1963, questi versi mi si sono presentati spontaneamente
alla mente.
E la ragione è semplice: essi mi pare che rendano bene alcuni aspetti, appunto duri
petrosi difficili, del carattere dei marsicani con i quali mi è accaduto di scontrarmi
più di una volta durante la mia permanenza in questa zona interna dell’Abruzzo, se
penso, ad esempio, all’andamento di certe riunioni in sezione con i compagni di Celano,
di Trasacco o anche di Pescina e di S. Benedetto dei Marsi e, in alcune circostanze,
dello stesso Comitato Federale (ad esempio, in occasione della discussione sulle
candidature per le elezioni politiche del 1963, quando aspirazioni ad ascendere al
soglio parlamentare di qualche compagno del posto, come Giancarlo Cantelmi, o di
compagni come Attilio Esposto, che era un personaggio nazionale e aveva diretto in
anni precedenti la federazione di Avezzano, cozzavano con le scelte fatte dal partito
a livello regionale a favore di organizzazioni elettoralmente e organizzativamente più
forti di quella marsicana).
Del resto, anche Virgilio nelle Georgiche -quando parla degli antichi Marsi- li definisce
…genus acre virum; e i moderni Marsi, i marsicani di oggi, quando ho avuto a che
fare con loro, non mi sono apparsi un genus meno acre, con una forte inclinazione alla
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polemica, al contrasto duro, allo scontro e spesso anche al litigio spicciolo e magari
immotivato: sembrava a volte di avvertire, nel corso delle riunioni, in certi scontri
personali e politici, la stessa durezza dei colpi scambiati, durante le lotte del Fucino, tra
i braccianti e i contadini poveri da un lato e gli uomini di Torlonia dall’altro.
Naturalmente, i marsicani con i quali ho avuto a che fare erano anche altra cosa:
intelligenza, cultura, generosità, capacità insomma di far valere, oltre alla forza, anche
l’arte della persuasione!
Anche i Marsi avevano fra gli antichi, come ricorda Virgilio, la fama di saper
addormentare le vipere e le idri dal velenoso respiro, di addolcirne l’ira col gesto e il
canto e di guarirne con l’arte i morsi utilizzando l’erbe raccolte sui monti circostanti.
Da questo punto di vista, quelli che più mi colpirono furono i compagni di Luco dei
Marsi.
Non dimentico mai, ad esempio, la festa de l’Unità di Luco a cui mi capitò di partecipare
per la prima volta (e di parlare anche, tenendo il comizio di chiusura) nell’estate del
1962, ricordo che nel corso della festa lo spettacolo di maggior rilievo, a cui assisteva
una gran folla di contadini e di donne, fu la recita delle poesie di Garcia Lorca.
A recitarle era Giannino Venditti (che poi divenne sindaco della cittadina, restandolo
per moltissimo tempo) e il suo pezzo forte, con quell’inizio così altamente drammatico
e pieno di suspense, era il Lamento per Ignazio Sanchez Mejias, il torero caduto
sotto i colpi del toro, che ormai dorme senza fine..., del quale ormai i muschi e le erbe /
aprono con dita sicure / il fiore del teschio... e che la morte ha coperto di pallidi zolfi /
e gli ha messo una testa di scuro minotauro...:
Alle cinque della sera,
eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce era già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera...
La gente ascoltava con attenzione e partecipazione, assetata di quella cultura che a loro,
in grande parte ex braccianti e contadini poveri, era stata negata quand’erano ragazzi.
Quando misi piede nella Marsica, era più o meno la metà di luglio del ‘62, mi trovai di
fronte a un mondo che per me si poteva definire semplicemente ignoto: a parte qualche
vago ricordo letterario, per il resto non avevo nessuna idea di chi fossero i marsicani o
di che cosa fosse il PCI marsicano.
Anche perché all’epoca, ancora all’inizio degli anni ’60, i rapporti tra la costa e la
Marsica erano piuttosto difficoltosi.
E’ vero, c’era la ferrovia e c’era la Tiburtina Valeria, per chi poteva usare l’auto, solo che
il percorso in treno era molto lento e si svolgeva tutto lungo le pendici delle montagne,
con le mille giravolte imposte dalla natura dei luoghi attraversati, mentre la strada
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seguiva ancora il percorso tracciato dai romani e perciò era parecchio impervio e pieno
di curve non solo nei tratti di montagna ma anche lungo la vallata del Pescara; d’inverno
poi era una vera impresa percorrerla quando cadeva la neve, e superare il valico di
Forca Caruso rischiava continuamente, senza che neppure te ne rendessi del tutto conto
mentre l’attraversavi, di precipitarti nel bel mezzo di una improvvisa e violenta bufera
di vento e di neve.
Imparai tuttavia presto a conoscerli.
La Marsica oggi è una realtà abbastanza marginale nella vita dell’Abruzzo, anche
perché lo sviluppo della regione si è fondamentalmente concentrato lungo la costa; e lo
stesso partito marsicano erede del PCI, parlo dei DS, ha ormai anch’esso un ruolo molto
periferico, lo stesso PCI del resto aveva perso molto del suo peso precedente nella realtà
regionale già sul finire degli anni ‘50.
Non era così però né durante il fascismo né nell’immediato dopoguerra, almeno dal
punto di vista del ruolo che i comunisti marsicani hanno giocato all’interno del PCI
abruzzese.
Durante il fascismo, nella Marsica, a contatto con gruppi di comunisti romani presenti
a La Sapienza di Roma, si era formata, intorno alla fine degli anni ’30 e l’inizio degli
anni ’40, una discreta pattuglia di intellettuali e di lavoratori che aderì al PCI clandestino
(pagando in alcuni casi con il carcere le proprie scelte) e riuscì a stabilire anche contatti
con il centro estero del partito.
Ebbene, fu proprio questo gruppo che costituì, nel dopoguerra, il nucleo dirigente
fondamentale del PCI in Abruzzo, alcuni di essi anzi finirono per inserirsi in maniera
(quasi) stabile in altre realtà di partito della regione, in particolare a Pescara e a Chieti;
ed espresse, assieme al gruppo dei più giovani che si formò successivamente con le
lotte del Fucino, i segretari regionali che hanno diretto il PCI abruzzese sia nel decennio
successivo alla guerra che in periodi più recenti, mi riferisco a Giulio Spallone e
Umberto Scalia, ma anche a Domenico Tarantini e Luigi Sandirocco, che appartenevano
al secondo gruppo e sono stati anch’essi ai vertici del partito, Tarantini nei primi anni
‘60 e Sandirocco nella seconda metà degli anni ’70.
Le lotte del Fucino per la cacciata dei Torlonia, che erano divenuti i padroni assoluti
delle ricche terre emerse dopo il prosciugamento del lago sulla fine dell’Ottocento, e
per il passaggio di queste terre ai braccianti e ai contadini poveri, lotte che si conclusero
con l’approvazione, da parte del Parlamento, di una legge di riforma agraria che, pur
non essendo del tutto soddisfacente, avviò tuttavia processi produttivi e sociali nuovi
nelle campagne meridionali, proiettarono il partito marsicano sulla ribalta nazionale e
ne rafforzarono il ruolo che già svolgeva a livello regionale.
Siamo nei primi anni ’50, e in quelle lotte fecero le loro prime esperienze, oltre al
gruppo di giovani marsicani cui ho prima accennato, anche tanti altri giovani comunisti,
provenienti da altre zone dell’Abruzzo.
Quando arrivai ad Avezzano, il processo di marginalizzazione del partito marsicano
era già a buon punto, il partito anzi era in forte crisi: si era ristretto il gruppo dirigente,
il PCI perdeva iscritti e voti, non si avvertivano segni di ripresa né s’intravvedeva
all’orizzonte l’apparizione di forze nuove.
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In realtà, era anche per arginare un tale stato di cose, oltre che per far fare una esperienza
di una certa complessità e responsabilità a un quadro giovane, che ero stato spedito nella
Marsica, con il contemporaneo invio nella provincia di Chieti (a Vasto, per l’esattezza)
di Antonio Rosini, che aveva al suo attivo la partecipazione alle lotte del Fucino e
alcuni anni di direzione del movimento contadino marsicano ma del quale, tuttavia, non
si giudicava opportuna la utilizzazione direttamente in federazione perché non faceva
unità, come si diceva allora, e si preferì perciò che il suo passaggio dalle organizzazioni
di massa al lavoro di partito avvenisse fuori della Marsica.
I mesi passati nella Marsica non furono affatto facili.
Non tanto sul piano personale. Sotto questo profilo, anzi, debbo dire che mi trovai bene
e che fui ben accolto dai compagni i quali, pur non conoscendomi affatto, mi diedero
subito fiducia.
Ciò non significò naturalmente che, anche da questo punto di vista, qualche problema
non l’abbia avuto.
Intanto, ad esempio, mi riusciva solo raramente, nel fine settimana, di tornare a Chieti
dove mi aspettava la ragazza e, non avendo la patente (la presi solo nei primi mesi del
‘63, proprio ad Avezzano), dovevo utilizzare il treno o aspettare che si tenesse qualche
riunione del Comitato Regionale a Pescara per farlo; ad Avezzano poi non è che ci
fossero svaghi, per cui in genere la mia giornata si svolgeva tra il lavoro in federazione
e le riunioni nelle sezioni o i giri, la domenica mattina, nei comuni del Fucino per
distribuire le copie de l’Unità nel tentativo di rianimare l’impegno dei compagni, che
era venuto meno, nell’opera di diffusione del nostro giornale.
Solo qualche volta, la domenica, quando non potevo fare una scappata a Chieti, ho
avuto la possibilità di godermi un pomeriggio diverso, grazie a un gruppo di ragazzi
che, a distanza di qualche mese dal mio arrivo nella Marsica, avevano cominciato a
frequentare il partito, e ogni tanto, la domenica pomeriggio appunto, organizzavano
dei balli nel salone, abbastanza ampio, della federazione, ai quali partecipavo anch’io
(anche se, come sa bene Rosetta, sono stato sempre un pessimo ballerino).
Anche il clima in qualche modo rappresentava un problema: d’inverno nella Marsica fa
un freddo cane, d’estate invece c’è umidità e afa.
La piana del Fucino infatti, com’è noto, è circondata da ogni lato dalle montagne, i
Marsi montes sulle pendici dei quali il sacerdote-guerriero, il fortissimo Umbone,
alleato di Turno contro Enea, cercava le erbe che usava nella sua arte medica ma che
tuttavia non servirono a guarirne le ferite che lo portarono alla morte nello scontro con
i troiani, e così d’inverno la neve e, d’estate, l’assenza delle brezze refrigeranti delle
nostre parti non aiutano certo a mitigare il clima; incide negativamente in questo senso
anche la scomparsa del Fucino, il lago di cui Virgilio ricorda nell’Eneide la vitrea unda,
che, assieme al bosco sacro di Angizia, piange la morte di Umbone:
Te nemus Angitiae, vitrea te Fucinus unda,
te liquidi flevere lacus…
Per il resto, mi trovavo abbastanza bene. Abitavo, tra l’altro, in un ambiente amico,
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in casa di Romolo Liberale, un compagno che ha dato un notevole contributo alla
ricostruzione della storia delle lotte del Fucino e degli altri movimenti contadini che nel
tempo hanno agitato la vita dell’Abruzzo.
E poi c’erano ogni tanto gli incontri, la sera, a casa di Sandirocco, a cui di solito
partecipavano anche giovani compagni di Luco dei Marsi.
Durante quegli incontri si chiacchierava, si raccontavano barzellette e avventure di vario
genere, si ascoltava Gigetto che si esibiva alla chitarra e cantava, accompagnato a volte
anche dagli altri, una delle tante canzoni che facevano parte del suo vasto repertorio, o
si applaudiva Giannino che recitava le poesie del suo amatissimo Garcia Lorca oppure
si rideva alle battute a volte abbastanza estemporanee di Pupetta, la compagna di
Sandirocco.
Ho rivisto Pupetta appena qualche mese fa. Anche se un po’ acciaccata a causa degli
anni, è rimasta tuttavia una donna allegra, estroversa, sempre con quel suo carattere
forte e anche un po’ prepotente (ma di una prepotenza in fondo simpatica) e sempre
fornita di una parlantina assai sciolta e talora irrefrenabile, e credo che ancora oggi
rimangano apprezzabili le sue doti di padrona di casa e di cuoca quando sei suo ospite.
Sandirocco era allora il segretario della federazione, oltre che sindaco di Luco dei
Marsi; e aveva già alle spalle, nonostante la sua ancora giovane età, una vita abbastanza
avventurosa e ricca di esperienze davvero uniche.
Giovane ufficiale, egli fu tra le decine e decine di migliaia di soldati italiani travolti
dalla tragedia dell’Armir in Russia, con un numero enorme di poveri cristi reciso senza
pietà dalla guerra e dal gelo quando i sovietici sconfissero il nostro esercito che aveva
invaso il loro paese.
Ma, per sua fortuna, egli fu tra quelli che finirono prigionieri; e durante la prigionia ebbe
modo di frequentare uno dei corsi di formazione politica tenuti da Edoardo D’Onofrio
per i prigionieri italiani, aderendo così al PCI mentr’era ancora in Unione Sovietica, al
ritorno in Italia fu poi tra i giovani che diressero, in prima fila, le lotte del Fucino, come
dirigente sindacale.
Gigetto è sempre stato uomo colto, aperto, generoso e anche molto gioviale, un buon
compagnone insomma con cui si sta volentieri, al quale è sempre piaciuto conversare,
suonare la chitarra, cantare e raccontare barzellette che spesso avevano come protagonisti
personaggi incontrati nelle sezioni o durante le lotte del Fucino, così mi trovai subito
bene con lui, si portava dietro però già da allora un difetto dal quale non ha mai cercato
né voluto liberarsi, come potei constatare anche a distanza di molti anni quando tornai
a lavorare con lui, a Pescara, nella segreteria regionale: se poteva, scansava volentieri
gli impegni e te li ripassava, in particolare quando c’erano di mezzo problemi spinosi o
bisognava litigare con i compagni, gli piaceva insomma la vita tranquilla!
Comunque, non mi è mai sembrato il caso di lamentarmi per questo. E’ vero, ho dovuto
spesso sobbarcarmi una quantità di lavoro maggiore, quando ho lavorato con lui, ma ciò
mi ha consentito anche di maturare una esperienza più ampia e impegnativa e di avere
un ruolo più significativo nel partito.
Assai problematica (per usare un eufemismo) era invece la situazione organizzativa e
politica della federazione.
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In quegli anni, il PCI era ancora un partito isolato, l’isolamento per certi aspetti tendeva
anzi ad accentuarsi a seguito della scelta del PSI di cercare l’accordo con la DC per
l’avvio di quella che fu poi la politica di centro-sinistra, rompendo contemporaneamente
il patto di unità d’azione che lo legava al PCI.
Questo, naturalmente, si faceva sentire ancora di più in periferia e, soprattutto, in una
realtà come quella della Marsica dove il partito era in ritirata dopo le grandi lotte degli
anni ’50.
Avevamo diverse amministrazioni comunali: se il mio ricordo è esatto, amministravamo
allora nella Marsica Luco dei Marsi, Cerchio, S. Benedetto, Lecce dei Marsi e Celano.
Ma non è che a questa presenza amministrativa corrispondesse la presenza di un partito
forte e attivo (salvo che a Luco); in generale, poi, le sezioni erano vuote, si teneva una
sola festa de l’Unità, quella di Luco, la iniziativa politica delle sezioni era pressoché
inesistente e, fuori del Fucino, la presenza organizzata del partito si limitava solo a
qualche comune.
In questa situazione, resa più grave anche dal disordine organizzativo che regnava in
federazione e da un rapporto non buono del gruppo dirigente con le sezioni, bisognava
reinventare tutto: una linea politica e programmatica in grado di cogliere le modificazioni
che si stavano producendo anche nella Marsica come nel resto del Mezzogiorno (ad
esempio, l’avvio della politica dei poli industriali spostava il discorso sui problemi dello
sviluppo e delle nuove figure sociali che cominciavano ad emergere, con la nascita di
nuova classe operaia e il formarsi di ceti tecnici e professionali nuovi), nello stesso tempo
si faceva sempre più pressante la necessità di una più puntuale politica organizzativa
in grado di recuperare iscritti, rilanciare un minimo di capacità di iniziativa politica del
partito sul territorio, conquistare forze nuove, forze giovani.
Fu insomma una vera fatica.
Ricordo, ad esempio, che, per spingere le sezioni a stare seriamente dietro al tesseramento,
mi toccò parecchie volte di andare personalmente in alcuni comuni del Fucino, non per
fare la solita riunione, ma per girare, assieme a qualche compagno volenteroso, casa per
casa, nel tentativo di recuperare iscritti o fare nuove tessere.
In genere questo richiedeva molto tempo e lunghe e defatiganti discussioni con i
compagni che avevano sempre mille lamentele da fare nei confronti della federazione o,
più in generale, sulla politica del partito, ma assai spesso accadeva che tutto si esaurisse
in chiacchiere!
Pochi giorni fa Giannino Venditti, che era con me in quella occasione, mi ha ricordato un
episodio che dà bene il senso e la misura delle difficoltà con le quali ci scontravamo.
Quel giorno avevamo scelto Trasacco come meta delle nostre fatiche.
A Trasacco, la sezione ormai non c’era più: né fisicamente né organizzativamente,
avevamo solo un piccolo numero di iscritti la cui presenza però in paese si avvertiva
poco o nulla; e l’unico modo per tentare di riprendere un cammino era appunto quello
di rimettere in piedi un rapporto con i tanti compagni che nel frattempo si erano tirati
fuori dell’impegno politico organizzato.
Ricordo che quel giorno anche il tempo non fu benevolo con noi: eravamo in pieno
inverno e faceva un freddo cane, inoltre durante il giro nelle case dei compagni cominciò
anche a nevicare, insomma un tempo quasi da lupi...!
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Ciononostante, facemmo il nostro giro. Ci ritrovammo così a un certo punto nella casa
di un bracciante, ancora giovane, che aveva partecipato alle lotte del Fucino ma che, se
non ricordo male, era stato a suo tempo tra gli esclusi dall’assegnazione della terra, e
neanche lui aveva rinnovato la tessera.
Io cominciai subito a spiegargli le ragioni che ci avevano portato a casa sua, ma lui
opponeva con pertinacia alle mie argomentazioni un discorso nel quale si mescolavano
sfiducia e settarismo.
La cosa andò avanti così per un po’ di tempo, a un certo punto però Giannino, non solo
perché preoccupato della neve che intanto continuava a fioccare in abbondanza, lui
doveva tornare a Luco e io ad Avezzano, si spazientì e mi disse, piuttosto bruscamente,
di lasciar perdere, io tuttavia non mollai e continuai imperterrito nella mia opera di
convinzione, ma la mia pazienza purtroppo produsse solo un bel niente...!
Da questo punto di vista, neanche quello che accadeva a livello nazionale ci aiutò molto,
nel senso che gli effetti positivi di certi processi politici che pure si stavano mettendo in
moto sul piano nazionale non fecero tuttavia sentire da subito i loro effetti in periferia,
quantomeno nella Marsica.
Sul piano nazionale, infatti, Togliatti, di fronte all’avanzare della prospettiva del centrosinistra che sostituiva il vecchio centrismo ormai morto e sepolto, ebbe la capacità di
manovrare in modo tale che alla fine non solo la rottura che si era prodotta con il PSI non
provocò danni né all’unità della CGIL né al mantenimento delle giunte di sinistra negli
enti locali, ma alle elezioni politiche del ‘63 il PCI riuscì anche a segnare parecchi punti
a suo favore a spese del PSI e soprattutto della DC, in questo modo veniva spezzato
l’assedio da cui i comunisti erano stretti e tutta la situazione politica italiana cominciò
a rimettersi in movimento.
Nella Marsica, tuttavia, nonostante gli sforzi e qualche risultato positivo (anche nelle
elezioni politiche del 1963), continuammo invece ad andare avanti con fatica, quello che
mancò da parte nostra fu forse la capacità di individuare con la rapidità e la chiarezza
necessarie le nuove figure sociali da mettere al centro di una battaglia di recupero del
ruolo della Marsica nella vita regionale e per il suo sviluppo.
La mia esperienza marsicana si concluse tra l’agosto e il settembre del 1963. E ricordo
che il mio ultimo comizio nella Marsica lo tenni il 15 agosto, alla festa de l’Unità di
Carsoli (si cominciavano a fare feste de l’Unità anche in altri comuni, oltre che a Luco),
ricordo anche che in quel comizio feci un lungo passaggio sulla figura di Giovanni
XXIII, che era morto da poco più di un mese e mezzo, e su ciò che significavano per la
prospettiva anche politica dell’Italia e del mondo le grandi innovazioni da lui volute con
il Concilio Vaticano II e, in particolare, con l’affermazione, contenuta nella enciclica
Pacem in terris, secondo cui bisogna sempre distinguere tra l’errore e l’errante, questo
poteva significare una cosa sola e cioè che la politica della scomunica voluta da Pio XII
nei confronti dei socialisti e dei comunisti era stata finalmente riposta in archivio e si
apriva ora la possibilità del dialogo tra comunisti e mondo cattolico.
La notizia del mio ritorno a Chieti mi raggiunse all’improvviso e all’ultimo momento,
quando ormai mi ero già rassegnato a rimanere nella Marsica, una prospettiva che
sinceramente non mi allettava affatto.
123
Anche se a Chieti la discussione sul cambio del segretario di federazione, con il
trasferimento di Ottaviano a Roma, si era aperta già da prima delle elezioni politiche
del 1963, evidentemente solo nelle battute finali di questa discussione il mio nome era
stato inserito nel possibile nuovo assetto del gruppo dirigente provinciale, altrimenti ne
avrei saputo qualcosa già prima.
Le cose, insomma, mutarono all’improvviso; e debbo dire che accolsi davvero con molto
sollievo e grande contentezza la comunicazione che mi arrivò non ricordo più se da
Brini, diventato nel frattempo, dopo la morte di Tarantini (che aveva voluto il mio invio
nella Marsica), il nuovo segretario regionale del PCI, o da Tom Di Paolantonio, che
all’epoca aveva un ruolo importante nella vita del PCI abruzzese, e che mi annunciava
la fine della mia avventura marsicana e il mio nuovo impegno di organizzatore nella
federazione di Chieti, con Giuseppe D’Alonzo segretario.
Del ritorno a Chieti fui particolarmente felice anche per un’altra ragione. Questo
mutamento di prospettive avveniva alla vigilia del mio matrimonio fissato già per il 22
settembre di quell’anno: avrei aperto insomma casa a Chieti e non più ad Avezzano, e
poco m’importò di dover disdire in tutta fretta la bella casetta che qualche mese prima
avevamo affittato in città per farne il nostro nido dopo le nozze.
Contenta quanto me e forse più di me, è ovvio, fu Rosetta che, nell’estate del 1961, era
diventata la mia ragazza.
E adesso, mie care nipotine, non ve ne abbiate a male se vi faccio dono di alcune nuove,
belle citazioni.
Si tratta, questa volta, di frammenti di due distinti canti flamenchi che mi sembra rendano
bene la fatica che mi è costata convincere la vostra futura nonna a scegliermi come la
sua metà, e che ho trovato nel bel film del regista spagnolo Carlos Saura, dedicato
appunto al flamenco, canto e ballo, e alla grande varietà delle sue forme.
Il flamenco, che forse, quando leggerete questo lungo e spero non noioso racconto del
nonno, avrete già imparato a conoscere, è un canto tipicamente spagnolo che nasce da
un incontro fortunato tra culture musicali assai diverse tra loro, in un mondo -quello
dell’Andalusia- dove gli spagnoli hanno convissuto per secoli con arabi, ebrei sefarditi
e africani, gitani; e il risultato è stato appunto il flamenco, un canto appassionato,
ardente, dai toni a volte fortemente drammatici a volte invece teneri e delicati o anche
sbarazzini e pieni d’ironia, che vede protagonisti né poeti né musicisti ufficiali ma gente
del popolo, gitani in particolare, al quale si accompagna di solito il ballo tutto ritmo,
spesso indiavolato, e passione e nel quale è importante anche il gesto del braccio e della
mano come nella tradizione della danza indiana.
Nel viaggio che abbiamo fatto in Spagna io e la nonna, nella tarda primavera dell’ormai
lontano 1995, abbiamo avuto modo di assistere a due spettacoli di flamenco, uno in
teatro l’altro in un affumicato locale gitano di Sacramon a Granada.
Tra i due spettacoli non c’è davvero paragone, certamente bello ma paludato, senza
passione quello in teatro, pieno di fuoco, invece, di ritmi scatenati, di colori, di allegria
e sensualità quello del quartiere gitano, con le donne fasciate da vestiti assai sgargianti
e vistosi e gli uomini con abiti sempre molto attillati.
Ma avanti con le citazioni.
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Lui dice a lei:
La mia vita è mia,
la tua vita è tua.
Perché non le uniamo
per farne una sola?
E lei risponde, con le parole del papavero di campo (amapola, sostantivo femminile in
spagnolo) al frumento (trigo, sostantivo maschile):
Il papavero del campo disse al frumento
non mi sposerò con nessuno
ma con te non lo so.
Con te non lo so, bambino,
con te non lo so
disse il papavero del campo al frumento.
Questa tiritera con la nonna durò diversi mesi, nonostante la mia corte assidua e
pressante. Finalmente arrivò la resa: accadde nei giorni di mezzo agosto, alla festa
dell’Unità di Comino.
Quella sera ballammo io e lei, nonostante le mie scarse doti di ballerino, senza fermarci
un momento, fino alla fine della serata. Ci ritrovammo, poi, il giorno dopo, a Piana delle
Mele, sulla Maiella, dove passammo la giornata assieme alla sua famiglia, per recarci di
nuovo, verso l’imbrunire, a Comino, per la serata conclusiva della festa de l’Unità.
E così da quel momento, voglio dirlo con i versi di una bellissima canzone popolare
toscana, forse di origine rinascimentale, cantata da Caterina Bueno,
cinquecento catenelle d’oro
hanno legato lo tuo cuore al mio,
e l’hanno fatto tanto stretto il nodo
che non si scioglierà né te né io,
e l’hanno fatto un nodo tanto forte
che non si scioglierà fino alla morte.
Il nostro fidanzamento durò all’incirca due anni; e fu segnato da frequenti e, in occasione
del mio soggiorno ad Avezzano, anche piuttosto prolungate separazioni.
Qualche giorno fa sono andato a ficcare le mani tra le lettere che ci siamo scambiati in
quel periodo.
Sono intanto tantissime. Allora non c’erano né sms né e-mail e il telefono fisso in casa
era ancora una rarità; e quasi tutte, quelle di Rosetta, partono da Chieti e vanno verso
Vasto o Avezzano, sono state spedite insomma nel periodo delle mie permanenze a
Vasto, durante le lotte per il metano, e poi del mio soggiorno nella Marsica, le mie
invece partono sempre da Vasto o da Avezzano e si dirigono a Chieti.
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Ce ne sono anche alcune che Rosetta mi spedisce da varie località fuori dell’Abruzzo
dove si svolgevano iniziative di partito alle quali essa partecipava e dalle quali mi
inviava cartoline o lettere, mentre tra le mie ce n’è qualcuna, in partenza da Avezzano,
indirizzata a Vasto dove lei si era recata per alcuni giorni (doveva essere la fine del
1962) per dare una mano nel tesseramento sia in città che in alcuni comuni del Vastese,
ospite della famiglia Di Bussolo.
Ne ho rilette anche alcune.
Al di là della ridondanza tipica di lettere tra fidanzati, in esse ho ritrovato soprattutto
la conferma di una mia vecchia convinzione, e cioè che la lontananza, in definitiva,
ha contribuito a rafforzare e consolidare il nostro legame, una lontananza nutrita
naturalmente anche dei giorni nei quali ci siamo ritrovati assieme.
Anche da sposati ci siamo trovati spesso nella stessa condizione e gli effetti non sono
stati diversi.
Il mio lavoro mi ha portato spesso a girare per l’Italia (e anche fuori d’Italia) e, per
lunghi periodi, a muovermi tra Pescara, Campobasso e Roma, e da ciò credo che ne
abbiamo guadagnato qualcosa. La lontananza, come sanno bene i poeti, accresce il
desiderio e lo sottrae alla patina opaca della quotidianità.
In ogni modo, nei mesi del nostro fidanzamento, il ritrovarci assieme, a volte ogni fine
settimana a volte invece ogni quindici giorni, è stato sempre per noi come una festa e
comunque l’occasione di un rapporto sempre più intenso.
Anzi, quando la difficoltà di vederci è stata maggiore, la felicità dell’incontro è stata
forse ancora più grande. Parlo soprattutto del periodo in cui ero ad Avezzano, quando
né il lavoro né i soldi mi consentivano di tornare facilmente a Chieti.
Quando potevo farlo, ero infatti costretto, come ho già ricordato, a spostarmi col treno;
quando poi ho preso la patente, a quel punto avevo certo la possibilità di usare l’auto
della federazione (che però non era sempre a mia disposizione), ma per la macchina ci
volevano ancora più soldi che per il treno e io non ne avevo davvero molti, questa storia
della mancanza di soldi ho visto, anzi, che veniva spesso evocata nelle mie lettere da
fidanzato!
Tra le tante cose che ricordo di quel periodo nella Marsica vi sono anche alcune
disavventure legate a imprevisti del mio lavoro, in particolare ne ricordo una.
Era il carnevale del 1963, io e Rosetta ci eravamo dati per telefono appuntamento, a
casa sua, per il tardo pomeriggio, l’ora giusta per andare poi a ballare, la sera, nel centro
sociale nato a poca distanza dalla sua nuova abitazione di Chieti Scalo; lei naturalmente
si era anche preparata a tempo in modo da essere pronta a uscire appena io fossi
arrivato, ma la sua attesa fu vana, io mi presentai infatti (non per colpa mia, ma per un
contrattempo di partito che non avevo potuto evitare e senza che di questo la potessi
avvertire) quand’era quasi mezzanotte e quando ormai la festa e il ballo volgevano alla
fine, lei ovviamente ci rimase molto male ma io, debbo dire, ci rimasi ancora più male
di lei!
Ma ricordo anche tutti i bei momenti che abbiamo vissuto assieme, ogni volta che
tornavo da Avezzano; e anche di tutte le altre volte in cui abbiamo potuto stare insieme,
dopo periodi più o meno lunghi di separazione.
Ricordo soprattutto i balli che spesso si organizzavano o a casa di Rosetta o presso
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le abitazioni di sue amiche (all’epoca si ballava nelle case, le discoteche e i locali da
ballo non c’erano ancora), alcune volte invece ci ritrovavamo al ballo che concludeva
la festa di matrimonio di questo o quel conoscente e al quale eravamo invitati: ebbene,
nonostante la mia goffaggine, non ci perdevamo mai un ballo pur rischiando Rosetta
continuamente che le pestassi i piedi.
Ricordo anche che, tra le canzoni che accompagnavano i nostri balli, ce n’era una che
ci piaceva particolarmente.
Parlo de La paloma, una delle tante palome che andavano di moda in quegli anni, con
parole e musica riadattate ai nuovi gusti, ma tutte germogliate da La paloma scritta a
Cuba, in tempo di habanera, a metà dell’Ottocento, dal basco Sebastián Iradier, essa
era anzi diventata un po’ come la nostra canzone, la colonna sonora del nostro fidanzamento e quando, nel ballo, ci abbandonavamo al suo ritmo, ricordo che ci sembrava di
sentirci come avvolti da una atmosfera magica.
La canzone aveva un tono piuttosto dolciastro, come ce n’erano tante in quegli anni, a
noi tuttavia essa era comunque molto cara forse perché, con il suo ritmo lento, la sua
melodia morbida e piena di malinconia, ci invitava a vagare nei cieli della fantasia e a
farci cullare dall’onda dei sentimenti.
O forse ci piaceva perché il tema della canzone, la lontananza, lo vivevamo come un
tema nostro. Del resto, l’ho già sottolineato più di una volta, il tema della lontananza,
così ampiamente presente nella poesia, si è rivelato sempre capace di grande forza
evocativa, cito per tutti Jaufre Rudel:
Amors de terra lonhdana,
por vos totz lo cors mi dol!
no.n puesc trobar meizina
si non vau al sieu reclam…
L’anno scorso, il 21 settembre del 2003 (e cioè il giorno prima della ricorrenza), abbiamo
festeggiato i quarant’anni di matrimonio. Siamo stati al Tiglio, un ristorante di Rapino,
un paesino alle pendici della Maiella, molto affollato (era di domenica), dove abbiamo
mangiato bene e a prezzi non esosi.
Con noi c’erano mia suocera, Massimiliano, Luisa, Valentina e Benedetta, avremmo
voluto che ci fossero anche Stefano, Teresa ed Elisa (Martina non era ancora nata), ma
la distanza è la distanza, c’è poco da fare.
La giornata era bellissima, così ne abbiamo approfittato per fare una capatina, prima di
pranzo, a Bocca di Valle.
Bocca di Valle, che dista appena qualche chilometro da Guardiagrele, è il punto di
arrivo di una stretta valle che scende dalla Maiella, solcata per tutta la sua lunghezza da
un torrentello che, quando erano piccoli i miei figli, portava ancora parecchia acqua, di
una limpidezza incredibile e anche molto fredda, e oggi invece non ne porta quasi più. E
a congiungere i due lati della valle vi è il ponte che sta come sospeso su uno sprofondo
davvero impressionante, dove si scorge il letto del torrente ricoperto appena da un filo
d’acqua, e a guardare giù vengono quasi le vertigini: un posto, insomma, bellissimo e
molto frequentato d’estate, soprattutto dai turisti della domenica.
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Un posto comunque che conosciamo molto bene, sia io che Rosetta e i miei figli, perché
proprio lì, nei primi anni ’70, tra la primavera e l’estate, portavamo spesso Massimiliano
e Stefano a passare la domenica o altri giorni festivi.
Avevamo scovato, a poche centinaia di metri dall’imbocco della valle, una specie di
piazzaletto, sulla destra per chi sale, che si poteva raggiungere superando il torrente
attraverso un ponticello di legno; e lì i bambini potevano respirare aria buona e
giocare liberamente per tutta la giornata: facevamo una sola, breve sosta, verso l’una,
per consumare il pranzo abbondante portato direttamente da casa, sdraiati all’ombra
riposante del gruppo di alberi che iniziavano in quel punto il folto bosco che risaliva poi
tutta la costa della montagna.
Portammo naturalmente Valentina e Benedetta a giocare anche loro, quel giorno, nel
piazzaletto; e anch’esse si sono divertite un mondo, anche se oggi lo spazio a disposizione
dei bambini si è ridotto parecchio e, per giunta, non è neanche granché praticabile, gli
arbusti del sottobosco stanno ormai avendo il sopravvento nella piccola radura.
Quando siamo scesi a Rapino, era ancora abbastanza presto per andare a pranzo, così
abbiamo avuto il tempo di fare un giro per il paese e di ammirare alcune mostre di
ceramica locale (a Rapino c’è una lunga tradizione di produzione della ceramica, ma
essa si è andata un po’ perdendo nel tempo), mentre Valentina e Benedetta erano molto
impegnate a correre per i vicoli che stavamo percorrendo e a giocare nello slargo di
passaggio nel quale si trova il ristorante, dove ti inondano di fresco con la loro vasta
ombra gli alberi di tiglio che delimitano il minuscolo parco dedicato ai caduti in guerra
originari del paesino e danno il nome al locale.
Quarant’anni, dunque, dal giorno del nostro matrimonio, durante i quali a giorni lieti
e luminosi si sono alternati giorni difficili e comunque piuttosto opachi; e abbiamo
percorso il nostro cammino ora con pioggia, vento e freddo ora con l’azzurro del cielo
sopra le nostre teste e in mezzo ai colori, ai suoni e ai profumi delle belle giornate: come
accade, del resto, nella vita di tutti!
Ma un cammino così lungo e a volte anche accidentato, mie care nipotine, non ha
imbalsamato ancora la nostra vita, svuotandola di ogni sentimento e di ogni interesse,
né ci ha fiaccati o trasformati in piccole bellezze morte raccolte nel museo dei ricordi e
della nostalgia, anche se i ricordi sono sempre un dono della vita.
La vita è ancora tutta davanti a noi, con le sue incertezze, i brutti colpi che magari
ti arrivano all’improvviso ma sempre pronti a fronteggiarli; e però anche con le sue
bellezze, sia pure diverse da quelle di una volta!
C’è, nel film di Carlos Saura, un altro canto flamenco che mi ha particolarmente
affascinato, non solo per la sua melodia ma soprattutto per la storia, assai triste e un po’,
come dire, venata di rassegnazione, che esso racconta.
E’ la storia di una farfalla, la mariposa blanca,
che era la regina
di tutte le farfalle dell’alba
e che
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si posava nei giardini
sui fiori più belli
e sussurrava storie
al garofano e alla violetta.
La mariposita era felice e,
superba e civetta,
sembrava il fiore d’un mandorlo
cullato dalle fresche brezze.
Ma un giorno accadde una cosa terribile:
arrivò un collezionista,
una mattina di primavera,
e sopra ad un gelsomino in fiore
imprigionò la nostra regina.
E la fissò con spilli
a cartoncini neri
e la portò al suo museo
di piccole bellezze morte,
mentre
le farfalle dell’alba
piangevano nella foresta.
Noi, per fortuna, non abbiamo ancora incontrato il nostro collezionista, il tempo che
è il nostro collezionista deve ancora pazientare; e non ci siamo fatti perciò ancora
imprigionare e fissare, come la povera mariposita blanca, con spilli su cartoncini neri!
Da sempre ormai, sono alle viste di chi viene a casa nostra due belle fotografie in bianco
e nero, una nel corridoio di casa e l’altra nella cameretta che è stata la stanza dei figli
quando vivevano ancora con noi ed oggi è diventata la stanza dove Rosetta vede di
solito la televisione e le mie nipoti giocano quando stanno dai nonni, ma che, quando
occorre, si trasforma anche in stanza degli ospiti.
Si tratta di due foto del bellissimo album, tutto in bianco e nero, che conserviamo del
nostro matrimonio, e sono state scattate subito dopo la fine della cerimonia, io ho ancora
parecchi capelli, che sono ancora neri, e sono tutto assorto nel mio nuovo ruolo di
marito innamorato, sono magro e non c’è traccia ancora di pancetta, Rosetta invece ha
un viso allegro, sorridente, con sopracciglia e capelli folti e neri che sono rimasti tali
ancora oggi, ed indossa il suo abito da sposa, abito lungo e rigorosamente bianco, con
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coroncina di stoffa sulla testa dalla quale parte il velo a strascico che si trascina dietro
con l’aiuto di una o due damigelle, adesso non ricordo bene.
Rosetta è sempre stata innamorata del suo abito bianco da sposa e ad esso non ha
mai rinunciato, anche dopo che pure lei ha accettato di sposarsi non in chiesa ma in
municipio.
Stava bene comunque così vestita, pur in uno scenario che era quello, assai modesto,
della sala del Consiglio comunale di Tollo.
Ci siamo sposati infatti a Tollo, la mattina del 22 settembre del 1963, Rosetta aveva
poco più di ventiquattro anni mentre io ne avevo già quasi ventinove.
Quel giorno, nella piazza davanti al municipio c’era, quando siamo arrivati con la
nostra auto da cerimonia (la guidava Licio Bevilacqua, e non ricordo più chi ce l’aveva
prestata) e le altre auto dei parenti, una grande folla di curiosi, forse perché era una
bella giornata di sole ma forse anche perché era la prima volta che a Tollo si celebrava
un matrimonio civile; e a unirci in matrimonio fu Guido Di Mauro, allora sindaco del
Comune e deputato appena da qualche mese, testimoni furono invece Gigetto Sandirocco
e Mirka Liberale (la Marsica era ancora presente nella nostra vita).
Ci siamo sposati, dunque, con rito civile.
All’epoca erano davvero rari i matrimoni civili, e chi lo sceglieva era destinato
inevitabilmente a incorrere negli strali delle malelingue del vicinato che, per esempio,
come nel nostro caso, avevano annunciato ai miei futuri suoceri che il matrimonio
non avrebbe avuto alcun valore e che comunque potevo lasciare mia moglie quando
volevo!
Ci fu perfino, tra i parenti dalla parte di mio padre, chi prese a pretesto questo fatto
per non partecipare al matrimonio, mentre i miei aspettavano in mezzo alla strada
con l’auto presa a noleggio per imbarcarli e portarli a Tollo: un modo, insomma, per
risparmiarsi il regalo (anche se, in quegli anni, i regali non erano granché, ricordo che
noi collezionammo una lunga serie di servizi di bicchieri che un bel giorno, alcuni anni
dopo, abitavamo a Vasto, andarono in frantumi quando il bar incassato nella libreria un
po’ sgangherata che avevo allora si staccò e finì rovinosamente a terra!).
La decisione di sposarci in municipio fu in realtà solo mia: ma dopo un lungo braccio
di ferro anche Rosetta si fece convincere, a condizione però che potesse indossare
ugualmente l’abito lungo da sposa che piaceva a lei.
Non fecero invece molte storie i suoi genitori, anche se soprattutto mia suocera,
sottoposta di continuo a critiche e pressioni da parte di alcune vicine di casa, avrebbe
preferito anche lei la chiesa.
Non se la presero neppure i suoi parenti di Sora, che pure erano molto religiosi e
praticanti, essi anzi rimasero assai contenti della cerimonia: Di Mauro aveva fatto
sistemare la sala del Consiglio, abbastanza capiente, con molti fiori e fatto preparare un
bel rinfresco per gli invitati.
Qualche problema ci fu, al contrario, con mio padre.
Ho ancora davanti agli occhi la scena di quel pomeriggio a Orsogna, nella masseria di
Colle S. Giacomo: siamo seduti fuori sull’aia, all’ombra del gelso, la giornata infatti era
calda, e stiamo discutendo della data del matrimonio, dei preparativi, ecc.
Quando però annunciai ai miei che non ci saremmo sposati in chiesa, mio padre reagì
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piuttosto male e mi disse: Allora io non vengo, e io subito di rimando: A me, non me ne
importa niente (a quel punto mi arrivò, sotto il tavolo, un calcio agli stinchi da parte di
Rosetta per richiamarmi alla calma, debbo dire che è un’abitudine che non ha affatto
perso con gli anni).
Non è che mio padre fosse religioso, anzi, lui in chiesa ci entrava solo raramente, al
massimo a Natale e Pasqua, la stessa cosa mia madre, probabilmente quello che lo
preoccupava è di come avrebbe reagito la gente del paese, la discussione comunque fu
breve e il problema si risolse rapidamente.
Nel 1963, una festa di matrimonio non si poteva che organizzarla in casa.
In giro non c’erano i tanti e ben attrezzati ristoranti di oggi, c’erano solo trattorie,
piuttosto anguste per giunta, ma soprattutto non c’era ancora la mentalità, e poi,
diciamola chiaramente, la gente non se lo sarebbe neppure potuto permettere.
Anche il nostro pranzo di nozze si tenne così in casa, in quella di mia suocera. La casa,
naturalmente, era stata svuotata di tutto, sistemando la mobilia negli appartamenti degli
altri assegnatari della nuova palazzina di proprietà dell’Istituto Case Popolari, a Chieti
Scalo, nella quale la famiglia di Rosetta si era trasferita da poco più di un anno.
Bisognava provvedere ovviamente anche alle cibarie, ma a questo pensò mio suocero,
che, per molte settimane, si fece pagare in natura dai contadini di Casalincontrada dove,
da ambulante di casalinghi, si recava la domenica a vendere alle massaie utensili per
la casa.
Quando, dopo la cerimonia, tornammo a Chieti per il pranzo, trovammo mia suocera
che ci aspettava all’ingresso della palazzina, essa infatti non si era mossa di casa proprio
per farci trovare tutto pronto al nostro ritorno.
Al pranzo parteciparono all’incirca una settantina di persone, piuttosto stipate nelle
poche stanze disponibili, quasi tutti parenti, e a cucinare e servire in tavola provvidero
le donne del palazzo che si erano prodigate durante tutta la settimana per dare una mano
alla buona riuscita dell’evento: all’epoca, la solidarietà -come i pettegolezzi tra vicini,
naturalmente- esisteva davvero!
La sera, dopo il pranzo che fu abbastanza lungo, ci fu anche il ballo, al quale erano stati
invitati anche i compagni della federazione e alcuni amici, ma noi non ci fermammo a
lungo: partimmo invece per Pescara appena dopo che buona parte dei parenti era andata
via, anche perché eravamo parecchio stanchi, e lì alloggiammo la notte, in un albergo
che si trovava proprio di fronte alla vecchia stazione centrale da dove, il giorno dopo,
iniziammo il nostro viaggio di nozze.
In quegli anni, se ben ricordo, in Italia era ancora molto popolare il film Poveri ma belli,
della metà degli anni ‘50: noi ovviamente, anche se soltanto poveri e non belli (almeno
io!), facevamo parte della categoria.
Tuttavia, potemmo fare anche noi il nostro viaggio di nozze, un viaggio di nozze tutto
in treno, reso possibile dal regalo che ci fece la federazione in occasione del nostro
matrimonio: ci erano stati regalati due biglietti parlamentari che ci permisero di arrivare
addirittura fino a Trieste, passando per Firenze e Venezia, e, al ritorno, per Padova e
Bologna.
Fu un viaggio di nozze che ricordo con grande piacere, anche se esso si rivelò, strada
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facendo, un po’ avventuroso dal punto di vista finanziario e, per me, anche piuttosto
faticoso dovendo, a ogni scalo, caricarmi i due pesanti valigioni preparati da mia moglie
(anche oggi non ha perso il vizio, si porta sempre dietro cose che poi non indosserà mai,
ma per fortuna adesso si va in automobile...)!
La prima tappa fu Firenze, dove arrivammo attorno alla mezzanotte.
Eravamo davvero spossati e cascavamo dal sonno. Sia per il viaggio interminabile
(eravamo partiti nella tarda mattinata da Pescara, passando per Roma) sia per lo stress
dei giorni precedenti, e questo ci fu fatale, assieme al fatto che il nostro giro di nozze non
era affatto organizzato: così, appena un taxista di una certa età -che aveva evidentemente
l’occhio clinico per riconoscere a prima vista sposini inesperti come eravamo noi- si
offrì di accompagnarci in una pensione non lontana dalla stazione, noi gli dicemmo
subito di sì, senza informarci né del prezzo né di altro.
La pensione era accogliente, si trovava proprio nei pressi di Piazza della Signoria, e la
signora che la gestiva, assieme alla figlia poco più che adolescente, si dimostrò subito
carina con noi e premurosa nei confronti di ogni nostro desiderio.
Ricordo, ad esempio, che mia moglie, un pomeriggio, fu presa, poco prima che uscissimo
per fare un giro nel centro storico di Firenze, da forti conati di vomito. La signora fu
tutta gentile, ci fece, anzi, anche gli auguri per l’evidente annuncio di gravidanza e
preparò subito un tè per Rosetta che ci ritrovammo però, allo scadere dei tre giorni della
nostra permanenza a Firenze, sul conto a nostro carico, assieme alla docce fatte e ad
altre cose che mai avremmo pensato di dover pagare, ma tant’è, così stavano le cose e
non ci fu altro da fare che pagare la grossa somma che ci venne richiesta.
Per noi, che non avevamo certo molti soldi a disposizione, fu un colpo; e nei giorni
successivi, sia a Venezia che a Trieste come anche, sulla strada del ritorno, a Padova e a
Bologna, cercammo di rimettere in equilibrio le nostre finanze contentandoci del panino
per il pranzo e andando in trattorie a poco prezzo la sera.
Ma non fu sufficiente, tanto che, quando -alla fine del nostro viaggio- arrivammo ad
Avezzano per recarci poi da lì a Sora, dove avremmo trascorso, presso gli zii di Rosetta,
zì Peppino e zì Antonietta, gente simpatica e che amava la buona tavola, gli ultimi giorni
della nostra vacanza nuziale, fummo costretti a passare da Mirka, ad Avezzano, che ci
diede qualche lira: insomma, eravamo rimasti proprio a secco.
Nonostante queste disavventure, il nostro giro di nozze fu comunque bellissimo. Tra
l’altro, era la prima volta che ci capitava di visitare città di così rara bellezza e gustare
paesaggi nuovi e di grande fascino, assistiti anche, per nostra fortuna, da un tempo
splendido durante tutto il viaggio; e di esso ricordo ancora oggi tante cose, anche se
sono soprattutto i giorni passati a Trieste che mi sono rimasti nel cuore.
A Trieste, e al suo bianco panorama, come lo definisce Umberto Saba, avevamo pensato
di tornare in occasione del nostro quarantesimo anniversario di matrimonio, ma per
una serie di circostanze anche questa volta (era già accaduto altre volte, negli anni
precedenti) il viaggio è saltato, prima o poi però ci torneremo...
In quei giorni, a Trieste la stagione era mite e le giornate si presentavano con la morbida
e chiara luminosità del cielo di settembre, che invitava ad andare in giro a conoscere le
bellezze della città e a godersi le sue strade, i suoi palazzi, le sue chiese; ed ho ancora
negli occhi la splendida e immensa Piazza Unità d’Italia, che è come un grande balcone
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sul mare, e poi S. Giusto, il Castello, Miramare: quest’ultimo si staglia solitario sulla
costa, proprio a ridosso del mare, con le sue bianche torri / attediate per lo ciel piovorno
(ma quel giorno il cielo era limpido), come canta Carducci nella bella ode barbara
Miramar, sulle quali vaga ancora oggi l’ombra tragica di Massimiliano d’Austria.
Dopo il nostro ritorno dal viaggio di nozze, tornammo ovviamente -sia io che mia
moglie- al nostro consueto lavoro, anche se in realtà, con il matrimonio, iniziava per
me come per lei una nuova vita, ma di questo, care nipoti, parleremo nel prossimo
capitolo.
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Capitolo VII
E così, finalmente, eccomi di nuovo dinnanzi al computer, alla pagina bianca del
computer, pronto a riprendere il mio racconto.
Nelle settimane scorse, coinvolto anch’io dai mille contorcimenti e giravolte che hanno
sfiancato i partiti del centrosinistra nella scelta dei candidati a sindaco e a presidente
della Regione in vista delle prossime elezioni regionali e per il rinnovo del Consiglio
comunale di Chieti, me ne sono tenuto piuttosto discosto.
Ma ora, l’ora del tempo e la dolce stagione...
Dolce stagione, per modo di dire. Stanotte, non ha smesso un minuto di nevicare.
D’altra parte, siamo alla fine di gennaio di questo 2005 appena iniziato; e quest’anno, al
contrario di quel che è accaduto negli anni scorsi, l’inverno ha deciso di fare l’inverno
anche a quote basse e sembra promettere di durare a lungo.
A me l’inverno non piace, sono un appassionato delle stagioni di mezzo: la primavera
e l’autunno, anche se la loro durata e consistenza si sono fatte ormai sempre più
impalpabili, inafferrabili.
Non mi piace soprattutto il freddo, e in questi giorni il freddo è veramente intenso e le
previsioni non sono rassicuranti. Da noi, quando uno soffre il freddo, si dice: sembre na
ciammajica nude! E’ così, sembro proprio una lumaca nuda e non ci posso fare niente.
Tuttavia, nonostante questa mia idiosincrasia per l’inverno, mi è sempre piaciuto lo
spettacolo della campagna innevata, dei tetti delle case con le tegole rosse o marrone scuro
spruzzate di chiazze diffuse di bianco, delle strade e dei vicoli senza più margini.
Più o meno, insomma, lo spettacolo che ho potuto ammirare questa mattina quando
mi sono alzato dal letto, a ora molto tarda debbo dire: le colline di fronte, che sono il
panorama consueto che mi godo ogni giorno dalla mia veranda o dalla finestra dello
studio, tutte coperte di un grande manto bianco rotto qua e là da macchie più scure di
filari di piante; e, tra le palazzine del quartiere, gli alberi che le circondano con i rami
carichi di neve, parecchi di essi sono spezzati e in qualche caso sono finiti in mezzo alla
strada sotto il peso della neve e l’urto del vento di questa notte.
Naturalmente, della neve che finalmente è arrivata sono soprattutto contente Valentina e
Benedetta; e, tutte felici, questa mattina si sono sbizzarrite a giocare nella piazzetta che
è davanti la loro casa e hanno costruito il pupazzo tanto atteso! E, visto che continua a
nevicare con molto impegno, probabilmente avranno più di un giorno per dedicarsi ai
loro giochi in mezzo alla neve, senza la preoccupazione dei compiti da fare per Valentina
e chissà che anch’io non le aiuti a modellare qualche altro pupazzo...
La loro contentezza mi riporta alla mente le grandi nevicate di un tempo, quando
anch’io, con i miei amici, mi divertivo a giocare con la neve pur non avendo già più
l’età delle mie nipoti.
Ricordo, ad esempio, quella del 1956.
Quell’anno le scuole rimasero chiuse per circa un mese e anche gli studenti di Orsogna,
che frequentavano le scuole superiori a Lanciano, rimasero bloccati in paese perché la
Sangritana non ce la faceva a garantire le sue corse verso la città frentana, tanta era la
neve che si era accumulata lungo i binari.
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Anche Orsogna era sepolta dalla grande coltre bianca. Vi erano, nei punti più battuti dal
vento, cumuli di neve che superavano perfino i due metri di altezza e chi abitava nei
vicoli doveva munirsi di pala e darsi da fare a forza di braccia se voleva uscire di casa.
Anche per noi che abitavamo in campagna, la situazione non era proprio delle
migliori.
Molte piante di ulivo avevano ceduto sotto il peso della neve e tanti rami erano spezzati
o a terra, era come se quelle piante fossero state sottoposte di proposito a un massacro,
e non c’era proprio nulla da fare per rimediare al danno.
C’è un vecchio proverbio contadino che dice: Anno di neve, anno di bbene, ma non
sono sicuro che in quelle circostanze i contadini fossero proprio convinti della sua
fondatezza.
Oltre a questo, poi, era davvero difficoltoso recarsi in paese. Le strade erano coperte
di uno spesso strato di neve indurita, e questa situazione sarebbe durata non qualche
giorno ma intere settimane.
All’epoca, infatti, le strade di campagna e in genere le strade esterne rimanevano a
lungo sotto la neve, non c’erano ancora gli spazzaneve che in pochi giorni le riportano
alla normalità come accade oggi, al massimo il sindaco chiamava un po’ di disoccupati
per aprire dei passaggi nel centro cittadino mentre per il resto del paese ci si affidava
all’azione benefica, anche se piuttosto lenta, del sole.
Tuttavia, io mi divertivo lo stesso a correre durante il giorno per la campagna innevata
assieme al nostro volpino e a tornare la notte nella casa di Colle S. Giacomo camminando
sulla neve alta il cui biancore rendeva meno buia la notte.
Anche i miei figli si sono sempre divertiti all’arrivo della neve.
Ricordo, ad esempio, quella mattina della fine degli anni ‘70 a Villalago quando,
svegliandoci, trovammo il paesino tutto ricoperto dalla neve alta. Fu davvero una bella
sorpresa per tutti, ma soprattutto per i ragazzi, anche perché nulla lasciava presagire una
tale nevicata.
Quell’anno avevamo deciso di passare il Natale a Villalago, insieme ai parenti di
Rosetta; così ci ritrovammo tutti nella nostra casa di montagna: i miei suoceri, noi e i
miei cognati, con i relativi figli, una bella compagnia insomma, eravamo addirittura in
quattordici, ci fu naturalmente qualche problema per la notte ma alla fine tutto andò per
il meglio.
La notte di Natale la passammo naturalmente giocando a tombola e a sette e mezzo; e
con noi c’era anche un amico pescarese, che aveva acquistato e ristrutturato da poco una
vecchia casetta vicino alla nostra, con la moglie e le due figlie.
Era già molto tardi quando andammo a dormire, e tutto fuori sembrava tranquillo: il
cielo era sereno, non c’era vento che annunciasse bufere di neve, anche la temperatura
non sembrava particolarmente rigida.
La mattina invece la bella sorpresa. I ragazzi si precipitarono subito fuori, seguiti a
ruota da noi grandi, e a casa non restò che mia suocera a preparare il pranzo per tutti,
compresi i nostri amici.
Fu una giornata davvero divertente: con i ragazzi che si rotolavano in mezzo alla
neve, gli slittini guidati dai più piccoli che scivolavano lungo il pendio a ridosso della
montagna, e naturalmente tanti capitomboli e tante risate e fotografie per immortalare
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il momento...!
Ma ora basta con la neve e andiamo al nostro racconto. E dunque: io dico, seguitando...,
come Dante, all’inizio dell’VIII canto dell’Inferno, che riprende il racconto della sua
discesa agli inferi.
Alfred de Vigny, che amava i paesaggi invernali e si sentiva ispirato da essi, in un
poema della raccolta Poemi Antichi e Moderni, intitolato La Neve, canta che è dolce
ascoltare delle storie, / storie del tempo passato, / quando i rami degli alberi sono neri
/ e la neve è spessa e preme sul suolo ghiacciato!
Può darsi, mie care nipoti, che anche a me questa volta la neve abbondante che è caduta
tra la notte scorsa e questa mattina porti ispirazione e renda piacevole il racconto, e che
un giorno anche a voi la neve lo renda gradito e vi renda benevole nei confronti del
nonno e delle cose che egli scrive per voi.
Gli anni immediatamente successivi al nostro matrimonio furono anni assai intensi da
tutti i punti di vista: di lì a meno di un anno nacque il nostro primo figlio, mentre sul
piano politico, grazie certamente al risultato molto positivo delle politiche del 1963 ma
anche al nostro lavoro, il partito riprese un cammino di crescita e di sviluppo della sua
forza organizzata e della sua capacità di essere tra la gente e di affrontarne i problemi.
Cominciamo però col dire che, intanto, l’inizio di quella stagione politica non fu affatto
promettente, anzi...
Il 21 agosto del 1964, infatti, una grande tragedia si abbatté sul PCI. Colpito da una
emorragia cerebrale, Togliatti muore a Yalta, in Crimea, dove si era recato agli inizi
di agosto, assieme a Nilde Iotti, per un periodo di riposo ma anche per incontrarsi
con Krusciov e discutere con lui dell’aspra controversia che opponeva in quegli anni
l’Unione Sovietica e la Cina diretta da Mao Tse Tung.
All’annuncio della morte di Togliatti, che prese tutti alla sprovvista, l’emozione in Italia
fu grande; e i funerali che si svolsero qualche giorno dopo a Roma registrarono una
partecipazione di popolo mai vista.
Non c’era solo il mare di gente che seguiva il feretro con le bandiere rosse delle varie
organizzazioni venute da tutta l’Italia, c’era anche la folla sterminata che salutava il
capo dei comunisti italiani dai lati delle strade attraversate dal corteo funebre o anche
dai balconi delle case, chi con il pugno alzato chi facendosi il segno della croce chi
gridando il proprio dolore chi piangendo silenziosamente: insomma un tributo d’affetto
senza precedenti, sembrava davvero che tanta parte del popolo italiano fosse rimasta
orfana.
Anch’io quel giorno, con Peppe D’Alonzo e molti altri compagni della provincia, ero
ai funerali; e seguimmo con le nostre bandiere il feretro fino all’immenso piazzale di S.
Giovanni, già stracolmo di gente al momento del nostro ingresso nella piazza.
Eravamo partiti la mattina presto da Chieti per arrivare a tempo ai funerali, l’autostrada
infatti non c’era ancora e di solito per andare a Roma si passava per L’Aquila e poi per
Rieti, percorrendo una strada tortuosa e piena di curve come la Salaria, e ci volevano
perciò non meno di quattro ore per giungere a destinazione. Ma la fatica non ci pesava:
non solo perché eravamo giovani, ma soprattutto perché tutti, di fronte alla scomparsa
di Togliatti, ci sentivamo attanagliati da un sentimento, che prevaleva su ogni altra cosa,
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che era insieme di grande dolore ma anche di grande sgomento e preoccupazione.
Per capire quel che ognuno di noi provò in quei giorni, quel che provarono milioni di
uomini e di donne del nostro Paese bisogna pensare a quel che rappresentava Togliatti,
non solo per i comunisti ma per i lavoratori italiani.
Togliatti era l’uomo che aveva costruito il nuovo PCI, forte di una presenza di massa
tra i ceti popolari, l’aveva radicato nella storia dell’Italia e ne aveva fatto il principale
riferimento delle speranze di progresso e di giustizia sociale dei lavoratori sia del Nord
che del Sud.
La sua scomparsa non poteva perciò non suscitare dolore ma anche preoccupazioni per il
futuro: dopo di lui e senza una guida forte e di grandissima autorevolezza quale era stata
appunto la sua, quale sarebbe stato il futuro del PCI, non solo, ma anche dell’Italia?
Bisogna dire però che Luigi Longo, che lo sostituì alla direzione del partito, si dimostrò
già nei primi suoi atti all’altezza del compito: certo non era Togliatti, ma la sua guida
apparve subito saggia e anche innovativa.
La prima cosa infatti che fece fu di pubblicare, contro il parere dei sovietici e di una
parte del gruppo dirigente del partito, il cosiddetto Memoriale di Yalta.
Il Memoriale di Yalta, che giustamente fu considerato in seguito il suo testamento
politico, erano in realtà gli appunti che Togliatti aveva preparato per l’incontro con
Krusciov, anche se non si trattava di una semplice scaletta; e sono proprio i suoi contenuti
a spiegare la contrarietà dei sovietici.
In quegli appunti Togliatti mette a fuoco alcuni problemi che, già nei mesi precedenti,
erano stati oggetto della sua riflessione, approdando a posizioni particolarmente critiche
sulla politica sovietica e la realtà dell’URSS e degli altri Paesi socialisti e ulteriormente
sviluppando alcune tematiche proprie della politica togliattiana di quegli anni come il
rapporto con i cattolici.
A ben vedere, sono posizioni che segnarono il cammino successivo del PCI e portarono
un contributo decisivo al consolidamento e allo sviluppo della strategia della via
italiana al socialismo e, in questo quadro, del rapporto del PCI con il mondo cattolico,
innanzitutto attorno ai problemi epocali della guerra e della pace, delineando così nei
fatti la traccia su cui si incardinerà dieci anni dopo la strategia del compromesso storico
di Enrico Berlinguer.
Non è qui il caso di riportare i passaggi del Memoriale che toccano i vari punti di crisi
che investivano in quel momento il movimento comunista internazionale, la vita interna
dei Paesi socialisti e dell’URSS in primo luogo, i rapporti tra i partiti comunisti, le
strategie da mettere in campo per battere le posizioni cinesi e ridare slancio alla lotta
per il socialismo nei vari paesi e sul piano mondiale.
Mi limito a sottolinearne soltanto alcuni, quelli che più di altri mi sembrano abbiano
segnato il futuro del PCI e il suo rapporto con i comunisti sovietici e gli altri partiti
comunisti al potere. A cominciare dall’affermazione secondo cui non era giusto parlare
dei Paesi socialisti come se “in essi le cose andassero sempre bene”, marcando così, per
la prima volta, una netta presa di distanza dalla realtà di quei paesi e dal modo in cui
essa veniva raccontata all’estero.
Togliatti richiamava poi la necessità che nell’Unione Sovietica si andasse rapidamente
al “superamento del regime di limitazione e soppressione delle libertà democratiche e
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personali che era stato instaurato da Stalin” e quindi al recupero di una “larga libertà
di espressione e di dibattito, nel campo della cultura, dell’arte, e anche nel campo
politico”, sollecitando contemporaneamente un approfondimento delle “origini del
culto di Stalin e come esso diventò possibile”, anche perché in Italia “non si accetta di
spiegare tutto soltanto con i gravi vizi personali di Stalin”.
Com’è noto, Togliatti non aveva mai apprezzato molto l’approccio di Krusciov al
problema delle degenerazioni staliniane, ritenendolo superficiale e poco fecondo al fine
di evitare nel futuro il ripetersi di fenomeni analoghi, indicando invece la necessità di
“indagare gli errori politici che contribuirono a dare origine al culto” e informando come
in Italia fosse già in atto, tra storici e quadri qualificati di partito, una tale indagine.
Inoltre Togliatti sottolineava, dopo gli esiti del Concilio Vaticano II, la esigenza che i
partiti comunisti al potere abbandonassero “la vecchia propaganda ateistica”, come
una delle condizioni fondamentali per far vivere la ricerca di un rapporto nuovo con
le masse cattoliche, aggiungendo anche come “lo stesso problema della coscienza
religiosa, del suo contenuto, delle sue radici tra le masse, e del modo di superarla,
deve essere posta in modo diverso che nel passato”: si trattava insomma di sgombrare
il campo della zavorra “ateistica”, per cogliere fino in fondo le opportunità offerte dal
Concilio Vaticano II e dal fatto, come egli aveva scritto già qualche tempo prima, che
l’aspirazione al rinnovamento socialista della società può trovare “uno stimolo nella
coscienza religiosa stessa” (la religione, insomma, non più oppio dei popoli).
Anche nel campo della cultura Togliatti chiedeva scelte nuove, coraggiose, “liquidando
vecchie formule”, se si voleva uno sviluppo ulteriore del movimento comunista
internazionale: “Dobbiamo diventare noi i campioni della libertà della vita intellettuale,
della libera creazione artistica e del progresso scientifico. Ciò richiede che noi non
contrapponiamo in modo astratto le nostre concezioni alle tendenze e correnti di diversa
natura, ma apriamo un dialogo con queste correnti e attraverso di esso ci sforziamo
di approfondire i temi della cultura, quali oggi essi si presentano”. Ma, com’è noto,
anche qui le sue indicazioni non ebbero di fatto alcun seguito in URSS e nei Paesi
socialisti...
Sulle questioni internazionali, infine, e il contrasto con i comunisti cinesi, egli
avanzò l’idea di un nuovo rapporto tra i partiti comunisti, fondato sull’autonomia e la
sovranità di ciascun partito, con la costruzione di un sistema policentrico di relazioni
dove la necessaria ricerca dell’unità si sposasse con il riconoscimento della diversità
di ciascuno: in altri termini, era il primo tentativo non solo di allentare il legame di
ferro che univa il movimento comunista internazionale al partito sovietico, al quale
era da tutti riconosciuto un ruolo guida, ma anche di dare uno spazio maggiore alle vie
nazionali al socialismo.
Togliatti in questo modo apriva una strada che altri avrebbero percorso, segnando
ulteriormente la originalità del comunismo italiano e rendendo possibile la evoluzione
socialista del PCI, dopo la caduta del muro di Berlino e il successivo scioglimento
del partito nato nel 1921 dalla scissione di Livorno; e nessuno può contestargli questo
merito, nonostante i tentativi ricorrenti di rimuovere la sua figura e il ruolo decisivo che
egli ha giocato nel costruire in Italia una sinistra moderna, all’indomani della sconfitta
del nazifascismo.
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Anche recentemente, in occasione del terzo Congresso dei democratici di sinistra, che
si è svolto a Roma agli inizi di febbraio del 2005, si è levata da parte di qualcuno la
richiesta di buttare nel mondezzaio Togliatti.
L’occasione è stata fornita dal richiamo fatto da Piero Fassino, nel discorso di chiusura
del Congresso, alla figura di Craxi come a uno dei padri della sinistra riformista.
Ho qualche dubbio sulla utilità del richiamo. E’ vero che Craxi ha avvertito, prima
di Berlinguer, i cambiamenti in atto, nella fase ultima del secolo scorso, nella società
italiana e nel mondo, e ha dimostrato anche capacità di innovazione nell’analisi e
nella proposta per la modernizzazione dell’Italia, è anche vero però che la pagina di
Tangentopoli scritta dal craxismo è destinata a restare ancora a lungo nella memoria
della gente, oltre che nella storia del Paese e del socialismo italiano che ne è uscito
distrutto.
Quanto a Togliatti, al di là dei suoi limiti, errori e contraddizioni e la famosa doppiezza
che ha caratterizzato il suo rapporto con Stalin e i sovietici, egli resta l’artefice di un
comunismo democratico, del tutto originale nel panorama del comunismo mondiale, e
nello stesso tempo nessuno può negargli di essere tra i padri della Repubblica e della
Costituzione e tra i maggiori costruttori della democrazia italiana.
(A proposito di doppiezza: non è curioso che la si rimproveri a qualcuno proprio in Italia
dove, negli anni della Controriforma, è stata teorizzata la cosiddetta doppia verità, per
evitare i fulmini dell’Inquisizione? O se ne deve dedurre che Stalin era meno pericoloso
della Santa Inquisizione?).
Ma, tornando alle nostre preoccupazioni di quell’agosto del 1964, esse si rivelarono
ben presto infondate: il PCI riprese subito e con slancio, anche grazie al lascito politicoculturale contenuto nel Memoriale di Yalta, il suo cammino, raggiungendo appena
qualche decennio dopo l’apice del suo sviluppo.
L’arrivo a Chieti di Giuseppe D’Alonzo, come segretario di federazione, e il mio ritorno
da Avezzano, con l’incarico di responsabile di organizzazione, segnarono di fatto un
passaggio di gruppi dirigenti nella direzione provinciale del PCI, anticipato già in parte
dalla elezione qualche mese prima, nelle politiche del 1963, alla Camera dei deputati di
Guido Di Mauro in sostituzione di Raffaele Sciorilli-Borrelli.
Un tale passaggio fu caratterizzato, sin dall’inizio, da una maggiore capacità di lavoro
e di iniziativa del nuovo gruppo dirigente e, forse, anche da una sua più elevata qualità
politica e culturale.
Del resto, i risultati cominciarono ad arrivare in poco tempo. Ad esempio, già nel
1964 il numero degli iscritti al partito raggiunse la ragguardevole cifra di 5.488 unità,
superando largamente il numero di iscritti degli anni precedenti.
D’altra parte, quando assumemmo la direzione del partito, una delle nostre prime
preoccupazioni fu appunto quella di puntare a una espansione della nostra forza
organizzata tra ceti nuovi, innanzitutto urbani, a partire dalla classe operaia che si andava
formando proprio in quegli anni sia nel vastese che nella vallata dello Scalo, una classe
operaia che già allora aveva assunto dimensioni di massa e nelle cui prime manifestazioni
di lotta era già possibile avvertire la presenza di una nuova consapevolezza politica o,
come si diceva allora, di classe.
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Naturalmente, non bastava per questo solo uno sforzo organizzativo, c’era bisogno
anche di una nuova elaborazione e di una iniziativa politica nutrita di una più puntuale
analisi della realtà economica e sociale della provincia.
Ricordo, a questo proposito, una riunione del Comitato Federale dedicata appunto a
questo problema, e anche il succo del mio intervento in quella occasione, come nuovo
responsabile dell’organizzazione: dovevamo proporci di costruire anche in provincia
di Chieti il partito nuovo di Togliatti, il partito di massa capace di aderire a tutte le
pieghe della società, in grado quindi di cogliere tutte le novità della situazione e di
intervenire su di essa attraverso sia un adeguato sforzo organizzativo che una forte
iniziativa politica, superando antiche asprezze e chiusure settarie.
Com’è noto, nel PCI politica e organizzazione sono sempre andate a braccetto: l’una
senza l’altra non aveva senso, era questa una delle prime cose che ti veniva insegnata
quando entravi nel PCI; e il senso principale di quel mio intervento stava appunto in
questo, nel sollecitare e impegnare i compagni a rendere concreta questa verità attraverso
il nostro lavoro di tutti i giorni.
Oggi di questa impostazione nella sinistra italiana c’è appena qualche traccia, così
spesso l’attività del partito si riduce solo a manovra politica e a rapporti tra gruppi
dirigenti, e questo non di rado impedisce di entrare in contatto con i problemi più
profondi della gente, facendone il terreno di una iniziativa politica e culturale più legata
alla vita delle persone, e di dare contemporaneamente risposte più puntuali anche sul
piano del governo.
Tanta antipolitica in questa stagione della vita del nostro Paese, dominata da Berlusconi,
passa del resto anche di qui!
Ma, per tornare alle scelte compiute in quel periodo, ci impegnammo anche a rendere
più intenso e continuo il rapporto tra sezioni e federazione.
Anche qui, questo rapporto oggi è pressoché inesistente a sinistra, in nome di una
malintesa autonomia delle sezioni, allo stesso modo in cui, ad esempio, le Unioni
regionali (come si chiamano oggi i Comitati regionali) si disinteressano di quel che
accade nelle federazioni.
Il risultato è solo una gran confusione, con una caduta verticale della iniziativa politica
sul territorio e il farsi avanti di gruppi dirigenti molto rinchiusi nella loro piccola realtà o
nei propri campi di competenza. E non credo che questo stia aiutando la nostra capacità
di governo e tanto meno l’affermarsi di una visione politica che faccia venire in primo
piano l’interesse generale di cui pure c’è tanto bisogno in Italia.
In ogni modo, all’epoca, non c’era per noi fine settimana, in genere dal venerdì alla
domenica, che non andassimo nei paesi; e volta a volta si trattava di riunioni dei direttivi
delle sezioni, di assemblee di iscritti, di manifestazioni pubbliche (di solito, comizi): era
un modo per informare, ascoltare e capire gli umori presenti nel partito e tra la gente,
cogliere i problemi, stimolare il formarsi di un orientamento comune e condiviso sulle
grandi questioni al centro dello scontro politico e sociale.
Si discuteva di tutto naturalmente: problemi locali, di zona o provinciali, questioni
organizzative, politica nazionale e internazionale.
Una delle caratteristiche del PCI è stata, anzi, proprio questa: non ci sono mai stati
temi di cui la sezione non dovesse discutere, considerati estranei rispetto agli interessi
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dei compagni e riservati a quelli più addentro a quei temi, cosa che invece oggi accade
normalmente.
Questo ha fatto sì che i militanti del PCI, in genere lavoratori e di solito senza
un’istruzione adeguata (molti, in quegli anni, non avevano neppure finito le elementari)
fossero tuttavia in grado di farsi una opinione di quel che accadeva in Italia e nel
mondo, magari anche elementare, ma che li poneva comunque su un gradino più alto di
conoscenza e di consapevolezza rispetto a tanti comuni cittadini.
Credo, anzi, che questo sia stato il contributo più importante che i comunisti italiani
hanno dato alla crescita civile e democratica dell’Italia, che ha reso più solida la nostra
democrazia e spinto milioni di cittadini ad assumere verso i problemi del Paese un
atteggiamento responsabile che ha consentito in momenti cruciali della nostra storia di
evitare lo sfascio e di aprire strade nuove al futuro dell’Italia.
A quel tempo, in federazione eravamo pochini; nonostante questo però, ci davamo tutti
ugualmente da fare per girare nelle sezioni, sobbarcandoci un lavoro enorme e anche
molto faticoso.
Naturalmente c’era bisogno di impegnare in questo lavoro anche i compagni del
Comitato Direttivo provinciale non funzionari (che erano di gran lunga la maggioranza);
e nessuno di essi si è mai tirato indietro.
Questa presenza costante nelle sezioni, che si è mantenuta anche in seguito, fino allo
scioglimento del PCI, ha avuto anche un altro effetto: e cioè che si consolidasse sempre
più nel tempo il rapporto dei singoli dirigenti provinciali, funzionari e non, con la
massa dei compagni delle sezioni; e io ho potuto essere candidato ed eletto alla Camera
dei deputati grazie proprio a questo legame, nonostante mancassi da anni da Chieti,
impegnato -sia pur sempre nel partito- prima a Pescara e poi addirittura fuori regione,
nel Molise.
Anche l’utilizzo nell’attività del partito di compagni non funzionari è stata una
caratteristica costante del PCI.
Non si trattava soltanto di una necessità.
In realtà, il PCI non è mai stato una organizzazione fatta solo di apparati, questa è una
descrizione caricaturale di un partito nel quale invece i gruppi dirigenti sono sempre
stati molto larghi e diffusi sul territorio, animati tra l’altro da un disinteresse e da una
visione delle cose che ha sempre posto in primo piano il bene comune -del partito o del
Paese- rispetto agli interessi individuali e di gruppo.
Da questo punto di vista, anzi, il PCI poteva vantare una ricchezza straordinaria di
compagni non funzionari impegnati nella quotidiana attività politica e organizzativa del
partito rispetto a tutte le altre organizzazioni politiche di quella che è stata chiamata, in
termini ingiustamente dispregiativi, la prima Repubblica.
Oggi, anche a sinistra, le scelte sono spesso frutto di interessi e convenienze che
sfuggono a ogni visione generale delle cose e a un rapporto solidale all’interno dei
gruppi dirigenti, il partito anzi è divenuto in molti casi il luogo nel quale convivono tanti
spezzoni del gruppo dirigente, nessuno dei quali è portatore di quella visione generale
cui ho prima accennato, e dove quindi le decisioni sono non di rado il risultato di spinte
molto parziali.
La tendenza in definitiva è quella di coltivare ognuno il proprio orticello e farlo valere
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nei confronti dei vari altri orticelli con l’obiettivo di perpetuare quanto più a lungo
possibile il potere che ci si è ritagliati nel partito o nelle istituzioni. E capita anche
che a qualcuno, quando non gradisce qualche decisione, faccia difetto anche quel
“concetto... di responsabilità che genera la disciplina” cui fa cenno Gramsci in una
nota dei Quaderni del carcere.
“Al concetto di libertà, scrive Gramsci, si dovrebbe accompagnare quello di
responsabilità che genera la disciplina e non immediatamente la disciplina, che in
questo caso si intende imposta dal di fuori, come limitazione coatta della libertà.
Responsabilità contro arbitrio individuale: è sola libertà quella “responsabile”, cioè
“universale”, in quanto si pone come aspetto individuale di una “libertà” collettiva o
di gruppo, come espressione individuale di una legge”.
Ma tant’è: in tempi in cui il berlusconismo ha chiamato a raccolta gli istinti ferini del
peggiore particolarismo e quando il trasformismo non turba più ormai i sonni di nessuno,
con salti della quaglia dall’uno all’altro schieramento non certo frutto di ripensamenti
profondi, perché ci si dovrebbe stupire di chi pensa che è del tutto naturale utilizzare
i privilegi che possono derivare dall’appartenenza a una libera associazione quali
sono appunto i partiti ma dimenticarsi nello stesso tempo dei doveri che quella stessa
appartenenza dovrebbe comportare?
Ma bando ormai a questi paragoni con l’oggi (che, tra l’altro, mi provocano, ogni volta
che ho modo di riscontrare, nella realtà effettuale, cose che non mi piacciono, dei veri e
propri versamenti di bile), e procediamo con il racconto. Anche perché, mie care nipoti,
altrimenti rischio con queste mie osservazioni di finire nella schiera dei laudatores
temporis acti, cosa che non sono né mi piace essere: ogni tempo ha le sue logiche e
le sue ragioni, ma è chiaro anche che, quando esse non mi convincono, nessuno può
togliermi il diritto di criticarle e combatterle, se necessario.
Altro momento importante della ritrovata presenza del partito tra la gente, anche solo
come fatto di propaganda, fu rappresentato dalle feste de l’Unità.
Non più, quindi, solo la festa di Comino, che uscì di scena peraltro, se la memoria non
m’inganna, forse già nell’estate del ‘63 quando venne meno l’impegno diretto della
federazione.
Ma tante feste in tanti comuni, piccoli e grandi, della provincia, sia pure solo di un
giorno ma che costituivano comunque una presenza politica e portavano anche un po’
di soldi nelle malandate casse del partito, indispensabili, assieme ai soldi versati dalle
sezioni per il pagamento delle tessere e ai contributi mensili che arrivavano dal centro
(scarsi anche quelli), per garantire ogni mese ai compagni il misero stipendio che si
erano assegnati.
Un altro merito che mi pare di poter rivendicare a quegli anni è l’avvio di una politica
di effettivo decentramento politico e organizzativo dell’attività della federazione: prima
con iniziative per la elaborazione e definizione di piattaforme di zona nel Vastese e nel
Sangro, poi con il mio trasferimento dalla federazione a Vasto per fare il responsabile
della zona del Vastese.
Probabilmente, questa nostra scelta contribuì in maniera decisiva alla ripresa e al rilancio
della iniziativa del partito e anche all’allargamento dei gruppi dirigenti, anche se i suoi
frutti più abbondanti questa scelta doveva darla negli anni ‘70.
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Questa scelta aiutò chiaramente anche una nostra maggiore presenza politica sui
problemi delle diverse zone della provincia.
Ricordo, ad esempio, che fu proprio questa scelta che ci offrì, nella seconda metà degli
anni ‘60, l’opportunità di avanzare e far arrivare alle popolazioni del Sangro nostre
specifiche proposte sui temi dello sviluppo del comprensorio, nel momento in cui si era
fatto più acuto, tra la gente, il malcontento per la marginalità a cui la vallata era stata
costretta dalle scelte regionali e nazionali della DC e del centro-sinistra.
Per la stessa ragione, anche nel Vastese il nostro impegno sui problemi della zona,
principalmente sui temi legati all’utilizzo del metano e alla nascita della nuova classe
operaia della SIV, si fece più intenso e incisivo.
Questo, naturalmente, non fece in nessun modo venir meno la nostra iniziativa attorno
a tematiche di natura nazionale e internazionale: si moltiplicarono anzi, ad esempio,
proprio a seguito della scelta del decentramento, le manifestazioni per l’indipendenza
del Vietnam e per la libertà della Grecia soffocata dal golpe sanguinoso dei colonnelli!
Le cose, insomma, filavano in modo abbastanza soddisfacente sul piano politico.
E questo non solo faceva crescere il prestigio del gruppo dirigente provinciale presso le
sezioni, ma faceva anche emergere forze nuove, una parte delle quali venne immessa, in
occasione dei due Congressi di federazione che si tennero nella seconda metà degli anni
‘60, negli organismi dirigenti provinciali. Anche se in genere si era sempre molto parchi
nel fare queste operazioni: intanto perché, pur essendo il Comitato Federale l’organismo
nel quale erano rappresentate tutte le zone più significative della provincia, tuttavia esso
non ebbe mai, se non a partire dalla seconda metà degli anni ‘70, dimensioni molto
ampie; c’era poi una selezione dei compagni sempre piuttosto severa, non si era affatto
(come invece oggi) di manica larga.
Anche la unità del gruppo dirigente provinciale si dimostrò abbastanza solida in quegli
anni.
Ovviamente non mancarono scossoni, legati soprattutto, più che a contrasti di natura
locale, a scontri di carattere nazionale.
Ricordo, ad esempio, il Congresso di federazione dell’inverno del 1965, in preparazione
dell’XI Congresso nazionale del PCI che si svolse a Roma nel gennaio del ‘66, e il
dibattito politico che l’accompagnò.
Al centro della discussione congressuale vi erano i temi del nostro rapporto con il
centro-sinistra e, più specificamente, con il PSI.
Una discussione dunque su temi di importanza strategica, che si intrecciava tra l’altro
con il dibattito, di natura più squisitamente culturale ma che aveva tuttavia un rapporto
evidente con le scelte politiche che il PCI si apprestava a fare, incentrato sul cosiddetto
neocapitalismo, un termine che ambiva a definire la natura dei cambiamenti economici
e sociali che stavano interessando in quegli anni anche l’Italia.
Segretario del PCI era allora Luigi Longo, si trattava perciò del primo Congresso senza
la presenza di Togliatti morto poco meno di un anno e mezzo prima.
Longo si mosse su una linea che, pur riaffermando una critica aspra alle scelte fatte dal
centro-sinistra e alla strategia che lo ispirava, tuttavia rifiutò ogni giudizio liquidatorio
nei confronti del PSI confermando -come già aveva fatto in precedenza Togliatti- la
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nostra tradizionale politica unitaria nei confronti dei socialisti e, sul piano più generale,
contestando l’idea -affermata da alcuni settori del partito, che facevano derivare tutto
questo dall’analisi che essi facevano del neocapitalismo- che si era ormai alle soglie di
una sconfitta della sinistra e che ogni possibilità di reale cambiamento era preclusa se
non si combatteva fino in fondo la socialdemocratizzazione del PSI.
Ma su questa linea non ci fu la unità del gruppo dirigente nazionale.
Ingrao imboccò subito la strada dello scontro frontale con il PSI, indicato come ormai
socialdemocratizzato e quindi irrecuperabile a un impegno unitario nella battaglia per
la trasformazione socialista e democratica dell’Italia, una posizione, questa, che portava
inevitabilmente con sé anche la liquidazione dei rapporti unitari tra i due partiti che
pure continuavano a esistere e a dimostrarsi stabili nelle amministrazioni locali e nelle
organizzazioni di massa, nonostante la diversa collocazione politica dei comunisti e dei
socialisti a livello nazionale.
Lo scontro nel partito si fece quindi molto aspro, e investì inevitabilmente anche le
federazioni; soprattutto esso si caratterizzò per la contrapposizione tra Pietro Ingrao e
Giorgio Amendola, il quale sosteneva con molto vigore posizioni del tutto antitetiche a
quelle di Ingrao e più vicine alla impostazione data da Longo.
Le posizioni di Ingrao, che furono poi sconfitte al Congresso nazionale, infiammarono
il dibattito anche da noi.
Sulle posizioni di Ingrao si schierarono Di Mauro e il gruppo di Tollo e, di rincalzo,
Graziani e i compagni di Paglieta, anche Brini, che era allora il segretario regionale del
partito e partecipò al nostro Congresso, si muoveva sulla stessa linea; tuttavia anche da
noi la maggioranza si ritrovò sulle posizioni di Longo.
Uno scontro analogo si ebbe qualche anno dopo, nel 1969 (in quel periodo io ero a Vasto),
attorno alla vicenda del Manifesto le cui posizioni erano in qualche modo figlie di quelle
sostenute da Ingrao nel ‘66, sia pur nutrite di una maggiore radicalità rivoluzionaria
(uno dei riferimenti politico-culturali del gruppo era, infatti, la cosiddetta rivoluzione
culturale cinese).
Anche in questa occasione lo scontro fu molto duro.
Ricordo a questo proposito ancora oggi la lunga e combattuta riunione del Comitato
Federale con, all’ordine del giorno, appunto la decisione assunta dal Comitato Centrale
di espellere dal PCI il gruppo del Manifesto: com’era prevedibile, in federazione gli
schieramenti furono gli stessi del Congresso del ‘66 e identico fu l’esito dello scontro
con l’approvazione da parte della maggioranza dei compagni della decisione assunta a
livello nazionale.
L’unità del gruppo dirigente provinciale tuttavia non risentì di questi scossoni, né nel
1966 né nel 1969.
La ragione fu semplice: lo scontro politico non solo non degenerò in scontro personale,
ma le posizioni sostenute dalla minoranza non furono mai considerate dalla segreteria di
federazione una discriminante in base alla quale valutare il ruolo che i singoli compagni
potevano giocare sia nel partito che nelle istituzioni.
Contò molto, da questo punto di vista, l’equilibrio con il quale tutti si mossero, a partire
appunto dalla segreteria di federazione.
D’altra parte, anche a livello nazionale ci si mosse con la stessa ottica, almeno nel
145
1966.
Il Congresso nazionale, infatti, respinse la richiesta di chi pensava che lo scontro di
natura strategica che si era avuto durante il dibattito dovesse portare all’esclusione
dagli organismi dirigenti dei compagni che si erano battuti per posizioni risultate poi
minoritarie; inoltre, anche se sul piano della vita democratica interna non si arrivò a
considerare normale la contrapposizione di linee politiche alternative, tuttavia fu
ammessa e riconosciuta la legittimità del dissenso, cosa che rappresentò un passo avanti
importante sulla via di una maggiore democrazia nel partito.
Nel caso del Manifesto, sul piano nazionale la vicenda si concluse invece diversamente,
con la esclusione dal partito del gruppo che aveva dato vita alla rivista. Quello che
venne considerato inammissibile non fu, neppure questa volta, il diritto al dissenso,
ma piuttosto la organizzazione del dissenso, in altri termini la possibilità che nel PCI si
potesse arrivare alla formalizzazione delle correnti.
Agiva qui un riflesso che era insieme ideologico e politico, legato quest’ultimo al timore
del PCI di esporsi a rotture irreversibili che ne avrebbero minato la forza e la capacità
di incidere nella vita del Paese, in realtà fu persa l’occasione per aprire la strada a un
pluralismo e a una maggiore dialettica interna che, forse, potevano dimostrarsi fecondi
per il futuro.
E’ vero, nel PCI c’erano sempre state diverse anime o sensibilità, come le chiamava
Togliatti, che si confrontavano e si scontravano tra loro al riparo del centralismo
democratico, ma la condizione perché esse potessero esistere e convivere era che
nessuno agisse in modo organizzato.
Solo molti anni più tardi si aprì una discussione più esplicita e aperta attorno a questo
tema, senza tuttavia approdare neanche allora a nulla di nuovo.
Nella nostra federazione la rottura invece ci fu nel 1970, in occasione delle prime
elezioni regionali nella storia della Repubblica.
Le prime crepe si avvertirono già nella fase delle cosiddette consultazioni, il meccanismo
che il PCI aveva inventato per saggiare le reazioni della base del partito rispetto a
possibili proposte di candidatura.
Ricordo infatti che nelle sezioni, mentre non c’era discussione sul nome di D’Alonzo,
indicato come nostro capolista alle regionali per la provincia di Chieti, c’era invece una
contrapposizione per il secondo nome da indicare per la elezione.
Il PCI, nel 1970, pensava di poter eleggere solo due consiglieri regionali in provincia; e
lo scontro fu tra Elio Monaco, maestro elementare di Tornareccio, e Vincenzo Terpolilli,
responsabile regionale della Lega delle cooperative.
Alla fine, nella consultazione delle sezioni, prevalse, sia pure non di molto, Monaco,
che venne così scelto come il secondo da eleggere, mentre Terpolilli fu indicato come
terzo possibile outsider, se le cose fossero andate bene.
Ma la ciambella, ahinoi!, non riuscì col buco, come si vide a risultato elettorale
acquisito.
I consiglieri regionali eletti furono tre, non due; ma il terzo eletto non fu Terpolilli, come
il Comitato Federale aveva deciso, bensì Perantuono collocato, nella distribuzione delle
preferenze in provincia, solo al quarto posto. Insomma, aveva fatto tilt la pur celebrata
macchina organizzativa del partito che i nostri avversari avevano sempre considerata
146
impeccabile e che, anzi, ci invidiavano!
Si aprì così nel partito una ferita che contrappose pezzi importanti del gruppo dirigente,
appartenenti a generazioni diverse tra loro per cultura e formazione; e solo un lavoro
paziente di circa due anni -in cui fu molto prezioso il contributo di Renzo Trivelli,
nuovo segretario regionale del PCI- consentì di approdare a una conclusione positiva di
tutta la vicenda, con le dimissioni di Perantuono da consigliere regionale e la elezione
di Terpolilli al suo posto.
Ciò che rese particolarmente pericolosa questa frattura fu il fatto che essa si sommava a
una situazione di più generale difficoltà del partito in provincia in quella fase, i cui segni
si erano andati accumulando mano a mano che ci si avvicinava alla fine degli anni ‘60.
Ad esempio, si assottigliava sempre più il numero dei nostri iscritti: dai 5.488 del 1964
eravamo scesi nel ‘69 a 4.280, con una perdita di oltre mille iscritti, e nel 1970 non
riuscimmo a toccare neppure i 4.000 iscritti, fermandoci a 3.763.
Del resto, anche nelle elezioni politiche del 1968 le cose in provincia non andarono
al meglio: scendemmo dello 0,3% rispetto al risultato del ‘63, mentre eravamo andati
avanti, e bene, sia in Abruzzo che a livello nazionale.
Eppure, anche nelle città della nostra provincia c’era stato il ‘68: anche a Chieti, come
a Vasto e Lanciano, gli studenti si erano messi in movimento e le loro lotte si erano
intrecciate con quelle di cui fu protagonista in quegli stessi mesi e per tutto il 1969 la
classe operaia di quelle città, gli operai dello Scalo a Chieti, le tabacchine a Lanciano,
gli operai della SIV a Vasto.
C’era evidentemente qualcosa che si era logorato nella capacità del partito di intercettare
i cambiamenti in atto e di trasformarli in nuove opportunità, in terreno di una nuova,
diffusa iniziativa politica su tutto il territorio della provincia.
La federazione, all’inizio degli anni ‘70, affrontò alla radice queste questioni, con la
convocazione della Conferenza provinciale di organizzazione che si svolse nel cinemateatro di Orsogna. Fu questo, anzi, il primo atto della mia segreteria, che pose le basi per
una nuova fase di sviluppo del partito in provincia.
Ma non precorriamo i tempi, devono passare ancora alcuni anni prima che si concluda
la mia esperienza di responsabile di zona nel vastese e venga eletto segretario di
federazione.
Nel ‘67, infatti, mi trasferii a Vasto, mentre il mio posto in federazione -come
organizzatore- venne preso da Mimmo Bafile che, ormai da oltre un anno, aveva
cominciato a lavorare nel partito.
Ero stato io stesso a chiedere di andare nel vastese, come responsabile di zona.
A Vasto, la situazione era difficile.
Nelle amministrative del 1966, i comunisti avevano dovuto incassare un brutto colpo
sul piano elettorale, cedendo molti voti al Faro (e anche, sia pure solo in qualche zona
di campagna, alla stessa DC); inoltre, di fronte alla spinta della industrializzazione e dei
cambiamenti che essa aveva provocato nella realtà economica e sociale della zona, non
si poteva certo restare inerti, e solo una nostra forte presenza politica poteva trasformare
i processi in atto in una opportunità e non in un rischio.
C’era dunque, dietro la mia richiesta, un ragionamento politico del quale ero convinto,
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era presente però anche un certo logoramento dei miei rapporti con Peppe D’Alonzo;
e fu proprio questo che, alla fine, mi fece decidere di tentare una nuova avventura che,
per me, si rivelò poi molto importante.
Il mio rapporto con Peppe è stato sempre improntato ad amicizia, nonostante le
spigolosità del suo carattere, anche se essa non si è però mai trasformata in intimità;
d’altra parte, per carattere e per scelta il mio rapporto con i compagni non ha mai
superato una certa soglia, anzi ho sempre pensato che questo rappresentasse una delle
condizioni fondamentali per salvaguardare la mia autonomia di giudizio nelle vicende
politiche e di partito.
Ci siamo trovati, inoltre, quasi sempre su posizioni politiche identiche o comunque
assai vicine; e in genere il nostro rapporto non ha mai conosciuto contrasti vistosi.
Tuttavia, alcuni anni dopo l’inizio di questa nostra positiva collaborazione, dei problemi
si aprirono tra noi e questo mi spinse a chiedere di lasciare la federazione e andare a fare
un’altra esperienza.
Comunque con Peppe mi sono trovato sempre bene, anche quando c’erano posizioni
differenti tra noi: per lui, come per me, la lealtà reciproca è stato sempre un punto
fermo!
Quando arrivò a Chieti nel 1963, egli aveva già girato mezzo Abruzzo e fatto anche una
lunga trasferta fuori regione perché anche lui, come me e tanti altri nel PCI, è stato una
specie di globetrotter della politica.
Pescara, Teramo, la lontana Campobasso, nel Molise, di nuovo Pescara e poi Chieti:
ecco le varie tappe della sua attività di funzionario del PCI, che io sappia gli mancò
solo l’Aquila. E sempre con incarichi diversi, prima nelle organizzazioni di massa e poi
nel partito.
Il suo girovagare si concluse a Chieti, dove fu eletto prima nel Consiglio comunale
della città (dal 1965 al 1970) e poi nel Consiglio regionale dove chiuse, nel 1980, la sua
carriera di rappresentante del PCI nelle istituzioni.
Nel partito invece continuò a dare la sua attività fino a pochi anni prima della morte,
nella primavera del 2001. La mancanza di un polmone, che gli era stato tolto a seguito
di un tumore, gli rendeva difficile partecipare alle riunioni, non solo perché lunghe e
faticose (come di norma) ma soprattutto a causa dell’aria perennemente ammorbata dal
fumo delle sigarette, allora fumavamo quasi tutti, Peppe stesso del resto è stato sempre
un infaticabile fumatore, anche quando era già malato.
In pratica, quindi, Chieti lo rese stanziale e divenne la sua città.
Quando lo incontrai la prima volta io ero ancora di stanza ad Avezzano, mentre egli aveva
concluso da poco la sua esperienza nel Molise e lavorava a Pescara, come responsabile
di organizzazione della federazione.
Ma la sua permanenza a Pescara non durò a lungo. Vi restò solo pochi mesi, per
approdare appunto, subito dopo le elezioni politiche del ‘63, a Chieti.
Quando egli arrivò da noi, aveva dunque alle spalle una esperienza ormai consolidata
e di lungo corso, aveva insomma una buona conoscenza del mestiere; e questo gli
consentì, subito, di districarsi abbastanza bene in una realtà che era per lui nuova e in
una situazione che si presentava abbastanza complicata e complessa per le discussioni
e le rotture che si erano prodotte nel gruppo dirigente provinciale nel corso dei primi
148
anni ‘60.
Egli aveva dalla sua anche una intelligenza istintiva e la capacità di entrare rapidamente
in relazione con i suoi interlocutori, ricorrendo magari alla battuta e comunque non
chiudendosi mai, in genere, al rapporto con gli altri, anche se a volte si lasciava andare
a scatti bruschi e non sempre opportuni.
C’era infatti in lui una certa tendenza all’autoritarismo che gli era valso il soprannome,
tra i compagni della sua generazione, di sergente di ferro (anche perché da militare
aveva rivestito il grado di sergente) che egli cercava normalmente di tenere a freno, ma
non sempre riuscendovi.
Peppe aveva alle spalle anche altre fondamentali esperienze, oltre a quella del partito e
delle organizzazioni di massa. La guerra, innanzitutto, come del resto tutti quelli della
sua età costretti a indossare la divisa e a partire per il fronte, a lui toccò il fronte greco; e
poi la lotta partigiana, nelle file dei partigiani greci, che ebbe grande importanza per lui
anche dal punto di vista della sua vita privata: a guerra finita, egli tornò infatti in Italia
con una moglie greca, anche se negli anni in cui io l’ho conosciuto si era già separato
da lei.
Ricordo a questo proposito un episodio assai singolare, che mi è rimasto particolarmente
vivo nella memoria perché la scena a cui assistetti si svolse tutta in lingua greca
moderna.
Dalla Grecia, quando Peppe era già a Chieti, venne a trovarlo, credo fosse la primavera
o l’estate del ‘64, il fratello della moglie, per discutere evidentemente con lui della
situazione che si era creata con la sorella.
Ricordo che era un bell’uomo: alto, dal fisico asciutto, dai folti capelli neri e dai baffi
piuttosto vistosi e un carattere che mi apparve subito deciso e, per essere sincero, anche
piuttosto arrogante, ma non antipatico.
Peppe non voleva andare da solo all’incontro, che avvenne in Piazza S. Giustino, e
così mi chiese di accompagnarlo. Io andai, ma la cosa contrariò molto il cognato che
tuttavia, nonostante la mia presenza, non rinunciò affatto a far valere, e in maniera
anche molto animata, le sue ragioni ma appunto lo fece in greco, salvo il primo scambio
di battute, costringendo così anche D’Alonzo a replicare in greco.
A Peppe mancava invece una formazione culturale in grado di affinare e rendere più
feconde le sue indubbie qualità.
Un certo aiuto in questo senso gli venne sicuramente dalla frequentazione di uno dei
tradizionali corsi organizzati dal PCI a Frattocchie, nel suo caso quello della durata di
otto mesi; ma questo non poteva in nessun modo rimediare all’assenza di una formazione
di base, così egli cercò di supplire a questa sua difficoltà, di cui era consapevole, con
la lettura.
Il suo piatto forte erano i romanzi contemporanei; e ricordo che non si lasciava mai
sfuggire le novità.
Di questa difficoltà comunque egli soffriva; e lo si vedeva, ad esempio, quando doveva
preparare la relazione per il Congresso.
In quel caso, non poteva fermarsi solo a dei semplici appunti, doveva stendere per
esteso il testo; ma ciò lo rendeva nervoso perché scrivere gli risultava ostico. Così,
in quelle occasioni mi chiamava puntualmente a dargli una mano: ci chiudevamo per
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diversi giorni in una stanza, di solito a casa mia, con Rosetta che ogni tanto ci portava
un caffè, e assieme mettevamo in piedi la relazione, andando avanti magari tutta la notte
fino a qualche ora prima dell’inizio del Congresso (una volta, credo che si trattasse del
Congresso provinciale della fine del ‘65, finimmo di scrivere e battere a macchina la
relazione alle otto di mattina, a qualche ora quindi dall’inizio del Congresso stesso).
Questo suo limite tuttavia non solo non toglie nulla alle sue capacità, ma sottolinea
anche ciò che il PCI ha rappresentato nella storia personale di Peppe come di tanti
altri dirigenti comunisti il cui mondo di provenienza era quello della fabbrica o della
campagna, spesso senza scuola e senza cultura nel loro curriculum d’origine. E’ il PCI
che li ha trasformati in classe dirigente, in intellettuali (nel senso che dava Gramsci
a questo termine), dando in tal modo anche un contributo enorme alla crescita e al
rinnovamento dei gruppi dirigenti del Paese!
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Capitolo VIII
La mia attività a Vasto come responsabile di zona iniziò ai primi di aprile del 1967,
dopo naturalmente che i direttivi delle sezioni della zona -in una riunione congiunta
tenutasi a Vasto- avevano discusso e approvato la proposta fatta dagli organismi dirigenti
provinciali; e subito mi trovai alle prese con i problemi legati alla riorganizzazione del
partito in città, in vista delle elezioni amministrative dell’autunno.
Prima però di raccontarvi, mie care nipotine, i quasi tre anni e mezzo passati a Vasto,
fino a oltre la metà del 1970, mi sembra il caso di richiamare la vostra attenzione su
quello che era intanto accaduto o stava accadendo nella mia vita privata e che riguarda
anche i vostri papà quando anch’essi usavano, come scrive Dante, l’idioma / che prima
i padri e le madri trastulla. E cominciamo da una data: il 16 giugno del 1964 che fu,
per me e la nonna, un giorno pieno di emozioni ma, anche, di grandi preoccupazioni e
timori.
Lo ricordo molto bene perché proprio quel giorno nacque Massimiliano, il nostro
primo figlio. Solo che, prima che accadesse il lieto evento, le cose stavano rischiando
di mettersi per il brutto.
Le doglie, infatti, erano iniziate poco dopo mezzogiorno, ma, nonostante il passare
delle ore, il bambino di uscire proprio non voleva saperne. Era andato via così tutto il
pomeriggio ed eravamo ormai alla sera, ma ancora niente...
All’epoca non si partoriva in ospedale, al massimo le donne che vivevano in città
andavano a farsi fare qualche visita specialistica dal ginecologo ma nulla di più, a
tutto provvedeva la mammine, cioè l’ostetrica che, soprattutto nei paesi, era di fatto la
mitis e potens Lucina, la benevola e miracolosa Lucina, che le antiche matrone romane
invocavano per avere un parto tranquillo e sotto il cui controllo e la cui assistenza si
nasceva ancora nei primi anni ‘60.
Così, anche in occasione della nascita di Massimiliano, il parto avvenne in casa e con la
presenza della Lucina di turno.
In casa era arrivata intanto, appena qualche ora dopo l’inizio delle doglie, mia suocera
e, per farsi dare una mano da una donna esperta, si era fatta accompagnare da una sua
amica di lavoro e vicina di casa (quando abitava ancora lungo la discesa del gas), io nel
frattempo avevo chiamato l’ostetrica.
All’inizio, non sembrava che ci dovessero essere difficoltà.
Ma di lì a poco fu chiaro che c’era qualche problema: il cordone ombelicale era
attorcigliato attorno al collo del bambino e questo gli impediva di uscire (lo stesso
problema si presentò in occasione della nascita di Stefano, ma eravamo in ospedale e
non ci furono perciò complicazioni di sorta, nel caso di Stefano, anzi, si presentò anche
il cosiddetto fattore RH negativo ma l’ospedale rappresentò una garanzia anche rispetto
a questo rischio).
Cominciammo naturalmente tutti a preoccuparci, una preoccupazione che si faceva
sempre più angosciante mano a mano che passavano le ore; a un certo punto arrivò
anche il nostro medico di famiglia, ma le cose non sembrarono migliorare di molto.
Io, tra l’altro, non potevo assistere al parto (questa era allora la consuetudine) e dovevo
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quindi tenere a bada il mio nervosismo passeggiando qua e là per la casa, che per fortuna
era molto ampia, l’unica cosa che mi era permesso di fare era di bussare ogni tanto alla
camera da letto per cercare di capire come si stava mettendo la situazione, ma ottenevo
solo di far affacciare mia suocera alla porta e farmi rispondere in maniera piuttosto
brusca, nervosa anche lei.
Insomma, il parto fu molto laborioso; ma alla fine, erano ormai le nove di sera, mitis et
potens Lucina, come recita Ovidio nelle Metamorfosi, admovit manus et verba puerpera
dixit, la mite e miracolosa Lucina accostò le mani e pronunziò le parole che propiziano
il parto.
Rosetta era stremata, ma tutti eravamo felici e a quel punto anch’io potei entrare,
finalmente!, nella camera da letto.
L’appartamento nel quale allora abitavamo si trovava al secondo piano della prima
scala di quello che ancora oggi è conosciuto a Chieti come il palazzo Mezzanotte, nel
quartiere di Santa Maria, a poca distanza quindi dalla famiglia presso la quale avevo
alloggiato come pensionante qualche anno prima, fino alla mia partenza per Avezzano.
E’ un palazzo piuttosto mastodontico che si sviluppa, oltre che in altezza, anche in
lunghezza, una specie di semicerchio la cui base verso l’esterno segue l’andamento di
Via Federico Salomone, e che, sorgendo ai limiti del colle che ospita la città vecchia nella
sua parte orientale, è l’edificio che cattura ancora oggi, subito e da lontano, lo sguardo
del viaggiatore che sale da Francavilla verso Chieti, nonostante che nel frattempo gli si
siano affiancati alcuni brutti e colorati palazzoni.
Abitavamo lì solo da qualche mese, fino ad allora eravamo stati ospiti obbligati dei miei
suoceri in quanto, nel breve tempo intercorso tra il mio ritorno da Avezzano e le nozze,
non ci era stato possibile trovare un appartamento tutto nostro.
Non è che ci trovassimo male con loro, tuttavia avevamo bisogno di avere la nostra vita
e Rosetta perciò non passava giorno che non andasse in giro a cercare appartamenti da
affittare finché la sua insistenza non fu premiata.
La ricerca per la verità non fu affatto breve, durò anzi parecchi mesi.
In quegli anni a Chieti c’era carenza di case a causa dell’afflusso di un gran numero di
famiglie dai paesini dell’interno, spinte a trasferirsi in città dalla nascita delle fabbriche
allo Scalo; e anche l’avvio dei corsi di laurea della Libera Università D’Annunzio
cominciava a richiamare proprio in quel periodo studenti dalla provincia e, sia pure in
misura molto modesta, da fuori regione (in particolare dal foggiano).
L’appartamento di palazzo Mezzanotte ci piacque subito; e l’abbiamo lasciato qualche
anno dopo solo perché ci dovevamo trasferire a Vasto.
Era al centro, e andare da lì in federazione era una passeggiata. All’interno, poi, c’era
tanto di quello spazio, molto più di quanto a noi occorresse anche dopo la nascita di
Massimiliano.
Ricordo ancora oggi il giorno in cui ne prendemmo possesso, perché ci capitò un episodio
che non avevamo messo nel conto e che aveva a che fare proprio con l’ampiezza del
nostro appartamento.
Che accadde, dunque?
Accadde, mie care nipotine, che, dopo aver sistemato alla bell’e meglio le nostre cose,
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a una certa ora io dovetti partire per una riunione in provincia, mentre la nonna rimase
in casa; ma essa non ne approfittò per andare subito a riposarsi dopo le tante fatiche
della giornata, aspettò invece sveglia il mio ritorno che avvenne, come al solito, a notte
piuttosto inoltrata.
Perché?, direte voi.
Beh, la nonna non era riuscita a liberarsi da certe suggestioni che le provocava, oltre
all’ambiente nuovo, la esistenza di tante camere, per giunta quasi tutte vuote, dove però
la fantasia immagina sempre qualche presenza ostile e così, invece di andarsene a letto,
si rifugiò in cucina, aspettando tutta insonnolita e stanca (era già incinta di cinque o sei
mesi) il mio ritorno.
Pur piacendoci molto, l’appartamento aveva tuttavia i suoi difetti.
Ad esempio, i diversi locali non erano ben distribuiti. Erano lì, tutti in fila, l’uno dietro
l’altro, come si usava una volta, ed erano perciò quasi tutti di passaggio e quindi poco
utilizzabili.
D’inverno, poi, il riscaldamento era un problema.
Noi avevamo sistemato all’angolo di un salottino, situato tra la camera da letto e lo
studio, una stufa di ghisa alimentata a carbone, ma, a parte la polvere di carbone che
aveva dipinto di nero tutto il pavimento e pezzi di parete, in realtà non riuscivamo mai
a riscaldare se non una piccola parte della casa; la stufa, poi, rappresentava un rischio
continuo per Massimiliano, soprattutto quando cominciò a muovere i primi passi, prima
con il girello e poi da solo.
C’erano però quei soffitti così alti e a cima di carrozza che mi affascinavano e non
ti facevano sentire la sensazione di oppressione che a volte ti prende in presenza di
volte basse; inoltre, dai balconcini, delimitati da eleganti ringhiere in ferro battuto e che
affacciavano tutti verso est, si godeva un panorama straordinario!
Avevamo poi dei vicini simpatici, anche se una certa amicizia c’era solo con la famiglia
Pratesi.
I Pratesi venivano da Livorno e, come in genere i toscani, era gente spiritosa, cordiale,
simpatica e, quando se ne presentava l’occasione, anche piuttosto mordace ma in
maniera non sgradevole, buoni amici insomma.
La ragione che li aveva portati a Chieti era legata all’attività del capofamiglia. Peppino,
infatti, era un sindacalista della CGIL, e la CGIL nazionale l’aveva mandato appunto
a Chieti, alla Camera provinciale del Lavoro dove rappresentava, come segretario
aggiunto, la corrente socialista.
Con loro siamo stati veramente bene.
La moglie, Marisa, era poi proprio una pasta di donna; e anche i figli, Roberto e Manuela,
poco più che adolescenti, erano ragazzi simpatici.
In particolare ricordo Manuela, innamorata di Massimiliano, che veniva perciò spesso a
casa nostra per giocare con lui; e, se trovava il bambino che ancora dormiva, puntualmente
non riusciva a trattenersi e lo svegliava per prenderlo in braccio e giocarci.
Dopo il nostro trasferimento a Vasto, anche loro, appena qualche anno dopo, sono andati
via da Chieti per tornare in Toscana, e da allora non li abbiamo più né visti né sentiti.
Qualche anno fa, in occasione di un viaggio a Pisa a casa di Stefano, li abbiamo anche
cercati a Livorno facendo alcune telefonate ma, purtroppo, senza alcun risultato, li
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avremmo rivisti volentieri.
L’appartamento di palazzo Mezzanotte fu naturalmente il teatro delle prime avventure
di Massimiliano.
Massimiliano aveva un carattere molto vivace, e lo si vide subito, appena poté godere di
un po’ di autonomia: prima con il girello e poi quando cominciò ad andare in giro con le
sue gambe. E ne combinò davvero di tutti i colori, oltre a scorrazzare in continuazione
per le numerose stanze del nostro appartamento seguendo gli spostamenti della madre.
Io lo chiamavo pizzingrille, che da noi significa appunto bambino che non sta mai
fermo, proprio come lu vinnele, l’altro vezzeggiativo usato nei paesi per bambini vivaci,
anch’essi sempre in movimento come l’arcolaio appunto.
Ricordo, ad esempio, quando, correndo dietro la madre con il girello, andò a inciampare
contro il binario in ferro nel quale scorrevano le persiane di uno dei balconcini che
davano sulla vallata dell’Alento: l’urto fu tanto violento che finì con il viso infilato
dentro la ringhiera e per tirarlo fuori ci volle proprio la mano di Dio, come si dice da
noi!
Un’altra volta si fece crollare addosso l’armadietto, che faceva da appendiabiti, che
avevamo sistemato nello stanzone di ingresso.
L’armadietto non valeva granché, ma era carino a vedersi, soprattutto attirava subito
l’attenzione dei bambini perché aveva lo sportello che si apriva a organetto sui due lati
e, su una delle due ante, una vistosa maniglia colorata.
Aveva però anche alcune caratteristiche che lo rendevano pericoloso, ma di questo ci
rendemmo conto solo quando ne vedemmo le conseguenze. Non solo non si dimostrò
stabile, ma sulla parte superiore era posato, con un attacco a ventosa e una funzione solo
ornamentale, una grossa lastra di vetro che francamente nessuno avrebbe mai pensato
che potesse finire addosso a un bambino, mettendone seriamente a rischio l’incolumità,
e invece accadde...
Quel giorno Massimiliano, che aveva già cominciato a girare per casa da solo, vedendo
la madre che dalla cucina si dirigeva verso le stanze più interne, subito, come al solito, le
si precipitò dietro; ma non sarebbe successo nulla se, appena all’altezza dell’armadietto,
non avesse afferrata la maniglia colorata, che era diventata uno dei suoi oggetti del
desiderio e, continuando a correre senza lasciarla, non avesse provocato la caduta
rovinosa del mobile.
Per fortuna, dentro l’armadietto c’erano dei cappotti e lui finì sotto di essi senza subìre
danno alcuno, altrimenti la lastra di vetro, che finì anch’esso a terra frantumandosi,
cadendo l’avrebbe potuto colpire, chissà con quali conseguenze...!
Ancora un episodio: in un giorno di festa, adesso non ricordo più di che ricorrenza si
trattasse, eravamo tutti seduti a tavola per il pranzo nello stanzone d’ingresso che fungeva
anche da sala da pranzo quando avevamo ospiti. E quel giorno, infatti, c’erano con noi
anche i miei fratelli, Rocco e Peppino (il più piccolo, non aveva allora che poco più di
otto o nove anni), e non ricordo bene se anche i miei genitori, ma che ti fa Massimiliano,
mentre tutti siamo tranquillamente impegnati a mangiare e chiacchierare?
Egli era seduto sul suo seggiolone e aveva in mano un mandarino sbucciato con il quale un
po’ giocava e un po’ lo succhiava, niente di strano dunque, solo che contemporaneamente
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prendeva i semi del mandarino e se li ficcava negli orecchi. Quando ce ne accorgemmo,
tentammo di tirarli fuori ma inutilmente, così fummo costretti a correre al pronto
soccorso del vecchio ospedale dove un giovane medico, nostro amico, che quel giorno
era di guardia, con molta pazienza e dopo aver cacciato la madre troppo pietosa col
figlio e messo il bambino tra le gambe per tenerlo fermo, con una pinza glieli tolse
tutti.
Di monellerie Massimiliano fu protagonista anche negli anni seguenti, sia quando
eravamo ancora a Vasto e lui era ancora un bambino sia quando divenne più grandicello
e ormai aveva cominciato ad andare a scuola.
Ne ricordo una che eravamo già tornati a Chieti e lui aveva appena iniziato le
elementari.
Credo che fossimo nella settimana di Pasqua, e Rosetta si stava preparando, per uscire,
davanti alla specchiera della camera da letto. Massimiliano le stava vicino e le girava
attorno, giocando con una bacchetta rotta di un vecchio ombrello che chissà come
era finita nelle sue mani: si stava divertendo molto con quella bacchetta, soprattutto
provandola ogni tanto sulla mensola di vetro situata ai piedi dello specchio, dove di
solito alloggiavano i vari cosmetici di mia moglie che proprio allora li stava usando.
Rosetta naturalmente gli dice di stare attento perché il vetro si potrebbe rompere, ma per
tutta risposta lui che ti combina?
Passano pochi secondi, e vibra con forza la sua bacchetta sulla mensola di vetro e la
rompe. Giustificazione? Volevo vedere se davvero si rompeva! Insomma, era proprio nu
pizzingrille.
Ma la sua vivacità si manifestava anche in modi diversi e spesso davvero singolari.
Ricordo, tra i tanti episodi di quegli anni, quando mi chiese chi aveva rotto la luna:
eravamo ancora a palazzo Mezzanotte, quindi era proprio piccino, e non sapeva
spiegarsi che cosa era accaduto alla luna quando lui la vide, dai nostri balconcini,
apparire all’orizzonte dimezzata.
Un’altra volta, sempre a palazzo Mezzanotte, ci diede la sua definizione della felicità:
Io, mamma e papà, a cui qualche anno dopo aggiunse anche il fratello (la stessa cosa
fece anche nei suoi disegni), dopo la nascita di Stefano la cui gestazione lui aveva
seguito passo passo e ne aveva sentito i calci che tirava dentro la pancia della madre e i
palpiti del cuore in formazione.
Massimiliano poi era anche molto curioso, e non smetteva mai di fare domande; e
amava molto il gioco. E aveva carattere. Ricordo a questo proposito quel che accadde
quando decidemmo di mandarlo alla scuola materna.
Eravamo allora a Vasto, e pensammo che potesse essere utile fargli frequentare appunto
la scuola materna.
All’epoca non esisteva ancora la rete delle scuole materne comunali, così ci rivolgemmo
a quella gestita dalle suore che non era molto distante da casa nostra e si trovava lungo
la statale che porta verso il centro della città e poi prosegue per Cupello e S. Salvo.
Lui, sia pure con qualche resistenza, non disse di no e andò, ma la cosa non durò che
appena qualche giorno e, bisogna dire, non certo per colpa sua.
Siccome era d’inverno, non potendoli far giocare fuori, le suore facevano fare ai bambini
il gioco del silenzio: tutti seduti attorno a un grande tavolo, proprio nella grande stanza
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d’ingresso, e tutti in silenzio e con le braccia conserte!
Ricordo che, quando il primo giorno andai a riprenderlo, lo trovai seduto attorno al
grande tavolo, impegnato appunto, assieme a tutti gli altri bambini, nel gioco del
silenzio.
Quello spettacolo, a essere sincero, mi sembrò subito piuttosto surreale, ma non gli
diedi peso, Massimiliano invece no.
Figurarsi, abituato com’era a scendere giù da solo, davanti casa, ogni volta che voleva
giocare con gli altri bambini del vicinato! E poi il silenzio: non ho ancora incontrato
bambini che lo amino molto!
Così quel primo impatto rappresentò un trauma per lui.
Conclusione: il giorno dopo già non voleva andare più alla scuola materna, noi
naturalmente insistemmo e prese anche qualche schiaffo da me, ma non ci fu niente
da fare: dopo tre-quattro giorni dovemmo rassegnarci, perdendo anche l’anticipo di tre
mesi dato alle suore.
Negli anni seguenti, quando eravamo già tornati a Chieti e Stefano frequentava la scuola
materna del Sacro Cuore, gestita anch’essa dalle suore, Massimiliano che aveva iniziato
le elementari (a Sant’Anna) spesso, uscendo da scuola, non aspettava che arrivasse la
madre e da solo si incamminava verso casa, con una sosta però al Sacro Cuore dove
raggiungeva il fratello e si metteva a giocare con lui e lì lo trovava poi la madre: aveva
scoperto una scuola materna dove non c’era il gioco del silenzio!
Stefano invece aveva tutt’altro carattere: meno capriccioso, più riservato e meno
espansivo del fratello, anche se altrettanto curioso e vivace ma in un modo tutto sommato
tranquillo. Caratteri diversi, insomma, ma tra di loro i due fratelli si sono subito intesi.
Stefano è nato il 15 ottobre del 1967, a tre anni e qualche mese di distanza da
Massimiliano; ed eravamo a Vasto ormai già da più di un anno.
Il nuovo lieto evento si verificò tuttavia a Chieti, nella vecchia sede del SS. Annunziata,
perché mia moglie, quando cominciò ad avvicinarsi il momento del parto, preferì, per
ragioni facilmente comprensibili, tornare a Chieti, presso i suoi genitori portando con
sé anche Massimiliano.
Io naturalmente non la seguii, ma rimasi a Vasto. Ed essendo solo e non sapendo
cucinarmi un bel niente, ricordo che in quel periodo, che durò circa un mese, andavo
quasi tutti i giorni a pranzo, a prezzi assai morigerati, da Peppino Zaccaria (Peppino,
assessore durante l’Amministrazione Faro-PCI, non era solo un compagno ma anche
un amico), al ristorante Olimpo che egli gestiva allora assieme alla moglie, una donna
bella e simpatica, la sera invece mi accontentavo di qualche mozzarella o di un po’ di
prosciutto e formaggio. Così capitò che io apprendessi della nascita di Stefano solo,
come dire, a cose fatte.
D’altra parte, di quel che accadeva a Chieti in quei giorni io non potevo sapere che poco
o nulla.
Solo ogni tanto, infatti, ricevevo nella sede del Comitato di zona qualche telefonata da
parte di Rosetta, fatta in federazione, perché in casa né io né i miei suoceri avevamo
il telefono e perciò, se pure fosse accaduto all’improvviso qualcosa di importante, era
difficile che io ne venissi subito a conoscenza.
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E così quel giorno, solo dopo la mezzanotte, al mio ritorno dalla riunione in una delle
tante sezioni del vastese, venni a sapere della nascita di Stefano: trovai, infilato sotto la
porta, un biglietto del nostro padrone di casa che abitava nella nostra stessa palazzina e
al quale mia suocera aveva telefonato dall’ospedale, in cui mi avvertiva che il bambino
era nato, era andato tutto bene ed era un maschio.
Io, rassicurato, andai naturalmente a dormire tranquillo e me la presi comoda anche il
giorno dopo, arrivando in ospedale intorno a mezzogiorno.
Questa mia tranquillità non fu però di gradimento di Rosetta. E non vi dico perciò, mie
care nipoti, quel che mi disse, al momento del mio arrivo, vostra nonna che si aspettava
invece (forse a ragione) che io corressi da lei di primo mattino!
Massimiliano, che ormai ne aspettava la nascita da tempo, fu tutto contento dell’arrivo
del fratellino. E non diede segni, almeno apparenti, di gelosia.
E’ vero, S. Agostino, in quel libro bellissimo e straordinario che sono le Confessioni,
parlando della sua infanzia avverte i lettori che la innocenza dei bambini risiede solo
nella fragilità delle membra, non nell’anima: “...imbecillitas membrorum infantilium
innocens est, non animus infantium”; e cita tra gli atti non innocenti di quell’età, che
gli adulti tollerano con indulgenza solo perché “aetatis accessu peritura sunt”, sono
destinati a sparire col crescere degli anni, la gelosia.
Tuttavia, Massimiliano e Stefano stavano bene assieme.
Certo, ogni tanto bisticciavano; e neppure mancavano manifestazioni evidenti di
gelosia.
Ricordo, anzi, come una certa gelosia da parte di Massimiliano si manifestasse addirittura
ancora prima che Stefano nascesse. Soprattutto ricordo quel che accadeva ogni volta
che da Vasto tornavamo a Chieti, quando Rosetta era ormai incinta grossa di Stefano.
Viaggiavamo allora con una Fiat 500 piuttosto sgangherata, con spazi a disposizione
quindi già assai ristretti che però si rimpicciolivano sempre di più con l’andare avanti
della gravidanza, a causa proprio di Massimiliano. Il quale si rifiutava di stare solo, sul
sedile di dietro, e pretendeva di viaggiare davanti, in braccio alla madre, nonostante il
pancione già bello grosso...
Era chiaro che non sopportava che il fratellino gli impedisse di viaggiare nelle braccia
della madre. Così Rosetta doveva sobbarcarsi una fatica supplementare, oltre quella di
un viaggio interminabile e di per sé già disagevole su una strada, l’Adriatica, piena di
curve e invasa da un esercito di mezzi pesanti perché all’epoca lungo di essa si svolgeva
tutto il traffico Nord-Sud e viceversa.
Ma dopo la nascita di Stefano manifestazioni così evidenti di gelosia non ne ricordo.
Anzi, sin da piccoli si è stabilita tra loro una solidarietà che non è mai venuta meno nel
tempo, anche quando si sono inoltrati nel “consorzio procelloso della vita umana”, per
riprendere un altro passo delle Confessioni, e che appare salda ancora oggi. Quando,
ad esempio, Stefano torna da Pisa, Massimiliano di solito passa buona parte del suo
tempo a casa nostra, a chiacchierare col fratello, e la stessa cosa fanno Valentina e
Benedetta per stare con Elisa e Martina e giocare con loro. E non mancano naturalmente
di telefonarsi spesso durante il resto dell’anno.
Quand’erano ormai grandicelli, eravamo già tornati a Chieti, ricordo che la sera, dopo
essersi ficcati a letto, non riuscivano ad addormentarsi se prima non avevano fatto una
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lunga chiacchierata tra di loro tanto che a volte, a un certo punto, li dovevamo sgridare
perché si addormentassero subito, nella speranza che, il mattino dopo, avrebbero fatto
meno storie per svegliarsi.
In pratica, l’arrivo di Stefano fu per Massimiliano l’arrivo di un compagno di giochi.
Ma anche per Stefano l’avere un fratellino più grande lo mise in una condizione di
vantaggio rispetto a quando Massimiliano era solo in casa e non aveva compagni di
gioco della sua età.
Forse anche questo contribuì a fare di Stefano un bambino tranquillo. Non che anche
lui non amasse gironzolare per casa prima con il girello e poi con le sue gambe e che
anche lui non combinasse monellerie di vario genere, ma esse non ci hanno mai creato
problemi o apprensioni particolari.
Solo una volta, quand’eravamo ancora a Vasto, Stefano ci mise in grandi ambasce, ma
non per colpa sua, piuttosto per una fatalità che, per fortuna di tutti, si risolse poi senza
grandi traumi né fisici né psicologici.
Era il ferragosto del 1968, la mattina io ero uscito e aspettavo l’ora di pranzo
chiacchierando in Piazza Diomede con i compagni, mentre Rosetta era rimasta a casa
a cucinare.
I bambini naturalmente erano con lei, e Stefano come al solito andava da una camera
all’altra della casa con il girello.
Insomma, una normalissima mattinata di una altrettanto normale giornata di festa di
mezzo agosto...
Ma quel giorno il diavolo decise di rovinarci la festa, e così fummo a un passo dalla
tragedia!
Ricordo ancora oggi lo spettacolo che mi si presentò quando, verso l’una, tornai a casa:
Stefano che s’era rovesciato addosso l’acqua bollente della pentola e che si disperava
per il dolore, mia moglie e Massimiliano spaventati e naturalmente molto preoccupati!
Era accaduto che, mentre Rosetta stava cucinando, il coperchio della cucina a gas si
chiudesse di colpo, facendo così rovesciare a terra tutto ciò che in quel momento si
trovava sopra il piano di cottura: il girello di Stefano, che era entrato di corsa nella
stanza, aveva urtato violentemente contro la porta della cucina che a sua volta era andata
a sbattere contro la cucina a gas situata proprio lì dietro!
Cercammo subito la pediatra che seguiva Stefano dopo il suo ritorno da Chieti, una
signora già piuttosto in là con gli anni che abitava a Vasto marina.
Essa accorse immediatamente, rassicurandoci anche sull’entità delle scottature; e anche
in seguito si dimostrò molto sollecita e brava, seguendo con premura e amorevolezza
il bambino fino alla completa guarigione, per i primi dieci giorni anzi venne tutti i
giorni a casa (l’andavo a prendere io, con la mia 500, a Vasto marina) per le necessarie
medicazioni.
Per fortuna, le scottature non erano molto profonde ed erano circoscritte: l’acqua
bollente aveva colpito Stefano solo di rimbalzo, dopo aver toccato terra; e le scottature
si limitavano in pratica solo ai piedi e ai malleoli, mentre il resto del corpo era rimasto
indenne.
E poi, Rosetta, che in quel momento si trovava in cucina, era intervenuta subito, senza
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lasciarsi paralizzare dallo spavento, spogliando il bambino e liberandolo degli abiti
inzuppati dell’acqua bollente caduta dalla pentola, mentre la signora dell’appartamento
di fronte, accorsa subito, spargeva Foille (un medicinale per le scottature) sui punti
colpiti, era accorso inoltre anche il nostro padrone di casa, medico, a prestare le prime
cure.
Anche Stefano si riprese abbastanza rapidamente dalla paura, l’unico trauma che si
portò dietro fu che ci mise ancora qualche mese per andarsene in giro da solo, quando
invece già in quei giorni sembrava che fosse lì lì per abbandonare il girello.
Negli anni che siamo restati a Vasto, Massimiliano e Stefano poterono godere della
compagnia di parecchi bambini della loro età e anche di qualcuno più grande.
C’erano Silvietta e il fratellino più piccolo che abitavano di fronte, figli di un ingegnere
della SIV arrivato dal Nord (la moglie, una signora gentilissima, che ci ha sempre dato
una mano nelle situazioni di emergenza, era invece romana), c’era poi Rita, la figlia
dello spazzino del primo piano che era la più grande dei bambini della palazzina e
che la faceva un po’ da padrona nei confronti dei più piccoli, non sempre però essi
tolleravano le sue prepotenze e così ogni tanto accadeva che il gioco finisse in lite
e ciascuno si riprendesse i suoi giocattoli e si ritirasse sdegnato nelle proprie stanze,
bastava naturalmente poco perché tutto poi tornasse come prima.
Tra i piccoli della palazzina c’era anche il secondo figlio del medico, qualche mese più
grande di Stefano, raramente però la madre lo lasciava giocare con gli altri bambini.
C’erano poi i ragazzini delle palazzine vicine, case popolari, e di una famiglia di
contadini a quattro passi da noi con i quali Massimiliano e Rita scendevano spesso a
giocare (Stefano cominciò ad accodarsi appena imparò a camminare da solo).
D’altra parte, abitavamo in una zona nella quale i bambini erano sicuri e potevano
giocare tranquilli.
La presenza di bambini nel palazzo e nel vicinato e la possibilità che essi avevano di
incontrarsi e giocare tra loro per quasi tutto il giorno senza che i genitori dovessero
continuamente preoccuparsi ed essere presenti aiutò naturalmente sia Massimiliano che
Stefano a crescere più rapidamente.
Da questo punto di vista, anzi, il fatto che Massimiliano avesse qualche anno più del
fratello lo investì, come dire, di una certa responsabilità nei confronti di Stefano; e
Stefano a sua volta aveva in Massimiliano il suo punto di riferimento quando si
trovavano, senza la presenza della madre, a giocare con gli altri bambini.
In genere, i bambini più grandi avvertono questa responsabilità. Lo dico anche sulla
base della mia esperienza personale.
Ricordo, ad esempio, di quando avevo fra i tre e i quattro anni e scendevo a giocare con
mia sorella, più piccola, nel tratturo di fronte a casa nostra, sotto le enormi e antichissime
querce che oggi non ci sono più.
Allora abitavamo in paese, a lu quart’abballe, nella parte bassa del paese, all’altezza
dell’imbocco della provinciale per Lanciano: i bambini nel quartiere erano tantissimi
e di solito, nelle belle giornate di primavera e d’estate, ci ritrovavamo tutti assieme a
giocare sul prato, c’ero anch’io ovviamente e c’era mia sorella e mi toccava spesso
difenderla contro le prepotenze dei più grandi.
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Questa differenza d’età comportò anche che, mentre Massimiliano, all’età di Stefano, le
domande le faceva a me e alla madre, Stefano invece le faceva più spesso al fratello che
a noi. E’ un’abitudine che Stefano ha conservato anche crescendo, e che ha contribuito
certamente anch’esso a rendere più forte il loro legame.
Questo naturalmente non ha mai significato per noi non preoccuparci, non solo della
loro crescita fisica, ma anche della loro formazione intellettuale e psicologica.
Non ho mai dimenticato una cosa che diceva mia madre a proposito dei figli: i figli
sono come gli uccelli, non devono restare nel nido ma imparare a volare e, quando
cominciano a sentirsene capaci, bisogna lasciarli liberi di farlo.
Ho sempre inteso queste parole di mia madre come un invito a educare i figli all’autonomia
e alla responsabilità, fornendo loro però contemporaneamente gli strumenti necessari
per un approccio critico alla realtà e al rapporto con gli altri.
Certo i figli vanno anche protetti, ma è questo certamente il modo migliore per
proteggerli.
Dice un proverbio abruzzese: Chi lu fije sé tropp’accarezze, nin sentirà allegrezze: era
anche questo che intendeva mia madre.
Da questo punto di vista, ho sempre pensato anche che con i figli, come in generale con
i giovani, si deve parlare; ma parlare deve significare ascoltare, discutere, confrontarsi,
non assecondarli e magari dar loro sempre ragione per tenerli buoni o, quando incontrano
delle difficoltà, attribuire sempre a qualcun altro le cause di queste difficoltà, non c’è
niente di più diseducativo di un atteggiamento del genere.
Lasciarli volare, dunque, anzi incoraggiarli e sostenerli a intraprendere il proprio volo
nella vita. Che non significa ovviamente perderli di vista, abbandonarli al proprio
destino.
Quando, ad esempio, ormai grandicelli, la sera pensavano di tornare piuttosto tardi, non
abbiamo mai chiesto ai nostri figli di non andare, abbiamo sempre preteso invece che ci
dicessero dove andavano e a che ora sarebbero tornati.
Sono, inoltre, andati in vacanza da soli, senza troppe storie da parte nostra, quando
hanno pensato che potessero farlo. Ricordo che Rosetta spesso si preoccupava, per
questo come per altre cose; ma la conclusione era sempre la stessa: debbono imparare
a volare.
Anche le loro amicizie le abbiamo sempre tenute d’occhio, discutendo con loro se c’era
qualcosa che non ci piaceva.
E debbo dire che né noi di questo nostro modo di impostare il rapporto con i figli ci
siamo mai pentiti, né loro se ne sono mai lamentati.
Abbiamo cominciato, tra l’altro, anche presto a dare loro autonomia e responsabilità.
Ricordo, ad esempio, che il regalo che facemmo a Massimiliano quando compì i tre
anni, eravamo a Vasto, fu quello di dargli la chiave di casa; e la stessa cosa facemmo
con Stefano quando già eravamo tornati a Chieti e la situazione si presentava un po’
meno tranquilla che a Vasto.
Ricordo anche che, quando erano più grandi (forse Massimiliano frequentava già
le medie e Stefano le elementari), decidemmo di dar loro una paga settimanale, per
abituarli a calcolare bene le loro spese in modo da non restare senza soldi fino alla
prossima paga. Con quei soldi dovevano comprarci tutto, fatte salve naturalmente le
160
spese di competenza familiare per scarpe, vestiti, scuola, ecc.
Commettemmo però un errore nel quantificare le somme di spettanza di ciascuno: a
Massimiliano, più grande, decidemmo di dare il doppio che a Stefano.
La prima settimana andò tutto liscio: si misero d’accordo tra loro per comprare assieme,
ad esempio, i giornalini o altre cose a cui erano interessati tutti e due, quel che restava
ognuno poi lo spendeva per sé.
Ma non passarono molti giorni da quell’accordo che Stefano, deciso a far valere i
suoi diritti, venne a reclamare: voleva anche lui la stessa paga del fratello perché, per
comprare il giornalino, spendeva come Massimiliano e gli restava poco per il gelato o
altre spese voluttuarie. Non potemmo ovviamente che dargli ragione e rimediare.
Stavamo anche attenti a coinvolgerli nella vita familiare. Ci sembrava giusto che
anche loro si rendessero conto dei problemi, a partire da quelli finanziari, che c’erano
in famiglia, la famiglia doveva essere loro anche in questo senso. Anche perché non
navigavamo certo nell’oro; ed era bene che anche loro lo sapessero, sapessero soprattutto
che la vita è anche fatica e lavoro e non soltanto gioco.
Li abbiamo così sempre seguiti, ma non togliendo mai loro autonomia e libertà di
decisione.
Naturalmente, è stata Rosetta che ha dedicato più tempo alla loro educazione.
La sua presenza da questo punto di vista è stata davvero una presenza quotidiana; ed è
stata lei soprattutto che si è preoccupata dei figli nelle varie circostanze della loro vita,
finché sono vissuti con noi. Anche per la scuola è lei che li ha seguiti, non mancava mai
agli incontri con gli insegnanti o alle varie riunioni organizzate dalla scuola, finendo
così per essere eletta dai genitori degli alunni rappresentante di classe sia alle medie
che al liceo.
A causa del mio lavoro, che non conosceva orari, io invece non avevo tempo per
stare con assiduità dietro i bambini, sapevo però sempre tutto sul loro conto: Rosetta,
quando la sera tornavo a casa (di solito tardi), mi informava sempre di quel che era
accaduto durante il giorno e anche di quello che avevano fatto e detto i figli, magari
raccomandandomi, quando avevano combinato qualche marachella, di far finta di
niente...
Tuttavia, ogni volta che ho potuto, sia quando erano piccoli che quando si sono fatti
ragazzini, ho cercato di stare con loro e di chiacchierare e discutere di tante cose.
Ricordo, ad esempio, che spesso la domenica pomeriggio ci sdraiavamo tutti e tre
sul letto, io Stefano e Massimiliano, e chiacchieravamo. Di solito, mi raccontavano
o chiedevano delle cose, mentre io approfittavo dell’occasione non solo per leggere
o inventare delle favole (il libro che i bambini preferivano erano le Fiabe italiane di
Calvino, lo stesso che piaceva a Valentina quand’era piccola), ma anche per trasmettere
loro la mia visione laica della vita e del mondo o per dare loro la consapevolezza dei tanti
problemi che la gente doveva affrontare e della fatica che costava cercare di migliorare
la propria condizione.
Qui, se me lo consentite, un ricordo nel ricordo: nel periodo in cui c’erano le lotte delle
operaie della Marvin Gelber, imbastimmo assieme un giornalino, che restò numero
unico, dal titolo Cipollino (è il nome del piccolo eroe-cipolla di Gianni Rodari), per far
capire loro le ragioni e gli obiettivi di quelle lotte.
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Discutevamo spesso anche delle grandi questioni, che io cercavo di presentare nel
modo più semplice possibile, tenendo conto della loro età: l’origine della vita, parlando
di Darwin e della teoria dell’evoluzione, l’esistenza di Dio, la religione, la morte...,
avendo sempre la preoccupazione di fornire loro una visione razionale, laica, calata
nella storia, di queste grandi questioni, l’uomo insomma come centro e protagonista
della propria storia.
Ho sempre evitato però che a queste, come ad altre questioni, essi si accostassero con
animo fazioso, settario: fermi sì nelle proprie convinzioni e determinati a farle valere,
ma anche pronti a confrontarle, con spirito aperto, con le opinioni altrui.
Anche per le questioni politiche, ho cercato di insegnare loro a ragionare, a muoversi
sempre con un atteggiamento critico, non pregiudiziale, e proprio per questo mai
abbiamo chiesto loro di iscriversi al partito o di scegliere la via della militanza attiva: o
questo era una loro scelta autonoma e consapevole o niente...
Vedo, mie care nipoti, che, parlando di quando erano piccoli i vostri papà, dei loro
giochi, delle loro prime avventure, delle loro esperienze e anche della loro educazione,
mi sono lasciato prendere un po’ la mano dimenticando che “li lunghi capitoli, come
dice Dante nel Convivio, sono inimici della memoria”.
Di essi parlerò sicuramente anche in seguito, ma “basti alla presente digressione” quel
che finora ne ho scritto. E’ il caso invece di riprendere il racconto della mia nuova
avventura nel vastese.
Quando siamo arrivati a Vasto, con al seguito il grosso camion che trasportava le
nostre cose, in città imperversavano già le polemiche, a volte anche molto violente, in
vista delle elezioni amministrative dell’autunno che si erano rese necessarie perché le
precedenti elezioni, tenutesi alla fine del 1966, si erano concluse con un pareggio fra la
DC da un lato e il Faro e il PCI dall’altro, con la nomina -di conseguenza- da parte del
Ministero dell’Interno del commissario prefettizio che, com’era prevedibile, si era però
subito messo a disposizione della DC.
La ragione di tante polemiche era semplice. Si presentava per la prima volta in città
la possibilità che la DC venisse estromessa dal governo del Comune, come poi di
fatto avvenne, a favore di una coalizione formata dal PCI e da una lista civica, il Faro,
composta per gran parte di ex-democristiani e spezzoni di altre formazioni politiche
vastesi.
Elezioni importanti, dunque, destinate ad avere riflessi politici anche al di là delle mura
cittadine.
La scoperta del metano e le lotte che ne erano seguite stavano all’origine di questa
situazione.
All’inizio degli anni ‘60, la DC disponeva di un potere assoluto sia a Vasto che nella
zona e davvero non si muoveva foglia che lei non volesse, anche per le fortune dei
singoli oltre che delle varie comunità!
Ma le lotte per il metano avevano smosso profondamente le acque, mettendo in
movimento una situazione che sembrava ormai destinata all’immobilità.
Non solo. Esse avevano anche provocato rotture verticali all’interno dei gruppi dirigenti
democristiani. E questo, in occasione delle elezioni, fu particolarmente evidente, con
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tutta una parte della DC e dei ceti dominanti cittadini schierata con Ciccarone, l’uomo
che aveva fatto nascere il Faro, contro Gaspari.
La DC vastese, durante le lotte per il metano, aveva scelto non gli interessi della città,
ma quelli di un sistema di potere che faceva perno appunto su Gaspari e i suoi uomini e
che a Vasto non riservava certo un ruolo adeguato all’importanza e alle ambizioni della
città, e per questo gli elettori la punirono.
Per me, non fu difficile ambientarmi rapidamente nella nuova realtà di Vasto; e lo stesso
appuntamento elettorale, con il quale dovetti subito cimentarmi, non rappresentava
affatto un problema.
La città la conoscevo ormai da tempo, già dagli anni delle lotte per il metano; e, quanto
alle imminenti elezioni, l’anno precedente vi avevo soggiornato addirittura per un paio
di mesi, per aiutare la sezione durante il primo round del lungo scontro elettorale che
nella metà degli anni ‘60 infiammò Vasto.
Questa volta però non mi fermai solo il tempo della campagna elettorale. Avevo scelto
invece la strada di un impegno stabile, e questo cambiò subito il mio rapporto sia con i
compagni che con la realtà cittadina, insomma diventai anch’io un po’ vastese, partecipe
quindi anch’io dei problemi di quella realtà e non solo uno che viene da fuori e dà una
mano pronto però a fare al più presto le valige.
I compagni, tra l’altro, mi accolsero bene, c’era ormai tra di noi una dimestichezza
antica che mi fu poi molto utile nel mio lavoro. La stessa cosa accadde con i compagni
della zona, soprattutto dei comuni dove il partito era più forte.
I compagni, insomma, mi espressero una fiducia che si mantenne poi viva nel tempo,
anche dopo il mio ritorno a Chieti; e credo di aver corrisposto sufficientemente a
questa fiducia, aiutandoli ad affrontare i problemi nuovi, dall’industrializzazione alla
modernizzazione dell’agricoltura, che si posero in quegli anni, oltre che a Vasto, in tutto
il Vastese.
A essere sincero, ho passato a Vasto anni molto belli e anche importanti per me.
Innanzitutto dal punto di vista politico: furono, da questo punto di vista, anni straordinari
che mi consentirono anche una maturazione politica e intellettuale particolarmente
intensa.
Ricordo che, quando Claudio Petruccioli arrivò in Abruzzo, a dirigere in sostituzione di
Federico Brini il PCI regionale, mi venne fatta la proposta di andare a lavorare con lui
a Pescara, nel Comitato regionale. Io però rifiutai.
Mi parve più utile concludere quella esperienza che mi metteva a contatto diretto con un
mondo in trasformazione e con i suoi numerosi protagonisti: i sottoproletari, molti dei
quali si trasformarono in quegli anni in operai, e gli artigiani di Vasto, i contadini così
moderni di S. Salvo, la nuova classe operaia della SIV costituita, per tanta parte, anche
da molisani pisani campani romani, gli studenti così vivaci e artefici anche a Vasto di un
‘68 che incise profondamente nella vita della città e della zona.
Assai ricca di insegnamenti fu, per me, la stessa esperienza amministrativa di quegli
anni, segnata -com’essa fu- da alti e bassi e per la precarietà dei numeri (la coalizione
Faro-PCI aveva appena 16 consiglieri contro i 14 della DC) e per i mille bastoni che la
DC mise tra le ruote della Amministrazione comunale, utilizzando il governo nazionale
163
e gli apparati burocratici. E anche di qualche soddisfazione perché se pure, nel ‘72, il
Faro si volatilizzò e noi tornammo all’opposizione, tuttavia quella inedita collaborazione
tra il PCI e una lista civica come il Faro produsse, nonostante tutto, risultati importanti
per la crescita e la modernizzazione della città. Risultati ai quali, tra l’altro, il contributo
del PCI non fu affatto di poco conto, anche se -dopo la morte improvvisa di Laporesefummo costretti a utilizzare soprattutto forze giovani, con una assai scarsa esperienza e
politica e amministrativa alle spalle.
Domenico Laporese morì infatti appena qualche mese dopo le elezioni, prima che
venisse raggiunto un qualunque accordo col Faro. Fu per noi e per la città, con la quale
Mimì aveva un legame antico e profondo, una grave perdita. Ma fummo ugualmente in
grado di andare avanti.
Ricordo i suoi funerali.
Quel pomeriggio ci fu una partecipazione di popolo senza precedenti! Anche se la
cerimonia funebre rischiò di venire turbata dalla pretesa arrogante del prete (i familiari
avevano deciso per il rito religioso) di impedire la presenza al corteo delle bandiere della
sezione. Per fortuna quel giorno, non ricordo più per quale motivo, Loris Capovilla,
l’ex segretario di papa Giovanni XXIII e allora arcivescovo dell’archidiocesi di ChietiVasto, era in città: chiedemmo allora d’incontrarci con lui e fu proprio questo incontro
che sbloccò la situazione, così anche le bandiere del PCI, il suo partito, poterono sfilare
e rendere l’estremo omaggio al povero Laporese!
Anche dal punto di vista umano, furono per me anni particolari.
Il mio tempo libero, quand’ero a Vasto, lo passavo di solito con i compagni; con alcuni
di essi poi si era creata un’amicizia che purtroppo non ha resistito al logorio del tempo
e alla lontananza. Ho poi avuto modo di conoscere anche tanta gente fuori del partito,
ma vicina alla sinistra, di cui conservo ancora oggi un buon ricordo.
La vicenda politica di quegli anni mi portò anche a stringere rapporti con un mondo che
era normalmente estraneo al PCI.
Parlo ad esempio del rapporto, sia pure abbastanza occasionale, con Ciccarone, l’uomo
che, fino al ‘72, aveva guidato le sorti dell’Amministrazione comunale.
Silvio Ciccarone apparteneva a quello che era allora il ceto alto cittadino, legato
soprattutto alla rendita fondiaria, nel quale erano ancora presenti certi valori culturali
e civici ai quali sembrava invece del tutto estranea la nascente borghesia cittadina,
impegnata prevalentemente nell’edilizia e nella relativa attività speculativa.
Di Ciccarone ricordo in particolare un episodio che si verificò, se la memoria non mi
tradisce, nel 1973, quando ormai da più di due anni avevo lasciato Vasto.
Quell’anno avevamo deciso, io e mia moglie, di far respirare un po’ d’aria di montagna
ai nostri figli. E così affittammo, da un compagno di Torricella Peligna, una casa per
tutto il mese di agosto, con grande soddisfazione sia di Massimiliano che di Stefano che
si divertirono un mondo (ci tornammo anche l’anno dopo, ma la vacanza si concluse
bruscamente con un cascatone di Stefano che stava facendo le corse in bicicletta con
il fratello su un tratto di strada brecciato non lontano da casa, molte scorticature alle
braccia e alle gambe e la corsa frenetica dal medico del paese).
Un giorno decidemmo di pranzare fuori, all’aperto, viste le belle giornate, nell’area
archeologica di Juvanum, l’antica città preromana all’epoca ancora tutta da scoprire.
164
Ma avevamo appena finito di mangiare e stavamo tutti sdraiati per terra a riposare
quando vedemmo spuntare, a qualche centinaio di metri da noi, un gruppetto di persone
dal quale all’improvviso si stacca un signore di una certa età, dirigendosi verso di noi. E
chi era? Era appunto Silvio Ciccarone che mi aveva riconosciuto e veniva a salutarmi:
davvero un gentiluomo d’altri tempi!
A Vasto, inoltre, i miei figli (e anche noi, per la verità) cominciarono a conoscere e
apprezzare il mare, le gite e le ferie.
Da questo punto di vista, il mare di Vasto era un richiamo formidabile. Un arenile
splendido, la cui bellezza si ammira ancora oggi dal belvedere orientale su cui spicca
la mole massiccia ed elegante di Palazzo D’Avalos, anche se esso è oggi parecchio
deturpato rispetto a quegli anni quando il turismo era pressoché inesistente.
Ricordo anche le gite di quegli anni, con la famiglia di Rita.
Ne ricordo soprattutto una, alla chiesa di Canneto, a ridosso del letto del Trigno, il fiume
che divide l’Abruzzo dal Molise, nel tratto in cui la valle, assai stretta, ha sulla destra
Trivento, antica e decaduta cittadina molisana, e sulla sinistra Celenza, un paesino
appollaiato sulla cima della collina da cui si gode un vasto panorama che abbraccia
anche parte della provincia di Campobasso e nella cui chiesa madre si trova la tomba
dei principi D’Avalos-Pignatelli.
Canneto, dove passammo una bellissima giornata e i bambini si divertirono a giocare
con l’acqua del fiume (la portata era proprio scarsa), è poco più che un casolare,
alcuni reperti archeologici di un certo interesse e la chiesetta che, se non erro, risale
al Medioevo ed è di un certo pregio architettonico; e mi era noto perché parecchi anni
prima, quand’ero ancora a Orsogna, avevo letto il libro così pieno di fascino di Felice
Del Vecchio, appunto La chiesa di Canneto, che ai suoi tempi aveva vinto il premio
Viareggio, peccato che poi Felice, un compagno, nativo di Castiglione Messer Marino,
che ho conosciuto dopo il mio ritorno a Chieti, non abbia mantenuto le promesse di
quel libro.
Di quegli anni vi sono anche molti altri ricordi legati direttamente alla mia attività
politica. Ricordi di compagne e compagni straordinari dei quali ho potuto apprezzare la
generosità, l’intelligenza, l’acume politico ma anche la saggezza tipica, ad esempio, dei
contadini che allora esprimevano il grosso dei gruppi dirigenti del partito in quasi tutte
le sezioni del Vastese.
Un particolare ricordo di quella stagione della mia vita e della mia attività politica è
quello dei tanti giovani che proprio in quegli anni, anche grazie al mio rapporto con
loro, approdarono al PCI: alcuni di essi mi capita ogni tanto di incontrarli ancora e
naturalmente mi fa piacere il fatto che da parte loro non sono venuti meno, nonostante
gli anni, la stima e l’affetto nei miei confronti.
Quando arrivai a Vasto, i giovani non frequentavano affatto la nostra sezione. Dopo
pochi mesi però qualcuno cominciò ad avvicinarsi.
Si trattò, all’inizio, di un gruppetto capeggiato da Daniele Menna e dai suoi fratelli
più piccoli e alcuni altri ragazzi; e ricordo che il loro debutto politico furono la
manifestazione che organizzammo in città nel maggio del ‘67 per il Vietnam e la Grecia
e poi, qualche mese dopo, la festa de l’Unità.
L’afflusso più consistente di giovani si ebbe invece durante le lotte studentesche che
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si svolsero a Vasto tra il ‘68 e il ‘69, lotte legate, come del resto in tutta Italia, alle
condizioni concrete di vita degli studenti.
Nel caso di Vasto ad accendere la miccia degli scioperi e delle manifestazioni fu la
situazione dei trasporti urbani che la precedente Amministrazione democristiana aveva
affidato a Tessitore.
Ricordo che, quando ci furono le prime manifestazioni, la DC, costretta all’opposizione
dopo la sconfitta dell’autunno del ‘67, tentò di scagliare la rabbia degli studenti contro
l’Amministrazione comunale di cui noi facevamo parte. Ma il gioco non le riuscì.
L’Amministrazione infatti, anziché chiudersi, aprì subito un dialogo con gli studenti,
con la convocazione di una assemblea pubblica alla quale essi parteciparono in massa.
Il partito, inoltre, non solo non si tirò indietro rispetto agli attacchi che arrivavano da
gruppi fascisti e filodemocristiani, ma avviò anch’esso un suo confronto diretto con
gli studenti: in prima fila i ragazzi che erano già nel PCI, ed essi non si limitarono solo
a distribuire i nostri volantini nel corso delle manifestazioni, ma discussero, anche a
brutto muso se necessario, con quella parte di studenti, assai numerosa, che di solito ci
attaccava da sinistra.
Ricordo che anch’io partecipavo a questi dibattiti per strada, dicendo senza peli sulla
lingua le ragioni dei comunisti, fuori di ogni paternalismo peloso che è presente in tanti
adulti, i quali pensano che in fondo non è il caso di perdere troppo tempo con i giovani,
tanto poi capiranno con l’avanzare degli anni, e tanto meno trattare con loro alla pari,
impegnandosi in una discussione seria e senza concessioni all’età.
Tra i tanti giovani che cominciarono allora a frequentare in maniera stabile la sezione e
a svolgere anche attività nel partito, certamente il più dotato dal punto di vista politico
era Giustino Rossi.
Oltre all’acume politico, egli aveva anche buone capacità organizzative e soprattutto
non gli mancava la voglia di lavorare, non a caso del resto egli assunse in seguito
responsabilità di primo piano sia nella CGIL che nell’Alleanza Contadina; e sicuramente
avrebbe avuto un ruolo importante anche nel partito se un destino crudele non avesse
reciso la sua vita nel fiore degli anni.
Ma, come dice Virgilio, ut fata trahunt...
Giustino, poi, accompagnava a queste sue caratteristiche anche una buona cultura e una
sensibilità rara che ne accrescevano sicuramente il fascino presso i compagni.
Anche quella irrequietezza culturale ed esistenziale che l’ha accompagnato per tutta la
vita era un tratto tutto suo; e ciò ne faceva un dirigente politico diverso dagli altri. Egli
era un po’ come quegli uccelli di passo, dei quali canta Montale in Dora Markus, che
urtano ai fari / nelle sere tempestose, e sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli per
rendere viva e feconda l’esistenza propria e degli altri.
Di quegli anni vi sono anche ricordi legati alla mia attività politica ma che coinvolgono
pure mia moglie e i miei figli.
Ho molto vivo, ad esempio, il ricordo della campagna elettorale amministrativa di
Lentella della tarda primavera del 1967, per quel che capitò a Massimiliano il giorno che
io e Rosetta, già incinta di Stefano, salimmo in paese per dare una mano ai compagni.
Lentella è uno di quei comuni che è rimasto nella memoria della gente e nella storia
delle lotte per il lavoro di cui sono stati protagonisti braccianti e contadini poveri del
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Mezzogiorno nell’immediato dopoguerra, segnate spesso dalla caduta di lavoratori
ammazzati dalle forze dell’ordine (era l’epoca di Scelba) come nel caso dei due
braccianti di questo paesino colpiti a morte dal fuoco dei carabinieri durante uno
sciopero a rovescio, per il lavoro.
In quegli anni, nel vastese tanti piccoli comuni erano politicamente spaccati a metà;
e spesso, come a Lentella, c’era un sostanziale equilibrio delle forze per cui non era
scontata la vittoria di nessuno. Di conseguenza, i toni della campagna elettorale erano
sempre molto accesi, a Lentella anzi, proprio per la sua storia e anche per il carattere
dei suoi abitanti, forse lo erano molto più che altrove. Accadeva poi che, in essi, la parte
della popolazione più impegnata nelle campagne elettorali fosse in genere costituita
dalle donne, anche se le liste erano invece fatte di soli uomini, i pochi scampati
all’emigrazione.
Anche a Lentella, paese di grande emigrazione dopo le sconfitte subìte dai movimenti
per il lavoro nel Mezzogiorno, le donne erano sempre state, come a Comino, le vere
animatrici della sezione e delle campagne elettorali, ma non avevano diritto alla
rappresentanza nelle istituzioni.
Non era la sola realtà in cui questo avveniva, si trattava anzi di una condizione assai
diffusa nel Mezzogiorno. Né, d’altro canto, le donne stesse percepivano questo fatto
come una privazione di diritti, per la grande parte di esse rientrava anzi nell’ordine delle
cose normali; e doveva passarne davvero ancora tanto di tempo prima che anche nel
PCI le donne prendessero coscienza dei propri diritti e si ponessero tra le protagoniste
più decise del movimento per la emancipazione femminile nel nostro Paese.
Ma torniamo al racconto di quella giornata.
Doveva essere una domenica e ricordo che quel giorno, mentre io ero occupato con
i compagni non so per quale iniziativa, Rosetta, portandosi dietro Massimiliano e il
pancione già piuttosto prominente, girava invece con un gruppo di compagne per le
case del paese.
A una certa ora, sul tardo pomeriggio, ci ritrovammo tutti nella casa di una compagna.
Non ricordo più se cenammo anche da lei, ricordo comunque che, mentre si parlava
dei risultati del lavoro fatto e dell’andamento della campagna elettorale, Massimiliano,
che non riusciva a stare fermo un minuto e correva di qua e di là per la cucina,
assai angusta peraltro, tutto preso dal gioco non s’accorse delle scale e finì così per
precipitare rovinosamente lungo la scalinata, una di quelle scalinate ripide e dritte e
anche abbastanza alte da rompervisi la noce del collo.
Rosetta si rifiutò di andare a vedere cos’era successo, ma per fortuna tutto si risolse solo
in un grande spavento.
(Rosetta dà una versione un po’ diversa dell’episodio. Secondo lei, Massimiliano si
dirigeva con insistenza verso le scale per convincerci a ripartire subito per Vasto: non
voleva perdersi Carosello, la rubrica pubblicitaria dell’epoca, divenuta poi mitica dopo
la sua soppressione, che piaceva tanto ai bambini, anche se in chiusura essi venivano
perentoriamente invitati ad andare tutti a letto).
Ma, al di là di tutto questo, il ricordo di quegli anni è ancora vivo in me anche perché la
Vasto di allora era ancora una bella città, nella quale si poteva vivere bene.
Vasto è una città molto antica, come d’altronde quasi tutte le maggiori città abruzzesi
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(salvo Pescara, che è stata una invenzione recentissima di D’Annunzio e del ministro
fascista Acerbo, e l’Aquila, la cui storia risale appena all’epoca di Federico II di
Svevia).
Fondata probabilmente dai greci (la leggenda ne attribuisce la fondazione a Diomede,
dopo il suo ritorno dalla guerra di Troia), essa fu conosciuta nell’antichità con il nome
di Histonium, assumendo solo nella fase finale della dominazione dei Longobardi il
nome di Vasto, anzi di Guasto di Aymone, dove Guasto indica Wast o Guast, gastaldia,
e Aymone il gastaldo che la governava, al quale la gastaldia fu affidata, nell’anno 803,
da Pipino che Carlo Magno aveva inviato in Italia per reprimere il tentativo del ducato
longobardo di Benevento, del quale Histonium faceva parte, di sottrarsi al dominio dei
Franchi.
Ma in realtà, al di là delle sue origini e del suo nome, Vasto era una città frentana, che
subì prima il dominio di Roma e poi via via dei tanti invasori che nei secoli hanno
percorso il bel paese; essendo poi una città di mare, fu spesso bersaglio anche delle
scorrerie dei pirati saraceni e turchi.
Tuttavia di una storia così lunga e complessa le tracce sono assai scarse, bisogna
arrivare a tempi assai più vicini a noi per avere monumenti come il Castello, di epoca
medioevale ma trasformato e arricchito nei secoli successivi dai Caldora, le numerose
chiese, di periodi diversi ma tutte piuttosto recenti, e il Palazzo D’Avalos, della fine del
‘400.
Forse, tra queste tracce, bisognerebbe includere anche i visi delle persone che spesso
ricordano i tanti incroci provocati dalle varie invasioni.
Ricordo, ad esempio, che rimasi colpito, quando li incontrai per la prima volta, dai
tratti tipicamente saracini di alcuni compagni di quegli anni, frutto evidentemente delle
scorrerie dei pirati, ma questo non vale solo per Vasto, vale in pratica per tutta l’Italia,
terra per fortuna ricca di contaminazioni fra uomini e fra culture.
Ma, se di Vasto non si potevano apprezzare a sufficienza le tracce di un antico passato,
di essa si potevano invece ammirare il golfo bellissimo, la terra fertile anche se all’epoca
coltivata prevalentemente a grano (terra d’oro insomma, come dice una bellissima
canzone dialettale vastese, ma, per questo, anche un po’ Tavoliere), le strade assolate
del centro cittadino, la frescura, la sera d’estate, della brezza marina, la cordialità della
gente.
Vasto era, in quegli anni, ancora un grosso paesone; e dopo un po’ di tempo ci si conosceva
tutti, parlo ovviamente innanzitutto dei compagni, ci si ritrovava così insieme, in piazza
o nei bar, quasi tutte le sere e poi la mattina di domenica, e si chiacchierava in gruppo
del più e del meno. E anche questo, assieme alle sue bellezze, era il fascino della città
ed è parte del ricordo che ho di quegli anni.
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Capitolo IX
Siamo appena tornati dalle cure termali.
Quest’anno, anno del Signore 2005, abbiamo scelto Grado, nel Friuli, una cittadina
tranquilla, ordinata, immersa nel verde, stretta tra la laguna, nella quale i suoi primi
abitanti, fuggendo da Aquileia, si erano rifugiati di fronte all’avanzare degli Unni, e il
mare.
Nonostante lo stress delle alzatacce mattutine per correre alle terme e la frenesia delle
corse fatte (di solito, nel pomeriggio) per visitare Trieste (e Miramare, naturalmente!),
Venezia e centri minori della regione durante i pochi giorni del nostro soggiorno, la
vacanza è stata proprio riposante.
La luce mite e chiara del cielo di settembre, la temperatura gradevole (malgrado qualche
passeggero rovescio temporalesco), la bellezza dei luoghi hanno reso ancora più
piacevole la nostra vacanza. Un solo inconveniente: le zanzare, che hanno tormentato
particolarmente la nonna. Peccato poi che non abbiamo potuto fare neppure un bagno,
pur avendo il mare a non più di cento metri dall’albergo: il litorale è in concessione a
una società privata che, anche soltanto per consentire il passeggio lungo la spiaggia,
pretende di essere pagata profumatamente...!
Insomma, mie care nipotine, ci siamo trovati bene.
Pier Paolo Pasolini, in un inedito del 1959 ora arrivato alle stampe, definisce Grado un
“luogo dell’anima”, grazie a “il grigio-azzurro del suo cielo e il verde dei suoi alberi
friulani, il vermiglio e il cobalto attutiti del suo porticciolo, e l’oro dei capelli della sua
gioventù...”.
Non so dire, naturalmente, se questa piccola e bella cittadina del Friuli era davvero quel
“luogo dell’anima” intravisto da Pasolini nell’anno in cui egli ne scriveva, anche perché
da allora molte cose sembrano essere cambiate, non solo nel paesaggio; né so dire, per
il poco tempo che vi siamo restati, se oggi la si può ancora definire così. In ogni modo,
se pure non ci ha fatto sognare (non abbiamo, del resto, neppure più l’età...), Grado ci
ha certamente aiutato a rilassarci e a mettere in un cantuccio le tante brutte notizie che
anche quest’estate ci hanno portato i giornali, notizie che ti chiudono a volte, per la loro
ferocia, la bocca dello stomaco.
A fare il miracolo è stata l’atmosfera morbida e ovattata che ti avvolge mentre passeggi
lungo la laguna o ti inoltri nelle stradine del centro storico, inondate dai mille odori
della gastronomia locale, o percorri il bel viale che attraversa in lungo tutta la città,
accompagnato, la sera, da una particolare colonna sonora, quella del chiacchierio
ininterrotto, diffuso, impastato di friulano, austriaco e italiano, della gente che cammina
per la strada o siede davanti ai bar.
Per come vanno oggi il mondo e l’Italia, ci voleva proprio questa tregua fatta di un po’
di beata spensieratezza!
Il mondo, mie care nipotine, sta oggi attraversando forse uno dei suoi momenti peggiori
e non so proprio se, nel prossimo futuro, le cose prenderanno una piega migliore o sono
destinate a peggiorare. E anche l’Italia, purtroppo, ha ormai toccato il fondo, grazie a
Berlusconi.
169
Voi vivete ora, mentre scrivo, un’età che in qualche modo vi tiene al riparo da queste
brutture. E, anche se a volte ve ne arrivano gli echi, essi però non sono tali da consentirvi
oggi di comprenderne tutta la gravità e quale minaccia esse rappresentino anche per il
vostro stesso futuro: sono solo come una increspatura di vento sul filo d’erba o la foglia
dell’albero!
Ma le guerre, le malattie, la fame che colpiscono in modo sempre più virulento milioni
di persone in un continente come l’Africa; la natura che si rivolta contro l’uomo che ha
pensato, nella sua lunga storia, di poterla dominare e violentare impunemente; l’infanzia
e la fanciullezza negate a un numero davvero inimmaginabile di bambini in ogni parte
del mondo; l’odio, sempre più profondo, che oppone l’interminabile schiera dei poveri a
chi sta bene: purtroppo, se tutte queste cose non cambieranno rapidamente, segneranno
anche il vostro mondo di domani e si rivolteranno in modo ancora più terribile, fino a
minacciarne l’esistenza, contro l’uomo e la sua civiltà.
E state attente.
Tutto questo non è il frutto del caso, del destino o del fato, come si diceva una volta,
cieco e casuale. Né, dietro, c’è alcuna entità metafisica che ci scaglia contro il suo furore
per le malefatte compiute dagli uomini come la Bibbia e, prima di essa, i testi sumerici
e accadici e i miti greci ci raccontano sia accaduto all’epoca del diluvio universale: se
così fosse, avremmo sempre la possibilità di poterci appellare alla misericordia di un
dio o degli dei!
No, le cose non stanno così. Quel che è certo, invece, è che c’è sempre qualcuno
che ha interesse a far credere a sciocchezze di tal genere, per nascondere le proprie
responsabilità, è accaduto nel passato e, siatene certe, accadrà ancora!
E’ l’uomo l’autore di così tante infamie.
Sono l’avidità e il cinismo di chi vuole accumulare sempre più ricchezze anche
seminando povertà e lutti, è il sostegno che a questa visione del mondo miope e fonte di
ingiustizie e di ineguaglianze sempre più inaccettabili viene da governanti che pensano
che gli interessi vengano prima dell’uomo e delle sue esigenze e aspirazioni, è la
rassegnazione o l’indifferenza di tanti. E ci cono anche le scelte individuali di ciascuno
di noi, lo spirito che anima il nostro rapporto con gli altri uomini e con la natura, la
nostra capacità, per la verità assai scarsa finora, di apprendere e mettere a frutto le tante
lezioni della storia.
Pace, solidarietà tra gli uomini, rispetto dei diritti di ciascuno, cooperazione con la
natura, possibilità per tutti di accedere al sapere e al benessere, volontà di porre il sapere
e il potere a servizio di tutti: di questo abbiamo oggi un disperato bisogno per avere
futuro!
Ma chi può costruire un mondo così? Sempre e solo gli uomini, e nessun altro.
Gli antichi dicevano che faber est suae quisque fortunae, nel senso che l’uomo può, se
lo vuole, fare scelte rivolte al bene comune, contrastando e sconfiggendo quanti, e sono
tanti, forti e ben organizzati, ci hanno portato a questi disastri. Ebbene, questo è vero
anche oggi, il problema è di volerlo davvero e fermamente!
Anche sul piano ambientale e delle applicazioni della scienza, le cose sembrano prendere
a volte una direzione catastrofica; ed anche qui è l’uomo la chiave di volta del futuro.
Scienza, tecnologia sono stati e possono continuare a essere grandi fattori di progresso,
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ma solo se sono guidate dalla coscienza del limite, dal rispetto della natura e dalla eticità
dei fini, sono messe cioè sempre a servizio dell’uomo e non dell’avidità di denaro e di
potere di pochi.
Eppure, è questo che oggi spesso accade, basta pensare, ad esempio, a quel grandioso
fenomeno rappresentato dalla globalizzazione, che pure potrebbe aprire una finestra sul
futuro a quei tantissimi infelici che, in Africa e in altre parti del pianeta, muoiono ogni
giorno di fame, di malattie, di guerre e, invece, oggi porta soprattutto soldi alle grandi
multinazionali.
Fatica, responsabilità, solidarietà: sono le sole parole che possono aprire nuovi orizzonti
e aprirli per tutti. Ma siatene sicure: non sarà facile iniziare il nuovo cammino che le
cose stesse ormai ci indicano...
Nel passato, gli uomini hanno anche coltivato a lungo l’idea di un mondo fatto,
grazie alla scienza, di magnifiche sorti e progressive, di un progresso certo, lineare e
inarrestabile.
Ma è dimostrato che non è così, che ciò non ha fondamento alcuno nella realtà, è solo il
nostro desiderio, la speranza che si sostituisce alla realtà.
Anche l’Italia, naturalmente, è dentro questo gorgo infernale. In più, essa vive oggi uno
dei periodi più disgraziati della sua storia nazionale ed è, come non mai, nave senza
nocchiero in gran tempesta, per usare le parole di Dante, che si avvita sempre di più
dentro le sue contraddizioni, provocando angosce profonde in chi, come me, nonostante
l’età, continua a vivere il mondo e la politica con la stessa passione, oltre che con gli
stessi ideali, della gioventù.
Voi mi direte, dopo una predica così lunga, come se ne facevano una volta: Ma perché,
nonno, ci parli di queste cose così apocalittiche?!
E’ presto detto, mie care nipotine. Anche voi domani sarete chiamate ad assumervi le
vostre responsabilità di fronte ai problemi del vostro tempo, ed è bene che impariate a
farlo subito, forse così le risposte della vostra generazione saranno migliori di quelle
che abbiamo saputo dare noi.
Purtroppo, l’Italia nella quale ci tocca vivere oggi è un’Italia sull’orlo del baratro, a
un passo da un declino irrimediabile sul piano economico, sociale, civile e morale
perché, in un momento cruciale della storia del mondo, quando sarebbe necessario,
con il contributo di tutti, progettare il futuro, essa è finita nelle mani non certo di
galantuomini e gente disinteressata, aperta al dialogo, lungimirante, assillata non dal
proprio particulare, ma dai problemi e dall’avvenire di tutti.
E’ questa, purtroppo, la realtà di questi nostri anni così tristi e difficili.
L’Italia è alla mercé di un potere arrogante, avido, insofferente di ogni regola,
preoccupato solo dei propri interessi e pronto, per soddisfarli o difenderli, a buttare a
mare quello che una volta si chiamava il bene comune e, se necessario e possibile, la
stessa democrazia!
Gli italiani, per la verità, non sono esenti da colpe per questa situazione. Anzi essi,
anche questa volta, come già altre volte nei momenti di crisi, hanno dimostrato un
particolare fiuto nello scovare e mettersi al seguito del pifferaio magico di turno che,
mentre promette il paese di Bengodi, lavora in realtà con la solita, impegnativa abilità
per incrementare i propri affari e portare l’Italia alla rovina.
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Quando sarete grandi, forse vi capiterà, qualche giorno, di ascoltare un’opera molto
bella dal punto di vista musicale e spassosa nella sua trama, che si intitola L’elisir
d’amore, e troverete tra i suoi personaggi un certo dottor Dulcamara.
Dulcamara è un gran ciarlatano, che vende e vende bene i suoi mille intrugli ai rustici
del villaggio; e la sua prima vittima è Nemorino, un giovane innamorato di Adina,
al quale rifila la bevanda amorosa della regina Isotta, appunto lo stupendo elisir che
desta amore (ma il magico liquore altro non è che una volgare bottiglia di Bordeaux),
complice lo stesso Nemorino, gran credulone e, per giunta, orbo di tutti e due gli occhi
perché innamorato.
Ma per darvi un’idea un po’ più precisa di chi è Dulcamara, forse è il caso che vi citi
l’attacco della sua straordinaria cavatina quando appunto propone ai villici tutto il suo
variegato campionario.
Ascoltate:
Udite, udite, o rustici;
attenti, non fiatate.
Io già suppongo e immagino
che al par di me sappiate
ch’io sono quel gran medico,
dottore enciclopedico,
chiamato Dulcamara,
la cui virtù preclara,
e i portenti infiniti
son noti all’universo
e... e... e in altri siti.
Come potete notare, il tono è solenne, quello che serve appunto ai ciarlatani per
dare forza e credito alle loro mirabolanti promesse. E’ vero, il gran medico sembra
incespicare sull’ultimo verso, e proprio a questo punto la musica, con una specie di
sberleffo, svela l’inganno e la vuotezza che si celano dietro le parole, ma questo non
impedisce a Dulcamara di attirare i contadini nella sua sfera magica e incuriosirli ancor
più sugli effetti miracolosi del suo specifico.
Ma sento già qualche borbottio da parte vostra: Nonno, adesso -dopo averci elencato i
mali del mondo e dell’Italia- ci vieni anche ad annoiare con questo Dulcamara, perché?
E poi: chi è Dulcamara e che c’entra?
Beh, mie care nipoti, voglio in questo modo invitarvi innanzitutto ad assistere, se ve ne
capita l’occasione, alla rappresentazione de L’elisir d’amore, così potrete bearvi anche
voi della musica bellissima, deliziosa di Gaetano Donizetti e divertirvi alle avventure
comico-sentimentali di Nemorino e Adina.
So che a voi piace un altro tipo di musica, ma chissà, crescendo, forse arriverete anche
ad apprezzare l’opera che tanto piaceva al nonno...
Ma c’è anche un’altra ragione: Dulcamara non è soltanto il personaggio buffo dell’opera
buffa di Donizetti, è anche un personaggio largamente presente nella storia, piccola
172
e grande, dell’Italia, che si è spesso materializzato anche nel campo della politica,
provocando disastri: basta guardare alla nostra storia, a quella più vicina a noi come a
quella più lontana.
Ebbene, oggi viviamo uno di quei momenti in cui i Dulcamara imperversano in Italia,
evocati sulla scena da tutti quegli italiani che pensano che i venditori di fumo siano
meglio delle persone serie.
Negli ultimi mesi, tanti di essi sembrano essersi resi conto della scempiaggine che hanno
fatta, ma non hanno ugualmente scusanti: se Nemorino, che si è lasciato raggirare così
facilmente, può essere compatito perché troppo preso dall’amore che è per definizione
cieco, non altrettanto si può fare con questi nostri concittadini, molti dei quali tra l’altro
pensavano che fosse finalmente venuto anche per loro il momento di arricchirsi a spese
di tutti gli altri.
Ma, mi direte, chi è oggi il Dulcamara che sta portando alla rovina questo nostro infelice
Paese?
Beh, la risposta ormai la conoscono tutti, anche quelli che gli hanno votato e magari lo
sosterranno ancora. E’ Berlusconi, il capo della masnada che ci governa, è lui l’ultima
sua incarnazione, con esiti anche questa volta tragici per l’Italia e la vita (nonché le
tasche) della gente, pur se la recita di questi anni ha toni e contenuti oltremodo farseschi
e spesso surreali.
Quando è sceso in campo, all’inizio degli anni ‘90, nel pieno della bufera di Tangentopoli
utilizzando la stessa azione dei giudici che oggi mette alla gogna, anche lui come
Dulcamara si è presentato come l’uomo che ha in saccoccia il vaso di Pandora, pronto
a garantire a tutti ricchezza e felicità. Ma il suo capolavoro l’ha costruito qualche anno
dopo, nella tarda primavera del 2001, con il televisivo contratto con gli italiani, con
la televisione appunto a certificare la bontà del suo specifico: quel contratto è stato
insomma la sua cavatina, capace anche in questa occasione di irretire i tantissimi villici
di una Italia ben viva ancora oggi e sempre pronta a prestare ascolto a chi ne solletica il
particulare, grande o piccolo che sia.
Se però a Dulcamara le cose sono andate tutto sommato bene, riscuotendo alla fine il
plauso degli stessi villici ingannati (anche perché egli non ha certo provocato sconquassi
nella loro vita e poi, via, siamo all’opera...), e Nemorino ha potuto alla fine conquistare
la sua agognata Adina, Berlusconi invece ha cominciato finalmente a pagare il fio
delle sue strabilianti promesse e del solo, ammorbante fumo che ne hanno ricavato gli
italiani. E così, nel breve giro di un mese, ha subìto una batosta elettorale che, per la sua
ampiezza e portata, non ha davvero precedenti.
Sto parlando del risultato clamoroso delle elezioni regionali e amministrative dell’aprile
scorso, quando il centrosinistra ha conquistato dodici regioni su quattordici e un numero
incredibile di Comuni e Province.
Roba, come si dice da noi, da ogni morte di papa, con tutto il rispetto naturalmente per
papa Wojtyla morto proprio alla vigilia delle elezioni!
Il botto elettorale a favore del centrosinistra ha investito ovviamente anche l’Abruzzo
dove abbiamo riconquistato la Regione, e -udite! udite!- conquistato, per la prima volta,
anche una città conservatrice come Chieti.
E’ chiaro che un tale patatrac del centrodestra porta innanzitutto la firma di Berlusconi,
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che ci ha messo tanto del suo!
Accade sempre così ai demagoghi, soprattutto quando la realtà delle cose si incarica
di strappare bruscamente la ragnatela di illusioni che essi hanno tessuto dentro la testa
della gente. Molti suoi vecchi elettori, anzi, erano a tal punto incazzati con lui che hanno
deciso di andare a votare, anziché rifugiarsi nell’astensione, e gli hanno rivolto contro
con rabbia il proprio voto: come recita un vecchio adagio, tratto da Esiodo e che trovo
negli Adagia di Erasmo, anche lo stolto si fa saggio dopo che ha patito un danno!
A Chieti, dove il centrodestra è stato sempre largamente maggioritario e ha governato
per ben undici anni di seguito, è accaduto anche di peggio.
Quos Deus perdere vult, dementat prius: è un altro vecchio adagio, mie care nipotine,
anch’esso d’origine greca, che spero mi permetterete di citarvi, senza sbuffi di fastidio
da parte vostra, perché rende bene quel che è accaduto ai partiti del centrodestra in
queste elezioni a Chieti, prima e durante la campagna elettorale.
Per mesi si sono azzuffati e divisi tra di loro, arrivando ognuno per conto proprio
all’appuntamento delle elezioni e facendo di tutto per continuare a sbranarsi a vicenda
anche durante la campagna elettorale. Come quei cani che, spinti dalla fame, si dilaniano
a vicenda con ostinazione e ferocia per contendersi l’unico tozzo di pane ma che alla
fine, come è poi accaduto in queste elezioni, nessuno di loro riuscirà ad afferrare.
Naturalmente, va reso il giusto merito anche al centrosinistra: ha saputo presentarsi
unito alle elezioni e rappresentare una speranza per il futuro.
L’augurio è che un risultato così importante, qui a Chieti e in tutto il Paese, non solo
non venga disperso ma si consolidi visto che il più è ancora da fare per cacciare
definitivamente Berlusconi: le elezioni politiche infatti ci saranno solo l’anno prossimo,
nella primavera del 2006, e lui le giocherà davvero tutte per cercare di imbrogliare le
carte ancora una volta, non importa se a costo di trascinare l’Italia in avventure ancora
più rovinose.
Tra l’altro, è bene sapere che il berlusconismo non è qualcosa di cui ci si possa liberare
facilmente. Per la ragione molto semplice che il cuore del berlusconismo è l’idea che,
per arricchirsi, tutto è lecito: non rispettare, ad esempio, anzi abolire, se ci si riesce,
regole e limiti di qualunque tipo, o piegare lo Stato, ogni volta che se ne ha bisogno, ai
propri interessi personali e di gruppo; ed è, questa, un’idea talmente radicata in tanta
parte del popolo italiano da costituirne il vero Dna.
Molti stranieri ci accusano spesso di cinismo e amoralità, purtroppo non è che abbiano
tutti i torti!
Non si può, dunque, stare proprio tranquilli con Berlusconi; e la battaglia decisiva è
tutta da combattere, fino all’ultimo minuto.
Ma veniamo ormai, mie care nipoti, dopo una così lunga incursione nell’attualità, agli
anni che vorrei raccontare in questo capitolo: gli anni ‘70. Ed entriamo perciò subito
nell’aringo...
Aringo è il termine usato, a indicare appunto la difficoltà dell’impresa, da Dante quando
si accinge, nella terza cantica, la cantica più alta per stile e contenuti, a inoltrarsi nel
regno santo, tra le luci e le armonie del Paradiso. Naturalmente, io non invocherò,
come lui, Apollo e amendue i giochi di Parnaso perché mi assistano: io non vidi cose,
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come il grande poeta, che ridire / né sa né può chi di là su discende. Il mio compito è
molto più modesto, anche se parlare di quegli anni non è poi, a pensarci bene, cosa così
semplice.
Si tratta infatti di un periodo della nostra storia più recente molto complesso e pieno di
contraddizioni, che ha conosciuto progressi decisivi nella vita degli italiani, ma ha anche
visto riemergere dal fondo più oscuro della nostra società forze eversive e reazionarie
che hanno messo seriamente a rischio la democrazia.
In quegli anni, inoltre, si sono a lungo confrontate prospettive politiche contrapposte; e
c’è stato un esplicito tentativo, portato avanti da forze interne e internazionali, volto a
colpire anche con la violenza la modernizzazione democratica dell’Italia e il possibile
ingresso dei comunisti nel governo del Paese.
Non può essere quindi un caso se, grazie anche agli errori commessi dai vari protagonisti,
il decennio si è concluso, non aprendo un futuro migliore all’Italia ma dando forza a
spinte e processi che avrebbero alla fine, negli anni ‘90, portato alla dissoluzione dei
partiti fondatori della Repubblica e della democrazia italiana e alla crisi stessa delle
istituzioni repubblicane.
In quella lunga e tormentata stagione politica, inoltre, il PCI giocò un ruolo decisivo
e raggiunse anche il punto più alto della sua influenza politica e dei suoi consensi
elettorali.
Ma anche per il PCI la fine del decennio rappresentò il crinale dal quale prese avvio il
processo che doveva segnare, non il ritorno al governo, come pure ci si proponeva, ma il
progressivo svuotamento della funzione storica che esso aveva esercitato fino ad allora
nella società italiana, condizionandone gli sviluppi complessivi.
Lo scioglimento del partito all’inizio degli anni ‘90 non fu che la necessaria conclusione
di questo processo, anche se a renderlo inevitabile furono gli sviluppi della situazione
internazionale (innanzitutto la caduta del muro di Berlino).
Un decennio non facile da raccontare, quindi, e davvero di svolta nella storia dell’Italia,
che ha rappresentato per me anche il momento più esaltante e significativo del mio
impegno come dirigente del PCI, sia nel periodo che sono stato segretario della
federazione di Chieti che, successivamente, negli anni in cui sono stato uno dei maggiori
dirigenti regionali del PCI abruzzese.
Ma non vi spaventate, mie care nipotine: non intendo in nessun modo ripercorrere,
nei suoi vari passaggi, né locali né nazionali, la storia così complessa di quegli anni,
non sarei tra l’altro neppure in grado di farlo. Mi limiterò invece soltanto a raccontare
alcuni momenti di questa straordinaria vicenda: insomma, detto tra noi, mi propongo un
compito molto più terra terra...
L’inizio degli anni ‘70 ha coinciso, per me, con la mia elezione a segretario di
federazione.
Sono stato eletto infatti ai primi d’agosto, più esattamente nella riunione del Comitato
Federale dell’8 agosto del 1970, alla quale partecipò anche Gigetto Sandirocco in
rappresentanza della segreteria regionale (segretario regionale era ancora Claudio
Petruccioli).
Assunsi quindi il mio nuovo incarico all’indomani delle elezioni regionali, dopo un
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dibattito abbastanza lungo e serrato negli organismi dirigenti provinciali dove alcuni
compagni cercarono, in modo scopertamente strumentale, di traccheggiare il più a
lungo possibile sul mio nome nel tentativo di dare una soluzione diversa, da quella che
fu poi raggiunta, alla questione Perantuono-Terpolilli.
Così, dopo gli oltre tre anni passati a Vasto, io e la mia famiglia tornammo ad abitare a
Chieti. Ma anche in questa occasione non fu facile trovare un appartamento da affittare
che fosse anche di nostro gradimento e capace di soddisfare le accresciute esigenze
della famiglia. Ricordo anzi, mie care nipoti, che proprio per questa difficoltà la nonna
e i vostri papà rimasero ancora a Vasto per quasi tutto il mese di agosto mentre io, che
mi trovai subito alle prese con la sottoscrizione e le feste de l’Unità, dovetti trasferirmi
immediatamente a Chieti, ospite dei miei suoceri.
Alla fine, tuttavia, nel giro di poco più di un mese e sia pure dopo lunghe e faticose
peregrinazioni nei vari quartieri della città, come già dopo il nostro matrimonio, ce la
facemmo. Rosetta riuscì a scovare un bell’appartamento a S. Anna, costruito appena
da qualche anno, ampio, abbastanza ben ripartito, affacciato sulla valle dell’Alento e
perciò con un panorama invitante e, poi, con servizi essenziali a portata di mano, dal
filobus alla scuola materna per Stefano e a quella elementare per Massimiliano che
iniziò proprio quell’anno a frequentare la scuola dell’obbligo.
La nuova sistemazione andava bene soprattutto per Rosetta che non aveva la macchina
ed era perciò costretta, per spostarsi, ad utilizzare i mezzi pubblici quando non anche il
cavallo di San Francesco. Anche per portare e riprendere i bambini da scuola non aveva
grandi difficoltà, perché sia la scuola materna che la scuola elementare erano tutt’e due
lungo la strada che essa percorreva ogni giorno per andare e tornare dal lavoro (dopo
Vasto, la nonna cominciò a lavorare all’Unipol), l’unico problema per lei era fare tutti i
giorni di corsa il tratto dall’ufficio alle elementari di S. Anna per non far aspettare troppo
Massimiliano che usciva da scuola sempre un po’ prima dell’arrivo della madre.
S. Anna era allora una zona di recente sviluppo; e vi abitavano prevalentemente coppie
giovani, e questo consentì ai nostri figli di farsi rapidamente nuovi amici, alcuni dei
quali lo sono ancora oggi.
Nel nuovo appartamento siamo rimasti per ben quindici anni e in esso si sono fatti
grandi i figli, finché non ci arrivò tra il 1982 e il 1983 una lettera di sfratto.
Resistemmo per qualche tempo, anche giudiziariamente, alle richieste del proprietario
grazie alle leggi dell’epoca, ma nel 1985 comunque saremmo dovuti andare via e
metterci alla ricerca di una nuova abitazione se nel frattempo non fossimo riusciti a farci
una casa nostra dove potemmo tranquillamente traslocare nel luglio di quello stesso
anno.
L’idea di avere una casa nostra per la verità non ci aveva mai sfiorato negli anni
precedenti, e non tanto per il fatto che non avevamo i soldi necessari per comprarcela
quanto soprattutto perché il mio lavoro, fino a quel momento, mi aveva portato spesso
a cambiare città.
Ma, all’inizio degli anni ‘80, gli sfratti a Chieti si erano fatti piuttosto frequenti, perché i
proprietari preferivano affittare agli studenti con la possibilità di lucrare, in nero, rendite
assai più sostanziose; e il rischio perciò di incappare anche noi in uno dei tanti sfratti di
quegli anni, come poi avvenne, cominciava a preoccuparci seriamente.
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Rosetta si iscrisse allora, quando io ero già a Campobasso, a una delle tante cooperative
di abitazione nate in quel periodo a Chieti, anche se i soldi di cui potevamo disporre
erano sempre molto pochi (per fortuna le cose sarebbero cambiate di lì a qualche anno,
quando venni eletto deputato); e così, alla fine, anche noi fummo proprietari di una casa,
quella che appunto oggi abitiamo, in una zona, quella di Madonna del Freddo, dove fino
a quel momento c’era solo campagna e che le cooperative hanno invece trasformato in
uno dei quartieri più popolosi della città (una parte del quartiere è stata poi trasformata
dai suoi nuovi abitanti in un posto pieno di verde).
Quando fui eletto segretario di federazione, avevo poco più di trentacinque anni.
Ero insomma, per dirla banalmente, nel pieno della mia vigoria fisica e intellettuale.
E, al contrario di quel personaggio di Spoon River che si accorge solo con la morte che
il genio è saggezza e gioventù, io non solo avevo ali forti e instancabili e conoscevo
le montagne perché alle spalle avevo una esperienza assai ampia e ricca, acquisita in
contesti e periodi assai diversi tra loro, ma ero anche giovane, animato peraltro da una
grande volontà di fare e far bene. E fu tutto questo che mi consentì di affrontare subito
e con decisione, ma anche con il gramsciano ottimismo della volontà, una situazione
del partito che non era certo brillante e che si stava facendo difficile anche sul piano
nazionale e regionale e raggiungere, durante i cinque anni che restai alla guida del PCI
in provincia di Chieti, grandi risultati sia dal punto di vista organizzativo che sul piano
politico ed elettorale.
A mio favore avevo anche il fatto che a primavera, alcuni mesi prima della mia elezione
a segretario di federazione e proprio in previsione di questa circostanza, il partito si era
preoccupato di farmi eleggere nel nuovo Consiglio comunale del capoluogo che veniva
rinnovato proprio quell’anno. In questo modo potevo utilizzare per la mia attività
anche una sede politico-istituzionale che, negli anni successivi, si sarebbe dimostrata
particolarmente importante, non solo per me ma per il ruolo stesso del partito in città, in
occasione ad esempio delle lotte operaie e studentesche che segnarono Chieti per tutti
gli anni ‘70.
Gli inizi della mia attività come segretario di federazione furono piuttosto duri.
La prima grana che mi toccò affrontare fu naturalmente quella legata alla vicenda
Perantuono-Terpolilli. E fosse stata la sola.
Quella vicenda in realtà si intrecciava strettamente con una situazione più complessiva
del partito che, sul finire degli anni ‘60, si era andata seriamente deteriorando.
Che io ricordi, la lamentela più ripetuta nelle sezioni riguardava la nostra vita interna:
secondo i compagni, non c’era sufficiente democrazia.
La cosa era in parte fondata, ma la difficoltà vera non stava qui. Essa stava soprattutto
nella nostra incapacità a comprendere fino in fondo le trasformazioni avvenute nella
realtà economica e sociale della provincia e a individuare quindi le forze sociali e i
terreni di lotta decisivi per mettersi alla testa della battaglia per lo sviluppo dell’Abruzzo,
capace di determinare anche un salto di qualità nelle condizioni di vita e di lavoro della
gente.
Eravamo rimasti, in sostanza, un partito contadino quando invece la industrializzazione,
in zone come il vastese o lo Scalo, era diventato il dato dominante della nuova realtà
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della provincia; la scuola e l’Università nascente, inoltre, facevano debuttare sulla scena
della politica anche grandi masse giovanili.
La difficoltà a muoverci entro questa nuova ottica ci impediva anche di utilizzare
pienamente, per la nostra iniziativa, l’accresciuta nostra forza elettorale e lo stesso fatto
che noi stessi, ad esempio con le lotte per il metano ma anche con la nostra presenza
nelle lotte degli studenti, avevamo contribuito a determinare quelle trasformazioni.
Ci impediva, in sostanza, di cogliere tutte le nuove opportunità che ci offriva la
situazione.
La vicenda Perantuono-Terpolilli, a rifletterci bene, non aveva fatto altro, in fin dei
conti, che portare allo scoperto proprio questi problemi e proprio da essi ci sarebbe stato
bisogno appunto di ripartire. Accadde invece, nel clima che si era creato nel partito dopo
le elezioni, che di essi si discutesse poco. Anzi, piuttosto che tentare di analizzarli e
comprenderli nella loro vera natura, essi venivano invece strumentalizzati dai due gruppi
che si fronteggiavano all’interno della federazione, nel tentativo di portare ciascuno più
acqua al proprio mulino. Risultato: si rendeva solo più difficoltosa la discussione!
Tuttavia, nonostante ciò e pur tra tensioni ricorrenti e lo scetticismo di molti compagni,
riuscimmo ugualmente a portare avanti in quei mesi la discussione sui problemi di
fondo che angustiavano il partito, raggiungendo così in questo modo anche l’obiettivo
di rilanciare la nostra iniziativa tra la gente e di ricostruire, per questa via, l’unità del
gruppo dirigente.
Non fu semplice, e ci fu bisogno di pazienza, tenacia e intelligenza, ma alla fine la
spuntammo.
Anche gli avvenimenti politici regionali e nazionali che si succedettero in quei mesi, e
la riflessione che si aprì su di essi, ci diedero una mano.
Come, ad esempio, quella sui cosiddetti fatti de l’Aquila del febbraio 1971. Fatti di
una gravità eccezionale, che colpirono profondamente l’opinione pubblica regionale e
nazionale, quando spezzoni di manifestanti, manipolati da settori della DC e da forze
di destra, per protestare contro la soluzione data dal Consiglio regionale, anche con
il nostro concorso, alla questione del capoluogo, incendiarono la federazione del PCI.
O, ancora, come quella sull’esito delle elezioni politiche della primavera del 1972 che
videro un certo rinculo della sinistra e l’avanzata di forze conservatrici e di destra, come
il MSI, soprattutto nel Mezzogiorno.
La stessa riflessione nazionale, che fu molto intensa in quel periodo, attorno al tema
delle trasformazioni che le realtà urbane del Sud avevano conosciuto e a quello delle
alleanze sociali e politiche del PCI nel Mezzogiorno ci fu anch’essa di grande aiuto.
Da questo dibattito venne anche una formidabile spinta a mettere in moto e far camminare
rapidamente un esteso processo di rinnovamento e ringiovanimento dei nostri gruppi
dirigenti sia a livello provinciale che nelle sezioni, garantendo nello stesso tempo la
necessaria saldatura tra il vecchio partito contadino e le nuove leve, fatte soprattutto
di giovani che provenivano dalle fabbriche, dalle scuole e dall’Università. Così, nel
giro di qualche anno, sia nella segreteria provinciale che nei direttivi delle sezioni, ci
fu un ricambio generazionale senza precedenti, e lo stesso accadde anche per il nostro
Comitato Federale, senza peraltro che ciò provocasse rotture di alcun tipo.
Parte di questo processo fu anche la nuova attenzione che il PCI rivolse al mondo
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femminile.
Anche qui, non c’erano più soltanto le popolane battagliere dei quartieri popolari delle
città o le contadine povere e le braccianti: era nato un nuovo mondo, fatto di operaie
giovani e consapevoli dei propri diritti, di studentesse medie e universitarie animate
da nuovi bisogni e nuove esigenze culturali e di costume, di donne degli stessi ceti
medi urbani alla ricerca anch’esse di un proprio ruolo più autonomo e gratificante
nella società e nella famiglia. E tante di esse disposte anche a un impegno diretto nella
battaglia politica.
Anche su questo terreno, in provincia di Chieti, noi facemmo la nostra parte, ottenendo
risultati di non poco conto e con un ulteriore allargamento e arricchimento dei nostri
gruppi dirigenti.
Ricordo in proposito che, proprio sotto la spinta di questo nostro nuovo impegno, io fui
incaricato, qualche anno dopo la mia elezione a segretario di federazione, di fare (udite
udite!, care nipoti) il responsabile femminile, in attesa di poter avere una compagna in
grado e disposta a seguire in permanenza il lavoro verso le donne; di questo periodo
ricordo anche la bella manifestazione di donne che organizzammo in piazza a Chieti,
durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del ‘72, e il grande convegno
provinciale delle donne comuniste che tenemmo a Tollo nel febbraio del 1973.
Una riflessione analoga, con al centro problemi più o meno simili a quelli emersi nella
nostra realtà provinciale, ci fu in quegli anni anche nel resto della regione, come in
generale nel Mezzogiorno. E anche qui, alla fine, prevalse la spinta verso il rinnovamento
delle nostre politiche e il ringiovanimento dei gruppi dirigenti, facendo così venire in
primo piano sia nelle federazioni che a livello regionale una nuova leva di quadri che
poi diressero il partito per tutti gli anni ‘70.
Da questo punto di vista, fu molto importante il contributo che venne a livello nazionale
da Enrico Berlinguer; e, in Abruzzo, da Renzo Trivelli, che lo stesso Berlinguer, cui lui
era molto legato, sostenne nelle sue scelte.
Trivelli, quando arrivò in Abruzzo all’indomani dei fatti de l’Aquila, trovò un partito
lacerato, attraversato da divisioni profonde e anche da lotte intestine, e non aveva perciò
davanti a sé un compito facile.
Del resto, la precedente esperienza di Claudio Petruccioli era lì a testimoniare quanto
difficile fosse avviare un processo coerente di rinnovamento e ringiovanimento del
partito.
Petruccioli era venuto anche lui in Abruzzo, sul finire del ‘69, con l’obiettivo di sanare le
fratture che già nell’ultima fase di direzione del Comitato regionale da parte di Federico
Brini stavano minando il PCI abruzzese.
Ma fu subito evidente la resistenza a questo processo di pezzi consistenti del vecchio
gruppo dirigente. Così i suoi tentativi di portare una certa aria di modernità nella politica
e nell’assetto del partito e dei suoi gruppi dirigenti naufragarono rapidamente e lui
stesso fu poi travolto dai fatti del’Aquila.
Non che Petruccioli, durante la sua breve permanenza in Abruzzo, non avesse commesso
i suoi errori, a causa soprattutto di una sua visione delle cose a volte piuttosto astratta e
intellettualistica e anche, bisogna dire, per una certa sua disinvoltura e leggerezza nella
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gestione del partito e delle scelte compiute durante i fatti de l’Aquila, ma onestamente
non si possono addebitare solo a lui tutte le responsabilità di questo fallimento.
A Trivelli capitò invece di riuscire là dove Petruccioli aveva fallito.
In questo, egli fu certamente favorito dall’indebolimento subìto dal vecchio gruppo
dirigente a causa proprio dei fatti de l’Aquila.
Molto di più, tuttavia, contarono le sue notevoli capacità politiche, la lunga esperienza che
egli aveva nella gestione del partito, la sua capacità di muoversi non solo con accortezza
ma anche con il pragmatismo necessario. In più, Trivelli seppe inventare strumenti nuovi
per la battaglia politica del PCI in Abruzzo, strumenti che poi si rivelarono decisivi sia
per svecchiare le politiche del partito nella regione sia per mobilitare un grande numero
di energie e tenere aperto un processo di ulteriore allargamento dei gruppi dirigenti a
forze nuove, soprattutto intellettuali.
Da questo punto di vista, la sua più grande invenzione fu la pubblicazione di Abruzzo
d’Oggi, una esperienza che, dopo la sua conclusione tra il ‘77 e il ‘78, non si è più
ripetuta in Abruzzo.
Per la verità, già in precedenza Petruccioli aveva tentato una iniziativa analoga, con la
pubblicazione di un quindicinale, Nella lotta, diretta da Gianfranco Console. Ma nulla
di paragonabile con Abruzzo d’Oggi: non solo il periodico visse appena pochi mesi, ma
il suo ambito di diffusione non andò mai oltre il gruppo dirigente più ristretto del partito
nelle federazioni.
Abruzzo d’Oggi invece fu tutt’altra cosa. E il suo successo fu grande non solo tra gli
iscritti, ma anche fuori del PCI. E per ben cinque anni giocò un ruolo di rilievo nella
vicenda politica regionale.
Un successo straordinario, quindi, dovuto certo in primo luogo a coloro che lo hanno
diretto e fatto nel tempo.
Da Libero Pierantozzi, già segretario di Togliatti e autore di una pregevole (e anche
piuttosto ponderosa) opera sui cattolici nella storia d’Italia, allo stesso Console che sin
dall’inizio dell’avventura di Abruzzo d’Oggi, fino al suo trasferimento a Roma nel ‘76,
si caricò di fatto il peso della più gran parte del lavoro necessario per fare il quindicinale,
e, nell’ultimo periodo, a Francesco Di Vincenzo.
Ma, oltre che da loro, un apporto fondamentale venne anche dai segretari di federazione,
segretari di zona e di sezione e dalla numerosa schiera di compagni di base che si
preoccupavano di scrivere articoli, pubblicare inchieste, far arrivare notizie, curarne la
diffusione.
Abruzzo d’Oggi non era, né voleva essere, un periodico d’élite.
Era al contrario, e lo restò per tutto il tempo in cui fu pubblicato, un quindicinale di battaglia
politica e culturale che stava sull’attualità e portava nel confronto politico regionale i
problemi della gente. Dove, nello stesso tempo, si intrecciavano costantemente cronaca,
riflessione politica, informazione (anche sulle nostre vicende interne), approfondimento
di problemi di natura regionale o di determinati territori, dibattito culturale, confronto
tra i compagni e, naturalmente, con le altre forze politiche abruzzesi.
In questo modo Abruzzo d’Oggi divenne, come possiamo dire?, lo specchio della vita
regionale, con cui anche gli avversari erano costretti a fare i conti, e nel quale in tanti si
potevano ritrovare, con i loro problemi e le loro aspirazioni. A partire dai lavoratori che,
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su Abruzzo d’Oggi, potevano leggere il racconto delle loro lotte per la difesa dei posti
di lavoro allora minacciati dovunque in Abruzzo e che, anzi, avevano proprio nel nostro
quindicinale uno strumento importante di lotta sindacale e politica.
Abruzzo d’Oggi fu inoltre anche lo strumento che ci permise di portare al PCI tutta una
generazione di intellettuali, non solo per l’attenzione prestata dal quindicinale alle lotte
studentesche di quegli anni nelle scuole e nelle due Università de l’Aquila e di ChietiPescara, ma anche per il fatto che diversi docenti universitari vi avevano rubriche fisse
o comunque vi pubblicavano propri articoli.
Da Abruzzo d’Oggi venne al PCI abruzzese anche un contributo decisivo al superamento
di una mentalità, assai diffusa allora nelle nostre file, ancora largamente legata al
campanile, che faticava a riconoscere la necessità di una visione regionale, e perciò
moderna, delle scelte che s’imponevano per il progresso dell’Abruzzo. E questo consentì
al partito, in anni nei quali il campanilismo (all’origine dei fatti de l’Aquila e utilizzato
largamente dalla DC abruzzese per la sua battaglia politica interna e contro la sinistra)
continuava ad arrecare danni gravissimi alla regione, di divenire punto di riferimento
anche di ceti che fino a quel momento avevano prevalentemente guardato allo Scudo
Crociato o agli altri partiti suoi alleati.
Ma non ci fu solo la pubblicazione di Abruzzo d’Oggi tra i meriti di Trivelli.
A lui si deve anche il legame particolare che si creò in quegli anni tra molti dirigenti
nazionali del PCI e l’Abruzzo. Fu un fatto importante, che ci aiutò ad avere più fiducia
in noi stessi, a sprovincializzare la nostra cultura politica, a maturare una visione più
alta dei problemi della regione.
Particolarmente importante da questo punto di vista fu il rapporto con Enrico Berlinguer
che restò, anche dopo l’andata via di Trivelli dall’Abruzzo, uno dei più assidui
frequentatori della nostra regione. Tanto intenso, anzi, fu il suo legame con l’Abruzzo
che egli, anche nei comizi, era portato spesso a sottolineare la esistenza di una particolare
affinità tra l’Abruzzo e la Sardegna, la sua regione di origine.
Berlinguer, tra l’altro, non si limitò solo a capeggiare la lista del PCI alla Camera dal
1972 al 1983 (fu appunto il 1983, se non ricordo male, l’ultima volta che lo fece)); o
a tenere comizi nei vari capoluoghi della regione durante gli appuntamenti elettorali o
referendari.
Egli accettava anche di visitare realtà minori nelle varie province e si sobbarcava perfino
lunghi e faticosissimi giri in una serie di paesi e paesini, come accadde ad esempio nei
primi anni ‘80 quando accolse una richiesta di tal genere della federazione di Chieti. A
memoria di tutti una cosa simile non era mai accaduto prima con un segretario nazionale
del PCI, Longo infatti non era mai venuto in Abruzzo (almeno da segretario) e Togliatti
venne solo due volte: una, nella Marsica, in occasione dei morti di Celano e, che io
sappia, l’altra a l’Aquila.
Trivelli diresse il PCI abruzzese fino alla primavera del 1975 quando, all’indomani del
XIV Congresso nazionale, venne richiamato a Roma per entrare nella segreteria nazionale
come responsabile, se ben ricordo, della propaganda. L’Abruzzo, insomma, gli aveva
portato bene.
Del resto, la sua segreteria coincise con la massima espansione conosciuta dal PCI
abruzzese, come numero di iscritti, forza elettorale e influenza politica. Quello, era
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certo un periodo particolare per il PCI anche a livello nazionale, ma egli, come tutti noi
d’altra parte nelle varie realtà della regione, ci mise molto di suo.
Renzo Trivelli continuò a frequentare l’Abruzzo anche dopo il suo ritorno a Roma:
non solo per partecipare a iniziative di partito ma anche per stare assieme, meglio se di
fronte a una buona tavola, ai compagni con i quali aveva ormai una lunga dimestichezza
e che gli erano diventati anche amici.
Renzo era, come si dice, una buona forchetta, un buongustaio; né si rifiutava in genere
ad altri piaceri della vita, e, se lo si invitava, raramente declinava l’invito.
Ricordo, ad esempio, quando l’invitai, una estate di tanti anni fa, a venirci a trovare a
Villalago: bene, non si fece davvero pregare, anche perché sapeva che avrebbe trovato
dell’ottimo agnello alla brace...
Ricordo anche, quand’era ancora segretario regionale, che le riunioni finivano quasi
sempre in qualche trattoria dove si mangiava bene e a poco prezzo. Questo accadeva,
naturalmente, anche quando arrivava Berlinguer, anche se l’atmosfera (come anche il
ristorante) era un po’ più ufficiale: c’erano di solito, oltre a Trivelli, i cinque segretari di
federazione, qualche altro compagno della segreteria regionale, l’immancabile Tonino
Tatò e ovviamente Berlinguer che mangiava, come sempre, pochissimo, al contrario
degli altri che in genere non si risparmiavano, e partecipava anche molto sobriamente
alla discussione.
A Renzo sono stato legato da una buona amicizia, anche se le occasioni di incontro sono
state quasi sempre quelle ufficiali; e a lui debbo molto sul piano politico e della mia
stessa cultura politica: mi diede fiducia e mi aiutò ad allargare, se così posso esprimermi,
i miei orizzonti di dirigente.
Mi ha dato una mano anche quando fui inviato dalla Direzione nazionale del PCI in
Molise: non solo partecipando al Congresso regionale, che si svolse appena qualche
mese dopo il mio arrivo a Campobasso in una situazione interna di partito non certo
facile, e alle altre iniziative a cui l’invitai, ma anche spendendo i suoi buoni rapporti
a livello centrale con compagni autorevoli perché nella primavera del 1983 potessi
tornare in Abruzzo ed essere eletto in Parlamento: senza il consenso della Direzione
nazionale e segnatamente della Sezione di Organizzazione (cioè di chi allora la dirigeva,
Adriana Seroni, la quale era sempre molto esigente), questo non sarebbe stato possibile
o, comunque, sarebbe stato piuttosto difficile.
Anche in provincia di Chieti il PCI conobbe, durante gli anni della mia segreteria,
un crescente sviluppo della sua forza organizzata e della sua influenza elettorale e
politica.
Ma cosa determinò tutto questo?
Certo, in quegli anni in Italia la spinta a fuoriuscire dalla cappa di piombo che aveva
avvolto l’Italia fino a quel momento si era fatta sempre più forte.
Il Paese aveva bisogno di entrare anche dal punto di vista dei diritti e delle condizioni di
lavoro e di vita della gente nel novero delle nazioni moderne ed avvertiva perciò sempre
di più come un ostacolo sulla via della sua modernizzazione, fondata sull’equità sociale
e sui diritti, l’assenza di un ricambio nel governo nazionale: sempre la DC e ancora la
DC, perno fisso di un mondo sempre più immobile...
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Cos’altro del resto volevano dire le lotte studentesche del ‘68, al di là dei tanti estremismi
che l’hanno caratterizzato, se non questo? O le grandi lotte operaie del ‘69? O le stesse
lotte che ci sono state nella nostra provincia negli anni ‘60, contro la mancanza di
lavoro, l’emigrazione, i bassi salari e l’assenza di ogni diritto laddove c’era lavoro? O
le lotte degli studenti per avere l’Università anche in Abruzzo, pur nelle forme distorte
imposte dalla DC?
Montava dunque in tutto il Paese una sempre più irresistibile voglia di cambiamento.
Neanche il centro-sinistra, che aveva soppiantato una politica centrista fatta di
immobilismo e di repressione delle lotte dei lavoratori, si era dimostrato all’altezza;
anzi, dopo i primi tentativi di riforma, aveva dovuto cedere alle pressioni che venivano
da destra e si era impantanato entrando in una agonia senza prospettive.
Chi impresse una svolta decisiva a una situazione, quale quella dei primi anni ‘70, che
rischiava di trasformarsi in una rottura profonda tra le esigenze di cambiamento della
gente e quel che offriva la cucina politica della DC e delle forze ad essa alleate, fu
Enrico Berlinguer, con la proposta del compromesso storico.
Essa era in realtà una proposta che puntava non solo a riportare i comunisti al governo,
dopo la loro cacciata nel 1946, ma anche a creare le condizioni, nel futuro, di una normale
alternanza nel governo del Paese, realizzando intanto quella che appariva allora l’unica
possibile alternanza ai governi che si erano succeduti fino a quel momento: un governo
che comprendesse anche i comunisti, fondato sull’accordo tra cattolici e comunisti.
Ma le cose, come sappiamo, sono andate diversamente; e, purtroppo, le speranze che
allora si raccolsero, in modo mai così massiccio, attorno a questa proposta, non solo
naufragarono miseramente, di lì a qualche anno, ma si trasformarono addirittura, dopo
il fallimento della solidarietà nazionale, nel trampolino di lancio, negli anni ‘80, di una
coalizione, che comprendeva anche il PSI di Craxi, che oggi definiremmo di centrodestra.
La svolta fu determinata dalla uccisione di Moro, il 9 maggio del 1978, da parte delle
Brigate rosse che poterono godere di complicità diffuse all’interno degli apparati dello
Stato e, sul piano internazionale, del sostegno di forze oscure ma ben decise ad impedire,
con ogni mezzo, il possibile ritorno dei comunisti al governo dell’Italia.
Moro, infatti, fu, tra i dirigenti della DC, quello che, prima di altri, aveva compreso la
necessità e l’urgenza di una normalizzazione democratica in un paese che non era più
in grado di sopportare un sistema politico immobile e chiuso e fu l’unico, comunque il
più determinato, a dare una sponda alla proposta di Berlinguer, ma fu proprio questa sua
scelta lungimirante e coraggiosa a costargli la vita.
Con la scomparsa di Moro, fu subito evidente che il progetto di Berlinguer non aveva
più futuro e non poteva perciò che andare incontro a una sconfitta cocente e irrimediabile
come difatti avvenne di lì a pochi mesi, con la sconfitta subìta dal PCI nelle elezioni
politiche del 1979.
Tuttavia, al di là del suo esito fallimentare, la proposta di compromesso storico lanciata
da Berlinguer nell’autunno del 1973 rimise in movimento tutta la situazione politica
italiana, rintuzzando anche la controffensiva di natura reazionaria della destra fascista
e neutralizzando il tentativo, messo in atto da forze come le Brigate rosse e gli altri
movimenti estremisti nati dal ‘68, di spostare su un terreno eversivo la spinta al
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cambiamento che saliva dal Paese; e diede inoltre un punto di riferimento concreto a
chi si batteva per modernizzare l’Italia.
Il merito dei gruppi dirigenti del PCI che lavoravano nelle tante realtà della provincia
italiana fu quello di muoversi con convinzione e coerenza su questa linea, aprendo il
partito a forze nuove e mettendolo in condizione di porsi alla testa di un movimento
diffuso e articolato non solo in difesa del lavoro, ma anche per aprire nuove prospettive di
sviluppo ai propri territori, conquistare più giustizia sociale e diritti, rinnovare l’Italia.
Da questo punto di vista, in provincia di Chieti noi non fummo da meno degli altri.
Anzi, demmo vita a movimenti e lotte assolutamente originali.
Tali, ad esempio, furono le lotte contro l’insediamento della Sangro-Chimica, una
raffineria che si voleva impiantare alla foce del Sangro, che avrebbe avuto effetti
devastanti sull’ambiente e sull’agricoltura della costa e della vallata. Altrove, come ad
esempio a Gela in Sicilia, proposte analoghe vennero accolte perché davano lavoro,
senza preoccuparsi dei guasti che si portavano dietro; e gli effetti col tempo si sono ben
visti...
Togliere di mezzo la Sangro-Chimica non fu semplice. Fu necessaria una battaglia,
lunga diversi anni, fatta di lotte popolari e iniziative nelle istituzioni (enti locali,
Consiglio regionale, Parlamento), animata soprattutto dai contadini della vallata (a
partire da quelli di Fossacesia) ma anche dai ceti cittadini; e alla fine la spuntammo,
propiziando in questo modo anche l’arrivo della FIAT (che non gradiva la presenza
della raffineria), con l’insediamento, sotto Atessa, della SEVEL per la produzione di
veicoli commerciali.
Le amministrazioni locali, guidate dalla sinistra (capofila Paglieta, che avevamo
conquistato proprio nel ‘70, con Enrico Graziani come sindaco) e il PCI in quanto
tale furono gli architravi del movimento, pur nulla togliendo a spezzoni del PSI e di
altre forze politiche e a gruppi e personalità del mondo della cultura locale: senza la
nostra forza e la presenza di questi Comuni non so se quel movimento sarebbe nato e se
soprattutto avrebbe avuto la capacità di durare così a lungo.
(Sia detto tra parentesi: ma a questo punto, care Valentina e Benedetta, debbo informarvi
che a queste importantissime lotte partecipava anche l’allora sindaco socialista di Torino
di Sangro che era, indovinate un po’?, nonno Mingo).
Anche le lotte per il lavoro, che interessarono particolarmente lo Scalo di Chieti e il
cui punto più alto fu rappresentato dalle lotte della Marvin Gelber, ebbero un carattere
assai peculiare per il ruolo che in esse svolse il PCI, che fu assai maggiore rispetto
a quello esercitato dagli stessi sindacati; così come le lotte contadine di quegli anni,
particolarmente nell’ortonese, contro l’insediamento di industrie inquinanti come
l’Hortonium.
Non furono perciò dovuti al caso i risultati che riuscimmo ad ottenere sia sul piano
dell’accrescimento della nostra forza organizzata che nel referendum sul divorzio, nel
1974, e poi nelle regionali del 1975 e nelle politiche del 1976. Furono invece il frutto
della nostra fatica, della nostra intelligenza, di una iniziativa diffusa che vide impegnato
tutto il partito. E si trattò di risultati particolarmente importanti, ben più straordinari,
considerati i punti di partenza, di quelli conseguiti in realtà della regione dove la nostra
forza era già significativa.
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Ci aiutò, in questo, sicuramente anche la presenza, a livello provinciale e nelle sezioni,
di un gruppo dirigente molto unito e solidale e, soprattutto, di buona qualità, all’interno
del quale un particolare contributo di lavoro e di idee venne dai cosiddetti compagni
dell’apparato come Mimmo Bafile, Gianfranco Console, Michele Di Vito e Antonio
Giannantonio.
Alle loro spalle non c’era una lunga esperienza politica, qualcuno come Michele
proveniva dall’esperienza del PSI, qualcun altro come Giannantonio si era formato
nelle lotte studentesche del ‘68 alla Sapienza di Roma, solo Mimmo Bafile e Gianfranco
Console avevano maturato una esperienza di più lunga data nel PCI, Gianfranco
a Pescara e Mimmo con me e D’Alonzo in federazione, ma avevano tutti gioventù,
intelligenza, cultura e voglia di lavorare.
Si deve dunque fondamentalmente a Enrico Berlinguer se, negli anni ‘70, la vicenda
politica italiana prese una certa direzione piuttosto che un’altra; ed è proprio per questa
ragione che la sua figura, assieme a quella di Moro, dominò la scena politica italiana
nel decennio.
Non mi pare però il caso di entrare qui ulteriormente nel merito della politica portata
avanti in quegli anni dal segretario nazionale del PCI.
Sicuramente, dopo la sconfitta subìta dalla politica di solidarietà nazionale, Berlinguer
ebbe difficoltà a delineare un’altra strategia. Le sue scelte, anzi, dalla proposta di
alternativa democratica alla proclamazione della questione morale e della diversità del
PCI che pure coglieva il nodo della moralità della politica e della necessità di una
riforma profonda del ruolo dei partiti nel rapporto con le istituzioni, misero tuttavia
i comunisti in un vicolo cieco che diede spazio alla politica di Craxi e della destra
democristiana. Il rapporto difficile con il PSI aiutò, a guardar bene, più la politica di
Craxi che la nostra e, a conti fatti, contribuì all’avvio della politica italiana su una china
che doveva concludersi con la crisi dei partiti nati dalla Resistenza e l’inizio di quel
declino dell’Italia che continua tuttora e, anzi, oggi si è fatto ancora più minaccioso.
Qui ci sarebbe da discutere anche sulla difficoltà di Berlinguer ad aprire una riflessione
sul ruolo del PCI in una situazione interna e internazionale che, soprattutto sotto questo
punto di vista, stava già mutando profondamente e che di lì a qualche anno sarebbe
precipitata con la caduta del Muro di Berlino e la crisi dell’URSS.
Berlinguer avvertì sicuramente i segni della crisi incombente e si era andato via via
convincendo, non solo della illiberalità del sistema sovietico, ma anche della sua
sostanziale irriformabilità.
Le innovazioni introdotte nella politica internazionale del PCI, con la dichiarazione che
egli si sentiva più a suo agio sotto l’ombrello della Nato che non del Patto di Varsavia; e
nel rapporto con il comunismo sovietico attraverso la proclamazione della democrazia
come valore universale e la presa d’atto dell’esaurimento della spinta propulsiva della
Rivoluzione d’Ottobre, muovevano certamente da queste convinzioni.
Anche il tentativo di lanciare la terza via in Europa, l’eurocomunismo, con la ricerca di
un rapporto con la socialdemocrazia, aveva certamente la stessa origine, ma fu chiaro
abbastanza rapidamente che su questa strada non si sarebbe andati lontano.
C’era bisogno di andare oltre, di far emergere fino in fondo la natura socialdemocratica
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e riformista del PCI così come essa si era andata modellando nel lungo cammino
fatto durante la seconda metà del secolo scorso, sotto la spinta innanzitutto di
Togliatti, avviando così un processo reale di fuoriuscita del PCI dalla tradizione
terzinternazionalista e tagliando in modo definitivo i residui legami con il comunismo
sovietico e internazionale.
Non credo che Berlinguer non abbia avuto il tempo, a causa della sua morte prematura,
per una scelta così radicale che avrebbe mutato profondamente la storia del Paese, oltre
che della sinistra. Sono convinto invece che una simile eventualità fosse del tutto fuori
dal suo orizzonte politico e culturale, anche se in politica, di fronte all’evidenza dei
fatti, nulla è mai da escludere.
Ma non è di queste cose, mie care nipotine, che qui voglio parlarvi.
Su queste cose rifletteranno gli studiosi e deciderà la storia. Resta comunque il fatto
che Berlinguer è stato, nella storia del PCI, uno dei suoi dirigenti più carismatici e
certamente il più amato, anche tra chi non votava comunista. La sua figura, anzi, a
distanza di tanti anni dalla sua morte, ancora oggi giganteggia nell’immaginario del
popolo di sinistra. Evidentemente, al di là del giudizio sulla sua politica, rimane ancora
salda nel cuore di tanti italiani la sua immagine di politico fuori degli schemi: sobrio,
riservato, disinteressato, animato sempre da una tensione morale altissima, il contrario
insomma di come tradizionalmente gli italiani si raffigurano il politico. Io ho avuto
occasione, nella mia qualità di dirigente sia pur periferico del PCI, di conoscere Enrico
Berlinguer un po’ più da vicino di tanti altri; e capisco quindi le ragioni di un affetto e
comunque di un apprezzamento che non a caso si stanno dimostrando capaci di durare
nel tempo.
Di lui, invece, voglio raccontarvi le piccole cose che hanno a che fare con alcune delle
tante volte che ho avuto modo di incontrarlo, prima come segretario della federazione
di Chieti, poi come membro della segreteria regionale, infine come segretario regionale
del Molise e, dopo il 1983, come deputato.
La prima volta che ho avuto la possibilità di scambiare qualche parola con Berlinguer,
all’epoca egli era ancora il vice di Luigi Longo, fu alla Conferenza nazionale della
scuola indetta dal PCI nel 1971.
Non ricordo la città nella quale la Conferenza si svolgeva, ricordo però che, quando
arrivarono le prime notizie sui fatti de l’Aquila, io (essendo l’unico segretario di
federazione dell’Abruzzo presente) e qualche altro compagno raggiungemmo subito
Berlinguer dietro il palco della presidenza per avere notizie più precise su quel che stava
accadendo e lui non si lasciò affatto pregare per darcele (ricordo anche che, subito dopo
questo breve colloquio, intervenne Alessandro Natta in assemblea per una prima presa
di posizione pubblica del PCI).
Berlinguer, insomma, non era di quelli che non ti sentiva se gli parlavi o, se lo incontravi,
faceva finta di non vederti, e vi assicuro, mie care nipotine, che ce ne sono stati e ne ho
incontrati alcuni anche nel PCI...
La grande statura politica e culturale di Berlinguer avevo avuto però modo di
apprezzarla già qualche anno prima, ascoltando il discorso conclusivo che egli tenne
al XII Congresso nazionale del PCI a Bologna, nel 1969, al quale ero delegato: da quel
discorso rimasi particolarmente colpito, ne fui anzi entusiasta, come d’altronde tutta la
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platea dei congressisti che, in piedi, l’applaudì lungamente.
Quando egli divenne segretario del partito e cominciò a frequentare l’Abruzzo, ebbi
modo naturalmente di conoscerlo un po’ meglio, anche come persona.
Ma di questi successivi incontri con Berlinguer ne voglio ricordare solo alcuni.
Il primo è quando venne a Chieti per il referendum sul divorzio.
Tra le tante cose di quei due giorni che passò in città, ricordo che mi colpirono in
particolare la passeggiata che fece per Corso Marrucino e alla Villa comunale,
fermandosi a scambiare qualche parola con i cittadini che lo fermavano per strada
(tra questi ci fu anche un sardo con il quale si mise a chiacchierare in dialetto), e poi
l’incontro, in federazione, con le compagne e i compagni impegnati nella campagna
referendaria, quasi tutti allora giovanissimi; a quell’incontro erano presenti anche
mia moglie, molto attiva anch’essa nel lavoro per il referendum, e i miei figli ancora
piccolini (Massimiliano, nel ‘74, aveva 10 anni e Stefano 7) ai quali Berlinguer regalò
qualche parola e una carezza.
L’altro incontro che mi è rimasto nella memoria è stato quello di Avezzano, del 18
maggio del 1976, in occasione delle elezioni politiche, quando diede inizio a una
esperienza del tutto originale nel rapporto con il pubblico.
Anziché il tradizionale comizio, egli scelse infatti di rispondere alle domande postegli
da giornalisti, da rappresentanti di altre forze politiche, da persone del pubblico, anche
se poi la gran parte delle domande venne dai giornalisti (erano presenti anche giornalisti
stranieri), mentre da esponenti di altri partiti solo una (fatta dal segretario marsicano del
PSDI) e due o tre da comuni cittadini, tra i quali una studentessa.
L’iniziativa venne grandemente apprezzata, non solo dalla gente che partecipò in massa,
ma anche dalla stampa nazionale ed estera che il giorno dopo le diede molto rilievo: il
partito abruzzese la ripeté poi, con i propri dirigenti, per qualche anno, anche in altre
occasioni elettorali, soprattutto nei paesi.
Ma anche di questo incontro ricordo un particolare che mi colpì. Al ristorante, io ero
tra i commensali in quanto membro della segreteria regionale, non solo Berlinguer,
sempre così schivo e riservato (anche se non era un musone, come qualcuno ha cercato
di dipingerlo), fu più loquace del solito ma acconsentì anche a fare un breve brindisi,
forse la riuscita della serata e un certo ottimismo sul risultato che avremmo avuto alla
prova delle urne lo avevano messo particolarmente di buon umore!
L’ultimo incontro che voglio ricordare si colloca in uno scenario diverso, quello del
Molise, dove mi trovavo come segretario regionale del PCI molisano.
Ricordo, quando arrivai a Campobasso, appena dopo i primi contatti con i compagni,
che mi furono subito chiare le difficoltà che mi attendevano; così, per far fronte meglio
alla situazione e tentare di ricostruire un clima diverso nel partito, qualche mese dopo
il mio arrivo cominciai a pensare a una manifestazione pubblica con Berlinguer nella
regione.
Le cose nel partito molisano non andavano per niente bene. E le rotture interne, che
avevano provocato la elezione di un segretario regionale proveniente da un’altra
regione (anche se per lungo tempo l’Abruzzo e il Molise sono stati un’unica regione),
continuavano ad avvelenare i rapporti tra i compagni, con riflessi assai negativi
naturalmente sulla capacità di mobilitazione e di iniziativa esterna del partito: la presenza
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di Berlinguer avrebbe certamente dato una mano a superare questa situazione.
Cercai così di contattarlo, anche se, a essere sincero, ero piuttosto scettico sull’esito
dell’impresa. Ma provai ugualmente, approfittando di una riunione del Comitato
Centrale alla quale ero stato invitato come segretario regionale.
Al biglietto che gli feci avere durante il dibattito Berlinguer rispose subito, ma facendomi
sapere che al momento, eravamo agli inizi della primavera, aveva già troppi impegni in
calendario, così anche per l’estate, più in là avrebbe cercato comunque di soddisfare la
mia richiesta.
La risposta non mi parve molto incoraggiante, mi sembrava anzi piuttosto un modo
elegante per dirmi di non sperare molto in una sua venuta in Molise. Ma non fu così:
Berlinguer non era di quelli usi a promettere prima e poi a gabbare i santi e gli uomini
naturalmente.
Quell’anno, siamo nel 1982, la Direzione aveva deciso di organizzare in tutte le regioni
attivi di partito, con la partecipazione di dirigenti nazionali, per il lancio della campagna
di tesseramento 1983. Nel 1982, infatti, effetto certamente del fallimento della politica
di solidarietà nazionale, si era registrato un certo calo degli iscritti rispetto agli anni
precedenti e si voleva dare uno scossone, anche in previsione delle elezioni politiche
che si sarebbero svolte nella primavera dell’anno successivo, a tutto il partito. E a
Campobasso doveva venire Adriana Seroni, che era diventata nel frattempo responsabile
nazionale di organizzazione.
Ma non vi dico quale fu la mia sorpresa quando, credo fossimo ai primi di settembre,
la stessa Seroni mi telefonò per dirmi che all’attivo avrebbe partecipato Berlinguer, per
una scelta decisa dallo stesso segretario che non aveva dimenticata la promessa fattami
alcuni mesi prima.
Così, qualche settimana dopo la telefonata della Seroni, andammo a Roma da Berlinguer
che, come faceva normalmente in queste occasioni, volle essere informato minutamente
sul partito, la vita politica regionale e i problemi della gente, e concordare natura e
tempi della sua presenza. Ricordo anche che volle che gli portassimo documenti che lo
aiutassero a capire meglio le cose del Molise: tra questi, gli facemmo avere ovviamente
anche il documento che avevamo preparato per il Congresso regionale del partito
che si era svolto diversi mesi prima, un documento scritto a più mani e contenente
più di una contraddizione, a causa dei contrasti che dividevano il gruppo dirigente.
Ebbene, ricordo che Berlinguer, che l’aveva letto e non semplicemente scorso, mentre
ci recavamo in auto da Isernia verso Campobasso, non solo me lo fece notare ma volle
anche un supplemento di informazioni sul partito in Molise.
La sua visita durò addirittura tre giorni e fu molto intensa, non sto a ricordare naturalmente
la grande eco che essa ebbe tra i molisani: Berlinguer era il primo segretario nazionale di
un grande partito, oltre che il primo segretario del PCI, che metteva piede in Molise.
La prima tappa fu Isernia, dove giunse il venerdì mattina del 22 ottobre; e lì egli si
fermò a visitare il museo che ospita il cosiddetto homo haeserniensis, un homo erectus
ritrovato nella zona.
Il soggiorno a Isernia fu, tuttavia, assai breve, il tempo appunto della visita al museo e
di un rapido incontro con le televisioni locali e con la stampa, perché nel pomeriggio
di quello stesso giorno era fissato a Campobasso l’attivo regionale del partito: così ci
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dirigemmo subito verso il capoluogo molisano, all’Hotel Scanderberg, dove Berlinguer
consumò velocemente un pasto frugale e si concesse un po’ di riposo prima di partecipare
all’attivo.
L’attivo fu molto travagliato, durò ben cinque ore, e nel dibattito irruppero in modo
piuttosto violento le rotture che da lungo tempo dilaniavano il gruppo dirigente.
Berlinguer, tuttavia, cercò di volgere in positivo lo scontro al quale aveva assistito e
ricordo che, per incoraggiare i compagni, disse che in fondo il consenso elettorale di cui
disponeva il PCI molisano non era inferiore a quello raccolto dai comunisti francesi! Io,
invece, fui molto contrariato dall’andamento dell’attivo: mi sembrava che i compagni
stessero sciupando un’opportunità, cosa di cui sono convinto ancora oggi.
La visita di Berlinguer proseguì, il giorno dopo, con un incontro, la sera, con i cittadini
di un quartiere popolare di Campobasso, il CEP, che si erano organizzati in Comitato
per rivendicare la soluzione di numerosi problemi, in particolare quello della mancanza
d’acqua, e l’avevano invitato a recarsi da loro. C’era una grande folla e molta curiosità,
naturalmente, nei confronti del segretario del PCI che Berlinguer non deluse quando
prese la parola, sia pure per un intervento molto breve.
La visita si concluse la domenica mattina, con un grande comizio in piazza al quale
parteciparono cittadini di ogni colore e da tutta la regione: il PCI, insomma, registrò un
grande successo tra l’opinione pubblica molisana, ma all’interno le cose non cambiarono
di molto...
Da deputato, non mi è capitato di incontrare spesso Berlinguer. Non solo egli non era
tra i frequentatori più assidui della Camera, ma anche quando era presente per votazioni
importanti, appena finita la seduta, di solito scappava subito via.
Berlinguer, tuttavia, non era il tipo che snobbava la disciplina di gruppo, di cui invece
era sempre molto rispettoso, per cui non mancava mai alle sedute della Camera per le
quali il gruppo aveva stabilito l’obbligo della presenza.
Ricordo a questo proposito un episodio.
Nel corso di una seduta, dopo che si erano già svolte alcune votazioni, Berlinguer,
convinto evidentemente che non fosse più necessaria la sua presenza, si alza dal suo
scranno di deputato, raccoglie le carte che si portava sempre dietro e fa per andare
via, ma ecco, a quel punto, un fermo! perentorio e quasi gridato di Mario Pochetti, il
segretario del gruppo comunista, un vero mastino, che aveva l’ingrata incombenza di
garantire le presenze dei compagni in aula: Berlinguer si blocca di colpo e si rimette
subito a sedere, senza fiatare.
Berlinguer fu molto presente invece a Montecitorio durante le settimane
dell’ostruzionismo condotto dal PCI contro il decreto del governo Craxi sulla scala
mobile; e nel corso di quella battaglia ascoltammo diversi suoi interventi sia nelle
riunioni del gruppo parlamentare che in aula.
In quel periodo, anzi, si affacciava spesso alla Camera, anche quando non erano previsti
suoi discorsi per confortare, diciamo così, i compagni impegnati a turno, per tutto
il periodo dell’ostruzionismo, a essere presenti o a parlare in aula anche di notte e
durante i giorni festivi. Era difficile però che egli, anche in quelle occasioni, si mettesse
a chiacchierare con i compagni: c’era, da parte sua, la solita riservatezza, che non
incoraggiava cameratismi di sorta, anzi avevamo tutti una certa soggezione nei suoi
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confronti per cui non accadeva mai, che io ricordi, che qualcuno l’avvicinasse, se non
per una ragione specifica, e si mettesse a chiacchierare con lui di quel che in quei giorni
stava accadendo in Parlamento e nel Paese.
Da questo punto di vista, Berlinguer era l’esatto contrario di Natta che, dopo la sua
morte, l’avrebbe sostituito alla segreteria del PCI.
Natta, uomo molto colto e fine anche come politico, amava invece intrattenersi con i
compagni seduto su uno dei divani del Transatlantico, il cosiddetto corridoio dei passi
perduti della Camera, sia quand’era capogruppo che dopo la sua elezione a segretario.
Com’è noto, Enrico Berlinguer è morto a Padova, ai primi di giugno del 1984, durante
un comizio per le elezioni europee, stremato dalla fatica. Egli non era di quelli che
si sottraevano agli impegni e quell’anno, tra la battaglia contro la scala mobile e gli
impegni elettorali, il suo fisico cedette.
I giorni della sua agonia e poi della sua morte furono giorni tristi per tutti. L’Italia intera
stava col fiato sospeso in attesa di notizie e, quando morì, Sandro Pertini, il Presidente
della Repubblica, espresse per tutti lo sgomento che aveva colto indistintamente gli italiani
per la immatura e tragica scomparsa del capo del PCI, e diede contemporaneamente
voce all’affetto che legava tanta parte del nostro popolo a un uomo che aveva saputo
esprimerne le qualità più alte.
Quanto forte fosse questo legame lo si vide, del resto, nei giorni in cui la sua salma restò
esposta nella camera ardente allestita nell’atrio di Botteghe Oscure, quando interminabili
file di cittadini di ogni convinzione e di ogni ceto sostarono lungo le strade adiacenti
alla Direzione del PCI in attesa di potergli rendere l’estremo omaggio, e poi nel giorno
del funerale a cui partecipò una folla immensa.
Anch’io, assieme a mia moglie e ai miei figli, andai a rendergli omaggio a Botteghe
Oscure ed ebbi anche l’onore, con tutta la mia famiglia, di fare un turno di guardia
davanti alla sua salma; e il giorno del funerale seguimmo anche noi il corteo e fummo
a Piazza S. Giovanni.
Con Berlinguer se ne andò l’ultimo dei grandi dirigenti del PCI; ma con lui scomparve
anche un maestro di vita, rigoroso, coerente, capace di porre tutto se stesso a servizio dei
grandi ideali di libertà e giustizia sociale che hanno animato l’intera sua vita, gli stessi
ideali, come lui volle sottolineare in una intervista alla stampa, della sua giovinezza, ai
quali aveva voluto restare fedele per tutta la vita.
E adesso, mie care nipoti, spero mi permetterete, prima di proseguire nel mio racconto,
una divagazione un po’ bizzarra che però contiene anche una morale.
Divagazione nel senso comune significa uscire fuori del seminato, ma può anche
significare svago che, in fondo, è anch’esso un modo di allontanarsi dalla strada maestra,
uscendo dalla solita routine; e a me divagare e divagarmi ogni tanto piace, è come
prendere un caffè quando si è un po’ stanchi o concedersi un intermezzo musicale di una
certa vivacità quando si è sul punto di precipitare nella monotonia.
Ma veniamo alla nostra divagazione...
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Elogio della cicala
Quand’ero ragazzo, mi piaceva molto ascoltare il canto delle cicale.
Allora abitavamo in campagna; e, d’estate, c’erano dei giorni, quando la calura si faceva
insopportabile, che tutta la campagna era un concerto di questi piccoli insetti alati dal
corpo bruno: un concerto fatto di suoni striduli, raramente variati, che esprimevano però
assai bene lo straniamento dell’ora quando la canicola ardente ti attira nel suo cerchio.
Se, mie care nipoti, quando sarete grandi, qualche volta, d’estate, proverete, durante
le ore più calde del giorno, a sdraiarvi all’ombra di un albero e ad abbandonarvi al
frinire roco delle cicale, forse sentirete anche voi allora come qualcosa di indefinibile
impadronirsi di voi, del vostro cervello, della vostra anima, qualcosa che è insieme
sogno e sonnolenza, abbandono e magia.
Il canto delle cicale, dunque, era parte, quand’ero ragazzo e ancora negli anni
dell’adolescenza e della prima giovinezza, di quelle piccole cose che suscitavano
sempre in me un piacere assai intenso, fatto di sensualità e ricerca di purezze ancestrali.
Come anche la nenia lamentosa dei grilli e lo spettacolo delle lucciole sulle colline, la
sera d’estate, oggi del tutto scomparso, o il gracidare delle rane che saliva dal vallone
o, ancora, il tralucere dell’azzurro del cielo tra le foglie degli alberi quando vengono
mosse da una brezza leggera...
Tempo addietro, scartabellando tra le mie carte di tantissimi anni fa, mi è capitato di
ritrovare nel Diario che ho tenuto negli anni ‘54-’58, gli anni della mia maturazione
intellettuale e politica, dei versi che sono l’inizio di una poesia, poi mai portata a
termine, che mi paiono belli ancora oggi:
Gli occhi possono soltanto vedere
la polvere e la terra,
ma sentire ciò con il cuore
è pura gioia...
Proprio così: sentire con il cuore le tante piccole cose che ti offre la natura è dare gioia
alla vita! Ancora oggi del resto, che gli anni non sono più verdi, se pure non provo le
stesse intense emozioni di una volta, mi piace ascoltare il coro delle cicale che arriva
fino a me dai tanti alberi cresciuti, dal 1985, attorno alle palazzine del quartiere.
Ma, ahimè!, mie care nipotine, questo grazioso insetto bruno che impiega anni per
passare dallo stato di larva a cicala e che a me piaceva, ai tempi della ‘gnora Ava, anche
cacciare (ma per lasciarlo libero appena dopo la cattura), non gode di buona fama tra
tanti poeti e letterati; ed è da sempre bersaglio costante dei moralisti.
Tra le tante cose che mi è capitato di leggere in proposito, solo G.B. Marino, un poeta del
‘600 piuttosto ridondante nelle sue metafore ma comunque assai famoso ai suoi tempi,
ricorda, nelle Dicerie sacre, che i greci avevano elevato a geroglifico della musica la
cicala (in realtà, sono stati gli egiziani a farlo). Gli altri poeti o letterati, invece, in
genere della cicala non parlano bene e spesso non apprezzano neppure il suo canto,
come l’Ariosto che sentenzia: sol la cicala col suo noioso metro...
Del resto, basta guardare al significato che hanno parole come cicalare, cicaleccio o
191
cicala riferita a persone (di solito donne) per capire quanto sia estesa e radicata questa
cattiva fama.
Ma voi direte: ci sarà pure un motivo dietro una così poco lusinghiera, e tanto largamente
diffusa, opinione nei confronti delle cicale. Eh, sì! Avete ragione. Dietro c’è sicuramente
la favola narrata tanti secoli fa da Esopo sulla cicala e la formica, poi ripresa e raccontata
di nuovo tante volte nel corso dei secoli. Ricordate?
La cicala, quando arriva l’inverno, va dalla formica e chiede del cibo. E quella risponde:
“Ma perché non hai fatto provvista anche tu, questa estate?”. “Non potevo, si giustifica
la cicala, dovevo cantare le mie melodiose canzoni”. “E tu balla, adesso che è inverno,
le fa di rimando la formica, se d’estate hai cantato”.
Insomma, la formica laboriosa e previdente; la cicala ciarliera e imprevidente. Proprio
come, nel Dittamondo, le descrive Fazio degli Uberti, un poeta trecentesco, ghibellino
ed esule come Dante dalla sua città natale per ragioni politiche:
Tu vedi la formica
che d’affannar la state non cala,
onde poi il verno vive e si nutrica.
E, per contraro, vedi la cicala,
che canta e di sua vita non provede,
trista morir come la state cala.
Ai greci tuttavia, nonostante Esopo, le cicale piacevano.
Le donne usavano mettere cicale d’oro nelle loro pettinature, molti, quelle vere, se le
portavano in casa, dentro piccole gabbie, per sentirle cantare, i bambini poi erigevano
minuscole tombe per le loro cicale rapite da Persefone spargendo polvere su di esse; e il
citarista Eunomo, come racconta in un suo epigramma Paolo Silenziario, un poeta greco
del VI secolo dopo Cristo, offre in dono ad Apollo una cicala di bronzo per la vittoria
riportata in una gara di cetra: fu infatti la cicala, quando la corda si spezzò, a saltare
sulla cetra e con mormorio dolce prese il suono / della corda spezzata. E quella voce /
agreste, che s’udiva strepitare / nei boschi, si mutò in suono di cetra.
Lo stesso Omero non era da meno degli altri nell’apprezzare il canto delle cicale. Egli
paragonava addirittura i saggi raccolti attorno a Priamo proprio alle cicale dalla voce
fiorita, volendo con ciò fare un complimento ai consiglieri del venerando re troiano.
Anche Teocrito, greco di Siracusa e forse il più grande dei poeti alessandrini, amava le
cicale; e nei suoi Idilli fa più di un riferimento ad esse.
Una volta stridono forte sui rami ombrosi / le cicale bruciate dal sole, mentre tutto intorno
profuma dell’opulenta estate e dei suoi frutti; un’altra volta esse spiano dall’alto i pastori
che a mezzogiorno si riposano; un’altra ancora le cicale sono chiamate a testimoni della
grande abilità nel canto di Tirsi che racconta, con versi ispirati, della morte di Dafni
punito da Afrodite perché si era vantato di piegare Eros. Il tuo canto, dice il capraio che
ha insistito con Tirsi perché intonasse la canzone che egli ama più di ogni altra e che non
merita di essere abbandonata all’Ade che tutto fa scordare, è come miele per la tua bocca,
Tirsi, / e i dolci fichi di Egilo: / tu canti meglio delle cicale!
Ma chi di loro ha parlato in un modo tutto speciale è stato Platone.
192
Secondo il grande filosofo greco, che aveva animo di poeta, le cicale partecipano del
mondo divino delle Muse e presenziano all’ora afosa del meriggio, quando il demone
meridiano penetra nella mente sonnacchiosa dell’uomo e la sconvolge, le cicale anzi
sono, con il loro canto che molce chi le ascolta, come le sirene che distolgono gli
uomini dal loro cammino, perciò bisogna stare attenti a non lasciarsi istupefare dalla
loro presenza.
Ma sentiamo Platone, che di loro racconta nel Fedro, il dialogo intitolato alla bellezza.
Il primo accenno alle cicale è di Socrate quando, condotto da Fedro, si ritrova all’ombra
di un platano e di un agnocasto, un arbusto aromatico delle verbenacee.
Per Giunone, dice Socrate usando l’italiano un po’ arcaizzante ma proprio per questo
affascinante di Francesco Acri traduttore del dialogo, bel luogo quieto! Questo platano
distende i suoi rami ed è alto; e questo agnocasto alto anch’esso, co’ la sua ombra,
è bellissimo; ed è in sul rigoglio della fioritura, sì ch’egli è qui tutto un odore. E
vaghissima è la fonte d’acqua che scorre sotto il platano; ed è, come si sente ai piedi,
molto fresca... E, se altro vuoi, questo venticello d’estate piacevole è assai, e dolce; e
risponde con il mormorio suo lieve al coro delle cicale. Ma una bellezza poi è l’erba
che pianamente dechina, sì ch’ella par fatta proprio a ciò che un che ci si sdrai, posi
bene il capo.
Ma Platone, nel prosieguo del dialogo, torna ancora altre due volte, e non solo con degli
accenni, sul canto delle cicale.
Socrate e Fedro sono nel bel mezzo della loro lunga e impegnativa conversazione
sulla bellezza e l’amore e non s’accorgono del passare delle ore, ma ecco! il meriggio
comincia a incombere, la calura estiva è sempre più una cappa di piombo e la voglia di
approfittare, complice il coro insistente delle cicale, della bellezza e della frescura del
luogo, lasciandosi andare a un riposante sonnellino, tenta in modo quasi irresistibile i
due, mettendo a rischio, come dice Socrate, la ricerca della verità.
Ma Socrate resiste alla fascinazione così piena di ammiccamenti magici della stagione e
del mezzodì che sovrasta; e sprona Fedro a non farsi irretire, neanche lui, dal canto delle
cicale e a non abbandonarsi perciò al piacere del sonnecchiare per pigrizia della mente,
piacere servile per il quale le cicale li irriderebbero. Esse ci stanno osservando, fa sapere
Socrate al suo interlocutore, cantando in sul nostro capo e ragionando, pertanto bisogna
che anch’essi continuino a ragionare, non solo per cercare la verità ma anche per potersi
guadagnare il premio che le cicale hanno ricevuto dagli dei per darlo agli uomini.
Le cicale quindi, secondo Platone, sono anche filosofe, per la loro capacità di ragionare.
Ma il loro canto ha anche la forza del canto delle sirene e occorre quindi stare sempre
sul chi va là per sottrarsi alla trappola della irrazionalità presente nel canto. Come
Ulisse, che sceglie sì di ascoltare il canto delle sirene che gli uomini / stregano tutti, chi
le avvicina, ma facendosi legare all’albero della nave per non lasciarsi stregare anche
lui, dopo aver tappato con la cera le orecchie dei suoi compagni:
Chi ignaro approda e ascolta la voce
delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli,
tornato a casa, festosi l’attorniano,
ma le Sirene col canto armonioso lo stregano,
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sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri
umani marcenti, sull’ossa le carni si disfano.
Ma perché le cicale hanno un tale posto nel mondo di Platone? Egli ce lo spiega facendo
raccontare a Socrate la nascita delle cicale e il dono che ad esse fecero le Muse.
Si conta, narra Socrate, che un tempo le cicale erano uomini, prima che fossero nate
le Muse; nate le Muse, la prima volta risonando per l’aria il canto, quelli furon
così dal piacer presi, che, messisi a cantare, non curarono di cibo e bevanda, e, non
accorgendosi, si morivano. E allora venne da essi la famiglia delle cicale, le quali
ebbero dalle Muse questo premio, di non aver niente bisogno di mangiare e di bere, e,
così vuote, di cantare non sì tosto che elle son nate infino a che non son morte, e dopo
andare alle Muse a recar le novelle qual di quaggiù a quale di loro fa onore. A Tersicore
contan di quei che onorano lei ne’ cori, e fanno che le sian più cari; a Erato, di quei che
onoran lei nelle cose d’amore, e così simigliantemente alle altre, a ciascuna secondo la
speciale dignità sua; e all’antichissima Calliope, e ad Urania che le vien dopo, contan
di quei che filosofando passano la vita onorando la lor musica... Per molte ragioni,
dunque, s’ha a dire qualche cosa, e non si ha a dormire a mezzogiorno.
Le cicale, dunque, sono, per Platone, anche tramiti tra l’uomo e le Muse, e simbolo
anch’esse, per il loro canto, della bellezza; e questa è la ragione del posto particolare
che esse occupano nella considerazione del filosofo greco.
Ma che dire a questo punto, mie care nipotine?
Dopo aver ascoltato dalla voce di Socrate un mito così bello, non possiamo che far
nostra la conclusione che ci suggerisce lo stesso Platone: la poesia, il canto, la filosofia
appartengono al mondo degli dei e sono sotto la protezione delle Muse e danno senso
e gioia alla vita.
Apprezziamo dunque le formiche, la cui natura, come dice un vecchio poeta, è durare
fatica, quelle formicuzze così diligenti e laboriose, tutte in fila e sempre indaffarate ad
accumulare cibo per l’inverno, che il nonno vi ha fatto conoscere quando eravate ancora
piccoline, mentre vi portava a spasso vicino casa, e voi magari vi divertivate anche a
disturbarle nel loro infaticabile ed eterno andare e venire: è attraverso il lavoro infatti
che l’uomo crea se stesso, la sua vita, la sua civiltà.
Ma se non ci fossero anche le cicale, sia pure con il loro canto roco, come lo definiva
Virgilio, la vita sarebbe grigia e vuota e le nostre emozioni resterebbero inespresse e si
trasformerebbero, anzi, anch’esse in fatica e sudore.
Anche il loro canto, come ogni altro canto, è un dono degli dei, che ci aiuta a sollevare
lo sguardo dalle brutture della vita, a darle un senso e una prospettiva, a migliorare la
condizione dell’uomo e, come scrive Ovidio nelle Metamorfosi, a volgere il viso verso
le stelle e guardare il cielo, guardare il futuro.
Ma ora basta con questa lunga divagazione e torniamo a dipanare il filo dei ricordi...
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Capitolo X
Il mio impegno come segretario di federazione si concluse agli inizi dell’autunno del
1975, all’indomani cioè delle elezioni amministrative e regionali, con la elezione di
Mimmo Bafile al mio posto.
Non è che l’idea di andare al Comitato regionale del partito, con la responsabilità
dell’organizzazione, mi entusiasmasse particolarmente.
Ero convinto infatti che sarebbe stato utile che io continuassi a guidare la federazione
ancora per qualche tempo, in modo da consolidare il gruppo dirigente emerso dalle lotte
sociali e politiche di quegli anni e dal confronto interno. Forse, la mia preoccupazione
era un po’ esagerata; sta di fatto comunque che, a distanza di non molti mesi dal mio
trasferimento a Pescara, cominciarono a manifestarsi crepe di varia natura nel partito,
sia all’interno del gruppo dirigente più ristretto sia nel rapporto della federazione con
alcune sezioni del Sangro, in relazione in particolare alla fase conclusiva della vicenda
Sangro-Chimica.
Era anche vero però che una esigenza analoga di consolidamento si poneva per il
Comitato regionale.
Con l’andata via di Trivelli c’era infatti il rischio che tornassero a prevalere vecchie
logiche particolaristiche e facessero un passo indietro sia il ringiovanimento dei gruppi
dirigenti sia il processo di regionalizzazione nell’orientamento del partito abruzzese che
in quegli anni aveva fatto notevoli passi avanti.
Così alla fine, dopo ripetute sollecitazioni, accettai la proposta che mi era stata fatta
da Gigetto Sandirocco, divenuto a sua volta segretario regionale da pochi mesi; e,
di conseguenza, trasferii a Pescara la mia sede di lavoro, mantenendo tuttavia stretti
legami con Chieti: oltre a restare negli organismi dirigenti della federazione, rimasi
infatti anche nel Consiglio comunale della città.
Iniziò così, con il mio nuovo lavoro al Comitato regionale, una nuova avventura
che, come già in altre occasioni, mi obbligò a rimettere in discussione me stesso e
a confrontarmi con una realtà molto più ampia e complessa qual era appunto quella
regionale. Ma, anche qui come sempre, non mi persi d’animo e mi rimboccai subito le
maniche.
Potevo contare, d’altronde, sulla conoscenza che già avevo dei compagni che più
pesavano nella vita del partito in Abruzzo e sul fatto che, da parte loro, c’era un
apprezzamento non formale nei miei confronti come ebbi poi la possibilità di constatare
nei mesi successivi.
Si rivelò molto importante per me anche la fiducia che mi venne dai compagni di
Pescara, fiducia che, anche qui, ebbi modo di verificare in seguito andando spesso nelle
sezioni della città.
Pescara del resto, per la sua storia stessa, è una città aperta, che non chiude mai
pregiudizialmente le porte a nessuno, anzi... Salvo, ovviamente, a non deludere le
attese.
E’ chiaro che, in tutto questo, mi fu di grandissimo aiuto quel che eravamo riusciti a
fare a Chieti negli anni in cui io avevo diretto la federazione considerata da sempre una
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realtà assai difficile politicamente, per lo strapotere che avevano Gaspari e la DC in
provincia.
D’altra parte, erano lì, a sottolineare l’importanza e la positività del nostro lavoro, i
grandi successi conseguiti anche in provincia di Chieti prima con il referendum del
maggio ‘74 e poi con le elezioni regionali e amministrative del giugno di quell’anno.
Le elezioni, infatti, si erano concluse con una affermazione del PCI senza precedenti
anche da noi; e anche da noi quelle elezioni segnarono un mutamento profondo del
quadro politico.
Conquistammo un gran numero di Comuni (alcuni anche abbastanza grandi), da soli o
con liste unitarie, aperte alla società civile; si fece più ampia la nostra rappresentanza
nei Consigli comunali delle città maggiori della provincia e nello stesso Consiglio
provinciale e contribuimmo in misura sostanziale a far perdere alla DC la maggioranza
assoluta nel Consiglio regionale (la DC perse la maggioranza assoluta anche nel
Consiglio provinciale e fu lì lì per perderla nella stessa città di Chieti).
Era il risultato di un lavoro che ci premiava, frutto della capacità di un partito
profondamente rinnovato e ringiovanito di raccogliere, grazie alle lotte condotte in
quegli anni, non solo il malcontento ma soprattutto la grande voglia di cambiamento
che animava i ceti popolari e gli stessi strati medi della popolazione.
Un lavoro, d’altra parte, che aveva dato i suoi frutti già l’anno prima in occasione
del referendum sul divorzio, con la vittoria addirittura, a Chieti città, del no alla
cancellazione di una conquista di civiltà come il divorzio (a livello provinciale, il no
andò invece sotto, sia pure per poco).
Alla base di questo successo in città, nel referendum, ci fu soprattutto il lavoro delle
compagne. Infaticabili, armate di materiale di propaganda e di argomenti che nascevano
dalla vita stessa, visitarono quasi tutte le abitazioni della città, senza trascurare le contrade
di campagna, svolgendo un lavoro certosino di informazione e di convincimento davvero
straordinario in particolare nei confronti delle donne.
C’era allora in giro, soprattutto tra le masse femminili, una grande disponibilità
all’ascolto, e questo naturalmente fu tutto a vantaggio dei sostenitori del divorzio,
disponibilità che oggi, almeno su certi argomenti, sembra invece venuta meno.
Dico questo, avendo presente quel che è accaduto in Italia nel referendum sulla
procreazione assistita del giugno 2005: argomento, certo, di grande complessità e che
sicuramente porta ciascuno di noi a porsi tanti interrogativi sul futuro dell’uomo, l’uso
e i fini della scienza, i limiti stessi della ricerca scientifica e tecnologica, ma che tutto si
sia risolto con l’astensione dal voto della grande maggioranza degli elettori, con il rifiuto
cioè di assumersi responsabilità di alcun genere, bene, questo è assai preoccupante.
Non solo per la difesa della laicità dello Stato, visti gli interventi sempre più insistiti
e invadenti su materie di natura etica (e non solo) di una gerarchia ecclesiastica che
continua, con una ostinazione incredibile, a rimuovere dai suoi orizzonti la modernità e
a non farci i conti. Ma anche perché questioni di così tanta importanza non si possono
affidare al discernimento di pochi; né ci si può far paralizzare dalla paura, chiudendo le
porte a un domani che comunque ci sarà e rischia di essere deciso solo dagli altri.
Su tutto questo la sinistra deve riflettere.
Materie così sensibili dal punto di vista della coscienza individuale e collettiva hanno
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bisogno della politica e del coinvolgimento di grandi masse, come avvenne a suo
tempo sia per il divorzio che per l’aborto. Così come bisogna, tenendo conto certo della
particolare natura dei problemi di oggi ma anche di un mondo che si è fatto sempre più
plurale, riaffermare con forza la laicità della politica e dello Stato. Sapendo pure che il
contrasto non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi vuole decidere per tutti le cose
da fare e in cui credere e chi pensa invece che sempre va salvaguardata la libertà di
ciascuno e di tutti.
Ma riprendiamo il racconto della mia nuova avventura...
Gli anni passati al Comitato regionale furono segnati, dal punto di vista politico, in una
prima fase da una ulteriore espansione della forza organizzativa ed elettorale del PCI
e dall’accrescimento del suo ruolo nella vita politica regionale, in particolare durante
il periodo delle cosiddette larghe intese; e, successivamente, dopo le elezioni del ‘79,
dalle nostre crescenti difficoltà a contrastare i processi di involuzione politica che si
manifestarono anche in Abruzzo, sia per ragioni legate alla vita regionale che per la
spinta che veniva dalle vicende politiche nazionali.
La seconda metà degli anni ‘70 iniziò infatti con un nuovo, grande successo elettorale,
in occasione delle elezioni politiche del 1976: più 7,2% di voti sul risultato delle elezioni
regionali, già di per sé straordinario, e il raggiungimento, con il 34,4%, del massimo dei
consensi elettorali mai registrato dal PCI nella regione.
Anche nelle lotte per la difesa del lavoro e per un rinnovato sviluppo dell’Abruzzo ci
fu un salto di qualità, grazie alla forza più consistente del PCI nel Consiglio regionale
eletto nel 1975 e, poi, grazie al nuovo ruolo che il PCI ebbe nella vita regionale con le
larghe intese.
La DC tuttavia, finché le fu possibile e nonostante le due sconfitte consecutive del
‘75 e del ‘76 e dello stesso ‘74, si oppose con rabbia e determinazione a ogni idea di
cambiamento nell’assetto di potere regionale che la vedeva da decenni perno di un
sistema sostanzialmente immobile e chiuso, anche se la esigenza del rinnovamento era
ormai nelle cose e si era espressa in maniera chiara e dirompente attraverso il voto:
l’anticomunismo, la difesa del suo sistema di potere fondato largamente sul clientelismo,
il timore di perdere rendite di posizione le impedivano di muoversi.
Ma si trattava di un atteggiamento insostenibile e alla fine fu costretta ad aprire
comunque un confronto con noi che si concluse, tra molte difficoltà, con un accordo
programmatico abbastanza innovativo (anche se il PCI rimase fuori della Giunta) e con
la elezione, nel febbraio del 1977, di Arnaldo Di Giovanni a presidente del Consiglio
regionale.
Un processo più o meno analogo interessò anche molti enti locali, con la sottoscrizione
di accordi programmatici anche da parte del nostro partito, ma neanche in questo caso i
comunisti entrarono a far parte delle giunte.
Si creò insomma una situazione, come del resto in Italia con la costituzione del governo
di solidarietà nazionale diretto da quel fior di conservatore che era Giulio Andreotti, che
rendeva i comunisti corresponsabili delle scelte compiute a livello di governo, ma senza
che essi potessero partecipare in concreto alla gestione di quelle scelte. Il risultato fu
un progressivo logoramento della nostra forza e una ripresa sia della DC che del PSI e
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degli altri partiti tradizionalmente alleati della balena bianca.
Ricordo, ad esempio, di quegli anni le defatiganti riunioni che periodicamente si
tenevano tra i partiti di maggioranza alle quali ovviamente partecipavamo anche noi,
costretti però spesso a mediazioni al ribasso o a prendere atto della impossibilità di
arrivare a conclusioni accettabili o, ancora, ad approdare a risultati di un certo rilievo
solo dopo molti incontri.
Con questo non voglio dire che la politica delle larghe intese non produsse nulla. Ci
furono risultati anche importanti, ad esempio, sul piano delle scelte programmatiche e
nella ricerca di un terreno comune per dare soluzioni concrete alle lotte di quegli anni.
Quel che non ci fu invece, e che fu all’origine della crisi che poi travolse sia la politica
di solidarietà nazionale che quella delle larghe intese, fu quel mutamento radicale di
prospettive che la gente si attendeva soprattutto nell’economia e nella politica del lavoro
e dello sviluppo, anche se queste esigenze erano presenti nei programmi sottoscritti:
fummo costretti così a tornare all’opposizione e a pagare sul piano elettorale un prezzo
piuttosto salato.
Nelle elezioni del ‘79 perdemmo infatti, sia a livello nazionale che in Abruzzo, intorno
al 4% dei nostri consensi.
Ricordo a questo proposito una chiacchierata con Gerardo Chiaromonte a l’Aquila, in
occasione di una iniziativa del partito in città prima della nostra uscita dalla maggioranza
di governo, a distanza quindi di diversi mesi dalle elezioni del giugno ‘79.
Chiaromonte mi chiese cosa pensavo della piega non positiva che ormai aveva preso la
situazione politica, e quali erano le reazioni della gente; la mia risposta fu che avremmo
perso parecchi voti. Non è che lui non sapesse bene come stavano le cose, ma cercava
semplicemente delle conferme nelle varie realtà del Paese. Si respirava infatti nell’aria
la delusione di tanti nostri elettori e dello stesso nostro partito!
Ricordo anche che di queste questioni cominciammo a discutere anche nel nostro primo
Congresso regionale che si tenne sul finire del ‘76 (o agli inizi del ‘77) e del quale io
stesi il documento posto poi a base della discussione congressuale. L’unica cosa che
però ottenemmo, sotto la spinta del forte malcontento che saliva dalle sezioni, fu la
elezione di Arnaldo alla presidenza della Regione, costretto poi a dimettersi quando
scegliemmo di tornare all’opposizione.
Non è qui il caso di addentrarsi in una analisi dettagliata delle ragioni che portarono a
questo esito la nostra politica.
Oltre alle ragioni nazionali e a quelle internazionali (queste ultime condizionarono
fortemente in quegli anni la politica italiana), ci sono stati certamente anche nostri errori
e inadeguatezze.
Penso, ad esempio, che contò molto la difficoltà nostra a portare l’intero partito a
muoversi come forza di governo e non come forza di opposizione costretta, a causa
delle circostanze, a condividere una politica di governo, con la conseguenza di non
riuscire poi a far valere fino in fondo, né come forza di governo né come opposizione,
il grande consenso che ci era venuto dagli elettori nel ‘75 e nel ‘76.
Del resto, era già presente nel partito, già nel momento in cui ci incamminammo
su questa strada, una resistenza di settori di base abbastanza ampi alla politica della
solidarietà nazionale e delle larghe intese che non tardò a manifestarsi in maniera aperta
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e con più consistenza appena se ne presentò l’occasione.
I compagni poi avevano difficoltà a intrecciare, nella loro azione quotidiana, i due poli
della nostra principale parola d’ordine di quel periodo: partito di lotta e di governo.
Nei fatti, accadeva spesso che o si era troppo di governo o troppo di opposizione,
riducendo così la nostra capacità di incidere sulle scelte concrete e di colpire le resistenze
al rinnovamento che venivano dalla DC. Questo accadeva soprattutto dove avevamo
firmato accordi di programma pur essendo deboli politicamente e organizzativamente,
oltre che come consensi elettorali: la nostra debolezza diventava così essa stessa motivo
di logoramento ulteriore della nostra credibilità.
Ad essere onesti, di queste difficoltà eravamo avvertiti già in quegli anni, tanto è vero
che ponemmo anche questo tipo di problemi al centro del nostro dibattito congressuale
regionale, ma le scelte che allora compiemmo bisogna dire che non si dimostrarono
affatto sufficienti, anche perché c’era qualcosa più di fondo che ci sfuggiva e che doveva
presentarsi in termini più chiari alla fine del cammino che concluse la storia del PCI.
Parlo del nostro ritrarci, di fronte al fallimento della solidarietà nazionale e delle larghe
intese, i cui effetti cominciarono a manifestarsi abbastanza presto, a farci portatori di
una nuova strategia di alternativa alla DC che facesse perno sull’unità delle sinistre.
Parlo ancora dei nostri errori di analisi circa la natura della crisi che stava allora
investendo l’intero mondo capitalistico e gli sbocchi che esso avrebbe avuto con l’avvio
della globalizzazione, oltre che della nostra difficoltà a immaginare una nuova svolta
nella politica del PCI della stessa profondità di quella che Togliatti propose a Salerno,
al suo ritorno in Italia dopo i lunghi decenni di esilio, insomma della incapacità (o
impossibilità?) a compiere scelte nuove, radicali, proprio quelle che gli scenari che si
sarebbero presentati alla fine degli anni ‘80 avrebbero poi imposto.
La cosa paradossale, a guardare oggi le cose con il cannocchiale del tanto tempo
trascorso, è che negli anni ‘80, nonostante la sconfitta subìta nel ‘79, il PCI restava pur
sempre una grande forza, popolare, di massa e con un consenso elettorale altissimo:
questo avrebbe dovuto aiutarci ad aprirci senza reticenze al nuovo che stava maturando
con grande rapidità in Italia e nel mondo, e invece...
E’ dentro questa cornice tormentata e complessa che io svolsi la mia attività di
organizzatore del Comitato regionale, negli anni che vanno dall’autunno del ‘75 all’inizio
del ‘79 quando lasciai la segreteria regionale per assumere l’incarico di segretario della
federazione di Pescara.
In realtà, la mia attività non si limitava solo alle questioni di natura organizzativa, ma
coordinavo tutto il lavoro della segreteria regionale e sovrintendevo, diciamo così, alle
iniziative più diverse del partito.
Di fatto svolgevo funzioni di vice-segretario; e questo mi consentì di girare tutta la
regione, partecipando alla discussione interna del partito nelle varie federazioni, di
tenere comizi e riunioni nelle realtà dove più significativa era la nostra presenza e di
aprire o concludere importanti manifestazioni pubbliche del nostro partito.
Inoltre, era in genere mio compito presiedere e intervenire nelle riunioni delle varie
Commissioni nelle quali si articolava allora l’attività del Comitato regionale e preparare
i documenti più significativi, non solo per la parte che riguardava il partito ma anche per
199
la parte politica: insomma, fu un periodo di lavoro molto intenso, in cui credo di aver
dato un contributo di primo piano alla politica regionale del PCI in quegli anni.
All’epoca, la segreteria regionale era composta solo di tre compagni: Sandirocco,
naturalmente, Di Giovanni, che era il nostro capogruppo alla Regione, e io.
Una segreteria ristrettissima, dunque, ma che era da un lato il frutto della forza politica
e del prestigio del nuovo gruppo dirigente regionale e dall’altro l’espressione di una
volontà di continuare con il processo di rinnovamento e ringiovanimento avviato da
Trivelli. E molti, infatti, furono i giovani che in quegli anni assunsero responsabilità
politiche e di lavoro di sempre maggior rilievo sia nelle federazioni che nello stesso
Comitato regionale. Non sempre le scelte, ovviamente, si rivelarono azzeccate, qualcuna
anzi si rivelò subito inadeguata e fummo costretti a cambiarla rapidamente, ma questo
fa parte del rischio che corre chiunque accetti di scommettere sul futuro...
Una segreteria anche molto unita, debbo dire. Non solo politicamente, ma anche dal
punto di vista dei rapporti personali.
Gigetto ormai lo conoscevo da tempo; Arnaldo, invece, solo da poco, ma non tardammo
molto a entrare in sintonia tra di noi e a fare amicizia.
Arnaldo aveva alle spalle una lunga esperienza sindacale e politica, a cui univa doti
di acutezza e realismo, e sapeva trattare sia con i compagni che con gli avversari; era
poi uomo aperto, gioviale, amante della caccia e della musica classica, soprattutto di
Beethoven, e di modi sempre gentili (ma, quando le circostanze lo richiedevano, sapeva
anche essere di una durezza insospettabile).
Il rapporto, molto forte, che si stabilì tra noi tre ci consentì naturalmente di governare
il partito con fermezza, ma anche con grandi aperture verso i giovani, e di farlo senza
fatica anche quando la situazione cominciò a farsi difficile.
Quanto ai problemi del partito in senso stretto, che erano di mia specifica competenza e
che seguii sempre con molta attenzione, negli anni immediatamente successivi al ‘76 la
nostra forza organizzata continuò a crescere.
Ci avvicinammo addirittura ai 40.000 iscritti, un esercito in una regione piccola come
la nostra!
Non solo: organizzammo anche numerosi corsi di formazione politica, utilizzando
sia strutture nazionali che le sezioni, alle quali parteciparono tanti dei giovani e delle
ragazze venuti al PCI negli anni ‘70.
Un trend così positivo si esaurì però abbastanza rapidamente, dopo il fallimento della
solidarietà nazionale; e i progetti costruiti sull’idea, piuttosto balzana ma che pure
circolava tra le nostre file anche a livello nazionale, di una tendenza all’espansione della
nostra forza destinata a durare per chissà quanto tempo si ridussero presto a cenere.
Avevamo stranamente dimenticato che, come scrive un autore latino di sententiae
dell’età di Cesare, Publilio Siro, fortuna vitrea est, tum cum splendet frangitur, la
fortuna è fatta di vetro e proprio quando essa splende va in frantumi!
Uno spazio particolare, in tutta questa attività, fu riservata alle donne, non solo con
l’intensificazione del reclutamento tra le masse femminili, ma portando anche molte
compagne negli organismi dirigenti regionali del partito e, soprattutto, creando le
strutture necessarie per rendere stabile il nostro lavoro in direzione delle donne su tutto
il territorio della regione.
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L’esperienza di quegli anni mi portò anche a contatto con molti dirigenti nazionali del
PCI e, soprattutto, con tanti compagni e tante compagne delle varie zone dell’Abruzzo:
ogni tanto mi capita di rincontrarne qualcuno e noto con piacere che egli si ricorda
ancora di me...
Essa inoltre cementò amicizie che hanno resistito al tempo, anche se in molti casi le
traversie personali o l’età hanno via via allentato i rapporti e spesso li hanno anche
interrotti. In ogni modo mi ha consentito di entrare in relazione e spesso in amicizia con
uomini e donne di grandi qualità intellettuali e politiche, che in vario modo, con la loro
attività, dentro o fuori le istituzioni, hanno dato un contributo importante allo sviluppo
della regione.
A questo punto, mie care nipoti, mi pare chiaro che voi vogliate sapere qualcosa anche
sulla mia vita privata di quegli anni. Ebbene, vi accontento subito, anche se rievocare
alcuni momenti dolorosi di quel periodo mi procura turbamento ancora oggi.
In generale, le cose di casa andavano abbastanza bene.
Massimiliano, alla fine degli anni ‘70, aveva iniziato il liceo scientifico, mentre Stefano
frequentava ancora le medie. Se la cavavano bene tutti e due, anche se, a ogni cambio di
scuola, Stefano si ritrovava sempre, all’inizio, alle prese con qualche problema.
Stefano, infatti, che per tutte le elementari aveva avuto una sola maestra, cosa
che evidentemente lo aveva abituato a vivere dentro una specie di acquario fatto di
tranquillità e sicurezza, soffriva i cambiamenti. Massimiliano, invece, no: alle elementari
aveva cambiato più volte maestro e non si lasciava perciò prendere dal panico di fronte
ai cambiamenti o anche a mutamenti improvvisi di situazione, era capace anzi di
improvvisare quando, ad esempio, a scuola veniva interrogato e non aveva studiato a
sufficienza, cosa che al contrario non riusciva a Stefano che non a caso si applicava allo
studio più del fratello. In ogni modo sono sempre andati bene sia l’uno che l’altro.
Anche per quanto riguarda le loro amicizie a scuola e fuori della scuola, non ci siamo
mai dovuti lamentare. E questo forse sarà dipeso un poco anche dall’impegno nostro a
renderli responsabili, sin da quando erano piccoli, di quel che facevano.
Ricordo, a questo proposito, che, quando erano ancora piccoli, nei giorni che Rosetta
doveva rientrare al lavoro il pomeriggio, di solito restavano da soli a casa, con
Massimiliano che badava al fratello più piccolo: ebbene, non si sono mai creati problemi
e se incontravano per caso qualche difficoltà telefonavano subito alla mamma.
In quegli anni si ritrovavano spesso anche con me, nei giorni festivi, a un comizio
o a una riunione. Non mancavano poi mai alle feste de l’Unità che si tenevano alla
Civitella; e ricordo che in queste occasioni passavano il loro tempo, fatto di parecchi
giorni, a scorrazzare in bicicletta per tutto il campo, mentre sia io che Rosetta eravamo
impegnati nelle attività della festa.
Ricordo, in fatto di feste de l’Unità, che parteciparono anche alla grande festa de l’Unità
che, nell’estate del 1981, quando ero segretario della federazione di Pescara, si svolse
al Parco D’Avalos.
A quella festa, anzi, Massimiliano, che aveva avuto in regalo un biglietto della lotteria
organizzata dal partito per finanziare la festa e parte della nostra attività durante l’anno,
vinse il primo premio che consisteva in una bella bicicletta da corsa: lo vedo ancora oggi
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mentre corre tutto trionfante in bici verso lo stand della cucina dove stava lavorando la
madre, con il fratello che gli correva dietro a piedi anche lui molto contento!
Questa abitudine di portarli con noi, d’estate o comunque quando non c’era di mezzo
la scuola, è continuata anche quando si sono fatti più grandicelli. Ad esempio, sono
stati spesso a Roma quando c’era qualche riunione in Direzione o qualche convegno e,
mentre io ero chiuso a Botteghe Oscure per i miei impegni, loro invece, assieme alla
madre, giravano per Roma, nelle zone del centro storico.
Ricordo anche una festa nazionale de l’Unità a Roma, conclusa da Enrico Berlinguer,
alla quale vennero anche loro.
La giornata era trascorsa tranquilla, a un certo punto però, mentre tornavamo dal comizio
verso il pullman, cominciò a piovere a dirotto e ci bagnammo tutti come pulcini, ma
fummo fortunati: nella trattoria nella quale ci fermammo per mangiare qualcosa prima
di ripartire verso Chieti, i padroni di casa furono così gentili da mettere ad asciugare alla
bocca del forno scarpe, calzini e vestiti dei ragazzini.
Nella seconda metà degli anni ‘70, dopo che mia suocera fece ristrutturare e rimettere a
nuovo la sua casa natia, rimasta per decenni nell’abbandono più totale, cominciammo a
frequentare anche Villalago per le vacanze.
La prima volta che andai a Villalago fu, per la verità, all’inizio degli anni ‘60.
Ricordo che Rosetta, il padre e la madre vi arrivarono con l’apetta, un po’ malmessa,
che usava mio suocero per girare nei mercati ambulanti dei paesi, io invece arrivai con
la vespa di cui disponevo allora: eravamo ancora fidanzati e andammo a trovare un
cugino di mia suocera, zi’ Luigi, con il quale essa non si vedeva da tempo, in pratica da
quando, alla fine degli anni ‘30, aveva lasciato Villalago per trasferirsi con il marito,
fresco d’altare, sulla costa.
L’impressione che ricavai dal mio primo incontro con le gole del Sagittario, mentre
mi inoltravo con la mia vespa lungo la strada che da Anversa porta a Villalago, fu
straordinaria.
L’orrido del burrone, in certi tratti anche assai profondo, mi affascinava, ma nello stesso
tempo ero fortemente preoccupato dalle trappole di un percorso stretto e pieno di curve,
in molti punti scavato nella montagna e quindi con grandi speroni di roccia incombenti
sulla testa di chi vi transitava, a ogni curva poi sembrava che il burrone, sempre così a
ridosso della strada e tanto somigliante a un girone dantesco, ti dovesse inghiottire da
un momento all’altro!
Altrettanto emozionante fu l’impatto con Villalago.
Il paesino, che giace come un presepe lungo un costone di montagna a strapiombo sulla
diga artificiale di S. Domenico, mi piacque subito.
Mi piacquero subito anche le stradine strette e incassate tra lunghe file di case basse
e disadorne che si inerpicano verso la parte alta del paese, anche se le scalinate, a
volte assai ripide, che da esse si diramano per raggiungere le abitazioni del centro
storico, ci avvertirono già allora della fatica necessaria per scalarle, una fatica che oggi
naturalmente si fa sentire ancora di più non solo per l’età quanto, soprattutto, per le
troppe cose che, ogni volta che andiamo a Villalago, bisogna scaricare dalla nostra Audi
80 del ‘92 e portare fino a casa.
202
La casa di mia suocera, invece, allora assai malridotta e utilizzata da un vicino come
stalla per le galline e ripostiglio per la legna, non mi parve granché.
Essa aveva tuttavia una buona posizione panoramica.
Costruita, forse nel ‘700, sul ciglio del grande burrone sul cui fondo scorre il Sagittario,
che proprio all’altezza di Villalago emerge all’aperto dal percorso sotterraneo seguito
fino ad allora, è possibile ammirare da essa dei paesaggi diversi e tutti bellissimi.
Dalla finestrella, che si apre sullo strapiombo, si scorgono le acque azzurrine e
limpidissime della diga lunga e stretta di S. Domenico, mentre dagli abbaini sul tetto ti
si stagliano di fronte, ad est, il massiccio calvo del Monte Genzana tagliato dalla grande
frana che diede origine al bellissimo lago di Scanno e, sul lato opposto, la grande mole
della Montagna Grande dove mia suocera, quand’era ragazza, si recava, assieme alle
sue coetanee, a raccogliere la legna che poi riportava in paese caricandosela sulla testa;
inoltre, davanti casa, dal pianerottolo che interrompe la sequenza di scale che porta alla
nostra abitazione, si può invece allungare lo sguardo verso la parte bassa e più recente
del paese e via via seguire il paesaggio assai brullo e tormentato della valle che sfocia,
dopo qualche chilometro, nel lago di Scanno.
A quella prima visita però non ne seguirono altre, se non una decina di anni dopo, in
occasione del matrimonio di Michele, il figlio di zi’ Luigi.
L’occasione fu buona non solo per rinnovare la sua conoscenza, ma anche per farci
invitare a passare l’estate a casa sua. Noi ovviamente accettammo e così, per un paio
d’anni, fummo prima suoi ospiti e, poi, di una zia di Rosetta con la quale erano intanto
ripresi i rapporti: zia Assunta, che poi emigrò in Canada per raggiungere i figli, essa
ci propose anche di acquistare la sua casa, per un prezzo del tutto accettabile, ma noi,
purtroppo, non avevamo una lira!
Cominciammo invece a frequentare assiduamente Villalago, solo dopo che, finalmente,
avemmo a disposizione, rimessa a nuovo, la casa di mia suocera. Fu, all’incirca, tra il
‘77 e il ‘78, e da allora tutti gli anni, nel mese di agosto, vi passiamo una ventina di
giorni, oltre a qualche fine settimana, quando il tempo è bello, a primavera o agli inizi
dell’estate.
Ogni tanto naturalmente, durante l’anno, soprattutto in occasione delle feste, facevamo
una scappata anche a Orsogna, dai miei.
Ma vi restavamo in genere solo poche ore, il tempo per il pranzo e per scambiare quattro
chiacchiere con i miei genitori e le mie sorelle che di solito, nel pomeriggio, arrivavano
anch’esse da mia madre, e poi, più tardi, con i compagni e gli amici in piazza.
In primavera o d’estate, non mancavamo neppure, prima di ripartire, di fare una tranquilla
passeggiata lungo il bel viale, con ai lati i due filari di pini piantati nell’immediato
dopoguerra dall’Amministrazione repubblicana, che dalla piazza porta alla stazione.
Solo una volta invece, nel 1965, quando i miei abitavano ancora in campagna, abbiamo
passato con loro le vacanze.
Ricordo che era il mese di agosto e Massimiliano aveva solo poco più di un anno, ma
fu un disastro e da allora non si parlò più di vacanze a Orsogna. Il caldo, le zanzare,
l’assenza di servizi, le difficoltà a trovare tutto quel che serviva per il bambino ci
convinsero che era meglio passare altrove l’estate.
Ma di quella vacanza disgraziata ricordo soprattutto un episodio che capitò durante le
203
feste di S. Rocco e che rappresentò la goccia che fece traboccare il vaso.
In quei giorni, la sera, tornavamo tutti in paese e Massimiliano era ben contento di
ritrovarsi tra le tante luci della festa. Ma, mentre la sera di ferragosto il bambino rimase
tutto tranquillo nel suo passeggino, fino a ora tarda quando si spengono le luci della festa,
la sera del 16 invece, proprio il giorno dedicato a S. Rocco, a un certo punto attacca con
i capricci del sonno e non riusciva ad addormentarsi. Rosetta allora decide di tornare
subito a casa, e così con la macchina l’accompagno fino davanti alla porta della masseria
e torno di corsa in paese per godermi il resto della festa, mai pensando, mie care nipoti,
che la nonna si potesse trovare in difficoltà. E invece fu proprio quel che accadde; ed essa
è ancora lì, a recriminare contro mia madre che non le aveva dato la chiave del piano di
sopra dove si trovavano le camere da letto!
Lei, infatti, appena entrata in casa, aveva preso subito la strada delle scale per andare
a mettere il bambino a dormire, ma quale non fu la sua sorpresa quando trovò la porta
sbarrata: mia madre, per paura dei ladri, l’aveva chiusa a quattro mandate, ma si era
scordata di darle la chiave e così quando, a festa finita, tornammo anche noi a casa
trovammo Rosetta che ci aspettava seduta sulle scale, con il figlio addormentato in
braccio e il volto naturalmente rabbuiato e stanco...
Nella seconda metà degli anni ‘70, tuttavia, questo clima di tranquilla normalità fu rotto
da due avvenimenti luttuosi. Prima, dalla morte, nel dicembre del 1977, di Gino, il marito
di Nicoletta, la mia sorella minore; e poi, l’anno successivo, il 7 dicembre del 1978, da
quella di Peppino, il mio fratello più piccolo.
Gino, tornato da non molto tempo dalla Germania, dove era emigrato e aveva lavorato per
parecchi anni, assieme alla moglie, riuscendo così ad accumulare il denaro sufficiente per
costruirsi una casetta in campagna, con un po’ di terreno attorno, morì, ancora giovane,
in un modo del tutto inatteso e improvviso, nell’ospedale S. Camillo di Chieti; e ciò non
fece che accrescere il dolore di tutti e il rimpianto per una morte non solo così immatura
ma forse anche possibile da evitare.
Gino si era ricoverato in ospedale, nell’inverno del ‘77, per una banale quanto fastidiosa
bronchite che sembrava non volesse proprio lasciarlo, ma dopo qualche settimana di cure
la bronchite era scomparsa e i medici avevano fissato la data del suo ritorno a casa.
Ma il destino gli fece un bruttissimo scherzo e si accanì contro di lui. Il giorno prima di
uscire gli venne infatti praticata una iniezione che provocò una reazione anafilattica che i
medici non avevano in nessun modo messa nel conto delle possibilità: risultato, la morte
istantanea, e il compagno di stanza, a cui aveva chiesto pochi minuti prima di comprargli
il giornale, lo ritrovò disteso per terra, ormai senza vita!
Mia moglie, a cui un primario amico aveva comunicato qualche giorno prima, per
telefono, la data della sua uscita dall’ospedale, dallo stesso primario apprese, sempre
per telefono, anche la notizia della sua morte: la sua reazione fu una sola, mettersi a
gridare...
A distanza di appena un anno, la morte di mio fratello.
Anche in quel caso si trattò di una morte improvvisa e inaspettata. Mia madre lo trovò, la
mattina della vigilia dell’Immacolata Concezione, morto nel suo letto, senza che avesse
mai accusato in quei giorni o durante la notte qualche malore. Come ci disse il medico,
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c’era stato un arresto cardiaco che l’aveva fulminato, attorno al letto del resto non venne
trovato nulla che potesse far pensare alla ripetizione di un gesto che egli aveva tentato
qualche anno prima a Pescara.
Peppino, quando morì, aveva appena 23 anni, era dunque nel fiore della giovinezza.
Ma la morte, bisogna dire, fu per lui come una liberazione a causa delle gravi crisi di
personalità che lo tormentavano ormai da alcuni anni e lo stavano distruggendo a poco a
poco. Che vita avrebbe mai potuto essere la sua?
Egli era nato nel ‘55, quando mia madre aveva già superato la quarantina e i suoi fratelli e
sorelle maggiori avevano preso o stavano per prendere ognuno la propria strada, lontano
dalla casa paterna.
Il parto, gemellare, fu molto difficile, al punto che mia madre, che partorì a casa, venne
colpita da una forte emorragia da cui si salvò solo per miracolo (ricordo che corremmo
a prendere il sangue per la trasfusione all’ospedale di Chieti io e mio zio Antonio che
possedeva allora un furgoncino piuttosto scassato con il quale lavorava): egli sopravvisse,
ma il gemello morì appena nato.
Tuttavia, pur vivendo in casa quasi come un figlio unico e con genitori ormai anziani, la
sua infanzia e la sua adolescenza furono del tutto normali. A scuola andava bene, aveva i
suoi amici in paese e, dopo le medie, si era iscritto a un istituto tecnico di Lanciano, forse
avrebbe preferito fare un altro tipo di studi, ma, pur tra difficoltà nella fase conclusiva
dovute al malessere che lo aveva già colpito, riuscì tuttavia a conseguire il diploma di
perito.
A me e alla mia famiglia egli era molto legato, e veniva spesso da noi già da quand’era
poco più che un bambino.
Ricordo che spesso rimaneva per settimane a casa nostra, sia quando abitavamo a Chieti
sia quando ci trasferimmo a Vasto. Ricordo anche che ce lo portavamo spesso con noi
quando facevamo qualche gita, negli anni in cui avevamo cominciato a frequentare le
varie località della nostra montagna; e, siccome la sua età era più vicina a quella dei miei
figli che alla mia, egli giocava naturalmente con loro.
Un bel giorno però, nell’età che segna il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, la
sua vita cambiò radicalmente. Quel giorno fu come se un demone si fosse impadronito di
lui, trasformando la sua vita in un tunnel senza luce da cui uscì solo con la morte.
Divenne irrequieto, svogliato, incapace di dominare le sue emozioni o di soffermare a
lungo la sua attenzione su qualunque cosa, ossessionato dai suoi fantasmi, come se il
demone che lo possedeva lo stringesse forte alla gola e lo spingesse inesorabile verso
luoghi ignoti, senza ritorno.
Anche quando la malattia lo aveva preso, egli continuò a venire spesso da noi, trattenendosi
anche allora a lungo. La nostra casa era diventata per lui come un rifugio e, forse, come il
luogo dove pensava di poter ritrovare la normalità perduta, ma neppure questo, ahimè!,
lo aiutò a tornare su un sentiero che era ormai smarrito per sempre, a ridiventare padrone
di se stesso e del suo futuro.
Quando mi avvertirono della sua morte, io ero a una riunione di partito a l’Aquila. La
notizia fu come un colpo al cuore; e durante il ritorno a casa, accompagnato dai compagni
de l’Aquila, mi invase come una tristezza mortale per un destino che si era consumato
così rapidamente e con tanta spietatezza.
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Capitolo XI
Eh sì, mie care nipotine! Finalmente, dopo un inverno lungo e noioso e anche
particolarmente freddo, la primavera è tornata di nuovo a sbocciare.
E anche se oggi noi non possiamo, come una volta, rallegrarci dell’arrivo della bella
stagione (perché essa, purtroppo, non è più così tanto bella) e inneggiare, come faceva
un antico poeta provenzale, Arnaut Daniel, ai dolci gorgheggi e gridi, / ai lai e ai trilli
e canti degli uccelli; o, seguendo la voce mielata di Jaufre Rudel, stupirci per l’acqua
della fonte che si schiarisce o per l’apparire della rosa di macchia, la rosa aiglentina,
lungo le siepi che costeggiano le strade, mentre l’usignolo in mezzo ai rami / modula e
svaria e dispiega / il suo dolce canto e l’affina, tuttavia possiamo ugualmente allietarci
per quel che ha portato agli italiani questo interminabile aprile del 2006.
Ma già vi sento: Nonno, ma che mai è accaduto di tanto importante da giustificare un
inizio così forbito ed enfatico?
Beh, è accaduto che finalmente, in questo aprile piuttosto incerto e piovoso, sia pure
con un risultato al cardiopalma, il Cavaliere è stato disarcionato e ha perso le elezioni
politiche.
Quando voi sarete grandi, probabilmente il nome di Berlusconi non sarà più che un
semplice flatus vocis.
E solo Valentina forse, che corre ormai verso gli undici anni, di questi giorni così
convulsi e dell’ansia in cui è stato precipitato il popolo del centrosinistra dall’andamento
lento (oltre ogni misura) e gomito a gomito dello scrutinio dei voti nei seggi elettorali
conserverà qualche vago ricordo.
Anche lei, durante quelle lunghe ore, ha sofferto, ma la stagione che oggi essa vive è
rivolta al futuro e quindi le sue preoccupazioni di quel giorno sono destinate presto a
svanire e disperdersi nel penetrale amplum et infinitum della memoria, e chissà se mai,
un giorno, il ricordo di queste preoccupazioni sarà in grado di risalire alla superficie.
Berlusconi è stato invece per l’Italia di sinistra di questi anni un vero e proprio incubo,
anche se spesso dentro le forme arlecchinesche della commedia dell’arte.
La mia speranza oggi è che tutto il centrosinistra, pur scontando le grandissime difficoltà
determinate sia dal risultato elettorale che dallo stato comatoso della nostra economia,
si metta la mano sulla coscienza e sappia governare bene, dimostrandosi all’altezza
del compito di rilanciare il Paese e riaprire la porta del futuro alle giovani generazioni.
E si dimostri capace anche di condurre una grande battaglia culturale per sradicare il
berlusconismo che ha radici così profonde nella pancia dell’Italia.
Non è frutto del caso, infatti, che in queste elezioni Berlusconi sia riuscito a portare alle
urne anche quei tantissimi italiani che pure erano rimasti delusi del suo governo ma che
tuttavia sono tornati ugualmente a votarlo perché hanno visto in lui il baluardo contro
quel che questa Italia considera il male assoluto come pagare tutti le tasse, avere tutti
gli stessi diritti e le stesse opportunità, considerare il rispetto delle regole e delle idee ed
esigenze degli altri il fondamento stesso di ogni convivenza civile, non fare del diritto
del più forte la regola del governare.
Non sarà facile, me ne rendo ben conto, né sbarazzarsi di Berlusconi sul piano politico
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né estirpare il berlusconismo. Ma è un’impresa che vale assolutamente la pena di
tentare, con tutta la determinazione necessaria e facendo appello a tutte le risorse
dell’intelligenza, un’intelligenza flessibile, di cui pure la sinistra in altri momenti ha
saputo dare prova.
Ma torniamo alla nostra usata fatica. E perciò, come Jaufre Rudel, riprendo anch’io
oggi, all’arrivo della primavera, con la mia piccola voce il mio piccolo canto: dreitz es
qu’ieu lo mieu refranha.
I circa tre anni passati a Pescara, alla direzione della federazione, non furono facili; e
le difficoltà nascevano certo, in primo luogo, da ragioni di carattere locale, ma esse si
intrecciavano anche strettamente con i grandi problemi di natura nazionale che si erano
affacciati in quegli anni.
All’epoca, di questo intreccio io stesso non avevo la consapevolezza necessaria.
Sembrava allora che tutte le difficoltà nascessero dal modo in cui era stato diretto negli
anni precedenti il partito. Oggi invece, guardando alla storia di quel periodo con gli
occhi del dopo, la forte incidenza della vicenda nazionale su una realtà di partito già di
per sé in affanno, come era allora quella di Pescara, mi pare fuori di ogni dubbio.
Ma andiamo avanti con ordine.
Il passaggio dal Comitato regionale alla federazione di Pescara avvenne agli inizi del ‘79,
nel mese di marzo, all’indomani del Congresso provinciale che si tenne a Montesilvano,
in uno dei tanti alberghi della riviera.
Era tempo, infatti, di Congressi di federazione quel periodo, per la elezione dei delegati
al XV Congresso nazionale del PCI che si sarebbe svolto a Roma di lì a poco, tra fine
marzo e inizi aprile: un Congresso importante, bisogna dire, perché arrivava appena
dopo la nostra uscita dalla maggioranza di solidarietà nazionale e alla vigilia delle
elezioni politiche anticipate, che si terranno poi nel mese di giugno, provocate appunto
dalla fine del nostro sostegno esterno al governo Andreotti.
Anche se non delegato da nessuna delle sezioni della provincia o della città, io partecipai
tuttavia a pieno titolo al Congresso della federazione, non come semplice spettatore: era
ormai noto a tutti che sarei stato io il prossimo segretario provinciale.
Perciò non solo intervenni nel dibattito in assemblea, ma presiedetti di fatto anche la
Commissione elettorale che decideva della composizione degli organismi di direzione
del partito e della scelta dei delegati al Congresso nazionale.
La elezione a segretario avvenne ovviamente, com’era ormai nella prassi, appena
dopo la conclusione del Congresso provinciale, con la riunione congiunta, nello stesso
albergo nel quale si erano svolti i lavori congressuali, del Comitato Federale e della
Commissione Federale di Controllo.
Ma perché questo mio passaggio dal Comitato regionale alla federazione di Pescara?
Ho già accennato all’esistenza di problemi di carattere locale.
In sostanza i compagni, sia a Pescara che in provincia, erano profondamente insoddisfatti
del modo in cui veniva diretto il partito da parte del gruppo di giovani cui la federazione
era stata affidata nel precedente Congresso.
E non c’era solo, da parte delle sezioni, la richiesta, ricorrente nel PCI quando le cose
non andavano bene, di maggiore democrazia interna. C’era soprattutto l’accusa al
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gruppo dirigente di aver abbandonato le sezioni a se stesse e di aver portato il partito
allo sbando, sia sul piano organizzativo che politico. Era poi evidente, nella discussione
interna, la contrapposizione che si era creata tra i maggiorenti del partito e i giovani
che avevano nelle loro mani le leve del potere. Tra gli stessi giovani, poi, si coglievano
sempre più spesso rotture e disaccordi che non aiutavano certo a far andare meglio le
cose né ad accrescere la loro credibilità e autorevolezza.
La situazione non era, forse, ancora giunta al punto drammatico denunciato dai
compagni, ma certo essa era ormai fortemente compromessa. E così ero stato chiamato
io a cercare di rimettere le cose sul giusto binario.
Non è che di questa chiamata io fossi entusiasta, mi solleticava però la possibilità,
che mi veniva offerta, di cimentarmi in una impresa ben più complessa e difficile di
quelle affrontate fino a quel momento, non si dimentichi infatti che Pescara era allora
(e rimane ancora oggi) l’unica vera realtà urbana della regione, e così accettai, deciso
come sempre a dare il meglio di me anche in questa occasione.
D’altro canto, non avrei potuto fare diversamente.
Pur magari preferendo in più di una occasione scelte diverse, tuttavia, di fronte alle
esigenze che volta a volta il partito mi ha posto, in me è sempre prevalsa la logica (stavo
per dire l’etica) del dover essere, con un senso della disciplina e della responsabilità
oggi sicuramente considerato eccessivo, ma che allora era parte, del tutto scontata
(sarebbe stato strano il contrario), del modo di essere di un militante comunista, tanto
più se funzionario. E, proprio perché animato da questa logica, non mi è mai passata per
la testa l’idea che un simile atteggiamento potesse essere sbagliato.
Oggi, a distanza di anni, pur essendo ancora profondamente convinto che l’etica della
responsabilità, come frutto di una libera scelta e non di imposizioni, è ancora essenziale
in politica, tuttavia mi pare che forse una maggiore laicità in queste cose sarebbe stato
utile anche allora. Ma con il PCI era così: l’etica del bene comune (di cui faceva parte
anche l’interesse del partito) prevaleva sempre su tutto, forse qualche volta più del
giusto...
In ogni modo, mi misi anche questa volta subito al lavoro, senza risparmio. Puntando
innanzitutto a ricostruire una maggiore unità al nostro interno, condizione indispensabile
per far ripartire il partito.
Da questo punto di vista, ricordo che ci muovemmo in più direzioni.
Da un lato dando spazio a forze nuove e confermando (con le eccezioni necessarie,
naturalmente) in posti di responsabilità i compagni giovani che avevano diretto fino a
quel momento il partito, dall’altro mantenendo o anche reimmettendo negli organismi
dirigenti più ristretti i compagni con maggiore storia e forza politica in città che in
precedenza ne erano stati esclusi.
Debbo dire che la cosa complessivamente funzionò e, anche se non schiuse davanti a noi
grandi prospettive, ci consentì tuttavia di affrontare in modo serio, sia pure con grande
fatica, appuntamenti come le imminenti elezioni politiche, le elezioni amministrative e
regionali del 1980 e poi, nel 1981, un referendum importante come quello sull’aborto.
Cercammo naturalmente anche di riprendere subito il rapporto con le sezioni e di dargli
continuità. Rimettemmo inoltre in piedi il Comitato cittadino della città, e costituimmo
anche i Comitati di zona della Vallata del Tavo e della Valpescara, dove era forte la
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presenza operaia.
Molto più difficile invece si presentò la possibilità di rilanciare la iniziativa politica
esterna del partito, sia in città che in provincia.
Da questo punto di vista, non erano pochi gli ostacoli. A partire da quelli di natura
nazionale. Soprattutto dopo i risultati delle politiche del ‘79 che anche a Pescara non
furono affatto buoni.
In quei mesi non era difficile, del resto, percepire tra la gente il cambiamento di clima
che si era prodotto nei nostri confronti, in particolare in città dove si stava radicando,
come già a livello nazionale, l’asse DC-PSI che dominò poi Pescara, in tutte le sue varie
articolazioni, per tutti gli anni ‘80.
Tutto questo naturalmente influiva in modo negativo sulle nostre sezioni, rafforzando
atteggiamenti di chiusura e settarismo già largamente presenti, d’altronde, nelle maggiori
sezioni della provincia e in alcune grandi organizzazioni di base della città come la
Grieco, la Di Vittorio, la Curiel, la Togliatti. La sezione più aperta era la Gramsci, ma
non aveva lo stesso peso delle altre.
D’altra parte, le stesse scelte nazionali spingevano in questa direzione.
Il fallimento della politica di solidarietà nazionale aveva convinto Berlinguer ad aprire
alle posizioni di Ingrao, e questo non favorì certamente l’apertura del PCI ai nuovi
processi in atto in Italia e nel mondo, anzi...
In questo modo il PCI stesso contribuì ad avviare una fase di sostanziale isolamento,
accentuato anche dal fatto che nel frattempo eravamo in pratica rimasti privi di una
reale strategia capace di tenerci ancora in partita: dal XV Congresso non era uscita
nessuna nuova indicazione strategica; e il compromesso storico, che pur era stato di
fatto riconfermato, non aveva ormai più le gambe per camminare.
Si aprì dunque, in quei mesi, un periodo di grande confusione per noi. E anche il
tentativo di qualche anno dopo, all’indomani del terremoto che colpì in modo disastroso
l’Irpinia, di lanciare la proposta dell’alternativa democratica apparve subito chiaro che,
così come essa era stata costruita e formulata, non aveva proprio alcuna possibilità
di rovesciare le tendenze in atto, con la conseguenza che, per la prima volta forse, il
PCI non era in grado di indicare agli italiani, in un momento di grandi cambiamenti e
con una situazione politica completamente mutata rispetto a qualche anno prima, una
direzione di marcia nuova e credibile.
Di questa difficoltà di natura strategica, ricordo che in quegli anni solo in gruppi molto
ristretti, e in modo peraltro assai vago, ci si cominciava a rendere conto, mentre alla
base di queste preoccupazioni arrivava poco o nulla.
C’era malessere certo, ma la grande fiducia in Berlinguer, che restava intatta nonostante
le sconfitte, era sufficiente a rassicurare i compagni. E anche quando, attorno ad alcuni
nodi, il confronto si fece aperto e a volte anche aspro, era difficile però che posizioni
diverse da quelle del segretario del partito trovassero molta udienza in periferia: questo
accadde, ad esempio, sia in occasione delle polemiche che si accesero nel PCI sulla
proposta di alternativa democratica e del rapporto con il PSI sia sull’idea, lanciata da
Berlinguer, della diversità del PCI rispetto agli altri partiti.
Produceva poi i suoi frutti, in termini di settarismi di ritorno, soprattutto il fatto che,
dopo il fallimento della solidarietà nazionale, lo stesso Berlinguer aveva spostato più a
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sinistra il baricentro della politica del PCI, con riflessi pericolosi anche sul terreno delle
alleanze sociali, dove la tradizionale politica togliattiana di alleanza con i ceti medi
produttivi veniva, ad esempio, messa in naftalina per dare un rilievo privilegiato ai ceti
cosiddetti deboli.
Anche lo scontro che ci fu, sul finire del ‘79 se non ricordo male, tra Giorgio Amendola
e la grande maggioranza del partito, attorno a posizioni come quelle sostenute da
Amendola che, negli anni successivi, dovevano divenire merce corrente e ispirare le
scelte di politica economica e sociale prima del PDS e poi dei DS, è parte di questo
processo di progressivo slittamento del PCI verso una sorta di arroccamento politico e
ideologico.
Lo scontro ebbe origine dalla pubblicazione, su Rinascita, da parte di Amendola, di un
articolo che all’epoca fece scalpore fuori e dentro il PCI.
Amendola metteva sotto accusa la linea dei sindacati, sostenuta anche dal PCI, di
incontrollate rivendicazioni salariali, partendo dall’assioma che il salario rappresentava
una variabile indipendente rispetto sia alla produttività che all’inflazione galoppante
e all’enorme debito pubblico che si stava già allora accumulando; e condannava la
concezione di esasperato egualitarismo che guidava le lotte sindacali come anche la
difesa a oltranza di fabbriche ormai decotte, l’accettazione dei passivi delle imprese
pubbliche e, in ultimo, l’estensione della scala mobile a tutte le categorie e la sua revisione
a scadenza trimestrale che avrebbe avuto effetti sull’inflazione davvero disastrosi. Egli
denunciava anche la pratica, non contrastata né dal sindacato né dal partito e ormai
divenuta sistematica in molti luoghi di lavoro, del ricorso all’assenteismo da parte di
settori operai che non faceva certo bene all’economia e alla stessa immagine del PCI e
del sindacato.
Insomma Amendola, con la sua solita franchezza e lucidità, poneva problemi di fondo
ai quali sollecitava risposte realmente e coerentemente riformistiche e di governo che,
se fossero arrivate, avrebbero dislocato il PCI su un terreno del tutto nuovo e capace di
incidere profondamente sui processi di ristrutturazione in atto nel capitalismo italiano e
forse avrebbero evitato, alcuni mesi dopo, la discesa in campo dei 40 mila camici bianchi
della Fiat contro i sindacati e contro di noi che avevamo appoggiato l’occupazione della
fabbrica conclusasi poi con una sconfitta cocente degli operai.
Lo scontro finì al Comitato Centrale, dove Berlinguer ebbe naturalmente partita
vinta, definendo le posizioni di Amendola come una rinuncia alla necessaria opera
di rinnovamento del Paese e un cedimento verso chi, dall’esterno del PCI, poneva il
problema del risanamento di un’economia malata separandolo appunto da quello del
suo rinnovamento. In realtà, era invece proprio Amendola a porre nei termini giusti
il problema perché, come si vide poi, l’inflazione e il debito pubblico si stavano già
mangiando il presente e il futuro dell’Italia, non solo in termini di reddito, a svantaggio
dei lavoratori e delle masse popolari.
Ricordo che dello scontro che si consumò nel CC si discusse molto anche in periferia;
ma anche qui Amendola, salvo poche voci, rimase isolato, con il risultato che, anziché
fare un passo avanti, il riformismo del PCI fece parecchi passi indietro.
Questo, in sostanza, era dunque lo scenario nel quale, in quel periodo, eravamo costretti
a muoverci, uno scenario che non ci aiutava certo a uscire dalle difficoltà.
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In più, lo svolgersi stesso degli avvenimenti nei mesi successivi al XV Congresso
contribuì a sua volta a rendere ancora più aggrovigliate le cose e a deprimere lo stato
d’animo dei compagni. A partire dal risultato delle elezioni politiche del ‘79 che, a
Pescara e in provincia, fu addirittura peggiore di quello nazionale: meno 5% in città
e meno 11% complessivamente nella provincia (a livello regionale l’arretramento fu
invece solo del 3,8%), mentre la DC e il PSI si rafforzavano o tenevano, la DC anzi
nella intera provincia toccò il tetto del 51%, una percentuale che non mi pare abbia mai
raggiunto nel passato.
Anche l’appuntamento elettorale del 1980, con le elezioni regionali e amministrative,
non andò meglio.
Conservammo, è vero, i tre consiglieri regionali conquistati nel ‘75 (regionalmente, il
PCI mantenne 12 dei 13 seggi del ‘75) e, per la prima volta, Pescara elesse anche, tra
molte resistenze ovviamente, una donna. Parlo di Giovanna Mancini, una cara amica,
che si era affermata in città, come consigliere comunale, negli anni delle larghe intese
al Comune.
Ma si trattava solo di un contenimento delle perdite. Era chiaro invece il segnale politico
che veniva dalle elezioni che non a caso determinarono, nella regione, un radicale passo
indietro sul piano dei rapporti di forza e politici rispetto al ‘75, con l’affossamento
definitivo delle larghe intese e il ritorno al rapporto privilegiato tra DC e PSI.
La stessa cosa accadde al Comune.
Nel ‘75, alle elezioni comunali, a Pescara il PCI ottenne un risultato straordinario che
ci consentì di avere un ruolo assai rilevante nella vita cittadina negli anni successivi. Si
costituì, tra l’altro, l’Ufficio del Piano, per il governo urbanistico della città, e fummo
proprio noi a presiederlo, con Lino Di Re, un cattolico proveniente dal gruppo Esprit
e originario di Chieti che proprio intorno alla metà degli anni ‘70 si era iscritto al PCI.
Ma anche qui il risultato elettorale, non certo brillante, del nostro partito aprì la strada
a una lunga diarchia DC-PSI.
Insomma, a difficoltà si aggiungevano difficoltà.
A dare la misura del nostro stato di salute in quegli anni, ricordo la fatica che ci costò la
ricerca del capolista per il Comune, nella primavera del 1980.
Tra i maggiorenti del partito furono in diversi a tirarsi indietro. Tutti sapevano che le cose
non sarebbero andate bene e nessuno voleva cucirsi addosso il colore della sconfitta.
Ma, cosa ancora più paradossale, non fu possibile candidare come capolista neppure
uno di quei due-tre compagni che pur erano disposti a farlo, perché subito scattò nei loro
confronti il gioco dei veti incrociati. Così, alla fine, fui costretto a candidarmi io, nella
mia qualità di segretario di federazione, pur essendo chiaro a tutti che il mio rapporto
con Pescara, anche per ragioni di tempo, non poteva certo dirsi esteso e intenso. Ma
credetemi, mie care nipotine: di vicende come questa c’è poco da stupirsi, perché in
tempi difficili la generosità non è mai molto di moda! Per mia fortuna, però, fui eletto
bene, con molte preferenze, anche se poi, come consigliere, non durai a lungo: infatti
mi dimisi subito dopo il mio trasferimento in Molise.
Tuttavia, nonostante tante e così grandi difficoltà e sia pure con molta fatica, alcuni
risultati riuscimmo ugualmente a conseguirli, mettendo ordine nella gran parte delle
sezioni e rilanciando una certa presenza esterna del partito.
212
Ricordo, ad esempio, quel che accadde per le feste de l’Unità, tra il ‘79 e il 1981 quando
lasciai Pescara.
Nell’estate del ‘79, all’indomani della grave sconfitta subìta alle elezioni politiche,
nonostante alcuni nostri timidi tentativi, le sezioni, che erano proprio in ginocchio, si
rifiutarono persino di parlare della organizzazione della festa de l’Unità in città.
Le cose andarono invece diversamente nell’estate del 1980 quando, pur avendo alle
spalle un risultato elettorale ugualmente scadente, ci riuscì tuttavia di allestire la festa
de l’Unità.
Non è che nelle sezioni ci fosse grande disponibilità, ma un certo numero di compagni
disposti a impegnarsi, assieme ai funzionari dell’apparato, li mettemmo ugualmente
insieme. E così organizzammo la festa al Florida, un bel parco al centro della città
ridotto però all’epoca parecchio male e, se ben ricordo, addirittura chiuso al pubblico
ormai da diverso tempo.
Ma fu davvero una grande fatica! Non scorderò mai, ad esempio, i circa quindici giorni
che furono necessari per smontare la struttura utilizzata per la festa, a causa della
scarsissima quantità di forza-lavoro a nostra disposizione; né le tante notti passate alla
serena, io e alcuni altri compagni, per evitare che il materiale -che avevamo avuto in
prestito- venisse rubato o anche solo deteriorato.
Anche durante i giorni della festa furono dolori, sempre per lo scarso numero di
compagni impegnati nelle varie attività della festa.
Ricordo, ad esempio, che alla cucina utilizzammo, come cuoco, un compagno emiliano
in vacanza a Pescara in quei giorni che però si dimostrò subito disponibile e anche
molto bravo. Ci preparò perfino gnocchi all’ortica, grazie anche all’eroismo di mia
moglie che si avventurò di mattina presto nella campagna sotto casa per raccogliere
l’ortica, serbandone poi per diversi giorni il ricordo sulle gambe.
Di quei giorni ho vivo nella memoria anche un altro episodio.
A tenere il comizio conclusivo la Direzione del partito aveva mandato Massimo D’Alema,
che era allora il segretario nazionale della FGCI. Ricordo che, nel primo pomeriggio di
domenica, me lo vidi piombare all’improvviso nel parco dove ero rimasto solo io a fare
la guardia alle strutture della festa, in attesa dell’arrivo di altri compagni. Francamente
ci rimasi un po’ male, avrei voluto fargli un’altra accoglienza...
Ma, nonostante questi intoppi, la festa servì comunque a ridare un certo slancio al
partito.
Le cose andarono molto diversamente con la festa de l’Unità del 1981: fu una delle
più belle feste che io ricordi. Quell’anno facemmo davvero le cose in grande, avendo a
disposizione anche un ambiente eccezionale, quello del parco D’Avalos.
Ci fu, intanto, un mare di compagne e di compagni, della città e della provincia, che si
mobilitò per la organizzazione e le numerose attività della festa; e poi una partecipazione
popolare straordinaria, resa possibile anche dal fatto che lanciammo, lungo tutta la costa,
con un aereo noleggiato per l’occasione, un gran numero di volantini per far conoscere
le tante iniziative in programma. Ricordo che ci fu anche una grande partecipazione di
zingari che si riversarono soprattutto sulla pista da ballo della festa di cui era responsabile
un compagno della Di Vittorio.
Anche il concerto a pagamento che, nell’ambito della festa, organizzammo allo stadio
213
Adriatico con Lucio Dalla, ottenne un grande successo di pubblico e finanziario.
Di quella iniziativa ricordo, tra l’altro, anche qualche episodio curioso.
Il primo riguarda Giorgio Bocca che si presentò allo stadio per assistere allo spettacolo:
ebbene, nonostante si trattasse di un giornalista molto noto (e anche molto bravo), uno
dei compagni addetti ai botteghini si rifiutò di farlo entrare, a meno che non pagasse il
biglietto...!
Che cosa spingesse il compagno a cercare di impedire a Bocca l’ingresso allo stadio
francamente non so dirlo, probabilmente egli doveva stargli antipatico perché spesso il
giornalista di Repubblica scriveva articoli assai critici nei nostri confronti, sta di fatto
comunque che non fu facile convincerlo a dargli il via libera.
L’altro riguarda Lucio Dalla; e si tratta della lunga e defatigante trattativa che
ingaggiammo con lui, dopo il concerto, per tentare di fargli abbassare un po’ la cifra
assai elevata che ci aveva richiesto, ma fu fatica vana: da quell’orecchio, Dalla proprio
non ci sentiva!
(Di questo episodio conservo anche una fotografia apparsa qualche tempo dopo
su un opuscolo, pubblicato dagli organizzatori dei suoi spettacoli, che riportava le
performances stagionali dell’allora già celebre cantautore, nella quale si vedono da un
lato Dalla che aspetta di avere i soldi e dall’altro io e l’amministratore della federazione,
Ezio Ventura, che, molto a malincuore, gli mettiamo davanti, sul tavolo, un bel numero
di bigliettoni da centomila lire).
Insomma, nonostante le sconfitte subìte e con uno scenario nazionale come quello
che ho prima ricordato, le cose stavano girando un po’ meglio per noi rispetto ai mesi
precedenti. E la ragione era semplice. Il PCI rimaneva sempre un grande partito, con un
numero di militanti che nessun altro poteva vantare. E poi avevano contato certamente
anche il nostro lavoro e la nostra tenacia.
Tuttavia, l’esperienza pescarese non era destinata a durare a lungo; e infatti si interruppe
dopo solo poco più di due anni e mezzo, all’indomani della festa de l’Unità al parco
D’Avalos.
La possibilità di una mia utilizzazione in Molise, come segretario regionale, con
l’obiettivo anche lì di rimettere in sesto una situazione profondamente deteriorata, con
un partito diviso e un gruppo dirigente in preda a feroci lotte intestine, mi fu affacciata
per la prima volta, durante la festa de l’Unità al parco D’Avalos, da Pio La Torre.
Pio dirigeva allora la sezione meridionale del PCI ed era venuto a Pescara per partecipare
a una delle iniziative in programma durante la festa.
Se dicessi solo che la proposta mi colse di sorpresa, un vero fulmine a ciel sereno, non
direi tutto. In realtà, essa mi spiazzò di brutto: era una proposta che avrei preferito non
fosse stata neppure pensata...
L’idea che io potessi andare fuori dell’Abruzzo non mi aveva infatti mai sfiorato,
neppure lontanamente, anche se negli anni precedenti avevo girato mezza regione e mi
ero abituato ormai a non fermarmi troppo a lungo in un posto. Ma fuori regione...! Ecco
un’ipotesi che non ho mai preso in considerazione, neppure per gioco.
Anche perché, a essere sincero, in quel periodo le mie aspettative andavano in tutt’altra
direzione.
214
Mi sembrava ragionevole, infatti, che, dopo Pescara, io potessi aspirare a ricoprire,
in Abruzzo, l’incarico di segretario regionale del PCI; a spingere in questa direzione
c’erano del resto e le tante esperienze positive fatte fino a quel momento, non solo a
Chieti, e la stima nei miei confronti da parte dei compagni.
Anche l’esperienza che stavo compiendo a Pescara mi sembrava che si potesse,
anch’essa, considerare nel complesso positiva.
Non c’era nulla, d’altronde, in quel momento, nel partito pescarese, che facesse pensare,
sia pure in modo molto indiretto, che nel gruppo dirigente, o anche solo in una parte
di esso, fosse maturata o stesse guadagnando terreno la convinzione della necessità di
un ricambio ai vertici della federazione; né mi pareva di avvertire ostilità o anche solo
insofferenza verso di me tra i compagni di base, anzi...
Ricordo, infatti, che quando lasciai Pescara furono tante le manifestazioni di affetto e di
apprezzamento che mi arrivarono.
Del resto, se ancora oggi mi capita di trovarmi a mio agio con i compagni di Pescara, e
loro con me, lo debbo proprio all’esperienza di quegli anni. Accade a tutti, naturalmente,
di avere critiche e anch’io, com’è ovvio, ne ebbi: ma questo non aveva nulla a che
vedere con il giudizio complessivo espresso sul mio lavoro.
La mia prima reazione di fronte alla proposta di La Torre fu di attesa. Volevo pensarci
e comunque avevo bisogno di prendere tempo. Anche perché dentro di me, al di là
di ogni altro discorso, si faceva strada una preoccupazione non espressa ma corposa:
che sarebbe accaduto dopo? Capita, infatti, a volte che uno pensa di avere in tasca il
biglietto di andata e ritorno e invece ha solo quello di andata, ma se ne accorge solo
quando è ormai troppo tardi...
Così dissi a Pio che ci saremmo risentiti più in là. Ma le sollecitazioni da Roma
cominciarono ad arrivare già appena dopo qualche settimana dalla nostra chiacchierata
al parco D’Avalos, e non passò molto che lo stesso Giorgio Napolitano, divenuto con il
XV Congresso responsabile nazionale dell’Organizzazione, mi convocò in Direzione.
Con Napolitano il colloquio fu breve e, anche se gli feci presenti le mie perplessità e
preoccupazioni, da esso uscii, com’era del resto prevedibile, accettando la proposta,
con l’accordo che il trasferimento a Campobasso sarebbe avvenuto dopo l’estate, in
autunno. E infatti mi trasferii a Campobasso intorno alla metà di ottobre. Lo feci con
molto rammarico, ma, com’è sempre stato mio costume, facendomi carico anche in
questa circostanza delle esigenze del partito.
Questa mia scelta, l’unica veramente sofferta tra le tante che ho dovuto compiere nel
corso della mia lunga milizia politica, si portò dietro naturalmente anche il rimpianto
per quel che avrebbe potuto essere e non fu.
Sia in quei giorni che dopo mi sono chiesto spesso perché mai e che cosa determinò
una svolta così improvvisa e inopinata in quella che possiamo chiamare la mia carriera
all’interno del PCI.
La risposta che mi sono data dopo un certo tempo, e che all’epoca non riuscii neppure
a intravvedere, è che in realtà quella svolta, se da un lato era certamente il frutto di
circostanze fortuite, dall’altro nasceva anche dal mutamento che vi era stato nella linea
nazionale del PCI.
Vi era sicuramente una situazione difficile in Molise, e, com’era tradizione, si guardò
215
anche questa volta all’Abruzzo per affrontarla. Ma perché io?
Beh, qui ha certo contato la scelta fatta da chi, in Abruzzo, avrebbe potuto autorevolmente
far presente alla Direzione che forse era utile che io rimanessi nella regione, rivolgendosi
in altre direzioni per il Molise, ma preferì invece tirarsi fuori per non essere poi costretto
a toccare, nell’immediato o in un futuro prevedibilmente vicino, l’assetto regionale
esistente: forse non aveva ben chiaro che comunque, come dice Ovidio, nulla potentia
longa est e che, in un partito come il PCI, si è rivelato sempre conveniente, per chi ne
aveva la responsabilità, fare a tempo e per propria scelta i cambiamenti necessari, e non
aspettare di farseli imporre!
Ma c’era anche un altro aspetto.
Il cambiamento di alleanze al vertice nazionale del PCI aveva fatto riemergere anche in
Abruzzo una vecchia anima ingraiana, che si era sentita emarginata lungo tutti gli anni
‘70 e che ora, collegandosi anche con le spinte per un avvicendamento generazionale che
venivano dalle generazioni più giovani approdate nel partito proprio in quel decennio,
pensò di poter avere di nuovo in mano i giochi nella regione.
A essere sincero, non so quanto questo abbia concretamente pesato nella circostanza;
ma è un fatto che, di lì a qualche anno, si andò a una soluzione per la segreteria regionale
che portava proprio questo imprint.
A guardare con l’occhio di oggi le cose, quella scelta non fu quindi solo il frutto
del caso. Essa segnò invece l’avvio anche in Abruzzo di un processo che portò a un
mutamento progressivo dei gruppi dirigenti, sia a livello regionale che nelle federazioni,
e all’affermarsi anche nel PCI abruzzese delle forze più marcatamente legate alle
posizioni dell’ultimo Berlinguer e di Ingrao. E furono proprio questi gruppi a dirigere il
PCI negli anni ‘80 e, dopo lo scioglimento del PCI, anche il PDS.
Naturalmente, questo mutamento non fu senza conseguenze sul partito e la sua politica
e, in generale, sul rapporto della sinistra con la realtà regionale e le sue varie componenti
sociali e culturali, anche negli anni successivi alla fine del PCI.
Ci fu sicuramente un certo restringimento della nostra capacità di apertura all’esterno;
e sempre più la propaganda prese il posto della politica, a sottolineare appunto le nostre
difficoltà a trovare sponde nuove sia nel rapporto con le altre forze politiche che nella
società. E anche il richiamo ideologico e moralistico, con la riscoperta di una specie
di antagonismo culturale e politico vecchio stampo, assunse un peso nuovo nel partito
rispetto al decennio precedente, in sintonia peraltro con quel che accadeva in quegli
anni anche a livello nazionale, nel PCI prima e nel PDS poi.
Ricordo, ad esempio, quel che avvenne nei primi anni ‘90 con la fine traumatica della
giunta regionale diretta da Salini, travolta dagli scandali e dagli arresti dello stesso
presidente e di vari assessori.
Si discusse a lungo, allora, nel PDS sullo sbocco da dare a questa crisi. La quasi totalità
del gruppo dirigente, con la benedizione di Occhetto, scelse la linea dello scioglimento
del Consiglio regionale e di elezioni anticipate.
Linea tecnicamente pressocché impraticabile, come poi i fatti si incaricarono di
dimostrare, ma soprattutto politicamente sbagliata.
Se fosse prevalsa la linea dello scioglimento, quasi sicuramente il risultato sarebbe stato
l’alleanza della DC con la destra, anche perché alla proposta dello scioglimento non si
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accompagnava nulla dal punto di vista della prospettiva politica ed elettorale.
Per fortuna, le cose andarono diversamente.
Rispetto alle posizioni sostenute dal partito, nel gruppo consiliare regionale prevalse
invece largamente l’idea della ricerca di un accordo che portasse alla scadenza normale
della legislatura; e così, nella primavera del ‘94, vide la luce una giunta, che comprendeva
la parte superstite della DC, nella quale noi avevamo un ruolo di primo piano, e che, nel
‘95, spianò la strada a una alleanza organica di centrosinistra e ci consentì di vincere le
elezioni regionali.
Ricordo bene le discussioni di quei mesi nel partito. A sostenere la linea dell’alleanza
con quel che restava della DC dopo gli arresti eravamo in pochi, e io ero tra questi.
Dovevamo proporci noi, di fronte alla società abruzzese, come la forza capace di tirare
fuori l’Abruzzo dal pantano nel quale era stato precipitato e portarlo sulla strada del
rinnovamento: questa era la linea che noi indicavamo.
Ma, a sostenerla, eravamo appunto in pochi. Ricordo, anzi, una riunione del Comitato
Direttivo regionale nella quale a votare contro la proposta di scioglimento anticipato del
Consiglio regionale fui io e (ma non ne sono sicuro) qualche altro.
Io facevo parte allora del gruppo dei riformisti che, sul finire degli anni ‘80, si era
costituito nel PCI a livello nazionale.
Del gruppo facevamo parte in diversi tra i parlamentari abruzzesi; ma ero io quello
che partecipava alle riunioni nazionali della componente e svolgeva funzioni di
coordinamento a livello regionale, ricordo pure che organizzammo diverse riunioni a
carattere regionale e tentammo di mettere in piedi anche qualche iniziativa unitaria con
esponenti del PSI abruzzese, ma non ci furono grandi risultati.
In quegli anni, evidentemente, nel PCI abruzzese il riformismo (coniugato, dalla
maggioranza dei nostri gruppi dirigenti, spregiativamente, come migliorismo) non
godeva di buona fama, come si vide del resto nella crisi regionale che tenne al palo
l’Abruzzo tra il ‘92 e il ‘94...
Ma della piega presa dalle vicende interne al partito dopo il mio trasferimento a
Campobasso non mi pare il caso di ragionare oltre. Bastano questi pochi accenni. E’ il
caso invece di tornare agli avvenimenti legati alla mia nuova destinazione e all’angoscia,
che si era fatta ormai rassegnazione, di quei giorni: giorni che non ho mai dimenticato!
Ma che oggi posso rivivere in modo diverso.
Laetatum me fuisse reminiscor non laetus et tristitiam meam praeteritam recordor non
tristis...
Sono parole di S. Agostino, nelle Confessioni, che mi pare rendano bene il sentimento
con il quale ho rivisitato in questi giorni proprio quel territorio della memoria nel
quale sono depositati i tanti ricordi di questa stagione della mia vita. Secondo il grande
vescovo di Ippona, la memoria contiene dentro di sé, dentro quel santuario immenso
ed infinito che essa è e di cui nessuno conosce il fondo (quis ad fundum eius pervenit?,
egli si chiede) anche i sentimenti, ma questi non li rivive allo stesso modo in cui li ha
provati quando li ha vissuti.
Dunque: rammento con malinconia le ore liete, e ricordo invece non triste la tristezza
trascorsa...
E così, mie care nipoti, anch’io oggi guardo a quegli avvenimenti ormai tanto lontani
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senza l’amarezza e i timori di quei giorni difficili. Ma forse è l’esito che quelle vicende
hanno avuto che oggi mi consente questo: qualche anno dopo il mio esilio a Campobasso
ci fu infatti una nuova svolta nella mia vita che mi riportò in Abruzzo e mi consentì di
approdare nel Parlamento della Repubblica. Evitando così di restare confinato a Tomi,
come accadde al povero Ovidio del quale ancora oggi risuona tra noi il canto triste, così
nuovo rispetto a quello suo consueto, nato nei lunghi anni dell’esilio, sotto i colpi della
fortuna e di una terra inospitale, poenae tellus come egli la chiama, bruciata ab assiduo
frigore e dove il mare non riflette le stelle, nell’attesa vana di un mutamento di destino
che mai arrivò.
218
Capitolo XII
Del Molise, quando decisi di accettare la proposta della Direzione del partito, conoscevo
poco o niente.
Tutte le mie conoscenze, in fondo, si riducevano a quel che di quelle zone montuose
e a volte inospitali avevo letto nelle Storie di Tito Livio là dove egli racconta delle
guerre dei sanniti contro Roma e, per venire ai tempi nostri, nei racconti e nei romanzi
di Francesco Jovine.
Né, del resto, avevo mai avuto l’opportunità di recarmi in Molise e di entrare in contatto
con i compagni o comunque con gente del posto. Gli unici contatti in proposito, del
tutto occasionali e fugaci, risalivano al periodo in cui lavoravo a Vasto.
Ricordo, ad esempio, che in quegli anni spesso, in estate, portavamo i figli a Termoli
dove, proprio a ridosso della statale Adriatica, era stata attrezzata un’area per i bambini,
ricordo anche che una di queste nostre capatine fu l’occasione per ascoltare per la prima
volta una chiacchierata in albanese di una famigliola che aveva condotto anch’essa i
bambini nel parco giochi. Ma non si era mai presentata l’occasione di intrecciare con
chicchessia una qualche amicizia.
C’era stata poi la gita a Canneto e, in un’altra circostanza, una corsa ad Agnone, la
cittadina molisana nota per le campane che esporta in tutto il mondo, assieme a un
compagno di Castiglione Messer Marino (se non vado errato, era Felice Del Vecchio),
per far stampare i simboli di una lista civica da presentare alle elezioni comunali del
bellissimo paesino dell’Alto Vastese.
Anche del partito non conoscevo in pratica nessuno. Anche qui, quand’ero a Vasto,
avevo avuto degli incontri con qualche sindacalista e dirigente del PCI molisano per le
manifestazioni organizzate davanti alla SIV, dove erano tanti i lavoratori che arrivavano
dal Molise.
Ricordo, in particolare, i pochi incontri che ebbi prima con Nicola Crapsi, deputato del
PCI molisano, e poi con Alfredo Marraffini, all’epoca segretario della federazione di
Campobasso e che ritrovai poi, quando arrivai in Molise, deputato anche lui, già alla
seconda legislatura (nel frattempo Crapsi era morto). Per il resto, nulla.
Ricordo che Peppe D’Alonzo, che aveva svernato per ben quattro lunghi anni a
Campobasso prima di approdare a Chieti, mi raccontava spesso episodi legati al suo
lavoro e mi parlava quindi anche dei compagni che avevano diretto assieme a lui il
partito molisano (all’epoca il Molise aveva una sola provincia, quella di Campobasso,
e faceva regione con l’Abruzzo), ma questo ovviamente non mi metteva affatto in
condizione di dire: beh sì, conosco qualcosa del Molise e dei comunisti molisani!
Verso la fine di ottobre, partii così, senza sapere esattamente cosa mi aspettava, verso la
nuova avventura che doveva coincidere con il mio ultimo incarico di direzione politica
all’interno del PCI.
In seguito, infatti, ho avuto solo incarichi di natura istituzionale: prima deputato e poi
sindaco. E quando sono tornato a essere un semplice militante del PDS e, in seguito, dei
DS, ho solo fatto parte degli organismi dirigenti provinciali e regionali del partito, senza
più impegni di natura esecutiva.
219
E’ quel che io stesso, del resto, ho voluto, per avere così la possibilità di continuare a
dare un contributo di idee e di esperienza al partito, ma anche di fare il nonno, cosa che
mi piace molto, e di dedicarmi ai miei passatempi preferiti: le passeggiate, la lettura,
la musica, i film, lo sport (quello televisivo, è ovvio!), le lunghe chiacchierate con gli
amici sull’universo mondo...
Ricordo che partii per Campobasso con una Golf rossa fiammante, l’auto che avevo appena
acquistata grazie a un sostanzioso contributo finanziario da parte dell’Amministrazione
centrale del partito, che però mi venne rubata, con mio grande disappunto, appena
qualche settimana dopo il mio approdo nel capoluogo molisano.
Ho ancora viva nella memoria l’angoscia che mi prese quando la mattina, arrivando sul
posto dove ricordavo di averla lasciata la sera prima, non trovai traccia della mia povera
Golf: mi misi allora a girare freneticamente di qua e di là nelle strade adiacenti dove
di solito la parcheggiavo, ma nulla da fare, e così alla fine non mi restò che prendere
atto della sua scomparsa e recarmi in questura dove appresi, ma con poca consolazione
debbo dire, che non ero il solo derubato perché quella notte, proveniente dalle Puglie
o più probabilmente dalla Campania, un gruppo ben organizzato di camorristi aveva
imperversato in città e messo insieme un assai ricco bottino di auto...
Ricordo anche lo spettacolo grandioso e audace che mi si presentò quando, lasciata
l’autostrada, imboccai per la prima volta la statale per Campobasso, la Bifernina, che
dalla costa porta verso l’interno della regione.
Avevo percorso appena pochi chilometri ed ecco, all’improvviso, mi ritrovo, come
sospeso nel vuoto, sul grande viadotto che si snoda, per tutta la sua lunghezza, sulle
acque del lago artificiale del Liscione, il grosso invaso, di forma oblunga, realizzato
negli anni ‘60-’70 del secolo scorso.
All’altezza però di Guardialfiera, il paese nativo di Francesco Jovine, il paesaggio muta
di nuovo: la superstrada si restringe e si infila in uno stretto e tortuoso budello che si
inerpica faticosamente e diventa man mano un percorso quasi senza luce, lungo il quale
dei paesi che lo fiancheggiano si intravvedono solo il bivio e la relativa indicazione, e
non anche il profilo, perché tutti situati in alto e verso l’interno, per niente facili quindi
da raggiungere, come potei in seguito constatare direttamente, a causa di collegamenti
viarii rimasti più o meno tali e quali essi erano all’epoca dei Borboni.
Un mutamento inaspettato e radicale di paesaggio, quindi, nello spazio di appena una
manciata di chilometri, che mi colpì, ma che poi compresi, quando, nei mesi successivi,
cominciai a girare un po’ la regione, come esso in realtà non fosse altro che una
metafora del Molise, del suo territorio prevalentemente montuoso, accidentato e votato
all’isolamento, dove la modernità era l’eccezione e l’arretratezza la regola.
Il Molise, com’è noto, è una piccolissima regione, divenuta autonoma dall’Abruzzo
solo nel dicembre del 1963, con una popolazione che supera di poco i trecentomila
abitanti.
Ma, come non lo sono oggi, neppure allora erano questi dati in sé il problema.
Gli handicap veri erano l’isolamento anche rispetto alle regioni vicine, la dispersione
della popolazione in comunità piccole, a volte addirittura minuscole, la presenza di un
sistema viario interno rimasto immutato nel tempo, dove le distanze si misuravano non
220
dai chilometri ma dalle difficoltà del percorso, la diffusa arretratezza.
Il Molise, poi, non aveva città, vi erano solo, all’incirca, una decina di più o meno
grossi agglomerati di popolazione, su un numero complessivo di 136 comuni, che
non contavano neppure granché nella vita della regione, proprio per la difficoltà degli
spostamenti e delle comunicazioni.
Questa difficoltà di spostamento è poi qualcosa che non riuscivi proprio a dimenticare,
se ti trovavi a girare anche solo per un po’ nella regione.
Ricordo, ad esempio, di quando mia moglie venne a trovarmi a Campobasso usando il
treno: proveniente da Pescara, a Termoli prese la littorina che dalla cittadina adriatica
porta verso Campobasso, ebbene il viaggio durò un’eternità per un percorso di appena
60-70 chilometri!
Ma non è che fosse meglio spostarsi in auto. Con l’auto anzi, se ti accadeva di essere
vittima di qualche guasto, rischiavi di restare bloccato, non si sa per quanto tempo e non
solo di notte, in zone pressoché deserte, prima di incrociare qualche altro automobilista
che ti prestasse soccorso!
Una regione così conciata è chiaro che difficilmente può attendersi uno sviluppo
ragionevole della sua economia; è nell’ordine delle cose, anzi, che il sottosviluppo
alimenti se stesso. E infatti l’arretratezza era allora la peculiarità del Molise, non solo
economica ma anche, naturalmente, culturale e politica.
Solo qualche zona si salvava. Ad esempio, il Basso Molise, abitato anche dalla
minoranza albanese e croata, dove era evidente, grazie all’insediamento della FIAT a
Termoli, un certo benessere; anche nel Venafrano, con la presenza di piccole e medie
attività produttive che avevano la possibilità di sbocchi commerciali verso il Lazio e la
Campania, si notava un certo sviluppo.
Ovviamente, anche la situazione politica della regione rifletteva, come uno specchio,
quella socio-economica e culturale. Questo, anzi, era particolarmente vero per il PCI
che più di altri pagava lo scotto dell’arretratezza e dell’isolamento.
Nei circa due anni che ho lavorato in Molise, il numero dei Comuni che ho visitato per
riunioni o iniziative esterne del partito è stato ristrettissimo. Ma non perché non avessi
voglia di andare in giro. La verità è che la presenza del PCI sul territorio era molto
limitata e si riduceva di fatto a Campobasso e Isernia, i due capoluoghi di provincia,
al Basso Molise che aveva conosciuto negli anni ‘50 anche la presenza di un forte
movimento bracciantile e per il lavoro, e poi ad alcuni altri comuni sparsi qua e là nella
regione come S. Croce di Magliano, Casacalenda, Venafro.
Per la DC, invece, la situazione era del tutto diversa.
Da tempo immemorabile essa poteva disporre della maggioranza assoluta negli enti
locali e al Consiglio regionale, che le consentiva di ridurre a un ruolo del tutto marginale
i partiti alleati che erano comunque ben poca cosa dal punto di vista organizzativo ed
elettorale; e proprio dell’arretratezza e dell’isolamento essa aveva fatto il predellino
di lancio per la costruzione di un sistema di potere capillare e diffuso sul territorio,
molto prodigo di favori sul piano clientelare ma scarsamente produttivo sul terreno
dello sviluppo economico e sociale.
Un partito strutturalmente debole, quindi, il nostro. Una debolezza alla quale però i
nostri compagni reagivano, di solito, chiudendosi facilmente in uno sterile settarismo e
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praticando assai di frequente lo sport delle furibonde liti intestine.
Eppure, il nostro consenso elettorale non era, poi, di così poco conto.
Vorrei ricordare, ad esempio, che il PCI molisano, nel ‘76, ha toccato il 26% dei voti;
e, se pure negli anni seguenti ha visto fortemente ridursi la sua dote di consensi, come
avvenne del resto in tutta l’Italia, tuttavia, sia nel ‘79 che nel 1983, il suo voto si è
attestato intorno al 20%. Una percentuale di tutto rispetto, quindi, anche se ben lontana
da quella di altre regioni, anche vicine. E la battuta di Berlinguer, nell’attivo regionale
che tenemmo a Campobasso nell’ottobre del 1982, quando disse che anche i comunisti
francesi avevano più o meno la stessa percentuale di voti del PCI molisano, non aveva
valore puramente consolatorio, era un modo per dire che c’erano spazi su cui lavorare e
ottenere risultati politici e organizzativi migliori.
Ma perché questo avvenisse c’era bisogno di un altro tipo di partito, e anche di un
altro contesto economico, sociale e culturale. Ma il partito era quello; così come il suo
gruppo dirigente. E, ovviamente, anche il contesto.
Quando arrivai in Molise non fu solo la litigiosità senza limiti del gruppo dirigente a
impressionarmi, ogni pretesto era buono, mi colpì anche la tendenza assai diffusa tra i
compagni, soprattutto tra gli intellettuali, a partire non dai problemi concreti della gente
ma dagli schemi ideologici e culturali che ognuno aveva in testa.
Da questo punto di vista, pur avendo alle spalle una lunga e variegata esperienza,
raramente mi è capitato di aver a che fare con un modo di ragionare così farcito di
astrattezze, anche se a volte le nebbie dell’ideologia servivano solo a nascondere
obiettivi assai meno nobili. C’era perfino chi, in una realtà come quella del Molise,
faceva l’operaista a oltranza e su questo misurava le scelte da fare, che si trattasse di
scelte politiche, programmatiche o anche elettorali.
Insomma, ci si trovava a ogni piè sospinto di fronte a settarismi, visioni minoritaristiche,
che non portavano sicuramente il partito ad aprirsi anche in quelle realtà dove
l’arretratezza e l’isolamento pesavano meno.
Non che non ci fossero, nel gruppo dirigente regionale, compagni con posizioni più
aperte e lungimiranti, non a caso con l’arrivo del bipolarismo abbiamo conquistato con
alcuni di essi il Comune e la provincia di Campobasso e governato per un certo tempo
la Regione, ma essi non rappresentavano certamente la maggioranza. E questo era vero
anche nelle sezioni. Anche in quelle dove si registrava una certa presenza operaia: c’era
anzi in genere tra gli operai della FIAT di Termoli (non così tra quelli che lavoravano
nelle fabbriche del vastese) un estremismo quasi endemico che a volte sfociava, anche sul
piano sindacale, in iniziative e comportamenti inaccettabili all’interno della fabbrica.
Per parte mia, pur nei limiti delle mie capacità di comprensione di una realtà che mi
era estranea come quella del Molise, ho cercato tuttavia di portare un contributo che
aiutasse il gruppo dirigente a essere più solidale al proprio interno e, più in generale,
sollecitasse il partito ad avere un progetto politico-programmatico, a fare meno
propaganda e più iniziativa politica, ad aprirsi di più alla società, a superare visioni
astratte e intellettualistiche e a muoversi tenendo conto di più della realtà e soprattutto
dei problemi della gente.
Non so quanto questo mio sforzo sia stato utile e abbia dato frutti, questo possono dirlo
solo i compagni molisani, ma è un fatto che anche questa volta io ce l’ho messa tutta.
222
Mia preoccupazione primaria fu, naturalmente, la ricostruzione della unità del gruppo
dirigente, premessa e condizione anche per tirarmi fuori dal Molise e da un incarico che
non avevo in nessun modo cercato. Ma, debbo dire, purtroppo con scarso successo. E
non furono pochi i momenti in cui lo scontro interno assunse toni anche violenti.
Qualcuno di questi momenti l’ho già ricordato, come quello che si consumò alla
presenza di Enrico Berlinguer. Ma il momento forse peggiore fu in occasione del
Congresso provinciale di Campobasso, al quale era presente anche Antonio Bassolino
in rappresentanza del centro del partito. Eravamo agli inizi del 1983, alla vigilia del
XVI Congresso nazionale.
La discussione nel Congresso provinciale fu infuocata, preceduta da discussioni
altrettanto aspre nei Congressi delle sezioni; e il punto di partenza era il solito: quel che
era accaduto negli anni precedenti, per cercare ognuno di arrivare a una resa di conti
definitiva rispetto al gruppo avverso.
La violenza dello scontro fu tale che il Congresso si concluse senza poter eleggere il
segretario di federazione: si decise così che si sarebbe andati in un secondo tempo alla
sua elezione, dopo una approfondita ricognizione della situazione che venne affidata
naturalmente al segretario regionale.
Non fu un momento facile per me, che mi ritrovai in mezzo a un fuoco incrociato, ma
alla fine, dopo una consultazione paziente dei singoli compagni dell’organismo dirigente
provinciale, riuscimmo a trovare un punto di incontro largamente condiviso: no alla
riconferma del vecchio segretario, molto contestato, sì al compagno che io proposi e
che mi sembrava l’unico in grado di imprimere una svolta a uno stato di cose che stava
diventando sempre più drammatico.
Eleggemmo così Norberto Lombardi, professore di filosofia al liceo classico di
Campobasso in aspettativa e consigliere regionale: non era certo un compagno fuori
della mischia, ma con sufficiente equilibrio e autorevolezza, anche all’esterno, aperto e
fortemente legato alla realtà cittadina.
L’altro momento di difficoltà che voglio ricordare fu quando, in procinto di tornare in
Abruzzo per essere candidato dal partito a Chieti alla Camera dei deputati, nelle elezioni
del 26 giugno 1983, dovetti affrontare e risolvere il problema del nuovo segretario
regionale, con tempi peraltro assai ristretti a mia disposizione.
Anche qui, dopo molte consultazioni e confronti defatiganti con i compagni, oltre che
con la Direzione nazionale, alla fine riuscii a trovare la quadra: lo stesso Norberto sarebbe
stato il nuovo segretario regionale, senza lasciare, per il momento, la federazione, a
dirigere la quale avrebbe proposto poi lui stesso, senza fretta, il suo successore.
Per una serie di ragioni il nome di Norberto era, anche questa volta, l’unico spendibile.
Ma trovare prima il suo accordo e poi il consenso degli altri non fu affatto semplice.
Costò anche qualche scontro con alcuni compagni, ma quel che decise della partita fu
il patto non scritto tra i maggiorenti del gruppo dirigente regionale che prevedeva il
deputato a Isernia, in occasione delle imminenti elezioni politiche, e la garanzia per il
nuovo segretario della rielezione, per la terza volta, al Consiglio regionale.
Ho lasciato definitivamente il Molise agli inizi di maggio del 1983. E il giorno che
imboccai la strada del ritorno, in direzione dell’Abruzzo, c’era con me anche Rosetta.
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Essa era venuta appositamente a Campobasso, proprio per darmi una mano in vista del
rientro a Chieti; e così, mentre lei riordinava le cose da riportare a casa, io mi recai alla
riunione del Comitato regionale del partito per sbrigare l’ultima formalità: il passaggio
delle consegne al nuovo segretario regionale, alla presenza di un compagno del centro
del partito, non ricordo bene se Renzo Trivelli o Gianni Giadresco, ex sindaco di
Ravenna e deputato, che allora lavorava alla sezione di Organizzazione.
Dopo la riunione, che si svolse in modo tranquillo, io e mia moglie non ripartimmo subito
per l’Abruzzo: non solo perché era tardi, ma anche per finire di raccogliere e sistemare le
mie masserizie. Così la notte dormimmo a Campobasso, nell’appartamentino in affitto
che avevo occupato durante i mesi del mio non lungo soggiorno nella regione.
Partimmo il mattino dopo, sul tardi; e debbo dire, mie care nipoti, che fu una partenza
davvero senza rimpianti. La nonna, anzi, mi ricorda che, al momento di mettere piede
sulla mia nuova Golf, che aveva sostituito quella rubata, esclamai con sollievo, come se
mi fossi liberato da un incubo: Finalmente!
Eh sì, quel giorno fu per me come una liberazione; e in quella esclamazione c’erano i
tanti momenti di sconforto vissuti in solitudine durante i mesi di questa mia esperienza
molisana, la fatica e spesso la impotenza di fronte alla sordità di chi non voleva ascoltare,
ma anche la contentezza per la conclusione positiva di una vicenda che avevo vissuto
male sin dall’inizio.
Con questo non voglio dire che anche in questa mia avventura non ci siano state cose
buone da ricordare. Tutt’altro!
Ricordo, ad esempio, con piacere la grande ospitalità di tanti compagni e compagne,
come la loro buona cucina, non solo a Campobasso ma anche nei comuni più sperduti.
Debbo a loro anche la conoscenza di tradizioni e costumi del Molise che ignoravo e
che sono invece di straordinario interesse, come anche la scoperta di paesaggi aspri ma
belli, il Matese ad esempio, e di luoghi importanti per la storia e la cultura dei popoli
sanniti come Sepino, Boiano, Pietrabbondante.
Anche sul piano politico, vi sono stati momenti che ricordo con soddisfazione: ad
esempio, il Congresso regionale del partito che si svolse poco dopo il mio arrivo, agli
inizi del 1982, con una discussione utile, tutta incentrata sui problemi e non avvelenata
dalle lotte intestine che negli anni precedenti avevano diviso il partito. Così come la tre
giorni con Enrico Berlinguer: fu un momento di grande partecipazione popolare che
fece passare in secondo piano anche la rabbia per lo spettacolo poco decoroso andato in
scena, durante l’attivo del partito, alla presenza del segretario nazionale del PCI.
Vi sono stati anche episodi curiosi e simpatici che ho ancora nella memoria. Come, ad
esempio, quando andai, per una riunione del direttivo, alla sezione di Ururi, un paese
albanese del Basso Molise, per tentare di rimetterla in movimento, visto che era ferma
da tempo e quasi chiusa.
Durante la riunione, i compagni, che avevano evidentemente parecchie cose da chiarirsi
reciprocamente, prima discussero in maniera animata tra di loro in albanese sulle
questioni che io avevo posto e poi, raggiunto un certo accordo, finalmente si rivolsero
a me che intanto aspettavo, un po’ imbarazzato, e misero anche me al corrente di quel
che intendevano fare...
Come ricordo con simpatia diversi compagni di Campobasso e alcuni vecchi compagni,
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forse oggi scomparsi, di S. Croce di Magliano, un grosso paese amministrato da noi ai
confini con la Puglia, compagni che, nella loro gioventù, erano stati i protagonisti di
grandi lotte per il lavoro e per la costruzione del partito.
In quel periodo, neanche a S. Croce la sezione attraversava un buon momento; ed erano
proprio loro, che non ne avevano molta colpa, i più imbarazzati per il modo come
andavano le cose, ma anche, nello stesso tempo, i più impegnati a cercare di rimetterla
in carreggiata pur se con scarsi risultati.
Il PCI molisano mi ha consentito anche di prendere la parola al XVI Congresso
nazionale.
Ho partecipato a tutti i Congressi nazionali del PCI dal ‘60 in poi, ma questo fu l’unico
in cui potei prendere la parola nell’assemblea plenaria; e fu, anzi, anche il Congresso
nel quale venni eletto membro del Comitato Centrale, proprio come rappresentante del
Molise.
Debbo dunque qualcosa anche al Molise, è parte anch’esso (e in termini tutto sommato
positivi) della preziosa esperienza culturale e politica che ho accumulato nei lunghi anni
del mio impegno nel PCI e che ha dato senso alla mia vita.
Quel che di quell’avventura non mi era affatto piaciuto erano, come dire, il modo e il
contesto, oltre che le sue possibili e preoccupanti prospettive.
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226
Capitolo XIII
La campagna elettorale e poi l’elezione al Parlamento della Repubblica, nella tarda
primavera del 1983, furono l’occasione di un rinnovato rapporto con i compagni della
provincia di Chieti.
Anche se questo rapporto, in realtà, non era mai venuto meno. Ma un allentamento,
sì, c’era stato, dovuto principalmente al mio impegno prima nella federazione di
Pescara e poi in Molise. Non fu comunque difficile reintrecciare un feeling le cui radici
affondavano in tempi assai lontani.
Ma andiamo al punto. E il punto è, mie care nipoti, che ora dovrei raccontarvi della
mia esperienza di parlamentare, credo però di poterlo fare senza spendere molte parole.
Anche se quegli anni sono stati, in realtà, anni molto importanti.
Sono stati, infatti, gli anni delle difficoltà sempre più evidenti che attraversavano il
PCI e dello scontro con il PSI del quale Berlinguer denunciò, a causa della politica
di Craxi, il mutamento genetico rispetto alla sua natura di partito che si richiamava al
socialismo.
Sono stati anche gli anni del trionfo del pentapartito, dell’accordo cioè tra Craxi e la
destra della DC, con l’emarginazione della sua ala sinistra, degli sprechi senza limiti
del denaro pubblico, a fini non solo pubblici ma anche privati, dell’accumulo di un
enorme debito pubblico i cui effetti nefasti sul futuro dell’Italia stiamo scontando ancora
oggi, della corruzione diffusa e della questione morale denunciata da Berlinguer, della
cultura del rampantismo, naturale alimento della corruzione, e dell’affermarsi sfrenato
di egoismi individuali e dei ceti sociali più forti.
Gli anni, insomma, dell’addensarsi di nubi sempre più minacciose sul destino dell’Italia
che, agli inizi degli anni ‘90, doveva trasformarsi in tempesta travolgendo partiti e
istituzioni, con l’esplosione di Tangentopoli e l’avvento, a seguito della discesa in campo
di Berlusconi, di classi dirigenti, come quelle che si sono poi coagulate nel centrodestra,
portatrici di spinte populiste ed eversive dei valori fondanti della Repubblica e della
stessa democrazia italiana.
Bene, care nipoti: io ho vissuto da un osservatorio privilegiato questi avvenimenti, ma,
per ovvie ragioni, ne sono stato solo una piccola rotella, altri sono stati i protagonisti,
che pure ho conosciuto e avuto la possibilità di giudicare in diretta, non sempre
positivamente purtroppo!
Questo non significa che non ho portato anch’io il mio piccolo contributo all’attività
del Parlamento. Ma si è trattato di un contributo legato, da un lato, ai problemi della
provincia di Chieti e dell’Abruzzo, dall’altro, ai settori di lavoro di competenza della
Commissione parlamentare della quale facevo parte.
In aula ho avuto modo di prendere la parola poche volte (l’ho fatto, in particolare, in
occasione della battaglia ostruzionistica sulla scala mobile), mentre la prendevo assai
spesso in Commissione (ho fatto parte della IX Commissione della Camera: Trasporti,
Poste e Telecomunicazioni, nella quale mi sono ritrovato anche dopo il mio rientro in
Parlamento, nell’autunno del ‘90, subentrando al povero Michele Ciafardini).
In Commissione mi interessavo soprattutto ai trasporti, in particolare naturalmente per
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la parte che riguardava l’Abruzzo (Sangritana e aeroporto di Pescara). Ma seguivo anche
i problemi della pesca marittima che erano allora di competenza del Parlamento.
Da questo punto di vista, sono stato anzi, per parecchi anni, il referente in Parlamento,
per conto del partito, del movimento cooperativo della Lega, che organizzava allora
soprattutto i pescatori della costa adriatica, dalle Marche all’Emilia-Romagna e al
Veneto, con una certa presenza anche in Abruzzo e in qualche altra regione del Sud,
e ho avuto così modo di girare un po’ l’Italia per discutere con i pescatori dei loro
problemi.
Ricordo pure che, per trovare una soluzione al contenzioso antico, tra l’Italia e la Croazia,
sulla pesca in Adriatico, partecipai anch’io all’incontro, a Belgrado, di una nostra
delegazione parlamentare con i dirimpettai yugoslavi, ed ebbi modo, successivamente,
anche di discuterne con l’ambasciatore yugoslavo in Italia.
Sono stato anche tra i proponenti più attivi del cosiddetto fermo di pesca, per la
salvaguardia delle possibilità di riproduzione delle varie specie di pesce messe in grave
pericolo da alcune forme di pesca, assai diffuse in quegli anni, selvagge indiscriminate
e senza regole.
Insomma, ho fatto delle cose anch’io, oltre a vivere una esperienza politica e istituzionale
straordinaria.
Ma, se debbo essere sincero, non è che l’attività parlamentare mi abbia particolarmente
scaldato il cuore.
Ho sempre vissuto invece in modo molto più intenso i compiti di direzione politica che
via via il partito mi ha affidato, anzi è stata proprio su questo terreno la vera sfida della
mia vita, il terreno sul quale ho misurato me stesso, ho misurato, come dice Dante, la
mia nobilitate.
Ricordo che, nel lontano 1956, un compagno autorevole della federazione di Chieti mi
spiegò che dirigere il partito significava dirigere gli uomini, e questo era senza dubbio
il compito più alto, anche se assai arduo, che potesse mai capitare a qualcuno: parole
profondamente vere e che non ho mai dimenticato.
Molto più coinvolgente è stata invece l’altra mia esperienza istituzionale: quella di
sindaco.
Dirigere un Comune, sia pur piccolo, non solo mette alla prova le tue capacità di
mantenere coeso e solidale il gruppo degli amministratori e la tua maggioranza, ma ti
mette a contatto diretto con i cittadini; e lì bisogna dare continuamente risposte, trovare
soluzioni, cercare di corrispondere alle attese. E non solo sui problemi del paese, ma
spesso anche su questioni di natura personale e familiare, senza poter dire a chi sollecita
il tuo intervento: queste non sono questioni che riguardano il sindaco, perché non
capirebbe.
Io ho fatto il consigliere comunale d’opposizione per oltre un ventennio; e anche qui il
rapporto con la gente era fondamentale.
Ma amministrare è un’altra cosa, qui la propaganda e i discorsi generici servono a poco.
Ed è proprio per queste ragioni che ricordo ancora oggi la mia esperienza di sindaco, sia
pure per appena un quinquennio, come una delle più interessanti che ho vissuto.
Sono diventato sindaco di Orsogna nella primavera del 1985, ma non per mia scelta,
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anche se più di una volta, nel mio foro interiore, mi ero detto che mi sarebbe piaciuto
diventarlo a conclusione della mia carriera politica, sarebbe stato come un ritorno alle
origini che mi avrebbe consentito di riprendere un rapporto con un mondo che era
rimasto sempre vivo dentro di me.
E’ accaduto invece a seguito della richiesta di candidarmi a Orsogna come capolista, in
occasione delle imminenti elezioni amministrative, che mi venne da parte di un gruppo
di compagni, comunisti e socialisti, del mio paese natio.
Ricordo che ci incontrammo in federazione, a Chieti, era tutta gente che conoscevo
da lungo tempo ovviamente, e non ci vollero molte parole per farmi convincere ad
accettare: ero già disposto a farlo di mio!
La ragione che li aveva spinti a farmi questa richiesta era, naturalmente, molto semplice
e comprensibile: io ero allora parlamentare e ciò, essi pensarono, avrebbe sicuramente
reso piuttosto alte le possibilità di vittoria. E, infatti, così avvenne.
Vincemmo e vincemmo bene, tornando alla guida del Comune come sinistra dopo ben
sedici anni: da quando cioè, nel ‘69, lo conquistammo per la prima volta nel dopoguerra,
con una lista PCI-PSIUP!
Mi ritrovai così sindaco, a capo di una amministrazione che comprendeva comunisti,
socialisti e indipendenti.
Nei cinque anni successivi non andò naturalmente tutto tranquillo, soprattutto quando si
trattò di mettere mano al Piano regolatore, un argomento che a Orsogna è sempre stato
tabù e ha sempre provocato divisioni e scontri a non finire, e a farla da padrone sono
solo gli interessi, piccoli o grandi che siano.
Ma, nel complesso, lasciammo molte cose buone agli orsognesi.
Non solo servizi più organizzati e moderni, strade di campagna rifatte o aperte ex-novo,
fognature nuove o rimesse in sesto e scarichi a cielo aperto eliminati, la rete del metano
nella zona industriale e turistica e ancora tante altre cose legate alla vita quotidiana della
gente, ma anche partecipazione e tanta cultura.
Non è il caso qui di entrare nel dettaglio. Ma qualcuno dei nostri lasciti agli orsognesi li
voglio comunque ricordare, anche perché, soprattutto per alcune nostre iniziative (come
la ristrutturazione del Teatro comunale e la organizzazione dell’Università della terza
età), quelli venuti dopo di noi, parte dei quali ancora oggi amministra il Comune, hanno
tentato di fare come quel gracchio di cui narra Fedro: viste delle penne di pavone per
terra, le raccatta e se ne adorna, finché non arriva lo splendente corteo dei pavoni che
spoglia il gracchio sfrontato delle penne rubate e lo caccia via a beccate dal branco nel
quale aveva tentato di infilarsi.
Ma quali lasciti ricordare?
Beh, innanzitutto il teatro dialettale che abbiamo organizzato per tre anni di seguito,
grazie alla preziosa collaborazione di una vera amante del teatro, Silvana Baroni, e che
la DC ha poi lasciato morire.
La manifestazione si svolgeva nel mese di luglio, all’aperto, e vi partecipavano
compagnie amatoriali da tutta Italia; e la piazzetta che l’ospitava, Piazza Castello, una
piccola bomboniera circondata dalle case e attrezzata adeguatamente con palco e sedie,
era sempre stracolma, con la presenza in prevalenza di donne di tutte le età e di tutti i
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ceti, molte delle quali si portavano dietro sedioline e sgabelli per evitare di rimanere in
piedi.
E poi i libri pubblicati grazie all’impegno del Comune: la biografia del musicista
orsognese Domenico Ceccarossi, un cornista famoso ai suoi tempi e autore anche di un
testo per lo studio del corno; e L’Americ’annallà, microstorie delle grandi migrazioni
degli orsognesi verso le Americhe, scritto da Plinio Silverii ma con il contributo decisivo
degli anziani dell’Università della terza età.
E ancora, appunto, l’Università della terza età che mettemmo in piedi con l’aiuto del
povero Francesco Jengo e di sua moglie Eide. Oggi essa è molto frequentata e più di
uno si attribuisce il merito della sua nascita, ma la verità è che all’epoca, quando la
mettemmo su, venivamo presi in giro e la DC sconsigliava la partecipazione alle varie
iniziative organizzate dalla neonata Università.
Voglio inoltre ricordare il Teatro comunale.
Quando conquistammo il Comune, esso era ridotto proprio male e si era trasformato
in un luogo polveroso e chiuso, senza più alcuna funzione: ebbene, faticando le sette
proverbiali camicie per trovare i soldi necessari, noi lo ristrutturammo e ne facemmo un
piccolo gioiello, anche se pure qui alcuni sembrano averlo dimenticato...
Facemmo, insomma, molte cose in quei cinque anni di intenso lavoro.
E’ vero, nel ‘90 perdemmo l’Amministrazione comunale ma fu per appena una manciata
di voti. E non perché avessimo demeritato: se non si fosse rotta l’alleanza del 1985,
avremmo rivinto agevolmente. Accadde invece, ahimè!, qualcosa di poco bello.
Una parte dei socialisti, scontenti del Piano regolatore (l’importanza degli
interessi...), scelse di allearsi con la DC e quelli, tra loro, che avevano già fatto parte
dell’Amministrazione comunale e non si erano allineati a questa scelta, non ebbero il
coraggio di candidarsi di nuovo con noi!
Ma non posso concludere questa breve rassegna di lasciti della nostra amministrazione
senza ricordare una iniziativa che fu insieme culturale e politica e che ebbe grande eco
anche fuori di Orsogna, il cui merito fu essenzialmente quello di far divenire il rapporto
tra Orsogna e i suoi emigrati non più solo un fatto privato, affidato ai singoli emigrati e
ai loro parenti e amici ma anche alle istituzioni: il gemellaggio tra Orsogna ed Everett,
una cittadina alle porte di Boston nel Massachusetts, popolata largamente da orsognesi
emigrati negli Stati Uniti all’indomani della guerra.
Il gemellaggio con Everett si articolò in due tappe: la prima a Orsogna, nel 1988, e la
seconda a Everett, nel 1989, anche se quella di Everett fu solo l’occasione per rinnovare
il legame di amicizia sancito l’anno prima.
La cerimonia del gemellaggio ebbe luogo il 18 agosto, a conclusione delle tradizionali
feste di mezzo agosto; e si svolse in piazza.
Fu una cerimonia indimenticabile. E ricordo ancora oggi lo straordinario spettacolo
della folla raccolta attorno al palco che ospitava il Consiglio comunale e il sindaco di
Everett, una folla sempre molto attenta e reattiva a tutto quello che veniva detto dal
palco.
Avevamo convocato il Consiglio Comunale in piazza, per fare della cerimonia del
gemellaggio qualcosa che coinvolgesse veramente, anche dal punto di vista emotivo, sia
gli orsognesi che i nostri connazionali all’estero. E non si trattò di una cerimonia fatta di
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solo folklore, con il solito scambio di complimenti, di doni e, naturalmente, delle chiavi
delle due cittadine: cercammo anche di lanciare messaggi capaci di consolidare, come
istituzione, il rapporto con i nostri emigrati e, nello stesso tempo, di parlare di pace e di
amicizia tra i popoli in un momento della storia del mondo nel quale nubi minacciose
cominciavano ad addensarsi all’orizzonte a seguito dello sgretolarsi già allora evidente
del colosso sovietico e di tutto il suo sistema di alleanze.
La cerimonia durò qualche ora, con i discorsi dei rappresentanti dei vari gruppi consiliari,
del presidente dell’associazione “FIGLI DI ORSOGNA” di Everett e, infine, mio e
del sindaco della cittadina americana, fino alla firma, da parte dei due sindaci, di una
dichiarazione di amicizia tra Orsogna ed Everett.
Il verbale della cerimonia di gemellaggio e la dichiarazione che l’accompagna fanno
tuttora bella mostra di sé nella sala consiliare del Comune di Orsogna, sia nella versione
italiana che in quella inglese, mentre ho visto con piacere in questi giorni, su Internet,
che anche la cittadina del Massachusetts esibisce sul suo sito ufficiale il gemellaggio
con Orsogna: Sister City Orsogna, Italy.
Dopo la fine della cerimonia, la serata naturalmente svoltò verso la festa, con la
esibizione del coro “La FIGLIA DI IORIO” di Orsogna che chiuse la serata (il coro
degli orsognesi di Everett si era esibito invece, applauditissimo, la sera del ferragosto,
proponendoci anche qualche antica melodia che da noi è ormai quasi dimenticata e
facendo vivere a tutti quella particolare emozione che solo chi passa i suoi anni lontano
dalla propria terra di origine può mettere dentro i vecchi canti già ascoltati tante volte
ma mai percepiti come fatto di memoria e di identità).
I nostri ospiti erano arrivati a Orsogna agli inizi di agosto, se non ricordo male; e,
quando giunsero in paese direttamente dall’aeroporto di Fiumicino, li accogliemmo
davvero in pompa magna.
Furono in tanti quell’anno a tornare da Everett, aggiungendosi ai tanti altri nostri
emigrati che erano già a Orsogna o stavano per giungervi, molti richiamati anch’essi
dal gemellaggio, sia da altre zone degli Stati Uniti che dai vari Paesi europei.
Con loro arrivò, naturalmente, anche il sindaco di Everett, accompagnato dalla moglie,
una signora svedese molto gentile ma anche molto silenziosa e forse timida, che seguiva
dovunque il marito come un’ombra.
John McCarthy, di origine irlandese, apparteneva al partito democratico ed era già da
molti anni sindaco di Everett, e con lui collaboravano nel governo della città (come
scoprii poi quando, a mia volta, mi recai negli Stati Uniti) diversi italo-americani, alcuni
anche di ascendenze orsognesi.
John era un tipo simpatico, allegro, estroverso e fece subito lega con tutti; e forse fu
proprio questo che gli consentì di cogliere subito la differenza che passa tra gli italiani e
gli americani quanto a concezione di vita: In Italia, questa fu la sua scoperta nient’affatto
scherzosa, si lavora per vivere, in America si vive per lavorare!
L’anno dopo, sempre in agosto, fummo noi a recarci a Everett.
Eravamo in parecchi: la mia famiglia al completo, il gruppo teatrale di Plinio che diede
poi due spettacoli a Everett, alcuni consiglieri comunali e un piccolo drappello di
orsognesi che aveva parenti nella zona.
Anche noi fummo accolti benissimo; e i giorni passati nella bella cittadina del
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Massachusetts sono stati anch’essi giorni che si sono conservati ben vivi nel mio
ricordo, sia per l’accoglienza riservata a me e alla mia famiglia (di questo debbo
ringraziare in particolare Gabriella, Nicola e i suoi figli che scarrozzarono per tutta
Boston Massimiliano e Stefano e gli altri ragazzi del gruppo teatrale) che per il clima
di entusiasmo che si creò attorno alle manifestazioni organizzate per il rinnovo del
gemellaggio.
Era la prima volta che un sindaco arrivava tra i nostri emigrati non per una semplice
visita; e poi, c’era curiosità, ma debbo dire anche qualche preoccupazione, per la venuta
di un sindaco comunista, era anche questa una prima volta, prima erano sempre arrivati
sindaci democristiani. Ma non ci volle molto per rompere il ghiaccio, anche perché
molti degli orsognesi di Everett mi conoscevano già: o perché erano partiti da Orsogna
quando io cominciavo a fare le mie prime prove in politica o perché erano miei coetanei
e avevamo solo preso strade diverse nella vita.
Riemersero, anzi, in quei giorni antichi rapporti che si erano persi, appunto, per le vie
del mondo.
Come, ad esempio, con Nicola che ci ospitò nella sua casa, con il quale avevo giocato
tante volte insieme quando eravamo poco più che bambini. O con Alceo, più grande
di me di qualche anno e che, negli anni immediatamente successivi alla guerra, tutti i
ragazzini della mia età avevano ammirato perché sapeva giocare bene a calcio e faceva
parte della squadra dell’Orsogna ma la cui figura avevo completamente rimossa dalla
memoria anche se a lui mi lega un ricordo lontano, proprio dell’immediato dopoguerra,
che ha a che fare con uno dei nostri giochi pericolosi di quei giorni difficili.
Dopo il nostro ritorno a Orsogna, tutti i ragazzini del paese frequentarono, per un
certo tempo, finché essa non fu riempita di terra, la grande pozzanghera scavata dallo
scoppio di una bomba di aereo nella zona dove oggi si trova la palestra comunale e che
ricordo piena d’acqua ancora all’inizio dell’estate, per farvi il bagno naturalmente pur
se nessuno di quei ragazzini aveva mai visto il mare e mai perciò aveva avuto qualche
esperienza di nuoto.
Ebbene, un giorno vi andai anch’io e mi tuffai come tutti, ma giunto a metà percorso,
dove l’acqua era piuttosto alta, fui preso dal panico e, se riuscii a tornare sull’asciutto
senza danni, lo devo proprio ad Alceo!
In quei giorni, scopersi anche di avere dei parenti a Everett: non so se lo fossero
veramente, non ne avevo mai sentito parlare dai miei, comunque fui lieto di accettare il
loro invito a cena e di passare con essi una bella serata.
Ricordo che anche a New York mi accadde, qualche settimana dopo, di rincontrare tanta
gente che conoscevo: molti amici dei miei genitori, innanzitutto, che avevano casa e
campagna alle Valli, a un tiro di schioppo da Colle S. Giacomo dove ancora abitavamo
quando essi erano partiti per gli Stati Uniti, e diversi coetanei di cui non ricordavo ormai
più nemmeno l’esistenza.
Una esperienza straordinaria, dunque, che ebbe anche un prologo piuttosto spettacolare
già al momento del nostro arrivo all’aeroporto di Boston: io e la mia famiglia infatti
fummo accolti con cartelli che ci davano il benvenuto, ci attendeva inoltre, all’esterno,
una limousine di cerimonia per portarci alla sede del club degli orsognesi di Everett, il
club della Sons of Orsogna Association, ed essa era così mastodontica e arredata che,
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quando vi montammo sopra, ci sembrò di entrare in un grazioso salotto!
Ci fu però anche un piccolo inconveniente, al momento di uscire dall’aeroporto, che
ritardò il nostro incontro con gli amici di Everett che ci aspettavano al di là delle
transenne
Mentre tutti gli altri passeggeri poterono imboccare subito, senza problemi, l’uscita,
io e la mia famiglia dovemmo invece sottoporci, per quasi un’ora, alle attenzioni della
dogana che, chissà perché, rovistò con cura tutte le nostre valige alla ricerca di roba
mangereccia che negli USA è proibito introdurre. Questa, almeno, la spiegazione che ci
fu data, anche se in quel momento mi venne spontaneo pensare che, forse, l’inghippo
aveva anche a che fare con il fatto che io ero un comunista e qualcuno voleva essere
sicuro che non portassi nulla di pericoloso con me...
Oggi un tale problema non si pone più, ma all’epoca ai dirigenti del PCI non veniva
concesso il visto per l’ingresso negli Stati Uniti.
E’ vero, gli americani avevano fatto qualche passo avanti nei nostri confronti già tra
gli anni ‘70 e ‘80, tanto che a Giorgio Napolitano, oggi Presidente della Repubblica
ma allora tra i massimi dirigenti del PCI, fu consentito di tenere conferenze in diverse
Università USA per spiegare le politiche portate avanti dai comunisti italiani, ma erano
sempre possibili colpi di coda.
Pensai perciò, quando decidemmo di accettare l’invito dei nostri amici emigrati di
recarci a Everett per rinnovare il patto di gemellaggio, che fosse il caso di premunirmi
a tempo contro eventuali e spiacevoli imprevisti; e la cosa migliore mi parve quella di
andare a parlare subito, con molto anticipo, con i funzionari dell’ambasciata americana
di Via Veneto a Roma, spiegando la natura e i motivi del mio viaggio e facendo presente
nello stesso tempo anche la mia qualità di parlamentare e dirigente del PCI. Debbo dire
che fu la scelta giusta: il visto mi venne concesso abbastanza rapidamente e potemmo
così partire tranquilli alla volta di Boston.
Il rinnovo del patto di gemellaggio ci fu il 25 agosto, nella sede del club che aveva
organizzato l’evento, anche qui con la partecipazione di tantissima gente di Everett e
dei dintorni.
Ma eravamo approdati a Everett già dal 14 agosto. Avemmo così, prima della cerimonia
per il rinnovo del gemellaggio, tutto il tempo per conoscere Boston, partecipare alle
varie feste organizzate dai soci del club, essere ricevuti ufficialmente al Comune di
Everett, visitare la mostra di pittura organizzata dai pensionati del posto e ricevere da
loro in regalo il quadro che aveva vinto il primo premio (che tuttora fa bello sfoggio di
sé a casa mia), gustare le succulente aragoste offerteci da McCarthy nella cena, sulle
rive dell’Atlantico, alla quale ci invitò come sindaco della città e incontrare le varie
autorità del Massachusetts.
Sì, perché la nostra visita ebbe anche un risvolto istituzionale che andò ben oltre
l’incontro con gli amministratori di Everett. Incontrammo infatti in quei giorni, io e
la mia famiglia, accompagnati da McCarthy, da sua moglie e dai dirigenti del club, il
governatore dello Stato, quel Dukakis che aveva perso qualche mese prima, proprio
nel 1989, la sfida con Bush padre per la Presidenza degli Stati Uniti, lo speaker del
Parlamento statale (che era repubblicano, se non ricordo male) e il sindaco di Boston
che era da poco tornato da Roma dove aveva incontrato il papa.
233
La verità è che il nostro arrivo fece notizia nel mondo dell’emigrazione italiana del
Massachusetts e, in qualche misura, anche oltre di esso. E furono gli stessi nostri
connazionali a darsi da fare per dare il massimo rilievo all’evento: era, in fondo, oltre
che una forma di apprezzamento e di stima nei nostri confronti, anche un modo per
marcare il ruolo, ormai già rilevante, giocato dai nostri emigrati nella vita dello Stato!
Del resto, non era un caso se alle iniziative legate al rinnovo del gemellaggio erano
presenti anche italo-americani delle cittadine vicine che avevano ormai conquistato una
posizione di primo piano nel mondo politico ed economico locale.
E così il nostro soggiorno fu anche accompagnato da notizie sulla stampa che informava
sui nostri incontri e sulle iniziative programmate per il gemellaggio; e io conservo
ancora i ritagli di giornali con fotografie mie e della mia famiglia in posa con le autorità
del posto.
Ebbi occasione anche di fare una lunga intervista a una televisione della zona gestita
da italiani, e a intervistarmi fu una straordinaria donna abruzzese, Rosetta Romagnoli,
originaria di Sulmona.
Insomma, furono davvero giorni indimenticabili, resi più gradevoli dalla grande
ospitalità dei nostri connazionali.
In quei giorni ebbi incontri anche con alcuni di quei personaggi italo-americani che
avevo conosciuto in occasione del rinnovo del gemellaggio. Ma, tra questi, voglio
ricordare soprattutto uno che ci invitò poi, su sollecitazione anche di due nostri grandi
amici, Giovanni e Maria Luisa, a visitare il suo Comune.
Parlo dell’allora sindaco di Cambridge, la cittadina che ospita l’MIT, Alfredo Vellucci.
Lo ricordo non solo per l’accoglienza che ci riservò quando ci ricevette a Cambridge e
ci accompagnò a visitare l’MIT, ma soprattutto per la sua grande simpatia umana e per
i versi, dedicati a La Polente, che ci lesse in occasione del pranzo di gala organizzato
in un ristorante inn di Everett dai soci del club, di cui mi regalò poi il testo che tuttora
conservo: erano versi piuttosto sconclusionati e scritti in un dialetto incredibile e
assolutamente non classificabile, ma dai quali si sprigionava con prepotenza tutto
l’attaccamento che lega ancora oggi i nostri emigrati alla loro terra d’origine!
Lasciammo Boston, per dirigerci verso New York, la mattina del 29 agosto, all’indomani
di un picnic divertente e affollato che si tenne, se non erro, a Cap Code, in una tenuta di
campagna di proprietà del sindacato: quel giorno furono organizzati anche molti giochi,
ai quali dovemmo partecipare obbligatoriamente sia io che McCarthy, e potemmo
ascoltare di nuovo il coro degli orsognesi di Everett che ci regalò anche questa volta
delle bellissime melodie.
Il trasferimento nella grande metropoli avvenne in pullman. Ma un pullman noleggiato
appositamente dal club perché i suoi dirigenti avevano pensato bene di approfittare
dell’occasione per organizzare una gita dei soci a New York della durata di tre giorni.
Così la mattina, intorno alle sette e mezzo, ci ritrovammo in parecchi davanti al club; e
da lì, dopo i saluti, gli abbracci e le immancabili promesse di non perdersi di vista (le
solite parole, insomma, scambiate nel vento) con quelli che non partecipavano alla gita,
partimmo. C’era in noi, certo, una certa tristezza per l’addio, ma la nostra attesa era tutta
rivolta a New York, la grande New York...
Il viaggio non fu particolarmente lungo. Arrivammo infatti nella Grande Mela intorno
234
all’una; ma l’incontro con i nostri compaesani della Orsogna M.A.S. avvenne solo nel
tardo pomeriggio, dopo un primo giro in pullman, che si ripeté anche il giorno dopo,
per visitare i luoghi più celebri della città: Time Square, l’Empire State Building, la
cattedrale di St. Patrick, Chinatown, il Greenwich Village, il Rockfeller Center, la sede
delle Nazioni Unite e, naturalmente, la statua della Libertà e il World Trade Center, con
le famose Torri Gemelle ormai conosciute in tutto il mondo dopo la loro distruzione a
seguito del terribile attentato terroristico dell’11 settembre 2001 da parte di Al Qaeda.
La nostra visita a New York non aveva ovviamente niente a che vedere con il
gemellaggio.
A New York, i nostri emigrati celebravano i 50 anni della fondazione dell’Orsogna
M.A.S., il loro club; e, sapendo del mio arrivo a Everett, non si erano lasciati sfuggire
l’opportunità di avere con loro, in questa circostanza, anche il sindaco del loro paese di
origine.
Io fui naturalmente contento di accettare l’invito, innanzitutto perché difficilmente mi
sarebbe capitata una seconda occasione per conoscere New York. E poi: per i nostri
emigrati la ricorrenza era importante ed era giusto quindi che io fossi con loro.
La storia del club, nato nel 1939 su iniziativa della generazione di emigrati arrivata
negli Stati Uniti dopo la guerra del ‘15-’18, si intreccia infatti strettamente con la storia
di molte famiglie di emigrati, anche del secondo dopoguerra, e il nome stesso del
club ne fornisce la spiegazione: Orsogna Mutual Aid Society, qualcosa insomma che
doveva servire agli emigrati per restare uniti e nello stesso tempo garantirsi reciproca
solidarietà in un mondo che, ancora fino ad alcuni decenni fa, non era certo tenero con
la emigrazione italiana.
Ma fui contento di questa visita anche perché, già dal primo incontro, scoprii che molti
soci del club, a partire dal suo presidente, era in realtà gente che conoscevo.
Il nostro soggiorno, che si protrasse per circa quindici giorni, fu occupato solo
marginalmente da manifestazioni ufficiali; per il resto facemmo i turisti, ospiti del club
(io e la mia famiglia venimmo alloggiati in un albergo, della catena Marriott, che si
trovava proprio a ridosso dell’aeroporto nazionale La Guardia).
In pratica, ci furono solo due manifestazioni ufficiali, che si rivelarono però, almeno per
me, di un particolare interesse perché davano, anche visivamente, non solo la misura
del profondo attaccamento di quella comunità al proprio paese di partenza ma anche dei
grandi passi avanti fatti dai nostri emigrati nella loro condizione culturale e di vita dopo
l’arrivo negli Stati Uniti, anche se questa nuova condizione era evidente che essi non
riuscivano a viverla fuori del bozzolo della loro cultura contadina d’origine (a Everett,
invece, si percepiva subito che la nostra emigrazione era più legata a una mentalità
cittadina).
La prima manifestazione fu quella appunto della celebrazione del 50° anniversario della
fondazione del club; e si svolse il 2 settembre all’Astorian Manor, un grande ristorante
di proprietà di italiani.
Ci furono ovviamente i discorsi. Del presidente dell’Orsogna M.A.S., il vecchio Filippo
Di Rico, contadino e nostro vicino di campagna alle Valli, quello della presidentessa del
gruppo femminile del club, e infine quello mio; e poi la cena e il ballo, con le signore più
giovani che sfoggiavano un’eleganza un po’ all’americana, fatta di pizzi e svolazzi.
235
La manifestazione era stata annunciata con un opuscolo che raccontava la storia del
club e dell’emigrazione orsognese nella Grande Mela, ma, cosa che mi colpì, sulla
copertina, anche se non mancava il profilo del ponte di Brooklyn, spiccava tuttavia
soprattutto l’immagine del campanile di San Nicola e, sullo sfondo, della Maiella;
all’interno, poi, catturavano l’attenzione del lettore prima una pagina con su scritto
solo: Orsogna: Paese mio, successivamente altre due pagine che riportavano una fitta
e lunga lista di soprannomi orsognesi: neanche a New York, pur dopo una vita passata
dai nostri emigrati nel Nuovo Mondo, i vecchi soprannomi erano finiti nel buco nero
dell’oblio!
L’altra manifestazione ufficiale fu la processione di S. Rocco che sfilò, nel pomeriggio
del 3 settembre, per le strade di Astoria, nel Queens, la zona di New York dove ha sede
il club e risiedono molti dei nostri orsognesi.
La festa di S. Rocco si celebra il 16 agosto; quell’anno, tuttavia, fu spostata a settembre
proprio per attendere l’arrivo del sindaco di Orsogna.
Com’era prevedibile, la festa fu povera, ridotta all’osso; e non aveva -né poteva avere, del
resto- nulla dello sfarzo che caratterizza normalmente la festa di S. Rocco a Orsogna.
In pratica, la festa consisteva nella sola processione, che si concluse -dopo una sosta
alla chiesa cattolica del quartiere- nella sede del club dove venne riportata la statua del
santo e celebrata la messa, alla fine ci fu anche un piccolo rinfresco che potemmo però
gustare solo dopo l’ascolto della lunga predica ammannitaci dal frate francescano, un
orsognese anche lui, venuto apposta dall’Italia per l’occasione.
Ci fu tuttavia, nella festa, qualcosa che non mi sarei mai aspettato e mi parve anzi
piuttosto grottesco, e che però mi colpì molto e, in una certa misura, mi commosse
anche.
Infatti, in testa alla processione avanzava un’auto sgangherata e assai rumorosa, dalla
quale ogni 100-150 metri scendevano due tipi che fermavano il corteo, ponevano a terra
due grossi bossoli, di quelli che si usano per i fuochi d’artificio, e accendevano poi la
miccia producendo così due grandi botti che facevano rintronare tutto il quartiere come
ad avvertire la gente: passa S. Rocco...
La cosa effettivamente era piuttosto comica, e come tale la commentai subito con i miei
figli.
Ma, a rifletterci bene, questo in realtà era l’unico modo che i nostri amici avevano, in
un mondo così diverso, di riproporre almeno una parvenza degli spettacolari fuochi
d’artificio di una volta che ancora oggi concludono le nostre feste al Sud.
La stessa cosa che si verificava con le donne che sfilavano durante la processione con
la tradizionale conca di rame (quella che, una volta, nei paesi le donne usavano per
raccogliere e portare in casa l’acqua da bere delle fontanelle pubbliche) sulla testa: nella
conca non c’era neanche un chicco di grano e tanto meno i fiori di campo, come accadeva
a Orsogna, ma la conca e i fiori finti che l’adornavano erano di per sé sufficienti a dare
senso al forte bisogno di identità che tuttora è presente nell’animo dei nostri emigrati.
Anche la fanfara, un po’ raccogliticcia, che accompagnava la processione sembrava
fuori posto. I pezzi che suonava erano soprattutto marcette allegre e assai poco religiose,
ma solo così si poteva far riemergere il ricordo delle feste di un tempo quando la grande
banda ne era il centro e molti di loro vivevano ancora a Orsogna.
236
Insomma partecipammo, io mia moglie e i miei figli che, con la telecamera e la macchina
fotografica, si diedero un gran da fare per immortalare i vari momenti, a una festa un
po’ singolare, nella quale si mescolavano tradizione e americanate piuttosto scombinate
e che, però, nascevano tutte da questa insopprimibile voglia di mantenere viva a ogni
costo la memoria e la propria antica identità.
Lo spettacolo fu comunque piacevole e divertente. E davanti agli occhi della memoria,
che si colora ancora oggi di una certa commozione sia pure accompagnata dal sorriso,
vedo di nuovo sfilare i vari protagonisti dello spettacolo: gli strani artificieri davanti
a tutti, subito dopo lo striscione portato da due ragazzine e un bambino su cui spicca
la scritta Viva S. Rocco, e poi la statua del santo, il frate, il sindaco di Orsogna con la
fascia tricolore, il presidente del club, il presidente del Comitato Organizzatore delle
celebrazioni del 50° e la presidentessa delle donne anche loro ciascuno con la propria
fascia di cerimonia, la fanfara, le donne con la conca e i fiori finti e, in fondo al corteo,
il popolo devoto che canta le vecchie cantilene in onore del santo.
Dopo il 3 settembre, non avemmo più impegni ufficiali; ci potemmo così dedicare a una
visita più accurata di Manhattan, grazie anche alla grande disponibilità di Giannina e
Maria che ci offrirono anche il pranzo in un ristorante francese nei pressi del Central
Park: ricordo che esitammo un po’ prima di varcare l’ingresso perché il ristorante si
presentava elegante e di buon livello e noi eravamo tutti vestiti alla turistica, ma poi ci
facemmo coraggio ed entrammo, anche se un po’ imbarazzati...
Cominciammo dal Greenwich Village, facemmo poi un bel giro per Little Italy (dove ci
fermammo anche per una breve colazione), visitammo il Museo di Arte Moderna che ci
impressionò soprattutto per alcune bizzarrie moderne che vi erano esposte, salimmo su
una delle Torri Gemelle, girovagammo a lungo per il Central Park e facemmo anche una
capatina notturna nel cuore di New York, nelle vie attorno alla Grande Mela, dopo una
cena nel ristorante girevole del Marriott. Insomma, facemmo i turisti, non rinunciando
però nello stesso tempo ai diversi inviti a pranzo che, con generosità, ci arrivarono da
più parti in quei giorni.
Ma i nostri amici, nell’ultima settimana di nostra permanenza a New York, ci
organizzarono anche due gite alle quali però non parteciparono né Massimiliano né
Stefano che, per ragioni sentimentali, avevano deciso di rientrare con una settimana di
anticipo in Italia. La prima, messa in piedi da Francesco e Concetta, ad Atlantic City, la
Las Vegas dei poveri, nel New Jersey; l’altra invece, organizzata direttamente dal club,
a Washington passando per Baltimora e Filadelfia.
La gita ad Atlantic City fu particolarmente allegra: eravamo solo in sei, ci potemmo
quindi muovere con una certa libertà. E vivemmo anche noi quel giorno, come le frotte
di pensionati che ogni domenica partono da New York per fare il giro dei suoi dodici
casinò, il sogno della vincita spettacolare, dell’improvviso arricchimento. Ma anche
noi, come loro, la sera riprendemmo il pullman che da New York ci aveva portato ad
Atlantic City, non più ricchi di quanto eravamo prima, tuttavia contenti di aver passato
una giornata diversa e sfottendoci un po’ a vicenda per l’assoluta mancanza di risultati
nel tentare la fortuna.
In compenso, però, riportammo con noi, e sono arrivate fino in Italia, a casa nostra, le
cuccume di plastica che il casinò ti dà appena entri, svuotate però anche di quei pochi
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dollari che dalle macchinette vi erano scivolati dentro in occasione di qualche giocata
ma subito risucchiati indietro dalle stesse macchinette... Comunque, la gita era stata
proprio divertente; e poi si sa, los sueños, come dice Calderon de la Barca, sueños
son...
Al ritorno però la giornata fu turbata da un episodio sgradevole, anche se non aveva
nulla a che fare con la nostra gita.
Quando il pullman entrò a New York, mentre attraversava un quartiere abitato da neri
(forse Harlem), vedemmo con stupore (almeno io e mia moglie) molte famiglie nere
e le loro masserizie alloggiate direttamente sui marciapiedi. Fu per me uno spettacolo
incredibile e del tutto incomprensibile, segno evidente di una emarginazione e povertà
diffusa tra i gruppi più deboli della società americana che non avevo neppure sospettato,
ma qualcuno, guardando la scena, nella penombra del pullman commentò a voce
piuttosto alta e con tono di derisione: Ecco le scimmie!, alludendo a quei poveri diavoli
neri non proprio toccati dalla affluent society.
(Qualche giorno fa, ho letto sui giornali che i dodici casinò di Atlantic City hanno
chiuso per debiti i battenti: peccato! E sono sicuro che i pensionati di New York non
hanno gradito. La gita settimanale in questo sobborgo della Grande Mela rappresenta
sicuramente per tanti di loro un modo per uscire dalla routine e, certo, anche per tentare
la sorte senza però mettere a rischio i propri risparmi, visto che il biglietto del pullman,
dal costo assai ragionevole, garantisce loro il pranzo, cinque dollari per fare qualche
giocata, il ritorno a casa e poi altri cinque dollari per riprovarci la volta successiva).
La gita a Washington, della durata di tre giorni, ebbe luogo proprio alla vigilia del
nostro ritorno in Italia (che avvenne l’11 settembre).
Eravamo una trentina, o poco più, di persone, quasi tutte anziane e che perciò in gran
parte conoscevo: così la gita si trasformò in una sorta di piacevole rimpatriata, parecchi
dei gitanti, oltretutto, erano partiti già adulti dalla contrada Valli.
Ma, al di là di questo aspetto, la gita fu comunque molto interessante perché mi
consentì di conoscere, sia pure solo di passaggio, città come Baltimora e Filadelfia e,
naturalmente, Washington.
Baltimora e Filadelfia, da quel poco che riuscimmo a vedere, dovevano essere delle
gran belle città: peccato però che il tempo a nostra disposizione fosse così poco!
Così di Baltimora potemmo solo ammirare l’elegante porto commerciale e di Filadelfia
ascendere, facendo a gara tra di noi a chi arrivava primo in cima, la imponente e lunga
scalinata del National Art Museum, resa celebre dal film Rocky, con Sylvester Stallone
protagonista.
Davvero peccato, soprattutto per Filadelfia!
Qui avrei voluto, ma non fu assolutamente possibile, conoscere luoghi che hanno
segnato la storia degli Stati Uniti.
Da quello dove fu firmata la Dichiarazione di Indipendenza dall’Inghilterra nel 1776
a quello dove, nel 1787, si tenne la convenzione che portò all’approvazione della
Costituzione americana e alla formazione del primo governo degli Stati Uniti, e visitare
anche qualcuna delle sue ricche collezioni d’arte.
Com’è noto, Filadelfia, fondata nel 1682 dal quacchero William Penn, che sognava
un mondo fondato sulla fraternità (di qui il nome di Filadelfia dato alla città) e patria
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di Benjamin Franklin, uno degli artefici della indipendenza del Nuovo Mondo e della
costruzione della democrazia americana, non solo ha giocato un ruolo decisivo per la
nascita degli Stati Uniti ma è stata per lungo tempo anche il più importante crocevia
culturale della società americana.
Di Washington invece visitammo molti luoghi: il Museo dello Spazio (straordinario),
il Memorial dedicato al Vietnam con quella interminabile, e impressionante, lista dei
caduti americani nella famigerata guerra contro la libertà e l’indipendenza del Vietnam
incisa sul marmo, il suggestivo cimitero di Arlington con la tomba di Kennedy e anche
quella di Joe Louis, il grande pugile nero americano degli anni ‘40 del secolo scorso,
e i tanti monumenti e Memorials dedicati agli uomini più rappresentativi della storia
degli Stati Uniti.
Non potemmo però accedere alla Casa Bianca e al Campidoglio, chiusi (non ricordo
bene perché, forse a causa del giorno festivo), così dovemmo accontentarci di guardarli
solo dall’esterno e farci fotografare davanti ai due più importanti centri del potere
mondiale (visitammo invece la Library of Congress, la Biblioteca del Congresso).
Nelle due notti che sostammo a Washington, avremmo voluto anche farci una qualche
idea di ciò che era la vita notturna nella capitale degli Stati Uniti, ma la direzione
dell’albergo ci sconsigliò vivamente di girare di notte per la città: i rischi per la
sicurezza personale erano elevatissimi, a causa soprattutto del gran numero di drogati
che stazionavano per le vie cittadine!
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Capitolo XIV
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta...
Non vi spaventate, mie care nipoti. Anche se l’attacco è così solenne e drammatico,
voglio solo dire che è ormai arrivato il momento di mettere la parola fine a questo già
troppo lungo racconto delle mia vita e del tempo nel quale ho condotto le mie battaglie
per l’affermazione delle idee nelle quali ho creduto. E, se ho usato un cotanto esordio,
credetemi: l’ho fatto solo per evitarvi di addormentarvi dopo tanto leggere!
A proposito, il verso che ho utilizzato è il primo dell’ottava che, nel XII canto della
Gerusalemme Liberata, annuncia la morte di Clorinda, l’eroina musulmana che si sta
scontrando, in un duello notturno furioso e senza risparmio di colpi, con il suo innamorato
segreto: Tancredi, cavaliere cristiano. E alla fine dell’ottava Clorinda muore:
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenere e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.
Bellissimi versi, no? E certamente converrete con me che mai morte fu descritta con
toni così struggenti e insieme così colmi di sensualità.
Versi cantati in un timbro, dunque, che solo Torquato Tasso conosceva, e del quale voi
fareste bene, qualche volta, a leggere almeno i canti più belli del suo poema più bello,
la Gerusalemme Liberata appunto. Come, credo, fareste bene anche ad ascoltare le note
di cui ha rivestito l’episodio, nel 1624, Claudio Monteverdi, uno dei vertici della musica
europea del ‘600: si tratta del Combattimento di Tancredi e Clorinda, e lo trovate tra i
miei dischi se ne avete voglia.
Vi assicuro che è una musica splendida, dotata di grande efficacia emotiva e di una
forza imitativa tale che sembra anche a voi di assistere, nell’oscurità della notte, allo
scontro mortale che oppone i due guerrieri. E sentirete e vedrete anche voi, dentro la
musica, la concitazione dei combattenti, la furia cieca che li spinge l’un contro l’altro
(quasi la metafora di un amplesso d’amore che si conclude con la morte, l’eterno mito
di Eros e Thanatos) a cozzare non solo con le spade ma anche con gli elmi insieme e
con gli scudi e, dopo una breve pausa dal combattimento, l’ira che torna nei côri ancora
più ferina e che li trasporta di nuovo alla fera pugna, benché debili in guerra. Fino
all’esito fatale quando come una sospensione del suono, così piena di presagi funesti,
avverte della imminenza della fine di Clorinda, subito seguita da un declamato lento
e patetico che descrive la sua caduta a terra, colpita al cuore. E sentirete anche, nella
sapienza dei vari passaggi della musica di Monteverdi ora lenti ora affannosi ora pieni
di trepidazione, il drammatico alternarsi dei sentimenti nell’animo di Tancredi dopo
la caduta della nemica di cui egli né sa il nome né conosce l’identità: prima la gioia
feroce per la vittoria conseguita e poi quel non so che di flebile e soave / ch’al cor gli
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scende ed ogni sdegno ammorza, / e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza quando
Clorinda chiede e dà perdono e lo prega di battezzarla, e quindi, come una intuizione
della tragedia incombente, il tremar della mano mentre la fronte / non conosciuta ancor
sciolse e scoprio fino allo sgomento improvviso e alla disperazione che lo travolge nel
momento in cui scopre la verità:
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza!
Scrivere la parola fine, dunque: questo il mio proposito e la ragione, un po’ banale, di
tanta citazione.
Sermoni iam finem face tuo, dice un personaggio di Plauto al servo che la tira troppo
per le lunghe. Ed è proprio il caso di dargli retta. Non perché non abbia altre cose da
raccontare. Ma si tratterebbe di cose dell’oggi, fuori quindi del mondo che è stato il
mio.
Anche oggi, naturalmente, seguo in maniera attenta gli avvenimenti e vivo spesso
con angoscia questo tempo dell’Italia e del mondo sempre più periglioso e gravido di
minacce, uno dei peggiori che io abbia mai conosciuto, così dominato dall’egoismo
e dalla incapacità di guardare al futuro. E partecipo con speranza al tentativo di dare
vita a un nuovo soggetto politico che, unendo i diversi riformismi della storia italiana,
sia capace di riaffermare in modo nuovo e con nuova forza ed efficacia i valori della
sinistra e tirare fuori l’Italia dalla morta gora dalla quale non riesce a uscire.
Ma non ho più ormai quel ruolo attivo, di protagonista, pur modesto, che ho avuto nei
lunghi anni della seconda metà del secolo scorso; e perciò non ha più, francamente,
senso continuare un racconto che si può nutrire ormai solo (o quasi) di fatti privati.
Tuttavia, non vorrei chiudere così, ex abrupto, e cioè all’improvviso, a precipizio, come
dicono i latini. Vorrei farlo invece, riempiendo ancora qualche pagina con il racconto
dei miei viaggi nei paesi del cosiddetto socialismo reale, e poi con un breve congedo
come usavano una volta i poeti a conclusione delle loro canzoni.
Non è che abbia fatto solo questi viaggi: ne ho fatti tanti altri, sia come parlamentare e
sindaco che come privato cittadino: Hong Kong, il Giappone, gli Stati Uniti, l’Arabia
Saudita (dove ci tennero per diverse ore fermi all’aeroporto di Riad, pur essendo una
delegazione del Parlamento italiano, per verificare se nelle nostre valige non ci fossero
per caso liquori o materiale pornografico e comunque pericoloso per la buona salute
delle anime dei musulmani di quel paese), la Spagna. E quindi anche di questi viaggi
potrei raccontarvi.
(A proposito: solo da qualche anno abbiamo smesso di fare viaggi all’estero per dedicarci
all’Italia ma, chi lo sa?, forse prima o poi riprenderemo a girare un po’ per il mondo.
E’ da tempo, ad esempio, che stiamo pensando di recarci in Argentina dove vivono
parenti del nonno o andare a conoscere la Cina, rimediando così alla possibilità che mi
fu offerta di andarci quand’ero ancora parlamentare, solo che, purtroppo, la proposta mi
arrivò proprio all’ultimo minuto e così non se ne fece niente...).
Ma c’è un motivo nel fatto che io voglia raccontarvi solo di quelli fatti nei paesi
socialisti.
242
Le poche cose che ho visto e conosciuto allora in quei paesi, che sembravano appartenere
a un altro mondo, un mondo nel quale si stava costruendo davvero l’uomo nuovo, mi
hanno consentito, sia pure a posteriori, di capire un po’ meglio le ragioni del fallimento
di una grande esperienza storica, che ha attraversato tanta parte del ‘900.
Qualche notte fa, sfogliando tra le mie vecchie carte, mi è capitato di ritrovare per caso
la lettera che, nel lontano ottobre del 1973, spedii da Gorkij a mia moglie. Una lettera
breve, scritta in fretta e furia utilizzando il pochissimo tempo libero a mia disposizione,
dopo, sono le mie parole nella lettera, “un’altra lunga giornata di visite, riunioni e
pranzi”.
Mi trovavo allora in questa grande città russa, ospite del Comitato regionale del PCUS,
quale membro della delegazione di studio che quell’anno il Comitato Centrale del PCI
aveva inviato in Unione Sovietica.
Naturalmente, preso dalla curiosità, ho riletto tutta la lettera. Ma quale non è stata la
mia sorpresa quando ho letto che “...c’è da rimanere semplicemente ammirati per tutto
quello che hanno saputo fare e che stanno facendo. Quando tornerò ve ne parlerò a
lungo...”.
A rileggerle oggi, queste parole, più che enfatiche, sembrano ingenue.
Possibile, qualcuno potrebbe chiedere, che non vedevate le cose che non andavano? Ma
non credo sia questa la domanda da porre.
In quegli anni, in Unione Sovietica e negli altri paesi socialisti c’era, ad esempio,
un’attenzione particolare all’infanzia e ai giovani, dando a tutti la possibilità di studiare,
come anche alla salute e al diritto al lavoro che non trovava analoghi riscontri da noi.
Da questo punto di vista, le cose erano effettivamente diverse.
Ma non c’era democrazia politica ed economica, mancavano le libertà individuali e
i diritti umani venivano sistematicamente calpestati, facendo così venire meno la
possibilità di un effettivo e duraturo sviluppo di quelle società che, non a caso, a un
certo punto sono implose.
Non erano cose, però, che ignoravamo, anzi è proprio su questo terreno che noi comunisti
italiani eravamo già da tempo assai critici nei confronti dei sovietici e degli altri Paesi
socialisti.
Di tutto questo, però, non abbiamo mai fatto la questione discriminante nel rapporto
con loro. Perché?
Credo sia questa la domanda da porci.
In realtà, il nostro errore stava innanzitutto nella sottovalutazione della gravità di questo
stato di cose: Berlinguer ha proclamato di fronte ai sovietici, riuniti a congresso, il
valore universale della democrazia solo nella seconda metà degli anni ‘70, né si aveva,
inoltre, la necessaria percezione di quel che alla lunga avrebbe provocato l’assenza di
democrazia in quelle società.
C’era poi, nel nostro giudizio, una separazione tra le cose buone che pur si facevano in
questi paesi nell’interesse dei lavoratori e il problema della mancanza di democrazia,
pensando che, prima o poi, anche nell’URSS e negli altri paesi socialisti si sarebbe
prodotta una svolta democratica e quindi finalmente alle conquiste sociali si sarebbero
accompagnate anche democrazia e libertà.
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Non c’è perciò da stupirsi oggi di quella mia ammirazione: era questo, in verità, il
sentimento di fondo che animava allora grande parte del PCI, compreso il quadro
intermedio delle federazioni e dei Comitati regionali.
D’altra parte, il PCI ha sempre mantenuto rapporti stretti e amichevoli, in pratica fino
alla caduta del muro di Berlino, con quei paesi e quei partiti comunisti. Anzi, nel corso
degli anni è stata messa in piedi una rete così solida ed estesa di rapporti che essa è stata
capace di resistere anche ai momenti più acuti di contrasto tra noi e i partiti comunisti
dell’est.
Ricordo, ad esempio, il ‘68 quando il PCI condannò in maniera chiara e senza riserve
l’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia e la repressione nel sangue
della cosiddetta primavera di Praga, il tentativo fatto dai comunisti cecoslovacchi,
guidati da Dubcek, per una maggiore autonomia da Mosca e una svolta democratica
all’interno del proprio paese; o ancora, nella seconda metà degli anni ‘70, lo scontro
aspro che oppose Berlinguer a Breznev sul valore della democrazia e, nel 1981, dopo
i fatti di Polonia, l’affermazione da parte di Berlinguer dell’esaurimento della spinta
propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre.
Neanche in momenti come questi, tuttavia, i nostri rapporti ne uscirono turbati!
Il PCI, inoltre, era convinto di poter giocare un ruolo importante ai fini della evoluzione
in senso democratico di quei partiti e di quei paesi; e perciò, da questo punto di vista,
non aveva proprio senso interrompere tali relazioni.
Non si trattava, del resto, di una convinzione senza fondamento. Davvero il PCI è stato
il punto di riferimento del dissenso interno e dei settori più aperti del PCUS e degli altri
partiti comunisti del blocco sovietico.
Ricordo, ad esempio, che in uno degli incontri, svoltosi a Budapest nel novembre del
1978, tra una nostra delegazione, della quale anch’io facevo parte, e una rappresentanza
del POSU (il partito dei comunisti ungheresi), il dirigente magiaro che introdusse la
riunione ci tenne a dire, e con molta convinzione anche, che i comunisti ungheresi,
che venivano dalla terribile esperienza del ‘56, oltre a sentirsi diversi dagli altri partiti
comunisti dell’est proprio per aver cercato di trarre da quella esperienza la giusta
lezione, erano anche sempre molto attenti a quel che diceva e faceva il PCI e che, anzi,
essi facevano il tifo per i comunisti italiani.
Ricordo anche che cose analoghe nel 1981, in occasione del mio soggiorno sul Balaton,
sempre ospite dei comunisti magiari, mi disse József, uno dei dirigenti della scuola di
partito a Budapest, in vacanza anche lui in quei giorni sul grande lago, discutendo della
politica del PCI.
Purtroppo però la storia ha dimostrato che il comunismo di matrice sovietica era
irriformabile e che quindi, ahinoi, le nostre aspettative erano in realtà mal fondate!
Una rete solida ed estesa di rapporti, dunque, quella che è esistita fino al 1989 tra noi e
i comunisti sovietici e degli altri Paesi dell’est, che si esprimeva in tanti modi.
Uno di questi, ad esempio, era rappresentato dagli incontri tra delegazioni ristrette
composte da dirigenti di medio livello del nostro partito, alle quali partecipavano
compagni dell’apparato centrale ma anche dei Comitati regionali e delle federazioni;
e, in genere, la loro agenda era fitta di incontri, anche se debbo dire che non sempre
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gli incontri si rivelavano di particolare interesse, spesso anzi essi si riducevano o a uno
scambio molto formale e abbastanza superficiale di informazioni o a un lungo e arido
elenco di dati.
Posso dirlo per esperienza diretta, perché ho fatto parte anch’io di un paio di questo tipo
di delegazioni, quelle alle quali ho già accennato: nel 1973 in Unione Sovietica e poi
nel 1978 in Ungheria.
Meno frequente, ma mai caduto in disuso, era invece l’invio di nostri compagni in Unione
Sovietica per partecipare a corsi politici e di economia politica di livello universitario.
A uno di questi, della durata non ricordo più se di pochi mesi o addirittura di qualche
anno, fui invitato anch’io dalla Direzione del partito: eravamo, ma non ne sono sicuro,
intorno alla fine degli anni ‘60, ma rifiutai, francamente la cosa non mi sembrava molto
utile e debbo dire, sia pure col senno del poi, che feci bene.
C’erano poi i viaggi per ragioni di riposo: un discreto gruppo di compagni, ospiti dei
rispettivi partiti comunisti, si recava per riposo (cioè per passarvi una vacanza) nei paesi
socialisti; e qui non c’era scambio, perché il PCI non era affatto in grado di ricambiare
questo tipo di ospitalità.
All’epoca, questo tipo di viaggi era il più frequente, anzi tutti gli anni se ne organizzavano
diversi, della durata di 20-25 giorni, nei vari paesi dell’Est e nell’Unione Sovietica; e a
usufruirne erano di solito i funzionari del partito, a causa dei loro assai magri stipendi
(ai compagni di base erano invece prevalentemente riservati i viaggi-premio, sempre nei
paesi socialisti, messi in palio da L’Unità e dalla Direzione del partito per la diffusione
del giornale e il tesseramento).
Il mio primo viaggio, per ragioni di riposo, nei paesi socialisti avvenne nel 1967 e la
nostra meta fu la DDR, la Repubblica Democratica Tedesca. Era d’estate, e solo da
qualche mese mi ero trasferito da Chieti a Vasto, per dirigere il Comitato di zona del
partito.
Andai naturalmente con grande interesse, anche perché era la prima volta che facevo
un viaggio del genere ed ero curioso perciò di vedere di persona, per quel che era
possibile, come andavano realmente le cose in un paese dove i comunisti governavano
e si proponevano di trasformare profondamente la società e lo Stato.
Il gruppo col quale mi ritrovai era composto all’incirca di una decina di compagni o
poco più, provenivamo da ogni parte d’Italia ed eravamo, ovviamente, tutti maschi.
Eh sì, perché a questi viaggi non erano ammesse le donne, mogli o compagne che
fossero, con quali conseguenze sulla tenuta della truppa è facile immaginare!
Non ho mai capito se la scelta fosse del PCI o di chi ci ospitava, sta di fatto che solo
nel 1981 alla vacanza in Ungheria, sul Balaton, poté partecipare anche mia moglie, alla
faccia di tutti i bei discorsi che nel frattempo si facevano nel partito sull’emancipazione
femminile!
Il viaggio fu piuttosto lungo e anche, debbo dire, con qualche venatura metafisica.
Eravamo diretti infatti verso un paese fantasma, un paese che per la politica e la
diplomazia non esisteva, tanto è vero che sul mio passaporto non è stato mai apposto il
visto d’ingresso nella DDR!
Oggi è storia finita, ma all’epoca tra l’Italia (e gli altri Stati dell’Occidente) e la
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Repubblica Democratica Tedesca, non esistevano relazioni diplomatiche. E la DDR,
fu riconosciuta e ammessa all’ONU solo nel settembre del 1973, assieme alla RFT,
la Repubblica Federale Tedesca, che era stata tenuta anch’essa, fino a quella data,
fuori delle Nazioni Unite. Eppure, sia la DDR che la RFT erano nati come Stati già da
oltre venti anni: la RFT nel 1948, sul territorio liberato nella seconda guerra mondiale
dagli americani e dagli inglesi; la DDR nell’ottobre del 1949, sul territorio liberato
dai sovietici, come ritorsione alla costituzione l’anno prima della Repubblica Federale
Tedesca.
Paradossi della guerra fredda!
Perché l’uno e l’altro Stato tedesco, nei quali la Germania uscita sconfitta dalla guerra
si è ritrovata divisa fino agli inizi degli anni ‘90, sono stati appunto il frutto avvelenato
della guerra fredda che si è combattuta per tutta la seconda metà del secolo scorso tra il
blocco sovietico da un lato e il blocco degli Stati occidentali, sotto influenza americana,
dall’altro, dopo la rottura, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, della
grande alleanza antifascista che aveva sconfitto il nazismo.
A causa di tali circostanze, fummo perciò costretti a fare il viaggio in treno (e non in
aereo) e ad attraversare prima mezza Italia, da Roma in su verso il Brennero, e poi la
Germania dell’Ovest, con qualche fermata naturalmente: prima a Merano, in Alto Adige,
per prendere a bordo il nostro capodelegazione (un giovane professore di filosofia, di
lingua tedesca) e con lui un vecchio compagno, anch’egli di lingua tedesca, che aveva
fatto la prima guerra mondiale dalla parte degli austriaci; e poi a Monaco di Baviera
dove sostammo per la notte.
Finalmente, dopo due giorni di viaggio, mettemmo piede, passando per Potsdam, a
Berlino est, nella capitale cioè di quello Stato fantasma che era allora la Repubblica
Democratica Tedesca.
La ventina di giorni che restammo ospiti della SED, il partito comunista della DDR,
debbo dire che furono assai piacevoli.
Per buona parte li passammo a Heringsdorf, sul Baltico: per fortuna, il tempo ci assistette.
E’ vero, pioveva tutti i santi giorni, anche se era d’agosto, ma solo nel pomeriggio. Così,
la mattina, potevamo fare il bagno nell’acqua freddissima del Baltico e divertirci a
giocare a pallavolo sulla spiaggia.
Prima di andare sul Baltico, però, trascorremmo alcuni giorni in Turingia, in mezzo
alle montagne, non so se dell’Harz o della Foresta Turingia, la Thuringer Wald: luoghi
bellissimi, comunque, dove ricordo che ci fu anche offerto un concerto, a base di lieder,
che si concluse poi con una festa alla quale parteciparono ospiti illustri anch’essi in
vacanza nella zona.
Durante la nostra permanenza in Turingia, avemmo anche modo di visitare città molto
belle e con tanta storia, sia letteraria che politica: Weimar, Erfurt, Dresda, Lipsia.
Visitammo anche Buchenwald, uno dei più famigerati campi di concentramento e di
sterminio nazisti.
Il nostro soggiorno nella DDR si concluse a Berlino dove passammo gli ultimi giorni
della nostra vacanza.
Girammo un po’ la città ma senza allontanarci molto dall’albergo che ci ospitava e che
si trovava nelle vicinanze della Sprea: qui ricordo che, una sera, mentre passeggiavamo
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lungo il fiume, incontrammo un tipo abbastanza anziano che, sentito che parlavamo
italiano, ci mise al corrente di quel che più conosceva dell’Italia, dove forse era stato
durante la guerra: Italia? Mussolini...
Insomma, fu una vera vacanza.
Di politica, infatti, con i nostri accompagnatori della SED discutemmo poco o nulla.
Solo chiacchierate occasionali, mentre ci recavamo da un luogo all’altro della Turingia
e di altri Lænder o aspettavamo, a Helsingdorf, che spiovesse nei pomeriggi piovosi di
quei giorni. Tanto meno avemmo la possibilità di incontri con organizzazioni di partito
o anche con la gente comune, non solo per la difficoltà della lingua. La nostra, in fondo,
fu solo una visita guidata, tutta nella bambagia, e così tutto quel che potemmo conoscere
del Paese, dei suoi progressi, di ciò che pensava la gente fu quel poco che ci venne detto
da loro in queste chiacchierate.
Una cosa comunque era evidente, girando per le strade: la modestia delle condizioni di
vita, assieme alla pulizia e all’ordine che regnava nelle città.
La DDR ha raggiunto, negli anni della sua esistenza, livelli di sviluppo industriale
notevoli e quindi anche livelli discreti di reddito. Ma il controllo totale dell’economia
da parte dello Stato e l’assenza di libertà e democrazia sia politica che economica
hanno avuto come esito prima la fuga dal paese, anche a rischio della vita, di cervelli e
manodopera specializzata verso l’Ovest e alla fine, nel 1989, il crollo del muro, eretto
proprio per impedire questa fuga, e la fine dello Stato.
Ma, al di là degli esiti di una storia come quella della DDR, tuttavia non mi è possibile
tacere o dimenticare la grande ospitalità con cui i comunisti di quel paese che oggi
non esiste più ci accolsero e ospitarono e la loro cordialità. O, anche, la bonomia di
un vecchio comunista, che aveva conosciuto i campi nazisti, dall’aria severa, come
Herbert che era il responsabile del nostro soggiorno, o, ancora, la disponibilità di tutti
i nostri accompagnatori, la dolcezza della bionda e timida Dagmar, probabilmente alla
sua prima esperienza come accompagnatrice di delegazioni straniere per conto della
SED, la bellezza dei luoghi.
Assai interessante invece fu, dal punto di vista politico, il viaggio nell’URSS, nell’ottobre
del 1973.
Per la verità, lo fu anche dal punto di vista turistico: oltre ad avere la possibilità di
visitare Mosca e una città come Gorkij, nel cuore della vecchia Russia, avemmo infatti
anche la fortuna di recarci nell’Asia centrale, in un paese per noi del tutto sconosciuto
da ogni punto di vista, ma anche pieno di fascino, come la giovane Repubblica del
Turkmenistan.
Ricordo che arrivammo a Mosca (eravamo in 7) che nevischiava, ma niente di serio,
anche perché restammo nella capitale sovietica appena qualche giorno, il tempo di
visitare la Piazza Rossa e il Cremlino e assistere a un balletto al Bolscioi, il teatro più
famoso al mondo per i suoi balletti.
Partimmo invece subito per Gorkij, l’antica Nižnij Novgorod che è di nuovo oggi il
nome della città dopo la fine dell’URSS (il nome di Gorkij le venne dato in omaggio
a uno scrittore sovietico della importanza di Massimo Gorkij, l’iniziatore del realismo
socialista).
247
E proprio qui furono subito scintille con alcuni dei dirigenti del PCUS di quella regione.
Ma lo scontro più vivace, con un attacco scoperto e diretto nei nostri confronti, si
verificò, se ben ricordo, qualche giorno prima della nostra partenza o forse proprio
l’ultima sera del nostro soggiorno.
La cosa ci sorprese non poco, anche perché non ce l’aspettavamo.
Quando giungemmo a Gorkij avevamo avuto, infatti, l’impressione di trovarci di fronte
a un gruppo dirigente animato da spirito rinnovatore e di apertura al nuovo, grazie alle
cose che ci disse, al nostro primo incontro, il segretario regionale del partito, un tipo
giovane, efficiente, interessato alle nostre esperienze.
Ma evidentemente le cose stavano in un modo un po’ diverso, come avemmo modo
di capire meglio in seguito, attraverso le numerose chiacchierate, durante il viaggio,
con i nostri accompagnatori: tra di loro, per fortuna, c’erano in prevalenza estimatori
dell’esperienza del PCI e sostenitori della necessità di un rinnovamento della società
e dello Stato sovietici, ma ci fecero capire che non era così nel resto del partito e,
soprattutto, nel suo gruppo dirigente centrale guidato da Breznev.
Ma ecco come andarono le cose.
Quel giorno, l’incontro rituale della giornata era finito e stavamo chiacchierando in
maniera informale in attesa di andare a cena quando uno dei dirigenti del PCUS di
Gorkij presenti espresse giudizi duri sul PCI e la sua politica, ai quali naturalmente
reagimmo in maniera energica.
In particolare, egli mise sotto accusa il cosiddetto parlamentarismo del PCI e la strategia,
propria dei comunisti italiani, di puntare alla costruzione in Italia di una società socialista
e democratica.
In altre parole, l’accusa era di aver rinunciato con questa scelta non solo a qualunque
idea di rivoluzione, ma anche alla costruzione stessa di una società socialista perché
democrazia e socialismo non potevano essere coniugati insieme.
Insomma, venne fuori così, quasi per caso, quella chiusura, così largamente presente
allora nell’URSS, a ogni idea di trasformazione socialista della società usando e
rispettando le regole della democrazia.
Allora a capo del PCUS e dello Stato sovietico c’era Leonid Breznev, succeduto a
Krusciov defenestrato e mandato in pensione nel 1962, del quale venne puntualmente
cancellato anche ogni pur timido e confuso tentativo di rinnovamento della vita
dell’URSS.
Breznev era tutt’altro che un riformatore, era anzi il portatore di una visione neostalinista
e burocratica del potere, che arrivò perfino a teorizzare il diritto dell’URSS a intervenire,
anche militarmente, nella vita interna degli altri paesi socialisti in presenza di fatti che
potessero comportare una qualche minaccia per gli interessi del socialismo (e cioè. a
essere chiari, dell’URSS).
Reca, infatti, proprio il suo nome la teoria della cosiddetta sovranità limitata, che portò
i sovietici prima a stroncare, nel ‘68, la primavera di Praga e poi, nel ‘79, a invadere,
con esiti assolutamente disastrosi, l’Afghanistan dove l’anno prima avevano preso il
potere, con un colpo di stato, i comunisti del Partito democratico popolare.
A guardare oggi all’indietro le cose, non è difficile vedere i guasti profondi provocati
da Breznev all’Unione sovietica con la sua politica interna e internazionale; e come egli
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abbia avuto un ruolo determinante nel radicalizzare e accelerare la crisi che, a qualche
anno di distanza dalla sua morte, ha portato alla dissoluzione dell’URSS e dei paesi
socialisti dell’est europeo.
Anche negli anni di Gorbaciov il breznevismo ha fatto sentire pesantemente i suoi
effetti. Quel rifiuto a ogni apertura verso la democrazia è prevalso ancora una volta
nel PCUS, portando così inevitabilmente al fallimento del tentativo gorbacioviano di
bloccare la crisi in atto e far diventare un’altra cosa il comunismo sovietico e la stessa
società sovietica.
Il nostro soggiorno a Gorkij, che durò quattro o cinque giorni, fu comunque ugualmente
di grande interesse. E fu con molta curiosità e coinvolgimento che visitammo alcune
fabbriche (Gorkij era una città fortemente industrializzata), visite di solito precedute
o seguite da incontri con i tecnici e i dirigenti interni di partito che ci illustravano la
situazione.
Tra le fabbriche visitate, ci fu anche quella che produceva auto; e ricordo che, mentre ci
inoltravamo nella visita dei vari reparti, il nostro capodelegazione, torinese, notò subito
i bassi ritmi, rispetto a quelli di una qualunque fabbrica italiana, e una organizzazione
del lavoro che non contribuivano certo a tenere alta la competitività dell’azienda.
Avemmo naturalmente incontri anche con organizzazioni di partito; e di questi il più
interessante fu quello con l’Attivo cittadino del PCUS.
Questa volta a parlare fummo noi che a turno, dopo l’introduzione iniziale di Iginio
Ariemma, rispondemmo alle domande dei sovietici sul PCI e sulla sua politica: le
domande furono molte, a testimonianza dell’interesse che comunque suscitava il PCI;
né ci furono polemiche.
Una ricca cena d’addio, alla quale erano presenti molti dirigenti locali, segnò la
conclusione del nostro soggiorno.
La serata fu bella e gradevole. Ma vi assicuro, mie care nipoti, che mai, come quella
sera, io, e gli altri con me, ho ingurgitato tanto alcool.
La cena, infatti, fu ricca non solo di portate ma anche di libagioni e, in aggiunta, fu
costellata da numerosi brindisi ai quali i sovietici erano abituati e noi no. Alla fine,
eravamo tutti sbronzi; e ricordo che quando, dopo la cena, il nostro gruppo venne
imbarcato sul treno, ognuno nella sua cuccetta, diretto a Mosca, non solo non riuscimmo
a dormire ma più di uno (tra questi io) vomitò anche l’anima.
Del resto, cosa potevamo aspettarci?
Le bottiglie scolate durante la cena erano state tante e anche i brindisi arrivarono a una
trentina e forse più perché la tradizione era questa (e non potevamo certo cambiarla noi
quella sera): ogni commensale, a turno, levava il suo bicchierino di vodka alla salute dei
presenti e a maggior gloria delle sorti del socialismo e dell’URSS e ne mandava poi giù
tutto d’un fiato il contenuto, e non è che qualche volta si poteva fare passo: sarebbe stato
inelegante nei confronti degli altri! A questo punto, fate un po’ voi il conto di quanta
vodka abbiamo mescolato col vino...
Dopo qualche giorno di sosta a Mosca, ci rimettemmo di nuovo in viaggio.
Meta, questa volta, il Turkmenistan, una delle repubbliche sovietiche nate nei primi
anni ‘20 nel cuore dell’Asia centrale, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre:
quando nacque come repubblica autonoma, il Turkmenistan era solo una periferia
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arretrata e poverissima della Russia zarista ed ha avuto perciò tutto da guadagnare dalla
rivoluzione.
Debbo dire che il Turkmenistan, che si trova ai confini con l’Iran e l’Afghanistan (non
a caso, una parte del suo territorio era classificata come zona militare), mi impressionò
particolarmente, in qualche modo anzi ne fui affascinato anche per quel che di esotico
c’era nel suo paesaggio brullo e desertico e nei suoi abitanti. Tanto è vero che subito dopo
il mio ritorno in Italia scrissi su quel Paese e le trasformazioni che aveva conosciuto nei
cinquanta anni della sua esistenza come Stato un lungo articolo, pieno di ammirazione,
su Abruzzo d’Oggi.
Ammirazione non infondata, di questo sono convinto ancora oggi quando ormai
l’Unione Sovietica è scomparsa e il Turkmenistan è diventato una delle tante repubbliche
indipendenti del centro Asia, sotto un potere sicuramente più accentrato e autoritario e
probabilmente più corrotto di quanto non fosse ai tempi dell’URSS: non credo, del
resto, sia frutto del caso se, nel ‘99, il Presidente della Repubblica, ex segretario del PC
turkmeno naturalmente, è stato addirittura acclamato dal Parlamento presidente a vita!
Arrivammo ad Ashabad, la capitale, a bordo di un vecchio aereo, un vero e proprio
trabiccolo che però ci portò, senza particolari patemi, a destinazione, a circa tremila
chilometri da Mosca; e venimmo sistemati in un piccolo ma elegante e accogliente
albergo costruito dopo il terremoto del 1948.
I nostri incontri e le visite iniziarono subito, ed è tutto documentato, come del resto il
nostro soggiorno a Gorkij, dalle fotografie scattate dal fotografo ufficiale che il partito
sovietico aveva messo a nostra disposizione sia a Gorkij che ad Ashabad e che io
conservo accuratamente.
Furono, insomma, anche i quattro giorni passati in Turkmenistan assai intensi e pieni
di impegni, come già era accaduto a Gorkij. Con la differenza però che qui le distanze
erano tutt’altra cosa: a Gorkij, in pratica, avevi tutto a portata di mano, qui invece...
Il Turkmenistan infatti, dal punto di vista della sua conformazione fisica, non solo è un
territorio immenso (circa 500 mila Km. quadrati), ma è anche quasi tutto un deserto,
il deserto del Karakum che copre circa il 90% del Paese, dove quindi le strade quasi
non esistono e c’è bisogno dell’aereo per spostarsi da una città all’altra. Per recarci,
ad esempio, a Nebit Dag, la capitale dell’industria petrolifera turkmena sul Caspio,
dovemmo utilizzare l’aereo che ci fu messo a disposizione dalla Presidenza della
Repubblica.
Del resto, proprio per questa ragione, quasi tutte le nostre visite e incontri politici si
svolsero tra Ashabad e i suoi immediati dintorni. L’unica eccezione fu appunto la visita
a Nebit Dag: qui visitammo alcuni impianti petroliferi e pranzammo, con le maestranze
del posto, nel ristorante a loro riservato, in realtà un grosso capannone in pieno deserto
dove il caldo era tanto ma per fortuna si trattava di un caldo secco, che non dava affatto
fastidio.
Ad Ashabad visitammo molti luoghi e avemmo parecchi incontri.
Il nostro primo giorno, all’indomani del nostro arrivo, fu naturalmente dedicato
all’incontro con i dirigenti del Comitato Cittadino del partito e al giro della città.
Ashabad, situata alle pendici del monte Kopet Dag, la vetta più alta del Turkmenistan,
in un’oasi ai margini del Karakum, si presentò subito come una città elegante: ampi
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viali alberati, edifici e assetto urbanistico moderni. Come ci spiegarono al Comitato
cittadino, la capitale era stata letteralmente rasa al suolo dal terremoto del ‘48; ma le
autorità dell’epoca ebbero la lungimiranza di ricostruirla con criteri moderni e anche
di fornirla di servizi e strutture che, prima, non esistevano affatto come, ad esempio, le
fognature.
Anche i suoi abitanti, uomini e donne, mostravano una eleganza naturale: corpi asciutti,
slanciati, visi dai tratti semplici ma belli; soprattutto le donne, con le loro lunghe tuniche
colorate, il corpo snello e la pelle vellutata e di un colorito appena tendente al bruno,
apparivano dotate di un particolare fascino.
Ashabad ospitava anche importanti attività produttive, scuole di vario ordine e grado,
con una scolarizzazione assai elevata, e istituti di cultura di tutto rispetto. E pensare
che, come ci disse il nostro fotografo, fino ad alcuni decenni prima il Turkmenistan era
ancora largamente abitato da popolazioni nomadi e analfabete, dedite prevalentemente
alla pastorizia e all’agricoltura: lui stesso -che pure era giovane- era nato in una tenda!
Nel corso dei nostri incontri, avemmo modo di visitare una fabbrica di tappeti, in genere
assai colorati, e la mostra che vi era ospitata; e, fuori della città, a non molta distanza
dalla capitale, di passare una mezza giornata con i colcosiani, che ci apprestarono un
succulento pranzo a base di montone e ci illustrarono con dovizia di dati i risultati della
loro attività: allevamento del bestiame (in prevalenza ovini e pollame) e coltivazione di
vigneti e frutteti.
Incontrammo anche, presso il canale Karakum, un’opera gigantesca che attraversa
il deserto e porta fino ad Ashabad, lungo un percorso di 1.100 chilometri, l’acqua
dell’Amur Darja utilizzata poi fondamentalmente per l’irrigazione, le ragazze e i ragazzi
che stavano raccogliendo i bianchi fiocchi del cotone, fu un incontro allegro e ricordo
che facemmo anche diverse fotografie con loro.
In città, poi, visitammo il Museo letterario e il Museo del tappeto e andammo a trovare
i bambini di una scuola materna: i bambini ci accolsero con un piccolo spettacolo e,
prima di andare via, pranzammo con le loro maestre.
Ricordo che visitammo anche una moschea dismessa e utilizzata non so più per che
cosa: ci dissero che a praticare l’Islam erano rimasti ormai solo i vecchi mentre i
giovani avevano idee nuove, moderne; in realtà anche in Turkmenistan la religione era
stata bandita e i luoghi di culto chiusi, ma si vide anche lì dopo la fine dell’URSS come
stavano effettivamente le cose: quelle radici la gente le aveva sempre portate con sé e il
divieto della pratica religiosa le aveva perfino rafforzate...
Due giorni prima della partenza andammo invece a visitare, nel deserto attorno
ad Ashabad, la stazione termale collegata al lago sotterraneo di Bacharden, dove la
temperatura dell’acqua e dell’aria è sempre sui 36 gradi e le acque hanno qualità
terapeutiche: un lembo del lago emerge all’interno della grotta di Kovata, e ricordo che
alcuni di noi vi fecero il bagno.
Ultima visita, il giorno prima della partenza, all’ippodromo dove assistemmo alle corse
che vi si stavano svolgendo, con i cavalli montati senza sella.
Ci fu anche, in quella nostra visita in Turkmenistan, una diversione curiosa, direi buffa,
che capitò il giorno del nostro incontro con gli iscritti al partito della capitale, all’Attivo
cittadino, nel quale -come a Gorkij- avremmo parlato noi, rispondendo alle domande
251
dei comunisti turkmeni.
All’incontro non ci fu grande partecipazione, ma non fu questa la cosa buffa. Ricordo
invece che, mentre ci recavamo dall’albergo al luogo dell’incontro, attraversando
il centro della città, a un certo punto, non so se per dare importanza alla nostra
presenza o per recuperare un certo ritardo sugli orari stabiliti, un’auto della polizia
con un altoparlante montato sul portabagagli cominciò a precederci e a ordinare agli
automobilisti di passaggio di fermarsi e darci la precedenza: ma quelli non se ne diedero
proprio per intesa e continuarono tranquilli a sfrecciare veloci per il lungo viale come
se nulla fosse!
Uno spettacolo davvero comico: evidentemente, i turkmeni non dovevano sentire molto
il richiamo dell’ordine e della disciplina...
L’ultimo mio viaggio in un paese socialista è stato, nel 1981, in Ungheria dove tornavo
dopo l’esperienza del ‘78.
Solo che, a differenza di allora, questa volta si trattò di un viaggio di riposo. E a capeggiare
la delegazione ero io: la proposta mi arrivò dalla Direzione del partito quando ormai
avevo già accettato di andare in Molise, non so se come premio per questo o per darmi
invece la possibilità di ristorare a dovere le mie forze per affrontare meglio le fatiche
che mi attendevano.
Eravamo dieci coppie (sì, questa volta c’erano anche le donne) e partimmo per Budapest,
da Fiumicino, all’inizio di agosto, con un volo della Malev, la compagnia di bandiera
magiara.
Il nostro soggiorno in Ungheria si protrasse per quasi tutto il mese. E fu una vera vacanza.
Anche perché quello era periodo di vacanze anche per gli ungheresi, e infatti fu proprio
sul Balaton che incontrai József, il dirigente della scuola del POSU a Budapest, con il
quale ebbi modo di scambiare qualche opinione sulla politica del PCI in Italia.
Niente incontri politici, quindi, solo visite di natura strettamente turistica, in genere
assai distensive e piacevoli. E, infatti, la gran parte della nostra vacanza la trascorremmo
sul Balaton; ma anche quando tornammo a Budapest, dove ci fermammo ancora per
alcuni giorni prima di riprendere la via del ritorno verso l’Italia, tutto il nostro tempo fu
dedicato a conoscere la città.
Sul Balaton, eravamo alloggiati proprio a due passi dal lago in un albergo di proprietà
del POSU, vicino a Siófok, se ben ricordo, uno dei centri maggiori delle diverse località
che fanno corona al grande lago.
Naturalmente, ne approfittammo per passare lunghe ore a rosolarci al sole d’agosto e a
tuffarci nelle acque cinerine e calde del lago, anche perché il bel tempo ci assistette (i
nostri amici ungheresi, scherzando, ci dicevano che eravamo stati noi a portare il bel
tempo: potenza dello stellone d’Italia...).
A essere sincero, per noi che eravamo abituati ai mari italiani, faceva un po’ senso,
almeno le prime volte, mettere piede nel lago.
Il Balaton, infatti, è un lago di origine vulcanica e quindi il suo fondo è fatto di una
mota piuttosto viscida che, quando te la senti sotto i piedi, provoca qualche disagio.
In più, vicino alla riva, ogni tanto si vedevano serpentelli, innocui, solcare le acque,
e questo spaventava soprattutto le donne. Nessuno però rinunciava a fare il bagno;
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passavamo anzi molto tempo nell’acqua a chiacchierare e giocare tra di noi. Tra l’altro,
poiché eravamo nella parte meridionale del lago dove, per lungo tratto, i fondali non
superano neppure il metro, potevamo fare anche belle passeggiate, un po’ nuotando e
un po’ camminando, verso l’interno del grande specchio d’acqua, senza correre rischi
di sorta.
Anche sulla riva si stava bene.
Davanti al nostro albergo, infatti, seguendo i bordi del lago, si snodava una larga striscia,
lunga qualche centinaio di metri, fatta di aiuole fiorite, vialetti di ghiaia, piccoli spiazzi
arredati con panchine e sdraio dove si poteva tranquillamente passeggiare o mettersi a
sedere a conversare e leggere.
Ma tutto questo accadeva di solito la mattina, perché spesso il pomeriggio la Direzione
dell’albergo ci organizzava visite nei posti più caratteristici della zona o gite in barca e
in traghetto sul Balaton.
Ricordo a questo proposito una bella gita in barca a vela, la giornata era calda e noi
eravamo tutti in costume: lo vedo da una delle numerose fotografie che ho riportato
dall’Ungheria e che stanno lì, anch’esse, a raccontare il piacere e la spensieratezza di
quei giorni.
Un’altra volta invece, sul far della sera e fino ad una certa ora della notte, facemmo
la traversata del Balaton con un traghetto-discoteca dove cenammo anche: non fu una
traversata proprio gradevole a causa del tipo di musica, un rock metallico assordante,
che ci dovemmo sorbire per tutta la serata ma che piaceva invece assai ai tantissimi
giovani ungheresi imbarcati con noi!
Tra le visite che facemmo ne ricordo bene alcune: Vezsprém, nella parte settentrionale
del Balaton, chiamata la città delle regine perché lì venivano incoronate le mogli dei
re ungheresi; Sándorpuszta, con il suo allevamento di cavalli; Keszthely, la più antica
città del Balaton, già importante centro commerciale al tempo dei romani, con il suo bel
castello barocco della ricca famiglia dei Festetics, trasformato in Museo, all’interno del
quale si trova la Biblioteca Helikon; e soprattutto Tihany.
Tihany è un promontorio che si incunea nel Balaton e che noi raggiungemmo dalla
riva opposta, con il traghetto che parte da Szántód. Dal 1952 è parco nazionale; ed è un
luogo davvero straordinario per la bellezza dei luoghi dove è possibile anche imbattersi
in rarità botaniche e zoologiche.
Nel mio album ho diverse fotografie scattate a Tihany e durante la traversata del lago
per raggiungere la bellissima penisola: anche quel giorno il cielo era pieno di sole e il
paesaggio, così segnato dal verde di una vegetazione fitta che avvolge da ogni lato la
piccola cittadina dove svettano le cuspidi della chiesa barocca del ‘700 che racchiude al
suo interno preziosi intarsi di legno, appariva ancora più splendido e luminoso. Tuttavia
un episodio assai sgradevole accompagnò quella giornata meravigliosa.
Per imbarcarci sul traghetto, a Szántód, eravamo partiti dall’albergo con il pullman.
Ma, quando arrivammo nei pressi della zona d’imbarco, trovammo davanti a noi una
tale fila di auto e di pullman che rischiavamo di perdere l’appuntamento. Momenti di
grande disappunto tra i nostri accompagnatori ungheresi, ma la direttrice dell’albergo
che era con noi risolse d’autorità la situazione: scese dal pullman, dopo aver invitato
perentoriamente l’autista a seguirla con il mezzo, e, forte del fatto che era del POSU e
253
accompagnava una delegazione straniera, costrinse piuttosto bruscamente pullmans e
auto a sgombrare una parte della carreggiata per lasciar passare il nostro pullman.
Potemmo così giungere a tempo all’imbarco, ma non vi dico, care nipoti, quale non fu
il nostro imbarazzo per la prepotenza di cui eravamo stati testimoni e anche la causa
involontaria. Avevamo anche visto, oltretutto, le proteste della gente, ai cui occhi, certo,
neppure noi facemmo una gran bella figura...
Nell’albergo che ci ospitava non c’eravamo solo noi italiani.
Vi erano anche un piccolo gruppo di comunisti tedeschi della Germania Federale (dove
il loro partito era fuorilegge) e una forte delegazione sovietica, c’era poi anche una
coppia rumena di Bucarest con la quale stringemmo subito amicizia e ci scambiammo
anche qualche cartolina dopo il nostro ritorno in Italia.
Con i tedeschi ci fu subito intesa: era gente allegra, giocherellona, che amava stare in
compagnia e divertirsi.
E infatti con loro organizzammo, sia in albergo che sul lago, balli, giochi un po’ bizzarri
come si può vedere dalle fotografie del mio album e gare varie dove ci scontravamo
anche con un certo accanimento ma dove quasi sempre però vincevamo noi.
Non solo eravamo più giovani, ma i nostri ci mettevano anche un particolare impegno
perché erano tedeschi e nessuno voleva dargliela vinta.
Nei loro confronti -anche se comunisti- si faceva ancora sentire tutto il peso della storia.
Ricordo, anzi, che, in una di queste gare, si trattava di saltare degli ostacoli, ci fu perfino
una coppia di nostri vecchi compagni, romagnoli, ex partigiani, che ce l’avevano a tal
punto con i tedeschi da partecipare anch’essi a quel gioco piuttosto rischioso per la loro
età pur di non farli vincere.
Ma, nonostante la loro simpatia, i nostri amici tedeschi avevano un difetto per noi
imperdonabile: quello di andare, di solito, a letto con le galline e alzarsi alle prime luci
dell’alba, mentre noi amavamo tirare tardi. E questo provocò qualche piccolo screzio
tra noi e loro.
Ricordo a questo proposito un episodio che, alla fine, si concluse con tante risate ma che
intanto ci fece arrabbiare tantissimo.
Spesso la sera, dopo la cena, parecchie coppie del nostro gruppo andavano a ballare in
una discoteca appena a un tiro di schioppo dall’albergo. La musica di moda nel locale
era naturalmente il rock, ma noi riuscivamo anche a far suonare canzoni italiane e,
soprattutto, napoletane, così potevamo ballare anche ai nostri ritmi.
Ma un giorno accadde che, tornando dalla discoteca a notte ormai alta e quando i nostri
amici erano già da qualche ora nelle braccia di Morfeo, ci fermammo, un bel gruppo,
davanti all’albergo, mettendoci prima a chiacchierare tra di noi e poi a cantare.
Non l’avessimo mai fatto perché mal ce ne incolse: infatti, nel bel mezzo delle nostre
chiacchiere e dei nostri canti, ci vedemmo all’improvviso piombare addosso, dall’alto,
un bel secchio d’acqua, erano i nostri amici dormiglioni che non ne potevano più di
vedersi interrompere il loro sonno prezioso e avevano deciso di reagire!
Insomma, abbiamo passato parecchie serate divertenti con il gruppo di comunisti
tedeschi della Germania Ovest; e forse con qualcuno di loro avremmo anche potuto
rincontrarci negli anni seguenti se non ci fosse stato di mezzo l’ostacolo della lingua,
oltre che della distanza.
254
Anche qui ricordo un episodio, un po’ comico nel suo svolgimento, ma che testimonia del
buon rapporto che avevamo stabilito con loro ma anche della difficoltà a mantenerlo.
Eravamo tornati in Italia appena da qualche giorno quando arrivò a casa mia una
telefonata di Hermann, uno dei nostri amici.
A casa c’era solo Rosetta, con i ragazzi, io ero invece fuori, sicuramente a qualche
riunione. Così fu lei a rispondere. Ma la conversazione durò solo pochi secondi, il
tempo di dire: Antonio, Antonio..., da parte di Hermann che non conosceva l’italiano e
parlava in tedesco, e da parte di Rosetta, digiuna a sua volta di tedesco, di rispondere in
italiano: Antonio non c’è, Antonio non c’è...!
Quando eravamo sul Balaton, a gesti riuscivamo comunque a capirci ma per
telefono...
Così da quel giorno non ci furono più telefonate, né da parte nostra né da parte di
Hermann!
Con i sovietici invece non ci fu proprio storia.
Era una delegazione composta prevalentemente di coppie anziane, proveniente
probabilmente dal profondo della provincia sovietica.
Se ne stavano sempre per conto loro, ignorando tutti gli altri ospiti dell’albergo, e c’era
nei loro atteggiamenti e nei loro modi di fare anche una certa sufficienza (chissà, era
forse spocchia da grande potenza!). Né ci fu mai neppure l’occasione di scambiare con
loro qualche battuta.
E non è che non davano confidenza solo a noi: lo stesso accadeva con i tedeschi e la
coppia rumena. Atteggiamento davvero incomprensibile!
Le uniche occasioni di contatto con loro ci furono solo al momento del nostro arrivo e
poi della loro partenza.
Come si usava in queste occasioni, a pranzo ci furono i soliti brindisi di saluto (sempre
molto enfatici, naturalmente) da parte mia e del loro capodelegazione, ma a base questa
volta di pálinka (una grappa ungherese fatta di albicocca, mela o ciliegia) e non di
wodka.
Il nostro commiato dal Balaton avvenne con un gesto molto carino da parte nostra.
La bella e bionda Judith, la nostra interprete, stava per sposarsi; e così, prima di partire,
decidemmo di farle il regalo di nozze. Le regalammo cento mila lire, diecimila a coppia,
una bella somma per l’epoca, soprattutto per lei che viveva in Ungheria dove i redditi
pro-capite non erano certo alti!
Gli ultimi giorni della nostra vacanza li passammo, come ho già accennato, a
Budapest.
Budapest è una città splendida, di cui non finisci mai di ammirare l’eleganza architettonica
e urbanistica e i paesaggi urbani e naturalistici di cui è ricca. Come l’isola Margherita.
O la collina di Buda, con il Castello Medioevale, la chiesa di Mattia e il Bastione dei
Pescatori, dalla quale si può godere lo spettacoloso panorama della pianura sottostante
dove c’è il Danubio che divide in due la città fluendo lento e maestoso sotto il Ponte
delle Catene e gli altri ponti che l’attraversano e c’è Pest che dalla riva sinistra del fiume
si dirama verso la pianura con i suoi viali, i suoi monumenti, le sue ville signorili, i suoi
edifici monumentali.
Nei pochi giorni a nostra disposizione non ci fu possibile naturalmente vedere molto.
255
Tuttavia, quel poco che vedemmo fu davvero interessante.
In particolare, di quei giorni ricordo il giro della città, che ci consentì di conoscere i
suoi monumenti più significativi, la visita alla sede del Parlamento nazionale, l’ascesa
alla collina di Buda dove, al Bastione dei Pescatori, potemmo anche fare acquisti di
manufatti dell’artigianato locale approfittando della presenza nella zona di un piccolo
commercio libero consentito dallo Stato, e poi le ore passate nell’isola Margherita e la
gita in battello all’Ansa del Danubio, fino ad Esztergom.
Buda, con Óbuda nata sulle rovine della romana Aquincum, è la parte più antica della
città; ed è stata per lungo tempo la città del potere di cui conserva ancora i simboli, a
partire dal Palazzo Reale, mentre Pest era la città dei mercanti e dei commerci, fino alla
unificazione, nell’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, dei tre centri con la nascita di
Budapest.
Ma a Buda non ci sono solo i simboli del vecchio potere, ci sono anche degli ottimi
ristoranti; e fu proprio in uno di questi che ci ritrovammo qualche giorno dopo la nostra
visita ai suoi monumenti per la cena d’addio, al lume delle candele e al suono dei violini
tzigani.
L’isola Margherita, dove passammo quasi una intera mattinata, favoriti anche questa
volta dal bel tempo, è invece un grande parco di quasi cento ettari, dal quale le automobili
sono proprio bandite, adagiata nel bel mezzo del Danubio.
Anche di questa gita conservo alcune fotografie: siamo lì a passeggiare lungo i vialetti
di ghiaia del parco, in mezzo agli alberi e alla fitta vegetazione di arbusti, e a goderci
l’atmosfera mite e idilliaca della giornata sdraiati sul prato o giocando, circondati dalle
aiuole ricche di fiori, con i nostri amici.
Di interesse anche politico fu, invece, la gita in battello all’Ansa del Danubio. Ma a darle
questa valenza non fu la gita in quanto tale quanto la sosta che facemmo ad Esztergom,
già sede dei re magiari e cuore della Chiesa ungherese da lunghi secoli.
Esztergom infatti, è la sede del primate della Chiesa cattolica ungherese, sede quindi
di quel József Mindszenty che, nella sua qualità di primate, giocò un ruolo di primo
piano nei giorni terribili della rivolta ungherese del 1956 e che fu poi costretto a vivere
per quindici lunghi anni nell’Ambasciata americana dove si era rifugiato al momento
dell’ingresso dell’Armata rossa a Budapest, fino alla sua accettazione, nel 1971,
dell’invito del Vaticano a lasciare l’Ungheria.
Anche se eravamo nel 1981, quel nome era noto anche ai più giovani tra noi; e non
godeva certo della nostra simpatia come di quella dei nostri accompagnatori.
Di orientamento fortemente conservatore e anticomunista, Mindzendy non usò
certamente, in quei giorni, la grande influenza che la Chiesa esercitava sulle masse
popolari ungheresi per aiutare la ricerca di una soluzione politica a una situazione che
rischiava ogni giorno di trasformarsi in tragedia e che come tale poi finì, anzi...!
256
Congedo
Bene, mie care nipoti! Con il nostro ritorno a Roma da Budapest, siamo arrivati
finalmente alla fine del racconto.
Ma vedo che vi agitate un po’: dite che manca ancora qualcosa?!
Ah, sì! Volete sapere dove erano i vostri papà mentre io e la nonna ce la spassavamo in
Ungheria.
Ma semplice, sono restati in Italia, erano già grandi ormai: Massimiliano quasi diciotto
anni e Stefano quindici.
E comunque vi assicuro che si sono divertiti molto anche loro. Hanno infatti passato il
mese di agosto girando un po’ di qua e un po’ di là, tra Villalago Sora Cugnoli e Chieti,
ospiti di nonni amici e parenti vari. Quindi...
Ma non perdiamo altro tempo: è male far chiacchiere al vento, dice Omero. Passiamo
perciò subito al congedo, quello che un tempo serviva ai poeti non solo per chiudere le
loro canzoni ma anche per inviare a volte qualche messaggio.
Nella prima metà di settembre di questo 2006, la nostra scelta per le cure termali è
caduta su Acqui Terme, in provincia di Alessandria.
Dal punto di vista gastronomico, non è stata una grande scelta, peggio anzi non poteva
andare. In compenso però abbiamo avuto la possibilità di conoscere Torino e diverse
altre località del Piemonte molto belle e interessanti e anche di fare una scappata a
Genova che non dista molto da Acqui.
Tra le nostre visite non potevano mancare naturalmente S. Stefano Belbo, il paese natale
di Cesare Pavese, un poeta che mi è sempre piaciuto, e le Langhe, le dure colline, le
terre di vigne, di prugnoli e di castagneti che Pavese ha cantato nelle sue poesie e nei
suoi romanzi, trasformandole in uno scenario mitico, senza tempo, per le sue opere
letterarie.
Una visita fugace, com’era inevitabile, ma densa ugualmente di emozioni di fronte, ad
esempio, alle tante cose che parlano del poeta raccolte nel Centro Studi a lui intitolato.
Ricordo in particolare l’emozione che mi prese davanti alla teca che contiene la copia dei
Dialoghi con Leucò che egli aveva con sé quel tristissimo giorno e sul cui frontespizio
aveva vergato le sue ultime righe, prima di togliersi la vita.
I Dialoghi con Leucò è il libro che Pavese prediligeva e nel quale forse è possibile
rintracciare le ragioni profonde che l’hanno convinto a superare il limite posto agli
uomini dagli dei di mischiarsi con le presenze vive e multiformi del mondo della natura,
del mondo del mito appunto.
Tornando a casa, ho ripreso in mano il libro e ho scorso di nuovo qualche pagina e,
pensando a questo epilogo del mio racconto, mi è sembrato, mie care nipoti, che il modo
migliore per concluderlo fosse fare mie le parole dette da Circe a Leucotea, in uno degli
ultimi dialoghi: L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che
porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo...
Raccontando la mia vita, non solo ho cercato di rispondere alla domanda che Valentina
mi ha fatto alcuni anni fa, augurandomi naturalmente di esserci riuscito. Ho voluto anche
che proprio questo racconto fosse il ricordo che io lascio a voi per i giorni dell’assenza:
257
quelli, inevitabili come le rose a primavera e i frutti in estate, ai quali tutti un giorno
approderemo.
C’è, ovviamente, in questo mio piccolo dono anche la speranza che esso possa esservi
utile almeno un po’ nella costruzione del vostro futuro e possa persino offrirvi qualche
idea per portare anche voi, quando sarete grandi, il vostro contributo, come io ho cercato
di fare nella mia vita, alla realizzazione di un mondo migliore per tutti.
Da questo punto di vista, ho fatto un po’ come gli antichi scribi egiziani che lasciavano
ai figli e ai nipoti i loro Insegnamenti. Come diceva uno di loro: Ecco, io ho fatto
l’inizio, tu annoda la fine...
E’ vero, il mondo oggi è già grandemente cambiato, e chissà quanto cambierà ancora
negli anni che vi aspettano. Potrebbe essere diversamente, del resto? La corrente
dell’acqua si è allontanata lo scorso anno, e questa che passa è già un’altra acqua...
Ma non lo dimenticate mai: non solo il futuro nasce anche dal passato, perciò sapere da
dove si viene è un po’ come sapere dove si va.
Ma la memoria di ciò che è stato può essere molto importante anche per capire meglio
quel che accade attorno a voi e per affrontare con lucidità i cambiamenti e non aver
paura di essi.
D’altra parte, è anche questo il modo per dominarli e indirizzarli, sapendo che i
cambiamenti non sono tutti uguali e non hanno sempre tutti un segno positivo: a volte
il cambiamento è in realtà un ritorno indietro antistorico o rappresenta una deviazione
pericolosa da un cammino di progresso.
Guardate in avanti, dunque, ma ascoltate anche il passato. E soprattutto non smarrite le
vostre radici: senza radici, l’albero secca.
Voglio dire che le grandi idee di libertà, democrazia, fraternità e uguaglianza tra gli
uomini sono sempre state la mia bussola; e spero che continuino a essere anche la
vostra. Sono le idee a cui tenere sempre fermo lo sguardo, le idee per le quali battersi
ogni volta che è necessario, le radici appunto...
Comunque, coltivatele con cura. E fatelo sempre con l’impegno e la consapevolezza di
cui siete capaci, ma anche con serenità e quel pizzico di allegria e creatività che ogni
gioco richiede, anche il grande gioco della vita.
Come facevate quando eravate ancora piccole, allorché giocavamo a inventare le favole.
Ricordate?
Ognuna diceva la parolina che voleva fosse la chiave della favola, poi le mescolavamo
tutte assieme e alla fine la favola nasceva davvero.
O, ancora, come facevate quando ci divertivamo a giocare con gli scioglilingua.
La vita, mie care nipotine, è anche una favola e uno scioglilingua, perciò datevi sempre
da fare come si deve per avere il risultato migliore; e metteteci sempre tutta la vostra
intelligenza, passione e fantasia, e siate brave ora che anche la vostra vita si fa più
impegnativa come già lo eravate nella vostra verdissima età.
E non lasciatevi prendere dalla impazienza come accadeva quando, la sera della vigilia,
non vedevate l’ora di aprire i regali di Natale: come sapete anche voi, la gatta furiosa
fa i gattini ciechi!
E adesso, dopo tutti questi insegnamenti da vecchio e barboso scriba, provate ancora
una volta a ripetere con il nonno:
258
Supercalifragilistichespiralidoso
oppure, se preferite,
Se l’arcivescovo di Costantinopoli
si disarcivescoviscostantinopolizzasse,
ti disarcivescoviscontantinopolizzeresti anche tu...?
Potete naturalmente, se ve ne viene voglia, anche divertirvi a ripetere col nonno, pur
se non si tratta di uno scioglilingua ma solo di una vecchia filastrocca di quand’ero io
bambino, che però avete ripetuto assieme a me tante volte nella vostra infanzia (e non
dimenticate, mi raccomando, di ripetere due volte il primo verso e poi, alla fine, di fare
con le dita di tutt’e due le mani il solito lieve sberleffo, che voi conoscete bene, sulle
guance del bambino col quale state giocando):
Musce muscia jatte,
che ‘ssi magnate jere sere,
so’ magnate pan’e casce,
frischie frischie ca ‘nni è lu vere!
E c’è anche, lo sapete bene, l’altra filastrocca infantile, anch’essa assai divertente, che
il nonno vi ha insegnato, rivolta alla luna:
Luna luna luna
dammi ‘nu piatte di maccarune
e si tu ni’ mme le dì
ji’ te rompe la chitarrelle
e si ni’ mme ci mitti lu casce
ji’ ti sfasce la rattacasce...
259
Appendice
260
LE POESIE DEL NONNO
(scritte quando era giovane)
Le poesie qui raccolte (non secondo un ordine cronologico) sono state composte dal
nonno quasi tutte negli anni ’50, soltanto qualcuna nei primi anni ’60; e sono naturalmente solo una parte delle tante partorite durante i suoi empiti poetici, molte per fortuna
vostra sono finite in pasto alla critica roditrice dei topi, come diceva il vecchio Marx.
Il nonno allora aveva molte velleità poetiche, poi col passare degli anni queste sue
pulsioni si sono indirizzate, forse con miglior risultato e comunque con maggiore utilità
per tutti, in altre direzioni.
Non vi nascondo però, rileggendo oggi a distanza di oltre cinquant’anni queste poesie,
che non manca in esse un certo fascino, e lo si sente ancora nonostante il tanto tempo
trascorso.
Spero, mie carissime nipoti, che questo fascino possiate avvertirlo anche voi quando le
leggerete; e comunque siate benevole nel giudicarle: esse vogliono essere innanzitutto,
prima ancora che poesia nel senso più alto che ha questa parola, l’espressione di un
mondo di fantasie e di sentimenti che il nonno ha cercato di vivere, negli anni della sua
giovinezza, con il massimo di intensità.
Naturalmente, il modo in cui il nonno sente ed esprime questo suo mondo risente
del clima culturale dell’epoca e anche delle letture che egli andava facendo in quel
periodo.
Così, è possibile ritrovare in queste poesie echi non solo di Leopardi che io ho sempre
molto amato (nelle prime poesie, anche di Pascoli), ma anche ovviamente di Ungaretti
Quasimodo Montale, i poeti che allora dominavano la scena italiana (e non solo); e,
nelle poesie più recenti, anche di Cardarelli e Pavese (quello soprattutto di Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi).
Ma, come è facile intuire, vi sono in esse anche altre risonanze, in qualche caso forse
non proprio agevoli da rintracciare: parlo, ad esempio, dei lirici greci e della loro
essenzialità espressiva che don Antonio ci aveva insegnato ad amare negli anni del liceo,
ma anche di R. Tagore, il grande poeta indiano che avevo conosciuto tramite alcune
vecchie edizioni Carabba e che allora leggevo con molto interesse, e, addirittura, anche
di alcuni testi buddistici, sempre pubblicati da Carabba, che allora mi affascinavano
particolarmente; mi piaceva poi la parola preziosa, rara (un pizzico di D’Annunzio,
dunque, ma senza dannunzianesimo credo) e anche la parola che già di per sé evoca una
atmosfera poetica nel senso che dice Leopardi nello Zibaldone quando osserva che “il
linguaggio poetico…consiste, se ben l’osservi, in un modo di parlar indefinito, o non
ben definito, o sempre meno definito, del parlar prosaico o volgare”.
In quegli anni inoltre, ma anche oggi per la verità, mi piaceva molto il grande pittore
francese Paul Gauguin alla ricerca disperata, con la sua grande pittura, di paradisi
perduti; e anche gli echi di questo incontro, così pieno di suggestioni rarefatte e in
qualche modo intrise di misticismo, è possibile ritrovare nelle mie poesie di allora.
Ho voluto fare queste brevi annotazioni, non tanto per darmi una qualche importanza
quanto piuttosto per sottolineare come anche il nonno, nel suo piccolo, era riuscito
261
a costruirsi un suo linguaggio poetico originale, capace di esprimere quel mondo di
fantasie e sentimenti che ho prima ricordato, riuscendo ad assorbire e a far riemergere in
forme nuove e fresche tutte le suggestioni che via via, attraverso la frequentazione della
grande poesia non solo italiana, si erano sedimentate dentro di lui. Forse, ad aiutarlo in
questo, sono state proprio la ricchezza e l’autenticità di quel suo mondo!
Due avvertenze conclusive.
La prima è che diversi di questi componimenti poetici non hanno titolo, potete così
sceglierlo voi per ognuno di essi, ciascuna quel che più le piace; la seconda è che in
qualche occasione il nonno si è preso delle licenze poetiche, è il caso -ad esempio- di
due parole che vi troverete davanti strada facendo e che sono un po’ una invenzione
del nonno: abbrivida al posto di abbrividisce (abbrivida faceva più atmosfera e non
rompeva il ritmo del verso) e ciaulìo che è un termine dialettale italianizzato, con il
significato di cicaleccio, tratto da ciavelijà (appunto cicalare).
Prima del nonno, l’hanno fatto già tante volte autori ben più importanti, quindi non è
proprio una colpa grave...!
262
IL RITORNO DELLA PRIMAVERA
Già torna l’aprile
e primavera tutt’attorno aulisce,
cantan gli uccelli e ridono le gemme
fresche sui rami intatti
e son fioriti i mandorli gioiosi:
e noi fuggirem con dolcezza
sovra l’ali del sogno, che il tramonto
a noi placido e lento
tra sussurri di zefiri ridona
e nimbi di profumi e d’armonie.
263
NOVEMBRE
Piange novembre come una fanciulla
delusa e stanca. Che malinconia!
La nebbia dorme sopra le colline,
le dolci valli pallida intristisce,
e gli olmi hanno deposto sulla terra
umida e fredda il lor festivo ammanto.
L’ammanto imputridisce, e gli olmi nudi
restano intanto. Che malinconia!
264
UOMO
Solo è nel mondo, perché solo è tutto
nel mondo. E ognuno il suo tormento vive
nel deserto mistero del suo nulla.
265
ALLA SOFFERENZA
Bello era allora il nostro focolare!
Come spose novelle
liete fuggian le scintille in alto
e fiorivano i cuori alla speranza,
cantarellava come pesco in fiore
ogni volto ogni sguardo
ché lievemente come una carezza
serena e dolce
scorrea la vita.
Or dimesse e cascanti
ombre sospiran presso alla deserta
fiamma che muore;
e sempre,
di forma in forma errando,
fantasmi inseguo
ed il migrante mio cuore
non incontra che te nel suo cammino.
266
Dolce è nel fiore vanire,
vanire nel vento
che rapido odora
d’un mite profumo di tomba.
La vita è silenzio,
d’ombre amare
d’erbe corrose:
come fragile battito d’ali
si perde il mio cuore.
267
ADDIO
Come una soave
immensa fiaba tu fosti,
perduta.
E il mio cuore
è un giardino deserto inondato di pianto.
Nel frascheggiare degli olmi
bisbigliano ora i nostri sogni delusi
come un mormorio
di mille voci lontane.
Addio,
melodiosa
fioritura di sogni e di speranze,
addio.
268
SOLITUDINE
Pensosi colloqui d’amore
intreccia a notte la pioggia
con la siepe dolente,
il canto sommesso del vento
logora il cuore.
269
RIPOSEREMO!
Riposeremo! Che lunga fatica
la vita! E come deserto il cammino!
Seminato di sterpi di sassi
che pungono al cuore. Riposeremo!
270
UN’ALTRA VITA
Un mare azzurro
che s’apra in melodie infinite
e dove nessuna dolcezza è dimenticata.
Una casa smarrita nello spazio
e vibrante dei sogni estivi
che inghirlandano il bosco
e cullano la sera.
E un giovine sorriso
che mi scaldi il cuore
e la primavera danzante
che mi raccolga nelle sue braccia odorose.
271
IDILLIO
Di tanta dolcezza
appena un sogno rimane
fuggevole e stanco.
Leggera vola al mio cuore
la melodia del tuo sguardo sereno.
272
PER UNA FANCIULLA MORTA
Tu che ora hai nera la bocca
come la terra,
eri un canto sommesso
nel trepido amore di un sogno.
Con tacito incanto
il tuo leggero passo di danza
si perde nel buio.
A quale intatto sorriso volasti,
a quale stupita fiaba
di colori e di suoni?
273
Sussurri infiniti
limpidi risi
nella sera d’estate;
e un ricordo ti porta ogni fiore,
ogni filo d’erba
ancora una vecchia favola canta.
274
ALLA LUNA
Sospirano i pioppi, e le stelle
trascoloran d’amore:
aneliti brevi
sussurrano in pianto.
Tu sorgi. S’incantano i pioppi,
di mistica fiaba si vela ogni cosa
nell’aura che tace!
275
ALLA SERA
Come soave
d’aeree solitudini trapungi
azzurre fantasie!
E trepidi incanti,
o sera, sfiorano il pensiero
e languidi abbandoni.
Nel tuo mistero fluisci serena, o sera,
e placida salpi
a dolci isole di pace.
276
SERA D’ESTATE
La rondine bisbiglia,
e trascolora al lieve aprirsi della sera
l’ondulare dell’erba:
e la nuvola silenziosa
trapunge riposi d’ombra e ti raccoglie
se il vento ti sfiora
in un delicato ricamo di foglie e di sogni.
277
SERA DI VILLAGGIO
Bisbigli curiosi
pei viali d’ombre frusciano soavi,
sul fiore argenteo dell’acqua
riposano assorti
incanti sereni.
Languidi e freschi odorano i silenzi.
278
La chitarra fatua evoca la sera:
sospiri di vento disperdono i sogni,
salpa la luna che già lieve trapunge
infiniti silenzi armoniosi.
279
Almeno potersi inebriare
di questa levità serena che infiora ogni silenzio,
ridere e danzare come allodola
leggera al vento,
rinnovarsi e compirsi dove
la vita muore e il silenzio ti sfiora
come ala d’uccello.
280
ALLA NOTTE
I nostri naufraghi cuori
riconduci ai dolci sentieri del riposo,
per noi rinnova i silenzi arcani
dove in serena trasparenza appare
e vive perenne
di luce ognor sorriso
il desiderio dell’uomo,
dove la vita si tramuta in canto
e tace ogni pianto
e fragranze di fiori
e gioia di colori
sorridono in divini abbandoni.
281
Ma quando il giorno
in lenta sera estenua, e delicata
l’erba sussulta, puro
il tuo sogno di rosa e azzurro
dispieghi, o pace,
e la morte ci sfiora
simile a pioggia
che timida bruisce e culla attenta
l’estasi dei prati.
282
SOGNO D’ESTATE
Abbarbicato a nuda roccia, sogno
plenilunii profondi, placidi
abbandoni di cime
tra stupori di perle.
E mi distendo nelle soffici valli.
Tra deliquii d’ombre
abbrivida la foglia
di languido argento,
trasparenze di sogni astrali
incantano il sereno.
283
AUTUNNO
Il vento ci screpola il cuore, ci logora l’acqua
imbrattata di fango:
nella pioggia che impigra
cade ogni voce.
S’addorme il giorno nel suo tranquillo tedio
intriso di nebbia,
e tra i morti uliveti
singhiozza la nostra solitudine.
284
NOSTALGIA
Il fiore che ancora tremola nel giardino
mi porta ricordi
di lontananze indicibili
presentimenti dolci del sangue
nel ritmo di melodie antiche.
Ma se tu entri nel mio pensiero
la febbre amara mi scuote
e scande immutabile
il valzer della tua nostalgia.
285
CANZONE D’AMORE
Un languore di brume
racchiude il nostro silenzio.
E se dolce l’autunno ti sfiora
e lungamente ti morde il cuore,
il vento di settentrione
di foglia in foglia ripete
il nostro pianto segreto;
e nei tuoi occhi estenua
il crepuscolo triste dei ricordi
si sfoglia la sera
nel delicato aroma dei tuoi sogni.
286
IL SALICE
Tu sogni, lento
salice, bisbigli e profumi,
ti dondoli pigro, e non stupisci
se al primo soffio
d’esiti virginali l’erba s’irrora.
Ti chiudi silenziosamente
nel divino labirinto del tuo non senso
e la tua frivolezza è un dolce incubo
nelle sere affaticate.
287
SCENETTA ESTIVA
(di almeno trent’anni fa)
Lo zingaro -sporco alto ricciutogira in tondo il cavallo,
i fuochi allungano le ombre
e dalle finestre socchiuse
curioso lusingato
scappa un occhiolino di luce
per la dolce serenata
dal castagno buio.
288
I SOGNI DISMESSI
Gli occhi spauriti
scandagliano il silenzio.
Il silenzio arido di là dai vetri.
Fruscio di vento nella stanza buia.
Ma il fruscio del vento
sordamente dilegua nel ronzio del cuore
e dietro, su un’aria languida e triste,
incespicano i sogni
vestiti da arlecchino.
289
FANTASMI
Ma una carta del solitario
scivola improvvisa sulla terra nuda
che ha colore di morto. A fatica
ti pieghi, e gli occhi
fissano la mano che stanca
dondola e ti rammenta
il ramo spezzato dei tuoi giochi di fanciullo,
il ciaulio delle ragazze,
l’ombra accovacciata agli angoli delle case.
Fantasmi. Nulla più
che fantasmi, disseccati dal nulla.
Due rintocchi scuotono il giardino.
290
La tua grazia e la tua delicatezza,
la tua spontaneità, la tua forza interiore
hanno il profumo intenso dei campi
nelle sere di primavera.
Tu sei un dolce respiro d’alba,
la forza silenziosa del vento
quando piega dolci distese d’erba
nelle sere di primavera
e le fa rabbrividire. Il respiro lieve
delle sere di luna
che amo
come la fragile ragnatela dei tuoi sogni
sulla fronte sfumata
disegnata dalla luna.
Ora ascolto le dolci distese d’erba
in questa sera di primavera;
le guardo assorto, mosse dal vento:
e non so dire
che nostalgia mi sale della pace dei tuoi occhi
da esse, del tuo silenzio,
della tua indicibile ansia
di esistenze incontaminate,
del tuo fresco sorriso.
291
MALINCONIA
Ora l’autunno con i suoi silenzi
e l’erbe impigrite
ci porta ricordi
e nostalgie amare
e pianto lungo di vento che scuote il cuore
e piogge senza fine.
292
NOTTURNO I
Alberi assorti
sul ciglio dei sentieri.
L’erba
estenuata riposa
nel cuore del silenzio.
293
NOTTURNO II
Dormono abbandonate
lungo i declivi
appiè degli alberi le ombre;
e un canto le sfiora
cullando i pioppi
nel tranquillo sonno.
294
INVERNO
Ora, a notte,
non c’è che il vento,
e il brivido profondo dei rami nudi.
295
LAMENTATIO IN MORTE AMORIS ET IUVENTUTIS
Forse ripensi ancora
le calde sere d’estate
passate amorosamente
al chiaro romantico della luna
o all’ombra densa degli olmi
quando ancora viva in noi
era la forza feconda della giovinezza;
o il ricordo l’anima t’accende
degli azzurri ricami delle nuvole
sospesi sopra la primavera fiorita
ora che la rosa di macchia
s’immerge nell’ombra
e il tuo viso diventa buio;
o forse ti sollecita la favola amara
narrata dal vento di settentrione
che ti sfiora con le sue dita fredde
e chiude i sogni nel cerchio grigio dell’aridità;
forse altro ancora ti morde il cuore
tanto oggi sembri estranea
e come un’eco lontana
è la tua voce già calda.
Oh! se ricordo il tuo amore
e la tua ansia di vita
e l’affluire ininterrotto di sogni
nel porto della nostra felicità
e il messaggio incomparabile della giovinezza.
Ma la vita non ha messaggio che duri,
e ora noi siamo
non più che la foglia dell’olmo davanti casa
quando giunge l’autunno:
il vento impudico disperde
anche la cenere del nostro amore
e a una a una
sfoglia le rose del tuo sorriso
mentre più buio e lontano
si fa il tuo viso
si fa il mio viso.
296
FRAMMENTO
Ora, anche il crisantemo è sfiorito;
e della nostra giovinezza
non restano che questi
pochi fogli ingialliti
che una volta parlavano d’amore.
Di te, di me…
297
COLLINE
Per la rinnovata dolcezza
di queste colline
ho tanta nostalgia e tanto amore,
ho fame di quest’erba fresca
che mi ristori nel mio lungo errare.
Ma il mio sospiro
fu già l’ansia di mio padre
e il vento che non ha paese
ogni cosa disperde nel suo non senso;
e ancora io sono,
figlio dell’uomo solo,
a sognare
le dolci colline perdute.
298
Ricordo ancora la notte di settembre
così dolce così piena d’ombre
e, quando la spinge il vento,
la luna che disegna ghirigori improvvisi
e scopre l’incanto delle colline
adagiate sul fondo delle valli,
le strade di campagna solitarie
popolate degli incubi lontani
della mia fanciullezza,
le file degli alberi addormentati
lungo il vallone,
i tetti d’argento
delle masserie abbandonate.
Ma non m’inganno, or non è più quel tempo,
e ciò che io sono
non è ciò che avrei voluto essere:
erra a lungo l’uomo in cerca di se stesso
ma chi conosce
la fine del cammino?
299
PICCOLI MOTIVI MUSICALI
I
Tinniscono le campanule
sospirose,
frusciano l’erbe
e le foglie degli alberi assonnati.
Tacito e solo
il camposanto dorme
nella pace lunare.
II
Dolce tu sali, o sera,
le mormoranti colline:
appiè dei passi armoniosi
germina il silenzio.
III
Pallidi ori accendono i tramonti.
IV
Appiè degli ulivi antichi
germina l’ombra.
Trepidano stelle
tra sussurri di foglie.
V
Sì soave è il tuo pianto,
lontana eco di sogni
in questo deserto;
e stanchi tremano canti
nel mio cuore, o pioggia.
300
VI
Dolce è il canto
che dai campi sale
come cuor di fanciulla.
VII
Batti ora, o pioggia,
la tua lenta musica,
e culla mi sia
di tristezza e di morte.
VIII
La nuvola solitaria sogna melodie azzurre.
IX
Il tempo
scivola silenzioso
nel nulla.
301
Indice generale
Mie care nipoti...
prologo
capitolo i
capitolo ii
capitolo iii
capitolo iv
capitolo v
capitolo vi
capitolo vii
capitolo viii
capitolo ix
elogio della cicala
capitolo x
capitolo xi
capitolo xii
capitolo xiii
capitolo xiv
congedo
7
11
37
57
77
103
117
135
151
169
191
195
207
219
227
241
257
Le poesie del nonno
il ritorno della primavera
novembre
uomo
alla sofferenza
dolce è nel fiore vanire
addio
solitudine
riposeremo!
un’altra vita
idillio
per una fanciulla morta
sussurri infiniti
alla luna
alla sera
sera d’estate
sera di villaggio
la chitarra fatua
almeno potersi inebriare
263
264
265
266
267
268
269
270
271
272
273
274
275
276
277
278
279
280
302
alla notte
ma quando il giorno
sogno d’estate
autunno
nostalgia
canzone d’amore
il salice
scenetta estiva
i sogni dismessi
fantasmi
la tua grazia
malinconia
notturno i
notturno ii
inverno
lamentatio in morte amoris et iuventutis
frammento
colline
ricordo ancora
piccoli motivi musicali
281
282
283
284
285
286
287
288
289
290
291
292
293
294
295
296
297
298
299
300
Indice
302
303