Mie care nipoti
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Mie care nipoti
Antonio Ciancio Mie care nipoti ... © 2007 edizioni Noubs via Ovidio, 25 - 66100 - Chieti tel/fax 0871 348890 www.noubs.it - [email protected] Finito di stampare nel mese di ottobre 2007 grafica.arterialab.com Stampa: Brandolini, Chieti Scalo Con il contributo di A Valentina Benedetta Elisa Martina Il giorno dopo sarà come lo vorremo noi... (da un compito di Valentina in seconda elementare) Antonio Ciancio MIE CARE NIPOTI... Prologo Un giorno mia nipote, Valentina, che allora aveva poco più di sei anni, mentre la riportavo con la macchina da scuola a casa, mi chiese: Nonno, ma tu prima che lavoro facevi?, intendendo con prima il tempo che lei non era ancora nata. Lì per lì rimasi un po’ stupito della domanda, anche se a quella età è naturale la voglia di sapere; poi allo stupore subentrò l’imbarazzo. Ve l’immaginate rispondere a una bambina di quella età: Il nonno faceva il funzionario di partito e il dirigente politico; o addirittura: Il nonno era un rivoluzionario di professione, secondo la definizione che diede Lenin di chi, comunista, dell’impegno politico permanente a servizio del partito faceva una scelta di vita (definizione celebre anche questa, ma di Giorgio Amendola). Dare a chicchessia oggi una risposta del genere, se non è un po’ in là con gli anni e non ha una certa conoscenza della storia delle forze politiche del ‘900, significa parlare arabo; figuratevi a una bambina! Così non risposi; le dissi semplicemente: Quando sarai più grande, il nonno te lo spiegherà. Oggi, scrivendo ogni volta che me ne verrà la voglia queste pagine e se Valentina un giorno, fatta grande (e con lei anche Benedetta, Elisa e Martina, la più piccola, che prima o poi faranno la stessa domanda), le leggerà, spero di dare attraverso di esse la risposta che lei attende ancora. D’altra parte, cara Valentina, anche il tuo papà e lo zio Stefano, che rivolsero alla nonna, più o meno alla tua stessa età, la stessa domanda, si lamentavano che a scuola non riuscivano a spiegare bene il mestiere che faceva il loro padre, perché non l’avevano capito bene neanche loro, e solo quando diventarono più grandi ebbero chiara la risposta. Già spiegare che uno ha come lavoro quello di fare politica a tempo pieno era difficile allora, figuriamoci oggi; se poi si tratta di politica a tempo pieno fatta con il PCI, la cosa risultava allora e a maggior ragione risulta oggi ancora più complicata da far capire. E pensare che Tucidide, il grande storico greco del V secolo a.C., già scriveva quasi 2500 anni fa: “Da noi, le medesime persone si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari, sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente non si curi, (noi ateniesi) siamo i soli a considerarlo non già un uomo pacifico, ma addirittura un inutile” ! Il ‘900 è stato il secolo delle grandi utopie, in nome delle quali milioni di uomini hanno combattuto e in tanti sono morti; e la loro storia si è intrecciata con guasti immensi ma anche con progressi sul terreno economico e sociale mai visti prima, e non più solo per pochi come è stato per millenni, ma per masse sempre più grandi di uomini e di donne. Tra queste grandi utopie, vi è stato il comunismo. Non è certo questo il luogo per ripercorrerne la lunga e tormentata vicenda, ma liquidare la storia del comunismo a livello mondiale come una storia di orrori (come si fa da destra, ma anche da settori liberali e di una certa sinistra) non solo è fuori di ogni realtà storica, ma significa anche ignorare, contro ogni evidenza, la enorme spinta che dal movimento comunista è venuta per l’avvio di un processo concreto di liberazione di ceti sociali subalterni e di intere società, della quale sono stati parte essenziale e, per certi aspetti decisiva, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e la instaurazione di un potere operaio in Russia, comunque se ne giudichino poi gli sviluppi successivi e gli esiti. Né ha senso l’equazione che tanti oggi fanno, che, anzi, è stata in determinati periodi del secolo appena trascorso ripetuta fino alla sazietà: comunismo uguale fascismo! Proprio no, il fascismo e, con esso, il nazismo, oltre a essere stati gli iniziatori consapevoli della seconda guerra mondiale, la più distruttiva e la più crudele che l’umanità ricordi, sono stati una ideologia profondamente reazionaria i cui obiettivi fondamentali erano la negazione stessa della civiltà europea così come essa si era formata nei secoli e la repressione portata fino all’estremo di ogni aspirazione di uguaglianza e di liberazione dei popoli e degli individui. Questo non toglie nulla naturalmente agli errori, alle infamie e anche agli orrori che in nome del comunismo sono stati commessi, specie nelle società di socialismo realizzato, ma ridurre a questo un processo storico così complesso e di quella portata è sicuramente fuori di ogni logica. Tanto più che il comunismo non è stato uno solo. Vi sono stati tanti comunismi, e ognuno con storie e risultati diversi. Il comunismo che io ho conosciuto e che è diventato la mia ragione di vita, con una militanza piena lunga quasi cinquanta anni, e cioè quello italiano, ha anch’esso le sue pagine opache, ma non si trascina dietro né orrori né infamie; al contrario, può vantare di aver dato un contributo decisivo alla sconfitta del fascismo e del nazismo, alla conquista e alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese e alla crescita di una società più giusta e più moderna, con più diritti per tutti sia sul piano economico e sociale che sul piano civile. Qualcuno però, a questo punto, mi dirà: Ma che c’entra tutto questo con la risposta che devi a Valentina (e anche a Benedetta, Elisa e Martina)? C’entra, eccome! Innanzitutto perché è bene, mie care nipoti, che voi sappiate per che cosa ho combattuto nella mia vita. Poi, c’è un legame diretto tra questa storia e la vita del nonno e la scelta che ho fatto, un giorno molto lontano della mia giovinezza, di lavorare a tempo pieno per organizzare e far funzionare lo strumento, e cioè il partito, che la mia utopia, che è stata non a caso anche l’utopia e la scelta politica ed elettorale di milioni di italiani, si era data per suscitare e far vincere movimenti sociali e politici diretti a cambiare lo Stato e la società e a renderli più giusti e più liberi per tutti. Questo è stato, cara Valentina e care Benedetta, Elisa e Martina, il mio lavoro prima che voi nasceste e che ha coinvolto nelle sue scelte, nei suoi ritmi, nelle sue esigenze, nelle sue rinunce, nei suoi sacrifici, nei suoi successi e nelle sue sconfitte non solo il nonno ma anche la nonna e i vostri stessi papà. Oggi, forse, i vostri genitori non lo ricordano più, ma quante volte non hanno potuto avere quello che avevano gli altri bambini della loro età, perché i soldi erano sempre pochi, anche se tutto sommato io credo che la loro infanzia e la loro adolescenza siano state felici e serene e non sia mai mancato loro, non il superfluo, ma il giusto e il necessario! E quante volte sono andati in giro, fino a ora tarda, con il loro papà e la loro mamma per i paesini della provincia di Chieti o anche a Roma, e quante volte, mentre partecipavano a una riunione o a una manifestazione perché nessuno li poteva guardare a casa, cascavano dal sonno! E’ costata anche a loro, dunque, la mia scelta di vita. Ma parliamoci chiaro, la esperienza che in questo modo essi hanno compiuto è servita a dar loro anche una maggiore intelligenza della vita, una capacità critica che sicuramente non avrebbero avuta nella stessa misura se fossero vissuti nella bambagia e, soprattutto, la fermezza delle loro idee e un senso della dignità affidato, non alla roba, ma alla intelligenza. I ricordi che seguono raccontano un po’ a ruota libera, senza un ordine né cronologico né di altro tipo, momenti di questa mia attività, con lunghe scorribande anche in periodi e fatti della mia vita che hanno poco a che fare con la politica; e sono destinati a voi, alle mie bellissime nipoti: come dice Virgilio, il più grande poeta latino, insere, Daphni, piros; carpent tua poma nepotes: inserta, o Dafni, i peri; i nipoti coglieranno i tuoi frutti! Oggi, all’età di poco più di settanta anni, posso dire di essere nella condizione di chi, per ripetere l’espressione dantesca, è uscito fuor del pelago alla riva, e può guardare quindi con un certo distacco dentro la fitta trama dei ricordi accumulatisi negli anni; e riandare con l’occhio della mente non tanto all’acqua perigliosa, che ormai è dietro le spalle, quanto a quel ricco e complesso intreccio di avvenimenti, anche tragici, che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso e alle aspirazioni, agli ideali, alle ambizioni, alle scelte che -dentro quegli avvenimenti- io ho coltivato e compiuto. Si dice che la storia è magistra vitae, in generale non è vero perché, a cercarlo con il lanternino, non esiste un animale più ripetitivo dell’uomo, soprattutto nel commettere sempre gli stessi errori, ma vai a vedere che a volte la memoria di ciò che è stato riesce a insegnare qualcosa a chi viene dopo. In ogni modo, il racconto degli avvenimenti che mi hanno visto partecipe o protagonista può certamente aiutare Valentina, Benedetta, Elisa e Martina a conoscere meglio il loro nonno e il mondo in cui è vissuto e ha combattuto per le sue idee, ma può forse anche dar loro una mano per cercare e trovare ognuna la propria strada e per contribuire così, anch’esse, al progresso del mondo, avendo un occhio a quella che è stata la vita del nonno. Ma è ora di chiudere questa ormai già lunga premessa; e, se le mie pazienti nipoti me lo consentono, vorrei farlo con un’ultima citazione dantesca, tratta dal X canto del Paradiso, il canto dell’ascesa del poeta al cielo del Sole: Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba. In altre parole, mie care nipotine, il mondo, se si vuole, può essere letto, decifrato e compreso, almeno nei suoi aspetti essenziali; si può anche, avendone davvero la voglia, trarre qualche piccolo insegnamento da ciò che hanno fatto gli altri prima di noi e cibarsene; e tutto questo aiuta a volte a inoltrarsi con più sicurezza sulle strade del proprio futuro. 10 Capitolo I Alla fine degli anni ’30, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, io avevo poco più di cinque anni. Vivevamo allora in campagna, quasi a mezza strada tra Orsogna e Poggiofiorito, in un bel casolare a due piani che distava solo poche decine di metri dalla statale Marrucina che porta verso Ortona: ricordo che avevamo a disposizione tutto il piano terra mentre il piano superiore, dove erano le camere da letto, veniva in parte utilizzato, per le vacanze estive, dai proprietari che risiedevano a Lanciano. Non era da molto che ci eravamo trasferiti, da Orsogna, nella nuova residenza. Solo da qualche mese, infatti, mio padre aveva preso a mezzadria quel podere, con annessa masseria, non avendo terreno suo da lavorare. Mio padre proveniva da una famiglia di braccianti, era nullatenente e spesso, in gioventù, si era dovuto recare in Puglia, nella zona della Capitanata, nella grande piana del Tavoliere, per la mietitura del grano assieme a tanti altri giovani di Orsogna. Mia madre invece apparteneva a una famiglia che possedeva un po’ di terra, cosa che consentì alla famiglia stessa di sopravvivere alla tragedia che si era abbattuta su di essa con la morte, a causa della guerra del ’15-’18, del mio nonno materno (dato ufficialmente per disperso) e a mia nonna di crescere da sola ben quattro figli. Così essa, quando si sposò con mio padre (si sposarono nel 1932, mia madre aveva poco più di diciannove anni e ventiquattro mio padre, ma cominciarono a vivere insieme solo nel 1933), poté portare in dote un po’ di quella terra, forse poco più di un ettaro, ma si trattava di due appezzamenti distinti e situati in contrade assai distanti tra loro e quindi disagevoli da lavorare. Del tutto insufficienti comunque a sfamare la famiglia che intanto si arricchiva rapidamente di due figli: io nacqui infatti subito dopo la loro unione, il 23 dicembre del 1934, e la mia prima sorella appena l’anno dopo, gli altri tre figli invece arrivarono un po’ più tardi, la mia sorella minore in coincidenza con lo scoppio della guerra e i miei due fratelli, dei quali il più piccolo morirà a poco più di venti anni, addirittura dopo la guerra. Per queste ragioni, la conduzione a mezzadria di terra altrui fu il destino di mio padre, a cui egli cercò di sottrarsi negli anni ’50 emigrando negli Stati Uniti. Gli anni ‘50 sono stati, infatti, gli anni della grande migrazione dei miei compaesani -che potevano utilizzare la qualifica di profughi, avendo Orsogna subìto danni davvero gravissimi dalla guerra- verso gli Stati Uniti dove proprio in quel periodo si sono formate grosse comunità di orsognesi. Ma la sua rimase solo un’aspirazione, perché non arrivò mai dalla parrocchia e dalla caserma dei carabinieri il parere favorevole alla sua richiesta di espatrio, che all’epoca era indispensabile per volare verso il nuovo mondo: suo figlio era comunista! Anche se fino al momento del nostro trasferimento nella nuova abitazione avevo vissuto in paese dove in qualunque ora del giorno era possibile incontrare altri bambini della mia età e giocare con loro, tuttavia non mi creò problemi la nostra nuova sistemazione: è vero, vivere in campagna mi costringeva a passare la gran parte del tempo con la compagnia soltanto di mia sorella (anche perché a Orsogna si tornava solo raramente), 11 ma potevo anche correre per i campi, rotolarmi e sbizzarrirmi come volevo in mezzo al grano e all’erba alta nei mesi di primavera e durante l’estate. Ricordo, anzi, che spesso d’estate, soprattutto nel primo pomeriggio quando la calura si faceva più intensa, mi piaceva trascorrere parte del mio tempo a fantasticare lungo disteso in mezzo all’erba fresca che ti avvolgeva tutto e ti sottraeva alla vista degli altri, all’ombra magari di un albero tra le cui foglie si vedeva tralucere l’azzurro brillante del cielo; e ancora oggi rivado volentieri con la memoria a questi momenti deliziosi e mi sembra, come allora, che tutto il corpo sia come percorso da flussi di frescura e immerso in un lago di piacere quasi sensuale. Negli immediati dintorni abitava anche qualche altro bambino e quindi ogni tanto potevo giocare con qualcuno di loro, ma questo non accadeva spesso. Insomma, passavo giorni tranquilli e tutto sommato felici, nonostante che la nostra vita si svolgesse di fatto in una condizione di isolamento e di solitudine che aveva però anche i suoi vantaggi: ti abituava, ad esempio, ad apprezzare il silenzio e ad avere un rapporto diretto e vivo con la natura e le sue più varie manifestazioni, e ad apprezzare le scoperte che ogni tanto mi accadeva di fare. Ricordo, ad esempio, ancora oggi, con un misto di timore e piacere, le lunghe ore trascorse ad osservare lo stuolo numerosissimo di bisce che si erano raccolte e avevano nidificato attorno a un pozzo non lontano dalla nostra masseria, eleggendo quel posto a loro sede abituale, evidentemente per la presenza dell’acqua e anche perché il pozzo non veniva usato, quindi nessuno le disturbava. Era d’estate, e ciò per me rappresentava uno spettacolo del tutto nuovo e straordinario, a cui non avevo mai assistito in precedenza e che non mi accadrà più di osservare: mi impressionò soprattutto il gran numero di bisce che si intrecciavano e si avvoltolavano l’una all’altra, senza mai fermarsi un istante. Io le guardavo naturalmente da debita distanza, preso da molta paura ma anche affascinato. Di quegli anni ricordo anche alcuni passatempi, con cui riempivo la giornata: ad esempio, quello di osservare, stando al di qua della siepe che separava la campagna dalla strada, ciò che accadeva sulla statale, o quello ancora di attraversare la strada e salire sui binari della ferrovia locale che le correvano a fianco. Non si vedevano automobili allora da noi, che io ricordi. Ogni tanto però attirava la mia attenzione il passaggio di un carro agricolo, tirato dai buoi, o di ‘nu trajìne, il biroccio trainato dal mulo o più spesso da un vecchio ronzino piuttosto malandato, oppure l’approssimarsi di gruppi di contadini che si recavano al lavoro in campagna o tornavano in paese, spesso a dorso d’asino. Il momento migliore era però quando passava il treno, la Sangritana, che dovevo utilizzare in seguito, durante gli anni del liceo, per raggiungere Lanciano. Era per noi bambini un vero spettacolo, il passaggio del treno, che avveniva più volte al giorno. Anche perché qualche volta potevo assistervi dal casello ferroviario che si trovava a meno di un centinaio di metri dalla mia casa ed era l’abitazione di alcuni bambini della mia stessa età, con i quali mi ritrovavo a volte a giocare: la littorina e i pochi vagoni che vi erano attaccati ci passavano accanto alla distanza di poco più di un metro e volendo bastava allungare la mano per toccare le ruote del trenino che correvano 12 piuttosto lente sui binari ma sferragliando comunque con un rumore assordante...! Ma sulla statale si potevano osservare anche altri spettacoli, di tutt’altro genere e che oggi non si potrebbe più, anche se lo si volesse. Mi capitò, infatti, un giorno di vedere che la strada veniva attraversata velocemente nei due sensi da un gruppo di faine (almeno credo che di esse si trattasse), dalle quali allora i pollai dovevano essere difesi con cura se si voleva evitare una strage di galline: con una furia inusitata, spinte da non so bene che cosa, le faine uscivano da una siepe, infilandosi in quella che si trovava sul lato opposto della strada, e poi tornavano indietro... La storia si trascinò così per un po’ di tempo, e fu per me uno spettacolo davvero insolito ma anche divertente! Di queste piccole cose era fatta allora la mia vita, come in generale quella dei bambini della mia età; e, poiché non vi erano sollecitazioni di alcun tipo che spingessero a chiedere altro, che solo pochi d’altra parte si sarebbero potuti permettere, si trattava tutto sommato di una vita abbastanza idilliaca, pur con le durezze della campagna e soprattutto la miseria che a quel tempo colpiva la quasi totalità della popolazione. Tuttavia, un bel giorno, quella vita fu turbata e rotta da un avvenimento che avrebbe avuto un seguito assai penoso e pericoloso sia per noi bambini che per i grandi. Mussolini aveva deciso che l’Italia doveva entrare in guerra a fianco dei tedeschi, per partecipare alla spartizione del bottino nell’imminenza del trionfo del grande Reich, e l’aveva comunicato per radio agli italiani, con gli altoparlanti dislocati nelle piazze anche dei paesini, con il tono solenne di chi annuncia l’approssimarsi di chi sa quale grande evento destinato a cambiare sicuramente in meglio la vita della gente, pretendendo che anche mio padre e i poveri diavoli come lui fossero contenti per questo! Era la fine di giugno del 1940, era una giornata piena di sole e faceva molto caldo e mio padre, lo ricordo benissimo, quel giorno stava falciando l’erba vicino casa. Tutto era tranquillo attorno a noi, e io giocavo a pochi metri da lui. A un certo punto, però, arriva da Orsogna, non molto distante in linea d’aria dal nostro casolare, lo scampanio a festa delle campane della chiesa maggiore del paese (all’epoca, a Orsogna, che era un importante centro agricolo, c’erano ben cinque chiese, distrutte poi per più della metà dalla guerra: la chiesa arcipretale di S. Nicola, la più importante, e quelle di S. Giovanni Battista, di S. Rocco, del Purgatorio e della Madonna nera del rifugio, sulle cui rovine sorgerà nel dopoguerra il belvedere che guarda alla Maiella e da cui si gode un bellissimo panorama). Era l’annuncio festoso, dato dai fascisti del paese, con la benedizione del vecchio arciprete e della parrocchia, dello scoppio della guerra che tutti pensavano, a partire dal duce, sarebbe stata una semplice passeggiata: mai classe dirigente fu più sciocca, così poco lungimirante e criminale! Mio padre, che aveva allora poco più di trent’anni, tuttavia non apprezzò e come lui in generale i contadini delle nostre terre che sapevano bene che sarebbe innanzitutto toccato a loro partire per la guerra. Come sentì, infatti, il suono a distesa delle campane, comprese subito che quell’allegro scampanio salutava l’entrata in guerra dell’Italia, così d’istinto gettò con rabbia lontano da sé la falce e se ne andò via bestemmiando. Ricordo ancora bene questo suo gesto, e fu proprio esso che mi fece avvertire che qualcosa di veramente grave era accaduto, anche se non potevo capire di che cosa si 13 trattasse. Lo dovevo capire solo qualche anno dopo, a mie spese e a spese della mia famiglia e dell’intera popolazione di Orsogna e dei paesi vicini! Fu così, dunque, che anche la nostra famiglia entrò in guerra, anche se erano altri ad averla voluta. Di lì a poco, mio padre fu richiamato alle armi e venne mandato in Sicilia; e assieme a lui partirono anche i miei zii, due dei quali finirono per loro fortuna prigionieri, l’uno, lo zio Antonio, degli inglesi e l’altro, lo zio Nicolino, dei tedeschi (gli toccò però una sorte assai grama e pericolosa durante la prigionia, perché fu tra gli italiani caduti in mano ai tedeschi dopo l’8 settembre che si rifiutarono di arruolarsi nell’esercito messo in piedi dalla repubblica di Salò), mentre un altro, lo zio Giuseppe, il fratello più giovane di mio padre, sempre così allegro e scanzonato (mi ricordo ancora le volte che giocava con me bambino), sposato da soli pochi mesi, doveva sparire, lasciando un figlio che non conobbe mai, nelle acque dell’Egeo, di fronte alle coste della Grecia, a seguito dell’affondamento da parte degli inglesi della nave che trasportava i nostri soldati. Mia madre, rimasta sola con due figli piccoli e mia sorella minore ancora in fasce, senza mio padre non era naturalmente in grado di lavorare la campagna; e così dovemmo lasciare tutto e tornare a Orsogna. Andammo a stare in una casa situata lungo la strada, allora tutta lastricata di ciottoli, che porta a quella che gli orsognesi chiamano la fonte vecchia e che io ricordo soprattutto perché durante l’unico inverno che vi abbiamo abitato, grazie al fatto che la strada era tutta in forte discesa, noi bambini ci divertimmo un mondo a fare grandi scivolate sulla poltiglia ghiacciata che ricopriva l’acciottolato. Qualche volta facevamo anche brutte cadute, ma questo non faceva che accrescere il nostro divertimento! Con l’arrivo della primavera ci trasferimmo, sempre in affitto, in una nuova abitazione lontana appena un centinaio di metri dalla vecchia: si trovava dietro la caserma dei carabinieri, in una zona popolata di bambini, proprio al margine dello strapiombo che dà sulla angusta valle dell’Arenale e dal quale si scorgeva in lontananza il mare di Ortona. Nella nuova casa, la vita scorreva senza particolari problemi. E la nostra giornata era quella solita: la scuola (frequentavo allora la seconda elementare), i giochi con gli altri bambini del vicinato, le partite di calcio con la palla di pezza davanti alla caserma dei carabinieri o le scorribande con i miei amici di allora da una zona all’altra del paese… Insomma, della guerra che imperversava in tutta l’Europa a noi bambini non arrivava neppure l‘eco. Gli unici indizi erano l’assenza dei padri e le lettere che ogni tanto arrivavano dal fronte, ma neanche ciò turbava più di tanto le nostre giornate. Le cose cominciarono a cambiare qualche anno dopo, all’indomani della caduta del fascismo nel luglio del ’43 e poi dopo l’8 settembre, quando anche noi bambini ci trovammo di fronte a fatti e situazioni per noi del tutto nuovi e sconosciuti e che dovevano in un breve giro di mesi mutare radicalmente la nostra vita. Ho ancora vive, ad esempio, nella mia mente le immagini di un gruppo di uomini impegnato con molto entusiasmo e anche un certo furore a togliere dal municipio e da altri edifici pubblici i simboli del fascismo, buttati poi a terra e fracassati, subito dopo la caduta di Mussolini. 14 Era, in parte, gente venuta da fuori, altri invece erano di Orsogna: essi reagivano così alla fine della dittatura e alla disgregazione del fascismo, ma anche alle tante angherie subìte nel ventennio! Si trattava probabilmente di socialisti. A Orsogna, negli anni ‘20, i socialisti erano assai forti; e, anzi, proprio in quel periodo essi avevano conquistato l’Amministrazione comunale spazzata poi via dopo appena qualche anno dalle squadracce del fascismo avanzante. Essi erano molto numerosi anche a Ortona; e forse proprio da Ortona proveniva una parte di quegli uomini. In piazza quel giorno c’era un gran fermento, del tutto inusitato per realtà sonnolente come quelle dei nostri paesi, che richiamò subito anche la curiosità dei bambini; ma in generale la gente stava a guardare: evidentemente, aveva ancora dei timori per il futuro o semplicemente non voleva immischiarsi! Noi bambini assistevamo piuttosto frastornati, anche perché non ci rendevamo affatto conto di cosa esattamente stesse accadendo e delle ragioni che l’avevano provocato. Del fascismo infatti non sapevamo nulla, non solo cosa fosse ma neppure che esistesse. Cominciammo in realtà a conoscerlo solo allora e meglio dovevamo poi conoscerlo nei mesi e negli anni immediatamente successivi per le conseguenze che la guerra, voluta dal fascismo, doveva avere sulle nostre vite. E non è un caso, d’altra parte, che io del fascismo abbia solo qualche ricordo riferito appunto a fatti accaduti in quel periodo. Tra questi, ne voglio ricordare un paio, che mi colpirono particolarmente. Il primo è quello di quando, in occasione di una adunata alla quale partecipavano tutti gli alunni della scuola elementare, io mi sentii rimproverare dal maestro perché non avevo la divisa dei figli della lupa che mia madre non avrebbe mai potuto comprarmi! L’altro ricordo è legato all’arrivo in paese, nell’estate del ’43, prima della caduta del fascismo, di una colonia di giovani del Littorio, gli avanguardisti, che venne ospitata presso la scuola elementare. Saranno stati sicuramente bravi ragazzi, come ha scritto qualche orsognese ricordando quegli anni, sta di fatto però che io, che avevo ormai intorno agli otto anni, li ricordo per le scorribande che facevano a gruppi nelle campagne attorno a Orsogna, dove razziavano non solo frutta di stagione ma anche galline e conigli, con grande rabbia e anche qualche spavento da parte dei contadini. Ricordo scorribande del genere anche nel nuovo podere che la mia famiglia aveva, come al solito, preso a mezzadria: esso si trovava solo a poco più di un chilometro dal paese, lungo la provinciale che da Orsogna porta a Lanciano, all’altezza di Colle S. Giacomo, e quindi facilmente raggiungibile dai vari gruppi di avanguardisti. Mio padre allora era ancora sotto le armi, di stanza in Sicilia; sarebbe tornato solo dopo l’8 settembre, dopo un viaggio molto avventuroso e pieno di traversie dal Nord, dov’era finito dopo lo sbarco degli Alleati nell’isola nel luglio del ’43 e la ritirata precipitosa del nostro esercito. Così, qualche volta mi sono trovato proprio io ad assistere da solo, impotente, a queste visite di gruppo, mentre mia madre era affaccendata nei campi. D’altra parte, anche se lei fosse stata presente non sarebbe cambiato nulla, anzi doveva stare attenta a quel che diceva e faceva perché quei bravi ragazzi non ci avrebbero 15 pensato due volte a usare le mani! Dopo la caduta del fascismo e i disordini che ne seguirono subito dopo, nei nostri paesi tutto sembrò tornare nella normalità. Ma di lì a poco doveva sopraggiungere l’8 settembre che portò novità importanti anche da noi. A cominciare dalle notizie che arrivarono naturalmente anche in paese sulla fuga del re e del governo Badoglio da Roma, per imbarcarsi a Ortona verso Brindisi, e del soggiorno di poche ore della famiglia reale nel castello di Crecchio, un paesino ad appena qualche decina di chilometri da Orsogna. Non era certamente un buon segnale per chi aveva pensato che, con l’8 settembre e la firma dell’armistizio da parte dell’Italia con gli Alleati, fossimo ormai fuori della guerra. In realtà, l’Italia poteva solo cambiare di spalla al fucile, e non altro, come di fatto poi avvenne quando, il 13 ottobre, il governo Badoglio insediatosi, dopo l’abbandono della capitale, nel Sud del Paese dichiarò lo stato di guerra nei confronti della Germania! Con la fuga del re, l’Italia precipitò nel caos, anche perché, dopo la firma dell’armistizio, nulla era stato predisposto dalle autorità italiane per fronteggiare la prevedibile e feroce reazione dei tedeschi; e le conseguenze furono terribili: lo sbandamento e lo scioglimento di fatto del nostro esercito, tanti nostri soldati uccisi o fatti prigionieri dai tedeschi o abbandonati a se stessi ed esposti a mille pericoli mentre cercavano in qualche modo di raggiungere le proprie case, l’occupazione rapida dell’Italia da parte delle truppe germaniche e il loro arrivo anche nei nostri paesi che via via si trovarono così sempre di più dentro il ciclone della guerra guerreggiata, subendo un gran numero di vittime civili e distruzioni materiali enormi. Orsogna fu tra i paesi dell’Abruzzo che più di altri pagò un tale prezzo: distruzione, per oltre il 90%, delle sue case a causa dei bombardamenti alleati e delle mine tedesche, e tante donne bambini e uomini vittime della guerra, per non parlare dello sfollamento totale della popolazione per il periodo che va dal tardo autunno del ’43 all’estate del ‘44, della fame, delle malattie, dei disagi patiti per tanti mesi. L’inverno del ’43-‘44 fu, tra l’altro, tra i più rigidi che si ricordino, e anche questo ebbe i suoi effetti micidiali soprattutto sui più deboli. I tedeschi arrivarono a Orsogna verso la fine di settembre del 1943. Nella strategia dei tedeschi, Orsogna -come scrivono studiosi della seconda guerra mondiale- faceva parte di quella che, dopo il ritiro dell’esercito germanico dal Sud, veniva considerata la linea difensiva principale per bloccare l’avanzata degli Alleati verso il Nord. Nella relazione presentata al convegno di Atessa dell’aprile 1990 da Gerhard Schreiber che esamina lo svolgimento della battaglia sul fiume Sangro dal punto di vista della Wehrmacht e riportata nel volume La guerra sul Sangro – Eserciti e popolazione in Abruzzo – 1943/1944, a cura di Costantino Felice, si dice: “Il 25 settembre 1943 Kesselring dichiarò che lo schieramento fortificato che si estendeva dalla sponda occidentale del Garigliano fino ad Ortona, passando per Montecassino, la zona a nord di Mignano, le alture ad occidente di Colli, Alfedena, Roccaraso, i monti della Maiella 16 e Orsogna, andava considerato come la linea difensiva principale…”. Orsogna era dunque destinata ad essere uno dei capisaldi di un fronte che attraversava l’Italia dall’Adriatico al Tirreno e che doveva dimostrarsi inespugnabile fino al giugno del 1944, quando i soldati italiani della Nembo vi poterono finalmente penetrare dopo il ritiro dei tedeschi. Il nuovo esercito italiano, che combatteva contro i nazifascisti, trovò un paese quasi completamente raso al suolo, con edifici, strade e le campagne circostanti minate con mine antiuomo e anticarro, e molti carrarmati alleati ridotti in rottami lungo la strada provinciale Lanciano-Orsogna, a testimonianza dei diversi, inutili tentativi messi in atto dagli anglo-americani per conquistare Orsogna, rimediando solo grandi perdite di vite umane e di mezzi. Ricordo ancora oggi la comparsa dei carrarmati tedeschi nella piazza centrale del paese. Era una giornata piena di sole; e la piazza era tutta un riverbero di luce accecante. Ero anch’io in piazza quel giorno, non c’era per la verità molta gente in giro, quando vidi arrivare dalla parte alta del paese, per la strada che viene dalla stazioncina ferroviaria della Sangritana, un carrarmato tedesco. Il carrarmato si fermò nel mezzo della grande piazza, fece qualche giro su se stesso e poi rifece all’indietro la stessa strada per riunirsi agli altri carri parcheggiati sotto gli alberi, nel piccolo Parco della rimembranza che si trova all’ingresso del paese, venendo da Guardiagrele, per nasconderli alla vista degli aerei da ricognizione alleati. Dopo l’arrivo dei tedeschi, molte cose cambiarono nella vita del paese. Gli uomini, soprattutto i più giovani, dovevano nascondersi per non farsi prendere dai soldati del Reich ed essere condotti a lavorare, senza risparmio di fatica e di pericoli, in zone anche lontane dal paese e magari vicine al fronte, nelle opere di fortificazione della nuova linea di difesa tedesca. Anche mio padre, che era da poco ritornato a Orsogna, era costretto a nascondersi. Proprio per questa ragione, anzi, passava prevalentemente il suo tempo in campagna da dove tornava solo di rado, restando a dormire nella masseria di terra di Colle S. Giacomo. Durante il giorno, naturalmente, oltre a tenersi sempre a buona distanza dalla strada provinciale, doveva stare costantemente sul chi vive per non farsi scorgere mentre lavorava nei campi e, quando c’erano in giro i tedeschi, poter correre subito a nascondersi in qualche fosso, agli estremi lembi della campagna, nella parte più vicina al vallone in cui scorre il torrente che, provenendo dalla fonte vecchia, si butta nel Moro, per evitare di farsi catturare. Se poi il rastrellamento dei tedeschi lo sorprendeva in paese, il suo nascondiglio era nel sottotetto della casa. In questi casi, si ficcava dentro un baule vuoto (per sua fortuna, era di corporatura assai magra!), collocato appunto nel sottotetto, e si copriva di panni, mentre mia madre si metteva davanti alla porta di casa e mostrava ai tedeschi le lettere spedite da mio padre dalla Sicilia. Così, egli riuscì a non farsi mai prendere, tirando avanti nello stesso tempo come meglio poteva nei lavori della campagna, perché comunque nel frattempo la famiglia doveva 17 mangiare! Anche i bombardamenti incominciarono a interessare il nostro piccolo e sonnacchioso paese. Prima gli aerei ci passavano solo sulla testa, e noi, ormai ragazzini, ci divertivamo a guardare i cacciabombardieri che volavano in formazione nel cielo di Orsogna diretti, con il loro terribile fardello di morte, verso luoghi lontani e sconosciuti. Ma un bel giorno la meta dei bombardamenti alleati fu Orsogna, e così anche il nostro paese subì il suo primo bombardamento. Per fortuna, se non ricordo male, quel primo bombardamento fu opera di un solo aereo (forse un aereo da ricognizione), che però sganciò diverse bombe sul quartiere di S. Giovanni, probabilmente per colpire le prime opere di fortificazione nemiche, mentre la contraerea tedesca cercava di reagire. Nulla a che fare quindi con ciò che sarebbe accaduto nei mesi successivi, quando i bombardamenti non si contavano più e la loro violenza e intensità divennero davvero indescrivibili! Ma erano i primi colpi inferti al nostro territorio dalla guerra, e proprio ciò fece impressione e suscitò una forte preoccupazione tra la gente. Noi in quel periodo ci eravamo trasferiti in campagna, a Colle S. Giacomo, e dormivamo nella masseria di terra. Ma non eravamo soli: con noi c’erano anche la zia Giacinta, sorella di mia madre, e i suoi due figli poco più piccoli di me (mancava naturalmente, perché prigioniero in Germania, lo zio Nicolino, il marito di mia zia); e così, quel giorno, io e i miei due cugini potemmo assistere dalla strada provinciale che si trova sul crinale della collina, non distante dalla masseria, alla caduta delle prime bombe su Orsogna, uno spettacolo per noi ragazzi davvero nuovo e insolito. Ricordo che le bombe che vedevamo esplodere sul costone di S. Giovanni non ci fecero per la verità molta paura, ma una qualche apprensione la suscitarono anche in noi; in ogni modo esse rappresentavano, al di là della nostra incoscienza, il segnale più vistoso di un pericolo che per noi si faceva sempre più incombente. Già agli inizi di ottobre, chi poteva aveva cercato rifugio nelle campagne. Anche noi l’avevamo fatto, ma la nuova sistemazione non era affatto rassicurante. Infatti, a ridosso com’essa era della strada provinciale, la masseria di Colle S. Giacomo rischiava di farci ritrovare da un momento all’altro nel cuore degli scontri ripetuti che, poi, realmente vi furono tra i tedeschi arroccati a Orsogna e gli alleati provenienti da Lanciano, senza poter disporre tra l’altro di ripari di alcun genere, in grado di proteggerci dai bombardamenti e dai furiosi combattimenti che, sul finire del ’43 e poi in primavera l’anno successivo, si svolsero lungo di essa. E poi: non avevamo messo nel conto che Colle S. Giacomo era troppo vicino a Orsogna, e la masseria poteva diventare, come di fatto in seguito avvenne, meta frequente di pattuglie tedesche... Tentammo anche di scavare una grotta davanti alla masseria, lungo il pendio della collina. Ma fu fatica vana. Non solo avevamo a che fare con un terreno argilloso, ma per costruire il nostro rifugio ci volevano ben altro che la zappa e il bidente! Nella masseria di Colle S. Giacomo restammo così solo qualche settimana: un tempo sufficiente comunque, oltre che per assistere al primo bombardamento su Orsogna, anche per sentire arrivare fino a noi, da Lanciano (che, in linea d’aria, dista sì e no 18 una quindicina di chilometri) anche l’eco dei colpi di cannone sparati dai tedeschi per reprimere nel sangue il generoso ma inutile tentativo di rivolta messo in atto, tra il 5 e il 6 ottobre del 1943, da parte di un gruppo di giovani lancianesi contro gli occupanti germanici. La rivolta di Lanciano fu, dopo le quattro giornate di Napoli, uno dei primi segnali della profonda ostilità rapidamente maturata tra la gente nei confronti dei tedeschi e delle loro angherie e sopraffazioni che si trasformò nei mesi successivi, nelle zone dell’Alto Aventino, in vera e propria lotta partigiana, con la costituzione di bande partigiane che si riunirono poi nella Brigata Maiella. A lasciare la zona e a cercare altrove una sistemazione più sicura fummo obbligati però non soltanto dai timori legati all’avvicinarsi del fronte, ma anche e forse soprattutto dal fatto che, sul finire del mese di ottobre, arrivò l’ordine tassativo dei tedeschi di sgomberare Orsogna, al massimo entro i primi dieci giorni di novembre. L’ordine non riguardava solo il nostro paese ma anche tutti i comuni vicini (in tutto, ben 16) e venne dato, su disposizione del comando tedesco, attraverso un manifesto pubblico che porta la data del 25 di ottobre del 1943, dal nuovo prefetto di Chieti, Giuseppe Girgenti. Era, insomma, lo sfollamento di massa che si aprì come un baratro davanti a noi e alle popolazioni della zona e fece pagare, non solo agli orsognesi, un prezzo particolarmente pesante in vite umane. Così la nostra famiglia, che intanto era ritornata in paese, si trasferì di nuovo in campagna, questa volta però presso l’abitazione di uno zio, lo zio Camillo, che aveva sposato una sorella di mio padre, nel territorio di Arielli. Assieme a noi, c’erano anche la mia nonna paterna (il nonno era morto, abbastanza giovane, già da alcuni anni) e la zia Linuccia, moglie del fratello di mio padre, lo zio Giuseppe, morto nei primi mesi di guerra nelle acque della Grecia, mentre gli altri nostri parenti si erano dispersi in altre direzioni e ci saremmo rincontrati solo dopo la fine della guerra. Naturalmente, prima di abbandonare la nostra casa di Orsogna, ci demmo da fare, come tutti, per murare e nascondere le nostre poche cose, in primo luogo la biancheria, frutto della dote di mia madre e costata molta fatica e denaro, il poco oro che lei possedeva e poi piatti e utensili da cucina e altre suppellettili varie: insomma, quel poco che avevamo e che ci era indispensabile per la nostra vita di tutti i giorni, nella quasi certezza che non sarebbe passato molto tempo prima del nostro ritorno! Una operazione analoga fece mio padre nella masseria di Colle S. Giacomo, seppellendo dentro il pagliaio posto lì accanto la raccolta d’olio di quell’anno. La cosa funzionò, ma la fortuna ci mise molto di suo. Così, dopo la guerra, nonostante la nostra casa fosse diventata un fortino e venisse utilizzata dal comando tedesco, ritrovammo intatto il muro che chiudeva il sottoscala, a difesa dei nostri scarsi ma preziosi beni; inoltre, nel pieno della guerra, mio padre, affrontando il rischio di essere preso e fucilato dai tedeschi mentre si recava di notte, passando per le campagne, verso la masseria di terra, poté recuperare l’olio sepolto nel pagliaio. Nella nostra nuova sistemazione, la vita, sia pure con i disagi e i problemi legati a una 19 situazione non certo normale, procedette tuttavia in modo abbastanza tranquillo per quasi tutto il mese di novembre. Anche perché la casa dello zio si trovava verso l’interno rispetto alla statale per Ortona, ad alcuni chilometri da essa, lontana quindi dal traffico di truppe e mezzi militari che vi si svolgeva; e forse fu anche per questo che non avemmo visite dei tedeschi, come accadde invece ad altri, che ci avrebbero obbligato ad andare verso il nord, meta di tantissime famiglie di orsognesi: prima a Chieti, ospiti non molto graditi, e poi appunto verso zone del nord, soprattutto l’Emilia. I problemi cominciarono a sorgere verso la fine del mese e gli inizi di dicembre. E la ragione era semplice. Chi scorra oggi le pagine dei libri di storia che raccontano dei violenti combattimenti che insanguinarono le nostre contrade durante la battaglia del Sangro e del Moro, mietendo tantissime vittime civili e militari e provocando distruzioni inaudite, sa infatti che proprio tra la fine di novembre e i primi giorni di dicembre del ‘43 iniziò l’offensiva degli alleati contro i tedeschi. Ma tale offensiva non fu né facile né di breve durata perché la zona interessata presentava caratteristiche tali da rendere particolarmente difficoltosa l’avanzata degli attaccanti, mentre offriva vantaggi assai consistenti ai tedeschi che, non a caso, dopo il ritiro dal Sangro riuscirono a bloccare l’avanzata sul Moro perdendo solo Ortona dopo sanguinosi combattimenti e a resistere a Orsogna fino al giugno successivo. Churchill, nel suo libro La seconda guerra mondiale, così descrive la posizione tenuta dai tedeschi sul fronte del Sangro e del Moro: “Le particolarità fisiche di quella regione, le sue montagne impervie e i suoi torrenti impetuosi rendevano questa posizione, che aveva una profondità di parecchi chilometri, straordinariamente forte”. Con una situazione di tal genere, non è difficile immaginare quale fu la scelta degli alleati per aprire la strada all’avanzata di terra: la intensificazione dell’intervento aereo e dell’artiglieria pesante sulle zone controllate dai tedeschi, con rischi naturalmente sempre maggiori per i civili che, come noi, non si erano allontanati dai paesi obbligati allo sfollamento e ora al centro della battaglia. Così, mano a mano che passavano i giorni, sempre più vicino e incombente si faceva il rumore sordo dei cacciabombardieri che si dirigevano verso i paesi vicini, soprattutto verso Orsogna e Ortona, con il loro enorme carico di bombe, mentre sempre più percepibile e frequente si faceva il sibilo dei proiettili di cannone sparati dalle artiglierie alleate sulle linee nemiche e che cadevano non molto distanti dalla zona dove ci eravamo rifugiati. Era il fronte che ormai ci minacciava da vicino. La nostra condizione si faceva dunque sempre più precaria; così un bel giorno, ai primi di dicembre, dovemmo lasciare anche la casa dello zio e cercare un rifugio più adatto alla nuova drammatica situazione che era in procinto di travolgerci. Per nostra fortuna, non lontano dalla campagna di mio zio, scavata a una certa altezza del costone, non molto elevato, che fiancheggia sulla sinistra l’Arielli, un torrentello insignificante ma che fu al centro di aspri scontri durante l’attacco degli anglo-americani su Ortona e su Orsogna, si trovava una grotta che divenne la nostra nuova casa fino al 24 di dicembre, quando potemmo consegnarci nelle mani degli alleati, che in quel 20 punto avevano sfondato il fronte e travolta la resistenza tedesca, e così allontanarci dalla prima linea, trasferendoci nelle retrovie controllate dai nostri liberatori. La grotta era molto profonda e ampia, con un soffitto abbastanza alto e sopra, all’esterno, roccia e terra di uno spessore tale che si dimostrò capace di resistere alla penetrazione delle bombe che ci caddero sulla testa di lì a qualche settimana in una quantità incredibile. Essa inoltre era ripartita in tante nicchie, su tutte e due le pareti, capaci di ospitare ciascuna una famiglia, e comunicava direttamente dall’interno, attraverso un breve passaggio, con un’altra piccola grotta, a forma di torre, che aveva, in alto, una presa d’aria non grande ma molto utile, e fungeva anche da toilette almeno per i più piccoli. Insomma, una grotta abitabile che si diceva fosse stata attrezzata e utilizzata dai briganti che imperversarono tra Orsogna e Arielli negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia. Il nostro nuovo e inconsueto alloggio era stato naturalmente ripulito e mimetizzato con cura prima dell’uso: la bocca della grotta era stata quasi totalmente richiusa con terra e fascine di rami, lasciando appena un pertugio attraverso il quale si poteva passare solo carponi e che poi veniva a sua volta fatto scomparire dall’interno sempre con una fascina di rami; e dall’esterno era difficile individuarla, anche perché il maltempo contribuì rapidamente a cancellare le tracce del lavoro di mimetizzazione e a rendere omogenea tutta la parete esterna. Fummo in molti a rifugiarci nella grotta: le famiglie della zona, innanzitutto, più quelle venute da Orsogna, che avevano trovato ospitalità nella contrada da amici e parenti. In tutto saremo stati intorno a 60-70 persone (almeno nel mio ricordo: mia sorella Ida sostiene invece che eravamo una novantina), tra donne bambini (tanti) e adulti. Ogni famiglia aveva la sua nicchia, naturalmente quelle che avevano bambini piccoli erano state sistemate nella parte più interna, ad evitare che i loro pianti e i loro lamenti potessero essere captati dall’esterno e quindi farci scoprire. Trascorremmo molti giorni nella grotta, più o meno una quindicina, perché, se la memoria non mi inganna, traslocammo in essa il giorno dell’Immacolata Concezione, all’indomani cioè del violentissimo bombardamento di artiglieria (furono sparate circa 10.000 granate) che si scatenò il 7 dicembre su Orsogna, intorno a mezzogiorno; e ne uscimmo la vigilia di Natale. Dire che nella grotta passammo giorni difficili è usare un eufemismo, anche se noi bambini non ce ne rendevamo del tutto conto se non per la fame e i bombardamenti continui, con le bombe che cadevano anche sulle nostre teste, nella parte sovrastante della grotta. Mangiare tutti i giorni e in quantità sufficiente era il nostro primo problema, soprattutto era il problema dei bambini, a partire dai più piccoli che reagivano ai morsi della fame piangendo in continuazione, nonostante i rimbrotti e le minacce degli adulti e le sollecitazioni accorate delle madri ai loro figlioletti perché smettessero di piangere. Per i primi giorni, furono sufficienti le provviste portate da ciascuna famiglia al momento dell’entrata nella grotta; ma esse non durarono, purtroppo, a lungo! Così fu necessario che i padri tornassero nelle case a prendere altre provviste, con il rischio o di finire sotto i bombardamenti o di incappare in qualche pattuglia tedesca. Per fortuna, le cose 21 andarono sempre per il meglio! Anche mio padre e mio zio si allontanarono varie volte dalla grotta, senza incorrere mai nei mille pericoli che li aspettavano fuori. Essi, però, non uscivano solo per procurare il cibo necessario alle nostre famiglie, ma anche per accudire le pecore che, se ricordo bene, erano nostre e mio padre aveva portate con sé nella masseria dello zio da Colle S. Giacomo e nascoste, al momento di rifugiarci nella grotta, nel pagliaio dello zio, dentro una grossa buca scavata nel terreno e ricoperta di frasche, paglia e fieno per sottrarle alla vista di eventuali visitatori. Che fine abbiano fatto queste pecore, dopo la nostra uscita dalla grotta, francamente non lo ricordo né ho mai chiesto notizie ai miei in proposito, sta di fatto comunque che, avendo anch’esse, come noi, bisogno di mangiare e di bere, mio padre cercò sempre in quel periodo, nonostante i rischi, di rifornirle ogni tanto di fieno e di acqua! A quei tempi, anche il possesso di un piccolissimo gregge rappresentava una ricchezza per la famiglia contadina; e la loro perdita avrebbe significato un colpo molto duro, perciò una tale attenzione alle nostre poche pecore, in una situazione in cui bisognava preoccuparsi di ben altro, non deve affatto stupire. All’epoca, chi poteva, facendo anche grossi sacrifici, con una agricoltura destinata essenzialmente all’autoconsumo, si preoccupava, per soddisfare necessità elementari della famiglia, non solo di avere nella stalla qualche pecora ma di allevare, oltre a galline e conigli, anche il maiale che poi, quand’era ingrassato a dovere, finiva ammazzato e trasformato in salsicce, prosciutto, ventresca, ecc., ricordo che le operazioni si svolgevano, d’inverno, tutte in casa, ed era una festa per tutti, soprattutto per i bambini! Ci si garantiva così, oltre alla provvista di carne, la possibilità di vendere, assieme ad alcuni prodotti della terra, anche uova, polli, ricotta, formaggio, facendo entrare in questo modo dei soldi in casa, che in genere i contadini non avevano altra maniera di procurarsi, per provvedere agli acquisti di vestiti, scarpe, attrezzi necessari al lavoro dei campi e agli altri bisogni della famiglia. L’altro grande problema, per grandi e piccini, era quello della pulizia. Non che prima, all’epoca, si avesse molta dimestichezza con l’acqua. Nelle case non c’era neppure l’acqua corrente, figuriamoci docce, vasche da bagno e altre cose del genere. Erano tutte cose di là da venire, come del resto i servizi igienici. Ci si lavava appena la faccia tutti i giorni, o con l’acqua presa alla fontana se si viveva in paese o, se si abitava in campagna, con l’acqua del pozzo, molte volte scavato a ridosso dei depositi del letame prodotto dalla stalla, e poi, ogni morte di papa, ci si faceva il bagno nella tinozza, di solito questo accadeva in occasioni importanti: quando, per esempio, si doveva andare fuori, così se ti accadeva qualcosa eri pulito! Ma, in quei giorni, nella grotta non ci si poteva neppure lavare la faccia! Non solo, ma tra i capelli e dentro le maglie invernali fatte di lana grossa che indossavamo allora e che, bisogna dire, tenevano abbastanza caldo, molti animaletti assai fastidiosi bivaccavano tranquillamente, e l’unico rimedio era grattarsi grattarsi grattarsi… Per il resto, la paura di ciò che accadeva fuori era sufficiente a far superare a tutti i disagi inevitabili derivanti da una convivenza forzata, in uno spazio ristretto, e che si protrasse per giorni e giorni. Il pensiero di tutti era a come e quando si sarebbe usciti di lì, e se sani e salvi, e questo 22 aiutava anche a non far venire meno un minimo di solidarietà tra quanti vivevano nella grotta. Pur con questi problemi e la preoccupazione costante che qualcosa di grave ci potesse capitare all’improvviso, da un giorno all’altro, tuttavia il tempo scorreva senza grandi scossoni dentro la grotta; e forse saremmo potuti arrivare senza sorprese al 24 dicembre, il giorno della nostra liberazione, se il diavolo non ci avesse messo la coda. Nella grotta, aveva trovato posto anche una famiglia che abitava non lontano da noi in paese e che quindi conoscevamo bene, il cui figlio più grande, mal sopportando di vivere rinchiuso, un bel giorno decise di attraversare le linee tedesche per raggiungere il territorio controllato dagli alleati. Uscì così dalla grotta, nonostante la disperazione dei genitori, e affrontò da solo l’ignoto da cui purtroppo non riemerse più e nessuno mai seppe che cosa fosse realmente accaduto, dove e come fosse andato a morire. Il tentativo di attraversamento del fronte ebbe luogo non molti giorni prima dell’attacco sferrato dagli alleati sulla direttrice dove si trovava anche la nostra grotta e che si concluse con l’arretramento dei tedeschi; ma il fatto non avrebbe avuto per noi conseguenza alcuna se il padre del giovane, nella convinzione che il figlio, se ci avesse ripensato o fosse stato costretto dalle circostanze a tornare indietro, non sarebbe stato in grado da solo di ritrovare il nostro rifugio, non avesse deciso, nonostante le proteste di tutti, di piazzarsi, allorché cominciava a fare buio, lui all’esterno della grotta e diventare così punto di riferimento per l’eventuale ritorno del figlio. La cosa si protrasse per alcuni giorni, ma per nostra fortuna non accadde mai nulla, almeno fino alla notte del 23 dicembre, quando invece si verificò quello che temevamo più di ogni altra cosa: la scoperta della grotta da parte dei tedeschi! Era intorno alle undici di notte, e ricordo ancora come fosse oggi il nostro spavento di fronte a un tedesco che, pistola in pugno, con davanti quel disgraziato che si era fatto scoprire, entra nella grotta e ci intima di uscire di lì al massimo entro un’ora. Probabilmente il tedesco era solo a ispezionare le linee di comunicazione germaniche che correvano lungo l’Arielli. Se fosse stato con una pattuglia, lo avremmo sicuramente visto entrare in forze, accompagnato dai suoi commilitoni, e forse in quel caso ci avrebbe obbligato a sgomberare immediatamente. Il tedesco andò poi via minacciando che sarebbe tornato più tardi, ma la buona sorte fu ancora dalla nostra parte, perché né lui né altri tedeschi ebbero la possibilità di farsi di nuovo vivi. Non passò infatti più di una mezzora dal suo allontanamento che lungo l’Arielli e sulla nostra stessa grotta si scatenò l’inferno. Il bombardamento dell’artiglieria, che preparava l’attacco alleato, fu di una violenza inimmaginabile e durò quasi tutta la notte, seguito poi dall’avanzata delle truppe di terra. Ma fu solo a giorno inoltrato e quando ormai la furia della battaglia si era del tutto placata che decidemmo di uscire. Ormai anche dall’interno della grotta era possibile non solo percepire l’eco dell’intenso andirivieni che si stava svolgendo nei pressi del nostro rifugio, ma anche ascoltare le voci provenienti dall’esterno e capire che non parlavano tedesco. Così i nostri genitori 23 (forse qualcuno spiò anche fuori, attraverso lo stretto pertugio di ingresso alla grotta) compresero che avevamo a che fare con gli inglesi (in realtà, canadesi) e decisero che era arrivato il momento di lasciare il nostro provvidenziale e insolito ricovero. Fino a quel momento, anche se i soldati vi passavano e ripassavano quasi davanti, la grotta non era stata scoperta, tanto era ben mimetizzata, neppure dagli alleati. Ma il rischio per noi era che l’apparizione improvvisa di un numero abbastanza consistente di persone potesse essere scambiata dagli alleati per un agguato ordito da un gruppo di tedeschi e quindi metterci in mezzo ai guai. Della cosa naturalmente i nostri genitori erano molto preoccupati, ma risolsero il problema stabilendo di mandare avanti i bambini e i ragazzini: fummo così noi i primi a uscire all’esterno, ne eravamo parecchi, sventolando fazzoletti e stracci di vario colore! Quando abbandonammo la grotta, era la tarda mattinata del 24 dicembre del 1943; e quel giorno, anche se circondati da lutti e rovine e con la guerra attorno a noi che continuava, fummo tutti molto felici perché finalmente avevamo riacquistata la libertà. Lo spettacolo che ci si presentò, quando uscimmo a riveder il sole (per parafrasare Dante), fu quello di un ininterrotto via vai di soldati: gruppi che tornavano dal fronte, altri che vi si recavano. Visi stanchi, divise sporche e strappate, soldati feriti, gente insomma che tornava dall’inferno alla ricerca di un po’ di tregua e riposo nelle retrovie, per riprendere poi l’indomani la stessa via all’inverso! Mentre anche noi ci apprestavamo, accompagnati da alcuni soldati che ci avevano preso in consegna, a prendere la strada delle retrovie, ecco arrivare una colonna abbastanza numerosa di soldati tedeschi fatti prigionieri, la gran parte giovanissimi e anch’essi visibilmente assai provati e malridotti. Ci passarono proprio accanto, e a quel punto alcuni dei nostri non poterono trattenersi dall’inveire violentemente contro di loro, qualcuno, anzi, tentò anche di avvicinarsi per colpirli fisicamente. Fu, bisogna dire, una reazione istintiva, più forte di qualunque altro sentimento: essi erano i responsabili dei grandi patimenti sofferti durante i lunghi mesi della occupazione delle nostre terre e l’odio nei loro confronti era cresciuto in tutti nella stessa misura della paura che ci attanagliava ogni volta che si vedeva apparire una divisa tedesca all’orizzonte! I soldati che ci accompagnavano ci portarono in direzione della statale per Ortona; e la nostra prima tappa fu un ospedaletto da campo, organizzato in una casupola che si trovava in aperta campagna, a qualche centinaio di metri dalla strada e quasi all’altezza del casolare in cui abitavamo al momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Si trattava in realtà di una rimessa per utensili agricoli, quindi assai piccola e poco capiente, utilizzata alla meglio per prestare i primi soccorsi ai soldati feriti. Quella rimessa, almeno fino a qualche anno fa, era ancora in piedi e, ogni volta che mi è capitato di percorrere con l’auto la Marrucina, non ho mai mancato passando di lì di rallentare e gettarle uno sguardo, perché essa è sempre restata uno dei punti vivi e indelebili dei miei ricordi di guerra. Forse i soldati feriti che vi abbiamo incontrato al nostro arrivo, tra i quali ricordo molto 24 bene anche il soldato che mi mostrò con un sorriso appena accennato il moncherino insanguinato reciso da una pallottola o da una scheggia all’altezza del polso, hanno contribuito a fissare nella mia mente la sua immagine. O forse, più semplicemente, perché l’immagine di quella rimessa coincide, nonostante lo spettacolo orribile che vi abbiamo trovato, con il giorno della nostra liberazione e del nostro ritorno al futuro! Anche noi avemmo i primi soccorsi all’ospedaletto da campo, nel senso che lì qualcuno si diede da fare per rifocillarci e rifornirci di un po’ di viveri per il lungo viaggio a piedi che ci attendeva, verso la nostra nuova tappa, Lanciano, ormai saldamente in mano agli alleati. Lanciano distava dal punto in cui eravamo almeno una ventina di chilometri, non si trattava quindi di un viaggio facile, anche perché con noi, oltre ai bambini, c’erano anche persone anziane debilitate dai numerosi disagi ai quali erano state sottoposte dalle circostanze. Inoltre il percorso, che subito di là della statale incontrava la contrada Martorella (appartenente al Comune di Poggiofiorito) dove avevo frequentato la prima elementare, era fatto di stradine di campagna rese fangose e scivolose dal maltempo di quei giorni ed era perciò non poco disagevole. All’inizio, esso era piuttosto pianeggiante, poi scendeva verso il Moro per risalire successivamente, nella sua parte finale che era anche la più lunga, verso Lanciano. Contavamo, comunque, di fermarci a riposare e mangiare qualcosa presso una delle masserie che sicuramente, lungo il cammino, avremmo incontrato. Ricordo però che ci fermammo, per qualche ora, solo una volta, e la sosta avvenne in un casolare colpito da un lutto recentissimo: durante la notte, a causa dei colpi di cannone scambiati tra tedeschi e alleati, era morto il più anziano della famiglia. Appena entrati nella casa, trovammo il povero morto posto nel mezzo di una grande stanza a pian terreno e, attorno, i pochi parenti presenti che lo vegliavano. Non c’erano manifestazioni di disperazione, ma piuttosto una rassegnazione pacata e senza pianti, l’accettazione insomma di un destino davvero ineluttabile, date le circostanze. Arrivammo a Lanciano a notte ormai fatta, e francamente non ricordo dove alloggiammo per il resto della notte. Ricordo solo che il giorno dopo, che era Natale, ripartimmo, sempre a piedi, anche da Lanciano per dirigerci, la nostra famiglia, mia zia con il figlio piccolissimo e mia nonna, verso Orsogna tuttora occupata dai tedeschi, mentre tutti gli altri nostri compagni di grotta e di viaggio avevano preso altre direzioni. Quando arrivammo a Spaccarelli, l’ultima contrada della città frentana che s’incontra andando verso Orsogna lungo la provinciale, era ormai intorno a mezzogiorno: eravamo stanchi e soprattutto affamati, così decidemmo di chiedere ospitalità a una famiglia di contadini la cui masseria si trovava ai limiti della strada, e con loro consumammo il pranzo di Natale, un pranzo non certo lauto e succulento. Al centro della tavola infatti, in un clima non proprio di allegria e di festa, c’era solo una vazzije piena di verdura cotta, scondita perché il sale era introvabile, con poco olio e senza neppure la pizza di granturco che i contadini mangiavano mescolata alla verdura, 25 ma il pasto fu ugualmente apprezzato da tutti! All’epoca non è che le tavole dei contadini e in generale della povera gente abbondassero di leccornie. Durante l’anno, anzi, la pizze ‘nghe li fojje era uno dei piatti più ricorrenti, tuttavia per alcune date, assai poche per la verità, le cose andavano diversamente e si mangiava anche la carne (pollo o coniglio), cotta di solito sotto il coppo, assieme alle patate tagliate a fette, ciò che le dava un profumo assai intenso e un sapore particolarmente buono. Il Natale era una di queste date, assieme alla Pasqua, alla festa del patrono, al giorno della trebbiatura e a qualche altra ricorrenza particolare. Questa volta però ci dovemmo accontentare e considerarci pure fortunati, perché con la miseria che c’era in giro ci poteva anche capitare di rimanere a digiuno! Nel pomeriggio, riprendemmo il cammino traversando poco dopo il Moro, che segna il confine tra Lanciano e Orsogna. Il Moro, il cui nome è diventato celebre nel corso della seconda guerra mondiale per l’accanita resistenza che vi incontrarono le truppe alleate, è in realtà un fiumiciattolo senza importanza che però, soprattutto d’inverno quando le sue acque si gonfiano, diventa un ostacolo serio da superare perché scorre generalmente tra due strapiombi fatti di calanchi e i ponti che l’attraversano sono pochissimi: ad esempio, il ponte che avevamo appena attraversato è l’unico che porta a Orsogna venendo da Lanciano. Nonostante questo però i tedeschi, stranamente, non l’avevano fatto saltare dopo il loro ritiro da Lanciano, a seguito dell’offensiva scatenata dagli alleati sul Sangro. Evidentemente, nella fretta della ritirata, non ne avevano neppure avuto il tempo; o forse non ne vedevano la necessità: non solo il ponte era a notevole distanza dal paese, ma la sua presenza era comunque assai difficile che potesse agevolare il successo di un attacco contro Orsogna che aveva una posizione tale ed era così fortificata, con una rete molto estesa di mine antiuomo e anticarro che copriva sia le campagne verso est (le più attaccabili) che le strade di accesso al paese, che in nessun modo sarebbe stato facile occuparla (come poi si dimostrò). Il ponte, comunque, era ormai nelle mani degli alleati e sotto il loro controllo; e, anzi, a ridosso di esso, sulla parte destra del fiume gli alleati avevano collocato una batteria di cannoni che teneva sotto tiro proprio Orsogna, mentre al di là non vi erano postazioni e vi si svolgevano solo azioni di pattuglia e di osservazione. Finalmente, dopo un cammino non lungo, arrivammo alla nostra definitiva destinazione, nel senso che lì rimanemmo fino alla liberazione di Orsogna, nel giugno del 1944: si trattava della casa di una famiglia contadina, con la quale i miei genitori avevano antichi rapporti. Il casolare nel quale fummo ospitati era abbastanza grande per accogliere altre due famiglie, così non fu difficile sistemarci. Esso si trovava ai limiti del ciglio di una collina, dal quale si poteva scorgere il paese e anche la nostra masseria di Colle S. Giacomo, ma sul versante non visibile da Orsogna; era poi lontano a sufficienza dal paese per cui era difficile che pattuglie tedesche si spingessero fin lì, così come era lontano dalla provinciale lungo la quale gli alleati tentarono nei mesi successivi di marciare, con i carrarmati, su Orsogna, neppure in questo caso corremmo perciò rischi e non fummo 26 costretti a cercare altrove un nuovo rifugio. La nostra nuova sistemazione non ci creò problemi particolari. Solo una volta partirono da Orsogna tre colpi di cannone sparati dai tedeschi contro un gruppo di ufficiali alleati che, sulla stradina che correva lungo il ciglio della collina, stavano scrutando con il binocolo verso il paese. Le bombe caddero non distanti dalla casa, in un tratto di campagna dove in quel momento (era di mattina) stavano lavorando le donne, ma per fortuna senza conseguenza alcuna. Per tutto il tempo della nostra permanenza presso la famiglia che ci aveva accolto, non stemmo naturalmente con le mani in mano. Mia madre, Ida, la zia e la nonna partecipavano normalmente al lavoro dei campi, così tra l’altro potevamo ripagare i nostri amici della ospitalità e anche del cibo che ci offrivano (non so però se i miei dovevano anche pagare qualcosa, una specie d’affitto insomma, probabilmente sì a quel che dice mia sorella). Mio padre ed io invece avevamo trovato lavoro presso gli alleati e venivamo impiegati, dietro regolare compenso, a sistemare la strada brecciata che da Lanciano porta verso Poggiofiorito, utilizzata per il trasporto di truppe e mezzi verso il fronte. Così ogni mattina mio padre ed io, pala e piccone in spalla, dovevamo attraversare il Moro per recarci al lavoro, rifacendo la sera, sull’imbrunire, all’incontrario la stessa strada. Fu per me, quella, una esperienza molto divertente, oltre che utile dal punto di vista delle finanze familiari perché anch’io vi contribuivo con il mio piccolo gruzzolo. Avevo naturalmente, come tutti gli altri, la mia pala, ma in realtà il mio compito principale era quello di andare a prendere e distribuire l’acqua tra gli operai e, quando passavano i camion di soldati che tornavano o si recavano al fronte e ci buttavano pacchetti di sigarette, darmi da fare per raccoglierne per mio padre quanti più ne potevo. Il lavoro con gli alleati consentì a mio padre anche di stabilire rapporti con qualche soldato, per procurare cibo, coperte, vestiario vario per la famiglia, egli cercava insomma di arrangiarsi come meglio poteva in una situazione non certo facile per noi. Ricordo anche qualche episodio legato a questa sua attività. Come quando, ad esempio, dopo la fine della nostra giornata lavorativa, mio padre mi portò in un accampamento di soldati indiani dislocato nei dintorni della nostra zona di lavoro: era un accampamento abbastanza grande, e lì fummo ospiti della tenda di un indiano, forse, chissà, un sikh visto il gran turbante che aveva in testa e la lunghezza e abbondanza della barba e dei capelli, che ci offrì il tè, un tè nero e denso che fu il primo della mia vita e che però non sapevo affatto che bevanda fosse, non l’avevo mai sentito neppure nominare. Ma non si trattava sempre di un traffico tranquillo. Un giorno, infatti, capitò a mio padre di avere a che fare con un soldato ubriaco che minacciò di sparargli con la pistola. Un altro giorno, mentre eravamo sul lavoro, ci accadde invece di incontrare uno zio, lo zio Antonio, che nessuno sapeva dove fosse, sapevamo solo che era stato fatto prigioniero dagli inglesi, come non sapevamo nulla della sua famiglia che non era riuscita ad attraversare le linee tedesche e si trovava ancora dall’altra parte del fronte, chissà dove. Naturalmente, tutti fummo contenti dell’incontro ma egli si fermò con noi solo pochi 27 minuti, lavorava anche lui con gli inglesi (anche se non ho mai saputo che cosa facesse esattamente), e perciò andò via subito salendo su un camion e lo rivedemmo solo alla fine della guerra. Insomma, la nostra vita stava quasi tornando alla normalità, soprattutto se paragonata a quella di chi viveva ancora sotto i tedeschi, con l’incubo dei bombardamenti e della fame, ma non era naturalmente la normalità. E’ vero, dopo la conquista di Ortona e i tentativi di sfondamento su Orsogna costati -come del resto tutta la battaglia del Sangro e del Moro- tantissime vite, di soldati innanzitutto di cui sono testimonianza i due cimiteri di guerra di Ortona e di Torino di Sangro, ma anche di civili, durante i mesi invernali l’attività militare si era ridotta al minimo dall’una e dall’altra parte, e il lungo e rigido inverno servì agli alleati per accumulare forze in vista dell’arrivo della primavera, quando riprese l’offensiva per cacciare i tedeschi dall’Italia e, intanto, sloggiarli da Orsogna. Tuttavia i fatti si incaricavano, ogni tanto, di ricordarci che eravamo sempre in guerra. Ad esempio, le bombe di aereo che i tedeschi un giorno lanciarono sulla strada dove stavamo lavorando. Fu un fuggi fuggi generale, ma per fortuna gli aerei (ne erano due), che rappresentarono una vera sorpresa perché i tedeschi non avevano ormai quasi più aviazione, andarono via subito e sganciarono solo qualche bomba. Ogni tanto ci capitava anche di assistere a bombardamenti su Orsogna o di vedere pattuglie tedesche che si spostavano nelle campagne ai margini del paese, una volta ne vedemmo anche una che si aggirava attorno alla masseria di Colle S. Giacomo. Alla vigilia dell’estate, proprio agli inizi di giugno del ’44, anche Orsogna fu strappata ai tedeschi, e si aprì così finalmente per noi la via del ritorno. Noi fummo tra i primi a rimettere piede in paese, assieme a tutti gli altri che, come noi, avevano passato il fronte o, comunque, non si erano, con lo sfollamento, allontanati dall’Abruzzo. Quello che trovammo non ci sono parole per descriverlo: eravamo di fronte a un cumulo di macerie, che nascondevano anche insidie mortali, e gli edifici che non avevano subìto gravi danni si potevano davvero contare sulle dita di poche mani! La nostra casa in paese, come anche le case del vicinato, fu tra quelle non danneggiate, anche se sulle pareti esterne erano evidenti i segni delle schegge che le avevano colpite. Tra l’altro, trovammo tutto il piano terra fortificato con il legname di una vicina falegnameria, segno che essa era stata utilizzata dai tedeschi, più che come punto di difesa, come osservatorio, forse in ragione del fatto che affacciava direttamente sulla valle dell’Arenale e da lì quindi si potevano tenere sotto controllo alcune possibili vie d’attacco da parte degli alleati, e cioè la valle, appunto, e la statale che viene da Ortona. Ritrovammo intatto anche il muretto che chiudeva il sottoscala, con il suo prezioso piccolo tesoro, e in più i tedeschi avevano portato in casa -prendendolo chi sa doveanche un tavolo da cucina molto grande e robusto che restò nostro, mentre tutto il legname del pian terreno tornò al suo legittimo proprietario. 28 Ma il ritorno a casa non mise, purtroppo, la parola fine alle nostre traversie. Da questo punto di vista, anzi, il dopoguerra non fu meno avventuroso del periodo di guerra, per certi aspetti anzi fu anche più pericoloso. Ma anche questa parte della nostra vita noi, divenuti ormai ragazzini, la vivemmo, certo subendone i disagi, ma anche con quella dose di incoscienza che ti consente di trovare sempre il lato divertente delle cose. Intanto, dovemmo ospitare in casa anche la famiglia di mia zia, la zia Giacinta, con i suoi due figli (lo zio era ancora prigioniero in Germania, tornò solo a guerra finita): erano rientrati anch’essi, qualche settimana dopo di noi, dalla zona nella quale si erano rifugiati per sfuggire ai pericoli della guerra, ma la loro casa non era al momento in grado di accoglierli. Ma alla coabitazione eravamo ormai abituati, la loro presenza non costituiva perciò in nessun modo un problema. Consentiva, anzi, a noi ragazzi di stare di più assieme a giocare e divertirci. Di solito, il giorno stavamo in campagna con i nostri genitori e passavamo il tempo o ad aiutarli nel lavoro o a scorrazzare liberamente per i campi, alla ricerca delle schegge di rame e ferro disseminate dalle bombe d’aereo o di cannone esplose nei dintorni, che poi rivendevamo guadagnandoci qualche soldo. Quando invece restavamo a casa, ci univamo agli altri ragazzi del vicinato, che erano numerosi, e tutti insieme facevamo i giochi più diversi. In genere, con gli altri ragazzi andavamo d’amore e d’accordo. Ma ogni tanto finivamo col litigare e allora non solo si faceva a pugni ma poteva anche accadere che, durante la lite, qualche scriteriato ti scagliasse contro all’improvviso, alla traditora, un sasso che non ti faceva certo bene (come capitò a me una volta, ricordo che fui colpito alla testa e mi uscì anche un po’ di sangue); ma erano cose, che io ricordi, che non succedevano spesso. I nostri giochi erano i giochi del tempo. A sticchie: ogni giocatore depositava il suo soldo sul mattone piazzato a terra a coltello, poi a turno da una certa distanza ognuno con la sua pietra tentava di rovesciare il mattone, facendo cadere a terra i soldi: ogni giocatore vinceva i soldi che aveva più vicini alla sua pietra. A guardie e ladri. A nascondino (alé, in dialetto). A mazziche: erano due i giocatori e si giocava con due bastoncini di legno di diversa grandezza, il primo giocatore colpiva e cercava di lanciare il più lontano possibile, col bastoncino più grande, quello più piccolo, mentre il secondo, raccoltolo, lo rilanciava a sua volta da dov’era caduto, cercando di colpire e far cadere il bastoncino grande dai due mattoni su cui era stato posato in sospensione. A bottoni (ci strappavamo i bottoni dai pantaloni per giocare, con grande disperazione delle nostre madri). A soldi: chi avvicinava di più il soldo al muro, aveva il diritto di giocarsi per primo a testa e croce i soldi di tutti gli altri giocatori. Oppure partecipavamo a giochi legati ad alcune ricorrenze, girando, ad esempio, in gruppo per le vie del paese -durante la settimana santa- con le raganelle: le costruivamo noi stessi incastrando il rocchetto di legno che le nostre madri ci davano, dopo aver consumato tutto il filo che vi era avvolto, in un pezzo di canna spaccata a metà e con una linguetta flessibile su un lato, e il suo suono stridulo non rallegrava certo le orecchie 29 della gente; oppure -alla vigilia del giorno dei morti- portando in giro la sera per il paese, per la festa della veracire (termine dialettale di cui ancora oggi non conosco il significato), una zucca svuotata della polpa dentro la quale veniva accesa una candela la cui luce fuoriusciva all’esterno attraverso alcune piccole fessure: sembravamo tante lucciole giganti (le massamane, come a Orsogna vengono chiamate le lucciole) nella notte senza luce elettrica dell’epoca. Altro gioco che ci appassionava era quello di correre per le strade con una ruota di bicicletta, spogliata del suo copertone, e una martinicchie in mano per guidarla nella corsa, così come la partita a calcio con la palla di pezza; i più fortunati poi si potevano permettere di fare la discesa di S. Rocco con la carrozze, guidandola -alla maniera dei cavalli- con una specie di cavezza che manovrava le ruote davanti: una piccola carrozza appunto, fatta di un pianale di legno lungo all’incirca un metro e largo una trentina di centimetri e di quattro rotelle, anch’esse di legno. Essa era molto appetita dai ragazzi che, per averla, cercavano innanzitutto di farsi amico il falegname del quartiere; e divenne ancora più ricercata quando, al posto delle tradizionali rotelle di legno che si usuravano abbastanza rapidamente, si poterono usare i cuscinetti a sfera prelevati dai carrarmati alleati abbandonati lungo la provinciale per Lanciano (anch’io, a un certo punto, entrai nel novero dei fortunati costruendomi una carrozze con i cuscinetti a sfera). Qualche volta facevamo anche giochi più movimentati e meno pacifici: ad esempio, scontrandoci a sassate con i ragazzi di altri quartieri. Era in realtà un gioco meno pericoloso di quel che sembrava, certo qualche rischio lo correvamo, ma di solito la sassaiola finiva senza danni per nessuno. Il gruppo di ragazzi del nostro quartiere, un pezzo di lu quart’abballe, normalmente si scontrava con i ragazzi del quartiere che avevamo di fronte, quelli di lu quarte de la ville dai quali ci separava uno strapiombo largo quasi un centinaio di metri, al fondo del quale corre la strada che porta alla fonte vecchia: ci fronteggiavamo quindi a distanza e, armati di fionde o usando le nude mani, cominciavamo subito a scagliarci sassi che si incrociavano allegramente al di sopra del burrone, finché non ci prendeva la stanchezza o arrivava l’ora di andare a cena. Insomma, ci divertivamo come potevamo e come sapevamo. Ma le circostanze ci offrirono, almeno per tutta l’estate, l’opportunità di praticare giochi del tutto nuovi, a causa dei quali più di un ragazzo rischiò seriamente la pelle e alcuni si sono portati dietro per tutta la vita mutilazioni a volte anche gravi. I tedeschi, andando via, avevano lasciato in paese qualche arma e soprattutto un gran numero di proiettili e bombe di vario tipo: dalle bombe di cannone ai proiettili di fucile e di mitragliatrice, alle bombe a mano. C’erano poi (non molte) le bombe di aereo o di cannone sparate dagli alleati ma non esplose, oltre alle mine messe dai tedeschi. Questa situazione, prima che avvenisse lo sminamento e che ci fosse la raccolta da parte delle autorità delle armi e bombe abbandonate, costituiva già di per sé un pericolo. E infatti più di un poveraccio in quei giorni perse la vita o su una mina antiuomo o su una anticarro, fatta esplodere dal passaggio di carri agricoli o di un traìno. Vi furono diverse vittime anche tra gli uomini mandati a sminare le campagne attorno al paese, senza parlare di quelli che, tornando dallo sfollamento, morirono aprendo la 30 porta di casa o rimuovendo un oggetto dietro cui i tedeschi avevano nascosto la mina. In quei giorni poteva anche capitare che qualche pallottola di fucile finisse sul focolare di casa assieme ai ceppi messi ad ardere: arroventandosi, ad un certo punto la pallottola esplodeva, facendo partire il proiettile che rischiava di causare guai grossi. Un simile rischio un giorno lo corremmo anche a casa nostra quando un proiettile di fucile, partito dal focolare, colpì, per fortuna solo di striscio, la gamba di mia zia. Noi ragazzi trovammo tuttavia il modo di trasformare una situazione così pericolosa in una occasione di gioco. Ricordo, ad esempio, che ci ritrovavamo spesso in tanti nel deposito di grosse bombe da cannone, lasciate dai tedeschi, che si trovava sotto a lu ponte di Cillone, di fronte alla caserma dei carabinieri, in uno spazioso scantinato. E qui tutti a darci un gran da fare per svellere il proiettile dal bossolo nel quale era contenuta la polvere da sparo di cui poi ci servivamo per giocare, felici finalmente quando quella polvere diventava nostra e più felici ancora se dal bossolo sbucavano fuori quelli che chiamavamo i maccheroni, un esplosivo assai ricercato perché, quando il maccherone veniva acceso, esso andava zigzagando tra le gambe della gente e tutti ci divertivamo a guardare lo spettacolo. L’operazione era naturalmente tra le più rischiose: si batteva per terra, con molta forza, la testa del proiettile per allargare il collo del bossolo nel quale era incassato finché non se ne staccava, facendo così venir fuori il suo contenuto. Per nostra buona stella, non successe mai niente, ma nulla impediva che un bel giorno potesse saltare tutto per aria con noi dentro. Bombe di altro tipo si potevano poi trovare tranquillamente in giro, a disposizione di chi le volesse raccogliere: per esempio, le bombe a mano tedesche. Un giorno, ne trovò una mio cugino Salvatore, qualche anno meno di me: senza nessuna preoccupazione, egli legò una corda alla linguetta di sicurezza della bomba a mano, si nascose dietro un muricciolo e la fece esplodere alla presenza di altri ragazzi che assistevano, a una certa distanza ovviamente, all’audace gesta. Anch’io, naturalmente, ho partecipato con impegno a queste imprese. Anzi, nel nostro vicinato, assieme agli altri ragazzini miei compagni di gioco, facevo anche altro perché, vicino alla nostra abitazione, in una casa ancora abbandonata, trovammo un giorno un ricco deposito di casse piene di pallottole di fucile. Ci impadronimmo subito delle casse e le nascondemmo in un piccolo rifugio in muratura che era diventata la nostra sede, la sede anzi della banda perché nel frattempo ci eravamo appunto costituiti in banda: potemmo così avere a disposizione solo per noi un numero incredibile di pallottole di fucile con le quali passammo l’estate a divertirci. Il nostro gioco consisteva o nello svuotare i bossoli della polvere da sparo, con la quale imbastivamo poi altri giochi, oppure nel conficcare una pallottola per terra e colpirne quindi la capsula con un’altra che la faceva esplodere e spingeva così il proiettile a penetrare nel terreno. Era, com’è evidente, un gioco piuttosto stupido ma a noi ci divertiva, finché un bel giorno non ce ne stancammo e seppellimmo le casse rimaste nel piccolissimo appezzamento di terra che ospitava la sede della banda; e forse sono ancora lì, nascoste. Prima però di seppellire la nostra scorta di pallottole, chi disponeva di una specie di minuscolo fucile di nostra fabbricazione poté provare anche l’emozione di spararne 31 alcune per aria. Di che si trattava? Alcuni di noi, e io tra questi, venimmo in possesso, non ricordo più come, dell’aggeggio che provocava lo scoppio delle mine antiuomo. Esso era costituito da un piccolo cilindro, lungo non più di dieci centimetri, al cui interno delle dimensioni di qualche centimetro, incassato in una molla potente, si trovava una specie di punteruolo trattenuto da un morsetto posto su un lato del cilindro: quando il morsetto veniva strappato, il punteruolo scattava spinto dalla molla e faceva scoppiare la mina. Noi usammo invece il congegno per spararci pallottole di fucile, avendo però l’accortezza di proteggere la mano che reggeva l’insolita arma con un bossolo di mitragliatrice tagliato dalla parte della capsula e infilato nella bocca del cilindro: ci andava proprio bene, e dentro di esso veniva introdotta la pallottola. Ricordo che, per procurarci i bossoli di mitragliatrice, incappammo un giorno, io e mio cugino Salvatore, in un nido di vespe molto arrabbiate dalle quali dovemmo scappare in tutta fretta, il tempo appena di raccogliere i bossoli che cercavamo sparsi per terra. I bossoli li trovammo non lontano dalla masseria di Colle S. Giacomo, lungo la provinciale per Lanciano, accanto a una mitragliatrice abbandonata in mezzo alla campagna, a qualche decina di metri dalla strada, ma per nostra sfortuna proprio lì le vespe avevano disposto il loro puntuto accampamento. Insomma, ne combinammo delle belle. Ma le circostanze erano quelle; né in giro vi era altro di tanto importante e divertente che potesse attirare la nostra attenzione! L’altra grande, pericolosa avventura di quei giorni nella quale eravamo tutti coinvolti, bambini ragazzi e adulti, erano le malattie che imperversarono a Orsogna nei mesi successivi al nostro rientro. Pidocchi e cimici che scorrazzavano in folla nei letti, nei vestiti e tra i capelli, il tifo petecchiale che mieté diverse vittime in paese colpendo soprattutto le donne, la rogna di cui ci si poteva liberare solo ricoprendo per diversi giorni il corpo con un impasto di zolfo: questo era il quadro sanitario di quei mesi! Sembrava che l’aria stessa del paese fosse impregnata di miasmi malefici, l’acqua o non c’era o era inquinata, i cumuli di sporcizia erano sparsi dappertutto, i vestiti e la biancheria intima erano ridotti a stracci e non si cambiavano perché non ne avevamo altri, l’assenza di ogni igiene personale era poi la norma, frutto delle circostanze; inoltre, il fisico sfibrato dalla sottoalimentazione imposta dalla guerra e che continuava nel dopoguerra non aiutava certo a resistere alle malattie. Naturalmente, contro le malattie ci si difendeva come si poteva: contro il tifo, ad esempio, con vaccinazioni che non avevano però sempre il loro effetto. Io, di vaccinazioni contro il tifo, ne feci addirittura due. La prima assieme alle mie sorelle presso un medico polacco, di origine ebraica, che era stato internato dai fascisti a Orsogna: se il mio ricordo è esatto, la vaccinazione consisteva in tre iniezioni fatte, nel giro di qualche settimana, alla spina dorsale, ma alla seconda iniezione io svenni e caddi come corpo morto cade sotto l’occhio del medico, così mi guardai bene dal completare la cura. La seconda vaccinazione, con una sola iniezione al petto praticata dal medico condotto, 32 la feci invece qualche mese dopo: la facemmo anzi in due, io e un mio compagno di scuola, di ritorno da una bella camminata lungo la Pescarese, la strada (allora brecciata) che da Orsogna porta a Canosa Sannita. Doveva essere piena estate perché ricordo che, quando ci recammo da don Levino, il nostro medico condotto, faceva molto caldo ed eravamo tutto sudati, ovviamente non mi domandai se una nuova vaccinazione, diversa da quella fatta in precedenza, potesse comportare qualche pericolo! La situazione sanitaria della nostra famiglia non era naturalmente migliore di quella delle altre famiglie, anzi… Tutti in casa infatti facemmo conoscenza di cimici e pidocchi, che ti succhiavano il sangue che era una bellezza e dai quali non ti potevi proprio liberare, le mie sorelle e io avemmo inoltre anche a che fare con la rogna, ricordo che restammo per tre giorni rinchiusi in casa con addosso la puzza dello zolfo che mio padre ci aveva sparso sul corpo, mentre mia madre si prese il tifo petecchiale che la portò a un punto dalla morte. Il tifo, poi, era infettivo, e perciò, anche se noi eravamo stati vaccinati, non potemmo avvicinare mia madre per tutto il periodo della malattia. Mia madre se la vide proprio brutta, in preda per diverse settimane a febbri violente che la facevano vaneggiare e l’avevano ridotta una larva; e, visto quello che era accaduto ad altre donne colpite dallo stesso male, tutti ormai in casa pensavamo che non l’avrebbe scampata. Ma per fortuna, quando tutto sembrava perduto, lei riuscì a superare la crisi e, sia pure lentamente, a riacquistare le forze e anche i capelli che le erano caduti nel corso della malattia. A poco a poco, tuttavia, anche a Orsogna la vita tornò a farsi normale. Superata la fase più acuta delle malattie e ripulito ormai il paese delle bombe e delle armi lasciate dai tedeschi, rimosse anche le carcasse dei carrarmati alleati rimasti ad arrugginire sulla provinciale per Lanciano, diventarono altre le preoccupazioni degli orsognesi: ricostruire alla meglio un tessuto istituzionale in grado di provvedere ai bisogni più impellenti, riavviare le varie attività andate in malora con la guerra, cominciare la ricostruzione anche fisica del paese. Non si trattò di cosa facile, ma sia pure con fatica e con molta lentezza tornò a riaprirsi finalmente la strada per il futuro. Anche per i bambini ricominciò la normalità. La scuola venne riaperta, e anche i giochi tornarono a essere quelli di sempre. Ritornai a scuola anch’io, naturalmente, ripartendo dalla quarta elementare, dopo l’anno perso a causa della guerra. Riandando oggi alla vita di quei giorni, bisogna anche dire però che il ritorno alla normalità non significò affatto il ritorno a quella immobilità, sociale e culturale, che fu tipica degli anni del fascismo e dalla quale si poteva tentare di uscire solo arruolandosi come volontari per le avventure del regime in Africa o nella guerra di Spagna dove molti poveracci, alcuni anche di Orsogna, andarono a combattere e morire per pochi soldi, a fianco dei franchisti, contro il legittimo governo repubblicano. Il fascismo aveva persino chiuso le vie dell’emigrazione; e non si poteva così neppure più cercare fortuna altrove! Insomma, prima della guerra, i destini di ciascuno erano segnati. E in genere il destino dei figli era quello dei padri, e chi nasceva povero tale rimaneva 33 per il resto della sua vita; e così i suoi figli, in una vicenda sempre immutabile come le stagioni (almeno quelle di una volta, oggi anche il variare delle stagioni sembra impazzito!). Anche i mestieri erano ereditari: studiare, ad esempio, era un privilegio di cui potevano godere solo i figli dei professionisti e comunque di gente agiata se non proprio ricca, che si trasmettevano il mestiere di medico, avvocato, ecc., di padre in figlio, anche quando i figli erano teste di rapa (come si dice da noi). Qualche volta accadeva anche che, con molti sacrifici, figli di impiegati comunali o di artigiani e contadini con una discreta quantità di terra riuscissero anche loro a diventare geometri, maestri elementari, periti agrari; o addirittura a laurearsi, ma si trattava solo di casi sporadici che non rientravano nelle regole dell’epoca. Il grosso della popolazione invece passava la sua vita, anche con rassegnazione, nell’analfabetismo e nell’ignoranza, anzi venivano indicati a dito i ragazzi che, a quei tempi, erano riusciti ad arrivare alla quinta elementare: il popolino li considerava persone quasi istruite! Il dopoguerra nacque dunque con segni diversi; e aprì le porte a un diverso futuro anche per i più svantaggiati. Si potevano cogliere questi segni anche nelle piccole cose, come ad esempio il rapporto tra le persone che non era più quello reverenziale del cafone nei confronti di uomini e ceti che ieri comandavano, si poteva parlare liberamente e il bisogno spingeva tutti a far valere le proprie ragioni senza molti timori. La guerra stessa contribuì a questo cambiamento. E non solo per il passaggio sulle nostre terre, con le truppe alleate, di uomini che avevano un’altra idea della vita e delle relazioni tra gli uomini e provenivano dall’esperienza della democrazia che, a memoria d’uomo, nessuno da noi aveva mai conosciuta. Per noi ragazzi la guerra, anche in ragione dei disagi e dei pericoli che ci aveva rovesciato addosso, fu anzi una grande scuola di formazione: eravamo arrivati alla guerra che eravamo bambini e ne uscivamo appunto ragazzi, con un carico di esperienze che ci diede più forza, carattere e determinazione e certamente anche qualche ambizione in più dei nostri genitori che doveva poi fruttificare negli anni successivi. Il ritorno alla libertà, la conquista di istituzioni democratiche con la cacciata dei Savoia e la proclamazione della Repubblica e poi l’approvazione della nuova Costituzione costituirono l’intelaiatura necessaria, frutto dell’unità e della grande lungimiranza delle forze antifasciste, che consentì a quei segni di rinnovamento di mettere radici e di dare nuovo slancio e nuove prospettive ai singoli e a tutta la collettività. Il consolidarsi dei partiti di massa, negli anni immediatamente successivi alla guerra, in ogni angolo del paese, fu l’altro pilastro attorno a cui si costruì, oltre a un futuro di libertà e di democrazia per l’Italia, anche la possibilità di un avanzamento sociale individuale, a prescindere dalle origini e appartenenze sociali: non erano più i tempi in cui sindaco, assessore, consigliere comunale di un comune, consiglieri provinciali o addirittura parlamentari erano sempre e solo espressione di ceti agiati. L’intelligenza cominciò a valere di più, soprattutto quando -già appena dopo la guerraanche la possibilità di accedere agli studi, sia pure in modo molto ridotto e in forme anche singolari, non fu più solo un privilegio di alcuni. 34 Ricordo, ad esempio, che in seminario, dove io entrai nell’autunno del ’46, in tanti erano figli di povera gente: era un modo antico, tipicamente meridionale, di cambiare condizione sociale, solo che questa volta, dopo aver terminato il ginnasio, la gran parte di quei ragazzi abbandonò la strada del sacerdozio e continuò gli studi nella scuola pubblica! Insomma, iniziava una storia nuova che si trascinò dietro anche realtà che fino ad allora erano state relegate ai limiti del vivere civile. Anche la mia famiglia riprese le sue consuete attività; e mio padre continuò a coltivare a mezzadria il podere di Colle S. Giacomo, con il lavoro dell’intero nucleo familiare. Con una piccola eccezione però, che mi riguardava e che produsse per me un futuro assai diverso da quello che era nella tradizione. Dopo il ritorno a scuola, io cominciai infatti a frequentare la parrocchia, assieme ad altri ragazzi della mia età, anch’essi in maggioranza provenienti da famiglie contadine (anche questo era un segno dei tempi). A scuola, inoltre, pur non avendo in casa nessun aiuto, andavo bene ed ero, se non il migliore, certo tra i pochissimi che se la cavavano discretamente; e lo stesso accadeva in parrocchia, nel servir messa e nel partecipare alle varie altre funzioni religiose della giornata. In poche parole, venivo considerato un tipo sveglio e promettente. E tutto questo non fu naturalmente senza conseguenze: la frequentazione attiva della parrocchia e il contatto con un mondo che per me era nuovo e si presentava, a quella età, pieno di suggestioni e di fascino mi portarono infatti a entrare in seminario. Dovetti naturalmente affrontare anche gli esami di ammissione alla scuola media che diedi a Ortona, nei locali dell’Istituto Nautico. A prepararmi agli esami, durante l’estate, fu la signorina Di Bene, grazie all’intervento nei suoi confronti dell’allora giovane vice-parroco, che poi divenne, dopo la morte dell’arciprete Fonzi, il nuovo parroco della Chiesa di S. Nicola: parlo di don Vincenzo Camplone che ebbe un ruolo assai importante in quegli anni per il mio futuro, assieme alla signorina Olga che si accollò una parte delle spese per la mia permanenza in seminario. La signorina Olga era veneta, ma non so per quali circostanze si trovava già da prima della guerra a Orsogna, dove svolgeva un ruolo importante a servizio del parroco e in generale nella vita della parrocchia: era una donna ormai abbastanza avanti negli anni, assai devota e dal cuore veramente buono! Non so se avessi, come si dice in questi casi, la vocazione, sta di fatto comunque che mi incamminai animato da grande convinzione per una strada che cambiò radicalmente la mia vita, finché le irrequietudini e i turbamenti dell’adolescenza non mi spinsero a lasciare il seminario e a continuare gli studi presso il liceo classico di Lanciano. Al di là in ogni modo di questo esito, il seminario fu per me una esperienza formativa fondamentale, sia dal punto di vista intellettuale che morale, che ho sempre considerata altamente positiva e che mi è sempre stata di grande aiuto anche nella costruzione negli anni successivi del mio futuro. L’entrata in seminario pose in pratica, almeno per me, la parola fine alla lunga e 35 travagliata vicenda della guerra e del dopoguerra che ho cercato di raccontare in queste pagine. Ma, come accadeva una volta anche nei romanzi, non può mancare a questo punto, mie care nipoti, una piccola morale conclusiva, a vostra edificazione naturalmente. E quale può essere questa morale, se non la lezione di libertà che ci viene anche dalla più grande tragedia del ‘900, quale appunto è stata la seconda guerra mondiale, una guerra tra le più violente e sanguinose che la storia ricordi? La guerra fu una scelta del nazismo e del fascismo, nella illusione di ridurre il mondo ai propri piedi e fondare su questo un potere dispotico sui popoli vinti, con il soffocamento, per chissà quanto tempo, di ogni libertà e democrazia come già era avvenuto in Italia e in Germania prima della guerra. Ma per fortuna, grazie al sacrificio di milioni di uomini e donne, le cose andarono diversamente e il folle sogno di Hitler, il sanguinario capo della Germania nazista, fu sconfitto! La guerra, mie care nipoti, è sempre una bruttissima cosa, soprattutto per i bambini, perciò bisogna sempre darsi da fare per impedire lo scoppio di nuove guerre, mantenere la pace e risolvere i contrasti tra i popoli con l’arma della politica e del dialogo. Ma quando c’è chi ti costringe a ricorrere alla forza, ad accettare la sfida della guerra, come è accaduto con il fascismo e il nazismo per scongiurare l’incubo di una vita da schiavi, non bisogna tirarsi indietro, altrimenti i prepotenti avranno sempre ragione e l’avranno sempre vinta. Certo, la cosa migliore è prevenire e lavorare con tenacia e convinzione perché i prepotenti e i malintenzionati siano costretti a rigare dritto, purtroppo però non sempre un tale obiettivo viene raggiunto e allora succedono i disastri. Tuttavia, anche in queste circostanze non bisogna rassegnarsi facilmente, occorre al contrario insistere finché è possibile nella ricerca del dialogo, e solo quando non vi sono più altre strade da percorrere imboccare quella del ricorso alla forza. La politica, checché ne pensino o dicano gli ignoranti e coloro che speculano sull’ignoranza, è l’unico, reale strumento che può imbrigliare e sconfiggere chi lavora contro la pace e si propone di rendere schiavi gli altri uomini. Ritorniamo così a Tucidide: il cittadino che si interessa agli affari politici fa cosa utile per sé, per la città e per il mondo e contribuisce in questo modo ad aprire nuovi orizzonti di progresso alla civiltà umana. In fondo, questa è la morale, non tanto piccola poi, che si può trarre da un momento così altamente drammatico della storia più recente del mondo contemporaneo: la democrazia, a guardar bene, è la vera, grande risorsa del nostro tempo che può aiutare gli uomini a sconfiggere i prepotenti e a costruire un futuro di pace e di giustizia per gli individui e i popoli, facendo vivere il dialogo tra di loro e non lo scontro; ed è proprio nella democrazia la garanzia della pace e della solidarietà tra gli uomini. Ma che cos’è la democrazia (e la politica) se non soprattutto, assieme a regole e istituzioni, proprio questo interessarsi, come dice Tucidide, da parte di ogni cittadino dei problemi del proprio paese e del mondo? 36 Capitolo II I miei primi rapporti con il PCI risalgono all’estate del 1952, a distanza quindi di appena qualche mese dal mio ritorno a Orsogna, dopo l’abbandono -nel marzo di quell’annodel seminario. Le circostanze che portarono a questo incontro furono per la verità del tutto casuali e anche, se volete, banali, esso tuttavia segnò una svolta profonda e definitiva nella mia vita. Per l’età che avevo, poco più di diciassette anni, ma anche per la estraneità della vita di seminario rispetto alle vicende politiche e sociali del Paese che pure in quegli anni si presentavano spesso con risvolti assai drammatici e coinvolgevano in termini di forte passione politica tantissima parte della società italiana, mai avrei pensato che il mio approdo, dopo l’esperienza del seminario, sarebbe stato il PCI. Negli anni del seminario, infatti, di ciò che avveniva all’esterno appena qualche eco, molto ovattata, arrivava a volte fino a noi. Ad esempio, ricordo che giunse anche a noi, all’interno dei grandi e chiassosi cameroni nei quali vivevamo la nostra adolescenza, l’eco della vittoria della DC nel ’48 sul Fronte popolare, ma si trattava di un fatto del tutto eccezionale a cui comunque noi ragazzi non demmo alcuna importanza: normalmente, la nostra giornata (o meglio: la nostra vita) era fatta di preghiera, studio, gioco. In fondo, eravamo solo una frotta, assai numerosa allora, di ragazzini il cui sogno era quello di diventare sacerdoti e che a ciò che avveniva fuori del grande palazzone che ci ospitava, addossato alle mura della cattedrale, non pensavamo neppure lontanamente; né forse ce ne importava molto! L’episodio che produsse una simile svolta nella mia vita accadde, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, all’interno dello stanzone parrocchiale nel quale si trovava il tavolo da ping pong dove i ragazzi che frequentavano la parrocchia si trattenevano a giocare. In quei giorni anch’io passavo molto del mio tempo a giocare a ping pong. Dopo l’uscita dal seminario avevo, infatti, continuato a recarmi regolarmente in parrocchia, anche se non partecipavo più alle funzioni religiose. Non si trattava di una scelta quanto piuttosto di un fatto, per così dire, inerziale. Diciamolo francamente: anche se di ciò non ricordo che avessi una particolare consapevolezza, in realtà c’era in questo la mia difficoltà a intessere, in un breve giro di tempo, altre relazioni, fare nuove conoscenze fuori dall’ambiente che era stato fino a quel momento il mio, imparare a impiegare diversamente il mio tempo. Negli anni del seminario, anche quando durante i mesi estivi tornavamo in paese per le vacanze, la nostra giornata se ne andava in pratica tra la casa e la chiesa madre di S. Nicola: la mattina, a partire da un’ora quasi antelucana, impegnati a servire messa fino a mezzogiorno, nel tardo pomeriggio di nuovo in chiesa per le funzioni della sera. Uso il plurale, perché all’epoca i seminaristi, a Orsogna, erano un bel numero: almeno cinque che io ricordi, forse sei. Ancora oggi, appesa al muro del mio studio, conservo una fotografia nella quale siamo 37 tutti raccolti attorno a don Vincenzo. Manca solo Nandino che era il più grande della compagnia. Tra i chierichetti, poi, c’è Ruccucce che entrò in seminario qualche anno più tardi e si fece davvero prete: don Ferdinando e don Rocco furono, anzi, gli unici a raggiungere il sacerdozio, mentre tutti gli altri, uno dopo l’altro, presero altre strade. Insomma, non c’era proprio molto tempo per fare altre cose, e passavamo così la gran parte dell’estate quasi sempre in compagnia delle stesse persone. Continuare a frequentare la parrocchia, anche dopo l’abbandono degli abiti da seminarista, fu per me quindi del tutto naturale, frutto di un’abitudine ormai antica; e sinceramente non mi sarei mai aspettato che qualcuno, a partire dal parroco, potesse un bel giorno eccepire sulla mia presenza in quei locali e che mi sarebbe potuto accadere quel che poi mi accadde. Ma che cosa avvenne esattamente quel giorno, tra la primavera e l’estate del 1952? Una cosa per me davvero singolare, che mi prese alla sprovvista e mi lasciò senza parole, e cioè che don Vincenzo, che era già divenuto il nuovo parroco di S. Nicola e con il quale avevo una certa dimestichezza sin da ragazzino, mi cacciasse letteralmente dalla parrocchia proibendomi di rimettervi piede. Non ricordo affatto che cosa avesse scatenato in quel momento la sua ira, ricordo solo che mi aggredì in un modo violento e che non ammetteva obiezioni di sorta: sembrava, nella sua furia, l’arcangelo, che vediamo raffigurato in tante pitture, che caccia, con la spada sguainata e fiammeggiante, Adamo ed Eva dal paradiso terrestre! Ricordo ancora che io me ne andai senza fiatare e che da allora non rimisi più piede né in chiesa né nei locali della parrocchia. Neppure don Vincenzo mi rivolse, da allora, più la parola, anzi quando gli capitava di incontrarmi per il paese si girava puntualmente dall’altra parte, con uno scatto imperioso e collerico della testa! Fu, insomma, una separazione con inimicizia, che è durata fino al 1985, quando venni eletto sindaco di Orsogna. Quell’anno, già nel corso della campagna elettorale, don Vincenzo, che non si era mai preso molto con il candidato sindaco della DC, si atteggiò nei confronti miei e della lista che capeggiavo in maniera non ostile, atteggiamento che, dopo la nostra vittoria, si tramutò, sia pure a distanza di qualche mese, in una ripresa di rapporti e di amicizia che non sono poi mai più venuti meno, fino alla sua morte. Non dimenticherò mai anzi, a questo proposito, un episodio che allora mi colpì molto. A Orsogna c’è l’usanza che la sera del 31 dicembre il sindaco, assieme alla giunta e ai consiglieri comunali, partecipi con il gonfalone del Comune portato dai vigili urbani in grande uniforme al Te Deum di ringraziamento celebrato nella chiesa di S. Nicola. Molti si aspettavano che io non andassi (i pregiudizi nei confronti dei comunisti, ancora in quegli anni, erano davvero duri a morire), io invece stetti alla tradizione e mi recai in chiesa con la giunta e il Consiglio comunale. Assistemmo alla funzione religiosa in prima fila, tra la curiosità della grandissima folla presente, ma quando ormai essa volgeva al termine avvenne qualcosa che colse di sorpresa un po’ tutti ma soprattutto me: don Vincenzo lascia l’altare, scende i gradini che separano l’altare dallo spazio riservato ai fedeli e viene a stringermi la mano! Lo fece, tra l’altro, in maniera piuttosto plateale e anche calorosa, come era d’altra parte nel suo carattere. 38 Dopo di allora l’andai a trovare diverse volte in parrocchia, così come mi recai in ospedale a salutarlo quando fu assalito dal male che doveva portarlo alla morte; e nel periodo in cui io fui sindaco trovammo anche il modo di fargli avere dal Comune un cospicuo contributo (che la Regione gli aveva negato) per lavori di restauro della chiesa e dei locali parrocchiali. In realtà, quello che spinse don Vincenzo a cacciarmi dalla parrocchia nel 1952 e poi, nel 1985, a ritrovare con me un rapporto di amicizia era, in tutte e due le circostanze, quel suo carattere fortemente passionale che si esprimeva a volte in grandi atti di generosità e altre volte invece lo rendeva preda di furie improvvise e violente e anche di risentimenti profondi e duraturi. Don Vincenzo aveva scommesso molto sulla mia vocazione e sul fatto che io arrivassi fino al traguardo, e quando ciò non avvenne egli si sentì come tradito. La sua reazione non fu immediata, ma questo non fece che rendere ancora più esplosivo il rancore nei miei confronti che intanto si andava accumulando dentro di lui e che, alla prima occasione, non poteva non deflagrare, e proprio nel modo assordante che ho ricordato. In seminario io ero uno dei seminaristi più promettenti: mi impegnavo sempre con scrupolo e intelligenza nelle cose da fare, avevo buoni rapporti con gli altri ragazzi e andavo bene negli studi, vinsi anzi quando passai nel seminario regionale, all’inizio del primo liceo, addirittura un concorso di poesia con una lunga canzone di tipo petrarchesco ispirata nel titolo al Faust (il titolo era infatti Margherita all’arcolaio) e nei contenuti, oltre che al monologo disperato di Margherita davanti all’arcolaio, sola nella sua stanza, alla canzone alla Vergine del Petrarca. Ricordo ancora la sera in cui avvenne la premiazione per la conquista dell’alloro poetico: eravamo nell’aula magna del seminario, ed erano presenti tutti, i seminaristi che frequentavano il liceo, gli studenti di teologia, i professori e anche molti ospiti esterni! La sua delusione quindi fu, per questo, ancora più cocente. Ma io non potevo farci proprio niente, quel che mi spingeva sia pure in modo molto confuso a lasciare il seminario aveva messo ormai radici così profonde dentro di me che neppure per un istante, quando decisi di andarmene, fui toccato dal dubbio circa la giustezza della scelta che stavo compiendo, una scelta tra l’altro, a ripensarci oggi con il senno del poi, anche azzardata, visti i tempi, che poteva finire anche col perdermi. Quando mi risolsi a un passo così impegnativo, non pensai anzi neanche per un momento a queste cose e neppure mi preoccupai di come avrebbero reagito i miei genitori o la gente, anche perché a quell’età si ha, per fortuna, sempre una grande fiducia in se stessi e nel proprio avvenire, almeno io l’avevo. La mia decisione obbedì soltanto alle mie ragioni più profonde, molto legate all’età ma anche ad alcuni interrogativi che già allora, dopo l’inizio dello studio della filosofia, cominciavo a pormi, e a porre anche agli altri: interrogativi che mettevano in discussione tante certezze, compresa la scelta di entrare in seminario, compiuta cinque anni prima quand’ero poco più che un bambino. Dopo la mia cacciata dall’Eden, cominciai a frequentare il gruppo dei comunisti di Orsogna, che non era particolarmente numeroso e non godeva a quel tempo neppure di 39 un grande consenso elettorale. In paese, i più forti a sinistra erano allora i socialisti, continuando una tradizione che risaliva a prima del fascismo, poi vi era una notevole presenza repubblicana che sul piano amministrativo si faceva addirittura maggioritaria rispetto alle altre forze politiche locali, tanto è vero che il PRI ha amministrato il Comune dal 1946 (in questa occasione, in coalizione con la DC) fino al 1960, i comunisti invece venivano al terzo posto e ancora alle elezioni per la Camera dei deputati del 1953 essi superavano di poco i 200 voti, mentre i socialisti erano oltre i 1000 voti e i repubblicani oltre i 700. Nonostante questa evidente debolezza rispetto al PSI e persino al PRI che, salvo alcune isole (come Lanciano e, fino alla fine degli anni ‘50, appunto Orsogna), era altrove debolissimo, la presenza dei comunisti era tuttavia ugualmente una presenza vivace che però non riusciva a trasformarsi in consenso elettorale, principalmente per la mancanza nelle loro fila di un leader locale forte e riconosciuto. In genere, a quei tempi, la forza organizzata dai comunisti nelle sezioni, e di conseguenza la composizione dei loro organismi direttivi sezionali e delle liste per le elezioni amministrative, era fatta di contadini e lavoratori generici (rappresentavano la grande maggioranza degli iscritti), artigiani, qualche commerciante e solo raramente qualche professionista. Certo non stava soltanto in questo la ragione degli scarsi consensi elettorali raccolti dai comunisti a Orsogna come in tantissimi altri comuni dell’Abruzzo e del Mezzogiorno: pesavano molto anche altri motivi, che in parte dovevano venir meno negli anni successivi, in particolare pesava la forte chiusura settaria che allora li distingueva, indotta anche dall’asprezza dei contrasti politici e sociali del tempo. Bene, fu proprio con loro comunque che mi ritrovai a quel punto della mia vita. E non nascondo che anche quel loro settarismo, almeno nei primi tempi, aveva su di me un forte fascino perché lo consideravo come la necessaria espressione del rigore, della coerenza e della determinazione indispensabili per portare a compimento una grande impresa di trasformazione del mondo come, ai tempi della rivoluzione francese, era avvenuto con Robespierre e Saint-Just (ho sempre avuto, anzi, una grande ammirazione soprattutto per Robespierre, fino al punto da chiamare Massimiliano il nostro primo figlio, con grande disappunto -ce lo confessò mia madre molti anni dopo- di mio padre che si aspettava Domenico, com’era d’uso a quei tempi, mentre il secondo figlio lo chiamammo Stefano perché era un nome che suonava bene e mi piaceva il suo significato principale in greco: corona, serto, ghirlanda). Per la verità, l’incontro con i comunisti di Orsogna non fu una mia scelta: furono invece alcuni di loro, che avevano saputo dell’episodio accaduto in parrocchia, che mi avvicinarono; ma io accettai subito e volentieri, così d’istinto, la profferta di amicizia che essi mi fecero. I comunisti all’epoca non godevano di buona fama, non solo tra i ceti bene dei nostri paesi ma anche tra tanta parte del popolino, i peggiori da questo punto di vista erano anzi i più poveri e i più ignoranti. Tra i ceti popolari, a dire il vero, c’era anche molta gente in buona fede, convinta tuttavia che comunque i comunisti andavano evitati e tenuti lontani, tanto che -poco tempo dopo i fatti che ho ricordato- una brava donna che conosceva mia madre e che mi 40 vedeva spesso assieme a noti comunisti del paese, un giorno incontrandola le si rivolse tutta scandalizzata (e anche preoccupata) dicendole: A Marì (Maria era il nome di mia madre), ma come! Chi lu bone fijje (che ero io) mo’ z’à messe ‘nghe li comuniste!, quasi mi fossi lasciato intrappolare in una compagnia particolarmente pericolosa. Per fortuna mia madre non si scompose e le replicò a tono: Mio figlio sa bene quello che fa. In realtà però, da un certo punto di vista, quella compagnia era davvero pericolosa. A quei tempi (e ancora, bisogna dire, nei decenni successivi, fino all’inizio degli anni ‘70) le discriminazioni di ogni genere nei confronti dei comunisti facevano, senza scandalo alcuno per la maggioranza della gente, parte del normale panorama dell’epoca. Pio XII aveva perfino provveduto a scomunicare i comunisti e chiunque fosse loro alleato, per cui è accaduto anche che qualche (rarissimo) parroco di paese, particolarmente zelante, non ne ammettesse i figli alla cresima o alla comunione, riscuotendo però in genere una diffusa disapprovazione perché allora si verificava anche questo, e cioè che la repulsa nei confronti dei comunisti non si traduceva di solito mai in una disistima verso i singoli. Spesso, anzi, capitava di sentir dire: E’ un bravo lavoratore; oppure: E’ un buon padre di famiglia, peccato che sia un comunista! Eh sì, anche questo erano quei tempi…! Fino a qualche anno prima, tuttavia, le cose in Italia non stavano in questo modo. Durante la Resistenza e la lotta contro il fascismo e negli anni seguiti alla liberazione dell’Italia dai tedeschi, c’era collaborazione tra le forze antifasciste e tutte assieme esse erano al governo del Paese. Le cose cambiarono all’indomani della rottura tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la crisi dell’alleanza contro il nazi-fascismo che aveva consentito di sconfiggere Hitler e di riportare la pace e la libertà in Europa e nel mondo. Era l’inizio della guerra fredda che doveva portare alla divisione in due dell’Europa e del mondo per quasi mezzo secolo, fino alla sconfitta dell’URSS e alla sua dissoluzione dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Gli effetti di questa rottura seguirono a catena anche in Italia: i comunisti e i socialisti furono cacciati dal governo, su sollecitazione degli Stati Uniti, e si determinò un clima di contrapposizione frontale che ebbe il suo culmine nelle elezioni politiche del 1948. Nel ‘48, a fronteggiarsi erano da un lato il Fronte popolare (socialisti e comunisti uniti), con la testa di Garibaldi come simbolo, e dall’altro la DC, con quello dello scudo crociato. La partita finì con la vittoria della DC, ottenuta soprattutto al Sud e grazie a una mobilitazione straordinaria della chiesa, e la sconfitta del Fronte popolare che però non solo non fu umiliato ma riuscì a raccogliere una messe di voti pari a oltre un terzo dell’elettorato e che era maggioritaria in alcune grandi regioni del centro-nord. I veleni del ’48, quando dei comunisti si diceva perfino che mangiavano i bambini (guarda caso, si tratta della stessa accusa che tra i romani circolava nei confronti dei cristiani, ma anche dei seguaci di altre religioni, nei primi tempi della diffusione del cristianesimo), continuarono tuttavia ad agire in profondità anche nei decenni successivi. Più in generale, poi, l’asprezza della lotta politica e sociale di quegli anni -le lotte per il lavoro, gli scioperi a rovescio, la repressione scelbiana e i lavoratori ammazzati dalle forze dell’ordine durante le lotte per rivendicare il lavoro o la terra-, a cui si aggiungeva anche la violenza dello scontro a livello internazionale tra Stati Uniti e Unione Sovietica, 41 non faceva che rendere ancora più incandescente il clima del Paese. Tutto questo naturalmente non poteva non inoculare in strati larghi della popolazione, anche tra persone del tutto aliene da simili eccessi, se non odio quanto meno una diffidenza profonda e diffusa nei confronti dei comunisti. L’anticomunismo di quegli anni è, anzi, penetrato così addentro nelle viscere della società italiana che esso per molti aspetti agisce ancora oggi contro la sinistra, quando il PCI non esiste più e l’URSS è ormai scomparsa da tempo. L’incontro con il PCI significò naturalmente, in primo luogo, che cambiò la gente che frequentavo e che nuove furono le mie amicizie come anche il modo di passare il mio tempo: molte discussioni, soprattutto con Bonaldo, l’unico studente universitario iscritto alla sezione, molte passeggiate per il bellissimo viale alberato che attraversa longitudinalmente Orsogna (è la sede del vecchio tratturo, all’epoca della transumanza delle greggi), molte partite a scopa e a tressette al bar di Casullo o alla cantina di Staccone; e, tra passeggiate discussioni e partite a carte, incominciai pure a imparare le cose, anche spicciole, della politica e del modo di far politica. Il bar di Casullo, che oggi non c’è più (come anche la cantina di Staccone), si trovava all’inizio del viale intitolato a Raffaele Paolucci, sulla destra per chi va verso la stazione, a ridosso della grande piazza centrale di Orsogna, e affacciava direttamente sul larghissimo marciapiede che accompagna il viale; ed era a quei tempi il luogo di ritrovo dei comunisti e dei socialisti, mentre i democristiani e in genere la gente bene frequentavano altri bar o l’Enal, il vecchio dopolavoro fascista, che disponeva di locali ampi e accoglienti e che, per democratizzarsi e divenire un punto d’incontro per tutti, a prescindere dal censo e dagli orientamenti politici di ciascuno, dovette aspettare ancora più di un decennio. All’epoca, infatti, ognuno aveva i suoi locali pubblici. E anche per questo i bar erano molto frequentati, come anche alcune cantine (a Orsogna, oltre a quella di Staccone, c’erano anche quelle di Ciccone e di Bacane) che resistevano ancora all’ondata modernizzatrice del dopoguerra: anche perché non c’erano altri punti di ritrovo e, poi, non era ancora arrivata la TV a rinchiudere la sera la gente in casa. La TV da noi fece la sua comparsa tra il ’55 e il ’56 e, poiché solo pochissimi potevano permettersi di avere un televisore in casa, il suo arrivo nei primi anni accentuò ancora di più il ruolo dei bar trasformandoli in luoghi di ritrovo collettivi, con la presenza qualche volta anche delle donne in occasione di programmi molto popolari. Proprio per questa loro funzione, nei paesi i bar avevano quindi una grande importanza anche dal punto di vista della politica locale: lì si veniva a conoscenza e si discuteva dei fatti, pubblici e privati, accaduti in paese, lì si formavano opinioni e posizioni politiche che poi giravano tra la popolazione, lì si decidevano molte volte anche le cose da fare da parte dei partiti. Dal punto di vista politico, parecchia importanza aveva a quei tempi anche quello che un compagno di spirito, un po’ bizzarro ma simpatico, chiamava il controllo della piazza. In genere, in piazza, soprattutto la domenica e i giorni di festa, si formavano numerosi capannelli dove si discuteva di tutto, assai spesso anche di politica; e di solito, quando era la politica a tenere banco, ai capannelli si accodavano molti curiosi che ascoltavano 42 soltanto, senza partecipare alla discussione. La piazza diventava perciò anch’essa, come i bar, uno dei punti cruciali per propagandare le proprie idee e conquistare consensi, se si sapeva stare nei capannelli. A Orsogna, anzi, il compagno spiritoso e bizzarro che ho prima ricordato teorizzava addirittura come essenziale questa presenza per vincere le elezioni e comunque per tenere botta nei confronti degli avversari: presidiare la piazza, insomma, come metafora di una delle casematte da cui far partire e far arrivare messaggi tra il grosso pubblico! I comizi in piazza erano naturalmente un’altra cosa; e spesso essi avevano veramente una grandissima influenza sul risultato elettorale e nella formazione degli orientamenti dell’opinione pubblica. I comizi, infatti, all’epoca richiamavano quasi sempre un pubblico assai numeroso, soprattutto durante le campagne elettorali, e la ragione era semplice: i comizi rappresentavano una delle poche occasioni per la grande maggioranza della gente di venire a conoscenza di fatti e cose che altrimenti avrebbe ignorato o attorno ai quali non avrebbe saputo diversamente formarsi alcuna opinione. Noi comunisti (non così gli altri partiti, soprattutto la DC che preferiva utilizzare altri canali nel rapporto con la gente) ne tenevamo spesso anche durante l’anno, perché per noi il comizio era uno strumento davvero fondamentale, così, ogni volta che vi erano avvenimenti di grande rilievo nazionale o internazionale, si convocava il comizio; e di solito c’era sempre una buona presenza di pubblico. L’incontro con il PCI non cambiò soltanto le mie amicizie e i miei modi di vita. Esso incise anche, e profondamente, sulla mia formazione, assieme agli studi che avrei ripreso di lì a qualche mese frequentando il secondo anno del liceo classico a Lanciano, e mutò alla radice i miei orizzonti culturali e di vita. In altre parole, cominciai allora a percepire e comprendere cose che, pur avendole prima ugualmente sotto gli occhi, tuttavia non avvertivo o non comprendevo, di conseguenza una trasformazione radicale subì anche il mio rapporto con la vita di tutti i giorni e i problemi della gente. A provocare questa mia diversa sensibilità ebbe naturalmente la sua importanza la vicinanza e anche la comunanza con gente che quotidianamente si scontrava con problemi assillanti come quelli del lavoro o con condizioni di vita difficili per sé e la propria famiglia. A questa realtà intessuta fondamentalmente di miseria e fatica, ma anche di subalternità culturale e politica nei confronti dei ceti dominanti, non sfuggiva del resto la mia stessa famiglia e neppure quella dei miei parenti, ma solo adesso iniziavo a percepirla e viverla in maniera diversa dal passato. Cominciò così a maturare dentro di me, sia pure in modo assai vago e approssimativo, un forte sentimento di protesta e di rifiuto di una società e di uno Stato che producevano disuguaglianze e ingiustizie profonde e diffuse, soprattutto nel Mezzogiorno, di cui all’epoca anche i nostri paesi portavano ben evidenti le stimmate: qui la secolare arretratezza non solo economica e sociale ma anche culturale rispetto al resto dell’Italia e la persistente incapacità delle masse popolari di sottrarsi al dominio dei gruppi dominanti rendeva questo stato di cose ancora più intollerabile. 43 Insomma, sia pure confusamente, cominciavo ad avvertire, come una esigenza morale prima che politica, la necessità di combattere queste disuguaglianze e ingiustizie e lottare per una società fondata su nuovi valori di uguaglianza e di libertà per tutti e non solo per pochi; e man mano che si allargava la mia conoscenza, anche attraverso nuove letture, delle idee di fondo che muovevano i comunisti e del ruolo che essi stavano giocando nella vita del Paese e del mondo, a partire dalla rivoluzione russa dell’ottobre 1917, mi convincevo sempre di più che l’unica forza in grado di cambiare in maniera radicale e definitiva questo stato di cose era appunto quella comunista. La verità è che il ruolo e l’influenza dei comunisti nella vita dell’Italia andavano, in quegli anni, crescendo sempre di più; e sempre di più essi diventavano il punto di riferimento, oltre che delle masse operaie e lavoratrici, anche delle forze più vive e innovative della cultura italiana: stavano diventando insomma, sia sul piano politico e culturale che delle grandi battaglie civili e sociali che segnarono la storia dei primi anni ‘50 in particolare nel Mezzogiorno, i protagonisti principali e più determinati di quel vasto movimento che si batteva per trasformare e rendere più moderna e giusta l’Italia. La stessa storia elettorale di quegli anni, che vede il sorpasso, divenuto poi stabile e definitivo, dei comunisti rispetto ai socialisti, ne è la testimonianza. All’indomani della liberazione, nelle prime elezioni del dopoguerra, il Partito socialista riscuoteva ancora un consenso elettorale assai più elevato di quello che andava ai comunisti, ma già con le elezioni del ’48 il rapporto di forza tra i due partiti della sinistra, alleati tra di loro attraverso il patto di unità d’azione, era mutato a vantaggio dei comunisti; e ciò fu solo l’inizio di un processo che doveva portare il PCI a diventare di gran lunga il più forte partito della sinistra italiana e anche il più forte dei partiti comunisti dell’Occidente. Tutto questo non avvenne naturalmente per caso, ma fu il frutto sia del ruolo svolto dai comunisti nella lotta contro il fascismo e durante la Resistenza sia, all’indomani della liberazione, della grande coerenza, ma anche realismo, che contraddistinse il loro impegno nella battaglia per la conquista della Repubblica e della Costituzione e per la costruzione di uno Stato fondato sulla democrazia e sulla partecipazione. Questo ruolo dei comunisti fu possibile grazie alla riflessione di Antonio Gramsci negli anni del carcere e, poi, per le scelte compiute, anche (e forse soprattutto) grazie a questa riflessione, da Palmiro Togliatti, dopo il suo rientro in Italia, a partire da quella che fu chiamata la svolta di Salerno. Togliatti, sta qui forse il suo merito più grande, fece del PCI un partito profondamente nazionale, anche se legato nello stesso tempo all’URSS e al movimento comunista internazionale; e ne fondò la peculiare funzione nella vita dell’Italia moderna puntando essenzialmente sulla prospettiva della costruzione di una democrazia avanzata e partecipata, assai lontana -anzi in contrasto- dai modelli che si erano imposti nei Paesi controllati dall’Unione Sovietica, con una caratterizzazione della presenza del PCI anche come grande movimento culturale, oltre che politico, le cui radici risalivano fino alle migliori tradizioni delle correnti progressiste e di sinistra del Risorgimento italiano. La scoperta del PCI da parte mia avvenne dunque in una temperie culturale e politica sempre più fortemente segnata dalla presenza dei comunisti e nel contesto di una realtà difficile e anche per certi aspetti drammatica quale era allora quella del Mezzogiorno e 44 dello stesso Abruzzo; e tutto ciò non poteva non portarmi a compiere, in primo luogo, la scelta di militare attivamente nel partito e successivamente le altre scelte, ancora più impegnative, che poi ho compiuto. Sono convinto che, a spingermi in questa direzione, ha avuto la sua importanza anche quella tensione morale che mi portò, essendo poco più che un bambino, a entrare in seminario e che segnò comunque la mia esperienza di seminarista, esperienza che mi è sempre rimasta dentro come un aspetto nient’affatto marginale del mio modo di essere. La stessa decisione di diventare funzionario di partito o, meglio, per usare l’espressione del tempo, rivoluzionario di professione, ha probabilmente anch’essa il suo punto di partenza proprio in questa esperienza, soltanto che questa volta il terreno scelto per il mio impegno totale a servizio di una grande idea di trasformazione della società riguardava non più un mondo fuori del tempo e della storia ma il concreto mondo degli uomini, con tutte le loro aspirazioni e i loro problemi anch’essi molto concreti. Giorgio Amendola, in un suo libro molto bello del 1976, definì nel titolo stesso del libro, Una scelta di vita, il senso più profondo della duplice scelta che un grande intellettuale come lui ebbe il coraggio di fare negli anni difficili della clandestinità: la scelta del PCI, lui figlio del liberale Giovanni Amendola morto a seguito di una aggressione subìta dai fascisti, e quindi quella di funzionario del PCI clandestino, nell’Italia ancora sotto il tallone del fascismo. Quella definizione fa emergere appunto, con grande forza, il senso di un impegno che coinvolgeva, in tutti i suoi aspetti e in modo totale, la vita di chi la compiva, votandola a una causa collettiva a scapito di una prospettiva tutta individuale, e che richiedeva perciò, proprio per questo, una grande tensione morale, oltre che una grande consapevolezza politica e ideale. Negli anni più recenti qualche intellettuale, anche di sinistra, ha rilanciato, nei confronti dei funzionari di partito, polemiche per la verità non nuove tentando di rappresentarli come uomini votati solo a difendere in ogni modo il potere e individuando in essi uno degli ostacoli principali al rinnovamento della sinistra. L’accusa è profondamente ingiusta e caricaturale. Anzi, credo di poter rivendicare con orgoglio il valore politico e ideale di questa scelta della mia gioventù, proprio alla luce del grandissimo contributo dato dai comunisti al progresso civile e sociale dell’Italia, e come me possono farlo quei tanti che in ogni parte del Paese compirono una identica scelta. Certo, oggi non ha più senso un partito con le caratteristiche avute dal PCI, perché i tempi richiedono un partito più agile e flessibile, ma ciò non inficia in nessun modo il grande ruolo svolto dai funzionari di partito -che costituivano l’ossatura fondamentale dei gruppi dirigenti del PCI- sia nella storia del comunismo italiano che in quella dell’Italia negli ultimi cinquanta anni del XX secolo. Senza di loro, difficilmente il PCI sarebbe diventato il grande partito che è diventato e altrettanto difficilmente il suo ruolo nella storia dell’Italia moderna e nella promozione e rinnovamento della democrazia italiana sarebbe stato dell’importanza che conosciamo. Ostacoli al rinnovamento della sinistra? Finché le condizioni storiche nazionali e internazionali ne hanno consentito la esistenza, 45 è innanzitutto ad essi che il PCI deve la sua capacità di rinnovare via via i contenuti, anche culturali, della sua politica e del suo rapporto con il popolo italiano. Se poi, però, com’è probabile, per rinnovamento della sinistra si intendono prospettive politiche e culturali che volta a volta, nei cinquanta anni trascorsi, hanno agitato pezzi della sinistra ma che la storia stessa ha puntualmente sconfitto, è chiaro allora che il discorso diventa un altro! Ma poi, chi erano veramente i funzionari di partito? Essi erano, allo stesso tempo, impiegati, dirigenti politici, agitatori sociali, propagandisti, ecc., insomma intellettuali organici, come si diceva una volta, che mettevano a disposizione del partito e della causa per la quale lottavano tutte le proprie capacità intellettuali e di lavoro e la propria cultura. Per giunta, essi conducevano una vita assai grama dal punto di vista della loro condizione economica, anzi fino a quasi l’inizio degli anni ’60 molte volte non disponevano neppure dei soldi necessari per soddisfare le esigenze più elementari proprie e delle loro famiglie (chi lo farebbe oggi?), sobbarcandosi fatiche enormi di notte e di giorno per far crescere l’Italia e migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle classi più deboli e per costruire e consolidare la presenza del partito sul territorio, rischiando qualche volta anche la galera per ragioni politiche, come ad esempio accadeva ai tempi di Scelba. Tutto questo poteva nascere solo da una carica morale e ideale non comune e forse, a ripensarci bene, essi oggi avrebbero diritto a qualche ringraziamento sia per ciò che hanno dato alla sinistra italiana sia per quel che hanno dato all’Italia! Questo radicale cambiamento nella mia vita e nella mia visione del mondo non si verificò naturalmente nel giro di qualche giorno. Esso fu il risultato di un processo lungo, anche segnato da spinte e aspirazioni a volte confuse e contraddittorie, alimentato e scandito sia dall’esperienza fatta giorno per giorno a contatto con i problemi, anche minuti, della gente e successivamente nel concreto dell’attività politica, sia dallo sforzo compiuto per cercare di chiarire e dare un senso anche teorico alle ragioni che mi avevano portato a compiere la scelta del PCI. All’epoca, nelle sezioni del PCI era possibile trovare piccole biblioteche, nelle quali erano presenti soprattutto edizioni della Universale Economica e delle Edizioni Rinascita (di esse, io conservo ancora oggi molti volumi, un po’ ingialliti e qualche volta anche malridotti dal tempo). C’erano anche opuscoli provenienti direttamente da Mosca, si trattava in genere di scritti di Lenin e Stalin e altri marxisti russi, stampati a Mosca nelle varie lingue appositamente per l’estero. Le Edizioni Rinascita erano invece direttamente legate al PCI e pubblicavano testi di Marx, Engels e di dirigenti del movimento comunista internazionale, mentre la Universale economica pubblicava autori di cultura progressista e rivoluzionaria; in particolare nella serie rossa, dedicata alla storia e alla filosofia, era possibile acquistare a prezzi bassissimi opere fondamentali nella storia della moderna cultura rivoluzionaria e progressista dell’Europa. Naturalmente non è che fossero in molti, nelle sezioni del PCI, quelli che approfittavano della presenza di queste piccole biblioteche, perché la quasi totalità degli iscritti a quei 46 tempi poteva vantare sì e no la quinta elementare e, poi, c’erano comunque la durezza del lavoro che ti aspettava il giorno dopo e la fatica di doversi alzare all’alba, solo qualcuno perciò, tra i più giovani, ogni tanto si riportava un libro a casa e tentava di leggerlo, scontando grosse difficoltà. Io fui comunque tra quelli che approfittarono subito della esistenza di queste piccole biblioteche, perché avevo il tempo per farlo, spinto tra l’altro da un’ansia di conoscenza che era stata sempre molto forte dentro di me: i libri mi hanno sempre incuriosito, sin da piccolo, anche se non potevo comprarli, poterne disporre ora senza avere il problema di acquistarli rappresentava per me una vera fortuna. A soddisfare questa mia esigenza, potei anche giovarmi della generosità di un compagno romano, il geometra Raffaele Rossi, approdato proprio in quegli anni a Orsogna, dove poi si stabilì con la famiglia, al seguito della ditta edile con la quale lavorava. Rossi mi regalò in pratica tutti i libri “politici” che possedeva: ne erano parecchi, debbo dire, ed essi rappresentarono il primo nucleo, sia pur ridottissimo, di una mia personale biblioteca al quale si aggiunsero via via i libri che cominciai a comprare proprio in quegli anni (tra questi, anche molti libri di letteratura pubblicati dalla BUR a prezzi accessibili), e che incrementai poi in maniera costante nel tempo fino a mettere in piedi una biblioteca ragguardevole quale quella che oggi mi ritrovo. Mi potei accostare così a testi che per me erano del tutto nuovi e che di fatto hanno costituito il punto di partenza e la base della mia formazione culturale successiva, assieme al nutrimento che mi è venuto dall’incontro negli anni del liceo, sempre poi rinnovato nel tempo, con la grande cultura classica greca e latina e quella italiana naturalmente, ma anche con altre culture, europee e non, soprattutto antiche. Quelle letture mi spalancarono un mondo nuovo, inedito per me che avevo alle spalle la esperienza del seminario. Negli anni del seminario, l’insegnamento che avevo ricevuto era in realtà un insegnamento molto chiuso e povero di contenuti. Che io ricordi, non esisteva nel seminario diocesano, dove avevo frequentato le scuole medie e ginnasiali, una biblioteca; e i libri a nostra disposizione erano solo quelli di scuola. Tra questi, ricordo che prediligevo in particolare le antologie di poeti e scrittori italiani che mi permettevano di avere una qualche conoscenza diretta della nostra letteratura, mi piacevano poi l’Iliade (tifavo, come tutti, ovviamente per Ettore, lo sfortunato difensore di Troia) e l’Odissea della quale mi ha sempre affascinato il fondamentale tono favolistico, per il resto ci dovevamo accontentare delle nozioni che ci forniva l’insegnamento scolastico. Io ho cominciato, ad esempio, a leggere -ma di nascosto- un romanzo quando frequentavo ormai non rammento bene se il primo o il secondo ginnasio. Si trattava de L’innocente di D’Annunzio, una lettura proibitissima e che io avevo acquistato, approfittando di una delle nostre solite passeggiate in gruppo per la città, alla libreria Minerva che allora si trovava in piazza della Trinità a Chieti: lo tenevo naturalmente sotto il materasso e ne leggevo qualche passo nelle ore più diverse ma sempre stando attento a non farmi cogliere sul fatto, aiutato in questo anche dalla complicità dei compagni di camerata. 47 Anche sul piano dell’insegnamento religioso, non è che le cose andassero meglio. In realtà non avevamo un insegnamento specifico, tutta la nostra formazione religiosa era affidata alla partecipazione giornaliera alle varie funzioni liturgiche e, all’ora di pranzo e di cena (durante i pasti, si restava in silenzio, salvo la domenica e i giorni festivi), alla lettura di passi del vangelo, delle vite dei santi e del martirologio che raccontava la vicenda tragica ma esemplare dei martiri cristiani caduti sotto le persecuzioni degli imperatori romani. Io personalmente possedevo, e tuttora posseggo, una bellissima edizione latina del Nuovo Testamento. Essa mi era capitata tra le mani appena dopo, con la fine della guerra, il nostro ritorno in paese, rovistando per caso tra i libri sparsi per terra (dai tedeschi, prima di scappare? O da qualcuno, alla caccia non certo di libri, che aveva pensato bene di approfittare del caos che c’era in quelle settimane a Orsogna?), nell’atrio di un palazzo signorile del paese, il palazzo Parladore, che si trovava a due passi dalla scalinata della chiesa di S. Nicola, sul lato opposto della strada. I libri erano tanti, probabilmente solo una piccola parte di una biblioteca molto ricca soprattutto di testi di argomento religioso, ma io mi limitai a raccogliere soltanto quel piccolo volume che mi sembrava, ed era, di particolare interesse. (Ne La vergine Anna, una delle Novelle della Pescara, D’Annunzio accenna due o tre volte a un arcivescovo di Orsogna: probabilmente si tratta di Livio Parladore, vissuto nell’Ottocento, che fu vescovo di S. Marco e Bisignano in Calabria; il nome dei Parladore è poi legato a una cappella mortuaria nella quale erano sepolti il vescovo e altri preti della famiglia, conosciuta da tutti in paese come lu casine di Munsignore: prima della guerra, la cappella si stagliava tutta sola nel bel mezzo della campagna, lungo la statale per Ortona e a poche decine di metri da essa, ma la guerra l’ha letteralmente cancellata e oggi non ne rimangono che pochi resti informi). Il mio Nuovo Testamento era una edizione di fine ‘800, di formato tascabile, così me lo potevo portare dietro quando andavamo in chiesa e leggerlo durante le funzioni religiose. Amavo in particolare leggere i vangeli dei quali mi è sempre piaciuto lo stile semplice, diretto, immediato e comprensibile a tutti, ma ero molto sedotto anche dall’Apocalisse; dei vangeli poi mi affascinavano soprattutto alcuni passi come, ad esempio, l’inizio del vangelo di S. Giovanni e le bellissime parabole. Ma queste letture, che ho coltivato anche dopo l’uscita dal seminario e l’abbandono di ogni credenza religiosa, erano tuttavia un fatto mio personale, non un obbligo, frutto innanzitutto della grande curiosità che mi portava a leggere tutto quello che trovavo. Anche il fatto che la vita che conducevamo da seminaristi si svolgesse sostanzialmente, anche quando eravamo in vacanza, fuori di un rapporto con la vita reale della gente, non contribuiva certo a stimolare in noi la esigenza di formarsi una visione più ampia del mondo; e nessuno del resto, che io ricordi, ci spinse mai a letture che andassero fuori dei tradizionali testi scolastici. Qualche sollecitazione in questo senso mi parve di coglierla all’inizio del liceo, quando iniziammo lo studio della filosofia, non so dire però quanto questa mia impressione fosse fondata perché non ebbi neppure il tempo di verificarla. 48 La nostra giornata, in sostanza, si svolgeva tutta dentro il seminario, sia fisicamente che intellettualmente; e i nostri orizzonti culturali e religiosi non ne ricevevano certo un arricchimento, come anche il nostro rapporto con la realtà. Ricordo, ad esempio, che ogni giorno, il pomeriggio, facevamo una passeggiata per la città, ma tutti in gruppo naturalmente e senza alcun contatto con i ragazzi che incontravamo per strada, seguendo di solito percorsi scarsamente frequentati; di domenica e negli altri giorni festivi si stava invece fuori più tempo e spesso andavamo a giocare a calcio nella vecchia caserma Berardi, in quegli anni utilizzata per ospitare i senza tetto, ma anche in quel caso i contatti con l’esterno erano inesistenti, giocavamo solo tra di noi. Di quel periodo, anzi, ricordo solo, come un avvenimento davvero straordinario e fuori dalla routine a cui eravamo abituati, il giorno che fummo portati ad assistere a uno spettacolo teatrale nel piccolo teatro, di proprietà del seminario, che si trovava lungo il Corso Marrucino, a poca distanza dall’incrocio con Via Arniense. Non so più di che spettacolo si trattasse, ricordo però che esso mi colpì particolarmente, soprattutto mi colpì la giovane attrice la cui immagine mi tornava frequentemente alla mente nelle settimane successive (era l’adolescenza che reclamava i suoi diritti), sia pure accompagnata da molti sensi di colpa. Il primo libro che lessi, tra quelli dei quali ora potevo disporre, forse solo per caso o forse anche perché spinto da una voglia inconscia di fare i conti con un aspetto decisivo della mia precedente esperienza, fu L’essenza del cristianesimo di L. Feuerbach, pubblicata dalla Universale Economica. A dire il vero, già nei mesi immediatamente precedenti il mio abbandono del seminario erano andati maturando in me dubbi molto forti circa i fondamenti stessi delle mie convinzioni religiose, la lettura di Feuerbach trovò così un terreno già in parte arato e disposto a ricevere la nuova semente. Di questi dubbi ricordo anche che parlavo apertamente con gli altri ragazzi, la cosa anzi preoccupò a tal punto i responsabili del seminario che, quando dissi loro che non mi sentivo più la vocazione e pensavo di andare via, non mi invitarono neppure a riflettere, come di solito accadeva in questi casi. Mi intimarono invece -senza alcuna possibilità di ripensamenti- di lasciare subito il seminario, non dandomi neanche il tempo di avvertire i miei genitori. Penseremo noi a questo, mi dissero, e così avvenne: tramite il parroco di Orsogna, informarono i miei del mio ritorno e, quando scesi dal pullman, trovai mio padre che mi aspettava in piazza e mi aiutò a riportare a casa le mie poche cose. Insomma, già nelle ultime settimane della mia permanenza in seminario non ero più quello di un tempo, e di questo fatto si erano resi conto anche quelli che mi stavano attorno, innanzitutto i miei compagni; e forse fu proprio questo, e il fatto che certamente se ne parlò anche dopo la mia andata via, che mi rese addirittura protagonista di un romanzo, scritto qualche anno dopo, da un mio compagno di vocazione, Cesarino Di Giovanni, che però aveva lasciato il seminario prima di me, alla conclusione del quinto ginnasio. Il romanzo si intitolava Un ateo in seminario, e di esso appunto io avrei ispirato il 49 personaggio principale, come mi disse non ricordo bene se l’autore stesso che poi ho perso completamente di vista o qualche altro che aveva letto il romanzo. Io purtroppo, pur avendolo cercato anche in tempi recenti, non sono mai riuscito a entrarne in possesso e quindi a leggerlo, la cosa anzi mi incuriosisce ancora oggi, spero comunque che il mio compagno di un tempo, rimasto legato agli ambienti ecclesiastici anche dopo la crisi della sua vocazione, non mi abbia trattato molto male. Dopo Feuerbach, ho letto naturalmente anche gli altri opuscoli che si trovavano nella bibliotechina della sezione o che mi erano stati regalati dal mio amico romano, soprattutto Marx, Engels, Lenin, Stalin, ecc., ma anche Voltaire, Diderot e altri autori del periodo dell’illuminismo come delle correnti rivoluzionarie pre-marxiste. Tra gli autori che ho letto in quel periodo non c’era però Gramsci: solo negli anni seguenti ho potuto leggere i Quaderni del carcere (come anche le bellissime Lettere dal carcere), nella edizione tematica fattane da Einaudi. Tra i volumetti a mia disposizione e che lessi in quel periodo c’era invece, ma non sono molto sicuro del ricordo, La questione meridionale, una raccolta di scritti di Gramsci sulla questione meridionale risalenti a prima del 1926, a prima cioè del suo arresto da parte dei fascisti e la condanna al carcere che lo portò alla morte nel 1937, il più importante dei quali -Alcuni temi della questione meridionale- lasciato incompiuto proprio a seguito dell’arresto. Ad accostarmi negli anni successivi alla riflessione di Gramsci, compiuta durante gli anni terribili della prigionia, una particolare sollecitazione mi venne dagli esiti dell’VIII Congresso nazionale del PCI. Il Congresso, che si svolse nel dicembre del 1956, appena dopo i tragici fatti d’Ungheria, partendo proprio dalla riflessione gramsciana seppe trarre da questi fatti forse l’unica lezione possibile in quegli anni di netta divisione del mondo in due blocchi contrapposti: il rifiuto dello stalinismo da un lato, la scelta della strategia della via italiana al socialismo dall’altro. Ma fu soprattutto la partecipazione, nel 1958, a un corso di formazione politica -presso la scuola centrale per quadri del PCI- a spingermi a conoscere meglio e in modo più approfondito il pensiero di Gramsci, uno dei più grandi pensatori italiani del ‘900. In queste mie letture non c’erano, per la verità, né un metodo né delle priorità, come sicuramente sarebbe stato utile; per ragioni anche facilmente comprensibili, sono stato anzi piuttosto un autodidatta, nonostante questo però quel mio primo contatto con il pensiero marxista, nelle sue varie espressioni e peculiarità, e in genere con la cultura progressista e rivoluzionaria soprattutto europea, ha comunque rappresentato un momento fondamentale della mia formazione intellettuale e culturale, che si è poi consolidata e arricchita negli anni successivi. Oggi è difficile trovare, tra i giovani, qualcuno che abbia, non dico la passione che abbiamo avuta allora noi, ma quantomeno la curiosità per un complesso di idee così ricco e storicamente fecondo, che ha influenzato e orientato le scelte, non solo di singoli e di grandi gruppi, ma anche di popoli e addirittura di Stati nel corso di tutto il XX secolo. Il tracollo, sul finire del ‘900, dell’URSS e degli altri paesi del cosiddetto socialismo 50 realizzato hanno travolto non solo una esperienza storica quale quella aperta, in Russia, dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 e successivamente, nei paesi dell’est europeo, dalla conclusione vittoriosa della seconda guerra mondiale che vide l’URSS tra le potenze vincitrici, ma anche quei movimenti, come il comunismo italiano, che avevano cercato e percorso strade diverse, e lo stesso pensiero di Marx e tante delle idee che ci vengono dall’illuminismo e da altre correnti progressiste del pensiero europeo. Eppure, ancora oggi, in un mondo globalizzato nel quale le ingiustizie e le disuguaglianze hanno raggiunto livelli inediti e colpiscono la grande parte del pianeta, quelle idee, se sfrondate da ciò che in esse vi è di caduco e di sbagliato, possono tornare ancora utili per capire ciò che accade e quale strada imboccare per uscirne. In ogni modo, per me come per le tante generazioni del ‘900 che a quelle idee si sono accostate, esse hanno avuto il merito enorme di averci aiutato a conquistare diritti e tutele che i nostri nonni e i nostri padri neppure si sognavano, contribuendo così in maniera decisiva a farci vivere in una Italia più moderna e civile. L’esito catastrofico del comunismo sovietico non cancella perciò in nessun modo il fatto che tanta parte dei progressi conosciuti dalle masse lavoratrici nel XX secolo, così come la liberazione di interi popoli dal giogo del colonialismo, si deve proprio a quelle idee e alle lotte di emancipazione, che ne sono nate, di popoli e individui. A voler essere onesti, anche la esperienza sovietica, che da quelle stesse idee è nata, in realtà non era sbagliata nei suoi obiettivi di fondo: la incapacità di coniugare democrazia e uguaglianza, ecco il punto debole, e il tarlo che ne ha provocato la rovina, di questa esperienza grandiosa e tragica del XX secolo che ha visto l’URSS e altri paesi tentare di costruire società e Stati che ispirassero la propria esistenza e la propria ragion d’essere al bisogno di libertà e uguaglianza di grandi masse di sfruttati e di oppressi. Da questo punto di vista, anzi, è avvenuto qualcosa di particolarmente paradossale, la trasformazione cioè nel loro contrario di quelle stesse idee di libertà e uguaglianza, con la conseguenza di tragedie inenarrabili che non possono certo essere dimenticate o taciute. Ma, ciò nonostante, io resto convinto che la sinistra non può non ripartire ancora una volta da esse, liberandosi naturalmente con coraggio e in modo chiaro e definitivo degli errori e delle storture che l’hanno portata nei decenni che stanno alle nostre spalle ad approdi non solo fallimentari ma anche pericolosi. Mi rendo conto che queste considerazioni possono suonare un po’ estranee e anche, forse, un po’ troppo interessate, le cose di cui parlo sono state infatti la mia vita. Ma non è così, o meglio non è solo così, c’è bisogno che, prima o poi, una sinistra che voglia tornare al centro della storia dell’Italia e, oggi, dell’Europa, ripercorra con spirito di verità questo suo passato e sappia utilizzarlo anche per il futuro. L’idea, ad esempio, che ha mosso alcuni dei protagonisti, molto vicini ad Occhetto, della trasformazione del PCI in PDS, che l’unico modo per rilanciare la sinistra era quello di ricominciare da capo, facendo tabula rasa non solo della ideologia comunista ma anche della stessa esperienza storica del PCI, non è stato solo un suicidio politico che ha disperso gratuitamente un patrimonio di lotte e di diritti conquistati di cui i comunisti italiani sono stati protagonisti ma anche il modo peggiore per fare i conti con la propria storia e aprire un capitolo nuovo. 51 Con lo stesso spirito credo che la sinistra, e in generale le forze progressiste, debbano guardare ad altri aspetti del proprio passato, ugualmente importanti per una nuova crescita democratica dell’Italia. Parlo soprattutto del ruolo avuto dai partiti di massa nella costruzione di una Italia democratica e moderna. La storia dei partiti di massa, se ci si riflette bene, in realtà fa tutt’uno con la storia di progresso conosciuta dall’Italia nella seconda metà del ‘900. Eppure, anch’essi sono finiti nel mirino di chi -compresi anche certi settori della sinistra- ha pensato di poter costruire sulle rovine del sistema politico italiano uscito dalla Resistenza e sancito dalla Costituzione repubblicana le proprie fortune. In discussione non è il fatto che i partiti di massa, che sono stati un fenomeno tipico del ‘900, abbiano ormai esaurito la propria funzione storica, a causa non solo di un mondo profondamente cambiato ma anche dei vizi e delle interne contraddizioni che ne hanno minato la credibilità dal di dentro. Il fatto inaccettabile è che si tenti di negare il ruolo grandemente positivo che essi hanno avuto, sia pure da versanti politici diversi e anche contrapposti, nel fare dell’Italia un paese moderno e progredito, con l’obiettivo, financo proclamato, di rendere marginale nella situazione attuale il ruolo che ancora una volta, sia pure in condizioni diverse e in forme rinnovate, solo i partiti possono svolgere per difendere e consolidare la democrazia italiana. Dietro questi tentativi c’è poi, oltre che una visione sbagliata e pericolosa delle forme di organizzazione della democrazia e della partecipazione dei cittadini alla politica, anche una mistificazione sul piano più strettamente storico. Che cosa, infatti, sono stati veramente i partiti del ‘900, dei quali molti oggi parlano con disprezzo e sufficienza cercando di identificarli e di ridurli a puri strumenti di potere e di corruzione come se il segno distintivo della loro presenza nella vita del Paese fosse tutta e solo racchiusa dentro la stagione di Tangentopoli? In realtà, essi sono stati molto di più che la semplice rappresentanza, dentro le istituzioni, di interessi e aspirazioni dei ceti che organizzavano. Se fossero stati solo questo, il loro ruolo ne sarebbe risultato assai meno importante di quel che storicamente è stato. I partiti di massa, almeno fino all’inizio degli anni ’80, quando si avvertono i primi scricchiolii di una crisi che doveva poi esplodere in maniera violenta e distruttiva negli anni ’90, hanno rappresentato il motore e l’architrave della democrazia italiana, lo strumento decisivo non solo per il riscatto di grandi masse oppresse e sfruttate ma anche per la formazione di una coscienza civica e democratica degli italiani che, non dimentichiamolo, uscivano dall’esperienza del fascismo. Essi, anzi, sono stati anche altro, con ricadute anche da questo punto di vista non meno rilevanti e positive per la crescita dell’Italia. Parlo innanzitutto del fatto che i partiti di massa del ‘900 hanno rappresentato il luogo privilegiato per la formazione, fuori di ogni selezione affidata al censo e all’appartenenza a ceti benestanti, delle nuove classi dirigenti del Paese e, inoltre, il tramite principale per l’apertura dell’Italia al mondo e a una visione non meschina e ristretta dell’interesse nazionale. Parlo anche del fatto che essi sono stati il vero punto di coesione e di raccordo di un Paese sempre percorso da contraddizioni profonde e da una dialettica vivace e qualche 52 volta anche da scontri violenti tra idee, posizioni e interessi assai divergenti tra loro. Naturalmente, a questo ruolo primario e complesso nella storia italiana più recente i singoli partiti hanno corrisposto in maniera diversa l’uno dall’altro, e sta alla ricerca storica individuare e definire i modi e i contenuti del contributo specifico che ciascuno di essi ha portato allo sviluppo economico sociale e civile dell’Italia nell’ultimo mezzo secolo. Ma, è questo il punto irrinunciabile, nessuno -pur nella ricerca di limiti ed errori anche gravi- può cancellare questo ruolo, sia per onestà verso il passato sia nell’interesse del futuro stesso dell’Italia. Credo, tra l’altro, che, in quel che hanno rappresentato i partiti nella storia nazionale degli ultimi cinquant’anni, vi sia anche un aspetto forse meno rilevante dal punto di vista politico ma sicuramente molto importante sul piano della vita individuale e di gruppo di tanta parte del popolo italiano. Gli iscritti ai partiti in Italia sono stati milioni, certo per molti l’impegno politico non andava al di là della semplice iscrizione, per tutti però il partito era, oltre che un punto di riferimento elettorale, anche una rete che ha consentito e favorito l’intrecciarsi di storie, rapporti, solidarietà e l’affermarsi del senso di una comune appartenenza a un mondo di valori condivisi, a una comunità solidale la cui importanza andava ben al di là della politica e che ha inciso profondamente sul grado di coesione della società italiana. Questo è stato vero, poi, soprattutto per il PCI che, più degli altri partiti di massa del ‘900, anche per le sue caratteristiche di forza fortemente ideologizzata, ha esaltato questa sua funzione di comunità solidale dove si sono intessute amicizie, relazioni personali e di gruppo, amori, ecc. Se debbo essere sincero, io ho molto sofferto per lo scioglimento del PCI e di ciò che poi ne è seguito. Non che non fosse giusta e necessaria quella scelta che io ho condiviso e per la quale anzi mi sono battuto, era una scelta inevitabile, imposta dalla storia. Il modo però come essa è stata fatta e portata avanti grida ancora vendetta; e le lacerazioni, le rotture e persino le scissioni che ne sono derivate, oltre a favorire la dispersione silenziosa di una grande massa di iscritti ed elettori, ha avuto effetti davvero devastanti anche sulla nuova immagine della sinistra, ben distante nel suo modo di essere attuale dalla caratteristica di comunità viva e solidale che è stata incarnata dal PCI. Ognuno di noi, semplici iscritti o dirigenti, a un certo punto si è ritrovato come orfano: scomparivano i luoghi e le tante occasioni di incontro che il PCI aveva sempre saputo creare, tanta gente si perdeva definitivamente di vista, soprattutto si rompeva quel legame di solidarietà che è sempre stato un grande punto di forza del PCI e dei suoi gruppi dirigenti. E’ capitato anche a me di dover ricostruire una rete di amicizie, fuori dell’ambiente -quello del partito- che per decenni era stato quasi il mio unico punto di riferimento, perché i vecchi rapporti o si erano definitivamente logorati o si erano come volatilizzati, c’era chi aveva preso strade diverse o semplicemente si era tirato fuori dalla politica ed era tornato a casa. A volte, quando penso alla dissipazione insensata che è stata fatta, oltre che di un grande patrimonio politico e ideale qual è stato quello del PCI, anche di tante energie e intelligenze e della straordinaria rete di solidarietà e relazioni costruita nel corso di circa 53 un cinquantennio, mi vengono alla mente i bellissimi versi della Dedica, soprattutto alcuni suoi passaggi, che Goethe premette al Faust (attingo alla bella traduzione in prosa, del 1835, che ne fece il patriota e letterato italiano Giovita Scalvini). Mi assale allora la stessa struggente nostalgia che pervade quei versi, quel senso della perdita e della impossibilità del ritorno di ciò che non è più che di essi costituisce la trama essenziale. E così anch’io allora mi sento preso da rimpianti e malinconie, mentre mi passano davanti agli occhi tantissime immagini di quegli anni della mia vita che si sono strettamente intrecciati con la storia del PCI: Voi mi tornate innanzi aeree immagini, già un tempo apparse al turbato mio sguardo. Tenterò ora di rattenervi? Propende ancora il mio cuore a quella illusione? Voi vi stringete intorno a me…Spira da voi un’aura incantevole che riaccende nel mio petto il fervido senso della giovinezza. Voi riconducete i fantasmi dei giorni felici; e oh quante amabili ombre mi sorgono intorno! Come un fatto per antica fama mal ricordato, mi rivive nell’anima il primo amore e la prima amicizia; i miei dolori si rinnovano: mi ripercuote il lamento che suona lungo l’avviluppato, fallace cammino della vita, e mi reca all’orecchio il nome dei buoni che, dalla fortuna defraudati dell’ore serene, sparvero dinanzi a me per sempre… Lo stuolo degli amici è disperso, e, ahi, muta è l’eco che reiterava la mia voce… Naturalmente, il modo inaccettabile con cui si è scelto di porre fine a una storia gloriosa come quella del PCI non può far passare sotto silenzio il fatto che comunque, ancora prima del suo scioglimento, nel partito i segnali di affievolimento di certi valori c’erano già tutti, sin dall’inizio degli anni ’80. Ricordo a questo proposito alcuni episodi che ho vissuto direttamente, e sulla mia pelle, proprio negli anni ’80. Il primo risale all’indomani della mia elezione a deputato, nel 1983. Quando gli organismi dirigenti della federazione di Chieti decisero la mia candidatura alla Camera dei deputati, io ero ancora nel Molise con l’incarico di segretario regionale di quella organizzazione. La decisione di candidarmi fu una decisione perfettamente in linea con la tradizione del PCI, che tra i suoi punti fermi ha sempre avuto anche quello di non abbandonare per strada chi aveva rivestito nel partito ruoli importanti e impegnativi. Dopo le elezioni, però, mi dovetti rendere conto, mio malgrado, che le cose nel partito avevano cominciato a prendere una piega inconsueta, e che il conflitto e la concorrenza all’interno dei gruppi dirigenti tendevano sempre di più a prevalere sulla solidarietà e che alla saggia pratica del rinnovamento nella continuità propugnata da Togliatti si sostituiva in modo sempre più frequente quella della emarginazione di forze ancora in grado di dare un contributo rilevante per fare spazio, si diceva, a forze nuove... 54 L’occasione fu piuttosto banale, tuttavia non meno significativa. Avendo lavorato, fino all’inizio della campagna elettorale del 1983, in Molise, io non facevo parte naturalmente degli organismi dirigenti della federazione di Chieti, Comitato federale e Comitato direttivo (quest’ultimo era l’organismo, più ristretto, che aveva in mano l’effettiva direzione della federazione). Il buon senso, oltre alla logica, avrebbe voluto che, appena tornato a Chieti, io fossi reinserito negli organismi di direzione del partito senza frapporre indugi del tutto inutili e incomprensibili, io però fui subito cooptato nel Comitato federale, per il Comitato direttivo di federazione invece dovetti aspettare ben nove mesi, eppure ero il nuovo deputato della provincia...! In più, i nuovi gruppi dirigenti provinciali, in nome di un malinteso rinnovamento che faceva premio sull’età e assai poco sulle capacità, evitavano di mandarmi nelle sezioni, salvo che non fosse indispensabile la presenza del parlamentare, mentre potevo impegnarmi tranquillamente nei tagli di nastri e cose simili perché qui nessuno poteva sostituirmi. Insomma, sembrava che la nuova parola d’ordine già in quegli anni fosse, nei rapporti interni ai gruppi dirigenti, con tutti i riflessi negativi che questo provocava sull’attività del partito, quella, fondamentalmente estranea alla storia del PCI, del mors tua vita mea! Una parola d’ordine che, purtroppo, ebbi modo di sperimentare in termini ancora più terribili qualche anno dopo, quando non fui rieletto in Parlamento, pur essendo candidato e indicato per la elezione. Un simile esito fu certamente per grande parte il frutto di logiche e scelte regionali sbagliate, anche perverse per certi aspetti; ma anche, bisogna subito aggiungere, di una assoluta incapacità di direzione dei nuovi gruppi dirigenti della federazione. Quel che, tuttavia, più contraddistinse la vicenda elettorale del 1987, quando non fui rieletto, e che più mi colpì sia politicamente sia moralmente, fu la volontà non più dissimulata di questi nuovi gruppi di farsi spazio a colpi di spada, senza alcun riguardo per nessuno. Poté così accadere in quella occasione qualcosa che non mi sarei mai aspettato, e cioè che una parte dell’apparato della federazione fosse impegnato durante la campagna elettorale -soprattutto a Chieti- a dirottare le preferenze su candidati, più amici di altri, di altre zone della regione, anziché orientarle sul mio nome come sarebbe stato logico e corretto vista la scelta unanime fatta dagli organismi dirigenti del partito e dalle sezioni! Il risultato naturalmente non poteva essere che quello annunciato (e ricordo ancora oggi la rabbia e l’amarezza di quei giorni, lenite appena dalla solidarietà di tanti compagni): la non elezione, per la prima volta nella storia politica ed elettorale della provincia di Chieti, anche se soltanto per una manciata di preferenze, del parlamentare del PCI, pur avendo il nostro partito in provincia un consenso elettorale tale in cifre assolute, rispetto alle altre province abruzzesi, da poter eleggere da solo il deputato, mentre altre federazioni non erano in grado di farlo! Nei Quaderni del carcere c’è una nota di Gramsci sui rapporti tra generazioni che mi sembra colga molto bene il modo come, nella fase conclusiva del PCI, una parte della 55 generazione più giovane si è riferita alla generazione che l’ha preceduta, anche se il problema non riguarda solo il PCI ma vale anche per l’atteggiamento di grande parte dei nuovi gruppi dirigenti del Paese nei confronti delle forze di governo e di opposizione che hanno guidato la cosiddetta Prima Repubblica. “Una generazione -scrive Gramsci- può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania di grandezza. E’ il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per distinguersi. Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente”. La trasformazione del PCI, per il modo in cui avvenne, non fece che acutizzare e rendere più rapido questo processo, sono così svaniti nel nulla valori di solidarietà, di rispetto della storia di ciascuno, dell’ascolto reciproco, della ricerca di un ruolo utile e adeguato per tutti, sono emersi invece con prepotenza modi di pensare e comportamenti che poco hanno a che vedere con la tradizione del PCI e che sono tuttora presenti nella vita dei DS, e i danni sono ben evidenti. In tempi recenti, sembra riemergere la consapevolezza della necessità di recuperare alcuni di questi valori, a cominciare da quelli della solidarietà e della responsabilità collettiva e individuale di fronte al Paese, ma sono segnali ancora molto flebili e, com’è noto, una rondine non fa primavera! 56 Capitolo III Cominciai a impegnarmi concretamente nell’attività politica, e in modo non più episodico, solo qualche tempo dopo il mio primo incontro con il PCI. Non che mi mancasse, come dire, la vocazione alla politica. Anzi, è una vocazione che mi sono scoperto molto precocemente, ancora prima del mio ingresso in seminario, ne è testimonianza un episodio di cui fui protagonista proprio qualche mese prima della mia partenza per Chieti. Siamo nella tarda primavera del 1946, al tempo del referendum istituzionale repubblicamonarchia. In giro c’è molto fermento, i comizi in piazza sono tanti e tra la gente si fa un gran parlare di monarchia e repubblica. Io allora frequentavo, ormai già da diverso tempo, la parrocchia e mi stavo preparando agli esami di ammissione alle medie in previsione appunto del seminario. Naturalmente, anche in parrocchia si parlava del referendum, non ricordo cosa ci dicessero don Vincenzo e il vecchio arciprete, ma non c’erano dubbi: la parrocchia era schierata con la monarchia, e di conseguenza anche noi chierichetti lo eravamo, anche se nessuno di noi era in grado di capirci granché in tutta la faccenda. Ma, ecco il fatto nuovo rispetto all’atteggiamento degli altri ragazzini: io decisi che bisognava fare qualcosa per far trionfare la causa della monarchia! Non ricordo affatto se fosse don Vincenzo a spingerci a questo o se addirittura lui non ne sapesse niente, sta di fatto che un bel giorno io presi con me un mio amichetto, più piccolo di me (non ne rammento neppure il nome: di lì a qualche anno egli emigrò negli Stati Uniti o, forse, in Argentina, comunque da allora non l’ho più rivisto e non ne ho saputo più niente), preparammo il materiale necessario per scrivere sui muri -allora si poteva- e attaccare i pochi manifesti scritti a mano da noi che invitavano a votare monarchia, e così la sera sull’imbrunire uscimmo per compiere la nostra impresa. La cosa tuttavia non si concluse bene, almeno per me. Il giorno dopo infatti, mentre mi recavo in parrocchia, nel passare davanti alla bottega del sarto che si trovava proprio all’angolo della chiesa di S. Nicola e dove si davano convegno abitualmente alcuni giovani di orientamento socialista, vidi a un certo punto alzarsi dalla sedia il figlio, socialista, della proprietaria della campagna condotta a mezzadria da mio padre e dirigersi verso di me in atteggiamento minaccioso, rivolgendomi anche un po’ di male parole. Da quello che diceva, capii subito che ce l’aveva con me per ciò che avevo fatto la sera prima, così cominciai immediatamente a correre per paura di prenderle, perdendomi poi nelle strette stradine del quartiere di S. Giovanni; lui cercò di rincorrermi, ma fu tutto inutile, io ero molto più veloce di lui. La mia campagna pro-monarchia durò così appena un giorno e, per fortuna, non solo in Italia ma anche a Orsogna non giovò molto ai Savoia: Orsogna, assieme alla vicina Ortona, fu uno dei pochissimi comuni in provincia di Chieti dove vinse la repubblica! Insomma, sin da piccolo era presente in me una certa propensione alla politica attiva, non mi era mai piaciuto infatti tirarmi fuori dai problemi o fare da spettatore, al contrario ho sempre sentito il bisogno di dire la mia. Del resto, per me è sempre stato così: anche 57 nel gioco che è uno specchio assai veritiero del modo di essere delle persone. Ma il problema ora non era di avere la vocazione, né mi trovavo di fronte a un gioco come quand’ero solo un ragazzino. Scegliere di impegnarsi a tempo pieno dentro una prospettiva di trasformazione della società e dello Stato non poteva essere né il frutto di un gioco né di una scelta dettata dall’istinto, sentivo al contrario prepotente dentro di me il bisogno di consapevolezza, di dare a questo impegno fondamenta solide, di capire meglio come, dove e attorno a che cosa portare avanti la mia attività. Da questo punto di vista, di grande aiuto mi furono innanzitutto le letture che intanto andavo facendo. Oltre a offrirmi nuove e più efficaci chiavi di comprensione della realtà nella quale vivevo, mi consentirono anche di dare via via risposte agli interrogativi che mi portavo dentro e di chiarire a me stesso anche il senso e la portata delle scelte che stavo compiendo. Ma di non minore utilità fu l’impatto, in un’ottica nuova, con la vita concreta degli uomini in carne e ossa, con quello insomma che andavo allora giornalmente imparando nel rapporto sia con la gente che con i compagni. Tuttavia, fu soprattutto un punto quel che mi fece decidere a compiere senza riserve la mia scelta di vita: la lettura dell’ultima delle tesi marxiane su Feuerbach. Secondo Marx, “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo”: questo fu per me illuminante e decisivo. Non solo mi fece comprendere come la politica è necessaria e ha senso se si propone un cambiamento radicale della società e dello Stato, per costruire un mondo migliore per tutti; ma anche di quale tensione morale e ideale c’era bisogno per corrispondere a un tale compito: in una visione del mondo, che ha come suo obiettivo di fondo appunto la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente, è possibile collocarsi a questa altezza solo se dentro di te, a un certo momento, si incontrano passione, capacità di conoscenza dei processi storici, forte senso morale e ideale. I comunisti, proprio per questa loro concezione della politica, hanno sempre avuto una visione alta dell’impegno politico, diversa da quella di altri, affine per certi aspetti alla concezione, propria di un certo mondo cattolico democratico, della politica come servizio; e questo spiega anche perché tra i comunisti l’impegno politico ha sempre assunto un carattere totalizzante, fino a prevalere molte volte su aspetti ed esigenze della propria vita privata, anzi rendendo pubblico e subordinando ad esso anche il privato! La decisione a cui alla fine approdai, con la scelta di un impegno crescente nella politica attiva, fu quindi il risultato di una riflessione non breve e anche molto sofferta e contrastata: sapevo bene infatti che, anche per il mio modo di essere e di vivere le scelte, quella decisione avrebbe avuto inevitabilmente un carattere irreversibile e totale, come di fatto poi avvenne. Naturalmente, questa mia esigenza di riflessione non significò affatto che intanto io mi estraniassi da quanto mi accadeva intorno e mi ritraessi dal partecipare all’attività politica. Cominciai, anzi, subito a fare le mie prime esperienze. Solo che non ne ero io il protagonista; e poi, si trattava di esperienze modeste che però, debbo dire, sono state 58 ugualmente molto importanti per me: esse, anzi, sono state per me come i primi mattoni di quel cospicuo patrimonio di conoscenze e di penetrazione della realtà che via via si è poi andato stratificando dentro di me e che mi è stato sempre assai utile nel mio lavoro di dirigente di un partito grande e complesso come il PCI. La mia prima esperienza politica di un certo interesse risale alle elezioni per il Parlamento del giugno del 1953. Avevo allora poco più di diciassette anni, e naturalmente non disponevo ancora del diritto di voto che maturava all’epoca, per la Camera, solo a 21 anni e, per il Senato, addirittura a 25. Al centro dello scontro elettorale c’era la cosiddetta “legge truffa”, una legge elettorale cioè che, in forza di un sistema di apparentamenti tra partiti, avrebbe consentito alla lista o al gruppo di liste apparentate che avesse conquistato il 50% più uno dei voti di usufruire di un consistente premio di maggioranza. Si trattava insomma di una legge di tipo maggioritario che oggi non provocherebbe grandi contrasti, salvo discuterne convenienza, efficacia, meccanismi, ecc., ma che a quei tempi, se fosse passata, avrebbe avuto effetti dirompenti sugli equilibri e la tenuta stessa della democrazia italiana. Ricorda Celso Ghini, che fu uno dei dirigenti del PCI in quegli anni, nel suo libro Il voto degli italiani, 1946-1974 (Editori Riuniti, 1975), che “lo scopo della legge -dicevano i loro padrini democratici cristiani, liberali, socialdemocratici e repubblicani- era di garantire una maggioranza parlamentare ed un governo stabili. L’obiettivo inconfessato era di assicurare ai partiti governativi la perpetuazione del monopolio del potere e una maggioranza sufficiente ad emendare la Costituzione in senso limitativo delle libertà, senza tenere conto della volontà degli elettori e delle ragioni dell’opposizione”. Le affermazioni di Ghini, che erano poi il succo della posizione del PCI e di altri settori politici di destra e di sinistra, acquistano un senso ben preciso se riferite da un lato a ciò che significò lo scelbismo in quegli anni, in termini di repressione anche sanguinosa delle grandi lotte per la terra e il lavoro e di limitazione arbitraria di libertà costituzionali, dall’altro a ciò che nel rapporto maggioranza-opposizione avrebbe comportato la legge truffa se non fosse stata sconfitta. In Italia, una delle conseguenze principali della guerra fredda sulla nostra vita democratica è stata rappresentata dal fatto che il PCI poteva essere forte e governare regioni e comuni ma mai diventare governo del Paese! Questa è stata una delle leggi non scritte dell’Italia repubblicana, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e alla trasformazione del PCI in PDS, Partito democratico della sinistra, qualche anno dopo, dalla quale a nessuno era consentito derogare; ed è a tutti noto quale sorte fu riservata a Moro che, negli anni ’70, pensò che era ormai giunto il momento di riportare i comunisti nel governo del Paese (ne erano stati già parte appena dopo la Liberazione, fino al maggio del 1947) per ridare respiro e vigore a un sistema politico sempre più asfittico e in difficoltà! In sostanza, la legge truffa, se fosse risultata vincente, avrebbe alterato profondamente per legge e non per scelta degli elettori, a favore della DC e dei suoi alleati, la rappresentanza politica nelle istituzioni, in un contesto internazionale peraltro nel quale 59 la divisione del mondo in due blocchi contrapposti riservava già di per sé un destino diverso alle forze in campo: da un lato la DC non poteva non governare, dall’altro alla sinistra, in particolare al PCI, era preclusa ogni possibile alternanza di governo. Una tale rottura rischiava naturalmente non solo di mettere in pericolo la normale dialettica democratica tra maggioranza e opposizione, ma anche di aprire la strada a conflitti sempre più aspri e pericolosi per la stessa democrazia. All’approvazione della legge truffa in Parlamento si arrivò dopo una dura battaglia da parte delle opposizioni sia di destra che di sinistra, ma la partita vera si giocò nella campagna elettorale alla quale parteciparono anche liste e movimenti messi in piedi proprio per l’occasione, nel tentativo di sottrarre voti alla DC e agli altri partiti con essa apparentati e impedire così a quella che fu la sola coalizione presente alle elezioni il raggiungimento del 50% più un voto. Come in tutta Italia, anche ad Orsogna lo scontro fu aspro e violento, e sui balconi che si affacciavano sulla piazza, dai quali si tenevano i comizi, si alternavano in continuazione gli oratori dei diversi partiti. Ogni partito aveva naturalmente il suo balcone e, quando i comizi si susseguivano l’uno all’altro, era un vero e proprio spettacolo vedere la folla -di solito sempre molto numerosa- sciamare da un lato all’altro della piazza, solo i più pavidi o quelli ai quali era stata fatta qualche promessa in cambio del voto e avevano bisogno perciò di farsi vedere solo al comizio della DC, pur ascoltando ugualmente i comizi degli altri partiti, si tenevano tuttavia a debita distanza dai balconi avversari. A Orsogna, anzi, la campagna elettorale fu particolarmente animata, perché tra i candidati al Senato c’era anche un personaggio assai famoso, sia come medico che come eroe nazionale, originario del paese e al quale molti orsognesi erano legati per ragioni anche di riconoscenza. Parlo di Raffaele Paolucci, chirurgo di fama e direttore della clinica chirurgica dell’Università di Roma e noto per aver partecipato, con l’ufficiale del Genio Navale Raffaele Rossetti, all’affondamento della corazzata austriaca Viribus Unitis nel porto di Pola, durante la prima guerra mondiale. Egli però non era candidato con la DC, che nel ’48 a Orsogna aveva superato sia pure non di molto il Fronte del popolo, ma con il Partito nazionale monarchico e quindi anche lui era contro la legge truffa. La presenza di Paolucci, come del suo partito, contribuì perciò anch’essa a sconfiggere in paese la DC e i suoi apparentati e, più in generale, il disegno politico che stava dietro la legge truffa, tuttavia quello che mi colpì, nel risultato elettorale di Orsogna, fu soprattutto la diversità di voto tra la Camera e il Senato. Alla Camera, l’elettorato orsognese si orientò sulla base di una scelta politica generale, infatti i monarchici raggranellarono poco più di 100 voti, al Senato invece quel risultato ne uscì completamente stravolto: i monarchici raccolsero quasi 1800 voti, e cioè oltre il 50% dei voti validi, pur avendo gli orsognesi nel referendum istituzionale del ‘46 dimostrato di preferire largamente la repubblica, e quei voti provenivano addirittura da gente che alla Camera aveva votato non solo DC ma anche i partiti della sinistra! Era la prima volta che mi trovavo di fronte a un fenomeno di trasformismo in cui, più della scelta politica, contava la scelta del candidato. Oggi un fenomeno di questo genere forse non stupirebbe nessuno, ma allora, quando il 60 voto aveva sempre una forte connotazione politica e ideologica, la cosa non poteva non provocare stupore! E così anch’io rimasi assai sconcertato da quel risultato, ma col tempo dovetti abituarmi: non solo a Orsogna ma anche nel resto del Mezzogiorno, quel fenomeno era piuttosto ricorrente e diffuso, anche se esso riguardava soprattutto elezioni di carattere amministrativo e solo raramente (almeno a Orsogna) elezioni politiche. A Orsogna, per definire il fenomeno, venne anche coniata una espressione, non dispregiativa, quanto piuttosto dettata da una certa ironia sdrammatizzante, tanto esso era dato ormai per scontato, questa espressione era: la licenza, quella appunto che gruppi di elettori si prendevano in occasione di elezioni amministrative rispetto alle scelte che normalmente compivano nelle elezioni politiche! Il 1956 fu un anno davvero denso di avvenimenti, anche drammatici; e anche di nuove, fondamentali esperienze per la mia formazione politica. A febbraio, si svolge a Mosca il XX Congresso del PCUS con la denuncia da parte di Krusciov, attraverso il cosiddetto rapporto segreto reso pubblico in Italia solo nell’estate successiva, dei delitti di Stalin e dello stalinismo; nella tarda primavera hanno luogo le elezioni amministrative; a ottobre scoppia in Ungheria la rivolta contro il governo comunista presieduto da Geroe, un uomo di Stalin, che si conclude nel sangue ai primi di novembre con l’occupazione di Budapest da parte dell’Armata Rossa; in coincidenza con i fatti d’Ungheria -dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasserprima Israele attacca le truppe egiziane e occupa il Sinai e poi, a distanza solo di qualche giorno, Francia e Inghilterra occupano Suez; a metà dicembre si apre a Roma l’VIII Congresso nazionale del PCI che proclama la via italiana al socialismo. Insomma, un anno davvero da brividi sul piano internazionale ma anche di straordinario interesse per il futuro del comunismo italiano, se solo si pensa alle grandi implicazioni che hanno avuto nella successiva evoluzione del PCI la riflessione sullo stalinismo e le conclusioni di natura strategica dell’VIII Congresso. Il precipitare degli avvenimenti internazionali, e anche la crisi interna al PCUS, ebbero naturalmente echi profondi in Italia; e provocarono uno scontro politico violento tra i contrapposti schieramenti politici, ma anche un dibattito intenso e, anzi, assai aspro e violento, all’interno dei partiti della sinistra che non giovò certo ad avvicinare le rispettive posizioni. Al contrario, alcuni di questi avvenimenti, parlo del XX Congresso e poi dei fatti d’Ungheria, non fecero che approfondire ulteriormente le crepe già esistenti nel rapporto tra i comunisti e i socialisti, favorendo una ripresa di rapporti tra socialisti e socialdemocratici: l’incontro di Pralognan, avvenuto nell’agosto, tra Nenni e Saragat non fu da questo punto di vista affatto casuale, esso servì a gettare le basi di questo riavvicinamento che doveva di lì a qualche anno portare agli accordi di centro-sinistra, con l’obiettivo di contrastare e isolare il PCI. Tuttavia, l’incombere di questi processi non impedì che alle elezioni comunali e provinciali di quell’anno continuasse a funzionare il rapporto unitario tra comunisti e socialisti. Anche a Orsogna i comunisti e i socialisti si presentarono alle comunali con una lista 61 unitaria e, alle provinciali, con un candidato unico per tutti e due i partiti. Candidato alla Provincia, infatti, fu scelto quello che era allora l’uomo più rappresentativo di tutta la sinistra orsognese, e cioè l’avvocato socialista Giuseppe Tenaglia il quale capeggiò contemporaneamente anche la lista per il Comune. In quelle elezioni io votai per la prima volta, un fatto davvero molto importante per me, e fui anche indicato dal PCI e dal PSI come scrutatore in una delle sezioni elettorali del paese, tuttavia le elezioni non andarono affatto bene per noi. O meglio: eleggemmo con una bella messe di voti, oltre 1500 se non ricordo male, il nostro candidato unitario alla provincia, ma prendemmo una sonora batosta alle comunali: i 1500 voti delle provinciali si ridussero ad appena 500! La famosa licenza aveva funzionato ancora una volta, a danno nostro naturalmente. Ricordo che ce la prendemmo molto, noi comunisti, con il candidato socialista, accusato di essersi messo d’accordo sottobanco con i repubblicani -che vinsero le elezioni comunali- per uno scambio di voti tra provincia e comune: i repubblicani avrebbero votato alla provincia il candidato socialista, mentre al comune i socialisti avrebbero votato per la lista della frunnetelle (come veniva chiamata a Orsogna la lista repubblicana, per via della foglia d’edera che era nel suo simbolo). E’ difficile dire quanto e se ci fosse qualcosa di vero in questa accusa, con molta probabilità -come nel ’53, con Paolucci- anche in questa occasione aveva funzionato un certo trasformismo spontaneo messo in moto e favorito da ragioni anche molto diverse tra loro: ad esempio, la convinzione presente in settori di opinione pubblica di sinistra che, contro li macaciuce (vale a dire i democristiani, definiti così forse per assimilazione agli incappucciati delle confraternite), era più facile che al Comune ce la potessero fare i repubblicani che già l’amministravano, e non i partiti della sinistra; e in tutto questo gli intrighi non c’entravano davvero nulla. Ricordo, quando di queste cose si discuteva nelle nostre riunioni provinciali, che la spiegazione più gettonata era che a determinare il fenomeno concorresse in maniera decisiva, assieme al clientelismo, lo scarso spessore dei nostri gruppi dirigenti locali, in sostanza il PCI si dimostrava più credibile a livello nazionale che non a livello locale. Dubito che una tale spiegazione fosse fondata, qualcosa di vero c’era sicuramente, più probabile però è che intervenissero, in zone dell’elettorato, fattori del tutto spontanei difficilmente controllabili, innescati da motivazioni non sempre comprensibili e soprattutto in grado di essere arginate, legate a fatti e interessi locali, di singoli o di gruppi di famiglie, che, in una elezione comunale, hanno sempre un grande peso: non a caso, del resto, il fenomeno toccava anche il PSI e, in certe circostanze, perfino la DC che pure disponeva di molte armi di pressione clientelare. A Orsogna, comunque, la divaricazione tra voto politico e voto amministrativo si è ripetuta di frequente, in genere a sfavore della sinistra. D’altra parte, non è un caso che questo fenomeno si sia ripetuto anche nel 1960, quando candidato per il PCI (non era più tempo di candidature unitarie) al Consiglio provinciale, nel collegio di Orsogna, ero io. Anche allora, io presi oltre 700 voti in paese, che tuttavia non furono sufficienti per farmi eleggere perché nel resto del collegio il risultato non fu altrettanto positivo, mentre al Comune, dove era presente ancora una volta una lista unitaria di comunisti e socialisti, 62 le cose andarono male: molti di quelli che avevano votato per me preferirono votare per i democristiani che vinsero le elezioni comunali, evidentemente chi ce l’aveva con l’amministrazione repubblicana uscente (ed erano in tanti) pensò che l’unica possibilità di cambiare amministrazione era rappresentata dal voto alla lista dc e non alla lista della sinistra. In ogni modo, gli strascichi tra i due partiti, provocati dal voto del ’56, si trascinarono per qualche tempo; e del clima che si era creato il PCI ne trasse anche qualche beneficio, nel senso che un certo numero di socialisti si spostò verso di noi a causa appunto del risultato elettorale deludente. Il rapporto tra socialisti e comunisti, a livello locale, non fu invece molto turbato dalle notizie che arrivavano da Mosca a proposito della denuncia fatta da Krusciov, nel corso del XX Congresso del PCUS, dei delitti commessi da Stalin e dei gravi danni provocati alla società sovietica dallo stalinismo. Che io ricordi, né tra i comunisti e nemmeno tra i socialisti di Orsogna la cosa fece grande impressione. Per quanto riguarda il PCI, anzi, in generale la massa degli iscritti e dei gruppi dirigenti locali, non solo a Orsogna, non cadde affatto in preda a grandi turbamenti. La coraggiosa iniziativa di Krusciov suscitò piuttosto, più che consenso, stupore e incredulità e anche polemiche molto aspre, soprattutto alla base, nei confronti del nuovo capo del Cremlino. E ricordo ancora oggi le cose che si dicevano in sezione a difesa di Stalin, utilizzando un armamentario ideologico che lo stesso Stalin aveva messo in circolazione per spiegare e giustificare le scelte tremende compiute nei lunghi anni del suo potere assoluto e dispotico, che colpirono in primo luogo proprio i comunisti sovietici. Quando scoppiarono i moti d’Ungheria, anzi, non furono pochi quelli che addebitarono proprio a Krusciov, alla sua denuncia degli arbitrii di Stalin e dello stalinismo, la responsabilità di quei fatti. In verità, Krusciov avrebbe meritato ben altra accoglienza; e comunque quello che egli stava facendo era il meno che si potesse fare. La soffocante realtà dell’Unione sovietica e degli altri paesi socialisti imponevano anzi che si andasse più a fondo nella ricerca delle ragioni, politiche e teoriche, che avevano reso possibile lo stalinismo; e non ci si limitasse a una denuncia di tipo tutto sommato non politico ma moralistico, anche perché solo in questo modo era possibile riprendere un cammino e imboccare con decisione una strada nuova. Stalin però all’epoca godeva di un grande prestigio internazionale, non solo tra i comunisti: egli era stato infatti in maniera incontestabile uno dei protagonisti decisivi della lotta contro il nazismo e della vittoria degli alleati nella seconda guerra mondiale, aveva trasformato un paese arretrato come la Russia portandola nel novero delle nazioni moderne e l’URSS per merito suo era assurta al ruolo di grande potenza mondiale. La leggenda di Stalin era, anzi, penetrata così profondamente nell’animo di grandi masse popolari, soprattutto degli strati più poveri della popolazione, dei diseredati, che la sua figura si identificava -nell’immaginario collettivo- con quella del vendicatore dei torti e delle angherie subìte, perché non era altro che questo il significato della battuta ricorrente in quegli anni: Addavenì Baffone! 63 Del resto, anche il PCI aveva grandemente contribuito a radicare tra i ceti popolari il mito di Stalin, basti pensare alle cose scritte, dette e fatte -da Togliatti al più umile dirigente di base- in occasione della morte di Stalin, il 6 marzo del 1953! Il culto di Stalin fu, anzi, coscientemente alimentato, come il mito dell’URSS, per dare più forza all’idea che la rivoluzione poteva vincere, e avrebbe sconfitto anche i nemici più accaniti e agguerriti. Qualche mese fa ho rincontrato in una libreria di Pisa -dove mi trovavo, mie care nipoti, assieme alla nonna, per il primo compleanno di Martina- un bel libriccino, che avevo comprato e letto a suo tempo ma che, non so come, non trovavo più tra i miei libri: si tratta di un poemetto in versi firmato Anonimo Romano ma il cui vero autore è Maurizio Ferrara, per tanti anni segretario di Palmiro Togliatti. Naturalmente, ho ricomprato e riletto il poemetto, con molto diletto debbo dire: non solo per la godibilità dei versi così pieni di spirito e scritti in un graffiante romanesco belliano, ma per l’argomento stesso che è al centro della relazzione, quella che appunto l’Anonimo Romano tiene, nel 1956, davanti agli iscritti al PCI di una sezione romana su er fatto de Stalin e de Krusciov all’epoca del XX Congresso del PCUS. E, andando avanti nella lettura, che ti trovo a un certo punto? Questi versi su Stalin, che danno bene l’idea di che cosa egli rappresentava negli anni ‘50 per i comunisti italiani: Pe’ noi che d’era Baffo? Un sacramento, ce serviva a soffià su la passione... Non c’è quindi affatto da meravigliarsi se la sua figura resse bene, nella coscienza popolare, alle denunce di Krusciov. Ovviamente, ciò non toglie nulla alle gravissime responsabilità che pesano su di lui e che hanno condizionato, in modo profondamente negativo, la storia e la capacità dell’URSS di reggere alla prova del futuro. E’ principalmente a Stalin, infatti, che si deve se, dopo la morte di Lenin, il processo di costruzione del socialismo in Russia assunse caratteri profondamente antidemocratici e repressivi di ogni forma di libertà, con costi umani e politici elevatissimi. A guardare oggi all’esito disastroso a cui questo processo è approdato, possiamo anzi ben dire che fu essenzialmente sua la responsabilità se negli anni del suo potere si crearono le condizioni di fondo che hanno portato nei decenni successivi prima allo svuotamento di ogni carica innovativa della rivoluzione d’ottobre e del comunismo sovietico e quindi, nel 1989, alla dissoluzione dell’URSS e alla fine tragica di un esperimento politico-ideologico che non ha precedenti nella storia e che pure tante speranze aveva suscitato tra gli sfruttati di tutto il mondo. Certo, non tutto è attribuibile a Stalin, molti aspetti del tipo di società e Stato che emersero sotto la sua direzione si ritrovano già nelle teorie formulate da Lenin, solo che Lenin dimostrò anche di saper cambiare di fronte alle lezioni della storia come accadde ad esempio con la Nep, la Nuova Politica Economica, che lasciava spazio al mercato, all’indomani della conquista del potere; Lenin poi, nonostante le polemiche violentissime all’interno del gruppo dirigente bolscevico che lo videro più di una volta in minoranza, non risolse mai i contrasti ricorrendo alla eliminazione fisica degli avversari, cosa che invece fece sistematicamente Stalin. 64 Comunque, quel che in quei giorni prevalse tra i nostri militanti, pur presi dallo sconcerto per quanto stava accadendo, fu la esigenza di respingere senza tentennamenti l’attacco scatenato dagli avversari contro il partito, utilizzando le cose dette da Krusciov. Da questo punto di vista, giocava tra i compagni anche la convinzione, molto diffusa nel partito e che anch’io sostenevo, che, tutto sommato, i metodi usati da Stalin -pur essendo sommamente riprovevoli- erano in realtà il frutto di una scelta obbligata per spezzare, di fronte ad avversari interni ed esterni decisi a tutto, le resistenze opposte alla trasformazione della vecchia Russia assolutista, come avvenne del resto nel 1793, quando -per salvare la rivoluzione- Robespierre e Saint Just furono costretti a ricorrere al terrore e alla ghigliottina! Questo spiega anche perché, nonostante il XX Congresso, ancora per diversi anni le opere di Stalin continuarono a essere lette, e io fui tra questi, in primo luogo Le questioni del leninismo che era l’opera sua più nota e forse anche la più distorcente del pensiero di Lenin. C’è una bellissima poesia di Bertolt Brecht, del 1938, significativamente intitolata A coloro che verranno, che io voglio qui citare perché rende bene questa convinzione fondamentalmente giustificazionista, assai corrente in quegli anni nelle sezioni: è la durezza dei tempi, quella stessa denunciata nel Lied dal grande poeta tedesco, a impedire la gentilezza, a rendere impossibili scelte diverse! Ma ecco Brecht, nella traduzione di Franco Fortini: Davvero, vivo in tempi bui! La parola innocente è stolta. Una fronte distesa vuol dire insensibilità. Chi ride, la notizia atroce non l’ha saputa ancora. Quali tempi sono questi, quando un dialogo sugli alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio!… Vorrei anche essere un saggio… Spogliarsi di violenza, rendere bene per male. Non soddisfare i desideri, anzi dimenticarli, dicono è saggezza. Tutto questo io non posso: davvero, vivo in tempi bui! Nelle città venni al tempo del disordine, quando la fame regnava. Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte e mi ribellai assieme a loro… 65 Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie. Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini. Feci all’amore senza badarci e la natura guardai con impazienza… Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude. La parola mi tradiva al carnefice. Poco era in mio potere. Ma i potenti posavano più sicuri senza di me; o lo speravo… Ma ecco l’invito rivolto a coloro che verranno: Voi che sarete emersi dai gorghi dove fummo travolti pensate quando parlate delle nostre debolezze anche ai tempi bui cui voi siete scampati. Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe, attraverso le guerre di classe, disperati quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta. Eppure lo sappiamo: anche l’odio contro la bassezza stravolge il viso. Anche l’ira per l’ingiustizia fa roca la voce. Oh, noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili. Ma voi, quando sarà venuta l’ora che all’uomo un aiuto sia l’uomo, pensate a noi con indulgenza. Neanche l’esplosione dei fatti d’Ungheria, nell’ottobre, preceduta da una sommossa operaia in Polonia intorno alla fine di giugno, provocò nel grande corpo degli iscritti (il PCI superava allora i due milioni, ai quali si aggiungevano i 400 mila aderenti alla FGCI) conseguenze particolarmente traumatiche dal punto di vista della loro fiducia nel partito, anche se lo sbigottimento e gli interrogativi sulle cause di avvenimenti così 66 tragici erano molti. Una crisi seria, che fu però contenuta grazie alla intelligenza e all’abilità di Togliatti e alle risposte che poi maturarono nell’VIII Congresso nazionale del partito, ci fu invece nel gruppo dirigente nazionale e soprattutto tra gli intellettuali, con abbandoni anche clamorosi. Alla base invece, anche in questa occasione, prevalse -segno a suo modo della grande vitalità del comunismo italiano- la esigenza di stringersi attorno al partito, difenderlo dagli attacchi violentissimi cui era sottoposto e tenere ferma la solidarietà con l’Unione Sovietica vista come il baluardo decisivo per il futuro di ogni processo di trasformazione dell’Italia e del mondo. Fu, tutto questo, il frutto di un atteggiamento fideistico? O del fatto che i comunisti italiani erano inguaribilmente stalinisti, come qualcuno tenta ancora oggi di accreditarli? Sono sciocchezze, credo che la questione meriti analisi un po’ più attente di quelle correnti, non prescindendo mai dal concreto contesto storico nel quale i comunisti agivano. Le conclusioni alle quali arrivò l’VIII Congresso, che incardinò tutta la strategia della via italiana al socialismo su “il rispetto, la difesa, l’applicazione integrale della Costituzione repubblicana”, come si legge nella Dichiarazione programmatica approvata dal Congresso, affidandone la realizzazione ad “una lotta parlamentare, politica e di massa che sia sostenuta dagli strati decisivi della popolazione”, sono la migliore risposta a queste accuse del tutto pretestuose. Certo, almeno fino a un certo periodo, non sono mancate durezze anche inaccettabili nella vita interna del partito, ma queste furono un’altra cosa… Il problema, semmai, è di quanto fu lenta la penetrazione nella base del partito delle scelte di fondo compiute con l’VIII Congresso, scelte che hanno rappresentato, più che una svolta, lo sviluppo coerente, reso necessario anche dall’incalzare degli avvenimenti, di una linea che viene da Gramsci e che era già presente nella impostazione data dai comunisti alla lotta contro il fascismo e alla Resistenza. Quello che invece va rimproverato al PCI è piuttosto la reticenza persistente sulla realtà sovietica e degli altri paesi socialisti, rifiutando su questo aspetto fondamentale una discussione aperta che avrebbe aiutato, oltre che a capire, anche a dare più forza alla scelta fatta dai comunisti italiani della via democratica al socialismo. Questa reticenza fu presente anche nel modo in cui fu affrontata la vicenda ungherese da parte del gruppo dirigente. Dovevano passare ancora molti anni, infatti, prima che il PCI riconoscesse l’errore compiuto nell’avallare l’intervento militare a Budapest e prendesse con nettezza le distanze da altre scelte aberranti del potere sovietico, con la condanna nel ‘68 della invasione della Cecoslovacchia decisa da Breznev e dai paesi del Patto di Varsavia, per stroncare la rivoluzione democratica guidata dal comunista Dubcek, e, nel ‘79, dell’invasione dell’Afghanistan. Ma, detto questo, bisogna anche comprendere bene il clima che si creò, non solo in Italia ma nel mondo, a seguito degli avvenimenti ungheresi i quali, non lo si dimentichi, esplodevano in coincidenza con l’occupazione del canale di Suez da parte degli inglesi e dei francesi e l’attacco da parte degli israeliani all’Egitto di Nasser; e come anche per 67 questa ragione la reazione della base fu innanzitutto di difesa: non era certamente quello il momento di una discussione aperta su quegli avvenimenti pur così dolorosi e, almeno per la base del partito, anche inaspettati. La rivolta d’Ungheria, questo che io ricordi era il giudizio prevalente alla base, era sicuramente la espressione drammatica di scelte sbagliate, c’era però chi -e la piega che stavano prendendo gli eventi lo dimostrava ampiamente-, approfittando degli errori commessi, mestava nel torbido per cercare di far andare indietro la storia: bene, questo qualcuno andava fermato in ogni modo. In altri termini, la rivolta popolare non era tanto percepita come la spia di un fallimento quanto piuttosto come la conseguenza, certo di errori, ma soprattutto di un attacco violento nei confronti della nuova Ungheria da parte delle forze sconfitte con la seconda guerra mondiale, gli ungheresi infatti si erano schierati con i nazisti durante la guerra e, all’inizio degli anni ’20, la destra ungherese aveva represso nel sangue la rivoluzione proletaria guidata da Bela Kun. Ricordo bene ancora oggi l’angoscia con cui sia io che gli altri compagni abbiamo vissuto quelle settimane: le preoccupazioni per gli sviluppi possibili della situazione quando forze potenti premevano in maniera esplicita per sottrarre l’Ungheria al campo socialista e riconquistare vecchi privilegi (ad esempio, i grandi proprietari fondiari espropriati e cacciati dal paese), l’orrore per gli ammazzamenti indiscriminati dei quadri comunisti per le vie di Budapest, i riflessi che la rivolta avrebbe avuto sul futuro del socialismo... Contro di noi si era poi scatenata in tutto il Paese, utilizzando ogni arma possibile, una aggressione di tale violenza e proporzioni, che io non ne ricordo altre simili nei decenni successivi. I comunisti erano davvero isolati, eravamo proprio rimasti soli a contrastare l’attacco contro di noi. Ho ancora oggi negli occhi, ad esempio, le trasmissioni televisive da Budapest di quel periodo, le guardavo al bar, ed erano trasmissioni agghiaccianti: ogni giorno, vedevamo apparire sullo schermo, con la sua faccia sorridente e soddisfatta, il famigerato cronista incaricato dei servizi sulla rivolta, il quale faceva partecipi tutti gli italiani della sua gioia nel vedere impiccati i comunisti ai lampioni della città! Questo era il clima che si respirava in quei giorni, c’erano anzi anche manifestazioni contro il PCI da parte degli studenti, una ce ne fu anche a Chieti, sotto la sede del partito che allora si trovava a palazzo Tabassi, sul corso Marrucino. Non c’era da stupirsi, perché, all’epoca, gli studenti erano generalmente di destra o votavano DC ed erano veramente pochi quelli che sceglievano la sinistra. Tuttavia i nostri sentimenti, che pure erano di smarrimento e di preoccupazione, non ci indussero mai, non dico a disertare, ma neppure ad assistere inerti all’attacco dell’avversario, insomma non ci facemmo prendere dallo scoramento o dalla paura. Fu questa, anzi, paradossalmente l’occasione per riaprire un dialogo con la gente. Anche a Orsogna, la nostra reazione fu forte; e il mio contributo fu tutt’altro che marginale, animato com’ero da uno spirito battagliero e da una determinazione che fino ad allora non mi conoscevo. Tra le varie cose che facemmo ci fu anche, su mia proposta, l’invio di un ordine del giorno discusso e approvato dalla sezione all’ambasciata sovietica di Budapest: in esso 68 non solo esprimevamo solidarietà e consenso all’intervento sovietico in nome della difesa delle conquiste del socialismo e contro ogni tentativo controrivoluzionario, ma ci dicemmo anche (udite, udite!) disponibili a dare direttamente una mano, se fosse stato necessario...! Mi capitò anche un’altra volta di compiere un gesto simile, all’inizio degli anni ’60, quando Cuba rischiò l’invasione da parte degli americani. La rivoluzione cubana esercitava allora sui giovani davvero un grande fascino tramutatosi, purtroppo, da tempo in una delusione profonda: ebbene, mie care nipoti, anche in quella occasione io e un altro compagno scrivemmo all’ambasciata cubana dichiarandoci pronti a partire per Cuba, e, poiché in quel periodo era in atto nell’isola, da parte del nuovo potere castrista, la cosiddetta campagna di alfabetizzazione, anche a questa eravamo naturalmente disposti a dare il nostro apporto! Eh sì, in gioventù ho avuto anch’io i miei impulsi romantici, era nel mio carattere, eppure mi è capitato non una sola volta di sentirmi accusare di essere un tipo troppo controllato e razionale, un’accusa in verità senza senso perché ho sempre considerato una virtù, non un difetto, la capacità di farsi guidare in ogni circostanza da una visione razionale… E poi, perché ci dovrebbe essere un contrasto insanabile tra questo sforzo di autocontrollo e di autodisciplina, che è solo il frutto di una conquista interiore, e una capacità di slanci ideali e, appunto, qualche volta romantici? Se ci fosse questo contrasto, avrei fatto sicuramente scelte diverse nella mia vita. Ma, tornando alle vicende terribili di quelle settimane, non c’era in noi, comunque non c’era in me, alcun tentennamento sulla scelta di campo da compiere in una così drammatica contingenza! Di quanto stava accadendo si discuteva naturalmente tra la gente, e noi non ci sottraevamo affatto a questa discussione, così in piazza i capannelli erano frequenti e i toni diventavano anche assai aspri quando ci si trovava di fronte a persone che stavano dall’altra parte. Ricordo che io fui protagonista di uno di questi scontri, mi sembra che fosse di domenica, sta di fatto che attorno a me e al mio contraddittore si radunò davvero tanta gente che ascoltava e seguiva con molto interesse le cose che dicevamo. Il nostro uditorio era formato, in gran parte, da operai e contadini, e il mio avversario non era neppure un democristiano ma un socialdemocratico (un saragattiano, anzi, come venivano chiamati allora in Italia i socialdemocratici), animato però da un violento anticomunismo che non lo ha mai abbandonato neanche in seguito. Nella singolar tenzone, debbo dire che me la cavai molto brillantemente; grazie a questo, anzi, il mio credito tra la gente, e anche tra gli avversari, crebbe notevolmente e non mancai di agghindarmi anche con qualche penna di pavone! Mi aiutò molto, da questo punto di vista, il fatto che -ormai da tempo- leggevo regolarmente l’Unità, erano pochi in paese quelli che allora leggevano un giornale tutti i giorni, e altrettanto accadeva per Rinascita, la rivista mensile di politica e di cultura fondata da Palmiro Togliatti, potevo così disporre, rispetto agli altri, oltre che di una informazione accurata sui vari avvenimenti, anche di una visione politica e culturale di 69 un certo respiro che mi consentiva di comprendere meglio e di spiegare anche agli altri il senso e la natura di ciò che stava accadendo. La nostra battaglia attorno ai fatti d’Ungheria continuò senza tentennamenti anche nel momento in cui Krusciov occupò con l’Armata rossa Budapest, che era il cuore della rivolta, per ristabilire una situazione di normalità. La reazione della gente non ci era del resto così sfavorevole come si poteva pensare. Tra le carte del PCI conservate presso l’attuale federazione provinciale dei Democratici di sinistra, ho ritrovato una mia lettera del 5 novembre 1956, indirizzata all’allora segretario provinciale del partito, Edoardo Ottaviano, nella quale scrivevo che “a Orsogna…sia i contadini che gli operai e artigiani non hanno riserve da fare sull’intervento sovietico. Qualche esitazione c’è fra gli intellettuali, e solo raramente fra gli altri...”. Negli anni successivi, naturalmente, la mia opinione sulla rivolta ungherese è cambiata. Grazie innanzitutto all’VIII Congresso del PCI, che ha rappresentato per me un momento essenziale nella formazione dei miei orientamenti politici di fondo e grazie anche al dibattito che ci fu nel partito, tra il ‘61 e il ‘62, sulla nuova denuncia da parte di Krusciov al XXII Congresso del PCUS su Stalin e lo stalinismo. Tuttavia non mi rimprovero affatto l’impegno profuso in quei giorni così difficili, per difendere le ragioni nelle quali credevo, assieme a milioni di persone. E’ vero, in Ungheria era esplosa in maniera violenta, prima che un tentativo controrivoluzionario che pure era presente, una richiesta di libertà e di democrazia che andava compresa e alla quale andava data una risposta convincente e nuova, cosa che non avvenne e sta qui anzi una delle più grandi responsabilità del comunismo sovietico, è anche vero però che in un mondo così profondamente diviso e pronto ognuno ad approfittare senza troppi scrupoli degli errori dell’altro non era facile muoversi usando il fioretto! La risposta che bisognava dare era quella che poi diede il PCI con l’VIII Congresso, pur scontando la riconferma del legame speciale con l’URSS. Ma questa risposta fu possibile anche perché, nel frattempo, eravamo riusciti a fermare l’attacco avversario e a impedire che parte consistente delle nostre forze venisse distrutta! Negli anni che seguirono, il mio apprendistato politico si arricchì di sempre nuove esperienze, con un ruolo che intanto era anche mutato all’interno della sezione. Non ricordo più esattamente in che periodo, forse agli inizi del ’57 o già nel ‘56, ero stato eletto segretario di sezione, mentre prima ero solo membro del Comitato direttivo nonché corrispondente, per Orsogna, de l’Unità, anche se, in questa veste, non ricordo di aver scritto alcunché (o forse sì, come mi rammenta proprio in questi giorni un antico amico democristiano che dice di essersi ritrovato, all’epoca, bersaglio di un mio articolo intitolato Carnevale in parrocchia?!). La mia elezione a segretario di sezione è stato il primo passo di un lungo cammino nel partito, con funzioni dirigenti, che nel corso degli anni mi ha visto ricoprire via via i più diversi incarichi di lavoro, davvero nessuno escluso, dai più modesti ai più prestigiosi. Sono stato responsabile di zona, in periodi diversi, prima a Lanciano e poi nel vastese; ho diretto settori di lavoro, tra i più varii, nella federazione di Chieti e in quella di 70 Avezzano; sono stato segretario provinciale dei giovani comunisti e anche membro del Comitato centrale della FGCI all’inizio degli anni ‘60; ho rivestito la carica di segretario di federazione, prima a Chieti e poi a Pescara; sono stato responsabile dell’organizzazione nella segreteria regionale dell’Abruzzo per quasi tutta la seconda metà degli anni ’70; sono divenuto infine segretario regionale del Molise e membro del Comitato Centrale del partito. Per la verità, non ho mai dovuto brigare per avere incarichi; qualche volta, semmai, ho dovuto darmi da fare per scansarli. In genere, sono stati sempre gli altri a chiamarmi: da questo punto di vista, anzi, credo di poter dire che ho sempre avuto dai compagni il riconoscimento, oltre che delle mie qualità, anche della mia capacità di impegnare sempre, fino in fondo, tutto me stesso nel lavoro che mi veniva affidato, senza mai tirarmi indietro di fronte alle difficoltà e, quando c’erano contrasti, cercando sempre di ascoltare tutti pur decidendo alla fine secondo i miei convincimenti. Insomma, per dirla in linguaggio aulico, posso vantare un bel cursus honorum, fatto però, più che di onori, essenzialmente di lavoro e di fatica fisica e intellettuale! Credo, per esempio, che non sia facile per nessuno percorrere tutti i chilometri che io ho percorso in oltre quaranta anni di attività (se ci metto anche l’attività che ho continuato a dare, prima nel PDS e poi nei DS), contare tutte le volte che sono tornato a casa, a ore molto piccole, da paesi lontanissimi e percorrendo strade allora davvero disagevoli, e poi le domeniche e tutti gli altri giorni di festa (allora si usava così) passati nelle sezioni o sulle piazze in comizi, riunioni, ecc. Accanto al lavoro di partito c’è stato poi quello nelle istituzioni. Per tantissimi anni sono stato, infatti, consigliere comunale, d’opposizione naturalmente: prima a Lanciano, per oltre 7 anni, dal ’64 al ’70, poi a Chieti, nel periodo ’70-‘80, quindi a Pescara, anche se solo per pochi mesi perché mi dimisi appena dopo la mia elezione a segretario regionale del Molise, infine a Orsogna dove sono stato prima sindaco e poi consigliere di opposizione: insomma, una specie di globetrotter costretto a macinare per questo fatica e lavoro! A conti fatti, anche se la cosa è solo parzialmente veritiera, l’incarico che si è rivelato per me meno gravoso dal punto di vista fisico è stato quello di parlamentare! Nel mio nuovo incarico di segretario di sezione, cercai naturalmente di mettermi subito al lavoro, senza adagiarmi sugli allori; e debbo dire che i risultati non mancarono: aumento degli iscritti, diffusione domenicale de l’Unità che era allora tra i compiti più importanti di una sezione e che in precedenza non si faceva, organizzazione di comizi, riunioni nelle contrade, ecc.: in altre parole, mi diedi da fare seriamente per rendere più costante e incisivo il ruolo dei comunisti nella vita del paese. I risultati, qualche anno dopo, arrivarono anche con il raddoppio dei nostri consensi elettorali, con le elezioni politiche del 1958. Quelle elezioni erano le prime che si svolgevano in Italia dopo i fatti d’Ungheria, rappresentavano quindi un appuntamento assai delicato per i comunisti, che mettevano alla prova anche le scelte fatte con l’VIII Congresso e la via italiana al socialismo. Esse, inoltre, avevano luogo in una fase nella quale il centrismo, che aveva governato 71 fino ad allora l’Italia, era ormai alle sue battute conclusive, ma il centro-sinistra non riusciva ancora a sbocciare: diventarono così anche il terreno di confronto tra prospettive politiche diverse che impegnava tutte le forze in campo, compreso il PCI, tenendo conto che uno degli obiettivi del centro-sinistra, nella strategia dei capi democristiani, era quello di isolare i comunisti. Le elezioni, a livello nazionale, andarono bene alla DC e al PSI, che guadagnarono a spese delle cosiddette forze intermedie e delle destre, ma il PCI tenne con un guadagno di voti sia pure solo dello 0,1% sul ’53, insomma usciva vincente la prospettiva del centro-sinistra ma l’indebolimento del PCI non ci fu. A Orsogna, il risultato fu un po’ diverso: noi raddoppiammo i voti alla Camera rispetto al ’53 (564 contro 235), mentre al Senato avevamo raggiunto quasi i 450 voti; aveva perso però molto il PSI che scendeva, alla Camera, dai 1052 voti del ’53 a 678 e i due partiti assieme avevano addirittura raggranellato una quarantina di voti in meno rispetto alle precedenti elezioni politiche, mentre la DC recuperava tutti i voti persi nel ’53 e tornava ad essere il partito più forte! Tuttavia quelle elezioni non furono importanti per me solo per questo. Fu infatti proprio in questa occasione che feci i miei primi discorsi in pubblico, da un balcone e con un microfono davanti: l’emozione era forte, perché in quel momento era come se mi trovassi solo davanti a un esercito ostile pronto a infilzarti al primo errore, ma non mi lasciai spaventare... Tenemmo molti comizi quell’anno, nel corso della campagna elettorale; e fu anche una campagna, oltre che intensa, brillante. E avemmo a disposizione anche molti oratori. Tra questi ricordo con particolare simpatia Orialdo Soverini, un emiliano venuto, credo, da Budrio, in provincia di Bologna, per fare il segretario provinciale della CGIL, era bravissimo nei comizi con battute fulminanti nei confronti degli avversari che piacevano tanto alla gente, e così lo facemmo venire addirittura due volte, all’inizio e alla conclusione della campagna elettorale. A presentare gli oratori, con brevi interventi, pensavo invece io, come segretario di sezione; e debbo dire che la cosa fu accolta bene, tanto è vero che, per l’ultima sera di campagna elettorale, fui invitato dai compagni di Arielli a tenere il comizio di chiusura nel loro piccolissimo comune, poco più di 800 elettori. La richiesta mi mise piuttosto in ansia, sarebbe stato un comizio vero e proprio e non una semplice presentazione, tuttavia accettai. Mi preparai naturalmente con cura, scrivendo tutto il testo del comizio che poi cercai di pronunciare senza leggere, le cose stavano andando tutto sommato bene, anche se quel che dicevo peccava di una certa astrattezza, a un certo punto però mi capitò un fatto piuttosto singolare, non previsto: il tempo a mia disposizione per il comizio era ancora parecchio, ma io avevo esaurito gli argomenti che mi ero preparati e non sapevo come andare avanti. Confesso che mi trovai in grande imbarazzo, anche perché non utilizzare tutto il tempo che ci era stato assegnato avrebbe significato dare un vantaggio all’avversario, tenni però duro e così, cercando di arrabattarmi alla meglio, tirai avanti fino all’ultimo rintocco di orologio! Tuttavia, in fatto di comizi, mi rifeci ampiamente qualche anno dopo, in occasione delle elezioni amministrative del 1960. 72 Come ho già ricordato, in quelle elezioni il partito mi candidò al Consiglio provinciale, per il collegio di Orsogna. E pur se contemporaneamente ero candidato anche a Lanciano, come capolista al Comune, tuttavia ciò non mi impedì affatto di condurre una vigorosa campagna elettorale in paese, oltre che negli altri comuni del collegio. Ricordo che tenni, a Orsogna, addirittura tre o quattro comizi, sempre molto affollati; e, in più, anche qualche riunione di quartiere e di contrada. E la scelta che compiemmo, sul piano propagandistico, fu quella di attaccare senza risparmio di colpi l’Amministrazione uscente, repubblicana, che si tirava dietro un lungo strascico di malcontenti, senza graziare per questo la DC che tuttavia si avvantaggiò del nostro attacco. Il clima nel corso della campagna elettorale si fece davvero rovente; e ci furono scambi molto duri da una parte e dall’altra. Il fatto, poi, che io martellassi con forza ed efficacia gli avversari portò non solo gli orsognesi ma anche molti dei paesi vicini a non perdersi un comizio, così anche in questa occasione tantissima gente si spostava da un lato all’altro della grande piazza. A fare spettacolo erano soprattutto le donne, molte delle quali si portavano dietro la sediolina per assistere sedute ai comizi della serata: di solito si raccoglievano tutte sul largo marciapiede che si trova a fianco della chiesa di S. Rocco e di lì si godevano fino alla fine lo scontro, con tanto di rilancio reciproco di cortesie, fra i duellanti. La campagna elettorale del ’60 è tra quelle che più mi è rimasta viva nella memoria, anche in una serie di particolari. E non solo per la intensità che la caratterizzò, ma anche per il fatto che mai tanto calore ho sentito attorno a me. Sono stato candidato anche altre volte a Orsogna, ancora nel ’64 per la provincia e poi nel 1985 e nel 1990 per il Comune, un calore simile però l’ho ritrovato solo nelle elezioni comunali del 1985, quando fui eletto sindaco, e poi nel 1983 e nel 1987, in occasione delle mie due candidature al Parlamento. Ricordo ancora i mazzi di fiori che mi portava, alla fine di ogni comizio, una vecchia compagna, la Scucchie, questo era il suo soprannome, che non aveva paura di nulla e faceva campagna elettorale per cento persone; come ricordo anche il lungo corteo festoso di compagni e simpatizzanti che si formava dietro di me quando scendevo dal balcone dove avevo parlato… Il ’58 fu anche l’anno nel quale partecipai, presso la scuola centrale del PCI, al corso di formazione politica, della durata di tre mesi, al quale ho già fatto cenno. Il corso, se ben rammento, si svolse prima delle elezioni politiche. Nelle fotografie fatte alla scuola, abbiamo tutti il pullover o la giacca, è probabile quindi che fosse tra la fine dell’inverno e gli inizi della primavera. La scuola aveva sede alle Frattocchie, una località non molto distante da Roma, ed era ospitata in una grande villa (allora di proprietà del PCI, oggi credo che sia stata venduta) che s’incontra lungo l’Appia, sulla sinistra andando verso Napoli, qualche chilometro dopo il bivio che porta a Castelgandolfo e prima di Albano. Era tutta immersa nel verde e circondata dai vigneti che risalgono il pendio della collina ai cui piedi la villa era stata costruita, insomma un posto bellissimo dove si stava proprio bene. Era dotata tra l’altro di tutti i servizi, oltre che di una ben fornita biblioteca e delle aule per le lezioni, e poteva accogliere all’incirca una cinquantina di persone, infatti nel periodo 73 in cui anch’io fui ospite della villa vi si svolgevano contemporaneamente due corsi: uno, per i più giovani, appunto di tre mesi, e l’altro, per dirigenti periferici già con una certa esperienza, di otto mesi. La nostra vita si svolgeva tutta dentro la grande villa, era come stare in un college dove non solo si dormiva, in camerette che potevano alloggiare ognuna due persone, ma si mangiava, c’era il bar, si poteva giocare a biliardo, a scacchi e naturalmente a carte, e c’era poi un bel giardino, non grande ma dove era comunque possibile fare brevi passeggiate. La nostra giornata era prevalentemente votata allo studio. In genere le lezioni, che di solito si concludevano con domande ai nostri insegnanti o l’avvio di una prima discussione sull’argomento affrontato, c’erano la mattina, mentre il pomeriggio, fino all’ora di cena, eravamo impegnati nello studio individuale; dopo la cena, invece, passavamo il nostro tempo o a giocare o a guardare la TV, solo ogni tanto accadeva che facessimo una scappata ad Albano, una sola volta ricordo che siamo andati a Roma: i pochi soldi che ci erano stati dati dalle rispettive federazioni di provenienza non ci consentivano certamente di darci alla bella vita! Le lezioni erano tenute normalmente da Luciano Gruppi che dirigeva il corso, ma per certe lezioni venivano appositamente da Roma dirigenti nazionali del partito (ricordo, tra questi, in particolare Giorgio Amendola); e avevano al centro fondamentalmente i documenti programmatici dell’VIII Congresso, anche se contemporaneamente larghissimo spazio era riservato ad aspetti essenziali del pensiero gramsciano, in primo luogo il concetto di egemonia, e alla storia d’Italia, in particolare al Risorgimento riletto attraverso la interpretazione che ne aveva dato Gramsci, cosa che rappresentò per me una vera novità. Da questo punto di vista, debbo dire che i tre mesi trascorsi alle Frattocchie mi sono stati di grande aiuto e di stimolo a scoprire nuovi orizzonti, soprattutto mi hanno pungolato a conoscere ed approfondire un pensiero come quello di Antonio Gramsci che rimane ancora oggi un punto di riferimento essenziale per la comprensione dei processi che hanno portato alla formazione dello Stato unitario e delle sue classi dirigenti e che, anche sotto altri profili, conserva tuttora a mio modesto avviso una grande attualità. Ma anche per altre ragioni i giorni passati nel verde delle Frattocchie sono stati interessanti e, debbo aggiungere, anche piacevoli. Era la prima volta che venivo a contatto con ragazzi, più o meno della mia età, provenienti da ogni parte d’Italia, e ciò mi offrì la possibilità di confrontarmi con esperienze e punti di vista anche molto diversi tra loro, oltre che di stringere amicizie che ricordo con piacere, anche se si è trattato di amicizie assai labili, durate poco più di una stagione e fatalmente annegate, col passare degli anni, nell’oblio più completo, infatti dei miei compagni di corso solo qualcuno ho avuto modo di rincontrare, una o due volte, in seguito. Di quel mio soggiorno vi è poi un avvenimento assai particolare, che più di altri ovviamente è rimasto impresso nella memoria: parlo dell’incontro con Palmiro Togliatti che per noi giovani era una figura mitica, per me tra l’altro era la prima volta, e rimase anche l’unica, che mi capitava di trovarmi faccia a faccia niente meno che con il capo del PCI che sembrava così inavvicinabile! 74 Togliatti in quel periodo era venuto a passare un po’ di giorni in una villa, dove usava recarsi spesso, che si trovava proprio a ridosso della scuola, forse a meno di cento metri. La villa, di proprietà anch’essa del PCI, era assai più modesta di quella che ospitava la scuola ma ugualmente accogliente e riposante, e veniva utilizzata, oltre che per il soggiorno di delegazioni straniere di particolare rango, da Togliatti e da altre personalità del partito per ragioni di studio o di riposo. Un tale uso della villa cessò solo nella seconda metà degli anni ’70, quando anch’essa venne trasformata in scuola di formazione politica, a disposizione dei Comitati regionali che vi potevano organizzare propri corsi. E fu proprio per questa circostanza che io ebbi modo di entrarvi, per la prima volta, tra il ’77 e il ’78, quando anche il nostro Comitato regionale vi organizzò un corso riservato alle compagne alle quali io tenni una lezione sulla formazione del gruppo dirigente abruzzese del PCI, il cui testo conservo ancora. La presenza di Togliatti nella villa in quelle settimane era nota anche a noi, ma nessuno pensava che lo potessimo incontrare, invece un bel giorno egli venne a trovarci e ci rivolse anche qualche parola di cortesia chiedendoci notizie sui nostri studi e sul nostro soggiorno nella scuola: lascio immaginare la nostra emozione e poi tutti che ci demmo da fare, per la foto di rito in bianco e nero, per stargli il più vicino possibile, io sono proprio lì dietro a Togliatti, si vede la mia testa che spunta accanto alla sua...! 75 76 Capitolo IV Dopo l’incontro con il PCI, la mia vita non si esaurì naturalmente tutta nella militanza politica: intanto perché ero impegnato con la scuola, e poi perché, a quell’età, si pensa anche a tante altre cose, diverse dalla politica. Mi animavano inoltre anche passioni, che ho coltivato sin dagli anni del seminario, quali la letteratura e la poesia soprattutto, e che ho continuato a frequentare, in maniera particolarmente intensa, anche dopo la scoperta della politica. Sotto questo aspetto, l’impegno politico non ha mai rappresentato un ostacolo. L’una passione ha sempre marciato accanto all’altra, quasi fossero due mondi distinti che non s’incontravano ma neppure si intralciavano a vicenda: l’uno era il mondo delle sensazioni e dei sogni, tutto privato, l’altro quello del mio rapporto col mondo degli uomini e con la necessità della sua trasformazione, né l’uno era la proiezione dell’altro, chissà forse c’era in questo (o meglio: avrebbe potuto esserci) una qualche contraddizione ma io non l’ho mai avvertito. Qualche giorno fa mi sono messo a rovistare tra le carte di quegli anni che si trovano ancora raccolte, un po’ alla rinfusa, in uno scatolone non grande, e che sono sempre riuscito, nonostante i tanti traslochi cui sono stato obbligato, anche da città a città, a evitare che andassero disperse. Ho sempre pensato infatti che non disperdere le tante carte che ho via via ricoperto d’inchiostro nel tempo fosse, anche questo, un modo per lasciare almeno una piccola traccia di te a chi ti segue nell’incessante cammino della vita, c’è poi da dire che, quando hai voglia di riguardare fatti e avvenimenti che ti hanno coinvolto in prima persona, li puoi rileggere meglio se non sei costretto a ricorrere agli altri, puoi anzi farlo quasi con lo stesso occhio con il quale li hai già visti e vissuti una volta. Ho trovato di tutto: fotografie, lettere, appunti vari (solo qualcuno di natura politica), abbozzi di racconti, perfino un diario che poi non era un diario ma una sorta di mio piccolo zibaldone segreto al quale ho confidato per alcuni anni le mie riflessioni sulla vita, i miei innamoramenti, i miei sogni, le mie delusioni e anche il contrasto che si agitava dentro di me tra il desiderio romantico di una vita scandita dal sogno e tutta vissuta in una dimensione letteraria e poetica e la esigenza morale di non fare da spettatore rispetto a ciò che accadeva nel mondo. Ho ritrovato perfino un saggio su R. Tagore, il grande poeta indiano che amavo allora molto e che avevo cominciato a leggere nelle edizioni Carabba ora introvabili, e poi i testi di tante poesie composte da me, molte cancellate, altre corrette e ricorrette: insomma un mare di cose che sono stati come tanti lampi di flash su un periodo della mia vita molto intenso e ricco, attraversato da sogni, amori, amicizie, giornate luminose e giornate buie che sono là e alle quali ora posso solo guardare con l’occhio della nostalgia, ma anche con la consapevolezza che quegli anni così lontani sono stati anche gli anni della faticosa ricerca di me stesso: come recita un mio verso di allora, erra a lungo l’uomo nella ricerca di se stesso...! Tra quelle tante pagine ingiallite, c’è anche un foglio volante con l’inizio di una poesia poi mai completata, che rende bene il senso di questa nostalgia che è la nostalgia della 77 mia giovinezza: Ora, anche il crisantemo è sfiorito; e della nostra giovinezza non restano che questi pochi fogli ingialliti che una volta parlavano d’amore. Di te, di me… Ho scritto poesie sin dagli anni delle medie, in seminario, e ho continuato a scriverne fino all’inizio degli anni ’60, credo che l’ultima porti la data del ’63, poi ho smesso preso da altre esigenze. La gran parte di esse ha fatto naturalmente la fine che meritavano, ne ho conservate tuttavia un certo numero che forse, care Valentina e Benedetta e care Elisa e Martina, trascriverò a margine di questi ricordi a ruota libera, qualcuna di esse mi pare ancora oggi non disprezzabile se non addirittura bella, non le ha lette finora mai nessuno, ma voi sì, le potete leggere, così potrete conoscere proprio bene il nonno e il suo mondo di tantissimo tempo fa. Con l’avvio del nuovo anno scolastico, nell’autunno del 1952, iniziai a frequentare la seconda classe del liceo classico di Lanciano. La sede che l’ospitava, un vecchio palazzo che si trova proprio sul Corso, oggi è chiusa e fa piuttosto pena a guardarla per quanto è malridotta, abbandonata a se stessa ormai da molti anni. Per accedervi, dovetti naturalmente sostenere, come privatista, gli esami di passaggio dal primo al secondo liceo, il seminario infatti era a tutti gli effetti un istituto privato (ricordo che anche a conclusione del quinto ginnasio dovemmo sottoporci a un esame analogo, che si svolse in un istituto scolastico di Vasto, con una commissione esterna). Le cose andarono bene, salvo che per la matematica. Non ho mai amato la matematica, così non mi sono mai impegnato seriamente a studiarla e soprattutto a capirla (forse la colpa è stata anche dei miei insegnanti che non me l’hanno mai fatta né amare né capire), all’epoca tra l’altro per chi seguiva studi classici la matematica aveva un valore del tutto secondario. Così, fui bocciato appunto in matematica e durante l’estate dovetti fare anche delle ripetizioni per affrontare gli esami di riparazione. Non è però che imparassi molto di più di quello che sapevo, tuttavia a ottobre me la cavai ugualmente grazie anche, o forse soprattutto, al sostegno strenuo che ricevetti dalla professoressa di italiano che poi ebbi come insegnante nei due anni di liceo. Raccontata così, sembra che la continuazione degli studi da parte mia, dopo l’uscita dal seminario, sia stato un fatto del tutto scontato, in realtà non fu così. Fu, al contrario, il risultato molto sofferto di uno scontro anche aspro con mio padre, il quale, da questo punto di vista, continuava a pensarla alla vecchia maniera: venuto meno il seminario, non essendoci i soldi necessari per mantenere un figlio agli studi, cosa fa il figlio di un contadino povero? Fa quello che hanno sempre fatto i figli dei contadini poveri, e cioè fa il contadino anche lui, al massimo emigra! 78 La mia opinione invece era molto diversa. Continuare gli studi era, per me, assolutamente fuori discussione. Iniziò così un braccio di ferro con mio padre che durò diverso tempo, intanto mi preparavo agli esami, ma alla fine fui io che la spuntai, grazie anche a mia madre che è sempre stata più attenta alle mie aspirazioni e ai miei interessi e ha cercato sempre di darmi una mano, qualche volta anche di nascosto da mio padre. Questa non fu l’unica volta che mi scontrai con mio padre: non solo la pensavamo in maniera diversa su tante cose ma, essendo tutti e due molto ostinati nelle proprie idee e anche sufficientemente orgogliosi ognuno di proprio, le occasioni di conflitto era quasi naturale che si presentassero spesso. Per questa ragione, le ho anche prese spesso. Lui usava lu cintrine per domare la mia ostinazione e la mia indipendenza, ‘nci mitte proprie judizie mi ripeteva, anche se all’epoca non era per nulla il solo a servirsi di metodi tanto duri. Anche a scuola i maestri usavano volentieri e spesso nodose e pesanti ferule o ti mettevano in ginocchio dietro la lavagna con i ceci sotto le ginocchia, e non è che i genitori protestassero per questo, la convinzione diffusa (e chissà che non avessero anche un po’ di ragione) era che mazze e panelle fanne li fijje bbelle! Ne ricordo parecchi di questi scontri. Uno addirittura quando avevo intorno ai dieci anni e frequentavo ancora la quinta elementare. Dalla fine della guerra era passato ormai un anno o poco più e a Orsogna la vita si andava normalizzando. E tra i segni di questo ritorno alla normalità c’era anche l’apertura in un grande cortile recintato da mura di un cinema all’aperto che restò in piedi per qualche decennio, fino alla inaugurazione del nuovo cinema nel vecchio teatro comunale. Il cinema allora richiamava sempre una grande folla, e tutti, anche i ragazzini, cercavano in ogni modo di non mancare lo spettacolo. Anch’io, ovviamente, avevo una grande voglia di andare al cinema, e così mi diedi da fare per soddisfare questo mio desiderio: data l’età, non pagavo neppure il biglietto, c’era bisogno però di un adulto che mi accompagnasse, ma nessuno dei miei andava mai al cinema. Finalmente però un bel giorno il mio sogno si avverò. Tra i miei compagni di scuola, all’ultimo anno delle elementari, c’era il figlio di un commerciante di Orsogna, Filippo, con il quale sono rimasto amico per molti anni, finché almeno abbiamo avuto l’opportunità di vederci. Egli andava al cinema con i genitori tutti i sabato sera, e io per questo lo invidiavo proprio. Anzi, glielo dissi pure, lui evidentemente ne parlò con i suoi e così un giorno mi annunciò che, se volevo, potevo andare con lui. Io naturalmente ne fui molto contento e, senza pensarci troppo, il sabato sera successivo mi feci trovare puntuale davanti al cinema: così entrai con lui, accompagnato dai suoi genitori, a godermi lo spettacolo. Quando il film finì, era ormai passata la mezzanotte; e io, manco a dirlo, mi precipitai subito verso casa, allora abitavamo ancora in paese: ma con mia grande sorpresa trovai la porta di casa sbarrata dall’interno, mio padre che non voleva che andassi al cinema mi aveva chiuso fuori! Bussai naturalmente, ma non si affacciò nessuno, non mi rimase perciò altro che tentare 79 di scalare -cosa che non mi fu difficile- la parete di casa e arrivare al balcone del primo piano, e quando vi saltai dentro, poiché era chiusa anche la finestra, mettermi a dormire lì, sul pavimento, per fortuna era estate e faceva caldo. La mattina dopo, all’alba, ci pensò mio padre a svegliarmi con la solita cinta! Un fatto analogo mi capitò, sempre d’estate, quando avevo già intorno ai diciannovevent’anni, allora abitavamo in campagna, finii però questa volta con l’andare a dormire su un albero di fico, anche perché non c’erano balconi nella nuova casa e a terra non era proprio il caso, c’era troppa umidità. Il treno che ci portava a scuola, a Lanciano, era quello che tante volte avevo visto passare, quand’ero ancora bambino, dalla casa di campagna dove mio padre fu colto dallo scoppio della guerra, la masseria di Sacchedimbrujie (il significato è chiaro, non c’è bisogno di spiegarlo, ma non ne conosco l’origine); e ha sempre avuto il nome con il quale tutti lo conoscevamo: la Sangritana, anche se in realtà questo era il nome della società che gestiva in concessione, per conto dello Stato, quella linea ferroviaria a carattere locale, a trazione elettrica ed a scartamento ridotto. Il nostro treno partiva tutte le mattine da Ortona e correva a fianco della statale Marrucina fino a Melone, una contrada di Guardiagrele, ai confini con Orsogna, dove svoltava in direzione di Lanciano, raccogliendo una grande folla di studenti lungo il percorso e collegando tutti i paesini dell’interno con i due centri maggiori della zona: appunto Lanciano e Ortona, all’epoca infatti non c’erano altri collegamenti e l’unica corriera che partiva da Orsogna portava a Chieti passando per Tollo. Oggi la Sangritana -dopo molti salvataggi, di qualcuno dei quali mi sono anch’io interessato quand’ero parlamentare: ma i suoi bilanci erano sempre in rosso- è passata alla regione e continua a funzionare solo per il tratto Lanciano-S. Vito, per il resto la sede ferroviaria è ormai invasa da un’erba folta e i binari vengono mangiati dalla ruggine. Anch’io naturalmente mi imbarcavo ogni mattina sulla Sangritana, ma dovevo muovermi in fretta da casa per arrivare a tempo alla stazione se il treno, che riprendeva, da Orsogna, la sua corsa verso Lanciano intorno alle sei e mezza-sette, non volevo soltanto vederlo passare. Così, tutti i santi giorni, finché non arrivavano le vacanze, ero costretto ad alzarmi la mattina intorno alle cinque (e, l’inverno, a quell’ora non solo era buio pesto ma faceva anche un freddo cane) e a fare a piedi, a passo di bersagliere, con il borsone dei libri in una mano, una bella camminata di quasi tre chilometri: abitavamo allora in campagna, a Colle S. Giacomo, dove i miei si erano trasferiti qualche anno dopo il mio ingresso in seminario. Ricordo che eravamo ogni mattina una bella e chiassosa frotta di ragazze e ragazzi. Tutti con i visi ancora un po’ insonnoliti quando ci incontravamo alla stazione, appena saliti però sul treno, nei vagoni si sentivano solo le nostre chiacchiere e le nostre risate. Erano in molti adesso che mandavano i figli (e anche le figlie) a scuola, a conquistare un diploma, segno tangibile non solo di un grande passo avanti per tanti nella scala sociale e nel costume ma anche delle nuove possibilità che si aprivano ai giovani di accedere a un lavoro leggero, come si diceva allora, e cioè non duro e a volte massacrante come quello dei padri, preferibilmente alle dipendenze dello Stato o del Comune. 80 La quasi totalità delle ragazze frequentava le magistrali, i ragazzi invece le scuole tecniche. A frequentare il liceo eravamo invece solo in tre: io, Filippo (sì, proprio quello che mi aveva dato la possibilità di andare per la prima volta al cinema) e Giovanni, il figlio di un macellaio, che poi, preso il diploma, si iscrisse all’Accademia Militare e non lo vidi più. Pur frequentando la stessa classe, ci avevano però assegnati a sezioni diverse, e così non ci si vedeva molto tra di noi; ma, mentre con Filippo funzionava ancora la vecchia amicizia, con Giovanni invece non ci fu mai un grande feeling. Tornavamo da Lanciano in genere intorno alle due del pomeriggio. Dalla stazione allora era tutto uno sciamare chiassoso di ragazze e ragazzi che si riversavano sul lungo viale che ci portava fino in piazza, poi ognuno imboccava la direzione di casa. A noi del liceo non era però sempre possibile tornare assieme agli altri. Due o tre volte la settimana infatti uscivamo all’una e mezza da scuola, quando ormai il nostro treno aveva già preso il largo, e dovevamo perciò attendere la corsa successiva. Un’attesa di oltre due ore, assai stressante per chi, come noi, aveva iniziato di primo mattino la giornata e saremmo arrivati a casa non prima delle cinque: d’inverno, era già quasi buio e i compiti per l’indomani bisognava comunque prepararli, per giunta (almeno per me) a lume di carburo perché ancora in quegli anni da noi, nelle campagne, non c’era la luce elettrica... Ma c’era poco da lamentarsi. E così, dopo aver mangiato la nostra stozza, e cioè il panino abbondante portato da casa, per rinfrancare le nostre forze, consumavamo l’attesa in chiacchiere, passeggiando o stravaccati su qualcuno dei tanti sedili disseminati tra i viali e le aiuole che si trovano ancora oggi attorno alla stazione di Lanciano. Il momento migliore per noi ragazzi era il viaggio che durava quasi un’ora (un po’ di più all’andata, perché c’era la salita di Castelfrentano): il trenino si fermava a ogni paese e imbarcava (o buttava fuori) via via altri ragazzi, quando poi affrontava le salite cominciava a sbuffare e rallentava, in ogni modo c’era per noi tutto il tempo per ripassare una lezione, chiacchierare del più e del meno, corteggiare una ragazza… In genere, sul treno ci si ritrovava sempre con lo stesso gruppo, quindi era normale che nel corso dell’anno si intrecciassero storie, magari assai fragili e di breve durata; qualche volta si cambiava gruppo ma era un’eccezione, in ogni modo ci si conosceva tutti e i rapporti tra noi erano molto liberi, parlo soprattutto del rapporto tra ragazze e ragazzi. Da questo punto di vista, la situazione era davvero curiosa, nel senso che quando si scendeva dal treno ognuno era costretto a riprendere il suo posto, tornando all’antico: le ragazze con le ragazze, i ragazzi con i ragazzi e quando ci si incontrava per le vie del paese ci lanciavamo sguardi intensi e ammiccanti ma non ci si fermava neppure a parlare, così voleva la morale dell’epoca! Ma era già uno straordinario passo avanti. Prima della guerra infatti era peggio. C’era addirittura chi praticava ancora, per prendere in moglie la ragazza che gli piaceva, il rito del rapimento sia pure soltanto simbolico: era sufficiente scoprire, davanti alla gente, la testa della ragazza agognata impossessandosi di lu fazzole, la pezzola di stoffa colorata che la copriva. A quel punto la ragazza era considerata da tutti come rapita e 81 perciò compromessa, e difficilmente qualcuno si sarebbe fatto avanti per sposarla. J’à levate lu fazzole, non c’era proprio rimedio! Anche se bisogna dire che, almeno negli anni prima della guerra, il rapimento era diventato in realtà (e forse era sempre stato) solo ammuina: la sceneggiata si rendeva necessaria soprattutto per superare d’un balzo divieti familiari, quando i ragazzi erano già d’accordo tra loro; o, più spesso, per evitare di spendere in vestiti e pranzi quel che molti non possedevano. Tra le rapite per amore c’è stata anche mia zia Linuccia; e ancora oggi essa racconta con orgoglio come il marito, lo zio Giuseppe, le togliesse lu fazzole, così la madre di lei non poté più opporsi alle nozze della figlia. Le cose a scuola andavano bene. Io ero stato aggregato alla sezione C, mentre la crema della Lanciano bene era tutta nella A e, in mezzo, c’erano quelli della B. La nostra sezione, insomma, si collocava all’ultimo gradino della scala sociale scolastica e raccoglieva, oltre agli ultimi arrivati come me, i ripetenti e quasi tutti quelli che venivano da fuori Lanciano. Ciononostante, non eravamo affatto gli ultimi sul piano delle capacità e del profitto. C’erano naturalmente anche tra di noi alcuni ragazzi un po’ duri di comprendonio, ma nel complesso eravamo una buona classe che diede una positiva prova di sé in diverse occasioni. Ricordo, ad esempio, quando alcuni dei nostri si diedero da fare per mettere in piedi una iniziativa abbastanza inusuale all’epoca come la pubblicazione di un giornalino di contenuto non goliardico, al quale anch’io collaborai pubblicando sull’unico numero un mio racconto dedicato, guarda caso, a una ragazza con la quale viaggiavo tutti i giorni e che mi piaceva molto. Anche agli esami di terza liceo le cose andarono discretamente per noi; io poi, pur essendo della C, non solo aiutai ragazzi delle altre sezioni per i compiti di latino e greco ma fui tra quelli che ebbero il risultato migliore di tutta la scuola per le materie letterarie e il mio tema di italiano fu addirittura inviato al Ministero, assieme ai migliori temi degli altri licei d’Italia. Insomma, ce la cavammo con onore! Molti dei miei compagni di scuola li ho persi ovviamente di vista dopo il liceo. Tuttavia, con alcuni di essi, lancianesi, ho mantenuto anche in seguito dei rapporti sia pure saltuari, anche perché nel periodo che sono stato a Lanciano come responsabile di zona del partito e poi, fino al 1970, come consigliere comunale mi accadeva spesso di incontrarli. Qualche altro invece l’ho risentito solo molti decenni dopo: uno di questi è Basilio che avevo avuto come compagno di classe e di camerata in seminario, fino al quinto ginnasio, ed ebbi poi, un paio d’anni dopo, compagno di classe al liceo, a Lanciano. Con Basilio ci siamo ritrovati un giorno del 1994, era intorno alla metà di agosto, attraverso una lettera che mi vidi arrivare del tutto inaspettatamente e nella quale egli proponeva un incontro conviviale tra tutti quelli che avevano conseguito la licenza liceale nel lontanissimo 1954. Io gli feci subito sapere di essere d’accordo, tuttavia l’iniziativa non andò in porto: forse fu giusto così perché a quarant’anni di distanza si confrontano, non più le speranze, 82 ma gli esiti, non sempre soddisfacenti (a volte, anzi, c’è proprio da piangere...), del percorso compiuto da ciascuno. Quando ci sentimmo per telefono, ci ripromettemmo anche un incontro in tempi brevi, ma la cosa rimase lettera morta per parecchi anni. Finalmente però, un bel giorno, l’incontro quagliò e ci demmo appuntamento a Pescara. Debbo dire che fui molto contento di rivedere il mio antico amico: negli anni del seminario, ma anche ai tempi del liceo, c’era sempre stato un buon rapporto tra noi. Ricordo, quando eravamo ancora ragazzini e muovevamo assieme, tra le mura del seminario, i primi passi sulla via dello studio e della vita, la sua vivacità e la sua allegria; e come amava scherzare, ogni occasione era buona, mettendoci in questo sempre un pizzico di ironia e a volte, se così si può definire una certa sua scanzonata strafottenza nel rapporto con gli altri, anche di cinismo. Né, bisogna dire, gli faceva difetto il gusto della battuta goliardica. Ricordo anche che durante gli anni del seminario discutevamo spesso tra noi, a volte anche animatamente. Qualche volta, invece, ci scontravamo solo per gioco, quasi a misurare davanti ai compagni le rispettive capacità dialettiche. Come quando, una sera, dopo cena -eravamo già tornati in camerata e ci stavamo godendo l’ultima ricreazione della giornata prima che scoccasse l’ora del silenzio e del tutti a letto- ci sfidammo sul comunismo (dovevamo essere già grandicelli e conoscere qualcosa di più del mondo esterno): io, le strane coincidenze della vita!, a sostenerne le ragioni, che non conoscevo affatto; e lui, che ne sapeva quanto me, a contrastarle! Quando ci siamo rivisti a Pescara, erano passati quasi cinquant’anni dai tempi del liceo. Ma non ci fu alcun imbarazzo né da parte mia né da parte sua, ricominciammo a chiacchierare come se ci fossimo lasciati il giorno prima. E sicuramente, almeno per quanto mi riguardava, a questo contribuì l’impressione che subito ebbi, e della quale fui assai lieto, di avere di fronte, nonostante il tanto tempo trascorso, il Basilio di una volta: non mi sembrava affatto cambiato da come l’avevo conosciuto negli anni dell’adolescenza e della giovinezza. La stessa impressione, insomma, che avevo ricavato dal biglietto di auguri che egli mi inviò per le feste di Natale alcuni anni prima che ci rivedessimo. Tra le mie carte conservo tuttora quel biglietto; e in esso si possono ancora leggere i due versi in tardo latino utilizzati per farmi gli auguri. Sono versi tratti da un antico inno religioso, scritto dal poeta cristiano Celio Sedulio e adottato, successivamente, dalla liturgia natalizia: Venter puellae baiulat Secreta quae non noverat… Un biglietto, ammetterete, piuttosto singolare. Non tanto per la citazione quanto per il fatto che i due versi, letti fuori del loro contesto, si prestano facilmente a una lettura tutt’altro che pia, come se a scriverli non fosse stato il poeta cristiano devoto del V secolo dopo Cristo, ma un chierico vagante medievale in vena di lascivie: il ventre della fanciulla porta dentro di sé le dolcezze segrete che non ha conosciuto... 83 E così infatti, sono sincero, io subito li lessi, felice di ritrovare in questo l’amico spiritoso e allegro di un tempo, lo stesso che ho poi ritrovato a Pescara, con la sua vivacità e la sua voglia d’ironia e del gioco divertito e divertente, sempre un po’ malizioso e anche intriso di goliardia, mai musone... Di quegli anni ricordo con grande piacere anche alcuni professori. Alcuni di essi non è che mi abbiano dato molto. Parlo, ad esempio, della professoressa di filosofia che era sempre un po’ legnosa e parsimoniosa nelle sue lezioni, ma anche dei miei professori di matematica (ne ho avuti più di uno) e di scienze. Quest’ultimo, ormai vicino alla pensione, ricordo che l’unico sforzo che faceva era quello di venire a scuola e dettarci i suoi appunti di chimica e storia naturale che avevano ormai assunto, già da molti anni, la veste di testi canonici immutabili, senza riuscire naturalmente in nessun modo a suscitare il nostro interesse (ma non ci provava neppure), pur trattandosi di argomenti davvero meravigliosi, era insomma proprio una noia assistere alle sue lezioni. Altra cosa invece erano Lidia P., la nostra giovane professoressa d’italiano (non ricordo se ci insegnava anche latino, lei comunque era molto brava soprattutto per l’insegnamento dell’italiano), e don Antonio, il nostro professore di greco. Don Antonio, che aveva tra le altre cose una non comune conoscenza della metrica greca che ci spiegava sempre in maniera accurata, ci ha trasmesso soprattutto il suo grande amore per la poesia greca, principalmente per i poeti lirici, e di questo io gli sono molto grato ancora oggi. Lidia P., che mi prese subito, sin dal giorno dei miei esami come privatista per accedere al secondo liceo, sotto la sua protezione, contribuì moltissimo a rafforzare la mia passione per la letteratura e a stimolare la mia voglia di cimentarmi con la creazione poetica. Anche nello studio del latino, non so dire però -lo ripeto- se il merito è suo o invece di don Antonio, mi ha fatto amare molto i grandi poeti latini, da Catullo a Orazio a Ovidio e, soprattutto, a Virgilio e Lucrezio. Don Antonio oggi lo incontro spesso per Chieti, ormai abbastanza vecchio e curvo, ma non ci siamo mai né salutati né parlati, intanto perché l’ho rivisto a distanza di molti anni da quando ci teneva le sue belle lezioni di letteratura greca; e, poi, tra noi non c’è mai stata confidenza, egli per la verità non la dava a nessuno ed era sempre piuttosto distaccato e severo nel rapporto con gli alunni. Lidia P. invece non la vedo ormai da decenni, anche se ho sempre chiesto e ancora oggi chiedo notizie di lei e so che anche lei ha chiesto qualche volta notizie di me, sia quand’ero ancora consigliere comunale a Lanciano che dopo la mia elezione a deputato. Solo qualche anno fa, parlo del 1999, l’ho come rincontrata, sia pure attraverso mio figlio Stefano, che ha utilizzato il giardino della villa che la sua famiglia possiede a S. Vito per fare una parte delle fotografie che di solito si fanno nel giorno delle nozze: lei era al corrente del fatto e incontrandolo, mentre si spostava nel giardino con la moglie e il fotografo per cercare le inquadrature migliori, gli ha chiesto se era mio figlio, oltre a questo, però, nulla più, mi resta solo il buon ricordo che ho di lei e del suo contagioso entusiasmo per la letteratura italiana e per la poesia. 84 Concluso il liceo, all’inizio dell’autunno del 1954 mi sono iscritto all’Università, alla Sapienza di Roma. Naturalmente per l’iscrizione dovevo recarmi a Roma, dove non ero mai stato, a mie spese, ma fui fortunato: durante l’estate avevo conosciuto gli zii di Filippo, che mi ospitarono assieme al nipote nella loro casa, nella zona di Monteverde. Così potei restare a Roma una quindicina di giorni, provvedere con tutta calma agli adempimenti necessari alla iscrizione, io mi iscrissi alla facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea di Lettere antiche, mentre Filippo si iscrisse a Farmacia, e approfittare della circostanza anche per conoscere qualcosa di Roma. Ci accompagnava lo zio, Cesare, e ricordo che ci portò a visitare, oltre al Vaticano, anche il Mosè di Michelangelo nella chiesa di S. Pietro in Vincolis. Gli zii di Filippo furono davvero gentili con me, in seguito non ho avuto più l’opportunità di essere loro ospite, ma ho sempre mantenuto un contatto -sia pure sporadico- con loro, perché quasi ogni anno venivano a passare le vacanze a Orsogna. Avevano due figlie, ma la più grande, che aveva tra i dodici e i tredici anni, purtroppo era malata di tisi (credo) e di lì a qualche anno sarebbe morta. Si chiamava Maddalena, un viso triste e pallidissimo già quando la conobbi, e la sua morte mi colpì moltissimo tanto che le dedicai una mia poesia piena di commozione, anche se i suoi genitori non l’hanno mai letta. Eccola ora, si intitola A una fanciulla morta: Tu che ora hai nera la bocca come la terra, eri un canto sommesso nella trepida attesa di un sogno. Con tacito incanto il tuo leggero passo di danza si perde nel buio. A quale intatto sorriso volasti, a quale stupita fiaba di colori e di suoni? La mia vita universitaria, che non si è poi mai conclusa con la laurea, in realtà fu quasi inesistente. Essa si esauriva tutta nello studio fatto a casa e nel recarmi a Roma ogni volta che dovevo dare un esame, anche se questo non era certo il modo migliore per accostarmi all’insegnamento universitario: mi toccava studiare solo sui testi e sulle dispense, senza poter mai assistere alle lezioni dei professori, sobbarcandomi poi una fatica improba quando arrivava il giorno degli esami. D’altra parte, non avevo altra scelta. Così, ogni volta che dovevo dare un esame, qualche giorno prima della data fissata, salivo nel tardo pomeriggio sulla Sangritana che mi portava a Ortona, a Ortona poi aspettavo il treno proveniente dalla Puglia e con 85 esso arrivavo a Pescara dove finalmente, ormai a notte già avanzata, potevo salire sulla carrozza che alla mattina presto mi avrebbe scaricato nella Città Eterna. Restavo a Roma naturalmente solo il tempo necessario per fare gli esami, due o tre giorni al massimo, e poi di nuovo a casa facendo all’inverso lo stesso percorso! Ho potuto soggiornare a Roma, nel periodo dei miei studi universitari, e fu un soggiorno addirittura di tre mesi, soltanto una volta, tra gli inizi di gennaio e la metà di marzo del ‘56. Avevo messo da parte un po’ di soldi facendo ripetizioni tutti i giorni, salvo la domenica, di italiano e di latino a un gruppo di oltre quindici ragazze e ragazzi rimandati a ottobre; e i soldi che guadagnavo li usavo per pagarmi tasse e libri. Per la verità, per il mio soggiorno a Roma, i soldi di cui disponevo non mi erano sufficienti, ma mi venne in soccorso la mia nonna materna, la Stelline come tutti la chiamavano (era poi il suo cognome, Stellini, mentre il nome era Concetta), noi nipoti invece la chiamavamo mammarosse, alla francese. La Stelline era davvero una persona straordinaria, dotata di grande energia e determinazione, che non si lasciava per nulla abbattere dalle difficoltà, e lei ne aveva dovute affrontare tante, da sola, dopo la scomparsa del marito nel corso della prima guerra mondiale. Dopo che i figli andarono via da casa (uno, a 16 anni, era emigrato in Argentina, dove si trovavano già le sorelle di mia nonna, Giacinta Sabbiuccia e Colomba), è vissuta sempre da sola, fino a tarda età, e solo quando non ce l’ha fatta più si è trasferita a casa nostra dove poi è morta a oltre novant’anni; ha avuto sempre molto spirito di indipendenza e di autonomia e anche in politica aveva le sue idee, votava socialista e poi -quando sono arrivato io- cominciò a votare comunista. Con lei, io ho avuto sempre un buon rapporto; e, anche quando sono andato via da Orsogna, tornando a casa non mancavo mai di farle almeno una visitina, e ogni volta mi regalava qualcosa. Non era così con l’altra nonna, Macole (Marianicola), essa era piuttosto fredda e scostante, e poi -dopo il matrimonio delle mie zie che si erano sposate fuori di Orsogna, l’una ad Arielli e l’altra a Ortona- i rapporti della mia famiglia con lei, che viveva con la nuora e il nipote rimasto orfano a causa della guerra, si erano fatti abbastanza radi, di lei ricordo solo il racconto che una volta ci fece di quando era bambina e aveva conosciuto i briganti. Con le mie zie invece no, il rapporto era diverso, soprattutto con zia Rachele, la più piccola delle sorelle di mio padre, era sempre allegra, le piaceva scherzare e giocare con me, a lei è legato anche il mio ricordo più lontano nel tempo: avevo forse intorno ai due-tre anni, mi vedo sopra ‘nu trajìne assieme a mia madre e alla zia che ha il volto sorridente e mi prende in braccio, e poi mi ritrovo a Pescara, a correre sotto la pineta, a poca distanza dal mare, credo che si trattasse di un pellegrinaggio al santuario della Madonna dei sette dolori che si trova ai Colli di Pescara, fatto appunto sopra un biroccio trainato dal cavallo (a quell’epoca, siamo prima della guerra, i pullman da noi neppure esistevano), con una sosta in pineta prima del ritorno a Orsogna. Il soggiorno a Roma, sia pure solo per tre mesi, fu molto interessante. Non solo frequentai 86 le lezioni di latino tenute da Paratore (se non le si frequentava, con tanto di firma, per un periodo di due anni non si poteva dare l’esame di latino, che era appunto biennale), ma ascoltai anche le lezioni di altri professori, soprattutto ebbi l’occasione di assistere ad alcune lezioni di Giuseppe Ungaretti, di cui conoscevo già e leggevo con passione le raccolte di poesia più importanti, su Leopardi. Ungaretti parlava con lentezza ma anche con una certa enfasi, il suo volto mentre parlava era come trasognato e quando un sorriso lo illuminava diventava come il volto innocente di un bimbo; inoltre accompagnava sempre con molti e ampi gesti le cose che diceva quasi volesse, con il suo gesticolare, far cogliere nelle parole che pronunciava non so quale altro misterioso significato. Ricordo che, in quei tre mesi, alloggiai in una pensione vicino a Piazza Bologna, tenuta da una vecchia signora che in gioventù aveva lavorato nel varietà, qualche volta ne accennava anche, chiacchierando con noi; nella pensione poi ritrovai anche un mio vecchio compagno di classe, Augusto, iscritto alla facoltà di giurisprudenza: era di destra già quando frequentavamo il liceo, ma con lui questo fatto non ha mai costituito un problema e siamo sempre riusciti ad andare d’accordo, in seguito -tra gli anni ‘60 e ‘70- ho avuto modo di incontrarlo spesso e anche oggi, quando capito a Lanciano, non mi dispiace di vederlo e scambiare qualche chiacchiera con lui. Nonostante tuttavia le tante difficoltà che ho dovuto affrontare e il non poco tempo dedicato all’attività politica, oltre che alle mie letture e alle mie velleità di poeta, ho sostenuto ugualmente quasi tutti gli esami previsti dal mio corso di laurea. Fino al ’59, anzi, ho dato a volte due a volte tre esami all’anno; non è che i voti fossero particolarmente brillanti, essi avevano piuttosto un andamento alterno, all’inizio mi sono beccato anche un respinto in geografia, tuttavia, accanto ad alcuni diciotto e alcuni venti e ventidue-ventitre, riuscii a rimediare anche diversi venticinque e ventisette e perfino due trenta. Dopo il ’59, invece, non ho dato più esami, anche se me ne mancavano solo due: latino e greco. Avevo troppo da fare. Tuttavia nel ‘62 ripresi in mano i testi universitari e ne diedi un altro: quello biennale di latino. Ma fu l’ultimo. Feci l’esame, tra l’altro, all’Università di Urbino, dove mi ero intanto trasferito perché a Roma non potevo farlo in quanto mi mancavano le firme di frequenza necessarie, quelle del secondo anno. Per laurearmi avrei dovuto dare quindi solo l’esame di greco, che però non ho mai dato pur avendolo in parte preparato; avevo oltretutto anche concordato nel frattempo la tesi con il professore di latino, un argomento (La lingua di Catullo) della cui difficoltà solo in seguito mi sono reso veramente conto, ma anch’essa, come l’esame di greco e la mia laurea in lettere antiche, è rimasta lì, in mente Iovis, in attesa di essere scritta e discussa. La fine prematura della mia possibile carriera di professore è stata tuttavia l’esito, più che di difficoltà di vario tipo che pure ci sono state, soprattutto di una scelta politica e culturale che, all’epoca, non è stata solo mia ma di molti di quelli che, a sinistra, avevano fatto la scelta di vita di cui parla Amendola: per chi come me era impegnato a cambiare il mondo e credeva fermamente in questa possibilità, che importanza o utilità poteva avere una laurea? E poi, parliamoci chiaro, non è che avessi tanto tempo a disposizione per lo studio. 87 Oltre a stare dietro alla normale attività di partito, all’epoca -se si voleva corrispondere fino in fondo al proprio ruolo di dirigente di un partito come il PCI- bisognava sempre tenersi al corrente di quel che succedeva in giro, dai problemi locali a quelli di carattere generale, approfondire tematiche specifiche, arricchire continuamente la propria cultura storico-politica e mettersi sempre più in grado di comprendere anche da un punto di vista teorico i processi in atto nella società italiana e nel mondo. Non è perciò che leggessi e studiassi poco: solo che non era semplice, ad esempio, conciliare la preparazione dell’esame di greco, un esame tosto e con tanti testi da conoscere e tradurre, o della tesi su Catullo con tutto quel che avevo da fare, non perché l’una cosa non ci azzeccasse molto con l’altra, ma perché il tempo era quel che era. Della mia mancata laurea, ricordo che mio padre dava la colpa a Rosetta, perché non mi pungolava a sufficienza; ma, com’è evidente, essa davvero non c’entra nulla… Cantica gignit amor et amorem cantica gignunt. Cantandum est ut ametur et ut cantetur, amandum. Sono due dei pochissimi versi che restano di un oscuro poeta latino della decadenza, Tucciano, del terzo secolo dopo Cristo. Mi sono venuti in mente ripensando a quegli anni della mia giovinezza e alle tante volte che mi sono innamorato e al fatto che sempre questi miei innamoramenti si sono tradotti in tentativi poetici. Come scrive appunto Tucciano, l’amore ispira canti e i canti ispirano amore, cantate per amare e amate per cantare, insomma una specie di cortocircuito lirico-sentimentale favorito naturalmente dall’età giovanile ma anche dalla dimensione romantico-letteraria entro cui quegli episodi venivano vissuti. Sandra, Lavinia, Livia…: sono alcuni dei nomi che hanno scaldato in quegli anni il mio cuore e sono state anche le mie muse ispiratrici. Ce n’è stata anche qualche altra, ma nessuna di esse ha lasciato tracce significative nella mia memoria, eccetto una ragazza di Poggiofiorito, un piccolo comune non distante da Orsogna, della quale però non riesco più a ricordare il nome: bionda, capelli lunghi, corporatura esile e ben fatta, mi capitava di vederla spesso la domenica a Orsogna, oltre che puntualmente in occasione delle feste di mezzo agosto; una volta, io e i miei amici siamo andati addirittura a piedi a Poggiofiorito, alla festa patronale del paese, per cercare di corteggiarla, ma era sempre accompagnata dai suoi... Sandra, che aveva un carattere solare, molto espansivo, e alla quale dedicai il racconto pubblicato sul giornalino del liceo, la incontravo tutti i giorni sul treno e viaggiavamo sempre insieme, mentre Lavinia l’ho conosciuta all’ospedale di Ortona dove assistevo mio padre che si era operato di ulcera, doveva essere tra il ’54 e il ’55. All’ospedale era ricoverata anche mia zia, la zia Rachele che risiedeva a Villa Grande di Ortona, essa soffriva di cuore, il male che doveva poi portarla alla morte ancora abbastanza giovane. Ebbene, mia zia si era messa in testa che era ormai arrivata l’ora che cominciassi a pensare al domani, allora avevo vent’anni o poco più, e lei, manco a dirlo, pensava di avere per le mani la ragazza giusta, Lavinia appunto, ricoverata accanto a lei. Così me la presentò, era una ragazza delle ville di Ortona, di famiglia 88 contadina benestante, molto simpatica e di una bellezza semplice e dolce, la cosa però non durò che tre o quattro giorni, il tempo che rimasi in ospedale, dopodiché non l’ho più incontrata, ma la sua bellezza e la sua semplicità schietta e spontanea lasciarono qualche ferita dentro di me testimoniata da una breve poesia che le dedicai qualche settimana dopo: Di tanta dolcezza non resta che un sogno, fuggevole e stanco. Leggera vola al mio cuore la melodia del tuo sguardo sereno. Livia invece fu una cosa diversa, una passione che durò qualche stagione, una volta sembrava che le cose dovessero andare per il meglio, altre volte invece…; e questo andamento alterno mi faceva molto soffrire, e confidavo naturalmente le mie pene d’amore al mio diario. Con lei ho passato momenti davvero felici. Se non ricordo male ci vedevamo spesso nella biblioteca del paese, solo una volta ci siamo trovati soli, lungo la strada vecchia per il convento; e quando non potevamo incontrarci ci scambiavamo naturalmente delle lettere, recapitate sempre da qualche amico comune, allora era così e forse era un vantaggio: io che sono fondamentalmente un timido, nelle lettere trovavo invece il coraggio di scrivere cose che a voce non avrei mai detto! Come dice Cicerone, epistula non erubescit... La cosa più bella di lei era il suo sorriso; e anche quel suo modo molto dolce e intrigante di guardarti e parlarti mi stregava. Ricordo ancora la gita che facemmo alla Grotta del Cavallone, a Lama dei Peligni, che ci consentì di stare insieme tutta la giornata. La gita, alla quale parteciparono giovani e meno giovani, era stata organizzata da Zigulare, un simpatico commerciante di Orsogna che aveva una specie di bazar dove si poteva trovare di tutto; egli aveva anche la passione della musica, in particolare dell’opera, e possedeva un numero sterminato di dischi e ce ne fece ascoltare parecchi organizzando ogni tanto, anche per periodi di più settimane, nella sala della biblioteca, l’ascolto appunto di opere ma anche delle più celebri sinfonie di Beethoven e Schubert e di tanti preludi e concerti di Chopin. La memoria di quel giorno, è il 17 luglio del 1955, è ancora molto viva dentro di me e conservo ancora la fotografia scattata a Torricella Peligna, dove ci fermammo per il pranzo, mentre siamo a tavola, io e lei siamo di fronte a chiacchierare e lei ha quel sorriso e quello sguardo che mi avevano conquistato. Un bel giorno tuttavia l’incanto finì, ricordo ancora la lettera che essa mi mandò per dirmi che le dispiaceva ma… Ne ebbi per diverso tempo ma alla fine, come si sa, il tempo guarisce anche le ferite d’amore: come dice Virgilio, omnia fert aetas! Oggi che anch’essa è nonna la incontro qualche volta, siamo restati amici, ma di quel 89 tempo che pure fu felice non accenniamo neppure, chissà forse dovrei darle qualcuna delle poesie che scrissi per lei e che lei allora non lesse: che senso ha disperdere o ignorare i ricordi della propria giovinezza? Negli anni del liceo, la mia giornata era assorbita prevalentemente dallo studio. D’altra parte, soprattutto d’inverno quando faceva buio presto, le ore a disposizione per preparare i compiti del giorno successivo erano proprio ridotte all’osso e poi, la sera, bisognava andare a letto a un’ora decente, altrimenti il giorno dopo non mi reggevo in piedi. La domenica però era il mio giorno libero, ricordo che la mattina mi affrettavo per arrivare il più presto possibile in paese dove mi aspettavano gli amici e con loro o si chiacchierava in piazza o facevamo una passeggiata lungo il viale alberato della stazione, fino alle prime propaggini della bellissima pineta che si incontra arrivando a Orsogna da Guardiagrele; allo scoccare del mezzogiorno però eravamo di nuovo tutti in piazza per non perdere lo spettacolo della sfilata delle ragazze che uscivano dall’ultima messa, tutte belle e agghindate, con il vestito della festa, consapevoli dell’esame attento a cui sarebbero state sottoposte dai tanti ragazzi in attesa del loro passaggio: un rito antichissimo che si ripeteva puntualmente tutte le domeniche e negli altri giorni festivi, con soddisfazione sia dei ragazzi che delle ragazze. Anche nel pomeriggio il rito continuava. Gruppi di ragazze e di ragazzi, ognuno per conto proprio, si incrociavano e si lanciavano muti segnali di intesa quando si incontrava la ragazza dei propri sogni; ma all’ora di cena la sceneggiata si concludeva e lungo il viale, sia pure ancora per poco, restavamo solo noi ragazzi. D’estate invece, dopo la chiusura della scuola, quando arrivava il caldo e le giornate erano belle, ogni giorno era buono per ritrovarsi con gli amici a chiacchierare e a fare lunghe passeggiate. Discorrevamo di tutto, di politica, di letteratura e naturalmente anche di ragazze. Molte delle ragazze che incrociavamo la domenica e negli altri giorni di festa le ritrovavamo di solito il giorno dopo, sul treno. Vi erano invece gruppi che potevamo ammirare solo durante le ore del passeggio, soprattutto a primavera e nei mesi estivi. Tra questi, vi era il piccolo gruppo formato da tre sorelle, le più ricche del paese, che non si mescolavano con le altre ragazze, una di esse era veramente bella mentre le altre due erano solo carine. Le vedo ancora nel mio ricordo passeggiare tutte sole o, al massimo, accompagnate dalla tata, sempre con lo stesso passo e anche con una certa grazia e tutti che le sogguardavamo incontrandole. All’epoca non conoscevo ancora Dino Campana, il nostro geniale poeta maledetto del primo quarto di secolo del ‘900, ma quando lessi le sue poesie una in particolare mi colpì riportandomi alla memoria l’immagine delle tre sorelle che passeggiano, parlo della lirica intitolata Tre giovani fiorentine camminano: Ondulava sul passo verginale Ondulava la chioma musicale Nello splendore del tiepido sole 90 Eran tre vergini e una grazia sola Ondulava sul passo verginale Crespa e nera la chioma musicale Eran tre vergini e una grazia sola E sei piedini in marcia militare. Erano proprio loro, le tre sorelle, una grazia sola e i sei piedini in marcia militare, anche se la loro passeggiata procedeva in realtà sempre a ritmo piuttosto lento! Le feste di mezzo agosto, quando Orsogna festeggia S. Rocco e l’Assunta, erano una occasione speciale per ammirare le bellezze non solo del paese ma anche dei paesini vicini. Ma, al di là di questo, le feste patronali rimangono nella mia memoria come una delle cose più belle ed eccitanti di quegli anni, esse infatti hanno già di per sé un fascino particolare. C’erano i tanti colori delle bancarelle, la novità delle giostre, una folla vestita a festa, di bambini giovani e adulti, che inonda la grande piazza e gremisce il viale dove è addirittura difficile passeggiare senza urtare qualcuno, e poi, su un lato della piazza, la cassa armonica tutta illuminata e la banda che suona di solito brani di opere celebri e i contadini che ascoltano con attenzione, non mancava proprio nessuno, in quei giorni era raro che qualcuno, anche in campagna, restasse a casa! E a mezzanotte, o poco più, dell’ultima sera lo sparo, uno spettacolo quasi sempre bellissimo che veniva accompagnato anche allora da tanti oh! di meraviglia ogni volta che c’era un numero ben confezionato. Naturalmente, in quegli anni come del resto in quelli successivi, l’interesse di noi ragazzi si rivolgeva anche ad altre cose, non solo alle ragazze. Per me c’erano ovviamente la politica e l’università, ma anche la lettura dei poeti moderni che a scuola non ci avevano fatto conoscere, e poi le lunghe ore passate a fantasticare e comporre poesie. C’era, inoltre, la biblioteca comunale nella quale ero di casa e dove non si leggeva soltanto o si prendevano libri a prestito, di solito romanzi, ma si organizzavano anche molte e varie attività. La biblioteca era stata fondata e veniva gestita da Emiliana Zecchini; e si trovava in una sala del municipio, quella che guarda su Via Roma e dove oggi si svolgono le sedute del Consiglio comunale. Emiliana veniva dal Trentino ed era arrivata a Orsogna per conto di una organizzazione, di cui adesso non ricordo più il nome, legata alla ricostruzione post-bellica; e il centro della sua attività era proprio qui, nel nostro paese, dove aveva messo in piedi non solo la biblioteca, ma anche altre iniziative rivolte soprattutto ai giovani. Era sempre impegnata a organizzare qualcosa: aveva doti davvero eccezionali di organizzatrice ed era instancabile; sapeva poi parlare con tutti, così che la biblioteca era diventata il punto di riferimento e di ritrovo di tanti ragazzi e ragazze ma anche di contadini che vi hanno frequentato i corsi serali, assistito a conferenze e partecipato ai concerti con i dischi di Zigulare. 91 Nella biblioteca infatti, soprattutto d’inverno, oltre ai concerti, spesso si organizzavano anche conferenze, le ricordo bene perché anch’io ne tenni una, non so se proprio inappuntabile nel linguaggio e negli argomenti usati, sul romanzo di J. Steinbeck Al dio sconosciuto. Insomma, sono stati anni intensi dei quali conservo davvero un buon ricordo. Scrive Dante nel XII canto del Purgatorio: …molte volte si ripiagne / per la puntura de la rimembranza. Ripensando a quegli anni mi capita ancora oggi di sentirmi preso dalla nostalgia, per la puntura appunto de la rimembranza. Non vivevamo certo nell’età dell’oro, tutt’altro anzi, visti i tanti problemi sociali e anche politici dell’epoca, ma la giovinezza è davvero l’età dell’oro o, almeno, è come se lo fosse! Il concetto di rimembranza è largamente presente, assieme a quello di lontananza, nella poesia d’amore provenzale e poi nella lirica d’amore italiana del ‘200 e del ‘300: la lontananza e la rimembranza rafforzano il desiderio della donna amata, e così, come canta in una sua lirica Giacomo da Lentini, lo squisito poeta-notaio siciliano del ‘200, la rimembranza di voi, aulente cosa, gli occhi m’arrosa di un’aigua d’amore. Anche per la giovinezza le cose non stanno diversamente. La rimembranza di essa, unita alla lontananza da una stagione ormai finita da così tanto tempo, arrosa ancora i nostri occhi di un’acqua d’amore... Dopo la fine del liceo, quasi tutti i giorni all’imbrunire, anche d’inverno, tornavo in paese, di solito non cenavo neppure, lo facevo solo al ritorno alla luce del lume a carburo, mia madre o le mie sorelle mi lasciavano la cena sulla tavola. A volte avevo impegni di partito che spesso occupavano la serata in discussioni fino a tardi, altre volte invece mi recavo in biblioteca oppure, quando faceva freddo, passavamo la serata al bar a giocare a carte, diversamente passeggiavamo abbandonandoci a lunghe e seriose chiacchierate. Avevo un gruppo di amici fissi, più o meno della mia età: Remo, Fausto, Rocco, Vincenzo e Giovanni, erano i più intimi, poi naturalmente ogni tanto si aggiungeva qualche altro. La nostra amicizia in quegli anni non conobbe incrinature, ma dopo che lasciai Orsogna ci siamo persi completamente di vista, ognuno ha preso la sua strada; qualcuno, come Rocco, ha abbandonato anche prima la nostra compagnia finendo addirittura in Argentina dove già da tempo viveva il padre, per qualche tempo ci siamo anche scritti ma la cosa naturalmente non durò. Passavo una parte del mio tempo anche con gruppi di compagni ormai di una certa età, iscritti al partito, e spesso con loro si finiva in cantina, a Staccone o a Ciccone, dove di solito si chiacchierava bevendo vino, tre quarti e ‘na gazzosa. Tra questi compagni, c’era un quintetto che si ritrovava spesso assieme ed erano tutti di 92 uno spasso e di una simpatia incredibili. Erano ‘Ntonie di Mezzafemmine, muratore, Rocche di Baffone, contadino, Ciammette, anche lui contadino, un altro muratore, Duminiche di Mauselle (il soprannome gli derivava dal possesso di una Mauser, abbandonata da qualche tedesco e finita nelle sue mani all’indomani della guerra), e poi Scenna Nicolò, anche lui muratore, conosciuto da tutti come Cikulinov, egli era stato per diverso tempo segretario della sezione e durante il fascismo -allora lavorava a Roma- veniva spesso prelevato dalla polizia in occasione di manifestazioni per essere trattenuto in galera per tutta la loro durata, di lui si diceva anche che discendesse da uno dei briganti più famosi di Orsogna, Salvatore di Cuntine. Erano tutti dei grandi lavoratori, ma quando stavano assieme sembravano tornare bambini, ed era proprio uno spettacolo sentirli battibeccare tra di loro o scambiarsi battute e panzane a tutto spiano, spesso raccontavano episodi boccacceschi o comunque spassosi accaduti a questo o a quello in paese, e possedevano tutti un fine senso dell’ironia e, quando capitava loro a tiro qualcuno un po’ sprovveduto, c’era davvero da divertirsi. Di due di loro, oggi tutti scomparsi, mi capita di ritrovarmi ogni tanto con i figli, Niculine di Mauselle che è stato anche assessore con me durante la mia amministrazione ed è un carissimo amico, e Gianni di Mezzafemmine: hanno tutti e due conservato lo spirito e l’ironia dei padri, dei quali hanno anche continuato il mestiere, e, come loro, sono anch’essi delle buone forchette, confermando anche in questo la tradizione paterna! Gianni poi, che è, come il padre, un cultore di cose rare e curiose delle tradizioni paesane, mi ha anche fatto partecipe qualche tempo fa di alcuni termini dialettali di gergo che forse solo lui ancora conosce e che io non avevo mai sentito pronunciare: la spezzarole, la vaschetta di cemento in cui una volta si lavavano i piatti, lu ìfije, il sottoscala utilizzato come ripostiglio all’interno delle case, lu uiccette, la finestrella della porta di casa attraverso la quale si guarda all’esterno, la muscìja, il fagottino di cibo che ci si portava dietro sul lavoro per il pranzo, le salivastrelle, le salsicce di fegato sempre così buone da mangiare... Durante gli anni del liceo e, poi, dell’Università, finché sono restato a Orsogna, ho trascorso tanta parte del mio tempo in campagna. I miei infatti, come ho già ricordato, quando io ero ancora in seminario, anche per ragioni di lavoro, avevano deciso di trasferirsi a Colle S. Giacomo, dove, intanto, un nuovo immobile in muratura, più accogliente e sicuro, aveva preso il posto della vecchia masseria di terra. Vivere in campagna non mi è mai dispiaciuto; e anche oggi, del resto, abito con piacere in un quartiere che è proprio ai margini della campagna, con la possibilità anche di godere di un bellissimo panorama fatto di colline coltivate e impreziosito, all’orizzonte, a nord dal Gran Sasso e dai monti della Laga e, a est, da scorci di azzurro del mare di Francavilla, alla confluenza della vallata dell’Alento con l’Adriatico. La vita in campagna ha sicuramente i suoi aspetti poco gradevoli, ma ti offre anche cose che superano largamente i disagi: grandi spazi che ti chiamano ad approfittarne, almeno con la fantasia, libertà nella scelta dei tuoi modi di vita e anche tante leccornie a portata 93 di mano. Da quest’ultimo punto di vista, ho ancora oggi l’acquolina in bocca per il siero con frusti di ricotta e pane che mi aspettava allora quasi ogni mattina, dopo la nascita degli agnelli nella nostra stalla; e ricordo con nostalgia le grandi abbuffate di pane sotto il coppo con olio e zucchero o con i fichi, colti direttamente dall’albero, durante l’estate, così come è viva in me la memoria del tempo passato tra le coltivazioni di fave, ceci e piselli, al tempo della loro maturazione, per il gusto di assaporarli appena sradicati da terra o staccati dal gambo, la stessa cosa accadeva anche con le noci e le mandorle assaporate quand’erano ancora quasi acerbe e, poi, con l’uva, mi piacevano soprattutto l’uva fragola e la malvasia, che richiamava la tua attenzione occhieggiando tra i pampini folti delle viti coltivate a filari e sorrette ciascuna da un palo o una canna ficcati nel terreno, mi vedo, inoltre, ancora sdraiato nel campo così colorato di rosso della lampalupine (l’erba sulla?), per gustarne -oltre alla frescura- la parte più dolce e tenera dei gambi. Naturalmente, io non ho mai guardato alla campagna con l’occhio del contadino; e la cosa era possibile perché io non partecipavo, se non in misura del tutto marginale e occasionale, al lavoro della mia famiglia, avevo infatti il privilegio di essere uno studente, mi potevo così tranquillamente dedicare ad altre attività e godermi nello stesso tempo anche i vantaggi e le bellezze della campagna. Il lavoro dei contadini è un lavoro duro, soggetto per giunta a una sorta di precarietà permanente legata innanzitutto all’andamento delle stagioni, per il contadino perciò la campagna non è il luogo dell’idillio poetico, una specie di Eden da vivere con tutta l’intensità del sentimento, ma è lavoro, fatica a volte anche improba, un reddito non proprio soddisfacente (almeno allora). Del resto, bastava guardare alla vita dei miei per rendersene conto: qualunque fosse la stagione, c’era sempre da fare, anche d’inverno quando pure il lavoro diminuisce. Spesso, negli anni del liceo ma anche in occasione della preparazione del mio esame di latino per l’Università, mi è capitato di leggere e tradurre passi delle Bucoliche e delle Georgiche. Uno dei passi che più mi colpì allora fu quando, nelle Georgiche, Virgilio esclama parlando dei contadini: O fortunatos nimium, sua si bona norint, agricolas! E poi, poco più sotto, aggiunge: at secura quies et nescia fallere vita, dives opum variarum, at latis otia fundis, speluncae vivique lacus et frigida tempe mugitusque bovum mollesque sub arbore somni non absunt... In realtà, Virgilio esalta la fortuna dei contadini e i beni di cui essi possono disporre, mettendo in relazione la vita dei campi con gli affanni che segnano la vita di chi cerca 94 ricchezza e agi attraverso la corsa affannosa agli affari, e con i pericoli che corre chi sceglie la vita militare, ai contadini inoltre -nota ancora Virgilio- la terra produce facilem victum, ad essi perciò non mancano una pace sicura e una vita priva d’inganni, ricca di beni diversi, un riposo in grandi fondi, grotte e laghi pieni di vita, fresche vallate e muggiti di buoi e dolci sonni sotto gli alberi… Com’è evidente, non è questa la vita dei contadini, siamo di fronte a una visione tutta letteraria (e anche politica, per assecondare il tentativo augusteo di ricostruzione di una forte presenza di contadini ricchi nella campagna italiana) nella quale però Virgilio esprime con una intensità straordinaria, nelle Georgiche come nelle Bucoliche, il suo amore per il mondo agro-pastorale che è il suo ambiente di provenienza, riuscendo a trasformare questo suo amore e il rapporto profondo che egli intrattiene con la natura in grandissima poesia, intessuta di una magica bellezza e musicalità! Virgilio, nell’Ecloga V delle Bucoliche, fa dire a uno dei suoi poeti-pastori: Tale tuum carmen nobis, divine poeta, quale sopor fessis in gramine, quale per aestum dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo. Virgilio parla evidentemente di se stesso, il suo canto è come quello di Orfeo che soggioga il mondo animato e inanimato: Tale è il tuo canto per noi, divino poeta, come il sonno per chi, stanco, giace sull’erba, come durante la calura estiva spegnere la sete ad un ruscello zampillante di acqua dolce! Anche il mio modo di guardare alla campagna, fortemente influenzato dalla lettura di Virgilio come di tanta poesia italiana, era dunque l’espressione di una visione letteraria, comunque mediata dalla letteratura; d’altra parte, al di fuori di questo approccio, è difficile cogliere e apprezzare le bellezze e le forti sensazioni che provoca la vita a contatto quotidiano con la terra, chi coltiva la terra coglie innanzitutto la durezza e la fatica del suo lavoro. Il podere di Colle S. Giacomo, coltivato a mezzadria dalla mia famiglia, non aveva una grande estensione, arrivava sì e no ai 4-5 ettari ed era situato lungo il pendio che si dirama sulla sinistra della strada provinciale, guardando verso Lanciano. La strada provinciale infatti è posta proprio al culmine della collina e fa così da discrimine tra il versante, a destra, che volge verso la vallata del Moro e quello, appunto a sinistra, che si dirige verso il vallone dove scorre il torrente che parte dalla fonte vecchia di Orsogna e confluisce a un certo punto nel Moro. Il nostro podere seguiva il pendio verso il vallone, ed aveva una forma all’incirca triangolare: la base era costituita dal confine che correva a monte, dal lato del paese, per circa un chilometro in linea quasi retta dalla masseria al pozzo scavato su un pronunciato rialzo del terreno, che utilizzavamo per adacquare il piccolo orto coltivato a ortaggi, mentre i lati erano rappresentati l’uno, a sud, da un torrentello tutto ricoperto di pioppi, olmi e arbusti vari, e l’altro, a nord est, dalla parte di terreno coltivato a vigna, e tutti e due convergevano verso il basso, in direzione appunto del vallone ma senza raggiungerlo, si fermavano qualche chilometro prima. 95 La masseria si trovava all’inizio della base del triangolo, a ridosso del tratturo, a meno di cento metri dalla strada provinciale, e aveva davanti uno spiazzo abbastanza largo dove normalmente razzolavano le galline e il nostro volpino dormiva i suoi sonni tranquilli a guardia della casa, e ai cui lati svettavano alcuni pioppi e fioriva un albero di gelso. Dietro la casa, dopo la guerra era stato piantato un noce che si era fatto alto e robusto, e a poca distanza c’era l’altro pozzo dal quale attingevamo l’acqua per bere; a una diecina di metri dal fianco della casa invece, verso valle, si stagliava il pagliaio, abbastanza capiente, nel quale, oltre a provviste varie, veniva accatastato il fieno per il poco bestiame che i miei allevavano. Nella campagna, mio padre coltivava di tutto, l’agricoltura intensiva da noi non era ancora arrivata: c’era l’orto, la vigna che ci forniva a sufficienza il vino per tutto l’anno, e, sparse per tutto il podere, un buon numero di piante di ulivo; e poi il grano, che copriva la parte maggiore del terreno, il granturco, l’erba medica e la lampalupine per le bestie, piccole piantagioni di fave, ceci e piselli, alberi da frutta, ecc. Oggi, la campagna che ho cercato qui di descrivere ha cambiato completamente volto. Molte volte negli anni successivi, quando mio padre era ormai andato in pensione, la famiglia era tornata ad abitare in paese e il terreno che lui aveva lavorato per una vita era stato venduto dalla proprietaria per raggiungere il figlio negli Stati Uniti, mi è capitato di percorrere in auto la provinciale per Lanciano e, passando, di lanciare uno sguardo al vecchio podere: non solo accanto alla masseria i nuovi proprietari avevano costruito un secondo immobile più spazioso e più rifinito, ma tutta la campagna era stata ricoperta da un grande vigneto a capanna i cui larghi pampini, in autunno inoltrato, inondavano di un rosso sfatto e smangiato dalla ruggine il variegato panorama che io una volta conoscevo. Bene, mie care nipoti: questo era dunque il piccolo mondo nel quale passavo di solito buona parte della mia giornata, e dove, soprattutto negli anni del liceo e in quelli immediatamente successivi alla mia iscrizione all’Università, ho vissuto sensazioni ed emozioni il cui ricordo è ancora molto forte in me. Soprattutto d’estate, quando la stagione era ormai al suo culmine e il caldo si faceva sentire, mi piaceva scorrazzare per i campi, alla ricerca di oasi di frescura, spesso portavo con me qualche libro e all’ombra di un albero passavo il mio tempo a leggere, altre volte invece, disteso su un tappeto d’erba, amavo fantasticare, o anche, più semplicemente, sonnecchiare avvolto dal fresco dell’erba alta: da questa parte, come sempre, la siepe che segna il confine, dopo che le api Iblee hanno succhiato il fiore del salice, spesso ti inviterà ad assopirti al lieve sussurro del vento. E’ ancora Virgilio, nelle Bucoliche: hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes Hyblaeis apibus florem depasta salicti saepe levi somnum suadebit inire susurro… Mentre preparavo gli esami di licenza liceale, nel periodo tra maggio e giugno e la prima parte di luglio, ho passato quasi tutti i giorni a studiare immerso nella tranquillità della campagna, proprio all’ombra di una siepe come quella cantata da Virgilio, mancava 96 solo il salice -lenta salix, lo definisce il grande poeta latino- che però era a non grande distanza da lì, non c’era il silenzio attorno ma i mille suoni della campagna, eppure quel luogo mi aiutava a concentrarmi, così potei preparare senza particolari difficoltà esami che all’epoca erano davvero impegnativi dovendo portare il programma degli ultimi tre anni. Durante i mesi estivi, nel tardo pomeriggio, quando la calura si era attenuata, avevo spesso il compito di portare al pascolo le pecore, era una delle poche cose che facevo per tacitare mio padre che reclamava in continuazione un mio impegno nel lavoro della campagna, non c’era granché da fare naturalmente, così mentre le nostre poche pecore brucavano quete l’erba, io o giocavo col nostro volpino che mi faceva compagnia mentre guardavo il piccolo gregge oppure mi sdraiavo per terra e mi abbandonavo, anche qui, alle mie fantasie cercando l’ispirazione giusta per le mie imprese poetiche, o seguivo nel loro lento viaggio i cirri sparsi nel cielo o mi incantavo ad ammirare i tramonti mentre di lontano cominciavano a fumare i comignoli delle masserie e più grandi le ombre della sera scendevano dagli alti monti, i monti raccolti attorno alla Maiella, e i contadini abbandonavano il lavoro e le mogli accendevano il fuoco nelle case e preparavano la cena per gli uomini che tornavano stanchi dai campi: et jam summa procul villarum culmina fumant maioresque cadunt altis de montibus umbrae. E’ sempre Virgilio, che questi aspetti della vita contadina conosceva benissimo e sapeva trarne versi stupendi ! Nelle altre stagioni, parlo in particolare della primavera ma anche dell’autunno, mi piaceva immergermi nei profumi e nei colori della campagna. Come non è difficile avvertire, il ritmo delle stagioni in campagna è essenzialmente scandito dai profumi e dai colori, che variano da stagione a stagione. Ovidio lo sapeva benissimo, e così nel secondo libro delle Metamorfosi assegna a ogni stagione i suoi colori e quindi i suoi profumi: la Primavera con la sua corona di fiori di mille colori e il profumo stordente di ogni fiore che si riversa nell’aria, l’Estate che sta nuda, esibendo il suo serto di spighe mature che ondeggiano alla brezza estiva, e diffonde un odore acuto di stoppie già disseccate o bruciate, l’Autunno con il rosso delle uve pigiate dal contadino a piedi scalzi e l’odore forte del mosto, solo l’Inverno, con i suoi ispidi capelli canuti, non ha odori, ha solo il bianco infinito della neve che ricopre la campagna e i luccichii abbaglianti dei rami rivestiti di ghiaccio al sole che fa capolino tra le nuvole: Verque novum stabat cinctum florente corona, Stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat, Stabat et Autumnus, calcatis sordidus uvis, Et glacialis Hiems, canos hirsuta capillos. Ascoltare i suoni della notte e osservare il cielo, stando in aperta campagna, era l’altro mio passatempo che mi concedevo ogni volta che tornavo a casa dal paese e quando la 97 notte era dolce e chiara e senza vento. In campagna, appena annotta, il cielo ti si offre in tutto il suo splendore, con il suo fitto brulichio di stelle quando non c’è la luna; se invece la luna sta lì, a solcare le vie dell’infinito, soprattutto se è luna piena, una pallida luce diffusa nasconde le stelle e rischiara le colline e le valli tutt’attorno e di lontan rivela / serena ogni montagna. La citazione, come la precedente, è da La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi, uno dei grandi poeti che ho sempre amato e letto; e c’è una ragione per questa citazione. Spesso ci accade di leggere delle poesie bellissime chiusi nella nostra stanza, la poesia naturalmente non perde nulla della sua bellezza, ma è altra cosa se quei versi noi li gustiamo vivendo direttamente l’intreccio di sensazioni ed emozioni che il poeta descrive, quel che si prova ha come il sapore di un rapimento mistico o, piuttosto, della esplosione di una indicibile festa dei sensi. Ricordo che, in quegli anni, ognuno di questi diversi momenti del mio rapporto con la natura vissuto nella solitudine della campagna aveva, tratto dalle mie letture, un suo riferimento poetico, e ciò mi consentiva sia di vivere più intensamente questi momenti sia di cogliere meglio il fascino più profondo della espressione poetica. Ad esempio, una grande emozione mi hanno sempre procurato, nella notte d’estate, al chiarore della luna piena, i versi di questo frammento di Saffo, li ripetevo in silenzio, in greco naturalmente, dentro di me e subito mi si stagliava davanti la figura sottile della poetessa greca che, stupita, ammira con le sue compagne del tiaso uno spettacolo di così rara bellezza nella notte di Lesbo, mentre lo sciabordare monotono delle onde dell’Egeo fa da colonna sonora: Le stelle intorno alla bella luna nascondono il volto luminoso quando soprattutto, piena, essa risplende su tutta la terra… A fare da colonna sonora alla mia contemplazione del cielo notturno erano invece i mille rumori della campagna. Nella campagna, di notte, non c’è silenzio, tutt’altro. E’ invece tutto un rincorrersi di suoni e di rumori a volte appena percettibili che giungono da tutte le direzioni e si alternano o si mescolano tra loro. Ci sono i cani che, all’improvviso, si mettono ad abbaiare e si rispondono da un casolare all’altro, sembrano come eccitati e impegnati senza esclusione di colpi in una gara a chi abbaia più forte e con i toni più minacciosi, poi altrettanto all’improvviso essi tacciono e ritornano i suoni e i rumori che avevano riempito la notte fino a quel momento; così come ci sono gli scoppi subitanei e brevi del canto di un usignolo dal vicino boschetto a cui fanno da controcanto il gemito ripetuto di qualche civetta, lo sbattere legnoso delle ali del pipistrello che si aggira attorno alla casa, la nenia ininterrotta dei grilli o il mormorio discreto delle foglie degli alberi appena mosse dalla brezza, qualche volta arriva da lontano, quando c’è aria di pioggia, il gracidare di una rana, e spesso, a fare da cornice opalescente a un concerto così vario, quando la calura non demorde neppure di notte, ci sono le lucciole simili a una folla infinita di minuscoli lumini vaganti per la 98 campagna. A primavera e in autunno, invece, spesso le giornate erano piovose, bisognava perciò restare in casa, a maggior ragione in autunno quando i primi freddi cominciavano a farsi sentire. In giornate così, tuttavia, era difficile che mi lasciassi prendere dalla noia, avevo sempre qualcosa da fare, di solito leggevo o poetavo, poi, quando mi stancavo o finiva l’ispirazione, mi piaceva, da dietro i vetri della finestra del piano di sopra, dove erano il mio tavolino da studio, piuttosto sgangherato, e le camere da letto, contemplare il picchiettare tranquillo e monotono della pioggia sulla campagna, l’acqua scivolava sui fili d’erba e sulle foglie degli alberi e, quando spioveva, appena si affacciava un raggio di sole, l’erba per terra era come un tappeto pieno di brillanti, anche le foglie degli alberi mandavano barbagli improvvisi ai riflessi del sole. A volte, la pioggia continuava anche durante la notte, e allora era bello coglierne, accucciato nel letto, il bruire ostinato e sommesso; così come, d’inverno, ascoltare il lamentoso, interminabile ululato del vento di tramontana, mentre fuori la tempesta imperversava e il canale di gronda rovesciava a fiotti l’acqua lungo i muri e dai vetri delle finestre, battuti dalla pioggia violenta, arrivava fino al mio letto un ticchettio incessante. Giornate così erano sempre piene di malinconia, ma la sera il calore del focolare acceso e le fiamme che salivano lungo il camino e si accompagnavano alla luce chiara del lume a carburo stimolavano sia la lettura che la voglia di fantasticare ma, anche, di seguire attento, magari sgranocchiando i ceci abbrustoliti, i racconti di mio padre sulla guerra o di quando andava in Puglia -nel periodo della mietitura- a lavorare come bracciante, oppure di ascoltare, e anche trascrivere qualche volta, le canzoni che costringevo mia madre a cantarmi, non perché essa avesse chissà quale voce ma soltanto perché a me quelle canzoni, quelle della sua giovinezza, mi affascinavano da morire. Tra gli avvenimenti che una volta segnavano la vita dei contadini, ve ne erano alcuni che rivestivano una particolare importanza, e che spesso avevano anche il carattere di riti collettivi. Parlo della semina, della mietitura e della trebbiatura, della vendemmia, della raccolta delle olive; alcuni di essi, poi, avevano come caratteristica di avere una particolare colonna sonora, fatta di quelle che chiamiamo le canzoni popolari, trasmesse -ancora alcuni decenni fa- dalle generazioni più anziane a quelle più giovani. Da noi, che io ricordi, il canto accompagnava il lavoro soprattutto in occasione della mietitura e della spannocchiatura del granturco, quando venivano a dare una mano anche parenti e gente del vicinato, allora si faceva a scambiagiornate per aiutarsi a vicenda quando il lavoro era più intenso e incombente; durante la trebbiatura invece tutti erano troppo impegnati a star dietro al ritmo della trebbiatrice, per cui era difficile che qualcuno avesse tempo e voglia di intonare canzoni e altri di tenergli dietro, in compenso, alla fine del lavoro, ci si rifaceva della fatica con pranzi a quell’epoca davvero succulenti. Con la mietitura, invece, e quando ss’ascieve le marrocche, c’era sempre qualcuno, in genere una donna, che dava inizio al canto. Durante la mietitura, non era raro che i canti rimbalzassero da una campagna all’altra, mentre nel periodo della spannocchiatura si stava più raccolti, dietro casa, seduti accanto 99 al cumulo delle pannocchie, e il canto, che si inframezzava con i pettegolezzi vari raccontati da questo o da quella, aveva meno il tono del canto spiegato, a tutta voce. Già da quand’ero ragazzino, negli anni del seminario, questi momenti collettivi avevano un grande fascino su di me, era come una festa anche perché non mancavano mai ragazze e ragazzi del vicinato con cui chiacchierare e passare una giornata divertente, così li ho sempre attesi con ansia; in queste occasioni anzi, ad esempio quando si trebbiava o quando, in autunno, si raccoglievano le olive, cercavo sempre di dare una mano, questo accadeva poi soprattutto quando si trattava di sscije le marrocche. Debbo dire che, neppure con il passare degli anni, il fascino di questi momenti è venuto meno, anche perché mi è sempre piaciuto stare assieme agli altri, ma dopo che ho lasciato Orsogna raramente, purtroppo, ho avuto la possibilità di viverli di nuovo. Ciò che però, in queste occasioni, mi seduceva più di ogni altra cosa erano appunto le canzoni. Ancora oggi ascoltare le canzoni popolari mi dà una emozione particolare, pari a quella che provo ascoltando, ad esempio, le grandi melodie di Vincenzo Bellini, quelle che Verdi definiva lunghe lunghe: anche adesso, quando le ascolto, mi si smuove come qualcosa dentro e mi sento preso da una grande nostalgia, saranno quelle loro melodie così piene di malinconia, anche quando le canzoni sono allegre e scherzose, o quel loro cantare continuamente l’amore e la giovinezza, sta di fatto che esse non cessano affatto di esercitare su di me, come una volta, una straordinaria suggestione. Cesare De Titta, un grande poeta dialettale oggi quasi sconosciuto, nonché grande latinista, di Sant’Eusanio del Sangro in provincia di Chieti, ha scritto canzoni in dialetto abruzzese bellissime, alcune delle quali sono state anche musicate. Tra le sue poesie, che hanno in genere l’andamento delle canzonette meliche del Chiabrera, un poeta italiano a cavallo tra il ‘500 e il‘600, ve n’è una bellissima, che coglie assai bene il senso della nostalgia che ti prende l’anima fin nel profondo quando ascolti le nostre canzoni nate tra il popolo e dal popolo. La poesia s’intitola Lu piante de le fojje, è il pianto delle foglie gialle che cadono a una a una mentre ssi cojje la live, e la campagne / tra la nebbie aresone di canzune… Ma forse è il caso di trascriverla per intero, tanto essa è bella: Lu ciel’è cchiuse e cchiuse è la muntagne, le fojje gialle casche a un’a une, e ssi cojje la live, e la campagne tra la nebbie aresone di canzune… Sempre sta nebbie, amore, gna si cojje la live, e casch’a ll’arbere le fojje! S’alz’a lu ciele tant’e ttante scale gne tra nu sonne che nen sacce dire; sajje cantenne l’anem’e rrecale da ‘n ciele ‘n terre e jjette nu suspire… Puorteme tra la nebbie, tra le rame, 100 na scale, amore, a ll’aneme che cchiame. ‘N cim’a na scale ci sta na fijole che ‘m mezz’a ll’atre voce fa da prime, e, gna vuless’aretruvà lu sole, s’aalz’aalze e sse ne va cchiù ‘n cime… Ah cchela voce che ffa da suprane, amor’amore, falle cantà piane! Le fojje fa nu piante pe’ la vie, e lu cant’aresone entr’a lu core gne nu salut’afflitte, gne n’addie di tante cose bbielle che ssi more, di tante care nuode che ss’asciojje, amore, tra lu piante de le fojje. Nella seconda metà del 1959, verso la fine dell’autunno, ho lasciato definitivamente Orsogna. La prima tappa di questo mio nuovo cammino fu Lanciano, ma vi sono restato pochissimo tempo: appena pochi mesi più tardi, il partito mi chiamò a Chieti che, da allora, è diventata la mia residenza abituale. Anche quando, per esigenze di lavoro, mi sono trasferito in altre città, parlo di Avezzano Vasto e Campobasso, il mio punto di riferimento è rimasto sempre Chieti, una sola volta ho cambiato città portando con me l’intera famiglia, e fu quando andai a dirigere la zona di partito del Vastese e ci trasferimmo tutti a Vasto dove rimasi per circa tre anni. Con la mia partenza da Orsogna, si è chiusa una fase della mia vita che, tuttavia, più di altre continua a restare viva dentro di me e a legarmi a sé e che, ancora oggi, sento come un momento essenziale della mia formazione non solo culturale e politica ma anche sentimentale. Non solo: Orsogna resta per me innanzitutto il luogo delle radici e la espressione più intensa di una stagione attraversata da sogni, aspirazioni, emozioni profonde, insomma il luogo dell’infanzia e, poi, dell’adolescenza e della giovinezza, da questo punto di vista gli anni del seminario -che pure mi hanno portato a vivere a Chieti per quasi sei anni- non hanno mai avuto il senso della separazione. A rifletterci, a Orsogna sono vissuto solo pochi anni, molto meno che a Chieti, ma il rapporto affettivo con il mio paese natio è stato sempre un’altra cosa, non è per nulla paragonabile con quello che ho con Chieti. Orsogna è dentro di me, non così Chieti o le altre città dove sono vissuto, anche se ugualmente tante cose mi legano ad esse. A volte, al culmine della mia carriera politica, ho pensato (e la cosa è, poi, realmente accaduta) che sarebbe stato bello se avessi potuto concludere la mia attività con la elezione a sindaco di Orsogna, a sottolineare appunto quanto forte e radicato è sempre stato il sentimento che mi lega ad essa; e spesso, quando mi reco in paese, mi capita 101 ancora oggi di sentirmi come preso da un forte turbamento al primo apparire delle campagne e delle case che conosco da ragazzo, anche se molte cose sono intanto cambiate. Ne La canzune de li pahise, Cesare De Titta dedica un simpatico medaglione anche ad Orsogna: Luce, Ursogne, dov’appare sse fijole pignatare: come ttè s’arechenosce sse demuonie da lu rosce è gne ttè rebbielle e ‘ntiste, è gne ttè sucialiste. Ci sono molte cose in questa poesiola di De Titta che colgono bene aspetti della vita di Orsogna e della sua storia, egli non scriveva solo per sentito dire. C’è innanzitutto l’eco di una canzone popolare molto nota a Orsogna: ti si messe la vesta rosce / da luntane ss’arichenosce…, c’è poi il richiamo ai socialisti che allora, quando egli scriveva (siamo negli anni ’20), amministravano Orsogna, c’è infine l’accenno a Orsogna come a uno dei centri di produzione di terrecotte dell’epoca. (Orsogna ha continuato a produrre terrecotte ancora per diversi anni dopo la guerra; la fine è arrivata con la morte degli ultimi artigiani che le lavoravano, uno di questi era il simpaticissimo e allegro cumpà Tome il cui nome è entrato in un modo di dire tipicamente orsognese: quando uno chiede la luna nel pozzo, gli si risponde ancora oggi: cumpà Tome z’à morte!, neppure volendo c’è più qualcuno in grado di fabbricare con la terracotta quel che tu agogni). Quello che però mi ha più colpito in questi pochi ottonari è il riferimento alle fijole pignatare, sse demuonie, indicate come rebbielle e ‘ntiste, ribelli e intelligenti e anche piuttosto anticonformiste, vista la preferenza accordata ai corpetti rossi. Orsogna è sempre stata, nel tempo, aperta a idee di progresso: all’arrivo di Napoleone, era contro i Borboni; e, agli inizi dell’Ottocento, vi furono preti (in paese allora ce n’erano parecchi) e galantuomini iscritti alla carboneria, vi fu anche, dopo l’unità d’Italia, una forte opposizione al brigantaggio. Anche nel corso del ‘900 questa disponibilità verso idee di progresso non è mai venuta meno, come testimoniano la vittoria della repubblica nel referendum istituzionale del ’46 e la presenza costante, già da prima del fascismo, di una forte sinistra, anche se essa oggi attraversa momenti di grande difficoltà e non ha capi. Ed è certamente anche per questa sua caratteristica che Orsogna mi è sempre rimasta nel cuore. 102 Capitolo V “Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante”. E’ l’incipit dello Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, la prima annotazione che egli fa di abbozzi poetici che è possibile ritrovare, sparsi qua e là, anche in altre parti dello Zibaldone e che il poeta ha spesso utilizzato nei Canti. Ma, tra le mie nipoti, sicuramente qualcuna dirà a questo punto: Ma, caro nonno, che c’entra lo Zibaldone con le cose che ci stai raccontando? Eppure, c’entra! Perché questo passo, che pure disegna nella sua essenzialità un paesaggio notturno romantico e di tutto riposo, mi torna tuttavia sempre alla mente ogni volta che ripenso alle tante scarpinate che mi è toccato sciropparmi, quand’ero a Lanciano per conto del partito, per tornare, a notte alta e a piedi, nel mio alloggio lancianese, da una contrada o da uno dei paesini vicini, dopo aver concluso una riunione: salvo il palazzo bello di cui parla il poeta di Recanati, il resto descrive bene la scena della quale piuttosto spesso, nei pochi mesi del mio soggiorno in città, sono stato il protagonista, in cui ero io il viandante al quale i cani abbaiavano dai casolari situati di solito a poca distanza dalla strada che stavo percorrendo da solo o in compagnia. A quel tempo non era semplice per nessuno spostarsi in provincia; e questo era vero ovviamente anche per i funzionari del PCI. Il partito, all’epoca, disponeva solo di una autovettura, una 1100 rossa, ma la potevano usare soltanto i compagni che lavoravano in federazione, mentre io dovevo arrangiarmi come potevo per recarmi ogni tanto nelle contrade (e a Lanciano ce ne sono tante) o nei comuni del Sangro, almeno in quelli, come dire?, più a portata di piede. Perché, in realtà, l’unico vero mezzo a mia disposizione era allora il cavallo di S. Francesco. Ho potuto utilizzare un mezzo motorizzato, più esattamente una vespa (o una lambretta?), solo alcuni mesi dopo, quando mi sono trasferito a Chieti. Me lo rammento bene perché debbo proprio ad essa una rovinosa caduta che mi procurai un giorno, per mia inesperienza, lungo la vecchia nazionale Adriatica, in una delle tantissime curve che punteggiano ancora oggi il tratto tra Fossacesia e S. Vito: per fortuna, la caduta fu senza conseguenze, e a rimetterci furono solo la mia pelle, con escoriazioni diffuse su tutto il corpo, e la camicia e i pantaloni che indossavo ridotti a stracci. Anche se, ad essere sincero, il colpo per me più duro fu quello della perdita della camicia e dei pantaloni, una mazzata ben più pesante delle ferite riportate. In quegli anni anch’io facevo parte della larghissima schiera dei truscianti, una tipica espressione lancianese per indicare i morti di fame, e non potevo quindi permettermi, non dico un qualunque mezzo motorizzato, ma neppure un solo capo di vestiario in più dell’indispensabile. Ricordo anzi che, per questa ragione, proprio nei primi anni ‘60 sono stato costretto ad andare in giro nei mesi freddi, non so bene più per quanto tempo, con un impermeabile che di giorno in giorno si faceva sempre più unto e liso e il cui miserevole stato non poteva certo sfuggire all’occhio anche distratto delle persone con le quali avevo a che fare. A dire il vero, non è che questo mi creasse particolari problemi nel rapporto con gli 103 altri. Tuttavia, mi è sempre rimasto ben vivo nella memoria, e ricordo che mi fece anche un po’ vergognare, il consiglio che, a proposito di questo impermeabile, mi venne, un giorno che ero stato a casa sua, tramite il figlio, dalla madre di Enrico Graziani che avevo conosciuto proprio in quegli anni: non era il caso, mi fece sapere, che lo tenessi infilato quando incontravo gente, mettendo così in mostra, coram populo, tutta la tavolozza di colori che vi si era ormai stampata sopra col tempo ed esibendo innanzitutto le così tante e sempre più corpose sdruciture del collo, era meglio se lo portavo arrotolato sul braccio, a conti fatti poteva anche fare più chic...! La signora Graziani, morta ormai da qualche anno, era una donna di spirito e si è sempre dimostrata nei miei confronti una persona simpatica e disponibile e, debbo dire, anche discreta, ma in quella occasione non mancò certo di metterci un po’ di sale nel suo consiglio. Ma non c’era solo il problema della macchina, per gli spostamenti nei comuni della zona. Anche potendo disporre di qualche lira (e non era davvero il mio caso), in genere non c’era all’epoca nei paesi neppure l’ombra di un alberghetto dove fermarsi la notte e ripartire la mattina dopo con il pullman. Mi è capitato così più di una volta di dover tornare a piedi a Lanciano, per giunta da solo. Tutte le volte, ad esempio, che sono stato a tenere riunioni con i mezzadri di Marcantonio, che si svolgevano di solito nella casa di Giovanni Di Nucci, anche lui mezzadro del grosso latifondista. La masseria del compagno si trovava in contrada Romagnoli, nel comune di Mozzagrogna, quasi a mezza costa lungo la collina che digrada verso il Sangro, quindi fuori del percorso seguito dai pullmans; e così, quando dovevo recarmi da lui per una riunione, partivo da Lanciano il pomeriggio, utilizzando fino al bivio di Romagnoli il pullman, per proseguire poi a piedi verso la masseria che distava di lì almeno un paio di chilometri. Non si trattava comunque di una gran fatica. Da questo punto di vista ero ben allenato visti i tanti chilometri macinati, quando vivevo ancora a Orsogna, per arrivare fino alla stazione a prendere la Sangritana o anche soltanto per recarmi in paese; avevamo oltretutto l’abitudine, io e i miei amici, di spostarci ogni tanto a piedi, in occasione di feste, nei paesi vicini: ricordo, ad esempio, quando -dopo la fine del liceo- partimmo una notte da Orsogna, era più o meno l’una, per assistere la mattina successiva, poco dopo il sorgere dell’alba, all’apertura (con sontuosi fuochi d’artificio) delle feste lancianesi di settembre. Il problema era il ritorno: all’ora in cui la riunione finiva, non c’erano più mezzi per raggiungere Lanciano, dovevo così servirmi per forza del cavallo di S. Francesco, rassegnato a qualche ora e passa di cammino solitario e notturno. Ma a impensierirmi non era neppure questa volta la distanza, era invece l’ansia che al momento di mettermi in viaggio si impadroniva di me e non mi lasciava per tutto il tragitto, dalla masseria di Di Nucci fino alle porte di Lanciano, mentre affrontavo a passo svelto la strada che portava in città. Un’ansia che minacciava continuamente di trasformarsi, se non in paura, comunque in un certo qual timore di non so bene che cosa, un timore insomma vago, indistinto, indefinito. Sembrerà strano, ma era proprio così, anche se non so ancora oggi spiegarmene bene 104 il perché! Chissà, forse era lo scenario nel quale mi muovevo, a quell’ora ormai avanzata della notte, uno scenario di totale solitudine, non si scorgeva infatti proprio anima viva in giro. O era perché mi trovavo ad attraversare, tutto solo, luoghi per me affatto nuovi e sconosciuti e a percorrere sentieri circondati da ogni lato dalla campagna deserta nella quale si rincorrevano soltanto l’abbaiare dei cani dai casolari addormentati e i mille rumori della notte. O forse, piuttosto, perché, con i rumori che salivano dalla campagna, mille fantasie si destavano e si agitavano dentro di me, fantasie che certo nascevano e si alimentavano dei tanti racconti dell’infanzia sedimentati nella mia memoria più profonda, senza senso quindi e tanto meno fondamento, ma che tuttavia riuscivo con difficoltà a tenere a bada, si sa bene d’altronde che le paure immaginarie sono molto più coinvolgenti sul piano emotivo di quelle provocate dal presentarsi di pericoli reali! Ricordo che per sentirmi più sicuro, quando salutavo i compagni e stavo per imboccare la strada del ritorno, prima di lasciare la casa del buon Di Nucci mi munivo di un bastone che, chissà!, poteva sempre tornare utile lungo il cammino, e poi via, gambe in spalla, per arrivare quanto prima a casa. Ma era poi davvero così strana e inusitata una tale ansia, e le paure che l’accompagnavano? Leopardi, fine conoscitore dell’animo umano, scrive che “le cose ignote fanno più paura che le conosciute”, egli cita poi in un passo della sua opera giovanile sugli errori popolari degli antichi quei versi del De rerum natura in cui Lucrezio “paragona i timori, che bene spesso concepiscono gli uomini per cose vane e da nulla, alle angustie che i fanciulli provano nelle tenebre...”. Paure fanciullesche, dunque. Pueri trepidant, atque omnia caecis / in tenebris metuunt, solo che queste paure -afferma Lucrezio- possono assalire anche gli adulti che temono le stesse cose quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura (anche Voltaire, nota Leopardi nel suo saggio, “quel banderaio degli spiriti forti, quell’uomo sì ragionevole”, com’egli lo definisce, “tremava nelle tenebre come un fanciullo...”). Ricordo che mi accadeva ogni tanto di lasciarmi prendere da simili paure anche quando, quasi ventenne, dal paese tornavo a casa, a notte alta e naturalmente a piedi, nella masseria di Colle S. Giacomo. Anche allora mi ritrovavo in mezzo all’abbaiare dei cani e ai rumori della campagna avvolta dalle tenebre o, se c’era la luna, tutta punteggiata di chiazze d’ombra a causa degli alberi e dei cespugli che la popolavano; e anche allora, nonostante conoscessi bene i luoghi, avvertivo l’emergere prepotente, dentro di me, di timori indefiniti, irreali appunto, che in nessun modo però mi abbandonavano finché non arrivavo a casa, era come se dai mille anfratti di rovi che popolavano i margini della strada o dai boschetti che si intravvedevano nelle campagne adiacenti dovesse all’improvviso sbucare qualcosa d’insolito, di strano e naturalmente tale da incutere terrore! Ricordo anche che in quelle occasioni il mio modo per esorcizzare l’ansia era quello di accelerare il passo, qualche volta avevi anche la sensazione che qualcuno ti stesse seguendo, ti sembrava addirittura di sentirne il passo, e dovevi fare un grande sforzo su te stesso per convincerti che era tutto frutto della tua fantasia, tuttavia ti voltavi sempre 105 con una certa apprensione e acceleravi ancora di più il passo o ti mettevi a cantarellare, come se questo potesse farti compagnia o comunque distrarti, ed era forse invece solo un modo inconscio per “dare a intendere a noi stessi di non temere”, come sottolinea molto acutamente Leopardi in un passo dello Zibaldone. Insomma, anche se poi andando avanti negli anni sono -come dire- migliorato, ero anch’io allora preda come tanti, pur non essendo più un bambino, di quelle “ombre, larve, spettri, fantasmi, visioni…, gli oggetti terribili che facevano tremare i poveri antichi, e che, convien pur dirlo, ispirano ancora a noi dello spavento”, di cui discorre Leopardi nel saggio citato parlando dei terrori notturni degli antichi! Ciò non mi impediva naturalmente, anche se le paure non scomparivano mai del tutto e l’orecchio rimaneva sempre vigile e gli occhi bene aperti, di apprezzare e gustare lo spettacolo che la campagna ti offre anche di notte, soprattutto nelle notti di luna, la luna ti viaggia sopra la testa, accompagnando il tuo cammino, e scodella intanto davanti ai tuoi occhi le innumerevoli bellezze di un paesaggio davvero unico che ti invita ad abbandonarti ad altre fantasticherie, più dilettevoli e appaganti. In occasione di altre riunioni nei comuni della zona, sono stato invece più fortunato. Non ero costretto, in quei casi, a inforcare il cavallo di S. Francesco, ma potevo contare sul buon cuore di qualche compagno che mi caricava sul suo mezzo (al massimo, una motocicletta, le automobili all’epoca erano davvero merce rara, soprattutto tra i lavoratori) e mi portava a casa. Mi è capitato diverse volte, ma ricordo in particolare una sera, a Fossacesia, quando il compagno Rotondi (questo, se la memoria non mi tradisce, il suo cognome), finita la riunione, mi prese sulla sua moto e si avviò sulla strada per Lanciano. Rotondi, che aveva potuto comprarsi la motocicletta grazie ai risparmi accumulati con la sua vita da emigrato, abitava a Villa Scorciosa, una contrada di Fossacesia, e per tornare a casa doveva fare comunque un pezzo della attuale provinciale che porta verso il capoluogo frentano; e poi, Villa Scorciosa non era lontana da Lanciano. Salii così sul sellino posteriore della moto e via a tutto gas verso la città, ma il diavolo ci mise proprio la coda: avevamo percorso appena qualche chilometro ed ecco arrivarci addosso il diluvio. Saggiamente a quel punto, senza pensarci troppo, Rotondi prese la strada di casa sua, dove quella notte fui suo ospite, eravamo naturalmente affamati e fradici di pioggia ma la moglie ci preparò subito qualcosa da mettere sotto i denti e soprattutto accese un bel fuoco che ci consentì di asciugarci i panni che avevamo addosso. Il mattino dopo, per tornare a Lanciano, presi anch’io il pullman che portava le tabacchine di Villa Scorciosa, tra le quali c’era anche la moglie di Rotondi, all’ATI (l’ATI, che oggi non esiste più, era l’azienda statale che lavorava il tabacco coltivato nelle campagne del Sangro e occupava circa un migliaio di tabacchine provenienti, in genere, dalle contrade di Lanciano e dai paesi limitrofi). Sono arrivato a Lanciano nel 1959, quando ormai l’inverno era quasi alle porte; ma vi sono restato solo pochi mesi, più o meno fino alla primavera inoltrata del 1960, un tempo comunque sufficiente per fare una esperienza che considero ancora oggi di grande utilità per la mia formazione politica: anche perché è stata la mia prima esperienza esterna. 106 Essa, inoltre, fu così intensa che mi consentì di stabilire legami assai forti con i compagni tanto che essi mi chiesero di capeggiare la lista del PCI nelle elezioni comunali del 1960 e mi rielessero poi, sempre come capolista, consigliere comunale ancora nelle amministrative del 1964, dandomi la possibilità di restarlo addirittura fino al 1970, nonostante che nel frattempo non vivessi più in città e avessi altri rilevanti impegni di partito prima a livello provinciale e successivamente nel vastese. Lanciano fu importante per me anche dal punto di vista del mio incontro con le istituzioni e con la necessità nella quale mi venni a trovare di impadronirmi rapidamente di una serie di conoscenze di natura istituzionale: infatti, fu proprio a Lanciano che entrai per la prima volta, come consigliere, in un’aula di Consiglio comunale, ignorando però tutto del suo funzionamento! La frequentazione del Consiglio comunale mi abituò presto a stare al merito dei problemi nel confronto con le altre forze politiche e amministrative della città, fuori di ogni propaganda generica o demagogica; a impegnarmi inoltre in uno sforzo continuo di messa a punto e di approfondimento dei problemi attraverso un rapporto costante e positivo con il partito in primo luogo ma anche con l’opinione pubblica a noi più vicina; e a cercare di intrecciare, ogni volta che se ne presentava la possibilità, la battaglia nelle istituzioni con la iniziativa politica rivolta all’esterno, alla gente comune. A Lanciano ero stato mandato dalla federazione con l’incarico di responsabile di zona, anche se con compiti puramente organizzativi, le zone all’epoca non avevano alcuna funzione di direzione politica, tuttavia finii per occupare gran parte del mio tempo facendo di fatto il segretario della sezione, se ben ricordo anzi fui anche investito formalmente di questa responsabilità da parte dei compagni. D’altra parte, era forse anche la cosa giusta da fare, vista la difficoltà di arrivare negli altri comuni del Sangro. A Lanciano, il partito era proprio debole, sovrastato a sinistra sia dal partito socialista sia, soprattutto, dal partito repubblicano che aveva in Francesco Paolo Memmo un dirigente di grande caratura. All’epoca, il PCI non riusciva neppure a esprimere consiglieri comunali locali; e il suo gruppo dirigente era composto fondamentalmente da compagni ormai di una certa età, bravi, volenterosi, ma non più di tanto, e parecchi di essi non erano neppure di Lanciano, ma provenivano dai paesi del Sangro. L’unico giovane era Nicolino Stella, lancianese doc, che veniva da una famiglia molto povera, nella quale la truscia, come teneva a sottolineare lui stesso, era di casa. Lo ricordo ancora oggi con molto affetto; e mi dispiace di non aver avuto più, ormai da molto tempo, occasione di incontrarlo: è da tantissimi anni, infatti, che ha lasciato Lanciano e si è trasferito a Teramo, nella città della moglie. Quando l’ho conosciuto, ricordo che lavorava già alla Camera del Lavoro locale, della quale divenne in seguito segretario: a causa della sua provenienza sociale, non aveva certo fatto grandi studi ma la sua naturale intelligenza gli consentì di diventare un dirigente non solo sindacale ma anche politico, egli fu infatti, per un periodo di tempo, anche responsabile della zona del partito nel Sangro; Nicolino poi era una persona seria, posata, scrupolosa, di cui ci si poteva fidare a occhi chiusi. E non a caso fu proprio lui la prima espressione autoctona del PCI lancianese nel Consiglio comunale della città, nel 107 quale fu eletto per la prima volta, assieme a me, nelle amministrative del 1964. Il PCI elesse, infatti, in quelle elezioni appena due consiglieri, sui trenta che ne contava il Consiglio comunale: davvero pochini, ma fu ugualmente una vittoria perché fino ad allora ne avevamo sempre eletto uno solo! A partire dagli anni ’70, la situazione invece cambiò radicalmente. La nostra rappresentanza nelle istituzioni locali cominciò a essere non solo tutta lancianese ma anche abbastanza numerosa e qualificata, era arrivata infatti al partito, sulla fine degli anni ‘60, una folta schiera di giovani intellettuali e di lavoratori, artigiani, piccoli commercianti e anche contadini, il PCI inoltre in quegli anni poté capitalizzare anche la crisi che nella seconda metà degli anni ’60 aveva investito alle radici il PSI lancianese, spostando una grossa fetta dell’elettorato socialista verso di noi. Una spinta decisiva a questa crescita del PCI venne certamente dalle lotte delle tabacchine costrette, nella primavera del 1968, a scendere in piazza e anche a scontrarsi duramente con le forze di polizia fatte affluire in grande numero da Foggia, per difendere la sopravvivenza dell’ATI; ma decisiva fu forse la nascita anche in città di un forte movimento studentesco, assieme al nuovo clima culturale e politico che già allora si respirava in tutto il Paese. Negli anni ‘70, anche i riferimenti sociali del PCI lancianese si fecero più ampi e robusti. Non era così invece all’inizio degli anni ‘60. Da questo punto di vista, balzava subito agli occhi la strutturale debolezza dei nostri rapporti con gli strati fondamentali della popolazione. Non solo essi erano assai fragili, ma si limitavano sostanzialmente a pezzi di sottoproletariato, all’epoca assai consistente in città, e ad alcune realtà operaie: in particolare eravamo forti tra le tabacchine, sempre molto combattive e determinate a far valere i propri diritti, non a caso del resto proprio tra di loro emersero in quegli anni alcune forti figure di compagne che giocarono poi un ruolo di primo piano nelle lotte (ricordo per tutte Ersilia Cascinelli, una vera capa sindacale e politica in fabbrica, la cui casa ho avuto modo di frequentare spesso durante i pochi mesi della mia permanenza a Lanciano). Per il resto, zero o quasi. Era così per i rapporti con i ceti urbani legati in particolare al commercio (il commercio rappresenta da sempre, a Lanciano, una parte fondamentale ed estesa dell’economia cittadina, e per questa ragione i commercianti hanno sempre esercitato un ruolo sociale e politico di primo piano nella vita della città) e alle professioni. Ma era così anche tra i contadini che, all’epoca, erano quasi la metà della popolazione. In realtà, il partito di Lanciano era un partito molto chiuso e settario e vi era persino, tra i compagni, chi faceva, ad esempio, ai contadini (meglio: ai cafoni) questo discorso: Quando arriveranno i comunisti, porteranno la luce elettrica in campagna per farvi lavorare anche di notte!, insomma i contadini -per molti comunisti lancianesi- erano l’equivalente dei kulaki durante la rivoluzione bolscevica e, per questo, essi non potevano meritare altro che l’annientamento, come in Russia! A Lanciano comunque mi sono trovato bene; e credo di aver dato sia nei pochi mesi del mio soggiorno che negli anni successivi un qualche contributo a svecchiare il partito, facendo emergere forze nuove, e a emarginare e neutralizzare le spinte più settarie, 108 legando sempre di più la presenza dei comunisti ai problemi della città e alle battaglie necessarie per risolverli. Da questo punto di vista, anzi, il PCI lancianese fece un bel passo avanti rispetto alle sue tradizioni di chiusura e di settarismo. Riuscendo, ad esempio, a fare politica, e quindi a non farsi isolare, nel periodo in cui, siamo ai primi anni ‘60, su iniziativa della sinistra dc, si costituì in città la prima giunta di centro-sinistra (tra le primissime, se non la prima, in Italia); e anche quando si avviò, tra il ‘65 e il ‘66, nel Sangro, sotto la spinta sempre di settori della DC, un dibattito intenso e diffuso in tutta la vallata sulle prospettive di Lanciano e della zona. Nella seconda metà degli anni ‘60, Lanciano e il Sangro si sentivano fortemente frustrati a causa della loro esclusione dai programmi d’investimento e di sviluppo definiti, per la regione, dal governo nazionale e dalla DC abruzzese. Così, cominciarono a farsi sentire i primi mugugni tra gli stessi democristiani, innanzitutto tra i sindaci (quasi tutti dc) della valle, e a fiorire le prime iniziative per la creazione di un movimento per la rinascita della vallata. L’obiettivo era certo, in primo luogo, di premere sul governo e su Gaspari (che era già allora il padre-padrone della DC abruzzese), ma anche di governare il malcontento e volgerlo a favore della stessa DC e degli altri partiti di governo, in modo da impedire all’opposizione (in altre parole, al PCI) di fare della battaglia contro l’arretratezza e per lo sviluppo della città e della zona un’arma contro lo strapotere democristiano. Ma il PCI fu capace di reagire in maniera efficace a questo disegno e alla situazione che si stava creando; e costruì a sua volta, con diverse iniziative tra la gente e negli enti locali, una propria proposta alternativa che ci consentì poi di crescere sia in consensi elettorali che in influenza politica e, nei primi anni ‘70, di essere noi alla testa della battaglia decisiva per aprire le porte dello sviluppo a Lanciano e all’intera vallata: la battaglia contro l’insediamento della Sangrochimica e per l’arrivo della FIAT nel Sangro. Anche in questa fase naturalmente, nella mia qualità e di consigliere comunale e di dirigente provinciale della federazione, io fui tra gli animatori principali delle iniziative e delle proposte che il PCI mise in campo. Insomma, mie care nipoti, un fatto è certo: il ruolo del PCI è stato essenziale per dare un futuro diverso a Lanciano e al Sangro, e proprio per questo un po’ di merito va anche al nonno! Quando giunsi a Lanciano, ricordo che, proprio per le caratteristiche che aveva allora il partito in città, non fu per nulla facile mettere in moto la sezione. Costava, anzi, sempre una gran fatica e spesso, pur avendo deciso assieme ai compagni le varie iniziative, alla fine mi ritrovavo da solo a cercare di tradurle in fatti. Rammento, a questo proposito, un episodio che mi fece molto arrabbiare e che, debbo dire, mi colse anche un po’ di sorpresa, perché francamente non me l’aspettavo...! Eravamo nel 1960, forse all’inizio della primavera, nel periodo comunque in cui a Lanciano si svolgeva all’Iconicella, una contrada appena fuori della cinta urbana, sulla provinciale per Fossacesia, la tradizionale fiera dell’agricoltura alla quale accorreva sempre una grandissima folla di contadini e di commercianti di bestiame e di altri prodotti 109 agricoli sia del posto che della zona. Ebbene, anche in considerazione della situazione di malcontento che c’era allora nelle campagne, decidemmo in sezione che quella occasione andava utilizzata per far conoscere ai contadini il punto di vista, che era molto critico, dei comunisti, sintetizzato in un volantone, sulla politica agricola del MEC (il Mercato Europeo Comune), concordando contemporaneamente che saremmo andati io e un giovane compagno, apprendista barbiere, a distribuirlo agli interessati. Ma il compagno, quando la mattina ci incontrammo sul corso cittadino per recarci insieme alla fiera, trovò una scusa per allontanarsi: mi assicurò tuttavia che comunque ci saremmo ritrovati più tardi all’Iconicella, ma io sono ancora lì ad attenderlo, si guardò bene infatti dal farsi vedere e il volantone fui costretto a distribuirlo da solo... Di lì a qualche mese il giovane compagno si trasferì in Inghilterra, dove credo abbia scelto di vivere definitivamente la sua vita: da allora, infatti, non mi è più capitato di incontrarlo. E chissà: forse la ragione per cui quella mattina decise di scomparire era proprio legata a questa sua scelta, ebbe paura cioè di esporsi a possibili e prevedibili -anzi normali, all’epoca- rappresaglie da parte della DC, che gli avrebbero impedito di partire o, in ogni modo, sicuramente creato dei problemi. Tuttavia, nonostante questi contrattempi, riuscimmo ugualmente a portare avanti una serie di iniziative sia in città, tra le tabacchine e gli studenti, che nelle campagne. Ricordo anche che riuscimmo a mettere in piedi un Comitato cittadino per la costituzione dell’Ente Regione, con la partecipazione nostra, dei socialisti, dei repubblicani e anche di qualche frangia democristiana. In quegli anni era molto forte in Abruzzo la battaglia regionalista, che si sviluppò con caratteri largamente unitari; la presenza in diverse parti della provincia di consulte regionaliste giocò, tra l’altro, un ruolo importante anche nelle lotte per il metano dell’inizio degli anni ‘60. Il fatto poi che avessi amicizie tra gli ex studenti del liceo, ora universitari, mi diede anche modo di partecipare a qualche iniziativa, di natura politico-culturale, organizzata dal circolo universitario cittadino. A Lanciano mi sono trovato comunque bene: anche dal punto di vista, come dire, umano. Lanciano è una città aperta, accogliente, colta, nella quale anche l’ironia dei suoi abitanti, pure a volte un po’ greve e sboccata e con una certa tendenza al pecoreccio, risulta sempre piacevole. E poi, è anche una città bella (almeno lo era allora, oggi non so) sul piano urbanistico e architettonico, con un centro storico davvero invidiabile. Io, tra l’altro, ebbi la fortuna di trovare casa proprio in una zona molto suggestiva del centro storico, presso una famiglia artigiana (moglie e marito, lui era falegname) davvero ospitale. La casa si trovava a Largo dei Frentani, una piazzetta deliziosa tutta chiusa dalle abitazioni e alla quale accedevo dalla salita Fenaroli, attraverso una antica porta, a poco più di un centinaio di metri dal palazzo municipale; e la mia stanza dava proprio sulla piazzetta, così dalla finestra, quando non ero fuori, potevo osservare quel che accadeva giù, soprattutto ammirare le ragazze che entravano e uscivano di casa andando a prendere l’acqua alla fontana che si trovava in un angolo della piazza. Nei pochi mesi che ho abitato a Lanciano mi sono ritrovato spesso anche con parecchi 110 dei ragazzi che avevano frequentato con me il liceo; e ciò mi consentì di non dover passare il mio tempo libero solo con i compagni e quindi di vivere la vita cittadina quasi come un lancianese. Quando, tra la primavera e l’estate del 1960, arrivai a Chieti, il mio primo impatto con la città non fu certo dei più felici; e l’impressione che ne ricavai non fu davvero molto lusinghiera. All’epoca, Chieti non aveva ancora registrato un grande afflusso di popolazione dai paesi della provincia. Ciò avverrà nei mesi e negli anni seguenti, in coincidenza con la industrializzazione della vallata dello Scalo e l’avvio dei primi corsi universitari liberi. Era quindi ancora una città essenzialmente impiegatizia e, dal punto di vista culturale e politico, piuttosto chiusa e sonnacchiosa, alla camomilla insomma. Ma che cosa accadde esattamente, in occasione di questo mio primo, o forse meglio, tenendo conto degli anni del seminario, secondo incontro con Chieti? Com’era normale che facessi, prima di trasferirmi nel capoluogo di provincia da Lanciano, con le mie poche e sbrindellate masserizie, mi preoccupai di trovare un alloggio dove stare come pensionante, e mi raccomandai per questo a Mario Palombaro che allora lavorava ancora in federazione. Mario si diede subito da fare e mi trovò in pochissimi giorni una famiglia che abitava in una casa popolare di Madonna degli Angeli, nella zona vicina alla scuola elementare, così appena misi piede in città potei andare a prendere possesso del nuovo alloggio. Ricordo che era il primo pomeriggio quando conobbi la mia nuova padrona di casa (il marito era al lavoro) e che, appena sistemate le mie cose, mi recai subito in federazione. Ma quale non fu la mia sorpresa la sera quando, tornando a casa per la cena, mentre stavo ancora salendo i gradini della scala esterna di ingresso all’abitazione, vidi, arrotolate sul pianerottolo su cui si affacciava la porta di casa, le mie povere suppellettili?! Suonai allora il campanello e tentai di avere delle spiegazioni, ma tutto fu inutile: il marito della donna, che evidentemente non era stato informato dell’arrivo del nuovo inquilino o aveva cambiato idea e che comunque non sembrava gradire la presenza di un estraneo in casa, mi aprì appena la porta e mi cacciò via in malo modo. Insomma, fu un incontro piuttosto traumatico che, proprio per questo, mi è rimasto nella memoria. A Chieti, avevo vissuto da seminarista per molti anni, ma questo non comportò mai, in realtà, un rapporto vero con la città, e i suoi abitanti perciò non li conoscevo affatto. In fin dei conti, eravamo solo dei ragazzi il cui ambiente di vita non era mai andato al di là delle mura del seminario, e quindi la gente la incontravamo soltanto. Conoscevamo certo le strade e i palazzi della città ma solo perché vi passeggiavamo in gruppo, nell’ora della nostra libera uscita quotidiana. Come, in occasione del Venerdì Santo, percorrevamo Corso Marrucino in processione, con indosso le cotte bianche e recitando ad alta voce le preghiere di rito e c’era tanta gente lungo il percorso, devota o semplicemente curiosa; o servivamo messa in cattedrale nelle ricorrenze liturgiche solenni, quando la cattedrale era piena e a officiare le funzioni religiose era l’arcivescovo: la settimana santa, la Pasqua, le feste di Natale, il Corpus Domini e altre feste comandate 111 importanti. Ma la gente vera non era quella che vedevamo! La giornata finì così, dopo una tale bella accoglienza, nella stanza squallida di un alberghetto di quint’ordine, Scatenato, che si trovava proprio a fianco della Cassa di risparmio e che oggi non esiste più; e lì fui costretto a restare ancora nei giorni successivi, in attesa di una nuova sistemazione. Naturalmente, una tale singolare disavventura non mi diede certo di Chieti l’idea di una città pronta ad accogliere, non dico a braccia aperte, ma comunque con una certa disponibilità, i nuovi arrivati. Per chi come me veniva dalla provincia e conosceva le storie raccontate anche da gente di Orsogna su come Chieti aveva accolto, durante la guerra, la massa di profughi proveniente da tanti comuni dell’ortonese nell’inverno del 1943, e aveva modo di ascoltare quasi ogni giorno le lamentele di chi, venendo magari anche da paesi lontanissimi, si ritrovava a subire i continui rinvii o la strafottenza e il menefreghismo della burocrazia del capoluogo, era inevitabile che in qualche modo fosse prevenuto nei confronti della città. Ebbene, dopo quel che m’era capitato, un tale pregiudizio ne uscì rafforzato! Tra l’altro, nei primi tempi del mio nuovo soggiorno in città, anche le prime conoscenze che feci fuori del partito (ricordo che con Licio Bevilacqua ogni tanto passavo qualche serata all’Enal, all’imbocco del viale che porta alla villa comunale, che allora funzionava ancora come sala da giochi, sempre affollatissima) non mi aiutarono certo a superare questo pregiudizio. La prima idea che ti facevi delle persone con le quali ti incontravi era in genere di gente abituata a guardare gli altri dall’alto in basso, con una alterigia tutta piccolo-borghese, quella tipica appunto dei ceti burocratici che allora dominavano la città. Col tempo, ho maturato una idea un po’ meno severa nei confronti della città e dei suoi abitanti, non tanto però da farmi dimenticare quel primo incontro. Anche perché il comportamento politico della città è stato sempre molto conservatore e, in alcune frange, al limite della reazione. E anche i cambiamenti che negli anni l’hanno segnata positivamente, modificandone dati di costume e culturali e consentendo addirittura l’approdo di una giunta di centrosinistra al Comune, non hanno cancellato le tante stimmate negative lasciate dalla storia. In ogni modo, già la famiglia presso la quale mi sistemai dopo i giorni passati a Scatenato mi offrì una immagine un po’ diversa di Chieti: una famiglia povera ma dignitosa, molto ospitale (non solo perché era pagata) e pronta a darti una mano se occorreva, che aveva casa nel quartiere di Santa Maria, a Via dei Tintori. Nella mia nuova abitazione ebbi anche la fortuna di ritrovarmi in compagnia di alcuni studenti, che frequentavano i due istituti tecnici della città (il commerciale e l’industriale); inoltre, qualche mese dopo, fui raggiunto da un compagno di S. Salvo (fummo messi a dormire nella stessa stanza), Michelino Raspa, chiamato dal partito a lavorare alla FGCI provinciale. Michelino era un compagno assai gioviale e disponibile, anche generoso quando le circostanze lo richiedevano, ma a volte anche piuttosto ingenuo, con lui comunque si stava bene, ma rimase a Chieti sì e no un anno e mezzo o poco più, poi dovette andare militare, e quando si concluse il suo turno di leva, se ne tornò a Vasto dove cominciò a 112 lavorare alla CGIL. Anch’io non mi fermai troppo a lungo a Chieti. Vi restai poco meno di due anni, fino al mio nuovo trasferimento, questa volta ad Avezzano, nella Marsica. In quei due anni, lavorai naturalmente in federazione, era il mio primo incarico a carattere provinciale, e mi fu affidata la propaganda; contemporaneamente seguivo anche la FGCI, la organizzazione dei giovani comunisti. Il gruppo dirigente della federazione era costituito in quel periodo ancora dai compagni che provenivano dall’esperienza della guerra e, per alcuni di essi, dalla partecipazione alla guerra di liberazione. Ma già allora cominciavano a esserci inserimenti di forze più giovani: uno di questi ero io, che infatti al VI Congresso provinciale del 16 e 17 gennaio del 1960 (a quel tempo ero ancora di stanza a Lanciano) venni eletto nel Comitato Federale. Ricordo bene quel Congresso, soprattutto per una ragione, chiamiamola così, climatica. Il Congresso si svolse a Chieti, al cinema Eden, dove però faceva un freddo cane: questo particolare ce l’ho ancora ben presente nella memoria perché, in quella occasione, io e Graziani, i due giovani intellettuali emergenti della compagnia, io con gli occhialetti alla Gramsci e l’aria un po’ patita, lui con quel suo linguaggio assertivo e sempre tendente all’enfasi, fummo messi a verbalizzare il dibattito congressuale, seduti a un tavolino che stava proprio sul palco, e questo ci impediva di muoverci liberamente nonostante il bisogno di sgranchire ogni tanto le gambe e di riscaldarci. La situazione in federazione, quando io vi cominciai a lavorare, era nel complesso buona, anche se il partito scontava all’esterno un isolamento che era iniziato con la sconfitta subìta nel ’48: c’erano Ottaviano, segretario provinciale, Bevilacqua, responsabile di organizzazione, Tina (la moglie di Ottaviano) che seguiva le questioni dell’amministrazione anche se c’era poco da amministrare, io naturalmente, Michelino Raspa, Mario Palombaro e qualche altro compagno che poi lasciò il partito. Nel gruppo c’erano anche due compagne, tutte e due molto giovani. E una di esse, Rosetta Spaziani, era quella che, qualche anno dopo, sarebbe diventata mia moglie e poi, mie care nipoti, vostra nonna: era da tempo che lavorava al partito, battendo a macchina e in generale svolgendo lavori di segreteria, e veniva da una famiglia di comunisti di antica data. Ricordo che essa, al contrario dell’altra compagna che amava vestirsi in modo vistoso, preferiva invece vestiti semplici e sobri; e forse fu anche questo, assieme al suo carattere riservato e senza grilli per la testa, che mi portò nel giro di qualche mese dal mio arrivo a Chieti a innamorarmi di lei. A quell’epoca, la federazione era in Via della Liberazione, sotto la villa comunale, quasi all’altezza della clinica Spatocco; e si trattava di un normale appartamento, al primo piano sotto il livello della strada, con un salone non molto grande ma in grado comunque di ospitare le riunioni del Comitato Federale. In pratica la federazione, rispetto alla mia abitazione e a quella di Rosetta, si trovava dall’altra parte della città e bisognava attraversare perciò tutto il corso per arrivarvi, io da Santa Maria e lei dalla discesa del gas dove allora abitava, a qualche decina di metri prima del grosso piazzale che ospitava l’impianto di decompressione del gas di 113 città gestito dalla Camuzzi: un bel po’ di strada, insomma, che allora facevamo spesso assieme, soprattutto per tornare alle rispettive abitazioni. In quei due anni, ebbi modo di intrecciare rapporti con alcuni ragazzi, rappresentanti delle diverse organizzazioni politiche giovanili della città, c’era allora una certa vivacità a Chieti sul terreno della politica giovanile da parte dei partiti (si tentò anche di arrivare, con un accordo tra le varie forze giovanili, alla costituzione di una Consulta comunale della gioventù, ma la DC teatina non ne volle sapere, così il progetto naufragò) e noi comunisti facevamo naturalmente la nostra parte. Di quegli anni ricordo anche gli incontri politico-culturali, ai quali anch’io partecipavo intervenendo spesso nel dibattito. Essi erano organizzati da vari gruppi, con la proiezione di cicli di film, in genere si trattava di film impegnati come usava all’epoca, e di solito si svolgevano al cinema Enal, allora tra le sale cinematografiche più attive della città (ne esistevano tre, se ben rammento: l’Enal appunto -o, meglio, Gardencine- e poi l’Eden, un pidocchietto in Via De Lollis molto frequentato dagli studenti in cerca di qualche pomiciata d’occasione con le ragazze, e un’altra sala a metà corso, appunto il cinema Corso che si trovava sotto i portici, di fronte al bellissimo Palazzo De Mayo). Ovviamente, andavo spesso a tenere riunioni in provincia, nelle sezioni, inforcando la vespa che mi era stata messa a disposizione dal partito; e fu proprio in occasione di una di queste uscite, mie care nipoti, che rimasi vittima della pericolosa caduta di cui vi ho già raccontato. La mia più importante esperienza di quei mesi fu tuttavia quella legata alle lotte per il metano, nell’estate e nell’autunno del 1961. Di solito, infatti, ero io a tenere le riunioni che si svolgevano a Cupello e negli altri comuni del vastese, per cercare di costituire Comitati di agitazione e mettere in piedi le varie iniziative, a scrivere articoli su l’Unità e ad essere incaricato di organizzare le manifestazioni, sia di partito sia unitarie, che si sono svolte in quel periodo a Vasto e nella zona. Le lotte per il metano hanno rappresentato un discrimine fondamentale per la storia del vastese e dello stesso Abruzzo. E’ da esse infatti che parte il processo, fatto di industrializzazione modernizzazione dell’agricoltura e diffusione di strutture e servizi civili fino a quel momento quasi del tutto assenti non solo nei paesi ma anche nelle città, che porterà negli anni successivi la nostra regione a fuoriuscire dal Mezzogiorno. L’Abruzzo era allora terra di miseria, analfabetismo, emigrazione, isolamento culturale e civile. Non è certo l’Abruzzo che voi oggi conoscete, ma se le cose non stanno più così, ebbene è perché quelle lotte hanno contato moltissimo. Esse avevano un obiettivo semplice ma decisivo: costringere il governo a utilizzare il metano scoperto nella zona dall’ENI anche per lo sviluppo del vastese e dell’intera regione, ed evitare che si ripetesse ancora quel che negli anni ‘50 era accaduto con l’energia elettrica prodotta dalle acque delle nostre montagne ma portata altrove, senza alcuna ricaduta positiva per le popolazioni. Il pericolo, da questo punto di vista, non era per niente frutto di immaginazione: nell’aprile del 1961, il governo aveva detto sì all’ENI che puntava a utilizzare a Roma 114 e Terni la preziosa risorsa racchiusa nelle viscere del vastese. Di qui la rabbia della gente, la nascita di Comitati di agitazione e il fiorire, anche fuori della zona, di manifestazioni e iniziative di varia natura, che in qualche momento (penso soprattutto alle manifestazioni che si ebbero a Cupello) assunsero anche caratteri tipicamente ribellistici, meridionali. Ma alla fine la battaglia la vinsero gli abruzzesi; e fu proprio ciò che rese possibile l’avvio di quel cambiamento profondo che ha trasformato via via il volto del vastese e dell’Abruzzo. Ebbene, mie care nipoti, io ho vissuto direttamente quel periodo così intenso e cruciale; e di quelle lotte, alle quali ho dato anch’io il mio piccolo contributo, ho naturalmente molti ricordi. Ricordo i dibattiti nelle sezioni, gli scontri anche assai vivaci con posizioni di compagni e di parte anche del nostro elettorato -circa i contenuti e gli obiettivi da dare alle lotteche noi consideravamo subalterne alla DC e inefficaci a raggiungere risultati reali e duraturi, la difficoltà a volte di far capire a pezzi del partito l’importanza di quelle lotte e del ruolo che in esse il PCI poteva e doveva giocare, la fatica anche fisica di girare come una trottola per i vari comuni... Vi assicuro, mie care nipoti, non fu una passeggiata, ma di pazienza e ostinazione ne avevo anche allora; e così, tutto sommato, me la cavai abbastanza bene, imparando nello stesso tempo anche molte cose. Ma quella esperienza non fu, per me, soltanto questo: fu anche altro, soprattutto sul piano umano. Più di una volta, in quei mesi, mi è capitato di dovermi fermare per alcuni giorni, in qualche caso anche per più di una settimana, a Vasto. Di solito andavo in albergo (conservo ancora sui miei block-notes del tempo gli appunti delle spese affrontate, per il rendiconto da fare in federazione), alcune volte invece sono stato ospite di Nicola e Nicoletta Di Bussolo, due compagni non più tanto giovani ormai, che non avevano avuto figli e dedicavano il loro tempo al lavoro e al partito. Ebbene, di essi ricordo ancora oggi con piacere la disponibilità e la generosità, anche se le vicende della politica (che spesso, purtroppo!, non concedono nulla ai sentimenti) mi hanno portato, alcuni anni dopo, a scontrarmi con Nicola, rompendo così un’amicizia che si era rinnovata anche all’indomani del mio arrivo a Vasto nella primavera del ‘67. Nicola Di Bussolo finì infatti espulso dal PCI, per vicende connesse con l’Amministrazione comunale Faro-PCI, proprio nel periodo in cui ero io il responsabile della zona del Vastese: egli era un bravo artigiano (lavorava il marmo) e, soprattutto, una persona simpatica e allegra, al quale piaceva molto cantare, me lo ricordo bene, ad esempio, quando, alla fine degli anni ‘50, si esibiva, con grande successo, nelle feste de l’Unità di Comino, la contrada rossa di Guardiagrele, e il suo cavallo di battaglia era Vasto, terra d’oro…, cantata naturalmente in un dialetto vastese molto stretto. Al periodo delle lotte per il metano e a una delle mie permanenze a Vasto per più giorni appartiene anche il ricordo che ho di un altro compagno, questa volta però arrivato dalla Lombardia, più esattamente da Pavia, dove era stato segretario di federazione. Parlo di Marinoni (non ne rammento più il nome), che la Direzione nazionale aveva inviato a Chieti con l’intenzione non del tutto recondita di proporlo più in là come segretario di 115 federazione, in sostituzione di Ottaviano che incontrava difficoltà sempre maggiori nel suo rapporto con i compagni del gruppo dirigente provinciale. Marinoni, che da operaio era diventato funzionario di partito, era una persona squisita, con cui si chiacchierava e si discuteva volentieri, e che, almeno con me, si dimostrò sempre molto amabile e disponibile, mentre era assai critico nei confronti di altri compagni; e proprio a lui debbo una piccola lezione che non ho mai dimenticato e che mi risultò assai utile negli anni successivi. La ricordo come se fosse ora, come ricordo anche il mio imbarazzo di fronte al suo commento quando non seppi rispondere a una sua domanda su Cupello, credo che mi chiedesse notizie sulle tradizioni religiose del paesino che era allora al centro della battaglia per il metano e noi dovevamo decidere delle iniziative in quei giorni che riguardavano proprio Cupello: ti sei scordato, mi fece tra il serio e il faceto, di quel che dice Gramsci a proposito della necessità di operare sempre una attenta ricognizione del terreno di lotta prima di decidere una strategia? Se vuoi dirigere il partito, devi conoscere anche queste cose! Una battuta un po’ da lana caprina, ma in fondo non del tutto fuori luogo... Marinoni non resistette a lungo a Chieti, non solo perché chi doveva farsi sostituire resisteva. Egli era certamente un uomo capace, intelligente, in grado quindi di assolvere a incarichi di un certo livello, ma non era questo il punto come non lo erano alcune spigolosità del suo carattere. C’era soprattutto in lui una certa visione schematica delle cose che gli derivava, oltre che dalla sua esperienza di operaio del Nord, anche dalla sua cultura di autodidatta, e che non gli avrebbe mai permesso di comprendere fino in fondo una realtà contadina e, per tanti aspetti, meridionale quale era allora la nostra, decise così di andare via, e mi dispiace di non aver più avuto modo, in seguito, di incontrarlo ancora, se non, sì e no, un paio di volte. 116 CAPITOLO VI Inde genus durum sumus experiensque laborum et documenta damus qua simus origine nati. Sono gli esametri che concludono il racconto di Ovidio, nelle Metamorfosi, sul diluvio provocato da Giove per punire la malvagità degli uomini e sul ripopolamento della terra da parte dei due superstiti, Deucalione e Pirra: seguendo il consiglio della dea Temi, ossa…post tergum magnae iactate parentis, essi si gettano dietro la schiena le pietre, le ossa della grande madre, la terra, ed avviene il miracolo, dalle pietre nascono uomini e donne e prende forma un nuovo genere umano definito, dalla sua stessa origine, appunto duro, petroso, temprato alle fatiche e che ogni giorno di questa sua origine dà testimonianza. Ma ecco, a questo punto, ancora una volta l’osservazione delle mie nipoti: Ma, nonno, continui a divertirti con le citazioni, raccontaci invece senza tanti giri di parole le cose che ti sono capitate! Voi avete ragione, rispondo, solo che non sapete ancora che il vero, condito in molli versi, / i più schivi allettando ha persuaso; e che a volte le parole di un poeta colgono meglio l’essenza delle cose che tu vuoi dire, e così mi permetto ogni tanto una citazione, compresa l’ultima che è del grande Torquato Tasso. Ma torniamo a Ovidio. Conoscevo da tempo questo passo delle Metamorfosi, ma mi è accaduto di rileggerlo recentemente, nella prima quindicina di settembre del 2004, a Sciacca, in Sicilia, dove io e la nonna siamo stati, con Enrico e Mariangela Graziani, per le cure termali. Così oggi, mentre mi accingevo a rimettere assieme i ricordi e le esperienze che ho fatto nel corso del mio breve soggiorno, di poco più di un anno, nella Marsica, tra l’estate del 1962 e i primi di settembre del 1963, questi versi mi si sono presentati spontaneamente alla mente. E la ragione è semplice: essi mi pare che rendano bene alcuni aspetti, appunto duri petrosi difficili, del carattere dei marsicani con i quali mi è accaduto di scontrarmi più di una volta durante la mia permanenza in questa zona interna dell’Abruzzo, se penso, ad esempio, all’andamento di certe riunioni in sezione con i compagni di Celano, di Trasacco o anche di Pescina e di S. Benedetto dei Marsi e, in alcune circostanze, dello stesso Comitato Federale (ad esempio, in occasione della discussione sulle candidature per le elezioni politiche del 1963, quando aspirazioni ad ascendere al soglio parlamentare di qualche compagno del posto, come Giancarlo Cantelmi, o di compagni come Attilio Esposto, che era un personaggio nazionale e aveva diretto in anni precedenti la federazione di Avezzano, cozzavano con le scelte fatte dal partito a livello regionale a favore di organizzazioni elettoralmente e organizzativamente più forti di quella marsicana). Del resto, anche Virgilio nelle Georgiche -quando parla degli antichi Marsi- li definisce …genus acre virum; e i moderni Marsi, i marsicani di oggi, quando ho avuto a che fare con loro, non mi sono apparsi un genus meno acre, con una forte inclinazione alla 117 polemica, al contrasto duro, allo scontro e spesso anche al litigio spicciolo e magari immotivato: sembrava a volte di avvertire, nel corso delle riunioni, in certi scontri personali e politici, la stessa durezza dei colpi scambiati, durante le lotte del Fucino, tra i braccianti e i contadini poveri da un lato e gli uomini di Torlonia dall’altro. Naturalmente, i marsicani con i quali ho avuto a che fare erano anche altra cosa: intelligenza, cultura, generosità, capacità insomma di far valere, oltre alla forza, anche l’arte della persuasione! Anche i Marsi avevano fra gli antichi, come ricorda Virgilio, la fama di saper addormentare le vipere e le idri dal velenoso respiro, di addolcirne l’ira col gesto e il canto e di guarirne con l’arte i morsi utilizzando l’erbe raccolte sui monti circostanti. Da questo punto di vista, quelli che più mi colpirono furono i compagni di Luco dei Marsi. Non dimentico mai, ad esempio, la festa de l’Unità di Luco a cui mi capitò di partecipare per la prima volta (e di parlare anche, tenendo il comizio di chiusura) nell’estate del 1962, ricordo che nel corso della festa lo spettacolo di maggior rilievo, a cui assisteva una gran folla di contadini e di donne, fu la recita delle poesie di Garcia Lorca. A recitarle era Giannino Venditti (che poi divenne sindaco della cittadina, restandolo per moltissimo tempo) e il suo pezzo forte, con quell’inizio così altamente drammatico e pieno di suspense, era il Lamento per Ignazio Sanchez Mejias, il torero caduto sotto i colpi del toro, che ormai dorme senza fine..., del quale ormai i muschi e le erbe / aprono con dita sicure / il fiore del teschio... e che la morte ha coperto di pallidi zolfi / e gli ha messo una testa di scuro minotauro...: Alle cinque della sera, eran le cinque in punto della sera. Un bambino portò il lenzuolo bianco alle cinque della sera. Una sporta di calce era già pronta alle cinque della sera. Il resto era morte e solo morte alle cinque della sera... La gente ascoltava con attenzione e partecipazione, assetata di quella cultura che a loro, in grande parte ex braccianti e contadini poveri, era stata negata quand’erano ragazzi. Quando misi piede nella Marsica, era più o meno la metà di luglio del ‘62, mi trovai di fronte a un mondo che per me si poteva definire semplicemente ignoto: a parte qualche vago ricordo letterario, per il resto non avevo nessuna idea di chi fossero i marsicani o di che cosa fosse il PCI marsicano. Anche perché all’epoca, ancora all’inizio degli anni ’60, i rapporti tra la costa e la Marsica erano piuttosto difficoltosi. E’ vero, c’era la ferrovia e c’era la Tiburtina Valeria, per chi poteva usare l’auto, solo che il percorso in treno era molto lento e si svolgeva tutto lungo le pendici delle montagne, con le mille giravolte imposte dalla natura dei luoghi attraversati, mentre la strada 118 seguiva ancora il percorso tracciato dai romani e perciò era parecchio impervio e pieno di curve non solo nei tratti di montagna ma anche lungo la vallata del Pescara; d’inverno poi era una vera impresa percorrerla quando cadeva la neve, e superare il valico di Forca Caruso rischiava continuamente, senza che neppure te ne rendessi del tutto conto mentre l’attraversavi, di precipitarti nel bel mezzo di una improvvisa e violenta bufera di vento e di neve. Imparai tuttavia presto a conoscerli. La Marsica oggi è una realtà abbastanza marginale nella vita dell’Abruzzo, anche perché lo sviluppo della regione si è fondamentalmente concentrato lungo la costa; e lo stesso partito marsicano erede del PCI, parlo dei DS, ha ormai anch’esso un ruolo molto periferico, lo stesso PCI del resto aveva perso molto del suo peso precedente nella realtà regionale già sul finire degli anni ‘50. Non era così però né durante il fascismo né nell’immediato dopoguerra, almeno dal punto di vista del ruolo che i comunisti marsicani hanno giocato all’interno del PCI abruzzese. Durante il fascismo, nella Marsica, a contatto con gruppi di comunisti romani presenti a La Sapienza di Roma, si era formata, intorno alla fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, una discreta pattuglia di intellettuali e di lavoratori che aderì al PCI clandestino (pagando in alcuni casi con il carcere le proprie scelte) e riuscì a stabilire anche contatti con il centro estero del partito. Ebbene, fu proprio questo gruppo che costituì, nel dopoguerra, il nucleo dirigente fondamentale del PCI in Abruzzo, alcuni di essi anzi finirono per inserirsi in maniera (quasi) stabile in altre realtà di partito della regione, in particolare a Pescara e a Chieti; ed espresse, assieme al gruppo dei più giovani che si formò successivamente con le lotte del Fucino, i segretari regionali che hanno diretto il PCI abruzzese sia nel decennio successivo alla guerra che in periodi più recenti, mi riferisco a Giulio Spallone e Umberto Scalia, ma anche a Domenico Tarantini e Luigi Sandirocco, che appartenevano al secondo gruppo e sono stati anch’essi ai vertici del partito, Tarantini nei primi anni ‘60 e Sandirocco nella seconda metà degli anni ’70. Le lotte del Fucino per la cacciata dei Torlonia, che erano divenuti i padroni assoluti delle ricche terre emerse dopo il prosciugamento del lago sulla fine dell’Ottocento, e per il passaggio di queste terre ai braccianti e ai contadini poveri, lotte che si conclusero con l’approvazione, da parte del Parlamento, di una legge di riforma agraria che, pur non essendo del tutto soddisfacente, avviò tuttavia processi produttivi e sociali nuovi nelle campagne meridionali, proiettarono il partito marsicano sulla ribalta nazionale e ne rafforzarono il ruolo che già svolgeva a livello regionale. Siamo nei primi anni ’50, e in quelle lotte fecero le loro prime esperienze, oltre al gruppo di giovani marsicani cui ho prima accennato, anche tanti altri giovani comunisti, provenienti da altre zone dell’Abruzzo. Quando arrivai ad Avezzano, il processo di marginalizzazione del partito marsicano era già a buon punto, il partito anzi era in forte crisi: si era ristretto il gruppo dirigente, il PCI perdeva iscritti e voti, non si avvertivano segni di ripresa né s’intravvedeva all’orizzonte l’apparizione di forze nuove. 119 In realtà, era anche per arginare un tale stato di cose, oltre che per far fare una esperienza di una certa complessità e responsabilità a un quadro giovane, che ero stato spedito nella Marsica, con il contemporaneo invio nella provincia di Chieti (a Vasto, per l’esattezza) di Antonio Rosini, che aveva al suo attivo la partecipazione alle lotte del Fucino e alcuni anni di direzione del movimento contadino marsicano ma del quale, tuttavia, non si giudicava opportuna la utilizzazione direttamente in federazione perché non faceva unità, come si diceva allora, e si preferì perciò che il suo passaggio dalle organizzazioni di massa al lavoro di partito avvenisse fuori della Marsica. I mesi passati nella Marsica non furono affatto facili. Non tanto sul piano personale. Sotto questo profilo, anzi, debbo dire che mi trovai bene e che fui ben accolto dai compagni i quali, pur non conoscendomi affatto, mi diedero subito fiducia. Ciò non significò naturalmente che, anche da questo punto di vista, qualche problema non l’abbia avuto. Intanto, ad esempio, mi riusciva solo raramente, nel fine settimana, di tornare a Chieti dove mi aspettava la ragazza e, non avendo la patente (la presi solo nei primi mesi del ‘63, proprio ad Avezzano), dovevo utilizzare il treno o aspettare che si tenesse qualche riunione del Comitato Regionale a Pescara per farlo; ad Avezzano poi non è che ci fossero svaghi, per cui in genere la mia giornata si svolgeva tra il lavoro in federazione e le riunioni nelle sezioni o i giri, la domenica mattina, nei comuni del Fucino per distribuire le copie de l’Unità nel tentativo di rianimare l’impegno dei compagni, che era venuto meno, nell’opera di diffusione del nostro giornale. Solo qualche volta, la domenica, quando non potevo fare una scappata a Chieti, ho avuto la possibilità di godermi un pomeriggio diverso, grazie a un gruppo di ragazzi che, a distanza di qualche mese dal mio arrivo nella Marsica, avevano cominciato a frequentare il partito, e ogni tanto, la domenica pomeriggio appunto, organizzavano dei balli nel salone, abbastanza ampio, della federazione, ai quali partecipavo anch’io (anche se, come sa bene Rosetta, sono stato sempre un pessimo ballerino). Anche il clima in qualche modo rappresentava un problema: d’inverno nella Marsica fa un freddo cane, d’estate invece c’è umidità e afa. La piana del Fucino infatti, com’è noto, è circondata da ogni lato dalle montagne, i Marsi montes sulle pendici dei quali il sacerdote-guerriero, il fortissimo Umbone, alleato di Turno contro Enea, cercava le erbe che usava nella sua arte medica ma che tuttavia non servirono a guarirne le ferite che lo portarono alla morte nello scontro con i troiani, e così d’inverno la neve e, d’estate, l’assenza delle brezze refrigeranti delle nostre parti non aiutano certo a mitigare il clima; incide negativamente in questo senso anche la scomparsa del Fucino, il lago di cui Virgilio ricorda nell’Eneide la vitrea unda, che, assieme al bosco sacro di Angizia, piange la morte di Umbone: Te nemus Angitiae, vitrea te Fucinus unda, te liquidi flevere lacus… Per il resto, mi trovavo abbastanza bene. Abitavo, tra l’altro, in un ambiente amico, 120 in casa di Romolo Liberale, un compagno che ha dato un notevole contributo alla ricostruzione della storia delle lotte del Fucino e degli altri movimenti contadini che nel tempo hanno agitato la vita dell’Abruzzo. E poi c’erano ogni tanto gli incontri, la sera, a casa di Sandirocco, a cui di solito partecipavano anche giovani compagni di Luco dei Marsi. Durante quegli incontri si chiacchierava, si raccontavano barzellette e avventure di vario genere, si ascoltava Gigetto che si esibiva alla chitarra e cantava, accompagnato a volte anche dagli altri, una delle tante canzoni che facevano parte del suo vasto repertorio, o si applaudiva Giannino che recitava le poesie del suo amatissimo Garcia Lorca oppure si rideva alle battute a volte abbastanza estemporanee di Pupetta, la compagna di Sandirocco. Ho rivisto Pupetta appena qualche mese fa. Anche se un po’ acciaccata a causa degli anni, è rimasta tuttavia una donna allegra, estroversa, sempre con quel suo carattere forte e anche un po’ prepotente (ma di una prepotenza in fondo simpatica) e sempre fornita di una parlantina assai sciolta e talora irrefrenabile, e credo che ancora oggi rimangano apprezzabili le sue doti di padrona di casa e di cuoca quando sei suo ospite. Sandirocco era allora il segretario della federazione, oltre che sindaco di Luco dei Marsi; e aveva già alle spalle, nonostante la sua ancora giovane età, una vita abbastanza avventurosa e ricca di esperienze davvero uniche. Giovane ufficiale, egli fu tra le decine e decine di migliaia di soldati italiani travolti dalla tragedia dell’Armir in Russia, con un numero enorme di poveri cristi reciso senza pietà dalla guerra e dal gelo quando i sovietici sconfissero il nostro esercito che aveva invaso il loro paese. Ma, per sua fortuna, egli fu tra quelli che finirono prigionieri; e durante la prigionia ebbe modo di frequentare uno dei corsi di formazione politica tenuti da Edoardo D’Onofrio per i prigionieri italiani, aderendo così al PCI mentr’era ancora in Unione Sovietica, al ritorno in Italia fu poi tra i giovani che diressero, in prima fila, le lotte del Fucino, come dirigente sindacale. Gigetto è sempre stato uomo colto, aperto, generoso e anche molto gioviale, un buon compagnone insomma con cui si sta volentieri, al quale è sempre piaciuto conversare, suonare la chitarra, cantare e raccontare barzellette che spesso avevano come protagonisti personaggi incontrati nelle sezioni o durante le lotte del Fucino, così mi trovai subito bene con lui, si portava dietro però già da allora un difetto dal quale non ha mai cercato né voluto liberarsi, come potei constatare anche a distanza di molti anni quando tornai a lavorare con lui, a Pescara, nella segreteria regionale: se poteva, scansava volentieri gli impegni e te li ripassava, in particolare quando c’erano di mezzo problemi spinosi o bisognava litigare con i compagni, gli piaceva insomma la vita tranquilla! Comunque, non mi è mai sembrato il caso di lamentarmi per questo. E’ vero, ho dovuto spesso sobbarcarmi una quantità di lavoro maggiore, quando ho lavorato con lui, ma ciò mi ha consentito anche di maturare una esperienza più ampia e impegnativa e di avere un ruolo più significativo nel partito. Assai problematica (per usare un eufemismo) era invece la situazione organizzativa e politica della federazione. 121 In quegli anni, il PCI era ancora un partito isolato, l’isolamento per certi aspetti tendeva anzi ad accentuarsi a seguito della scelta del PSI di cercare l’accordo con la DC per l’avvio di quella che fu poi la politica di centro-sinistra, rompendo contemporaneamente il patto di unità d’azione che lo legava al PCI. Questo, naturalmente, si faceva sentire ancora di più in periferia e, soprattutto, in una realtà come quella della Marsica dove il partito era in ritirata dopo le grandi lotte degli anni ’50. Avevamo diverse amministrazioni comunali: se il mio ricordo è esatto, amministravamo allora nella Marsica Luco dei Marsi, Cerchio, S. Benedetto, Lecce dei Marsi e Celano. Ma non è che a questa presenza amministrativa corrispondesse la presenza di un partito forte e attivo (salvo che a Luco); in generale, poi, le sezioni erano vuote, si teneva una sola festa de l’Unità, quella di Luco, la iniziativa politica delle sezioni era pressoché inesistente e, fuori del Fucino, la presenza organizzata del partito si limitava solo a qualche comune. In questa situazione, resa più grave anche dal disordine organizzativo che regnava in federazione e da un rapporto non buono del gruppo dirigente con le sezioni, bisognava reinventare tutto: una linea politica e programmatica in grado di cogliere le modificazioni che si stavano producendo anche nella Marsica come nel resto del Mezzogiorno (ad esempio, l’avvio della politica dei poli industriali spostava il discorso sui problemi dello sviluppo e delle nuove figure sociali che cominciavano ad emergere, con la nascita di nuova classe operaia e il formarsi di ceti tecnici e professionali nuovi), nello stesso tempo si faceva sempre più pressante la necessità di una più puntuale politica organizzativa in grado di recuperare iscritti, rilanciare un minimo di capacità di iniziativa politica del partito sul territorio, conquistare forze nuove, forze giovani. Fu insomma una vera fatica. Ricordo, ad esempio, che, per spingere le sezioni a stare seriamente dietro al tesseramento, mi toccò parecchie volte di andare personalmente in alcuni comuni del Fucino, non per fare la solita riunione, ma per girare, assieme a qualche compagno volenteroso, casa per casa, nel tentativo di recuperare iscritti o fare nuove tessere. In genere questo richiedeva molto tempo e lunghe e defatiganti discussioni con i compagni che avevano sempre mille lamentele da fare nei confronti della federazione o, più in generale, sulla politica del partito, ma assai spesso accadeva che tutto si esaurisse in chiacchiere! Pochi giorni fa Giannino Venditti, che era con me in quella occasione, mi ha ricordato un episodio che dà bene il senso e la misura delle difficoltà con le quali ci scontravamo. Quel giorno avevamo scelto Trasacco come meta delle nostre fatiche. A Trasacco, la sezione ormai non c’era più: né fisicamente né organizzativamente, avevamo solo un piccolo numero di iscritti la cui presenza però in paese si avvertiva poco o nulla; e l’unico modo per tentare di riprendere un cammino era appunto quello di rimettere in piedi un rapporto con i tanti compagni che nel frattempo si erano tirati fuori dell’impegno politico organizzato. Ricordo che quel giorno anche il tempo non fu benevolo con noi: eravamo in pieno inverno e faceva un freddo cane, inoltre durante il giro nelle case dei compagni cominciò anche a nevicare, insomma un tempo quasi da lupi...! 122 Ciononostante, facemmo il nostro giro. Ci ritrovammo così a un certo punto nella casa di un bracciante, ancora giovane, che aveva partecipato alle lotte del Fucino ma che, se non ricordo male, era stato a suo tempo tra gli esclusi dall’assegnazione della terra, e neanche lui aveva rinnovato la tessera. Io cominciai subito a spiegargli le ragioni che ci avevano portato a casa sua, ma lui opponeva con pertinacia alle mie argomentazioni un discorso nel quale si mescolavano sfiducia e settarismo. La cosa andò avanti così per un po’ di tempo, a un certo punto però Giannino, non solo perché preoccupato della neve che intanto continuava a fioccare in abbondanza, lui doveva tornare a Luco e io ad Avezzano, si spazientì e mi disse, piuttosto bruscamente, di lasciar perdere, io tuttavia non mollai e continuai imperterrito nella mia opera di convinzione, ma la mia pazienza purtroppo produsse solo un bel niente...! Da questo punto di vista, neanche quello che accadeva a livello nazionale ci aiutò molto, nel senso che gli effetti positivi di certi processi politici che pure si stavano mettendo in moto sul piano nazionale non fecero tuttavia sentire da subito i loro effetti in periferia, quantomeno nella Marsica. Sul piano nazionale, infatti, Togliatti, di fronte all’avanzare della prospettiva del centrosinistra che sostituiva il vecchio centrismo ormai morto e sepolto, ebbe la capacità di manovrare in modo tale che alla fine non solo la rottura che si era prodotta con il PSI non provocò danni né all’unità della CGIL né al mantenimento delle giunte di sinistra negli enti locali, ma alle elezioni politiche del ‘63 il PCI riuscì anche a segnare parecchi punti a suo favore a spese del PSI e soprattutto della DC, in questo modo veniva spezzato l’assedio da cui i comunisti erano stretti e tutta la situazione politica italiana cominciò a rimettersi in movimento. Nella Marsica, tuttavia, nonostante gli sforzi e qualche risultato positivo (anche nelle elezioni politiche del 1963), continuammo invece ad andare avanti con fatica, quello che mancò da parte nostra fu forse la capacità di individuare con la rapidità e la chiarezza necessarie le nuove figure sociali da mettere al centro di una battaglia di recupero del ruolo della Marsica nella vita regionale e per il suo sviluppo. La mia esperienza marsicana si concluse tra l’agosto e il settembre del 1963. E ricordo che il mio ultimo comizio nella Marsica lo tenni il 15 agosto, alla festa de l’Unità di Carsoli (si cominciavano a fare feste de l’Unità anche in altri comuni, oltre che a Luco), ricordo anche che in quel comizio feci un lungo passaggio sulla figura di Giovanni XXIII, che era morto da poco più di un mese e mezzo, e su ciò che significavano per la prospettiva anche politica dell’Italia e del mondo le grandi innovazioni da lui volute con il Concilio Vaticano II e, in particolare, con l’affermazione, contenuta nella enciclica Pacem in terris, secondo cui bisogna sempre distinguere tra l’errore e l’errante, questo poteva significare una cosa sola e cioè che la politica della scomunica voluta da Pio XII nei confronti dei socialisti e dei comunisti era stata finalmente riposta in archivio e si apriva ora la possibilità del dialogo tra comunisti e mondo cattolico. La notizia del mio ritorno a Chieti mi raggiunse all’improvviso e all’ultimo momento, quando ormai mi ero già rassegnato a rimanere nella Marsica, una prospettiva che sinceramente non mi allettava affatto. 123 Anche se a Chieti la discussione sul cambio del segretario di federazione, con il trasferimento di Ottaviano a Roma, si era aperta già da prima delle elezioni politiche del 1963, evidentemente solo nelle battute finali di questa discussione il mio nome era stato inserito nel possibile nuovo assetto del gruppo dirigente provinciale, altrimenti ne avrei saputo qualcosa già prima. Le cose, insomma, mutarono all’improvviso; e debbo dire che accolsi davvero con molto sollievo e grande contentezza la comunicazione che mi arrivò non ricordo più se da Brini, diventato nel frattempo, dopo la morte di Tarantini (che aveva voluto il mio invio nella Marsica), il nuovo segretario regionale del PCI, o da Tom Di Paolantonio, che all’epoca aveva un ruolo importante nella vita del PCI abruzzese, e che mi annunciava la fine della mia avventura marsicana e il mio nuovo impegno di organizzatore nella federazione di Chieti, con Giuseppe D’Alonzo segretario. Del ritorno a Chieti fui particolarmente felice anche per un’altra ragione. Questo mutamento di prospettive avveniva alla vigilia del mio matrimonio fissato già per il 22 settembre di quell’anno: avrei aperto insomma casa a Chieti e non più ad Avezzano, e poco m’importò di dover disdire in tutta fretta la bella casetta che qualche mese prima avevamo affittato in città per farne il nostro nido dopo le nozze. Contenta quanto me e forse più di me, è ovvio, fu Rosetta che, nell’estate del 1961, era diventata la mia ragazza. E adesso, mie care nipotine, non ve ne abbiate a male se vi faccio dono di alcune nuove, belle citazioni. Si tratta, questa volta, di frammenti di due distinti canti flamenchi che mi sembra rendano bene la fatica che mi è costata convincere la vostra futura nonna a scegliermi come la sua metà, e che ho trovato nel bel film del regista spagnolo Carlos Saura, dedicato appunto al flamenco, canto e ballo, e alla grande varietà delle sue forme. Il flamenco, che forse, quando leggerete questo lungo e spero non noioso racconto del nonno, avrete già imparato a conoscere, è un canto tipicamente spagnolo che nasce da un incontro fortunato tra culture musicali assai diverse tra loro, in un mondo -quello dell’Andalusia- dove gli spagnoli hanno convissuto per secoli con arabi, ebrei sefarditi e africani, gitani; e il risultato è stato appunto il flamenco, un canto appassionato, ardente, dai toni a volte fortemente drammatici a volte invece teneri e delicati o anche sbarazzini e pieni d’ironia, che vede protagonisti né poeti né musicisti ufficiali ma gente del popolo, gitani in particolare, al quale si accompagna di solito il ballo tutto ritmo, spesso indiavolato, e passione e nel quale è importante anche il gesto del braccio e della mano come nella tradizione della danza indiana. Nel viaggio che abbiamo fatto in Spagna io e la nonna, nella tarda primavera dell’ormai lontano 1995, abbiamo avuto modo di assistere a due spettacoli di flamenco, uno in teatro l’altro in un affumicato locale gitano di Sacramon a Granada. Tra i due spettacoli non c’è davvero paragone, certamente bello ma paludato, senza passione quello in teatro, pieno di fuoco, invece, di ritmi scatenati, di colori, di allegria e sensualità quello del quartiere gitano, con le donne fasciate da vestiti assai sgargianti e vistosi e gli uomini con abiti sempre molto attillati. Ma avanti con le citazioni. 124 Lui dice a lei: La mia vita è mia, la tua vita è tua. Perché non le uniamo per farne una sola? E lei risponde, con le parole del papavero di campo (amapola, sostantivo femminile in spagnolo) al frumento (trigo, sostantivo maschile): Il papavero del campo disse al frumento non mi sposerò con nessuno ma con te non lo so. Con te non lo so, bambino, con te non lo so disse il papavero del campo al frumento. Questa tiritera con la nonna durò diversi mesi, nonostante la mia corte assidua e pressante. Finalmente arrivò la resa: accadde nei giorni di mezzo agosto, alla festa dell’Unità di Comino. Quella sera ballammo io e lei, nonostante le mie scarse doti di ballerino, senza fermarci un momento, fino alla fine della serata. Ci ritrovammo, poi, il giorno dopo, a Piana delle Mele, sulla Maiella, dove passammo la giornata assieme alla sua famiglia, per recarci di nuovo, verso l’imbrunire, a Comino, per la serata conclusiva della festa de l’Unità. E così da quel momento, voglio dirlo con i versi di una bellissima canzone popolare toscana, forse di origine rinascimentale, cantata da Caterina Bueno, cinquecento catenelle d’oro hanno legato lo tuo cuore al mio, e l’hanno fatto tanto stretto il nodo che non si scioglierà né te né io, e l’hanno fatto un nodo tanto forte che non si scioglierà fino alla morte. Il nostro fidanzamento durò all’incirca due anni; e fu segnato da frequenti e, in occasione del mio soggiorno ad Avezzano, anche piuttosto prolungate separazioni. Qualche giorno fa sono andato a ficcare le mani tra le lettere che ci siamo scambiati in quel periodo. Sono intanto tantissime. Allora non c’erano né sms né e-mail e il telefono fisso in casa era ancora una rarità; e quasi tutte, quelle di Rosetta, partono da Chieti e vanno verso Vasto o Avezzano, sono state spedite insomma nel periodo delle mie permanenze a Vasto, durante le lotte per il metano, e poi del mio soggiorno nella Marsica, le mie invece partono sempre da Vasto o da Avezzano e si dirigono a Chieti. 125 Ce ne sono anche alcune che Rosetta mi spedisce da varie località fuori dell’Abruzzo dove si svolgevano iniziative di partito alle quali essa partecipava e dalle quali mi inviava cartoline o lettere, mentre tra le mie ce n’è qualcuna, in partenza da Avezzano, indirizzata a Vasto dove lei si era recata per alcuni giorni (doveva essere la fine del 1962) per dare una mano nel tesseramento sia in città che in alcuni comuni del Vastese, ospite della famiglia Di Bussolo. Ne ho rilette anche alcune. Al di là della ridondanza tipica di lettere tra fidanzati, in esse ho ritrovato soprattutto la conferma di una mia vecchia convinzione, e cioè che la lontananza, in definitiva, ha contribuito a rafforzare e consolidare il nostro legame, una lontananza nutrita naturalmente anche dei giorni nei quali ci siamo ritrovati assieme. Anche da sposati ci siamo trovati spesso nella stessa condizione e gli effetti non sono stati diversi. Il mio lavoro mi ha portato spesso a girare per l’Italia (e anche fuori d’Italia) e, per lunghi periodi, a muovermi tra Pescara, Campobasso e Roma, e da ciò credo che ne abbiamo guadagnato qualcosa. La lontananza, come sanno bene i poeti, accresce il desiderio e lo sottrae alla patina opaca della quotidianità. In ogni modo, nei mesi del nostro fidanzamento, il ritrovarci assieme, a volte ogni fine settimana a volte invece ogni quindici giorni, è stato sempre per noi come una festa e comunque l’occasione di un rapporto sempre più intenso. Anzi, quando la difficoltà di vederci è stata maggiore, la felicità dell’incontro è stata forse ancora più grande. Parlo soprattutto del periodo in cui ero ad Avezzano, quando né il lavoro né i soldi mi consentivano di tornare facilmente a Chieti. Quando potevo farlo, ero infatti costretto, come ho già ricordato, a spostarmi col treno; quando poi ho preso la patente, a quel punto avevo certo la possibilità di usare l’auto della federazione (che però non era sempre a mia disposizione), ma per la macchina ci volevano ancora più soldi che per il treno e io non ne avevo davvero molti, questa storia della mancanza di soldi ho visto, anzi, che veniva spesso evocata nelle mie lettere da fidanzato! Tra le tante cose che ricordo di quel periodo nella Marsica vi sono anche alcune disavventure legate a imprevisti del mio lavoro, in particolare ne ricordo una. Era il carnevale del 1963, io e Rosetta ci eravamo dati per telefono appuntamento, a casa sua, per il tardo pomeriggio, l’ora giusta per andare poi a ballare, la sera, nel centro sociale nato a poca distanza dalla sua nuova abitazione di Chieti Scalo; lei naturalmente si era anche preparata a tempo in modo da essere pronta a uscire appena io fossi arrivato, ma la sua attesa fu vana, io mi presentai infatti (non per colpa mia, ma per un contrattempo di partito che non avevo potuto evitare e senza che di questo la potessi avvertire) quand’era quasi mezzanotte e quando ormai la festa e il ballo volgevano alla fine, lei ovviamente ci rimase molto male ma io, debbo dire, ci rimasi ancora più male di lei! Ma ricordo anche tutti i bei momenti che abbiamo vissuto assieme, ogni volta che tornavo da Avezzano; e anche di tutte le altre volte in cui abbiamo potuto stare insieme, dopo periodi più o meno lunghi di separazione. Ricordo soprattutto i balli che spesso si organizzavano o a casa di Rosetta o presso 126 le abitazioni di sue amiche (all’epoca si ballava nelle case, le discoteche e i locali da ballo non c’erano ancora), alcune volte invece ci ritrovavamo al ballo che concludeva la festa di matrimonio di questo o quel conoscente e al quale eravamo invitati: ebbene, nonostante la mia goffaggine, non ci perdevamo mai un ballo pur rischiando Rosetta continuamente che le pestassi i piedi. Ricordo anche che, tra le canzoni che accompagnavano i nostri balli, ce n’era una che ci piaceva particolarmente. Parlo de La paloma, una delle tante palome che andavano di moda in quegli anni, con parole e musica riadattate ai nuovi gusti, ma tutte germogliate da La paloma scritta a Cuba, in tempo di habanera, a metà dell’Ottocento, dal basco Sebastián Iradier, essa era anzi diventata un po’ come la nostra canzone, la colonna sonora del nostro fidanzamento e quando, nel ballo, ci abbandonavamo al suo ritmo, ricordo che ci sembrava di sentirci come avvolti da una atmosfera magica. La canzone aveva un tono piuttosto dolciastro, come ce n’erano tante in quegli anni, a noi tuttavia essa era comunque molto cara forse perché, con il suo ritmo lento, la sua melodia morbida e piena di malinconia, ci invitava a vagare nei cieli della fantasia e a farci cullare dall’onda dei sentimenti. O forse ci piaceva perché il tema della canzone, la lontananza, lo vivevamo come un tema nostro. Del resto, l’ho già sottolineato più di una volta, il tema della lontananza, così ampiamente presente nella poesia, si è rivelato sempre capace di grande forza evocativa, cito per tutti Jaufre Rudel: Amors de terra lonhdana, por vos totz lo cors mi dol! no.n puesc trobar meizina si non vau al sieu reclam… L’anno scorso, il 21 settembre del 2003 (e cioè il giorno prima della ricorrenza), abbiamo festeggiato i quarant’anni di matrimonio. Siamo stati al Tiglio, un ristorante di Rapino, un paesino alle pendici della Maiella, molto affollato (era di domenica), dove abbiamo mangiato bene e a prezzi non esosi. Con noi c’erano mia suocera, Massimiliano, Luisa, Valentina e Benedetta, avremmo voluto che ci fossero anche Stefano, Teresa ed Elisa (Martina non era ancora nata), ma la distanza è la distanza, c’è poco da fare. La giornata era bellissima, così ne abbiamo approfittato per fare una capatina, prima di pranzo, a Bocca di Valle. Bocca di Valle, che dista appena qualche chilometro da Guardiagrele, è il punto di arrivo di una stretta valle che scende dalla Maiella, solcata per tutta la sua lunghezza da un torrentello che, quando erano piccoli i miei figli, portava ancora parecchia acqua, di una limpidezza incredibile e anche molto fredda, e oggi invece non ne porta quasi più. E a congiungere i due lati della valle vi è il ponte che sta come sospeso su uno sprofondo davvero impressionante, dove si scorge il letto del torrente ricoperto appena da un filo d’acqua, e a guardare giù vengono quasi le vertigini: un posto, insomma, bellissimo e molto frequentato d’estate, soprattutto dai turisti della domenica. 127 Un posto comunque che conosciamo molto bene, sia io che Rosetta e i miei figli, perché proprio lì, nei primi anni ’70, tra la primavera e l’estate, portavamo spesso Massimiliano e Stefano a passare la domenica o altri giorni festivi. Avevamo scovato, a poche centinaia di metri dall’imbocco della valle, una specie di piazzaletto, sulla destra per chi sale, che si poteva raggiungere superando il torrente attraverso un ponticello di legno; e lì i bambini potevano respirare aria buona e giocare liberamente per tutta la giornata: facevamo una sola, breve sosta, verso l’una, per consumare il pranzo abbondante portato direttamente da casa, sdraiati all’ombra riposante del gruppo di alberi che iniziavano in quel punto il folto bosco che risaliva poi tutta la costa della montagna. Portammo naturalmente Valentina e Benedetta a giocare anche loro, quel giorno, nel piazzaletto; e anch’esse si sono divertite un mondo, anche se oggi lo spazio a disposizione dei bambini si è ridotto parecchio e, per giunta, non è neanche granché praticabile, gli arbusti del sottobosco stanno ormai avendo il sopravvento nella piccola radura. Quando siamo scesi a Rapino, era ancora abbastanza presto per andare a pranzo, così abbiamo avuto il tempo di fare un giro per il paese e di ammirare alcune mostre di ceramica locale (a Rapino c’è una lunga tradizione di produzione della ceramica, ma essa si è andata un po’ perdendo nel tempo), mentre Valentina e Benedetta erano molto impegnate a correre per i vicoli che stavamo percorrendo e a giocare nello slargo di passaggio nel quale si trova il ristorante, dove ti inondano di fresco con la loro vasta ombra gli alberi di tiglio che delimitano il minuscolo parco dedicato ai caduti in guerra originari del paesino e danno il nome al locale. Quarant’anni, dunque, dal giorno del nostro matrimonio, durante i quali a giorni lieti e luminosi si sono alternati giorni difficili e comunque piuttosto opachi; e abbiamo percorso il nostro cammino ora con pioggia, vento e freddo ora con l’azzurro del cielo sopra le nostre teste e in mezzo ai colori, ai suoni e ai profumi delle belle giornate: come accade, del resto, nella vita di tutti! Ma un cammino così lungo e a volte anche accidentato, mie care nipotine, non ha imbalsamato ancora la nostra vita, svuotandola di ogni sentimento e di ogni interesse, né ci ha fiaccati o trasformati in piccole bellezze morte raccolte nel museo dei ricordi e della nostalgia, anche se i ricordi sono sempre un dono della vita. La vita è ancora tutta davanti a noi, con le sue incertezze, i brutti colpi che magari ti arrivano all’improvviso ma sempre pronti a fronteggiarli; e però anche con le sue bellezze, sia pure diverse da quelle di una volta! C’è, nel film di Carlos Saura, un altro canto flamenco che mi ha particolarmente affascinato, non solo per la sua melodia ma soprattutto per la storia, assai triste e un po’, come dire, venata di rassegnazione, che esso racconta. E’ la storia di una farfalla, la mariposa blanca, che era la regina di tutte le farfalle dell’alba e che 128 si posava nei giardini sui fiori più belli e sussurrava storie al garofano e alla violetta. La mariposita era felice e, superba e civetta, sembrava il fiore d’un mandorlo cullato dalle fresche brezze. Ma un giorno accadde una cosa terribile: arrivò un collezionista, una mattina di primavera, e sopra ad un gelsomino in fiore imprigionò la nostra regina. E la fissò con spilli a cartoncini neri e la portò al suo museo di piccole bellezze morte, mentre le farfalle dell’alba piangevano nella foresta. Noi, per fortuna, non abbiamo ancora incontrato il nostro collezionista, il tempo che è il nostro collezionista deve ancora pazientare; e non ci siamo fatti perciò ancora imprigionare e fissare, come la povera mariposita blanca, con spilli su cartoncini neri! Da sempre ormai, sono alle viste di chi viene a casa nostra due belle fotografie in bianco e nero, una nel corridoio di casa e l’altra nella cameretta che è stata la stanza dei figli quando vivevano ancora con noi ed oggi è diventata la stanza dove Rosetta vede di solito la televisione e le mie nipoti giocano quando stanno dai nonni, ma che, quando occorre, si trasforma anche in stanza degli ospiti. Si tratta di due foto del bellissimo album, tutto in bianco e nero, che conserviamo del nostro matrimonio, e sono state scattate subito dopo la fine della cerimonia, io ho ancora parecchi capelli, che sono ancora neri, e sono tutto assorto nel mio nuovo ruolo di marito innamorato, sono magro e non c’è traccia ancora di pancetta, Rosetta invece ha un viso allegro, sorridente, con sopracciglia e capelli folti e neri che sono rimasti tali ancora oggi, ed indossa il suo abito da sposa, abito lungo e rigorosamente bianco, con 129 coroncina di stoffa sulla testa dalla quale parte il velo a strascico che si trascina dietro con l’aiuto di una o due damigelle, adesso non ricordo bene. Rosetta è sempre stata innamorata del suo abito bianco da sposa e ad esso non ha mai rinunciato, anche dopo che pure lei ha accettato di sposarsi non in chiesa ma in municipio. Stava bene comunque così vestita, pur in uno scenario che era quello, assai modesto, della sala del Consiglio comunale di Tollo. Ci siamo sposati infatti a Tollo, la mattina del 22 settembre del 1963, Rosetta aveva poco più di ventiquattro anni mentre io ne avevo già quasi ventinove. Quel giorno, nella piazza davanti al municipio c’era, quando siamo arrivati con la nostra auto da cerimonia (la guidava Licio Bevilacqua, e non ricordo più chi ce l’aveva prestata) e le altre auto dei parenti, una grande folla di curiosi, forse perché era una bella giornata di sole ma forse anche perché era la prima volta che a Tollo si celebrava un matrimonio civile; e a unirci in matrimonio fu Guido Di Mauro, allora sindaco del Comune e deputato appena da qualche mese, testimoni furono invece Gigetto Sandirocco e Mirka Liberale (la Marsica era ancora presente nella nostra vita). Ci siamo sposati, dunque, con rito civile. All’epoca erano davvero rari i matrimoni civili, e chi lo sceglieva era destinato inevitabilmente a incorrere negli strali delle malelingue del vicinato che, per esempio, come nel nostro caso, avevano annunciato ai miei futuri suoceri che il matrimonio non avrebbe avuto alcun valore e che comunque potevo lasciare mia moglie quando volevo! Ci fu perfino, tra i parenti dalla parte di mio padre, chi prese a pretesto questo fatto per non partecipare al matrimonio, mentre i miei aspettavano in mezzo alla strada con l’auto presa a noleggio per imbarcarli e portarli a Tollo: un modo, insomma, per risparmiarsi il regalo (anche se, in quegli anni, i regali non erano granché, ricordo che noi collezionammo una lunga serie di servizi di bicchieri che un bel giorno, alcuni anni dopo, abitavamo a Vasto, andarono in frantumi quando il bar incassato nella libreria un po’ sgangherata che avevo allora si staccò e finì rovinosamente a terra!). La decisione di sposarci in municipio fu in realtà solo mia: ma dopo un lungo braccio di ferro anche Rosetta si fece convincere, a condizione però che potesse indossare ugualmente l’abito lungo da sposa che piaceva a lei. Non fecero invece molte storie i suoi genitori, anche se soprattutto mia suocera, sottoposta di continuo a critiche e pressioni da parte di alcune vicine di casa, avrebbe preferito anche lei la chiesa. Non se la presero neppure i suoi parenti di Sora, che pure erano molto religiosi e praticanti, essi anzi rimasero assai contenti della cerimonia: Di Mauro aveva fatto sistemare la sala del Consiglio, abbastanza capiente, con molti fiori e fatto preparare un bel rinfresco per gli invitati. Qualche problema ci fu, al contrario, con mio padre. Ho ancora davanti agli occhi la scena di quel pomeriggio a Orsogna, nella masseria di Colle S. Giacomo: siamo seduti fuori sull’aia, all’ombra del gelso, la giornata infatti era calda, e stiamo discutendo della data del matrimonio, dei preparativi, ecc. Quando però annunciai ai miei che non ci saremmo sposati in chiesa, mio padre reagì 130 piuttosto male e mi disse: Allora io non vengo, e io subito di rimando: A me, non me ne importa niente (a quel punto mi arrivò, sotto il tavolo, un calcio agli stinchi da parte di Rosetta per richiamarmi alla calma, debbo dire che è un’abitudine che non ha affatto perso con gli anni). Non è che mio padre fosse religioso, anzi, lui in chiesa ci entrava solo raramente, al massimo a Natale e Pasqua, la stessa cosa mia madre, probabilmente quello che lo preoccupava è di come avrebbe reagito la gente del paese, la discussione comunque fu breve e il problema si risolse rapidamente. Nel 1963, una festa di matrimonio non si poteva che organizzarla in casa. In giro non c’erano i tanti e ben attrezzati ristoranti di oggi, c’erano solo trattorie, piuttosto anguste per giunta, ma soprattutto non c’era ancora la mentalità, e poi, diciamola chiaramente, la gente non se lo sarebbe neppure potuto permettere. Anche il nostro pranzo di nozze si tenne così in casa, in quella di mia suocera. La casa, naturalmente, era stata svuotata di tutto, sistemando la mobilia negli appartamenti degli altri assegnatari della nuova palazzina di proprietà dell’Istituto Case Popolari, a Chieti Scalo, nella quale la famiglia di Rosetta si era trasferita da poco più di un anno. Bisognava provvedere ovviamente anche alle cibarie, ma a questo pensò mio suocero, che, per molte settimane, si fece pagare in natura dai contadini di Casalincontrada dove, da ambulante di casalinghi, si recava la domenica a vendere alle massaie utensili per la casa. Quando, dopo la cerimonia, tornammo a Chieti per il pranzo, trovammo mia suocera che ci aspettava all’ingresso della palazzina, essa infatti non si era mossa di casa proprio per farci trovare tutto pronto al nostro ritorno. Al pranzo parteciparono all’incirca una settantina di persone, piuttosto stipate nelle poche stanze disponibili, quasi tutti parenti, e a cucinare e servire in tavola provvidero le donne del palazzo che si erano prodigate durante tutta la settimana per dare una mano alla buona riuscita dell’evento: all’epoca, la solidarietà -come i pettegolezzi tra vicini, naturalmente- esisteva davvero! La sera, dopo il pranzo che fu abbastanza lungo, ci fu anche il ballo, al quale erano stati invitati anche i compagni della federazione e alcuni amici, ma noi non ci fermammo a lungo: partimmo invece per Pescara appena dopo che buona parte dei parenti era andata via, anche perché eravamo parecchio stanchi, e lì alloggiammo la notte, in un albergo che si trovava proprio di fronte alla vecchia stazione centrale da dove, il giorno dopo, iniziammo il nostro viaggio di nozze. In quegli anni, se ben ricordo, in Italia era ancora molto popolare il film Poveri ma belli, della metà degli anni ‘50: noi ovviamente, anche se soltanto poveri e non belli (almeno io!), facevamo parte della categoria. Tuttavia, potemmo fare anche noi il nostro viaggio di nozze, un viaggio di nozze tutto in treno, reso possibile dal regalo che ci fece la federazione in occasione del nostro matrimonio: ci erano stati regalati due biglietti parlamentari che ci permisero di arrivare addirittura fino a Trieste, passando per Firenze e Venezia, e, al ritorno, per Padova e Bologna. Fu un viaggio di nozze che ricordo con grande piacere, anche se esso si rivelò, strada 131 facendo, un po’ avventuroso dal punto di vista finanziario e, per me, anche piuttosto faticoso dovendo, a ogni scalo, caricarmi i due pesanti valigioni preparati da mia moglie (anche oggi non ha perso il vizio, si porta sempre dietro cose che poi non indosserà mai, ma per fortuna adesso si va in automobile...)! La prima tappa fu Firenze, dove arrivammo attorno alla mezzanotte. Eravamo davvero spossati e cascavamo dal sonno. Sia per il viaggio interminabile (eravamo partiti nella tarda mattinata da Pescara, passando per Roma) sia per lo stress dei giorni precedenti, e questo ci fu fatale, assieme al fatto che il nostro giro di nozze non era affatto organizzato: così, appena un taxista di una certa età -che aveva evidentemente l’occhio clinico per riconoscere a prima vista sposini inesperti come eravamo noi- si offrì di accompagnarci in una pensione non lontana dalla stazione, noi gli dicemmo subito di sì, senza informarci né del prezzo né di altro. La pensione era accogliente, si trovava proprio nei pressi di Piazza della Signoria, e la signora che la gestiva, assieme alla figlia poco più che adolescente, si dimostrò subito carina con noi e premurosa nei confronti di ogni nostro desiderio. Ricordo, ad esempio, che mia moglie, un pomeriggio, fu presa, poco prima che uscissimo per fare un giro nel centro storico di Firenze, da forti conati di vomito. La signora fu tutta gentile, ci fece, anzi, anche gli auguri per l’evidente annuncio di gravidanza e preparò subito un tè per Rosetta che ci ritrovammo però, allo scadere dei tre giorni della nostra permanenza a Firenze, sul conto a nostro carico, assieme alla docce fatte e ad altre cose che mai avremmo pensato di dover pagare, ma tant’è, così stavano le cose e non ci fu altro da fare che pagare la grossa somma che ci venne richiesta. Per noi, che non avevamo certo molti soldi a disposizione, fu un colpo; e nei giorni successivi, sia a Venezia che a Trieste come anche, sulla strada del ritorno, a Padova e a Bologna, cercammo di rimettere in equilibrio le nostre finanze contentandoci del panino per il pranzo e andando in trattorie a poco prezzo la sera. Ma non fu sufficiente, tanto che, quando -alla fine del nostro viaggio- arrivammo ad Avezzano per recarci poi da lì a Sora, dove avremmo trascorso, presso gli zii di Rosetta, zì Peppino e zì Antonietta, gente simpatica e che amava la buona tavola, gli ultimi giorni della nostra vacanza nuziale, fummo costretti a passare da Mirka, ad Avezzano, che ci diede qualche lira: insomma, eravamo rimasti proprio a secco. Nonostante queste disavventure, il nostro giro di nozze fu comunque bellissimo. Tra l’altro, era la prima volta che ci capitava di visitare città di così rara bellezza e gustare paesaggi nuovi e di grande fascino, assistiti anche, per nostra fortuna, da un tempo splendido durante tutto il viaggio; e di esso ricordo ancora oggi tante cose, anche se sono soprattutto i giorni passati a Trieste che mi sono rimasti nel cuore. A Trieste, e al suo bianco panorama, come lo definisce Umberto Saba, avevamo pensato di tornare in occasione del nostro quarantesimo anniversario di matrimonio, ma per una serie di circostanze anche questa volta (era già accaduto altre volte, negli anni precedenti) il viaggio è saltato, prima o poi però ci torneremo... In quei giorni, a Trieste la stagione era mite e le giornate si presentavano con la morbida e chiara luminosità del cielo di settembre, che invitava ad andare in giro a conoscere le bellezze della città e a godersi le sue strade, i suoi palazzi, le sue chiese; ed ho ancora negli occhi la splendida e immensa Piazza Unità d’Italia, che è come un grande balcone 132 sul mare, e poi S. Giusto, il Castello, Miramare: quest’ultimo si staglia solitario sulla costa, proprio a ridosso del mare, con le sue bianche torri / attediate per lo ciel piovorno (ma quel giorno il cielo era limpido), come canta Carducci nella bella ode barbara Miramar, sulle quali vaga ancora oggi l’ombra tragica di Massimiliano d’Austria. Dopo il nostro ritorno dal viaggio di nozze, tornammo ovviamente -sia io che mia moglie- al nostro consueto lavoro, anche se in realtà, con il matrimonio, iniziava per me come per lei una nuova vita, ma di questo, care nipoti, parleremo nel prossimo capitolo. 133 134 Capitolo VII E così, finalmente, eccomi di nuovo dinnanzi al computer, alla pagina bianca del computer, pronto a riprendere il mio racconto. Nelle settimane scorse, coinvolto anch’io dai mille contorcimenti e giravolte che hanno sfiancato i partiti del centrosinistra nella scelta dei candidati a sindaco e a presidente della Regione in vista delle prossime elezioni regionali e per il rinnovo del Consiglio comunale di Chieti, me ne sono tenuto piuttosto discosto. Ma ora, l’ora del tempo e la dolce stagione... Dolce stagione, per modo di dire. Stanotte, non ha smesso un minuto di nevicare. D’altra parte, siamo alla fine di gennaio di questo 2005 appena iniziato; e quest’anno, al contrario di quel che è accaduto negli anni scorsi, l’inverno ha deciso di fare l’inverno anche a quote basse e sembra promettere di durare a lungo. A me l’inverno non piace, sono un appassionato delle stagioni di mezzo: la primavera e l’autunno, anche se la loro durata e consistenza si sono fatte ormai sempre più impalpabili, inafferrabili. Non mi piace soprattutto il freddo, e in questi giorni il freddo è veramente intenso e le previsioni non sono rassicuranti. Da noi, quando uno soffre il freddo, si dice: sembre na ciammajica nude! E’ così, sembro proprio una lumaca nuda e non ci posso fare niente. Tuttavia, nonostante questa mia idiosincrasia per l’inverno, mi è sempre piaciuto lo spettacolo della campagna innevata, dei tetti delle case con le tegole rosse o marrone scuro spruzzate di chiazze diffuse di bianco, delle strade e dei vicoli senza più margini. Più o meno, insomma, lo spettacolo che ho potuto ammirare questa mattina quando mi sono alzato dal letto, a ora molto tarda debbo dire: le colline di fronte, che sono il panorama consueto che mi godo ogni giorno dalla mia veranda o dalla finestra dello studio, tutte coperte di un grande manto bianco rotto qua e là da macchie più scure di filari di piante; e, tra le palazzine del quartiere, gli alberi che le circondano con i rami carichi di neve, parecchi di essi sono spezzati e in qualche caso sono finiti in mezzo alla strada sotto il peso della neve e l’urto del vento di questa notte. Naturalmente, della neve che finalmente è arrivata sono soprattutto contente Valentina e Benedetta; e, tutte felici, questa mattina si sono sbizzarrite a giocare nella piazzetta che è davanti la loro casa e hanno costruito il pupazzo tanto atteso! E, visto che continua a nevicare con molto impegno, probabilmente avranno più di un giorno per dedicarsi ai loro giochi in mezzo alla neve, senza la preoccupazione dei compiti da fare per Valentina e chissà che anch’io non le aiuti a modellare qualche altro pupazzo... La loro contentezza mi riporta alla mente le grandi nevicate di un tempo, quando anch’io, con i miei amici, mi divertivo a giocare con la neve pur non avendo già più l’età delle mie nipoti. Ricordo, ad esempio, quella del 1956. Quell’anno le scuole rimasero chiuse per circa un mese e anche gli studenti di Orsogna, che frequentavano le scuole superiori a Lanciano, rimasero bloccati in paese perché la Sangritana non ce la faceva a garantire le sue corse verso la città frentana, tanta era la neve che si era accumulata lungo i binari. 135 Anche Orsogna era sepolta dalla grande coltre bianca. Vi erano, nei punti più battuti dal vento, cumuli di neve che superavano perfino i due metri di altezza e chi abitava nei vicoli doveva munirsi di pala e darsi da fare a forza di braccia se voleva uscire di casa. Anche per noi che abitavamo in campagna, la situazione non era proprio delle migliori. Molte piante di ulivo avevano ceduto sotto il peso della neve e tanti rami erano spezzati o a terra, era come se quelle piante fossero state sottoposte di proposito a un massacro, e non c’era proprio nulla da fare per rimediare al danno. C’è un vecchio proverbio contadino che dice: Anno di neve, anno di bbene, ma non sono sicuro che in quelle circostanze i contadini fossero proprio convinti della sua fondatezza. Oltre a questo, poi, era davvero difficoltoso recarsi in paese. Le strade erano coperte di uno spesso strato di neve indurita, e questa situazione sarebbe durata non qualche giorno ma intere settimane. All’epoca, infatti, le strade di campagna e in genere le strade esterne rimanevano a lungo sotto la neve, non c’erano ancora gli spazzaneve che in pochi giorni le riportano alla normalità come accade oggi, al massimo il sindaco chiamava un po’ di disoccupati per aprire dei passaggi nel centro cittadino mentre per il resto del paese ci si affidava all’azione benefica, anche se piuttosto lenta, del sole. Tuttavia, io mi divertivo lo stesso a correre durante il giorno per la campagna innevata assieme al nostro volpino e a tornare la notte nella casa di Colle S. Giacomo camminando sulla neve alta il cui biancore rendeva meno buia la notte. Anche i miei figli si sono sempre divertiti all’arrivo della neve. Ricordo, ad esempio, quella mattina della fine degli anni ‘70 a Villalago quando, svegliandoci, trovammo il paesino tutto ricoperto dalla neve alta. Fu davvero una bella sorpresa per tutti, ma soprattutto per i ragazzi, anche perché nulla lasciava presagire una tale nevicata. Quell’anno avevamo deciso di passare il Natale a Villalago, insieme ai parenti di Rosetta; così ci ritrovammo tutti nella nostra casa di montagna: i miei suoceri, noi e i miei cognati, con i relativi figli, una bella compagnia insomma, eravamo addirittura in quattordici, ci fu naturalmente qualche problema per la notte ma alla fine tutto andò per il meglio. La notte di Natale la passammo naturalmente giocando a tombola e a sette e mezzo; e con noi c’era anche un amico pescarese, che aveva acquistato e ristrutturato da poco una vecchia casetta vicino alla nostra, con la moglie e le due figlie. Era già molto tardi quando andammo a dormire, e tutto fuori sembrava tranquillo: il cielo era sereno, non c’era vento che annunciasse bufere di neve, anche la temperatura non sembrava particolarmente rigida. La mattina invece la bella sorpresa. I ragazzi si precipitarono subito fuori, seguiti a ruota da noi grandi, e a casa non restò che mia suocera a preparare il pranzo per tutti, compresi i nostri amici. Fu una giornata davvero divertente: con i ragazzi che si rotolavano in mezzo alla neve, gli slittini guidati dai più piccoli che scivolavano lungo il pendio a ridosso della montagna, e naturalmente tanti capitomboli e tante risate e fotografie per immortalare 136 il momento...! Ma ora basta con la neve e andiamo al nostro racconto. E dunque: io dico, seguitando..., come Dante, all’inizio dell’VIII canto dell’Inferno, che riprende il racconto della sua discesa agli inferi. Alfred de Vigny, che amava i paesaggi invernali e si sentiva ispirato da essi, in un poema della raccolta Poemi Antichi e Moderni, intitolato La Neve, canta che è dolce ascoltare delle storie, / storie del tempo passato, / quando i rami degli alberi sono neri / e la neve è spessa e preme sul suolo ghiacciato! Può darsi, mie care nipoti, che anche a me questa volta la neve abbondante che è caduta tra la notte scorsa e questa mattina porti ispirazione e renda piacevole il racconto, e che un giorno anche a voi la neve lo renda gradito e vi renda benevole nei confronti del nonno e delle cose che egli scrive per voi. Gli anni immediatamente successivi al nostro matrimonio furono anni assai intensi da tutti i punti di vista: di lì a meno di un anno nacque il nostro primo figlio, mentre sul piano politico, grazie certamente al risultato molto positivo delle politiche del 1963 ma anche al nostro lavoro, il partito riprese un cammino di crescita e di sviluppo della sua forza organizzata e della sua capacità di essere tra la gente e di affrontarne i problemi. Cominciamo però col dire che, intanto, l’inizio di quella stagione politica non fu affatto promettente, anzi... Il 21 agosto del 1964, infatti, una grande tragedia si abbatté sul PCI. Colpito da una emorragia cerebrale, Togliatti muore a Yalta, in Crimea, dove si era recato agli inizi di agosto, assieme a Nilde Iotti, per un periodo di riposo ma anche per incontrarsi con Krusciov e discutere con lui dell’aspra controversia che opponeva in quegli anni l’Unione Sovietica e la Cina diretta da Mao Tse Tung. All’annuncio della morte di Togliatti, che prese tutti alla sprovvista, l’emozione in Italia fu grande; e i funerali che si svolsero qualche giorno dopo a Roma registrarono una partecipazione di popolo mai vista. Non c’era solo il mare di gente che seguiva il feretro con le bandiere rosse delle varie organizzazioni venute da tutta l’Italia, c’era anche la folla sterminata che salutava il capo dei comunisti italiani dai lati delle strade attraversate dal corteo funebre o anche dai balconi delle case, chi con il pugno alzato chi facendosi il segno della croce chi gridando il proprio dolore chi piangendo silenziosamente: insomma un tributo d’affetto senza precedenti, sembrava davvero che tanta parte del popolo italiano fosse rimasta orfana. Anch’io quel giorno, con Peppe D’Alonzo e molti altri compagni della provincia, ero ai funerali; e seguimmo con le nostre bandiere il feretro fino all’immenso piazzale di S. Giovanni, già stracolmo di gente al momento del nostro ingresso nella piazza. Eravamo partiti la mattina presto da Chieti per arrivare a tempo ai funerali, l’autostrada infatti non c’era ancora e di solito per andare a Roma si passava per L’Aquila e poi per Rieti, percorrendo una strada tortuosa e piena di curve come la Salaria, e ci volevano perciò non meno di quattro ore per giungere a destinazione. Ma la fatica non ci pesava: non solo perché eravamo giovani, ma soprattutto perché tutti, di fronte alla scomparsa di Togliatti, ci sentivamo attanagliati da un sentimento, che prevaleva su ogni altra cosa, 137 che era insieme di grande dolore ma anche di grande sgomento e preoccupazione. Per capire quel che ognuno di noi provò in quei giorni, quel che provarono milioni di uomini e di donne del nostro Paese bisogna pensare a quel che rappresentava Togliatti, non solo per i comunisti ma per i lavoratori italiani. Togliatti era l’uomo che aveva costruito il nuovo PCI, forte di una presenza di massa tra i ceti popolari, l’aveva radicato nella storia dell’Italia e ne aveva fatto il principale riferimento delle speranze di progresso e di giustizia sociale dei lavoratori sia del Nord che del Sud. La sua scomparsa non poteva perciò non suscitare dolore ma anche preoccupazioni per il futuro: dopo di lui e senza una guida forte e di grandissima autorevolezza quale era stata appunto la sua, quale sarebbe stato il futuro del PCI, non solo, ma anche dell’Italia? Bisogna dire però che Luigi Longo, che lo sostituì alla direzione del partito, si dimostrò già nei primi suoi atti all’altezza del compito: certo non era Togliatti, ma la sua guida apparve subito saggia e anche innovativa. La prima cosa infatti che fece fu di pubblicare, contro il parere dei sovietici e di una parte del gruppo dirigente del partito, il cosiddetto Memoriale di Yalta. Il Memoriale di Yalta, che giustamente fu considerato in seguito il suo testamento politico, erano in realtà gli appunti che Togliatti aveva preparato per l’incontro con Krusciov, anche se non si trattava di una semplice scaletta; e sono proprio i suoi contenuti a spiegare la contrarietà dei sovietici. In quegli appunti Togliatti mette a fuoco alcuni problemi che, già nei mesi precedenti, erano stati oggetto della sua riflessione, approdando a posizioni particolarmente critiche sulla politica sovietica e la realtà dell’URSS e degli altri Paesi socialisti e ulteriormente sviluppando alcune tematiche proprie della politica togliattiana di quegli anni come il rapporto con i cattolici. A ben vedere, sono posizioni che segnarono il cammino successivo del PCI e portarono un contributo decisivo al consolidamento e allo sviluppo della strategia della via italiana al socialismo e, in questo quadro, del rapporto del PCI con il mondo cattolico, innanzitutto attorno ai problemi epocali della guerra e della pace, delineando così nei fatti la traccia su cui si incardinerà dieci anni dopo la strategia del compromesso storico di Enrico Berlinguer. Non è qui il caso di riportare i passaggi del Memoriale che toccano i vari punti di crisi che investivano in quel momento il movimento comunista internazionale, la vita interna dei Paesi socialisti e dell’URSS in primo luogo, i rapporti tra i partiti comunisti, le strategie da mettere in campo per battere le posizioni cinesi e ridare slancio alla lotta per il socialismo nei vari paesi e sul piano mondiale. Mi limito a sottolinearne soltanto alcuni, quelli che più di altri mi sembrano abbiano segnato il futuro del PCI e il suo rapporto con i comunisti sovietici e gli altri partiti comunisti al potere. A cominciare dall’affermazione secondo cui non era giusto parlare dei Paesi socialisti come se “in essi le cose andassero sempre bene”, marcando così, per la prima volta, una netta presa di distanza dalla realtà di quei paesi e dal modo in cui essa veniva raccontata all’estero. Togliatti richiamava poi la necessità che nell’Unione Sovietica si andasse rapidamente al “superamento del regime di limitazione e soppressione delle libertà democratiche e 138 personali che era stato instaurato da Stalin” e quindi al recupero di una “larga libertà di espressione e di dibattito, nel campo della cultura, dell’arte, e anche nel campo politico”, sollecitando contemporaneamente un approfondimento delle “origini del culto di Stalin e come esso diventò possibile”, anche perché in Italia “non si accetta di spiegare tutto soltanto con i gravi vizi personali di Stalin”. Com’è noto, Togliatti non aveva mai apprezzato molto l’approccio di Krusciov al problema delle degenerazioni staliniane, ritenendolo superficiale e poco fecondo al fine di evitare nel futuro il ripetersi di fenomeni analoghi, indicando invece la necessità di “indagare gli errori politici che contribuirono a dare origine al culto” e informando come in Italia fosse già in atto, tra storici e quadri qualificati di partito, una tale indagine. Inoltre Togliatti sottolineava, dopo gli esiti del Concilio Vaticano II, la esigenza che i partiti comunisti al potere abbandonassero “la vecchia propaganda ateistica”, come una delle condizioni fondamentali per far vivere la ricerca di un rapporto nuovo con le masse cattoliche, aggiungendo anche come “lo stesso problema della coscienza religiosa, del suo contenuto, delle sue radici tra le masse, e del modo di superarla, deve essere posta in modo diverso che nel passato”: si trattava insomma di sgombrare il campo della zavorra “ateistica”, per cogliere fino in fondo le opportunità offerte dal Concilio Vaticano II e dal fatto, come egli aveva scritto già qualche tempo prima, che l’aspirazione al rinnovamento socialista della società può trovare “uno stimolo nella coscienza religiosa stessa” (la religione, insomma, non più oppio dei popoli). Anche nel campo della cultura Togliatti chiedeva scelte nuove, coraggiose, “liquidando vecchie formule”, se si voleva uno sviluppo ulteriore del movimento comunista internazionale: “Dobbiamo diventare noi i campioni della libertà della vita intellettuale, della libera creazione artistica e del progresso scientifico. Ciò richiede che noi non contrapponiamo in modo astratto le nostre concezioni alle tendenze e correnti di diversa natura, ma apriamo un dialogo con queste correnti e attraverso di esso ci sforziamo di approfondire i temi della cultura, quali oggi essi si presentano”. Ma, com’è noto, anche qui le sue indicazioni non ebbero di fatto alcun seguito in URSS e nei Paesi socialisti... Sulle questioni internazionali, infine, e il contrasto con i comunisti cinesi, egli avanzò l’idea di un nuovo rapporto tra i partiti comunisti, fondato sull’autonomia e la sovranità di ciascun partito, con la costruzione di un sistema policentrico di relazioni dove la necessaria ricerca dell’unità si sposasse con il riconoscimento della diversità di ciascuno: in altri termini, era il primo tentativo non solo di allentare il legame di ferro che univa il movimento comunista internazionale al partito sovietico, al quale era da tutti riconosciuto un ruolo guida, ma anche di dare uno spazio maggiore alle vie nazionali al socialismo. Togliatti in questo modo apriva una strada che altri avrebbero percorso, segnando ulteriormente la originalità del comunismo italiano e rendendo possibile la evoluzione socialista del PCI, dopo la caduta del muro di Berlino e il successivo scioglimento del partito nato nel 1921 dalla scissione di Livorno; e nessuno può contestargli questo merito, nonostante i tentativi ricorrenti di rimuovere la sua figura e il ruolo decisivo che egli ha giocato nel costruire in Italia una sinistra moderna, all’indomani della sconfitta del nazifascismo. 139 Anche recentemente, in occasione del terzo Congresso dei democratici di sinistra, che si è svolto a Roma agli inizi di febbraio del 2005, si è levata da parte di qualcuno la richiesta di buttare nel mondezzaio Togliatti. L’occasione è stata fornita dal richiamo fatto da Piero Fassino, nel discorso di chiusura del Congresso, alla figura di Craxi come a uno dei padri della sinistra riformista. Ho qualche dubbio sulla utilità del richiamo. E’ vero che Craxi ha avvertito, prima di Berlinguer, i cambiamenti in atto, nella fase ultima del secolo scorso, nella società italiana e nel mondo, e ha dimostrato anche capacità di innovazione nell’analisi e nella proposta per la modernizzazione dell’Italia, è anche vero però che la pagina di Tangentopoli scritta dal craxismo è destinata a restare ancora a lungo nella memoria della gente, oltre che nella storia del Paese e del socialismo italiano che ne è uscito distrutto. Quanto a Togliatti, al di là dei suoi limiti, errori e contraddizioni e la famosa doppiezza che ha caratterizzato il suo rapporto con Stalin e i sovietici, egli resta l’artefice di un comunismo democratico, del tutto originale nel panorama del comunismo mondiale, e nello stesso tempo nessuno può negargli di essere tra i padri della Repubblica e della Costituzione e tra i maggiori costruttori della democrazia italiana. (A proposito di doppiezza: non è curioso che la si rimproveri a qualcuno proprio in Italia dove, negli anni della Controriforma, è stata teorizzata la cosiddetta doppia verità, per evitare i fulmini dell’Inquisizione? O se ne deve dedurre che Stalin era meno pericoloso della Santa Inquisizione?). Ma, tornando alle nostre preoccupazioni di quell’agosto del 1964, esse si rivelarono ben presto infondate: il PCI riprese subito e con slancio, anche grazie al lascito politicoculturale contenuto nel Memoriale di Yalta, il suo cammino, raggiungendo appena qualche decennio dopo l’apice del suo sviluppo. L’arrivo a Chieti di Giuseppe D’Alonzo, come segretario di federazione, e il mio ritorno da Avezzano, con l’incarico di responsabile di organizzazione, segnarono di fatto un passaggio di gruppi dirigenti nella direzione provinciale del PCI, anticipato già in parte dalla elezione qualche mese prima, nelle politiche del 1963, alla Camera dei deputati di Guido Di Mauro in sostituzione di Raffaele Sciorilli-Borrelli. Un tale passaggio fu caratterizzato, sin dall’inizio, da una maggiore capacità di lavoro e di iniziativa del nuovo gruppo dirigente e, forse, anche da una sua più elevata qualità politica e culturale. Del resto, i risultati cominciarono ad arrivare in poco tempo. Ad esempio, già nel 1964 il numero degli iscritti al partito raggiunse la ragguardevole cifra di 5.488 unità, superando largamente il numero di iscritti degli anni precedenti. D’altra parte, quando assumemmo la direzione del partito, una delle nostre prime preoccupazioni fu appunto quella di puntare a una espansione della nostra forza organizzata tra ceti nuovi, innanzitutto urbani, a partire dalla classe operaia che si andava formando proprio in quegli anni sia nel vastese che nella vallata dello Scalo, una classe operaia che già allora aveva assunto dimensioni di massa e nelle cui prime manifestazioni di lotta era già possibile avvertire la presenza di una nuova consapevolezza politica o, come si diceva allora, di classe. 140 Naturalmente, non bastava per questo solo uno sforzo organizzativo, c’era bisogno anche di una nuova elaborazione e di una iniziativa politica nutrita di una più puntuale analisi della realtà economica e sociale della provincia. Ricordo, a questo proposito, una riunione del Comitato Federale dedicata appunto a questo problema, e anche il succo del mio intervento in quella occasione, come nuovo responsabile dell’organizzazione: dovevamo proporci di costruire anche in provincia di Chieti il partito nuovo di Togliatti, il partito di massa capace di aderire a tutte le pieghe della società, in grado quindi di cogliere tutte le novità della situazione e di intervenire su di essa attraverso sia un adeguato sforzo organizzativo che una forte iniziativa politica, superando antiche asprezze e chiusure settarie. Com’è noto, nel PCI politica e organizzazione sono sempre andate a braccetto: l’una senza l’altra non aveva senso, era questa una delle prime cose che ti veniva insegnata quando entravi nel PCI; e il senso principale di quel mio intervento stava appunto in questo, nel sollecitare e impegnare i compagni a rendere concreta questa verità attraverso il nostro lavoro di tutti i giorni. Oggi di questa impostazione nella sinistra italiana c’è appena qualche traccia, così spesso l’attività del partito si riduce solo a manovra politica e a rapporti tra gruppi dirigenti, e questo non di rado impedisce di entrare in contatto con i problemi più profondi della gente, facendone il terreno di una iniziativa politica e culturale più legata alla vita delle persone, e di dare contemporaneamente risposte più puntuali anche sul piano del governo. Tanta antipolitica in questa stagione della vita del nostro Paese, dominata da Berlusconi, passa del resto anche di qui! Ma, per tornare alle scelte compiute in quel periodo, ci impegnammo anche a rendere più intenso e continuo il rapporto tra sezioni e federazione. Anche qui, questo rapporto oggi è pressoché inesistente a sinistra, in nome di una malintesa autonomia delle sezioni, allo stesso modo in cui, ad esempio, le Unioni regionali (come si chiamano oggi i Comitati regionali) si disinteressano di quel che accade nelle federazioni. Il risultato è solo una gran confusione, con una caduta verticale della iniziativa politica sul territorio e il farsi avanti di gruppi dirigenti molto rinchiusi nella loro piccola realtà o nei propri campi di competenza. E non credo che questo stia aiutando la nostra capacità di governo e tanto meno l’affermarsi di una visione politica che faccia venire in primo piano l’interesse generale di cui pure c’è tanto bisogno in Italia. In ogni modo, all’epoca, non c’era per noi fine settimana, in genere dal venerdì alla domenica, che non andassimo nei paesi; e volta a volta si trattava di riunioni dei direttivi delle sezioni, di assemblee di iscritti, di manifestazioni pubbliche (di solito, comizi): era un modo per informare, ascoltare e capire gli umori presenti nel partito e tra la gente, cogliere i problemi, stimolare il formarsi di un orientamento comune e condiviso sulle grandi questioni al centro dello scontro politico e sociale. Si discuteva di tutto naturalmente: problemi locali, di zona o provinciali, questioni organizzative, politica nazionale e internazionale. Una delle caratteristiche del PCI è stata, anzi, proprio questa: non ci sono mai stati temi di cui la sezione non dovesse discutere, considerati estranei rispetto agli interessi 141 dei compagni e riservati a quelli più addentro a quei temi, cosa che invece oggi accade normalmente. Questo ha fatto sì che i militanti del PCI, in genere lavoratori e di solito senza un’istruzione adeguata (molti, in quegli anni, non avevano neppure finito le elementari) fossero tuttavia in grado di farsi una opinione di quel che accadeva in Italia e nel mondo, magari anche elementare, ma che li poneva comunque su un gradino più alto di conoscenza e di consapevolezza rispetto a tanti comuni cittadini. Credo, anzi, che questo sia stato il contributo più importante che i comunisti italiani hanno dato alla crescita civile e democratica dell’Italia, che ha reso più solida la nostra democrazia e spinto milioni di cittadini ad assumere verso i problemi del Paese un atteggiamento responsabile che ha consentito in momenti cruciali della nostra storia di evitare lo sfascio e di aprire strade nuove al futuro dell’Italia. A quel tempo, in federazione eravamo pochini; nonostante questo però, ci davamo tutti ugualmente da fare per girare nelle sezioni, sobbarcandoci un lavoro enorme e anche molto faticoso. Naturalmente c’era bisogno di impegnare in questo lavoro anche i compagni del Comitato Direttivo provinciale non funzionari (che erano di gran lunga la maggioranza); e nessuno di essi si è mai tirato indietro. Questa presenza costante nelle sezioni, che si è mantenuta anche in seguito, fino allo scioglimento del PCI, ha avuto anche un altro effetto: e cioè che si consolidasse sempre più nel tempo il rapporto dei singoli dirigenti provinciali, funzionari e non, con la massa dei compagni delle sezioni; e io ho potuto essere candidato ed eletto alla Camera dei deputati grazie proprio a questo legame, nonostante mancassi da anni da Chieti, impegnato -sia pur sempre nel partito- prima a Pescara e poi addirittura fuori regione, nel Molise. Anche l’utilizzo nell’attività del partito di compagni non funzionari è stata una caratteristica costante del PCI. Non si trattava soltanto di una necessità. In realtà, il PCI non è mai stato una organizzazione fatta solo di apparati, questa è una descrizione caricaturale di un partito nel quale invece i gruppi dirigenti sono sempre stati molto larghi e diffusi sul territorio, animati tra l’altro da un disinteresse e da una visione delle cose che ha sempre posto in primo piano il bene comune -del partito o del Paese- rispetto agli interessi individuali e di gruppo. Da questo punto di vista, anzi, il PCI poteva vantare una ricchezza straordinaria di compagni non funzionari impegnati nella quotidiana attività politica e organizzativa del partito rispetto a tutte le altre organizzazioni politiche di quella che è stata chiamata, in termini ingiustamente dispregiativi, la prima Repubblica. Oggi, anche a sinistra, le scelte sono spesso frutto di interessi e convenienze che sfuggono a ogni visione generale delle cose e a un rapporto solidale all’interno dei gruppi dirigenti, il partito anzi è divenuto in molti casi il luogo nel quale convivono tanti spezzoni del gruppo dirigente, nessuno dei quali è portatore di quella visione generale cui ho prima accennato, e dove quindi le decisioni sono non di rado il risultato di spinte molto parziali. La tendenza in definitiva è quella di coltivare ognuno il proprio orticello e farlo valere 142 nei confronti dei vari altri orticelli con l’obiettivo di perpetuare quanto più a lungo possibile il potere che ci si è ritagliati nel partito o nelle istituzioni. E capita anche che a qualcuno, quando non gradisce qualche decisione, faccia difetto anche quel “concetto... di responsabilità che genera la disciplina” cui fa cenno Gramsci in una nota dei Quaderni del carcere. “Al concetto di libertà, scrive Gramsci, si dovrebbe accompagnare quello di responsabilità che genera la disciplina e non immediatamente la disciplina, che in questo caso si intende imposta dal di fuori, come limitazione coatta della libertà. Responsabilità contro arbitrio individuale: è sola libertà quella “responsabile”, cioè “universale”, in quanto si pone come aspetto individuale di una “libertà” collettiva o di gruppo, come espressione individuale di una legge”. Ma tant’è: in tempi in cui il berlusconismo ha chiamato a raccolta gli istinti ferini del peggiore particolarismo e quando il trasformismo non turba più ormai i sonni di nessuno, con salti della quaglia dall’uno all’altro schieramento non certo frutto di ripensamenti profondi, perché ci si dovrebbe stupire di chi pensa che è del tutto naturale utilizzare i privilegi che possono derivare dall’appartenenza a una libera associazione quali sono appunto i partiti ma dimenticarsi nello stesso tempo dei doveri che quella stessa appartenenza dovrebbe comportare? Ma bando ormai a questi paragoni con l’oggi (che, tra l’altro, mi provocano, ogni volta che ho modo di riscontrare, nella realtà effettuale, cose che non mi piacciono, dei veri e propri versamenti di bile), e procediamo con il racconto. Anche perché, mie care nipoti, altrimenti rischio con queste mie osservazioni di finire nella schiera dei laudatores temporis acti, cosa che non sono né mi piace essere: ogni tempo ha le sue logiche e le sue ragioni, ma è chiaro anche che, quando esse non mi convincono, nessuno può togliermi il diritto di criticarle e combatterle, se necessario. Altro momento importante della ritrovata presenza del partito tra la gente, anche solo come fatto di propaganda, fu rappresentato dalle feste de l’Unità. Non più, quindi, solo la festa di Comino, che uscì di scena peraltro, se la memoria non m’inganna, forse già nell’estate del ‘63 quando venne meno l’impegno diretto della federazione. Ma tante feste in tanti comuni, piccoli e grandi, della provincia, sia pure solo di un giorno ma che costituivano comunque una presenza politica e portavano anche un po’ di soldi nelle malandate casse del partito, indispensabili, assieme ai soldi versati dalle sezioni per il pagamento delle tessere e ai contributi mensili che arrivavano dal centro (scarsi anche quelli), per garantire ogni mese ai compagni il misero stipendio che si erano assegnati. Un altro merito che mi pare di poter rivendicare a quegli anni è l’avvio di una politica di effettivo decentramento politico e organizzativo dell’attività della federazione: prima con iniziative per la elaborazione e definizione di piattaforme di zona nel Vastese e nel Sangro, poi con il mio trasferimento dalla federazione a Vasto per fare il responsabile della zona del Vastese. Probabilmente, questa nostra scelta contribuì in maniera decisiva alla ripresa e al rilancio della iniziativa del partito e anche all’allargamento dei gruppi dirigenti, anche se i suoi frutti più abbondanti questa scelta doveva darla negli anni ‘70. 143 Questa scelta aiutò chiaramente anche una nostra maggiore presenza politica sui problemi delle diverse zone della provincia. Ricordo, ad esempio, che fu proprio questa scelta che ci offrì, nella seconda metà degli anni ‘60, l’opportunità di avanzare e far arrivare alle popolazioni del Sangro nostre specifiche proposte sui temi dello sviluppo del comprensorio, nel momento in cui si era fatto più acuto, tra la gente, il malcontento per la marginalità a cui la vallata era stata costretta dalle scelte regionali e nazionali della DC e del centro-sinistra. Per la stessa ragione, anche nel Vastese il nostro impegno sui problemi della zona, principalmente sui temi legati all’utilizzo del metano e alla nascita della nuova classe operaia della SIV, si fece più intenso e incisivo. Questo, naturalmente, non fece in nessun modo venir meno la nostra iniziativa attorno a tematiche di natura nazionale e internazionale: si moltiplicarono anzi, ad esempio, proprio a seguito della scelta del decentramento, le manifestazioni per l’indipendenza del Vietnam e per la libertà della Grecia soffocata dal golpe sanguinoso dei colonnelli! Le cose, insomma, filavano in modo abbastanza soddisfacente sul piano politico. E questo non solo faceva crescere il prestigio del gruppo dirigente provinciale presso le sezioni, ma faceva anche emergere forze nuove, una parte delle quali venne immessa, in occasione dei due Congressi di federazione che si tennero nella seconda metà degli anni ‘60, negli organismi dirigenti provinciali. Anche se in genere si era sempre molto parchi nel fare queste operazioni: intanto perché, pur essendo il Comitato Federale l’organismo nel quale erano rappresentate tutte le zone più significative della provincia, tuttavia esso non ebbe mai, se non a partire dalla seconda metà degli anni ‘70, dimensioni molto ampie; c’era poi una selezione dei compagni sempre piuttosto severa, non si era affatto (come invece oggi) di manica larga. Anche la unità del gruppo dirigente provinciale si dimostrò abbastanza solida in quegli anni. Ovviamente non mancarono scossoni, legati soprattutto, più che a contrasti di natura locale, a scontri di carattere nazionale. Ricordo, ad esempio, il Congresso di federazione dell’inverno del 1965, in preparazione dell’XI Congresso nazionale del PCI che si svolse a Roma nel gennaio del ‘66, e il dibattito politico che l’accompagnò. Al centro della discussione congressuale vi erano i temi del nostro rapporto con il centro-sinistra e, più specificamente, con il PSI. Una discussione dunque su temi di importanza strategica, che si intrecciava tra l’altro con il dibattito, di natura più squisitamente culturale ma che aveva tuttavia un rapporto evidente con le scelte politiche che il PCI si apprestava a fare, incentrato sul cosiddetto neocapitalismo, un termine che ambiva a definire la natura dei cambiamenti economici e sociali che stavano interessando in quegli anni anche l’Italia. Segretario del PCI era allora Luigi Longo, si trattava perciò del primo Congresso senza la presenza di Togliatti morto poco meno di un anno e mezzo prima. Longo si mosse su una linea che, pur riaffermando una critica aspra alle scelte fatte dal centro-sinistra e alla strategia che lo ispirava, tuttavia rifiutò ogni giudizio liquidatorio nei confronti del PSI confermando -come già aveva fatto in precedenza Togliatti- la 144 nostra tradizionale politica unitaria nei confronti dei socialisti e, sul piano più generale, contestando l’idea -affermata da alcuni settori del partito, che facevano derivare tutto questo dall’analisi che essi facevano del neocapitalismo- che si era ormai alle soglie di una sconfitta della sinistra e che ogni possibilità di reale cambiamento era preclusa se non si combatteva fino in fondo la socialdemocratizzazione del PSI. Ma su questa linea non ci fu la unità del gruppo dirigente nazionale. Ingrao imboccò subito la strada dello scontro frontale con il PSI, indicato come ormai socialdemocratizzato e quindi irrecuperabile a un impegno unitario nella battaglia per la trasformazione socialista e democratica dell’Italia, una posizione, questa, che portava inevitabilmente con sé anche la liquidazione dei rapporti unitari tra i due partiti che pure continuavano a esistere e a dimostrarsi stabili nelle amministrazioni locali e nelle organizzazioni di massa, nonostante la diversa collocazione politica dei comunisti e dei socialisti a livello nazionale. Lo scontro nel partito si fece quindi molto aspro, e investì inevitabilmente anche le federazioni; soprattutto esso si caratterizzò per la contrapposizione tra Pietro Ingrao e Giorgio Amendola, il quale sosteneva con molto vigore posizioni del tutto antitetiche a quelle di Ingrao e più vicine alla impostazione data da Longo. Le posizioni di Ingrao, che furono poi sconfitte al Congresso nazionale, infiammarono il dibattito anche da noi. Sulle posizioni di Ingrao si schierarono Di Mauro e il gruppo di Tollo e, di rincalzo, Graziani e i compagni di Paglieta, anche Brini, che era allora il segretario regionale del partito e partecipò al nostro Congresso, si muoveva sulla stessa linea; tuttavia anche da noi la maggioranza si ritrovò sulle posizioni di Longo. Uno scontro analogo si ebbe qualche anno dopo, nel 1969 (in quel periodo io ero a Vasto), attorno alla vicenda del Manifesto le cui posizioni erano in qualche modo figlie di quelle sostenute da Ingrao nel ‘66, sia pur nutrite di una maggiore radicalità rivoluzionaria (uno dei riferimenti politico-culturali del gruppo era, infatti, la cosiddetta rivoluzione culturale cinese). Anche in questa occasione lo scontro fu molto duro. Ricordo a questo proposito ancora oggi la lunga e combattuta riunione del Comitato Federale con, all’ordine del giorno, appunto la decisione assunta dal Comitato Centrale di espellere dal PCI il gruppo del Manifesto: com’era prevedibile, in federazione gli schieramenti furono gli stessi del Congresso del ‘66 e identico fu l’esito dello scontro con l’approvazione da parte della maggioranza dei compagni della decisione assunta a livello nazionale. L’unità del gruppo dirigente provinciale tuttavia non risentì di questi scossoni, né nel 1966 né nel 1969. La ragione fu semplice: lo scontro politico non solo non degenerò in scontro personale, ma le posizioni sostenute dalla minoranza non furono mai considerate dalla segreteria di federazione una discriminante in base alla quale valutare il ruolo che i singoli compagni potevano giocare sia nel partito che nelle istituzioni. Contò molto, da questo punto di vista, l’equilibrio con il quale tutti si mossero, a partire appunto dalla segreteria di federazione. D’altra parte, anche a livello nazionale ci si mosse con la stessa ottica, almeno nel 145 1966. Il Congresso nazionale, infatti, respinse la richiesta di chi pensava che lo scontro di natura strategica che si era avuto durante il dibattito dovesse portare all’esclusione dagli organismi dirigenti dei compagni che si erano battuti per posizioni risultate poi minoritarie; inoltre, anche se sul piano della vita democratica interna non si arrivò a considerare normale la contrapposizione di linee politiche alternative, tuttavia fu ammessa e riconosciuta la legittimità del dissenso, cosa che rappresentò un passo avanti importante sulla via di una maggiore democrazia nel partito. Nel caso del Manifesto, sul piano nazionale la vicenda si concluse invece diversamente, con la esclusione dal partito del gruppo che aveva dato vita alla rivista. Quello che venne considerato inammissibile non fu, neppure questa volta, il diritto al dissenso, ma piuttosto la organizzazione del dissenso, in altri termini la possibilità che nel PCI si potesse arrivare alla formalizzazione delle correnti. Agiva qui un riflesso che era insieme ideologico e politico, legato quest’ultimo al timore del PCI di esporsi a rotture irreversibili che ne avrebbero minato la forza e la capacità di incidere nella vita del Paese, in realtà fu persa l’occasione per aprire la strada a un pluralismo e a una maggiore dialettica interna che, forse, potevano dimostrarsi fecondi per il futuro. E’ vero, nel PCI c’erano sempre state diverse anime o sensibilità, come le chiamava Togliatti, che si confrontavano e si scontravano tra loro al riparo del centralismo democratico, ma la condizione perché esse potessero esistere e convivere era che nessuno agisse in modo organizzato. Solo molti anni più tardi si aprì una discussione più esplicita e aperta attorno a questo tema, senza tuttavia approdare neanche allora a nulla di nuovo. Nella nostra federazione la rottura invece ci fu nel 1970, in occasione delle prime elezioni regionali nella storia della Repubblica. Le prime crepe si avvertirono già nella fase delle cosiddette consultazioni, il meccanismo che il PCI aveva inventato per saggiare le reazioni della base del partito rispetto a possibili proposte di candidatura. Ricordo infatti che nelle sezioni, mentre non c’era discussione sul nome di D’Alonzo, indicato come nostro capolista alle regionali per la provincia di Chieti, c’era invece una contrapposizione per il secondo nome da indicare per la elezione. Il PCI, nel 1970, pensava di poter eleggere solo due consiglieri regionali in provincia; e lo scontro fu tra Elio Monaco, maestro elementare di Tornareccio, e Vincenzo Terpolilli, responsabile regionale della Lega delle cooperative. Alla fine, nella consultazione delle sezioni, prevalse, sia pure non di molto, Monaco, che venne così scelto come il secondo da eleggere, mentre Terpolilli fu indicato come terzo possibile outsider, se le cose fossero andate bene. Ma la ciambella, ahinoi!, non riuscì col buco, come si vide a risultato elettorale acquisito. I consiglieri regionali eletti furono tre, non due; ma il terzo eletto non fu Terpolilli, come il Comitato Federale aveva deciso, bensì Perantuono collocato, nella distribuzione delle preferenze in provincia, solo al quarto posto. Insomma, aveva fatto tilt la pur celebrata macchina organizzativa del partito che i nostri avversari avevano sempre considerata 146 impeccabile e che, anzi, ci invidiavano! Si aprì così nel partito una ferita che contrappose pezzi importanti del gruppo dirigente, appartenenti a generazioni diverse tra loro per cultura e formazione; e solo un lavoro paziente di circa due anni -in cui fu molto prezioso il contributo di Renzo Trivelli, nuovo segretario regionale del PCI- consentì di approdare a una conclusione positiva di tutta la vicenda, con le dimissioni di Perantuono da consigliere regionale e la elezione di Terpolilli al suo posto. Ciò che rese particolarmente pericolosa questa frattura fu il fatto che essa si sommava a una situazione di più generale difficoltà del partito in provincia in quella fase, i cui segni si erano andati accumulando mano a mano che ci si avvicinava alla fine degli anni ‘60. Ad esempio, si assottigliava sempre più il numero dei nostri iscritti: dai 5.488 del 1964 eravamo scesi nel ‘69 a 4.280, con una perdita di oltre mille iscritti, e nel 1970 non riuscimmo a toccare neppure i 4.000 iscritti, fermandoci a 3.763. Del resto, anche nelle elezioni politiche del 1968 le cose in provincia non andarono al meglio: scendemmo dello 0,3% rispetto al risultato del ‘63, mentre eravamo andati avanti, e bene, sia in Abruzzo che a livello nazionale. Eppure, anche nelle città della nostra provincia c’era stato il ‘68: anche a Chieti, come a Vasto e Lanciano, gli studenti si erano messi in movimento e le loro lotte si erano intrecciate con quelle di cui fu protagonista in quegli stessi mesi e per tutto il 1969 la classe operaia di quelle città, gli operai dello Scalo a Chieti, le tabacchine a Lanciano, gli operai della SIV a Vasto. C’era evidentemente qualcosa che si era logorato nella capacità del partito di intercettare i cambiamenti in atto e di trasformarli in nuove opportunità, in terreno di una nuova, diffusa iniziativa politica su tutto il territorio della provincia. La federazione, all’inizio degli anni ‘70, affrontò alla radice queste questioni, con la convocazione della Conferenza provinciale di organizzazione che si svolse nel cinemateatro di Orsogna. Fu questo, anzi, il primo atto della mia segreteria, che pose le basi per una nuova fase di sviluppo del partito in provincia. Ma non precorriamo i tempi, devono passare ancora alcuni anni prima che si concluda la mia esperienza di responsabile di zona nel vastese e venga eletto segretario di federazione. Nel ‘67, infatti, mi trasferii a Vasto, mentre il mio posto in federazione -come organizzatore- venne preso da Mimmo Bafile che, ormai da oltre un anno, aveva cominciato a lavorare nel partito. Ero stato io stesso a chiedere di andare nel vastese, come responsabile di zona. A Vasto, la situazione era difficile. Nelle amministrative del 1966, i comunisti avevano dovuto incassare un brutto colpo sul piano elettorale, cedendo molti voti al Faro (e anche, sia pure solo in qualche zona di campagna, alla stessa DC); inoltre, di fronte alla spinta della industrializzazione e dei cambiamenti che essa aveva provocato nella realtà economica e sociale della zona, non si poteva certo restare inerti, e solo una nostra forte presenza politica poteva trasformare i processi in atto in una opportunità e non in un rischio. C’era dunque, dietro la mia richiesta, un ragionamento politico del quale ero convinto, 147 era presente però anche un certo logoramento dei miei rapporti con Peppe D’Alonzo; e fu proprio questo che, alla fine, mi fece decidere di tentare una nuova avventura che, per me, si rivelò poi molto importante. Il mio rapporto con Peppe è stato sempre improntato ad amicizia, nonostante le spigolosità del suo carattere, anche se essa non si è però mai trasformata in intimità; d’altra parte, per carattere e per scelta il mio rapporto con i compagni non ha mai superato una certa soglia, anzi ho sempre pensato che questo rappresentasse una delle condizioni fondamentali per salvaguardare la mia autonomia di giudizio nelle vicende politiche e di partito. Ci siamo trovati, inoltre, quasi sempre su posizioni politiche identiche o comunque assai vicine; e in genere il nostro rapporto non ha mai conosciuto contrasti vistosi. Tuttavia, alcuni anni dopo l’inizio di questa nostra positiva collaborazione, dei problemi si aprirono tra noi e questo mi spinse a chiedere di lasciare la federazione e andare a fare un’altra esperienza. Comunque con Peppe mi sono trovato sempre bene, anche quando c’erano posizioni differenti tra noi: per lui, come per me, la lealtà reciproca è stato sempre un punto fermo! Quando arrivò a Chieti nel 1963, egli aveva già girato mezzo Abruzzo e fatto anche una lunga trasferta fuori regione perché anche lui, come me e tanti altri nel PCI, è stato una specie di globetrotter della politica. Pescara, Teramo, la lontana Campobasso, nel Molise, di nuovo Pescara e poi Chieti: ecco le varie tappe della sua attività di funzionario del PCI, che io sappia gli mancò solo l’Aquila. E sempre con incarichi diversi, prima nelle organizzazioni di massa e poi nel partito. Il suo girovagare si concluse a Chieti, dove fu eletto prima nel Consiglio comunale della città (dal 1965 al 1970) e poi nel Consiglio regionale dove chiuse, nel 1980, la sua carriera di rappresentante del PCI nelle istituzioni. Nel partito invece continuò a dare la sua attività fino a pochi anni prima della morte, nella primavera del 2001. La mancanza di un polmone, che gli era stato tolto a seguito di un tumore, gli rendeva difficile partecipare alle riunioni, non solo perché lunghe e faticose (come di norma) ma soprattutto a causa dell’aria perennemente ammorbata dal fumo delle sigarette, allora fumavamo quasi tutti, Peppe stesso del resto è stato sempre un infaticabile fumatore, anche quando era già malato. In pratica, quindi, Chieti lo rese stanziale e divenne la sua città. Quando lo incontrai la prima volta io ero ancora di stanza ad Avezzano, mentre egli aveva concluso da poco la sua esperienza nel Molise e lavorava a Pescara, come responsabile di organizzazione della federazione. Ma la sua permanenza a Pescara non durò a lungo. Vi restò solo pochi mesi, per approdare appunto, subito dopo le elezioni politiche del ‘63, a Chieti. Quando egli arrivò da noi, aveva dunque alle spalle una esperienza ormai consolidata e di lungo corso, aveva insomma una buona conoscenza del mestiere; e questo gli consentì, subito, di districarsi abbastanza bene in una realtà che era per lui nuova e in una situazione che si presentava abbastanza complicata e complessa per le discussioni e le rotture che si erano prodotte nel gruppo dirigente provinciale nel corso dei primi 148 anni ‘60. Egli aveva dalla sua anche una intelligenza istintiva e la capacità di entrare rapidamente in relazione con i suoi interlocutori, ricorrendo magari alla battuta e comunque non chiudendosi mai, in genere, al rapporto con gli altri, anche se a volte si lasciava andare a scatti bruschi e non sempre opportuni. C’era infatti in lui una certa tendenza all’autoritarismo che gli era valso il soprannome, tra i compagni della sua generazione, di sergente di ferro (anche perché da militare aveva rivestito il grado di sergente) che egli cercava normalmente di tenere a freno, ma non sempre riuscendovi. Peppe aveva alle spalle anche altre fondamentali esperienze, oltre a quella del partito e delle organizzazioni di massa. La guerra, innanzitutto, come del resto tutti quelli della sua età costretti a indossare la divisa e a partire per il fronte, a lui toccò il fronte greco; e poi la lotta partigiana, nelle file dei partigiani greci, che ebbe grande importanza per lui anche dal punto di vista della sua vita privata: a guerra finita, egli tornò infatti in Italia con una moglie greca, anche se negli anni in cui io l’ho conosciuto si era già separato da lei. Ricordo a questo proposito un episodio assai singolare, che mi è rimasto particolarmente vivo nella memoria perché la scena a cui assistetti si svolse tutta in lingua greca moderna. Dalla Grecia, quando Peppe era già a Chieti, venne a trovarlo, credo fosse la primavera o l’estate del ‘64, il fratello della moglie, per discutere evidentemente con lui della situazione che si era creata con la sorella. Ricordo che era un bell’uomo: alto, dal fisico asciutto, dai folti capelli neri e dai baffi piuttosto vistosi e un carattere che mi apparve subito deciso e, per essere sincero, anche piuttosto arrogante, ma non antipatico. Peppe non voleva andare da solo all’incontro, che avvenne in Piazza S. Giustino, e così mi chiese di accompagnarlo. Io andai, ma la cosa contrariò molto il cognato che tuttavia, nonostante la mia presenza, non rinunciò affatto a far valere, e in maniera anche molto animata, le sue ragioni ma appunto lo fece in greco, salvo il primo scambio di battute, costringendo così anche D’Alonzo a replicare in greco. A Peppe mancava invece una formazione culturale in grado di affinare e rendere più feconde le sue indubbie qualità. Un certo aiuto in questo senso gli venne sicuramente dalla frequentazione di uno dei tradizionali corsi organizzati dal PCI a Frattocchie, nel suo caso quello della durata di otto mesi; ma questo non poteva in nessun modo rimediare all’assenza di una formazione di base, così egli cercò di supplire a questa sua difficoltà, di cui era consapevole, con la lettura. Il suo piatto forte erano i romanzi contemporanei; e ricordo che non si lasciava mai sfuggire le novità. Di questa difficoltà comunque egli soffriva; e lo si vedeva, ad esempio, quando doveva preparare la relazione per il Congresso. In quel caso, non poteva fermarsi solo a dei semplici appunti, doveva stendere per esteso il testo; ma ciò lo rendeva nervoso perché scrivere gli risultava ostico. Così, in quelle occasioni mi chiamava puntualmente a dargli una mano: ci chiudevamo per 149 diversi giorni in una stanza, di solito a casa mia, con Rosetta che ogni tanto ci portava un caffè, e assieme mettevamo in piedi la relazione, andando avanti magari tutta la notte fino a qualche ora prima dell’inizio del Congresso (una volta, credo che si trattasse del Congresso provinciale della fine del ‘65, finimmo di scrivere e battere a macchina la relazione alle otto di mattina, a qualche ora quindi dall’inizio del Congresso stesso). Questo suo limite tuttavia non solo non toglie nulla alle sue capacità, ma sottolinea anche ciò che il PCI ha rappresentato nella storia personale di Peppe come di tanti altri dirigenti comunisti il cui mondo di provenienza era quello della fabbrica o della campagna, spesso senza scuola e senza cultura nel loro curriculum d’origine. E’ il PCI che li ha trasformati in classe dirigente, in intellettuali (nel senso che dava Gramsci a questo termine), dando in tal modo anche un contributo enorme alla crescita e al rinnovamento dei gruppi dirigenti del Paese! 150 Capitolo VIII La mia attività a Vasto come responsabile di zona iniziò ai primi di aprile del 1967, dopo naturalmente che i direttivi delle sezioni della zona -in una riunione congiunta tenutasi a Vasto- avevano discusso e approvato la proposta fatta dagli organismi dirigenti provinciali; e subito mi trovai alle prese con i problemi legati alla riorganizzazione del partito in città, in vista delle elezioni amministrative dell’autunno. Prima però di raccontarvi, mie care nipotine, i quasi tre anni e mezzo passati a Vasto, fino a oltre la metà del 1970, mi sembra il caso di richiamare la vostra attenzione su quello che era intanto accaduto o stava accadendo nella mia vita privata e che riguarda anche i vostri papà quando anch’essi usavano, come scrive Dante, l’idioma / che prima i padri e le madri trastulla. E cominciamo da una data: il 16 giugno del 1964 che fu, per me e la nonna, un giorno pieno di emozioni ma, anche, di grandi preoccupazioni e timori. Lo ricordo molto bene perché proprio quel giorno nacque Massimiliano, il nostro primo figlio. Solo che, prima che accadesse il lieto evento, le cose stavano rischiando di mettersi per il brutto. Le doglie, infatti, erano iniziate poco dopo mezzogiorno, ma, nonostante il passare delle ore, il bambino di uscire proprio non voleva saperne. Era andato via così tutto il pomeriggio ed eravamo ormai alla sera, ma ancora niente... All’epoca non si partoriva in ospedale, al massimo le donne che vivevano in città andavano a farsi fare qualche visita specialistica dal ginecologo ma nulla di più, a tutto provvedeva la mammine, cioè l’ostetrica che, soprattutto nei paesi, era di fatto la mitis e potens Lucina, la benevola e miracolosa Lucina, che le antiche matrone romane invocavano per avere un parto tranquillo e sotto il cui controllo e la cui assistenza si nasceva ancora nei primi anni ‘60. Così, anche in occasione della nascita di Massimiliano, il parto avvenne in casa e con la presenza della Lucina di turno. In casa era arrivata intanto, appena qualche ora dopo l’inizio delle doglie, mia suocera e, per farsi dare una mano da una donna esperta, si era fatta accompagnare da una sua amica di lavoro e vicina di casa (quando abitava ancora lungo la discesa del gas), io nel frattempo avevo chiamato l’ostetrica. All’inizio, non sembrava che ci dovessero essere difficoltà. Ma di lì a poco fu chiaro che c’era qualche problema: il cordone ombelicale era attorcigliato attorno al collo del bambino e questo gli impediva di uscire (lo stesso problema si presentò in occasione della nascita di Stefano, ma eravamo in ospedale e non ci furono perciò complicazioni di sorta, nel caso di Stefano, anzi, si presentò anche il cosiddetto fattore RH negativo ma l’ospedale rappresentò una garanzia anche rispetto a questo rischio). Cominciammo naturalmente tutti a preoccuparci, una preoccupazione che si faceva sempre più angosciante mano a mano che passavano le ore; a un certo punto arrivò anche il nostro medico di famiglia, ma le cose non sembrarono migliorare di molto. Io, tra l’altro, non potevo assistere al parto (questa era allora la consuetudine) e dovevo 151 quindi tenere a bada il mio nervosismo passeggiando qua e là per la casa, che per fortuna era molto ampia, l’unica cosa che mi era permesso di fare era di bussare ogni tanto alla camera da letto per cercare di capire come si stava mettendo la situazione, ma ottenevo solo di far affacciare mia suocera alla porta e farmi rispondere in maniera piuttosto brusca, nervosa anche lei. Insomma, il parto fu molto laborioso; ma alla fine, erano ormai le nove di sera, mitis et potens Lucina, come recita Ovidio nelle Metamorfosi, admovit manus et verba puerpera dixit, la mite e miracolosa Lucina accostò le mani e pronunziò le parole che propiziano il parto. Rosetta era stremata, ma tutti eravamo felici e a quel punto anch’io potei entrare, finalmente!, nella camera da letto. L’appartamento nel quale allora abitavamo si trovava al secondo piano della prima scala di quello che ancora oggi è conosciuto a Chieti come il palazzo Mezzanotte, nel quartiere di Santa Maria, a poca distanza quindi dalla famiglia presso la quale avevo alloggiato come pensionante qualche anno prima, fino alla mia partenza per Avezzano. E’ un palazzo piuttosto mastodontico che si sviluppa, oltre che in altezza, anche in lunghezza, una specie di semicerchio la cui base verso l’esterno segue l’andamento di Via Federico Salomone, e che, sorgendo ai limiti del colle che ospita la città vecchia nella sua parte orientale, è l’edificio che cattura ancora oggi, subito e da lontano, lo sguardo del viaggiatore che sale da Francavilla verso Chieti, nonostante che nel frattempo gli si siano affiancati alcuni brutti e colorati palazzoni. Abitavamo lì solo da qualche mese, fino ad allora eravamo stati ospiti obbligati dei miei suoceri in quanto, nel breve tempo intercorso tra il mio ritorno da Avezzano e le nozze, non ci era stato possibile trovare un appartamento tutto nostro. Non è che ci trovassimo male con loro, tuttavia avevamo bisogno di avere la nostra vita e Rosetta perciò non passava giorno che non andasse in giro a cercare appartamenti da affittare finché la sua insistenza non fu premiata. La ricerca per la verità non fu affatto breve, durò anzi parecchi mesi. In quegli anni a Chieti c’era carenza di case a causa dell’afflusso di un gran numero di famiglie dai paesini dell’interno, spinte a trasferirsi in città dalla nascita delle fabbriche allo Scalo; e anche l’avvio dei corsi di laurea della Libera Università D’Annunzio cominciava a richiamare proprio in quel periodo studenti dalla provincia e, sia pure in misura molto modesta, da fuori regione (in particolare dal foggiano). L’appartamento di palazzo Mezzanotte ci piacque subito; e l’abbiamo lasciato qualche anno dopo solo perché ci dovevamo trasferire a Vasto. Era al centro, e andare da lì in federazione era una passeggiata. All’interno, poi, c’era tanto di quello spazio, molto più di quanto a noi occorresse anche dopo la nascita di Massimiliano. Ricordo ancora oggi il giorno in cui ne prendemmo possesso, perché ci capitò un episodio che non avevamo messo nel conto e che aveva a che fare proprio con l’ampiezza del nostro appartamento. Che accadde, dunque? Accadde, mie care nipotine, che, dopo aver sistemato alla bell’e meglio le nostre cose, 152 a una certa ora io dovetti partire per una riunione in provincia, mentre la nonna rimase in casa; ma essa non ne approfittò per andare subito a riposarsi dopo le tante fatiche della giornata, aspettò invece sveglia il mio ritorno che avvenne, come al solito, a notte piuttosto inoltrata. Perché?, direte voi. Beh, la nonna non era riuscita a liberarsi da certe suggestioni che le provocava, oltre all’ambiente nuovo, la esistenza di tante camere, per giunta quasi tutte vuote, dove però la fantasia immagina sempre qualche presenza ostile e così, invece di andarsene a letto, si rifugiò in cucina, aspettando tutta insonnolita e stanca (era già incinta di cinque o sei mesi) il mio ritorno. Pur piacendoci molto, l’appartamento aveva tuttavia i suoi difetti. Ad esempio, i diversi locali non erano ben distribuiti. Erano lì, tutti in fila, l’uno dietro l’altro, come si usava una volta, ed erano perciò quasi tutti di passaggio e quindi poco utilizzabili. D’inverno, poi, il riscaldamento era un problema. Noi avevamo sistemato all’angolo di un salottino, situato tra la camera da letto e lo studio, una stufa di ghisa alimentata a carbone, ma, a parte la polvere di carbone che aveva dipinto di nero tutto il pavimento e pezzi di parete, in realtà non riuscivamo mai a riscaldare se non una piccola parte della casa; la stufa, poi, rappresentava un rischio continuo per Massimiliano, soprattutto quando cominciò a muovere i primi passi, prima con il girello e poi da solo. C’erano però quei soffitti così alti e a cima di carrozza che mi affascinavano e non ti facevano sentire la sensazione di oppressione che a volte ti prende in presenza di volte basse; inoltre, dai balconcini, delimitati da eleganti ringhiere in ferro battuto e che affacciavano tutti verso est, si godeva un panorama straordinario! Avevamo poi dei vicini simpatici, anche se una certa amicizia c’era solo con la famiglia Pratesi. I Pratesi venivano da Livorno e, come in genere i toscani, era gente spiritosa, cordiale, simpatica e, quando se ne presentava l’occasione, anche piuttosto mordace ma in maniera non sgradevole, buoni amici insomma. La ragione che li aveva portati a Chieti era legata all’attività del capofamiglia. Peppino, infatti, era un sindacalista della CGIL, e la CGIL nazionale l’aveva mandato appunto a Chieti, alla Camera provinciale del Lavoro dove rappresentava, come segretario aggiunto, la corrente socialista. Con loro siamo stati veramente bene. La moglie, Marisa, era poi proprio una pasta di donna; e anche i figli, Roberto e Manuela, poco più che adolescenti, erano ragazzi simpatici. In particolare ricordo Manuela, innamorata di Massimiliano, che veniva perciò spesso a casa nostra per giocare con lui; e, se trovava il bambino che ancora dormiva, puntualmente non riusciva a trattenersi e lo svegliava per prenderlo in braccio e giocarci. Dopo il nostro trasferimento a Vasto, anche loro, appena qualche anno dopo, sono andati via da Chieti per tornare in Toscana, e da allora non li abbiamo più né visti né sentiti. Qualche anno fa, in occasione di un viaggio a Pisa a casa di Stefano, li abbiamo anche cercati a Livorno facendo alcune telefonate ma, purtroppo, senza alcun risultato, li 153 avremmo rivisti volentieri. L’appartamento di palazzo Mezzanotte fu naturalmente il teatro delle prime avventure di Massimiliano. Massimiliano aveva un carattere molto vivace, e lo si vide subito, appena poté godere di un po’ di autonomia: prima con il girello e poi quando cominciò ad andare in giro con le sue gambe. E ne combinò davvero di tutti i colori, oltre a scorrazzare in continuazione per le numerose stanze del nostro appartamento seguendo gli spostamenti della madre. Io lo chiamavo pizzingrille, che da noi significa appunto bambino che non sta mai fermo, proprio come lu vinnele, l’altro vezzeggiativo usato nei paesi per bambini vivaci, anch’essi sempre in movimento come l’arcolaio appunto. Ricordo, ad esempio, quando, correndo dietro la madre con il girello, andò a inciampare contro il binario in ferro nel quale scorrevano le persiane di uno dei balconcini che davano sulla vallata dell’Alento: l’urto fu tanto violento che finì con il viso infilato dentro la ringhiera e per tirarlo fuori ci volle proprio la mano di Dio, come si dice da noi! Un’altra volta si fece crollare addosso l’armadietto, che faceva da appendiabiti, che avevamo sistemato nello stanzone di ingresso. L’armadietto non valeva granché, ma era carino a vedersi, soprattutto attirava subito l’attenzione dei bambini perché aveva lo sportello che si apriva a organetto sui due lati e, su una delle due ante, una vistosa maniglia colorata. Aveva però anche alcune caratteristiche che lo rendevano pericoloso, ma di questo ci rendemmo conto solo quando ne vedemmo le conseguenze. Non solo non si dimostrò stabile, ma sulla parte superiore era posato, con un attacco a ventosa e una funzione solo ornamentale, una grossa lastra di vetro che francamente nessuno avrebbe mai pensato che potesse finire addosso a un bambino, mettendone seriamente a rischio l’incolumità, e invece accadde... Quel giorno Massimiliano, che aveva già cominciato a girare per casa da solo, vedendo la madre che dalla cucina si dirigeva verso le stanze più interne, subito, come al solito, le si precipitò dietro; ma non sarebbe successo nulla se, appena all’altezza dell’armadietto, non avesse afferrata la maniglia colorata, che era diventata uno dei suoi oggetti del desiderio e, continuando a correre senza lasciarla, non avesse provocato la caduta rovinosa del mobile. Per fortuna, dentro l’armadietto c’erano dei cappotti e lui finì sotto di essi senza subìre danno alcuno, altrimenti la lastra di vetro, che finì anch’esso a terra frantumandosi, cadendo l’avrebbe potuto colpire, chissà con quali conseguenze...! Ancora un episodio: in un giorno di festa, adesso non ricordo più di che ricorrenza si trattasse, eravamo tutti seduti a tavola per il pranzo nello stanzone d’ingresso che fungeva anche da sala da pranzo quando avevamo ospiti. E quel giorno, infatti, c’erano con noi anche i miei fratelli, Rocco e Peppino (il più piccolo, non aveva allora che poco più di otto o nove anni), e non ricordo bene se anche i miei genitori, ma che ti fa Massimiliano, mentre tutti siamo tranquillamente impegnati a mangiare e chiacchierare? Egli era seduto sul suo seggiolone e aveva in mano un mandarino sbucciato con il quale un po’ giocava e un po’ lo succhiava, niente di strano dunque, solo che contemporaneamente 154 prendeva i semi del mandarino e se li ficcava negli orecchi. Quando ce ne accorgemmo, tentammo di tirarli fuori ma inutilmente, così fummo costretti a correre al pronto soccorso del vecchio ospedale dove un giovane medico, nostro amico, che quel giorno era di guardia, con molta pazienza e dopo aver cacciato la madre troppo pietosa col figlio e messo il bambino tra le gambe per tenerlo fermo, con una pinza glieli tolse tutti. Di monellerie Massimiliano fu protagonista anche negli anni seguenti, sia quando eravamo ancora a Vasto e lui era ancora un bambino sia quando divenne più grandicello e ormai aveva cominciato ad andare a scuola. Ne ricordo una che eravamo già tornati a Chieti e lui aveva appena iniziato le elementari. Credo che fossimo nella settimana di Pasqua, e Rosetta si stava preparando, per uscire, davanti alla specchiera della camera da letto. Massimiliano le stava vicino e le girava attorno, giocando con una bacchetta rotta di un vecchio ombrello che chissà come era finita nelle sue mani: si stava divertendo molto con quella bacchetta, soprattutto provandola ogni tanto sulla mensola di vetro situata ai piedi dello specchio, dove di solito alloggiavano i vari cosmetici di mia moglie che proprio allora li stava usando. Rosetta naturalmente gli dice di stare attento perché il vetro si potrebbe rompere, ma per tutta risposta lui che ti combina? Passano pochi secondi, e vibra con forza la sua bacchetta sulla mensola di vetro e la rompe. Giustificazione? Volevo vedere se davvero si rompeva! Insomma, era proprio nu pizzingrille. Ma la sua vivacità si manifestava anche in modi diversi e spesso davvero singolari. Ricordo, tra i tanti episodi di quegli anni, quando mi chiese chi aveva rotto la luna: eravamo ancora a palazzo Mezzanotte, quindi era proprio piccino, e non sapeva spiegarsi che cosa era accaduto alla luna quando lui la vide, dai nostri balconcini, apparire all’orizzonte dimezzata. Un’altra volta, sempre a palazzo Mezzanotte, ci diede la sua definizione della felicità: Io, mamma e papà, a cui qualche anno dopo aggiunse anche il fratello (la stessa cosa fece anche nei suoi disegni), dopo la nascita di Stefano la cui gestazione lui aveva seguito passo passo e ne aveva sentito i calci che tirava dentro la pancia della madre e i palpiti del cuore in formazione. Massimiliano poi era anche molto curioso, e non smetteva mai di fare domande; e amava molto il gioco. E aveva carattere. Ricordo a questo proposito quel che accadde quando decidemmo di mandarlo alla scuola materna. Eravamo allora a Vasto, e pensammo che potesse essere utile fargli frequentare appunto la scuola materna. All’epoca non esisteva ancora la rete delle scuole materne comunali, così ci rivolgemmo a quella gestita dalle suore che non era molto distante da casa nostra e si trovava lungo la statale che porta verso il centro della città e poi prosegue per Cupello e S. Salvo. Lui, sia pure con qualche resistenza, non disse di no e andò, ma la cosa non durò che appena qualche giorno e, bisogna dire, non certo per colpa sua. Siccome era d’inverno, non potendoli far giocare fuori, le suore facevano fare ai bambini il gioco del silenzio: tutti seduti attorno a un grande tavolo, proprio nella grande stanza 155 d’ingresso, e tutti in silenzio e con le braccia conserte! Ricordo che, quando il primo giorno andai a riprenderlo, lo trovai seduto attorno al grande tavolo, impegnato appunto, assieme a tutti gli altri bambini, nel gioco del silenzio. Quello spettacolo, a essere sincero, mi sembrò subito piuttosto surreale, ma non gli diedi peso, Massimiliano invece no. Figurarsi, abituato com’era a scendere giù da solo, davanti casa, ogni volta che voleva giocare con gli altri bambini del vicinato! E poi il silenzio: non ho ancora incontrato bambini che lo amino molto! Così quel primo impatto rappresentò un trauma per lui. Conclusione: il giorno dopo già non voleva andare più alla scuola materna, noi naturalmente insistemmo e prese anche qualche schiaffo da me, ma non ci fu niente da fare: dopo tre-quattro giorni dovemmo rassegnarci, perdendo anche l’anticipo di tre mesi dato alle suore. Negli anni seguenti, quando eravamo già tornati a Chieti e Stefano frequentava la scuola materna del Sacro Cuore, gestita anch’essa dalle suore, Massimiliano che aveva iniziato le elementari (a Sant’Anna) spesso, uscendo da scuola, non aspettava che arrivasse la madre e da solo si incamminava verso casa, con una sosta però al Sacro Cuore dove raggiungeva il fratello e si metteva a giocare con lui e lì lo trovava poi la madre: aveva scoperto una scuola materna dove non c’era il gioco del silenzio! Stefano invece aveva tutt’altro carattere: meno capriccioso, più riservato e meno espansivo del fratello, anche se altrettanto curioso e vivace ma in un modo tutto sommato tranquillo. Caratteri diversi, insomma, ma tra di loro i due fratelli si sono subito intesi. Stefano è nato il 15 ottobre del 1967, a tre anni e qualche mese di distanza da Massimiliano; ed eravamo a Vasto ormai già da più di un anno. Il nuovo lieto evento si verificò tuttavia a Chieti, nella vecchia sede del SS. Annunziata, perché mia moglie, quando cominciò ad avvicinarsi il momento del parto, preferì, per ragioni facilmente comprensibili, tornare a Chieti, presso i suoi genitori portando con sé anche Massimiliano. Io naturalmente non la seguii, ma rimasi a Vasto. Ed essendo solo e non sapendo cucinarmi un bel niente, ricordo che in quel periodo, che durò circa un mese, andavo quasi tutti i giorni a pranzo, a prezzi assai morigerati, da Peppino Zaccaria (Peppino, assessore durante l’Amministrazione Faro-PCI, non era solo un compagno ma anche un amico), al ristorante Olimpo che egli gestiva allora assieme alla moglie, una donna bella e simpatica, la sera invece mi accontentavo di qualche mozzarella o di un po’ di prosciutto e formaggio. Così capitò che io apprendessi della nascita di Stefano solo, come dire, a cose fatte. D’altra parte, di quel che accadeva a Chieti in quei giorni io non potevo sapere che poco o nulla. Solo ogni tanto, infatti, ricevevo nella sede del Comitato di zona qualche telefonata da parte di Rosetta, fatta in federazione, perché in casa né io né i miei suoceri avevamo il telefono e perciò, se pure fosse accaduto all’improvviso qualcosa di importante, era difficile che io ne venissi subito a conoscenza. 156 E così quel giorno, solo dopo la mezzanotte, al mio ritorno dalla riunione in una delle tante sezioni del vastese, venni a sapere della nascita di Stefano: trovai, infilato sotto la porta, un biglietto del nostro padrone di casa che abitava nella nostra stessa palazzina e al quale mia suocera aveva telefonato dall’ospedale, in cui mi avvertiva che il bambino era nato, era andato tutto bene ed era un maschio. Io, rassicurato, andai naturalmente a dormire tranquillo e me la presi comoda anche il giorno dopo, arrivando in ospedale intorno a mezzogiorno. Questa mia tranquillità non fu però di gradimento di Rosetta. E non vi dico perciò, mie care nipoti, quel che mi disse, al momento del mio arrivo, vostra nonna che si aspettava invece (forse a ragione) che io corressi da lei di primo mattino! Massimiliano, che ormai ne aspettava la nascita da tempo, fu tutto contento dell’arrivo del fratellino. E non diede segni, almeno apparenti, di gelosia. E’ vero, S. Agostino, in quel libro bellissimo e straordinario che sono le Confessioni, parlando della sua infanzia avverte i lettori che la innocenza dei bambini risiede solo nella fragilità delle membra, non nell’anima: “...imbecillitas membrorum infantilium innocens est, non animus infantium”; e cita tra gli atti non innocenti di quell’età, che gli adulti tollerano con indulgenza solo perché “aetatis accessu peritura sunt”, sono destinati a sparire col crescere degli anni, la gelosia. Tuttavia, Massimiliano e Stefano stavano bene assieme. Certo, ogni tanto bisticciavano; e neppure mancavano manifestazioni evidenti di gelosia. Ricordo, anzi, come una certa gelosia da parte di Massimiliano si manifestasse addirittura ancora prima che Stefano nascesse. Soprattutto ricordo quel che accadeva ogni volta che da Vasto tornavamo a Chieti, quando Rosetta era ormai incinta grossa di Stefano. Viaggiavamo allora con una Fiat 500 piuttosto sgangherata, con spazi a disposizione quindi già assai ristretti che però si rimpicciolivano sempre di più con l’andare avanti della gravidanza, a causa proprio di Massimiliano. Il quale si rifiutava di stare solo, sul sedile di dietro, e pretendeva di viaggiare davanti, in braccio alla madre, nonostante il pancione già bello grosso... Era chiaro che non sopportava che il fratellino gli impedisse di viaggiare nelle braccia della madre. Così Rosetta doveva sobbarcarsi una fatica supplementare, oltre quella di un viaggio interminabile e di per sé già disagevole su una strada, l’Adriatica, piena di curve e invasa da un esercito di mezzi pesanti perché all’epoca lungo di essa si svolgeva tutto il traffico Nord-Sud e viceversa. Ma dopo la nascita di Stefano manifestazioni così evidenti di gelosia non ne ricordo. Anzi, sin da piccoli si è stabilita tra loro una solidarietà che non è mai venuta meno nel tempo, anche quando si sono inoltrati nel “consorzio procelloso della vita umana”, per riprendere un altro passo delle Confessioni, e che appare salda ancora oggi. Quando, ad esempio, Stefano torna da Pisa, Massimiliano di solito passa buona parte del suo tempo a casa nostra, a chiacchierare col fratello, e la stessa cosa fanno Valentina e Benedetta per stare con Elisa e Martina e giocare con loro. E non mancano naturalmente di telefonarsi spesso durante il resto dell’anno. Quand’erano ormai grandicelli, eravamo già tornati a Chieti, ricordo che la sera, dopo essersi ficcati a letto, non riuscivano ad addormentarsi se prima non avevano fatto una 157 lunga chiacchierata tra di loro tanto che a volte, a un certo punto, li dovevamo sgridare perché si addormentassero subito, nella speranza che, il mattino dopo, avrebbero fatto meno storie per svegliarsi. In pratica, l’arrivo di Stefano fu per Massimiliano l’arrivo di un compagno di giochi. Ma anche per Stefano l’avere un fratellino più grande lo mise in una condizione di vantaggio rispetto a quando Massimiliano era solo in casa e non aveva compagni di gioco della sua età. Forse anche questo contribuì a fare di Stefano un bambino tranquillo. Non che anche lui non amasse gironzolare per casa prima con il girello e poi con le sue gambe e che anche lui non combinasse monellerie di vario genere, ma esse non ci hanno mai creato problemi o apprensioni particolari. Solo una volta, quand’eravamo ancora a Vasto, Stefano ci mise in grandi ambasce, ma non per colpa sua, piuttosto per una fatalità che, per fortuna di tutti, si risolse poi senza grandi traumi né fisici né psicologici. Era il ferragosto del 1968, la mattina io ero uscito e aspettavo l’ora di pranzo chiacchierando in Piazza Diomede con i compagni, mentre Rosetta era rimasta a casa a cucinare. I bambini naturalmente erano con lei, e Stefano come al solito andava da una camera all’altra della casa con il girello. Insomma, una normalissima mattinata di una altrettanto normale giornata di festa di mezzo agosto... Ma quel giorno il diavolo decise di rovinarci la festa, e così fummo a un passo dalla tragedia! Ricordo ancora oggi lo spettacolo che mi si presentò quando, verso l’una, tornai a casa: Stefano che s’era rovesciato addosso l’acqua bollente della pentola e che si disperava per il dolore, mia moglie e Massimiliano spaventati e naturalmente molto preoccupati! Era accaduto che, mentre Rosetta stava cucinando, il coperchio della cucina a gas si chiudesse di colpo, facendo così rovesciare a terra tutto ciò che in quel momento si trovava sopra il piano di cottura: il girello di Stefano, che era entrato di corsa nella stanza, aveva urtato violentemente contro la porta della cucina che a sua volta era andata a sbattere contro la cucina a gas situata proprio lì dietro! Cercammo subito la pediatra che seguiva Stefano dopo il suo ritorno da Chieti, una signora già piuttosto in là con gli anni che abitava a Vasto marina. Essa accorse immediatamente, rassicurandoci anche sull’entità delle scottature; e anche in seguito si dimostrò molto sollecita e brava, seguendo con premura e amorevolezza il bambino fino alla completa guarigione, per i primi dieci giorni anzi venne tutti i giorni a casa (l’andavo a prendere io, con la mia 500, a Vasto marina) per le necessarie medicazioni. Per fortuna, le scottature non erano molto profonde ed erano circoscritte: l’acqua bollente aveva colpito Stefano solo di rimbalzo, dopo aver toccato terra; e le scottature si limitavano in pratica solo ai piedi e ai malleoli, mentre il resto del corpo era rimasto indenne. E poi, Rosetta, che in quel momento si trovava in cucina, era intervenuta subito, senza 158 lasciarsi paralizzare dallo spavento, spogliando il bambino e liberandolo degli abiti inzuppati dell’acqua bollente caduta dalla pentola, mentre la signora dell’appartamento di fronte, accorsa subito, spargeva Foille (un medicinale per le scottature) sui punti colpiti, era accorso inoltre anche il nostro padrone di casa, medico, a prestare le prime cure. Anche Stefano si riprese abbastanza rapidamente dalla paura, l’unico trauma che si portò dietro fu che ci mise ancora qualche mese per andarsene in giro da solo, quando invece già in quei giorni sembrava che fosse lì lì per abbandonare il girello. Negli anni che siamo restati a Vasto, Massimiliano e Stefano poterono godere della compagnia di parecchi bambini della loro età e anche di qualcuno più grande. C’erano Silvietta e il fratellino più piccolo che abitavano di fronte, figli di un ingegnere della SIV arrivato dal Nord (la moglie, una signora gentilissima, che ci ha sempre dato una mano nelle situazioni di emergenza, era invece romana), c’era poi Rita, la figlia dello spazzino del primo piano che era la più grande dei bambini della palazzina e che la faceva un po’ da padrona nei confronti dei più piccoli, non sempre però essi tolleravano le sue prepotenze e così ogni tanto accadeva che il gioco finisse in lite e ciascuno si riprendesse i suoi giocattoli e si ritirasse sdegnato nelle proprie stanze, bastava naturalmente poco perché tutto poi tornasse come prima. Tra i piccoli della palazzina c’era anche il secondo figlio del medico, qualche mese più grande di Stefano, raramente però la madre lo lasciava giocare con gli altri bambini. C’erano poi i ragazzini delle palazzine vicine, case popolari, e di una famiglia di contadini a quattro passi da noi con i quali Massimiliano e Rita scendevano spesso a giocare (Stefano cominciò ad accodarsi appena imparò a camminare da solo). D’altra parte, abitavamo in una zona nella quale i bambini erano sicuri e potevano giocare tranquilli. La presenza di bambini nel palazzo e nel vicinato e la possibilità che essi avevano di incontrarsi e giocare tra loro per quasi tutto il giorno senza che i genitori dovessero continuamente preoccuparsi ed essere presenti aiutò naturalmente sia Massimiliano che Stefano a crescere più rapidamente. Da questo punto di vista, anzi, il fatto che Massimiliano avesse qualche anno più del fratello lo investì, come dire, di una certa responsabilità nei confronti di Stefano; e Stefano a sua volta aveva in Massimiliano il suo punto di riferimento quando si trovavano, senza la presenza della madre, a giocare con gli altri bambini. In genere, i bambini più grandi avvertono questa responsabilità. Lo dico anche sulla base della mia esperienza personale. Ricordo, ad esempio, di quando avevo fra i tre e i quattro anni e scendevo a giocare con mia sorella, più piccola, nel tratturo di fronte a casa nostra, sotto le enormi e antichissime querce che oggi non ci sono più. Allora abitavamo in paese, a lu quart’abballe, nella parte bassa del paese, all’altezza dell’imbocco della provinciale per Lanciano: i bambini nel quartiere erano tantissimi e di solito, nelle belle giornate di primavera e d’estate, ci ritrovavamo tutti assieme a giocare sul prato, c’ero anch’io ovviamente e c’era mia sorella e mi toccava spesso difenderla contro le prepotenze dei più grandi. 159 Questa differenza d’età comportò anche che, mentre Massimiliano, all’età di Stefano, le domande le faceva a me e alla madre, Stefano invece le faceva più spesso al fratello che a noi. E’ un’abitudine che Stefano ha conservato anche crescendo, e che ha contribuito certamente anch’esso a rendere più forte il loro legame. Questo naturalmente non ha mai significato per noi non preoccuparci, non solo della loro crescita fisica, ma anche della loro formazione intellettuale e psicologica. Non ho mai dimenticato una cosa che diceva mia madre a proposito dei figli: i figli sono come gli uccelli, non devono restare nel nido ma imparare a volare e, quando cominciano a sentirsene capaci, bisogna lasciarli liberi di farlo. Ho sempre inteso queste parole di mia madre come un invito a educare i figli all’autonomia e alla responsabilità, fornendo loro però contemporaneamente gli strumenti necessari per un approccio critico alla realtà e al rapporto con gli altri. Certo i figli vanno anche protetti, ma è questo certamente il modo migliore per proteggerli. Dice un proverbio abruzzese: Chi lu fije sé tropp’accarezze, nin sentirà allegrezze: era anche questo che intendeva mia madre. Da questo punto di vista, ho sempre pensato anche che con i figli, come in generale con i giovani, si deve parlare; ma parlare deve significare ascoltare, discutere, confrontarsi, non assecondarli e magari dar loro sempre ragione per tenerli buoni o, quando incontrano delle difficoltà, attribuire sempre a qualcun altro le cause di queste difficoltà, non c’è niente di più diseducativo di un atteggiamento del genere. Lasciarli volare, dunque, anzi incoraggiarli e sostenerli a intraprendere il proprio volo nella vita. Che non significa ovviamente perderli di vista, abbandonarli al proprio destino. Quando, ad esempio, ormai grandicelli, la sera pensavano di tornare piuttosto tardi, non abbiamo mai chiesto ai nostri figli di non andare, abbiamo sempre preteso invece che ci dicessero dove andavano e a che ora sarebbero tornati. Sono, inoltre, andati in vacanza da soli, senza troppe storie da parte nostra, quando hanno pensato che potessero farlo. Ricordo che Rosetta spesso si preoccupava, per questo come per altre cose; ma la conclusione era sempre la stessa: debbono imparare a volare. Anche le loro amicizie le abbiamo sempre tenute d’occhio, discutendo con loro se c’era qualcosa che non ci piaceva. E debbo dire che né noi di questo nostro modo di impostare il rapporto con i figli ci siamo mai pentiti, né loro se ne sono mai lamentati. Abbiamo cominciato, tra l’altro, anche presto a dare loro autonomia e responsabilità. Ricordo, ad esempio, che il regalo che facemmo a Massimiliano quando compì i tre anni, eravamo a Vasto, fu quello di dargli la chiave di casa; e la stessa cosa facemmo con Stefano quando già eravamo tornati a Chieti e la situazione si presentava un po’ meno tranquilla che a Vasto. Ricordo anche che, quando erano più grandi (forse Massimiliano frequentava già le medie e Stefano le elementari), decidemmo di dar loro una paga settimanale, per abituarli a calcolare bene le loro spese in modo da non restare senza soldi fino alla prossima paga. Con quei soldi dovevano comprarci tutto, fatte salve naturalmente le 160 spese di competenza familiare per scarpe, vestiti, scuola, ecc. Commettemmo però un errore nel quantificare le somme di spettanza di ciascuno: a Massimiliano, più grande, decidemmo di dare il doppio che a Stefano. La prima settimana andò tutto liscio: si misero d’accordo tra loro per comprare assieme, ad esempio, i giornalini o altre cose a cui erano interessati tutti e due, quel che restava ognuno poi lo spendeva per sé. Ma non passarono molti giorni da quell’accordo che Stefano, deciso a far valere i suoi diritti, venne a reclamare: voleva anche lui la stessa paga del fratello perché, per comprare il giornalino, spendeva come Massimiliano e gli restava poco per il gelato o altre spese voluttuarie. Non potemmo ovviamente che dargli ragione e rimediare. Stavamo anche attenti a coinvolgerli nella vita familiare. Ci sembrava giusto che anche loro si rendessero conto dei problemi, a partire da quelli finanziari, che c’erano in famiglia, la famiglia doveva essere loro anche in questo senso. Anche perché non navigavamo certo nell’oro; ed era bene che anche loro lo sapessero, sapessero soprattutto che la vita è anche fatica e lavoro e non soltanto gioco. Li abbiamo così sempre seguiti, ma non togliendo mai loro autonomia e libertà di decisione. Naturalmente, è stata Rosetta che ha dedicato più tempo alla loro educazione. La sua presenza da questo punto di vista è stata davvero una presenza quotidiana; ed è stata lei soprattutto che si è preoccupata dei figli nelle varie circostanze della loro vita, finché sono vissuti con noi. Anche per la scuola è lei che li ha seguiti, non mancava mai agli incontri con gli insegnanti o alle varie riunioni organizzate dalla scuola, finendo così per essere eletta dai genitori degli alunni rappresentante di classe sia alle medie che al liceo. A causa del mio lavoro, che non conosceva orari, io invece non avevo tempo per stare con assiduità dietro i bambini, sapevo però sempre tutto sul loro conto: Rosetta, quando la sera tornavo a casa (di solito tardi), mi informava sempre di quel che era accaduto durante il giorno e anche di quello che avevano fatto e detto i figli, magari raccomandandomi, quando avevano combinato qualche marachella, di far finta di niente... Tuttavia, ogni volta che ho potuto, sia quando erano piccoli che quando si sono fatti ragazzini, ho cercato di stare con loro e di chiacchierare e discutere di tante cose. Ricordo, ad esempio, che spesso la domenica pomeriggio ci sdraiavamo tutti e tre sul letto, io Stefano e Massimiliano, e chiacchieravamo. Di solito, mi raccontavano o chiedevano delle cose, mentre io approfittavo dell’occasione non solo per leggere o inventare delle favole (il libro che i bambini preferivano erano le Fiabe italiane di Calvino, lo stesso che piaceva a Valentina quand’era piccola), ma anche per trasmettere loro la mia visione laica della vita e del mondo o per dare loro la consapevolezza dei tanti problemi che la gente doveva affrontare e della fatica che costava cercare di migliorare la propria condizione. Qui, se me lo consentite, un ricordo nel ricordo: nel periodo in cui c’erano le lotte delle operaie della Marvin Gelber, imbastimmo assieme un giornalino, che restò numero unico, dal titolo Cipollino (è il nome del piccolo eroe-cipolla di Gianni Rodari), per far capire loro le ragioni e gli obiettivi di quelle lotte. 161 Discutevamo spesso anche delle grandi questioni, che io cercavo di presentare nel modo più semplice possibile, tenendo conto della loro età: l’origine della vita, parlando di Darwin e della teoria dell’evoluzione, l’esistenza di Dio, la religione, la morte..., avendo sempre la preoccupazione di fornire loro una visione razionale, laica, calata nella storia, di queste grandi questioni, l’uomo insomma come centro e protagonista della propria storia. Ho sempre evitato però che a queste, come ad altre questioni, essi si accostassero con animo fazioso, settario: fermi sì nelle proprie convinzioni e determinati a farle valere, ma anche pronti a confrontarle, con spirito aperto, con le opinioni altrui. Anche per le questioni politiche, ho cercato di insegnare loro a ragionare, a muoversi sempre con un atteggiamento critico, non pregiudiziale, e proprio per questo mai abbiamo chiesto loro di iscriversi al partito o di scegliere la via della militanza attiva: o questo era una loro scelta autonoma e consapevole o niente... Vedo, mie care nipoti, che, parlando di quando erano piccoli i vostri papà, dei loro giochi, delle loro prime avventure, delle loro esperienze e anche della loro educazione, mi sono lasciato prendere un po’ la mano dimenticando che “li lunghi capitoli, come dice Dante nel Convivio, sono inimici della memoria”. Di essi parlerò sicuramente anche in seguito, ma “basti alla presente digressione” quel che finora ne ho scritto. E’ il caso invece di riprendere il racconto della mia nuova avventura nel vastese. Quando siamo arrivati a Vasto, con al seguito il grosso camion che trasportava le nostre cose, in città imperversavano già le polemiche, a volte anche molto violente, in vista delle elezioni amministrative dell’autunno che si erano rese necessarie perché le precedenti elezioni, tenutesi alla fine del 1966, si erano concluse con un pareggio fra la DC da un lato e il Faro e il PCI dall’altro, con la nomina -di conseguenza- da parte del Ministero dell’Interno del commissario prefettizio che, com’era prevedibile, si era però subito messo a disposizione della DC. La ragione di tante polemiche era semplice. Si presentava per la prima volta in città la possibilità che la DC venisse estromessa dal governo del Comune, come poi di fatto avvenne, a favore di una coalizione formata dal PCI e da una lista civica, il Faro, composta per gran parte di ex-democristiani e spezzoni di altre formazioni politiche vastesi. Elezioni importanti, dunque, destinate ad avere riflessi politici anche al di là delle mura cittadine. La scoperta del metano e le lotte che ne erano seguite stavano all’origine di questa situazione. All’inizio degli anni ‘60, la DC disponeva di un potere assoluto sia a Vasto che nella zona e davvero non si muoveva foglia che lei non volesse, anche per le fortune dei singoli oltre che delle varie comunità! Ma le lotte per il metano avevano smosso profondamente le acque, mettendo in movimento una situazione che sembrava ormai destinata all’immobilità. Non solo. Esse avevano anche provocato rotture verticali all’interno dei gruppi dirigenti democristiani. E questo, in occasione delle elezioni, fu particolarmente evidente, con 162 tutta una parte della DC e dei ceti dominanti cittadini schierata con Ciccarone, l’uomo che aveva fatto nascere il Faro, contro Gaspari. La DC vastese, durante le lotte per il metano, aveva scelto non gli interessi della città, ma quelli di un sistema di potere che faceva perno appunto su Gaspari e i suoi uomini e che a Vasto non riservava certo un ruolo adeguato all’importanza e alle ambizioni della città, e per questo gli elettori la punirono. Per me, non fu difficile ambientarmi rapidamente nella nuova realtà di Vasto; e lo stesso appuntamento elettorale, con il quale dovetti subito cimentarmi, non rappresentava affatto un problema. La città la conoscevo ormai da tempo, già dagli anni delle lotte per il metano; e, quanto alle imminenti elezioni, l’anno precedente vi avevo soggiornato addirittura per un paio di mesi, per aiutare la sezione durante il primo round del lungo scontro elettorale che nella metà degli anni ‘60 infiammò Vasto. Questa volta però non mi fermai solo il tempo della campagna elettorale. Avevo scelto invece la strada di un impegno stabile, e questo cambiò subito il mio rapporto sia con i compagni che con la realtà cittadina, insomma diventai anch’io un po’ vastese, partecipe quindi anch’io dei problemi di quella realtà e non solo uno che viene da fuori e dà una mano pronto però a fare al più presto le valige. I compagni, tra l’altro, mi accolsero bene, c’era ormai tra di noi una dimestichezza antica che mi fu poi molto utile nel mio lavoro. La stessa cosa accadde con i compagni della zona, soprattutto dei comuni dove il partito era più forte. I compagni, insomma, mi espressero una fiducia che si mantenne poi viva nel tempo, anche dopo il mio ritorno a Chieti; e credo di aver corrisposto sufficientemente a questa fiducia, aiutandoli ad affrontare i problemi nuovi, dall’industrializzazione alla modernizzazione dell’agricoltura, che si posero in quegli anni, oltre che a Vasto, in tutto il Vastese. A essere sincero, ho passato a Vasto anni molto belli e anche importanti per me. Innanzitutto dal punto di vista politico: furono, da questo punto di vista, anni straordinari che mi consentirono anche una maturazione politica e intellettuale particolarmente intensa. Ricordo che, quando Claudio Petruccioli arrivò in Abruzzo, a dirigere in sostituzione di Federico Brini il PCI regionale, mi venne fatta la proposta di andare a lavorare con lui a Pescara, nel Comitato regionale. Io però rifiutai. Mi parve più utile concludere quella esperienza che mi metteva a contatto diretto con un mondo in trasformazione e con i suoi numerosi protagonisti: i sottoproletari, molti dei quali si trasformarono in quegli anni in operai, e gli artigiani di Vasto, i contadini così moderni di S. Salvo, la nuova classe operaia della SIV costituita, per tanta parte, anche da molisani pisani campani romani, gli studenti così vivaci e artefici anche a Vasto di un ‘68 che incise profondamente nella vita della città e della zona. Assai ricca di insegnamenti fu, per me, la stessa esperienza amministrativa di quegli anni, segnata -com’essa fu- da alti e bassi e per la precarietà dei numeri (la coalizione Faro-PCI aveva appena 16 consiglieri contro i 14 della DC) e per i mille bastoni che la DC mise tra le ruote della Amministrazione comunale, utilizzando il governo nazionale 163 e gli apparati burocratici. E anche di qualche soddisfazione perché se pure, nel ‘72, il Faro si volatilizzò e noi tornammo all’opposizione, tuttavia quella inedita collaborazione tra il PCI e una lista civica come il Faro produsse, nonostante tutto, risultati importanti per la crescita e la modernizzazione della città. Risultati ai quali, tra l’altro, il contributo del PCI non fu affatto di poco conto, anche se -dopo la morte improvvisa di Laporesefummo costretti a utilizzare soprattutto forze giovani, con una assai scarsa esperienza e politica e amministrativa alle spalle. Domenico Laporese morì infatti appena qualche mese dopo le elezioni, prima che venisse raggiunto un qualunque accordo col Faro. Fu per noi e per la città, con la quale Mimì aveva un legame antico e profondo, una grave perdita. Ma fummo ugualmente in grado di andare avanti. Ricordo i suoi funerali. Quel pomeriggio ci fu una partecipazione di popolo senza precedenti! Anche se la cerimonia funebre rischiò di venire turbata dalla pretesa arrogante del prete (i familiari avevano deciso per il rito religioso) di impedire la presenza al corteo delle bandiere della sezione. Per fortuna quel giorno, non ricordo più per quale motivo, Loris Capovilla, l’ex segretario di papa Giovanni XXIII e allora arcivescovo dell’archidiocesi di ChietiVasto, era in città: chiedemmo allora d’incontrarci con lui e fu proprio questo incontro che sbloccò la situazione, così anche le bandiere del PCI, il suo partito, poterono sfilare e rendere l’estremo omaggio al povero Laporese! Anche dal punto di vista umano, furono per me anni particolari. Il mio tempo libero, quand’ero a Vasto, lo passavo di solito con i compagni; con alcuni di essi poi si era creata un’amicizia che purtroppo non ha resistito al logorio del tempo e alla lontananza. Ho poi avuto modo di conoscere anche tanta gente fuori del partito, ma vicina alla sinistra, di cui conservo ancora oggi un buon ricordo. La vicenda politica di quegli anni mi portò anche a stringere rapporti con un mondo che era normalmente estraneo al PCI. Parlo ad esempio del rapporto, sia pure abbastanza occasionale, con Ciccarone, l’uomo che, fino al ‘72, aveva guidato le sorti dell’Amministrazione comunale. Silvio Ciccarone apparteneva a quello che era allora il ceto alto cittadino, legato soprattutto alla rendita fondiaria, nel quale erano ancora presenti certi valori culturali e civici ai quali sembrava invece del tutto estranea la nascente borghesia cittadina, impegnata prevalentemente nell’edilizia e nella relativa attività speculativa. Di Ciccarone ricordo in particolare un episodio che si verificò, se la memoria non mi tradisce, nel 1973, quando ormai da più di due anni avevo lasciato Vasto. Quell’anno avevamo deciso, io e mia moglie, di far respirare un po’ d’aria di montagna ai nostri figli. E così affittammo, da un compagno di Torricella Peligna, una casa per tutto il mese di agosto, con grande soddisfazione sia di Massimiliano che di Stefano che si divertirono un mondo (ci tornammo anche l’anno dopo, ma la vacanza si concluse bruscamente con un cascatone di Stefano che stava facendo le corse in bicicletta con il fratello su un tratto di strada brecciato non lontano da casa, molte scorticature alle braccia e alle gambe e la corsa frenetica dal medico del paese). Un giorno decidemmo di pranzare fuori, all’aperto, viste le belle giornate, nell’area archeologica di Juvanum, l’antica città preromana all’epoca ancora tutta da scoprire. 164 Ma avevamo appena finito di mangiare e stavamo tutti sdraiati per terra a riposare quando vedemmo spuntare, a qualche centinaio di metri da noi, un gruppetto di persone dal quale all’improvviso si stacca un signore di una certa età, dirigendosi verso di noi. E chi era? Era appunto Silvio Ciccarone che mi aveva riconosciuto e veniva a salutarmi: davvero un gentiluomo d’altri tempi! A Vasto, inoltre, i miei figli (e anche noi, per la verità) cominciarono a conoscere e apprezzare il mare, le gite e le ferie. Da questo punto di vista, il mare di Vasto era un richiamo formidabile. Un arenile splendido, la cui bellezza si ammira ancora oggi dal belvedere orientale su cui spicca la mole massiccia ed elegante di Palazzo D’Avalos, anche se esso è oggi parecchio deturpato rispetto a quegli anni quando il turismo era pressoché inesistente. Ricordo anche le gite di quegli anni, con la famiglia di Rita. Ne ricordo soprattutto una, alla chiesa di Canneto, a ridosso del letto del Trigno, il fiume che divide l’Abruzzo dal Molise, nel tratto in cui la valle, assai stretta, ha sulla destra Trivento, antica e decaduta cittadina molisana, e sulla sinistra Celenza, un paesino appollaiato sulla cima della collina da cui si gode un vasto panorama che abbraccia anche parte della provincia di Campobasso e nella cui chiesa madre si trova la tomba dei principi D’Avalos-Pignatelli. Canneto, dove passammo una bellissima giornata e i bambini si divertirono a giocare con l’acqua del fiume (la portata era proprio scarsa), è poco più che un casolare, alcuni reperti archeologici di un certo interesse e la chiesetta che, se non erro, risale al Medioevo ed è di un certo pregio architettonico; e mi era noto perché parecchi anni prima, quand’ero ancora a Orsogna, avevo letto il libro così pieno di fascino di Felice Del Vecchio, appunto La chiesa di Canneto, che ai suoi tempi aveva vinto il premio Viareggio, peccato che poi Felice, un compagno, nativo di Castiglione Messer Marino, che ho conosciuto dopo il mio ritorno a Chieti, non abbia mantenuto le promesse di quel libro. Di quegli anni vi sono anche molti altri ricordi legati direttamente alla mia attività politica. Ricordi di compagne e compagni straordinari dei quali ho potuto apprezzare la generosità, l’intelligenza, l’acume politico ma anche la saggezza tipica, ad esempio, dei contadini che allora esprimevano il grosso dei gruppi dirigenti del partito in quasi tutte le sezioni del Vastese. Un particolare ricordo di quella stagione della mia vita e della mia attività politica è quello dei tanti giovani che proprio in quegli anni, anche grazie al mio rapporto con loro, approdarono al PCI: alcuni di essi mi capita ogni tanto di incontrarli ancora e naturalmente mi fa piacere il fatto che da parte loro non sono venuti meno, nonostante gli anni, la stima e l’affetto nei miei confronti. Quando arrivai a Vasto, i giovani non frequentavano affatto la nostra sezione. Dopo pochi mesi però qualcuno cominciò ad avvicinarsi. Si trattò, all’inizio, di un gruppetto capeggiato da Daniele Menna e dai suoi fratelli più piccoli e alcuni altri ragazzi; e ricordo che il loro debutto politico furono la manifestazione che organizzammo in città nel maggio del ‘67 per il Vietnam e la Grecia e poi, qualche mese dopo, la festa de l’Unità. L’afflusso più consistente di giovani si ebbe invece durante le lotte studentesche che 165 si svolsero a Vasto tra il ‘68 e il ‘69, lotte legate, come del resto in tutta Italia, alle condizioni concrete di vita degli studenti. Nel caso di Vasto ad accendere la miccia degli scioperi e delle manifestazioni fu la situazione dei trasporti urbani che la precedente Amministrazione democristiana aveva affidato a Tessitore. Ricordo che, quando ci furono le prime manifestazioni, la DC, costretta all’opposizione dopo la sconfitta dell’autunno del ‘67, tentò di scagliare la rabbia degli studenti contro l’Amministrazione comunale di cui noi facevamo parte. Ma il gioco non le riuscì. L’Amministrazione infatti, anziché chiudersi, aprì subito un dialogo con gli studenti, con la convocazione di una assemblea pubblica alla quale essi parteciparono in massa. Il partito, inoltre, non solo non si tirò indietro rispetto agli attacchi che arrivavano da gruppi fascisti e filodemocristiani, ma avviò anch’esso un suo confronto diretto con gli studenti: in prima fila i ragazzi che erano già nel PCI, ed essi non si limitarono solo a distribuire i nostri volantini nel corso delle manifestazioni, ma discussero, anche a brutto muso se necessario, con quella parte di studenti, assai numerosa, che di solito ci attaccava da sinistra. Ricordo che anch’io partecipavo a questi dibattiti per strada, dicendo senza peli sulla lingua le ragioni dei comunisti, fuori di ogni paternalismo peloso che è presente in tanti adulti, i quali pensano che in fondo non è il caso di perdere troppo tempo con i giovani, tanto poi capiranno con l’avanzare degli anni, e tanto meno trattare con loro alla pari, impegnandosi in una discussione seria e senza concessioni all’età. Tra i tanti giovani che cominciarono allora a frequentare in maniera stabile la sezione e a svolgere anche attività nel partito, certamente il più dotato dal punto di vista politico era Giustino Rossi. Oltre all’acume politico, egli aveva anche buone capacità organizzative e soprattutto non gli mancava la voglia di lavorare, non a caso del resto egli assunse in seguito responsabilità di primo piano sia nella CGIL che nell’Alleanza Contadina; e sicuramente avrebbe avuto un ruolo importante anche nel partito se un destino crudele non avesse reciso la sua vita nel fiore degli anni. Ma, come dice Virgilio, ut fata trahunt... Giustino, poi, accompagnava a queste sue caratteristiche anche una buona cultura e una sensibilità rara che ne accrescevano sicuramente il fascino presso i compagni. Anche quella irrequietezza culturale ed esistenziale che l’ha accompagnato per tutta la vita era un tratto tutto suo; e ciò ne faceva un dirigente politico diverso dagli altri. Egli era un po’ come quegli uccelli di passo, dei quali canta Montale in Dora Markus, che urtano ai fari / nelle sere tempestose, e sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli per rendere viva e feconda l’esistenza propria e degli altri. Di quegli anni vi sono anche ricordi legati alla mia attività politica ma che coinvolgono pure mia moglie e i miei figli. Ho molto vivo, ad esempio, il ricordo della campagna elettorale amministrativa di Lentella della tarda primavera del 1967, per quel che capitò a Massimiliano il giorno che io e Rosetta, già incinta di Stefano, salimmo in paese per dare una mano ai compagni. Lentella è uno di quei comuni che è rimasto nella memoria della gente e nella storia delle lotte per il lavoro di cui sono stati protagonisti braccianti e contadini poveri del 166 Mezzogiorno nell’immediato dopoguerra, segnate spesso dalla caduta di lavoratori ammazzati dalle forze dell’ordine (era l’epoca di Scelba) come nel caso dei due braccianti di questo paesino colpiti a morte dal fuoco dei carabinieri durante uno sciopero a rovescio, per il lavoro. In quegli anni, nel vastese tanti piccoli comuni erano politicamente spaccati a metà; e spesso, come a Lentella, c’era un sostanziale equilibrio delle forze per cui non era scontata la vittoria di nessuno. Di conseguenza, i toni della campagna elettorale erano sempre molto accesi, a Lentella anzi, proprio per la sua storia e anche per il carattere dei suoi abitanti, forse lo erano molto più che altrove. Accadeva poi che, in essi, la parte della popolazione più impegnata nelle campagne elettorali fosse in genere costituita dalle donne, anche se le liste erano invece fatte di soli uomini, i pochi scampati all’emigrazione. Anche a Lentella, paese di grande emigrazione dopo le sconfitte subìte dai movimenti per il lavoro nel Mezzogiorno, le donne erano sempre state, come a Comino, le vere animatrici della sezione e delle campagne elettorali, ma non avevano diritto alla rappresentanza nelle istituzioni. Non era la sola realtà in cui questo avveniva, si trattava anzi di una condizione assai diffusa nel Mezzogiorno. Né, d’altro canto, le donne stesse percepivano questo fatto come una privazione di diritti, per la grande parte di esse rientrava anzi nell’ordine delle cose normali; e doveva passarne davvero ancora tanto di tempo prima che anche nel PCI le donne prendessero coscienza dei propri diritti e si ponessero tra le protagoniste più decise del movimento per la emancipazione femminile nel nostro Paese. Ma torniamo al racconto di quella giornata. Doveva essere una domenica e ricordo che quel giorno, mentre io ero occupato con i compagni non so per quale iniziativa, Rosetta, portandosi dietro Massimiliano e il pancione già piuttosto prominente, girava invece con un gruppo di compagne per le case del paese. A una certa ora, sul tardo pomeriggio, ci ritrovammo tutti nella casa di una compagna. Non ricordo più se cenammo anche da lei, ricordo comunque che, mentre si parlava dei risultati del lavoro fatto e dell’andamento della campagna elettorale, Massimiliano, che non riusciva a stare fermo un minuto e correva di qua e di là per la cucina, assai angusta peraltro, tutto preso dal gioco non s’accorse delle scale e finì così per precipitare rovinosamente lungo la scalinata, una di quelle scalinate ripide e dritte e anche abbastanza alte da rompervisi la noce del collo. Rosetta si rifiutò di andare a vedere cos’era successo, ma per fortuna tutto si risolse solo in un grande spavento. (Rosetta dà una versione un po’ diversa dell’episodio. Secondo lei, Massimiliano si dirigeva con insistenza verso le scale per convincerci a ripartire subito per Vasto: non voleva perdersi Carosello, la rubrica pubblicitaria dell’epoca, divenuta poi mitica dopo la sua soppressione, che piaceva tanto ai bambini, anche se in chiusura essi venivano perentoriamente invitati ad andare tutti a letto). Ma, al di là di tutto questo, il ricordo di quegli anni è ancora vivo in me anche perché la Vasto di allora era ancora una bella città, nella quale si poteva vivere bene. Vasto è una città molto antica, come d’altronde quasi tutte le maggiori città abruzzesi 167 (salvo Pescara, che è stata una invenzione recentissima di D’Annunzio e del ministro fascista Acerbo, e l’Aquila, la cui storia risale appena all’epoca di Federico II di Svevia). Fondata probabilmente dai greci (la leggenda ne attribuisce la fondazione a Diomede, dopo il suo ritorno dalla guerra di Troia), essa fu conosciuta nell’antichità con il nome di Histonium, assumendo solo nella fase finale della dominazione dei Longobardi il nome di Vasto, anzi di Guasto di Aymone, dove Guasto indica Wast o Guast, gastaldia, e Aymone il gastaldo che la governava, al quale la gastaldia fu affidata, nell’anno 803, da Pipino che Carlo Magno aveva inviato in Italia per reprimere il tentativo del ducato longobardo di Benevento, del quale Histonium faceva parte, di sottrarsi al dominio dei Franchi. Ma in realtà, al di là delle sue origini e del suo nome, Vasto era una città frentana, che subì prima il dominio di Roma e poi via via dei tanti invasori che nei secoli hanno percorso il bel paese; essendo poi una città di mare, fu spesso bersaglio anche delle scorrerie dei pirati saraceni e turchi. Tuttavia di una storia così lunga e complessa le tracce sono assai scarse, bisogna arrivare a tempi assai più vicini a noi per avere monumenti come il Castello, di epoca medioevale ma trasformato e arricchito nei secoli successivi dai Caldora, le numerose chiese, di periodi diversi ma tutte piuttosto recenti, e il Palazzo D’Avalos, della fine del ‘400. Forse, tra queste tracce, bisognerebbe includere anche i visi delle persone che spesso ricordano i tanti incroci provocati dalle varie invasioni. Ricordo, ad esempio, che rimasi colpito, quando li incontrai per la prima volta, dai tratti tipicamente saracini di alcuni compagni di quegli anni, frutto evidentemente delle scorrerie dei pirati, ma questo non vale solo per Vasto, vale in pratica per tutta l’Italia, terra per fortuna ricca di contaminazioni fra uomini e fra culture. Ma, se di Vasto non si potevano apprezzare a sufficienza le tracce di un antico passato, di essa si potevano invece ammirare il golfo bellissimo, la terra fertile anche se all’epoca coltivata prevalentemente a grano (terra d’oro insomma, come dice una bellissima canzone dialettale vastese, ma, per questo, anche un po’ Tavoliere), le strade assolate del centro cittadino, la frescura, la sera d’estate, della brezza marina, la cordialità della gente. Vasto era, in quegli anni, ancora un grosso paesone; e dopo un po’ di tempo ci si conosceva tutti, parlo ovviamente innanzitutto dei compagni, ci si ritrovava così insieme, in piazza o nei bar, quasi tutte le sere e poi la mattina di domenica, e si chiacchierava in gruppo del più e del meno. E anche questo, assieme alle sue bellezze, era il fascino della città ed è parte del ricordo che ho di quegli anni. 168 Capitolo IX Siamo appena tornati dalle cure termali. Quest’anno, anno del Signore 2005, abbiamo scelto Grado, nel Friuli, una cittadina tranquilla, ordinata, immersa nel verde, stretta tra la laguna, nella quale i suoi primi abitanti, fuggendo da Aquileia, si erano rifugiati di fronte all’avanzare degli Unni, e il mare. Nonostante lo stress delle alzatacce mattutine per correre alle terme e la frenesia delle corse fatte (di solito, nel pomeriggio) per visitare Trieste (e Miramare, naturalmente!), Venezia e centri minori della regione durante i pochi giorni del nostro soggiorno, la vacanza è stata proprio riposante. La luce mite e chiara del cielo di settembre, la temperatura gradevole (malgrado qualche passeggero rovescio temporalesco), la bellezza dei luoghi hanno reso ancora più piacevole la nostra vacanza. Un solo inconveniente: le zanzare, che hanno tormentato particolarmente la nonna. Peccato poi che non abbiamo potuto fare neppure un bagno, pur avendo il mare a non più di cento metri dall’albergo: il litorale è in concessione a una società privata che, anche soltanto per consentire il passeggio lungo la spiaggia, pretende di essere pagata profumatamente...! Insomma, mie care nipotine, ci siamo trovati bene. Pier Paolo Pasolini, in un inedito del 1959 ora arrivato alle stampe, definisce Grado un “luogo dell’anima”, grazie a “il grigio-azzurro del suo cielo e il verde dei suoi alberi friulani, il vermiglio e il cobalto attutiti del suo porticciolo, e l’oro dei capelli della sua gioventù...”. Non so dire, naturalmente, se questa piccola e bella cittadina del Friuli era davvero quel “luogo dell’anima” intravisto da Pasolini nell’anno in cui egli ne scriveva, anche perché da allora molte cose sembrano essere cambiate, non solo nel paesaggio; né so dire, per il poco tempo che vi siamo restati, se oggi la si può ancora definire così. In ogni modo, se pure non ci ha fatto sognare (non abbiamo, del resto, neppure più l’età...), Grado ci ha certamente aiutato a rilassarci e a mettere in un cantuccio le tante brutte notizie che anche quest’estate ci hanno portato i giornali, notizie che ti chiudono a volte, per la loro ferocia, la bocca dello stomaco. A fare il miracolo è stata l’atmosfera morbida e ovattata che ti avvolge mentre passeggi lungo la laguna o ti inoltri nelle stradine del centro storico, inondate dai mille odori della gastronomia locale, o percorri il bel viale che attraversa in lungo tutta la città, accompagnato, la sera, da una particolare colonna sonora, quella del chiacchierio ininterrotto, diffuso, impastato di friulano, austriaco e italiano, della gente che cammina per la strada o siede davanti ai bar. Per come vanno oggi il mondo e l’Italia, ci voleva proprio questa tregua fatta di un po’ di beata spensieratezza! Il mondo, mie care nipotine, sta oggi attraversando forse uno dei suoi momenti peggiori e non so proprio se, nel prossimo futuro, le cose prenderanno una piega migliore o sono destinate a peggiorare. E anche l’Italia, purtroppo, ha ormai toccato il fondo, grazie a Berlusconi. 169 Voi vivete ora, mentre scrivo, un’età che in qualche modo vi tiene al riparo da queste brutture. E, anche se a volte ve ne arrivano gli echi, essi però non sono tali da consentirvi oggi di comprenderne tutta la gravità e quale minaccia esse rappresentino anche per il vostro stesso futuro: sono solo come una increspatura di vento sul filo d’erba o la foglia dell’albero! Ma le guerre, le malattie, la fame che colpiscono in modo sempre più virulento milioni di persone in un continente come l’Africa; la natura che si rivolta contro l’uomo che ha pensato, nella sua lunga storia, di poterla dominare e violentare impunemente; l’infanzia e la fanciullezza negate a un numero davvero inimmaginabile di bambini in ogni parte del mondo; l’odio, sempre più profondo, che oppone l’interminabile schiera dei poveri a chi sta bene: purtroppo, se tutte queste cose non cambieranno rapidamente, segneranno anche il vostro mondo di domani e si rivolteranno in modo ancora più terribile, fino a minacciarne l’esistenza, contro l’uomo e la sua civiltà. E state attente. Tutto questo non è il frutto del caso, del destino o del fato, come si diceva una volta, cieco e casuale. Né, dietro, c’è alcuna entità metafisica che ci scaglia contro il suo furore per le malefatte compiute dagli uomini come la Bibbia e, prima di essa, i testi sumerici e accadici e i miti greci ci raccontano sia accaduto all’epoca del diluvio universale: se così fosse, avremmo sempre la possibilità di poterci appellare alla misericordia di un dio o degli dei! No, le cose non stanno così. Quel che è certo, invece, è che c’è sempre qualcuno che ha interesse a far credere a sciocchezze di tal genere, per nascondere le proprie responsabilità, è accaduto nel passato e, siatene certe, accadrà ancora! E’ l’uomo l’autore di così tante infamie. Sono l’avidità e il cinismo di chi vuole accumulare sempre più ricchezze anche seminando povertà e lutti, è il sostegno che a questa visione del mondo miope e fonte di ingiustizie e di ineguaglianze sempre più inaccettabili viene da governanti che pensano che gli interessi vengano prima dell’uomo e delle sue esigenze e aspirazioni, è la rassegnazione o l’indifferenza di tanti. E ci cono anche le scelte individuali di ciascuno di noi, lo spirito che anima il nostro rapporto con gli altri uomini e con la natura, la nostra capacità, per la verità assai scarsa finora, di apprendere e mettere a frutto le tante lezioni della storia. Pace, solidarietà tra gli uomini, rispetto dei diritti di ciascuno, cooperazione con la natura, possibilità per tutti di accedere al sapere e al benessere, volontà di porre il sapere e il potere a servizio di tutti: di questo abbiamo oggi un disperato bisogno per avere futuro! Ma chi può costruire un mondo così? Sempre e solo gli uomini, e nessun altro. Gli antichi dicevano che faber est suae quisque fortunae, nel senso che l’uomo può, se lo vuole, fare scelte rivolte al bene comune, contrastando e sconfiggendo quanti, e sono tanti, forti e ben organizzati, ci hanno portato a questi disastri. Ebbene, questo è vero anche oggi, il problema è di volerlo davvero e fermamente! Anche sul piano ambientale e delle applicazioni della scienza, le cose sembrano prendere a volte una direzione catastrofica; ed anche qui è l’uomo la chiave di volta del futuro. Scienza, tecnologia sono stati e possono continuare a essere grandi fattori di progresso, 170 ma solo se sono guidate dalla coscienza del limite, dal rispetto della natura e dalla eticità dei fini, sono messe cioè sempre a servizio dell’uomo e non dell’avidità di denaro e di potere di pochi. Eppure, è questo che oggi spesso accade, basta pensare, ad esempio, a quel grandioso fenomeno rappresentato dalla globalizzazione, che pure potrebbe aprire una finestra sul futuro a quei tantissimi infelici che, in Africa e in altre parti del pianeta, muoiono ogni giorno di fame, di malattie, di guerre e, invece, oggi porta soprattutto soldi alle grandi multinazionali. Fatica, responsabilità, solidarietà: sono le sole parole che possono aprire nuovi orizzonti e aprirli per tutti. Ma siatene sicure: non sarà facile iniziare il nuovo cammino che le cose stesse ormai ci indicano... Nel passato, gli uomini hanno anche coltivato a lungo l’idea di un mondo fatto, grazie alla scienza, di magnifiche sorti e progressive, di un progresso certo, lineare e inarrestabile. Ma è dimostrato che non è così, che ciò non ha fondamento alcuno nella realtà, è solo il nostro desiderio, la speranza che si sostituisce alla realtà. Anche l’Italia, naturalmente, è dentro questo gorgo infernale. In più, essa vive oggi uno dei periodi più disgraziati della sua storia nazionale ed è, come non mai, nave senza nocchiero in gran tempesta, per usare le parole di Dante, che si avvita sempre di più dentro le sue contraddizioni, provocando angosce profonde in chi, come me, nonostante l’età, continua a vivere il mondo e la politica con la stessa passione, oltre che con gli stessi ideali, della gioventù. Voi mi direte, dopo una predica così lunga, come se ne facevano una volta: Ma perché, nonno, ci parli di queste cose così apocalittiche?! E’ presto detto, mie care nipotine. Anche voi domani sarete chiamate ad assumervi le vostre responsabilità di fronte ai problemi del vostro tempo, ed è bene che impariate a farlo subito, forse così le risposte della vostra generazione saranno migliori di quelle che abbiamo saputo dare noi. Purtroppo, l’Italia nella quale ci tocca vivere oggi è un’Italia sull’orlo del baratro, a un passo da un declino irrimediabile sul piano economico, sociale, civile e morale perché, in un momento cruciale della storia del mondo, quando sarebbe necessario, con il contributo di tutti, progettare il futuro, essa è finita nelle mani non certo di galantuomini e gente disinteressata, aperta al dialogo, lungimirante, assillata non dal proprio particulare, ma dai problemi e dall’avvenire di tutti. E’ questa, purtroppo, la realtà di questi nostri anni così tristi e difficili. L’Italia è alla mercé di un potere arrogante, avido, insofferente di ogni regola, preoccupato solo dei propri interessi e pronto, per soddisfarli o difenderli, a buttare a mare quello che una volta si chiamava il bene comune e, se necessario e possibile, la stessa democrazia! Gli italiani, per la verità, non sono esenti da colpe per questa situazione. Anzi essi, anche questa volta, come già altre volte nei momenti di crisi, hanno dimostrato un particolare fiuto nello scovare e mettersi al seguito del pifferaio magico di turno che, mentre promette il paese di Bengodi, lavora in realtà con la solita, impegnativa abilità per incrementare i propri affari e portare l’Italia alla rovina. 171 Quando sarete grandi, forse vi capiterà, qualche giorno, di ascoltare un’opera molto bella dal punto di vista musicale e spassosa nella sua trama, che si intitola L’elisir d’amore, e troverete tra i suoi personaggi un certo dottor Dulcamara. Dulcamara è un gran ciarlatano, che vende e vende bene i suoi mille intrugli ai rustici del villaggio; e la sua prima vittima è Nemorino, un giovane innamorato di Adina, al quale rifila la bevanda amorosa della regina Isotta, appunto lo stupendo elisir che desta amore (ma il magico liquore altro non è che una volgare bottiglia di Bordeaux), complice lo stesso Nemorino, gran credulone e, per giunta, orbo di tutti e due gli occhi perché innamorato. Ma per darvi un’idea un po’ più precisa di chi è Dulcamara, forse è il caso che vi citi l’attacco della sua straordinaria cavatina quando appunto propone ai villici tutto il suo variegato campionario. Ascoltate: Udite, udite, o rustici; attenti, non fiatate. Io già suppongo e immagino che al par di me sappiate ch’io sono quel gran medico, dottore enciclopedico, chiamato Dulcamara, la cui virtù preclara, e i portenti infiniti son noti all’universo e... e... e in altri siti. Come potete notare, il tono è solenne, quello che serve appunto ai ciarlatani per dare forza e credito alle loro mirabolanti promesse. E’ vero, il gran medico sembra incespicare sull’ultimo verso, e proprio a questo punto la musica, con una specie di sberleffo, svela l’inganno e la vuotezza che si celano dietro le parole, ma questo non impedisce a Dulcamara di attirare i contadini nella sua sfera magica e incuriosirli ancor più sugli effetti miracolosi del suo specifico. Ma sento già qualche borbottio da parte vostra: Nonno, adesso -dopo averci elencato i mali del mondo e dell’Italia- ci vieni anche ad annoiare con questo Dulcamara, perché? E poi: chi è Dulcamara e che c’entra? Beh, mie care nipoti, voglio in questo modo invitarvi innanzitutto ad assistere, se ve ne capita l’occasione, alla rappresentazione de L’elisir d’amore, così potrete bearvi anche voi della musica bellissima, deliziosa di Gaetano Donizetti e divertirvi alle avventure comico-sentimentali di Nemorino e Adina. So che a voi piace un altro tipo di musica, ma chissà, crescendo, forse arriverete anche ad apprezzare l’opera che tanto piaceva al nonno... Ma c’è anche un’altra ragione: Dulcamara non è soltanto il personaggio buffo dell’opera buffa di Donizetti, è anche un personaggio largamente presente nella storia, piccola 172 e grande, dell’Italia, che si è spesso materializzato anche nel campo della politica, provocando disastri: basta guardare alla nostra storia, a quella più vicina a noi come a quella più lontana. Ebbene, oggi viviamo uno di quei momenti in cui i Dulcamara imperversano in Italia, evocati sulla scena da tutti quegli italiani che pensano che i venditori di fumo siano meglio delle persone serie. Negli ultimi mesi, tanti di essi sembrano essersi resi conto della scempiaggine che hanno fatta, ma non hanno ugualmente scusanti: se Nemorino, che si è lasciato raggirare così facilmente, può essere compatito perché troppo preso dall’amore che è per definizione cieco, non altrettanto si può fare con questi nostri concittadini, molti dei quali tra l’altro pensavano che fosse finalmente venuto anche per loro il momento di arricchirsi a spese di tutti gli altri. Ma, mi direte, chi è oggi il Dulcamara che sta portando alla rovina questo nostro infelice Paese? Beh, la risposta ormai la conoscono tutti, anche quelli che gli hanno votato e magari lo sosterranno ancora. E’ Berlusconi, il capo della masnada che ci governa, è lui l’ultima sua incarnazione, con esiti anche questa volta tragici per l’Italia e la vita (nonché le tasche) della gente, pur se la recita di questi anni ha toni e contenuti oltremodo farseschi e spesso surreali. Quando è sceso in campo, all’inizio degli anni ‘90, nel pieno della bufera di Tangentopoli utilizzando la stessa azione dei giudici che oggi mette alla gogna, anche lui come Dulcamara si è presentato come l’uomo che ha in saccoccia il vaso di Pandora, pronto a garantire a tutti ricchezza e felicità. Ma il suo capolavoro l’ha costruito qualche anno dopo, nella tarda primavera del 2001, con il televisivo contratto con gli italiani, con la televisione appunto a certificare la bontà del suo specifico: quel contratto è stato insomma la sua cavatina, capace anche in questa occasione di irretire i tantissimi villici di una Italia ben viva ancora oggi e sempre pronta a prestare ascolto a chi ne solletica il particulare, grande o piccolo che sia. Se però a Dulcamara le cose sono andate tutto sommato bene, riscuotendo alla fine il plauso degli stessi villici ingannati (anche perché egli non ha certo provocato sconquassi nella loro vita e poi, via, siamo all’opera...), e Nemorino ha potuto alla fine conquistare la sua agognata Adina, Berlusconi invece ha cominciato finalmente a pagare il fio delle sue strabilianti promesse e del solo, ammorbante fumo che ne hanno ricavato gli italiani. E così, nel breve giro di un mese, ha subìto una batosta elettorale che, per la sua ampiezza e portata, non ha davvero precedenti. Sto parlando del risultato clamoroso delle elezioni regionali e amministrative dell’aprile scorso, quando il centrosinistra ha conquistato dodici regioni su quattordici e un numero incredibile di Comuni e Province. Roba, come si dice da noi, da ogni morte di papa, con tutto il rispetto naturalmente per papa Wojtyla morto proprio alla vigilia delle elezioni! Il botto elettorale a favore del centrosinistra ha investito ovviamente anche l’Abruzzo dove abbiamo riconquistato la Regione, e -udite! udite!- conquistato, per la prima volta, anche una città conservatrice come Chieti. E’ chiaro che un tale patatrac del centrodestra porta innanzitutto la firma di Berlusconi, 173 che ci ha messo tanto del suo! Accade sempre così ai demagoghi, soprattutto quando la realtà delle cose si incarica di strappare bruscamente la ragnatela di illusioni che essi hanno tessuto dentro la testa della gente. Molti suoi vecchi elettori, anzi, erano a tal punto incazzati con lui che hanno deciso di andare a votare, anziché rifugiarsi nell’astensione, e gli hanno rivolto contro con rabbia il proprio voto: come recita un vecchio adagio, tratto da Esiodo e che trovo negli Adagia di Erasmo, anche lo stolto si fa saggio dopo che ha patito un danno! A Chieti, dove il centrodestra è stato sempre largamente maggioritario e ha governato per ben undici anni di seguito, è accaduto anche di peggio. Quos Deus perdere vult, dementat prius: è un altro vecchio adagio, mie care nipotine, anch’esso d’origine greca, che spero mi permetterete di citarvi, senza sbuffi di fastidio da parte vostra, perché rende bene quel che è accaduto ai partiti del centrodestra in queste elezioni a Chieti, prima e durante la campagna elettorale. Per mesi si sono azzuffati e divisi tra di loro, arrivando ognuno per conto proprio all’appuntamento delle elezioni e facendo di tutto per continuare a sbranarsi a vicenda anche durante la campagna elettorale. Come quei cani che, spinti dalla fame, si dilaniano a vicenda con ostinazione e ferocia per contendersi l’unico tozzo di pane ma che alla fine, come è poi accaduto in queste elezioni, nessuno di loro riuscirà ad afferrare. Naturalmente, va reso il giusto merito anche al centrosinistra: ha saputo presentarsi unito alle elezioni e rappresentare una speranza per il futuro. L’augurio è che un risultato così importante, qui a Chieti e in tutto il Paese, non solo non venga disperso ma si consolidi visto che il più è ancora da fare per cacciare definitivamente Berlusconi: le elezioni politiche infatti ci saranno solo l’anno prossimo, nella primavera del 2006, e lui le giocherà davvero tutte per cercare di imbrogliare le carte ancora una volta, non importa se a costo di trascinare l’Italia in avventure ancora più rovinose. Tra l’altro, è bene sapere che il berlusconismo non è qualcosa di cui ci si possa liberare facilmente. Per la ragione molto semplice che il cuore del berlusconismo è l’idea che, per arricchirsi, tutto è lecito: non rispettare, ad esempio, anzi abolire, se ci si riesce, regole e limiti di qualunque tipo, o piegare lo Stato, ogni volta che se ne ha bisogno, ai propri interessi personali e di gruppo; ed è, questa, un’idea talmente radicata in tanta parte del popolo italiano da costituirne il vero Dna. Molti stranieri ci accusano spesso di cinismo e amoralità, purtroppo non è che abbiano tutti i torti! Non si può, dunque, stare proprio tranquilli con Berlusconi; e la battaglia decisiva è tutta da combattere, fino all’ultimo minuto. Ma veniamo ormai, mie care nipoti, dopo una così lunga incursione nell’attualità, agli anni che vorrei raccontare in questo capitolo: gli anni ‘70. Ed entriamo perciò subito nell’aringo... Aringo è il termine usato, a indicare appunto la difficoltà dell’impresa, da Dante quando si accinge, nella terza cantica, la cantica più alta per stile e contenuti, a inoltrarsi nel regno santo, tra le luci e le armonie del Paradiso. Naturalmente, io non invocherò, come lui, Apollo e amendue i giochi di Parnaso perché mi assistano: io non vidi cose, 174 come il grande poeta, che ridire / né sa né può chi di là su discende. Il mio compito è molto più modesto, anche se parlare di quegli anni non è poi, a pensarci bene, cosa così semplice. Si tratta infatti di un periodo della nostra storia più recente molto complesso e pieno di contraddizioni, che ha conosciuto progressi decisivi nella vita degli italiani, ma ha anche visto riemergere dal fondo più oscuro della nostra società forze eversive e reazionarie che hanno messo seriamente a rischio la democrazia. In quegli anni, inoltre, si sono a lungo confrontate prospettive politiche contrapposte; e c’è stato un esplicito tentativo, portato avanti da forze interne e internazionali, volto a colpire anche con la violenza la modernizzazione democratica dell’Italia e il possibile ingresso dei comunisti nel governo del Paese. Non può essere quindi un caso se, grazie anche agli errori commessi dai vari protagonisti, il decennio si è concluso, non aprendo un futuro migliore all’Italia ma dando forza a spinte e processi che avrebbero alla fine, negli anni ‘90, portato alla dissoluzione dei partiti fondatori della Repubblica e della democrazia italiana e alla crisi stessa delle istituzioni repubblicane. In quella lunga e tormentata stagione politica, inoltre, il PCI giocò un ruolo decisivo e raggiunse anche il punto più alto della sua influenza politica e dei suoi consensi elettorali. Ma anche per il PCI la fine del decennio rappresentò il crinale dal quale prese avvio il processo che doveva segnare, non il ritorno al governo, come pure ci si proponeva, ma il progressivo svuotamento della funzione storica che esso aveva esercitato fino ad allora nella società italiana, condizionandone gli sviluppi complessivi. Lo scioglimento del partito all’inizio degli anni ‘90 non fu che la necessaria conclusione di questo processo, anche se a renderlo inevitabile furono gli sviluppi della situazione internazionale (innanzitutto la caduta del muro di Berlino). Un decennio non facile da raccontare, quindi, e davvero di svolta nella storia dell’Italia, che ha rappresentato per me anche il momento più esaltante e significativo del mio impegno come dirigente del PCI, sia nel periodo che sono stato segretario della federazione di Chieti che, successivamente, negli anni in cui sono stato uno dei maggiori dirigenti regionali del PCI abruzzese. Ma non vi spaventate, mie care nipotine: non intendo in nessun modo ripercorrere, nei suoi vari passaggi, né locali né nazionali, la storia così complessa di quegli anni, non sarei tra l’altro neppure in grado di farlo. Mi limiterò invece soltanto a raccontare alcuni momenti di questa straordinaria vicenda: insomma, detto tra noi, mi propongo un compito molto più terra terra... L’inizio degli anni ‘70 ha coinciso, per me, con la mia elezione a segretario di federazione. Sono stato eletto infatti ai primi d’agosto, più esattamente nella riunione del Comitato Federale dell’8 agosto del 1970, alla quale partecipò anche Gigetto Sandirocco in rappresentanza della segreteria regionale (segretario regionale era ancora Claudio Petruccioli). Assunsi quindi il mio nuovo incarico all’indomani delle elezioni regionali, dopo un 175 dibattito abbastanza lungo e serrato negli organismi dirigenti provinciali dove alcuni compagni cercarono, in modo scopertamente strumentale, di traccheggiare il più a lungo possibile sul mio nome nel tentativo di dare una soluzione diversa, da quella che fu poi raggiunta, alla questione Perantuono-Terpolilli. Così, dopo gli oltre tre anni passati a Vasto, io e la mia famiglia tornammo ad abitare a Chieti. Ma anche in questa occasione non fu facile trovare un appartamento da affittare che fosse anche di nostro gradimento e capace di soddisfare le accresciute esigenze della famiglia. Ricordo anzi, mie care nipoti, che proprio per questa difficoltà la nonna e i vostri papà rimasero ancora a Vasto per quasi tutto il mese di agosto mentre io, che mi trovai subito alle prese con la sottoscrizione e le feste de l’Unità, dovetti trasferirmi immediatamente a Chieti, ospite dei miei suoceri. Alla fine, tuttavia, nel giro di poco più di un mese e sia pure dopo lunghe e faticose peregrinazioni nei vari quartieri della città, come già dopo il nostro matrimonio, ce la facemmo. Rosetta riuscì a scovare un bell’appartamento a S. Anna, costruito appena da qualche anno, ampio, abbastanza ben ripartito, affacciato sulla valle dell’Alento e perciò con un panorama invitante e, poi, con servizi essenziali a portata di mano, dal filobus alla scuola materna per Stefano e a quella elementare per Massimiliano che iniziò proprio quell’anno a frequentare la scuola dell’obbligo. La nuova sistemazione andava bene soprattutto per Rosetta che non aveva la macchina ed era perciò costretta, per spostarsi, ad utilizzare i mezzi pubblici quando non anche il cavallo di San Francesco. Anche per portare e riprendere i bambini da scuola non aveva grandi difficoltà, perché sia la scuola materna che la scuola elementare erano tutt’e due lungo la strada che essa percorreva ogni giorno per andare e tornare dal lavoro (dopo Vasto, la nonna cominciò a lavorare all’Unipol), l’unico problema per lei era fare tutti i giorni di corsa il tratto dall’ufficio alle elementari di S. Anna per non far aspettare troppo Massimiliano che usciva da scuola sempre un po’ prima dell’arrivo della madre. S. Anna era allora una zona di recente sviluppo; e vi abitavano prevalentemente coppie giovani, e questo consentì ai nostri figli di farsi rapidamente nuovi amici, alcuni dei quali lo sono ancora oggi. Nel nuovo appartamento siamo rimasti per ben quindici anni e in esso si sono fatti grandi i figli, finché non ci arrivò tra il 1982 e il 1983 una lettera di sfratto. Resistemmo per qualche tempo, anche giudiziariamente, alle richieste del proprietario grazie alle leggi dell’epoca, ma nel 1985 comunque saremmo dovuti andare via e metterci alla ricerca di una nuova abitazione se nel frattempo non fossimo riusciti a farci una casa nostra dove potemmo tranquillamente traslocare nel luglio di quello stesso anno. L’idea di avere una casa nostra per la verità non ci aveva mai sfiorato negli anni precedenti, e non tanto per il fatto che non avevamo i soldi necessari per comprarcela quanto soprattutto perché il mio lavoro, fino a quel momento, mi aveva portato spesso a cambiare città. Ma, all’inizio degli anni ‘80, gli sfratti a Chieti si erano fatti piuttosto frequenti, perché i proprietari preferivano affittare agli studenti con la possibilità di lucrare, in nero, rendite assai più sostanziose; e il rischio perciò di incappare anche noi in uno dei tanti sfratti di quegli anni, come poi avvenne, cominciava a preoccuparci seriamente. 176 Rosetta si iscrisse allora, quando io ero già a Campobasso, a una delle tante cooperative di abitazione nate in quel periodo a Chieti, anche se i soldi di cui potevamo disporre erano sempre molto pochi (per fortuna le cose sarebbero cambiate di lì a qualche anno, quando venni eletto deputato); e così, alla fine, anche noi fummo proprietari di una casa, quella che appunto oggi abitiamo, in una zona, quella di Madonna del Freddo, dove fino a quel momento c’era solo campagna e che le cooperative hanno invece trasformato in uno dei quartieri più popolosi della città (una parte del quartiere è stata poi trasformata dai suoi nuovi abitanti in un posto pieno di verde). Quando fui eletto segretario di federazione, avevo poco più di trentacinque anni. Ero insomma, per dirla banalmente, nel pieno della mia vigoria fisica e intellettuale. E, al contrario di quel personaggio di Spoon River che si accorge solo con la morte che il genio è saggezza e gioventù, io non solo avevo ali forti e instancabili e conoscevo le montagne perché alle spalle avevo una esperienza assai ampia e ricca, acquisita in contesti e periodi assai diversi tra loro, ma ero anche giovane, animato peraltro da una grande volontà di fare e far bene. E fu tutto questo che mi consentì di affrontare subito e con decisione, ma anche con il gramsciano ottimismo della volontà, una situazione del partito che non era certo brillante e che si stava facendo difficile anche sul piano nazionale e regionale e raggiungere, durante i cinque anni che restai alla guida del PCI in provincia di Chieti, grandi risultati sia dal punto di vista organizzativo che sul piano politico ed elettorale. A mio favore avevo anche il fatto che a primavera, alcuni mesi prima della mia elezione a segretario di federazione e proprio in previsione di questa circostanza, il partito si era preoccupato di farmi eleggere nel nuovo Consiglio comunale del capoluogo che veniva rinnovato proprio quell’anno. In questo modo potevo utilizzare per la mia attività anche una sede politico-istituzionale che, negli anni successivi, si sarebbe dimostrata particolarmente importante, non solo per me ma per il ruolo stesso del partito in città, in occasione ad esempio delle lotte operaie e studentesche che segnarono Chieti per tutti gli anni ‘70. Gli inizi della mia attività come segretario di federazione furono piuttosto duri. La prima grana che mi toccò affrontare fu naturalmente quella legata alla vicenda Perantuono-Terpolilli. E fosse stata la sola. Quella vicenda in realtà si intrecciava strettamente con una situazione più complessiva del partito che, sul finire degli anni ‘60, si era andata seriamente deteriorando. Che io ricordi, la lamentela più ripetuta nelle sezioni riguardava la nostra vita interna: secondo i compagni, non c’era sufficiente democrazia. La cosa era in parte fondata, ma la difficoltà vera non stava qui. Essa stava soprattutto nella nostra incapacità a comprendere fino in fondo le trasformazioni avvenute nella realtà economica e sociale della provincia e a individuare quindi le forze sociali e i terreni di lotta decisivi per mettersi alla testa della battaglia per lo sviluppo dell’Abruzzo, capace di determinare anche un salto di qualità nelle condizioni di vita e di lavoro della gente. Eravamo rimasti, in sostanza, un partito contadino quando invece la industrializzazione, in zone come il vastese o lo Scalo, era diventato il dato dominante della nuova realtà 177 della provincia; la scuola e l’Università nascente, inoltre, facevano debuttare sulla scena della politica anche grandi masse giovanili. La difficoltà a muoverci entro questa nuova ottica ci impediva anche di utilizzare pienamente, per la nostra iniziativa, l’accresciuta nostra forza elettorale e lo stesso fatto che noi stessi, ad esempio con le lotte per il metano ma anche con la nostra presenza nelle lotte degli studenti, avevamo contribuito a determinare quelle trasformazioni. Ci impediva, in sostanza, di cogliere tutte le nuove opportunità che ci offriva la situazione. La vicenda Perantuono-Terpolilli, a rifletterci bene, non aveva fatto altro, in fin dei conti, che portare allo scoperto proprio questi problemi e proprio da essi ci sarebbe stato bisogno appunto di ripartire. Accadde invece, nel clima che si era creato nel partito dopo le elezioni, che di essi si discutesse poco. Anzi, piuttosto che tentare di analizzarli e comprenderli nella loro vera natura, essi venivano invece strumentalizzati dai due gruppi che si fronteggiavano all’interno della federazione, nel tentativo di portare ciascuno più acqua al proprio mulino. Risultato: si rendeva solo più difficoltosa la discussione! Tuttavia, nonostante ciò e pur tra tensioni ricorrenti e lo scetticismo di molti compagni, riuscimmo ugualmente a portare avanti in quei mesi la discussione sui problemi di fondo che angustiavano il partito, raggiungendo così in questo modo anche l’obiettivo di rilanciare la nostra iniziativa tra la gente e di ricostruire, per questa via, l’unità del gruppo dirigente. Non fu semplice, e ci fu bisogno di pazienza, tenacia e intelligenza, ma alla fine la spuntammo. Anche gli avvenimenti politici regionali e nazionali che si succedettero in quei mesi, e la riflessione che si aprì su di essi, ci diedero una mano. Come, ad esempio, quella sui cosiddetti fatti de l’Aquila del febbraio 1971. Fatti di una gravità eccezionale, che colpirono profondamente l’opinione pubblica regionale e nazionale, quando spezzoni di manifestanti, manipolati da settori della DC e da forze di destra, per protestare contro la soluzione data dal Consiglio regionale, anche con il nostro concorso, alla questione del capoluogo, incendiarono la federazione del PCI. O, ancora, come quella sull’esito delle elezioni politiche della primavera del 1972 che videro un certo rinculo della sinistra e l’avanzata di forze conservatrici e di destra, come il MSI, soprattutto nel Mezzogiorno. La stessa riflessione nazionale, che fu molto intensa in quel periodo, attorno al tema delle trasformazioni che le realtà urbane del Sud avevano conosciuto e a quello delle alleanze sociali e politiche del PCI nel Mezzogiorno ci fu anch’essa di grande aiuto. Da questo dibattito venne anche una formidabile spinta a mettere in moto e far camminare rapidamente un esteso processo di rinnovamento e ringiovanimento dei nostri gruppi dirigenti sia a livello provinciale che nelle sezioni, garantendo nello stesso tempo la necessaria saldatura tra il vecchio partito contadino e le nuove leve, fatte soprattutto di giovani che provenivano dalle fabbriche, dalle scuole e dall’Università. Così, nel giro di qualche anno, sia nella segreteria provinciale che nei direttivi delle sezioni, ci fu un ricambio generazionale senza precedenti, e lo stesso accadde anche per il nostro Comitato Federale, senza peraltro che ciò provocasse rotture di alcun tipo. Parte di questo processo fu anche la nuova attenzione che il PCI rivolse al mondo 178 femminile. Anche qui, non c’erano più soltanto le popolane battagliere dei quartieri popolari delle città o le contadine povere e le braccianti: era nato un nuovo mondo, fatto di operaie giovani e consapevoli dei propri diritti, di studentesse medie e universitarie animate da nuovi bisogni e nuove esigenze culturali e di costume, di donne degli stessi ceti medi urbani alla ricerca anch’esse di un proprio ruolo più autonomo e gratificante nella società e nella famiglia. E tante di esse disposte anche a un impegno diretto nella battaglia politica. Anche su questo terreno, in provincia di Chieti, noi facemmo la nostra parte, ottenendo risultati di non poco conto e con un ulteriore allargamento e arricchimento dei nostri gruppi dirigenti. Ricordo in proposito che, proprio sotto la spinta di questo nostro nuovo impegno, io fui incaricato, qualche anno dopo la mia elezione a segretario di federazione, di fare (udite udite!, care nipoti) il responsabile femminile, in attesa di poter avere una compagna in grado e disposta a seguire in permanenza il lavoro verso le donne; di questo periodo ricordo anche la bella manifestazione di donne che organizzammo in piazza a Chieti, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del ‘72, e il grande convegno provinciale delle donne comuniste che tenemmo a Tollo nel febbraio del 1973. Una riflessione analoga, con al centro problemi più o meno simili a quelli emersi nella nostra realtà provinciale, ci fu in quegli anni anche nel resto della regione, come in generale nel Mezzogiorno. E anche qui, alla fine, prevalse la spinta verso il rinnovamento delle nostre politiche e il ringiovanimento dei gruppi dirigenti, facendo così venire in primo piano sia nelle federazioni che a livello regionale una nuova leva di quadri che poi diressero il partito per tutti gli anni ‘70. Da questo punto di vista, fu molto importante il contributo che venne a livello nazionale da Enrico Berlinguer; e, in Abruzzo, da Renzo Trivelli, che lo stesso Berlinguer, cui lui era molto legato, sostenne nelle sue scelte. Trivelli, quando arrivò in Abruzzo all’indomani dei fatti de l’Aquila, trovò un partito lacerato, attraversato da divisioni profonde e anche da lotte intestine, e non aveva perciò davanti a sé un compito facile. Del resto, la precedente esperienza di Claudio Petruccioli era lì a testimoniare quanto difficile fosse avviare un processo coerente di rinnovamento e ringiovanimento del partito. Petruccioli era venuto anche lui in Abruzzo, sul finire del ‘69, con l’obiettivo di sanare le fratture che già nell’ultima fase di direzione del Comitato regionale da parte di Federico Brini stavano minando il PCI abruzzese. Ma fu subito evidente la resistenza a questo processo di pezzi consistenti del vecchio gruppo dirigente. Così i suoi tentativi di portare una certa aria di modernità nella politica e nell’assetto del partito e dei suoi gruppi dirigenti naufragarono rapidamente e lui stesso fu poi travolto dai fatti del’Aquila. Non che Petruccioli, durante la sua breve permanenza in Abruzzo, non avesse commesso i suoi errori, a causa soprattutto di una sua visione delle cose a volte piuttosto astratta e intellettualistica e anche, bisogna dire, per una certa sua disinvoltura e leggerezza nella 179 gestione del partito e delle scelte compiute durante i fatti de l’Aquila, ma onestamente non si possono addebitare solo a lui tutte le responsabilità di questo fallimento. A Trivelli capitò invece di riuscire là dove Petruccioli aveva fallito. In questo, egli fu certamente favorito dall’indebolimento subìto dal vecchio gruppo dirigente a causa proprio dei fatti de l’Aquila. Molto di più, tuttavia, contarono le sue notevoli capacità politiche, la lunga esperienza che egli aveva nella gestione del partito, la sua capacità di muoversi non solo con accortezza ma anche con il pragmatismo necessario. In più, Trivelli seppe inventare strumenti nuovi per la battaglia politica del PCI in Abruzzo, strumenti che poi si rivelarono decisivi sia per svecchiare le politiche del partito nella regione sia per mobilitare un grande numero di energie e tenere aperto un processo di ulteriore allargamento dei gruppi dirigenti a forze nuove, soprattutto intellettuali. Da questo punto di vista, la sua più grande invenzione fu la pubblicazione di Abruzzo d’Oggi, una esperienza che, dopo la sua conclusione tra il ‘77 e il ‘78, non si è più ripetuta in Abruzzo. Per la verità, già in precedenza Petruccioli aveva tentato una iniziativa analoga, con la pubblicazione di un quindicinale, Nella lotta, diretta da Gianfranco Console. Ma nulla di paragonabile con Abruzzo d’Oggi: non solo il periodico visse appena pochi mesi, ma il suo ambito di diffusione non andò mai oltre il gruppo dirigente più ristretto del partito nelle federazioni. Abruzzo d’Oggi invece fu tutt’altra cosa. E il suo successo fu grande non solo tra gli iscritti, ma anche fuori del PCI. E per ben cinque anni giocò un ruolo di rilievo nella vicenda politica regionale. Un successo straordinario, quindi, dovuto certo in primo luogo a coloro che lo hanno diretto e fatto nel tempo. Da Libero Pierantozzi, già segretario di Togliatti e autore di una pregevole (e anche piuttosto ponderosa) opera sui cattolici nella storia d’Italia, allo stesso Console che sin dall’inizio dell’avventura di Abruzzo d’Oggi, fino al suo trasferimento a Roma nel ‘76, si caricò di fatto il peso della più gran parte del lavoro necessario per fare il quindicinale, e, nell’ultimo periodo, a Francesco Di Vincenzo. Ma, oltre che da loro, un apporto fondamentale venne anche dai segretari di federazione, segretari di zona e di sezione e dalla numerosa schiera di compagni di base che si preoccupavano di scrivere articoli, pubblicare inchieste, far arrivare notizie, curarne la diffusione. Abruzzo d’Oggi non era, né voleva essere, un periodico d’élite. Era al contrario, e lo restò per tutto il tempo in cui fu pubblicato, un quindicinale di battaglia politica e culturale che stava sull’attualità e portava nel confronto politico regionale i problemi della gente. Dove, nello stesso tempo, si intrecciavano costantemente cronaca, riflessione politica, informazione (anche sulle nostre vicende interne), approfondimento di problemi di natura regionale o di determinati territori, dibattito culturale, confronto tra i compagni e, naturalmente, con le altre forze politiche abruzzesi. In questo modo Abruzzo d’Oggi divenne, come possiamo dire?, lo specchio della vita regionale, con cui anche gli avversari erano costretti a fare i conti, e nel quale in tanti si potevano ritrovare, con i loro problemi e le loro aspirazioni. A partire dai lavoratori che, 180 su Abruzzo d’Oggi, potevano leggere il racconto delle loro lotte per la difesa dei posti di lavoro allora minacciati dovunque in Abruzzo e che, anzi, avevano proprio nel nostro quindicinale uno strumento importante di lotta sindacale e politica. Abruzzo d’Oggi fu inoltre anche lo strumento che ci permise di portare al PCI tutta una generazione di intellettuali, non solo per l’attenzione prestata dal quindicinale alle lotte studentesche di quegli anni nelle scuole e nelle due Università de l’Aquila e di ChietiPescara, ma anche per il fatto che diversi docenti universitari vi avevano rubriche fisse o comunque vi pubblicavano propri articoli. Da Abruzzo d’Oggi venne al PCI abruzzese anche un contributo decisivo al superamento di una mentalità, assai diffusa allora nelle nostre file, ancora largamente legata al campanile, che faticava a riconoscere la necessità di una visione regionale, e perciò moderna, delle scelte che s’imponevano per il progresso dell’Abruzzo. E questo consentì al partito, in anni nei quali il campanilismo (all’origine dei fatti de l’Aquila e utilizzato largamente dalla DC abruzzese per la sua battaglia politica interna e contro la sinistra) continuava ad arrecare danni gravissimi alla regione, di divenire punto di riferimento anche di ceti che fino a quel momento avevano prevalentemente guardato allo Scudo Crociato o agli altri partiti suoi alleati. Ma non ci fu solo la pubblicazione di Abruzzo d’Oggi tra i meriti di Trivelli. A lui si deve anche il legame particolare che si creò in quegli anni tra molti dirigenti nazionali del PCI e l’Abruzzo. Fu un fatto importante, che ci aiutò ad avere più fiducia in noi stessi, a sprovincializzare la nostra cultura politica, a maturare una visione più alta dei problemi della regione. Particolarmente importante da questo punto di vista fu il rapporto con Enrico Berlinguer che restò, anche dopo l’andata via di Trivelli dall’Abruzzo, uno dei più assidui frequentatori della nostra regione. Tanto intenso, anzi, fu il suo legame con l’Abruzzo che egli, anche nei comizi, era portato spesso a sottolineare la esistenza di una particolare affinità tra l’Abruzzo e la Sardegna, la sua regione di origine. Berlinguer, tra l’altro, non si limitò solo a capeggiare la lista del PCI alla Camera dal 1972 al 1983 (fu appunto il 1983, se non ricordo male, l’ultima volta che lo fece)); o a tenere comizi nei vari capoluoghi della regione durante gli appuntamenti elettorali o referendari. Egli accettava anche di visitare realtà minori nelle varie province e si sobbarcava perfino lunghi e faticosissimi giri in una serie di paesi e paesini, come accadde ad esempio nei primi anni ‘80 quando accolse una richiesta di tal genere della federazione di Chieti. A memoria di tutti una cosa simile non era mai accaduto prima con un segretario nazionale del PCI, Longo infatti non era mai venuto in Abruzzo (almeno da segretario) e Togliatti venne solo due volte: una, nella Marsica, in occasione dei morti di Celano e, che io sappia, l’altra a l’Aquila. Trivelli diresse il PCI abruzzese fino alla primavera del 1975 quando, all’indomani del XIV Congresso nazionale, venne richiamato a Roma per entrare nella segreteria nazionale come responsabile, se ben ricordo, della propaganda. L’Abruzzo, insomma, gli aveva portato bene. Del resto, la sua segreteria coincise con la massima espansione conosciuta dal PCI abruzzese, come numero di iscritti, forza elettorale e influenza politica. Quello, era 181 certo un periodo particolare per il PCI anche a livello nazionale, ma egli, come tutti noi d’altra parte nelle varie realtà della regione, ci mise molto di suo. Renzo Trivelli continuò a frequentare l’Abruzzo anche dopo il suo ritorno a Roma: non solo per partecipare a iniziative di partito ma anche per stare assieme, meglio se di fronte a una buona tavola, ai compagni con i quali aveva ormai una lunga dimestichezza e che gli erano diventati anche amici. Renzo era, come si dice, una buona forchetta, un buongustaio; né si rifiutava in genere ad altri piaceri della vita, e, se lo si invitava, raramente declinava l’invito. Ricordo, ad esempio, quando l’invitai, una estate di tanti anni fa, a venirci a trovare a Villalago: bene, non si fece davvero pregare, anche perché sapeva che avrebbe trovato dell’ottimo agnello alla brace... Ricordo anche, quand’era ancora segretario regionale, che le riunioni finivano quasi sempre in qualche trattoria dove si mangiava bene e a poco prezzo. Questo accadeva, naturalmente, anche quando arrivava Berlinguer, anche se l’atmosfera (come anche il ristorante) era un po’ più ufficiale: c’erano di solito, oltre a Trivelli, i cinque segretari di federazione, qualche altro compagno della segreteria regionale, l’immancabile Tonino Tatò e ovviamente Berlinguer che mangiava, come sempre, pochissimo, al contrario degli altri che in genere non si risparmiavano, e partecipava anche molto sobriamente alla discussione. A Renzo sono stato legato da una buona amicizia, anche se le occasioni di incontro sono state quasi sempre quelle ufficiali; e a lui debbo molto sul piano politico e della mia stessa cultura politica: mi diede fiducia e mi aiutò ad allargare, se così posso esprimermi, i miei orizzonti di dirigente. Mi ha dato una mano anche quando fui inviato dalla Direzione nazionale del PCI in Molise: non solo partecipando al Congresso regionale, che si svolse appena qualche mese dopo il mio arrivo a Campobasso in una situazione interna di partito non certo facile, e alle altre iniziative a cui l’invitai, ma anche spendendo i suoi buoni rapporti a livello centrale con compagni autorevoli perché nella primavera del 1983 potessi tornare in Abruzzo ed essere eletto in Parlamento: senza il consenso della Direzione nazionale e segnatamente della Sezione di Organizzazione (cioè di chi allora la dirigeva, Adriana Seroni, la quale era sempre molto esigente), questo non sarebbe stato possibile o, comunque, sarebbe stato piuttosto difficile. Anche in provincia di Chieti il PCI conobbe, durante gli anni della mia segreteria, un crescente sviluppo della sua forza organizzata e della sua influenza elettorale e politica. Ma cosa determinò tutto questo? Certo, in quegli anni in Italia la spinta a fuoriuscire dalla cappa di piombo che aveva avvolto l’Italia fino a quel momento si era fatta sempre più forte. Il Paese aveva bisogno di entrare anche dal punto di vista dei diritti e delle condizioni di lavoro e di vita della gente nel novero delle nazioni moderne ed avvertiva perciò sempre di più come un ostacolo sulla via della sua modernizzazione, fondata sull’equità sociale e sui diritti, l’assenza di un ricambio nel governo nazionale: sempre la DC e ancora la DC, perno fisso di un mondo sempre più immobile... 182 Cos’altro del resto volevano dire le lotte studentesche del ‘68, al di là dei tanti estremismi che l’hanno caratterizzato, se non questo? O le grandi lotte operaie del ‘69? O le stesse lotte che ci sono state nella nostra provincia negli anni ‘60, contro la mancanza di lavoro, l’emigrazione, i bassi salari e l’assenza di ogni diritto laddove c’era lavoro? O le lotte degli studenti per avere l’Università anche in Abruzzo, pur nelle forme distorte imposte dalla DC? Montava dunque in tutto il Paese una sempre più irresistibile voglia di cambiamento. Neanche il centro-sinistra, che aveva soppiantato una politica centrista fatta di immobilismo e di repressione delle lotte dei lavoratori, si era dimostrato all’altezza; anzi, dopo i primi tentativi di riforma, aveva dovuto cedere alle pressioni che venivano da destra e si era impantanato entrando in una agonia senza prospettive. Chi impresse una svolta decisiva a una situazione, quale quella dei primi anni ‘70, che rischiava di trasformarsi in una rottura profonda tra le esigenze di cambiamento della gente e quel che offriva la cucina politica della DC e delle forze ad essa alleate, fu Enrico Berlinguer, con la proposta del compromesso storico. Essa era in realtà una proposta che puntava non solo a riportare i comunisti al governo, dopo la loro cacciata nel 1946, ma anche a creare le condizioni, nel futuro, di una normale alternanza nel governo del Paese, realizzando intanto quella che appariva allora l’unica possibile alternanza ai governi che si erano succeduti fino a quel momento: un governo che comprendesse anche i comunisti, fondato sull’accordo tra cattolici e comunisti. Ma le cose, come sappiamo, sono andate diversamente; e, purtroppo, le speranze che allora si raccolsero, in modo mai così massiccio, attorno a questa proposta, non solo naufragarono miseramente, di lì a qualche anno, ma si trasformarono addirittura, dopo il fallimento della solidarietà nazionale, nel trampolino di lancio, negli anni ‘80, di una coalizione, che comprendeva anche il PSI di Craxi, che oggi definiremmo di centrodestra. La svolta fu determinata dalla uccisione di Moro, il 9 maggio del 1978, da parte delle Brigate rosse che poterono godere di complicità diffuse all’interno degli apparati dello Stato e, sul piano internazionale, del sostegno di forze oscure ma ben decise ad impedire, con ogni mezzo, il possibile ritorno dei comunisti al governo dell’Italia. Moro, infatti, fu, tra i dirigenti della DC, quello che, prima di altri, aveva compreso la necessità e l’urgenza di una normalizzazione democratica in un paese che non era più in grado di sopportare un sistema politico immobile e chiuso e fu l’unico, comunque il più determinato, a dare una sponda alla proposta di Berlinguer, ma fu proprio questa sua scelta lungimirante e coraggiosa a costargli la vita. Con la scomparsa di Moro, fu subito evidente che il progetto di Berlinguer non aveva più futuro e non poteva perciò che andare incontro a una sconfitta cocente e irrimediabile come difatti avvenne di lì a pochi mesi, con la sconfitta subìta dal PCI nelle elezioni politiche del 1979. Tuttavia, al di là del suo esito fallimentare, la proposta di compromesso storico lanciata da Berlinguer nell’autunno del 1973 rimise in movimento tutta la situazione politica italiana, rintuzzando anche la controffensiva di natura reazionaria della destra fascista e neutralizzando il tentativo, messo in atto da forze come le Brigate rosse e gli altri movimenti estremisti nati dal ‘68, di spostare su un terreno eversivo la spinta al 183 cambiamento che saliva dal Paese; e diede inoltre un punto di riferimento concreto a chi si batteva per modernizzare l’Italia. Il merito dei gruppi dirigenti del PCI che lavoravano nelle tante realtà della provincia italiana fu quello di muoversi con convinzione e coerenza su questa linea, aprendo il partito a forze nuove e mettendolo in condizione di porsi alla testa di un movimento diffuso e articolato non solo in difesa del lavoro, ma anche per aprire nuove prospettive di sviluppo ai propri territori, conquistare più giustizia sociale e diritti, rinnovare l’Italia. Da questo punto di vista, in provincia di Chieti noi non fummo da meno degli altri. Anzi, demmo vita a movimenti e lotte assolutamente originali. Tali, ad esempio, furono le lotte contro l’insediamento della Sangro-Chimica, una raffineria che si voleva impiantare alla foce del Sangro, che avrebbe avuto effetti devastanti sull’ambiente e sull’agricoltura della costa e della vallata. Altrove, come ad esempio a Gela in Sicilia, proposte analoghe vennero accolte perché davano lavoro, senza preoccuparsi dei guasti che si portavano dietro; e gli effetti col tempo si sono ben visti... Togliere di mezzo la Sangro-Chimica non fu semplice. Fu necessaria una battaglia, lunga diversi anni, fatta di lotte popolari e iniziative nelle istituzioni (enti locali, Consiglio regionale, Parlamento), animata soprattutto dai contadini della vallata (a partire da quelli di Fossacesia) ma anche dai ceti cittadini; e alla fine la spuntammo, propiziando in questo modo anche l’arrivo della FIAT (che non gradiva la presenza della raffineria), con l’insediamento, sotto Atessa, della SEVEL per la produzione di veicoli commerciali. Le amministrazioni locali, guidate dalla sinistra (capofila Paglieta, che avevamo conquistato proprio nel ‘70, con Enrico Graziani come sindaco) e il PCI in quanto tale furono gli architravi del movimento, pur nulla togliendo a spezzoni del PSI e di altre forze politiche e a gruppi e personalità del mondo della cultura locale: senza la nostra forza e la presenza di questi Comuni non so se quel movimento sarebbe nato e se soprattutto avrebbe avuto la capacità di durare così a lungo. (Sia detto tra parentesi: ma a questo punto, care Valentina e Benedetta, debbo informarvi che a queste importantissime lotte partecipava anche l’allora sindaco socialista di Torino di Sangro che era, indovinate un po’?, nonno Mingo). Anche le lotte per il lavoro, che interessarono particolarmente lo Scalo di Chieti e il cui punto più alto fu rappresentato dalle lotte della Marvin Gelber, ebbero un carattere assai peculiare per il ruolo che in esse svolse il PCI, che fu assai maggiore rispetto a quello esercitato dagli stessi sindacati; così come le lotte contadine di quegli anni, particolarmente nell’ortonese, contro l’insediamento di industrie inquinanti come l’Hortonium. Non furono perciò dovuti al caso i risultati che riuscimmo ad ottenere sia sul piano dell’accrescimento della nostra forza organizzata che nel referendum sul divorzio, nel 1974, e poi nelle regionali del 1975 e nelle politiche del 1976. Furono invece il frutto della nostra fatica, della nostra intelligenza, di una iniziativa diffusa che vide impegnato tutto il partito. E si trattò di risultati particolarmente importanti, ben più straordinari, considerati i punti di partenza, di quelli conseguiti in realtà della regione dove la nostra forza era già significativa. 184 Ci aiutò, in questo, sicuramente anche la presenza, a livello provinciale e nelle sezioni, di un gruppo dirigente molto unito e solidale e, soprattutto, di buona qualità, all’interno del quale un particolare contributo di lavoro e di idee venne dai cosiddetti compagni dell’apparato come Mimmo Bafile, Gianfranco Console, Michele Di Vito e Antonio Giannantonio. Alle loro spalle non c’era una lunga esperienza politica, qualcuno come Michele proveniva dall’esperienza del PSI, qualcun altro come Giannantonio si era formato nelle lotte studentesche del ‘68 alla Sapienza di Roma, solo Mimmo Bafile e Gianfranco Console avevano maturato una esperienza di più lunga data nel PCI, Gianfranco a Pescara e Mimmo con me e D’Alonzo in federazione, ma avevano tutti gioventù, intelligenza, cultura e voglia di lavorare. Si deve dunque fondamentalmente a Enrico Berlinguer se, negli anni ‘70, la vicenda politica italiana prese una certa direzione piuttosto che un’altra; ed è proprio per questa ragione che la sua figura, assieme a quella di Moro, dominò la scena politica italiana nel decennio. Non mi pare però il caso di entrare qui ulteriormente nel merito della politica portata avanti in quegli anni dal segretario nazionale del PCI. Sicuramente, dopo la sconfitta subìta dalla politica di solidarietà nazionale, Berlinguer ebbe difficoltà a delineare un’altra strategia. Le sue scelte, anzi, dalla proposta di alternativa democratica alla proclamazione della questione morale e della diversità del PCI che pure coglieva il nodo della moralità della politica e della necessità di una riforma profonda del ruolo dei partiti nel rapporto con le istituzioni, misero tuttavia i comunisti in un vicolo cieco che diede spazio alla politica di Craxi e della destra democristiana. Il rapporto difficile con il PSI aiutò, a guardar bene, più la politica di Craxi che la nostra e, a conti fatti, contribuì all’avvio della politica italiana su una china che doveva concludersi con la crisi dei partiti nati dalla Resistenza e l’inizio di quel declino dell’Italia che continua tuttora e, anzi, oggi si è fatto ancora più minaccioso. Qui ci sarebbe da discutere anche sulla difficoltà di Berlinguer ad aprire una riflessione sul ruolo del PCI in una situazione interna e internazionale che, soprattutto sotto questo punto di vista, stava già mutando profondamente e che di lì a qualche anno sarebbe precipitata con la caduta del Muro di Berlino e la crisi dell’URSS. Berlinguer avvertì sicuramente i segni della crisi incombente e si era andato via via convincendo, non solo della illiberalità del sistema sovietico, ma anche della sua sostanziale irriformabilità. Le innovazioni introdotte nella politica internazionale del PCI, con la dichiarazione che egli si sentiva più a suo agio sotto l’ombrello della Nato che non del Patto di Varsavia; e nel rapporto con il comunismo sovietico attraverso la proclamazione della democrazia come valore universale e la presa d’atto dell’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre, muovevano certamente da queste convinzioni. Anche il tentativo di lanciare la terza via in Europa, l’eurocomunismo, con la ricerca di un rapporto con la socialdemocrazia, aveva certamente la stessa origine, ma fu chiaro abbastanza rapidamente che su questa strada non si sarebbe andati lontano. C’era bisogno di andare oltre, di far emergere fino in fondo la natura socialdemocratica 185 e riformista del PCI così come essa si era andata modellando nel lungo cammino fatto durante la seconda metà del secolo scorso, sotto la spinta innanzitutto di Togliatti, avviando così un processo reale di fuoriuscita del PCI dalla tradizione terzinternazionalista e tagliando in modo definitivo i residui legami con il comunismo sovietico e internazionale. Non credo che Berlinguer non abbia avuto il tempo, a causa della sua morte prematura, per una scelta così radicale che avrebbe mutato profondamente la storia del Paese, oltre che della sinistra. Sono convinto invece che una simile eventualità fosse del tutto fuori dal suo orizzonte politico e culturale, anche se in politica, di fronte all’evidenza dei fatti, nulla è mai da escludere. Ma non è di queste cose, mie care nipotine, che qui voglio parlarvi. Su queste cose rifletteranno gli studiosi e deciderà la storia. Resta comunque il fatto che Berlinguer è stato, nella storia del PCI, uno dei suoi dirigenti più carismatici e certamente il più amato, anche tra chi non votava comunista. La sua figura, anzi, a distanza di tanti anni dalla sua morte, ancora oggi giganteggia nell’immaginario del popolo di sinistra. Evidentemente, al di là del giudizio sulla sua politica, rimane ancora salda nel cuore di tanti italiani la sua immagine di politico fuori degli schemi: sobrio, riservato, disinteressato, animato sempre da una tensione morale altissima, il contrario insomma di come tradizionalmente gli italiani si raffigurano il politico. Io ho avuto occasione, nella mia qualità di dirigente sia pur periferico del PCI, di conoscere Enrico Berlinguer un po’ più da vicino di tanti altri; e capisco quindi le ragioni di un affetto e comunque di un apprezzamento che non a caso si stanno dimostrando capaci di durare nel tempo. Di lui, invece, voglio raccontarvi le piccole cose che hanno a che fare con alcune delle tante volte che ho avuto modo di incontrarlo, prima come segretario della federazione di Chieti, poi come membro della segreteria regionale, infine come segretario regionale del Molise e, dopo il 1983, come deputato. La prima volta che ho avuto la possibilità di scambiare qualche parola con Berlinguer, all’epoca egli era ancora il vice di Luigi Longo, fu alla Conferenza nazionale della scuola indetta dal PCI nel 1971. Non ricordo la città nella quale la Conferenza si svolgeva, ricordo però che, quando arrivarono le prime notizie sui fatti de l’Aquila, io (essendo l’unico segretario di federazione dell’Abruzzo presente) e qualche altro compagno raggiungemmo subito Berlinguer dietro il palco della presidenza per avere notizie più precise su quel che stava accadendo e lui non si lasciò affatto pregare per darcele (ricordo anche che, subito dopo questo breve colloquio, intervenne Alessandro Natta in assemblea per una prima presa di posizione pubblica del PCI). Berlinguer, insomma, non era di quelli che non ti sentiva se gli parlavi o, se lo incontravi, faceva finta di non vederti, e vi assicuro, mie care nipotine, che ce ne sono stati e ne ho incontrati alcuni anche nel PCI... La grande statura politica e culturale di Berlinguer avevo avuto però modo di apprezzarla già qualche anno prima, ascoltando il discorso conclusivo che egli tenne al XII Congresso nazionale del PCI a Bologna, nel 1969, al quale ero delegato: da quel discorso rimasi particolarmente colpito, ne fui anzi entusiasta, come d’altronde tutta la 186 platea dei congressisti che, in piedi, l’applaudì lungamente. Quando egli divenne segretario del partito e cominciò a frequentare l’Abruzzo, ebbi modo naturalmente di conoscerlo un po’ meglio, anche come persona. Ma di questi successivi incontri con Berlinguer ne voglio ricordare solo alcuni. Il primo è quando venne a Chieti per il referendum sul divorzio. Tra le tante cose di quei due giorni che passò in città, ricordo che mi colpirono in particolare la passeggiata che fece per Corso Marrucino e alla Villa comunale, fermandosi a scambiare qualche parola con i cittadini che lo fermavano per strada (tra questi ci fu anche un sardo con il quale si mise a chiacchierare in dialetto), e poi l’incontro, in federazione, con le compagne e i compagni impegnati nella campagna referendaria, quasi tutti allora giovanissimi; a quell’incontro erano presenti anche mia moglie, molto attiva anch’essa nel lavoro per il referendum, e i miei figli ancora piccolini (Massimiliano, nel ‘74, aveva 10 anni e Stefano 7) ai quali Berlinguer regalò qualche parola e una carezza. L’altro incontro che mi è rimasto nella memoria è stato quello di Avezzano, del 18 maggio del 1976, in occasione delle elezioni politiche, quando diede inizio a una esperienza del tutto originale nel rapporto con il pubblico. Anziché il tradizionale comizio, egli scelse infatti di rispondere alle domande postegli da giornalisti, da rappresentanti di altre forze politiche, da persone del pubblico, anche se poi la gran parte delle domande venne dai giornalisti (erano presenti anche giornalisti stranieri), mentre da esponenti di altri partiti solo una (fatta dal segretario marsicano del PSDI) e due o tre da comuni cittadini, tra i quali una studentessa. L’iniziativa venne grandemente apprezzata, non solo dalla gente che partecipò in massa, ma anche dalla stampa nazionale ed estera che il giorno dopo le diede molto rilievo: il partito abruzzese la ripeté poi, con i propri dirigenti, per qualche anno, anche in altre occasioni elettorali, soprattutto nei paesi. Ma anche di questo incontro ricordo un particolare che mi colpì. Al ristorante, io ero tra i commensali in quanto membro della segreteria regionale, non solo Berlinguer, sempre così schivo e riservato (anche se non era un musone, come qualcuno ha cercato di dipingerlo), fu più loquace del solito ma acconsentì anche a fare un breve brindisi, forse la riuscita della serata e un certo ottimismo sul risultato che avremmo avuto alla prova delle urne lo avevano messo particolarmente di buon umore! L’ultimo incontro che voglio ricordare si colloca in uno scenario diverso, quello del Molise, dove mi trovavo come segretario regionale del PCI molisano. Ricordo, quando arrivai a Campobasso, appena dopo i primi contatti con i compagni, che mi furono subito chiare le difficoltà che mi attendevano; così, per far fronte meglio alla situazione e tentare di ricostruire un clima diverso nel partito, qualche mese dopo il mio arrivo cominciai a pensare a una manifestazione pubblica con Berlinguer nella regione. Le cose nel partito molisano non andavano per niente bene. E le rotture interne, che avevano provocato la elezione di un segretario regionale proveniente da un’altra regione (anche se per lungo tempo l’Abruzzo e il Molise sono stati un’unica regione), continuavano ad avvelenare i rapporti tra i compagni, con riflessi assai negativi naturalmente sulla capacità di mobilitazione e di iniziativa esterna del partito: la presenza 187 di Berlinguer avrebbe certamente dato una mano a superare questa situazione. Cercai così di contattarlo, anche se, a essere sincero, ero piuttosto scettico sull’esito dell’impresa. Ma provai ugualmente, approfittando di una riunione del Comitato Centrale alla quale ero stato invitato come segretario regionale. Al biglietto che gli feci avere durante il dibattito Berlinguer rispose subito, ma facendomi sapere che al momento, eravamo agli inizi della primavera, aveva già troppi impegni in calendario, così anche per l’estate, più in là avrebbe cercato comunque di soddisfare la mia richiesta. La risposta non mi parve molto incoraggiante, mi sembrava anzi piuttosto un modo elegante per dirmi di non sperare molto in una sua venuta in Molise. Ma non fu così: Berlinguer non era di quelli usi a promettere prima e poi a gabbare i santi e gli uomini naturalmente. Quell’anno, siamo nel 1982, la Direzione aveva deciso di organizzare in tutte le regioni attivi di partito, con la partecipazione di dirigenti nazionali, per il lancio della campagna di tesseramento 1983. Nel 1982, infatti, effetto certamente del fallimento della politica di solidarietà nazionale, si era registrato un certo calo degli iscritti rispetto agli anni precedenti e si voleva dare uno scossone, anche in previsione delle elezioni politiche che si sarebbero svolte nella primavera dell’anno successivo, a tutto il partito. E a Campobasso doveva venire Adriana Seroni, che era diventata nel frattempo responsabile nazionale di organizzazione. Ma non vi dico quale fu la mia sorpresa quando, credo fossimo ai primi di settembre, la stessa Seroni mi telefonò per dirmi che all’attivo avrebbe partecipato Berlinguer, per una scelta decisa dallo stesso segretario che non aveva dimenticata la promessa fattami alcuni mesi prima. Così, qualche settimana dopo la telefonata della Seroni, andammo a Roma da Berlinguer che, come faceva normalmente in queste occasioni, volle essere informato minutamente sul partito, la vita politica regionale e i problemi della gente, e concordare natura e tempi della sua presenza. Ricordo anche che volle che gli portassimo documenti che lo aiutassero a capire meglio le cose del Molise: tra questi, gli facemmo avere ovviamente anche il documento che avevamo preparato per il Congresso regionale del partito che si era svolto diversi mesi prima, un documento scritto a più mani e contenente più di una contraddizione, a causa dei contrasti che dividevano il gruppo dirigente. Ebbene, ricordo che Berlinguer, che l’aveva letto e non semplicemente scorso, mentre ci recavamo in auto da Isernia verso Campobasso, non solo me lo fece notare ma volle anche un supplemento di informazioni sul partito in Molise. La sua visita durò addirittura tre giorni e fu molto intensa, non sto a ricordare naturalmente la grande eco che essa ebbe tra i molisani: Berlinguer era il primo segretario nazionale di un grande partito, oltre che il primo segretario del PCI, che metteva piede in Molise. La prima tappa fu Isernia, dove giunse il venerdì mattina del 22 ottobre; e lì egli si fermò a visitare il museo che ospita il cosiddetto homo haeserniensis, un homo erectus ritrovato nella zona. Il soggiorno a Isernia fu, tuttavia, assai breve, il tempo appunto della visita al museo e di un rapido incontro con le televisioni locali e con la stampa, perché nel pomeriggio di quello stesso giorno era fissato a Campobasso l’attivo regionale del partito: così ci 188 dirigemmo subito verso il capoluogo molisano, all’Hotel Scanderberg, dove Berlinguer consumò velocemente un pasto frugale e si concesse un po’ di riposo prima di partecipare all’attivo. L’attivo fu molto travagliato, durò ben cinque ore, e nel dibattito irruppero in modo piuttosto violento le rotture che da lungo tempo dilaniavano il gruppo dirigente. Berlinguer, tuttavia, cercò di volgere in positivo lo scontro al quale aveva assistito e ricordo che, per incoraggiare i compagni, disse che in fondo il consenso elettorale di cui disponeva il PCI molisano non era inferiore a quello raccolto dai comunisti francesi! Io, invece, fui molto contrariato dall’andamento dell’attivo: mi sembrava che i compagni stessero sciupando un’opportunità, cosa di cui sono convinto ancora oggi. La visita di Berlinguer proseguì, il giorno dopo, con un incontro, la sera, con i cittadini di un quartiere popolare di Campobasso, il CEP, che si erano organizzati in Comitato per rivendicare la soluzione di numerosi problemi, in particolare quello della mancanza d’acqua, e l’avevano invitato a recarsi da loro. C’era una grande folla e molta curiosità, naturalmente, nei confronti del segretario del PCI che Berlinguer non deluse quando prese la parola, sia pure per un intervento molto breve. La visita si concluse la domenica mattina, con un grande comizio in piazza al quale parteciparono cittadini di ogni colore e da tutta la regione: il PCI, insomma, registrò un grande successo tra l’opinione pubblica molisana, ma all’interno le cose non cambiarono di molto... Da deputato, non mi è capitato di incontrare spesso Berlinguer. Non solo egli non era tra i frequentatori più assidui della Camera, ma anche quando era presente per votazioni importanti, appena finita la seduta, di solito scappava subito via. Berlinguer, tuttavia, non era il tipo che snobbava la disciplina di gruppo, di cui invece era sempre molto rispettoso, per cui non mancava mai alle sedute della Camera per le quali il gruppo aveva stabilito l’obbligo della presenza. Ricordo a questo proposito un episodio. Nel corso di una seduta, dopo che si erano già svolte alcune votazioni, Berlinguer, convinto evidentemente che non fosse più necessaria la sua presenza, si alza dal suo scranno di deputato, raccoglie le carte che si portava sempre dietro e fa per andare via, ma ecco, a quel punto, un fermo! perentorio e quasi gridato di Mario Pochetti, il segretario del gruppo comunista, un vero mastino, che aveva l’ingrata incombenza di garantire le presenze dei compagni in aula: Berlinguer si blocca di colpo e si rimette subito a sedere, senza fiatare. Berlinguer fu molto presente invece a Montecitorio durante le settimane dell’ostruzionismo condotto dal PCI contro il decreto del governo Craxi sulla scala mobile; e nel corso di quella battaglia ascoltammo diversi suoi interventi sia nelle riunioni del gruppo parlamentare che in aula. In quel periodo, anzi, si affacciava spesso alla Camera, anche quando non erano previsti suoi discorsi per confortare, diciamo così, i compagni impegnati a turno, per tutto il periodo dell’ostruzionismo, a essere presenti o a parlare in aula anche di notte e durante i giorni festivi. Era difficile però che egli, anche in quelle occasioni, si mettesse a chiacchierare con i compagni: c’era, da parte sua, la solita riservatezza, che non incoraggiava cameratismi di sorta, anzi avevamo tutti una certa soggezione nei suoi 189 confronti per cui non accadeva mai, che io ricordi, che qualcuno l’avvicinasse, se non per una ragione specifica, e si mettesse a chiacchierare con lui di quel che in quei giorni stava accadendo in Parlamento e nel Paese. Da questo punto di vista, Berlinguer era l’esatto contrario di Natta che, dopo la sua morte, l’avrebbe sostituito alla segreteria del PCI. Natta, uomo molto colto e fine anche come politico, amava invece intrattenersi con i compagni seduto su uno dei divani del Transatlantico, il cosiddetto corridoio dei passi perduti della Camera, sia quand’era capogruppo che dopo la sua elezione a segretario. Com’è noto, Enrico Berlinguer è morto a Padova, ai primi di giugno del 1984, durante un comizio per le elezioni europee, stremato dalla fatica. Egli non era di quelli che si sottraevano agli impegni e quell’anno, tra la battaglia contro la scala mobile e gli impegni elettorali, il suo fisico cedette. I giorni della sua agonia e poi della sua morte furono giorni tristi per tutti. L’Italia intera stava col fiato sospeso in attesa di notizie e, quando morì, Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica, espresse per tutti lo sgomento che aveva colto indistintamente gli italiani per la immatura e tragica scomparsa del capo del PCI, e diede contemporaneamente voce all’affetto che legava tanta parte del nostro popolo a un uomo che aveva saputo esprimerne le qualità più alte. Quanto forte fosse questo legame lo si vide, del resto, nei giorni in cui la sua salma restò esposta nella camera ardente allestita nell’atrio di Botteghe Oscure, quando interminabili file di cittadini di ogni convinzione e di ogni ceto sostarono lungo le strade adiacenti alla Direzione del PCI in attesa di potergli rendere l’estremo omaggio, e poi nel giorno del funerale a cui partecipò una folla immensa. Anch’io, assieme a mia moglie e ai miei figli, andai a rendergli omaggio a Botteghe Oscure ed ebbi anche l’onore, con tutta la mia famiglia, di fare un turno di guardia davanti alla sua salma; e il giorno del funerale seguimmo anche noi il corteo e fummo a Piazza S. Giovanni. Con Berlinguer se ne andò l’ultimo dei grandi dirigenti del PCI; ma con lui scomparve anche un maestro di vita, rigoroso, coerente, capace di porre tutto se stesso a servizio dei grandi ideali di libertà e giustizia sociale che hanno animato l’intera sua vita, gli stessi ideali, come lui volle sottolineare in una intervista alla stampa, della sua giovinezza, ai quali aveva voluto restare fedele per tutta la vita. E adesso, mie care nipoti, spero mi permetterete, prima di proseguire nel mio racconto, una divagazione un po’ bizzarra che però contiene anche una morale. Divagazione nel senso comune significa uscire fuori del seminato, ma può anche significare svago che, in fondo, è anch’esso un modo di allontanarsi dalla strada maestra, uscendo dalla solita routine; e a me divagare e divagarmi ogni tanto piace, è come prendere un caffè quando si è un po’ stanchi o concedersi un intermezzo musicale di una certa vivacità quando si è sul punto di precipitare nella monotonia. Ma veniamo alla nostra divagazione... 190 Elogio della cicala Quand’ero ragazzo, mi piaceva molto ascoltare il canto delle cicale. Allora abitavamo in campagna; e, d’estate, c’erano dei giorni, quando la calura si faceva insopportabile, che tutta la campagna era un concerto di questi piccoli insetti alati dal corpo bruno: un concerto fatto di suoni striduli, raramente variati, che esprimevano però assai bene lo straniamento dell’ora quando la canicola ardente ti attira nel suo cerchio. Se, mie care nipoti, quando sarete grandi, qualche volta, d’estate, proverete, durante le ore più calde del giorno, a sdraiarvi all’ombra di un albero e ad abbandonarvi al frinire roco delle cicale, forse sentirete anche voi allora come qualcosa di indefinibile impadronirsi di voi, del vostro cervello, della vostra anima, qualcosa che è insieme sogno e sonnolenza, abbandono e magia. Il canto delle cicale, dunque, era parte, quand’ero ragazzo e ancora negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, di quelle piccole cose che suscitavano sempre in me un piacere assai intenso, fatto di sensualità e ricerca di purezze ancestrali. Come anche la nenia lamentosa dei grilli e lo spettacolo delle lucciole sulle colline, la sera d’estate, oggi del tutto scomparso, o il gracidare delle rane che saliva dal vallone o, ancora, il tralucere dell’azzurro del cielo tra le foglie degli alberi quando vengono mosse da una brezza leggera... Tempo addietro, scartabellando tra le mie carte di tantissimi anni fa, mi è capitato di ritrovare nel Diario che ho tenuto negli anni ‘54-’58, gli anni della mia maturazione intellettuale e politica, dei versi che sono l’inizio di una poesia, poi mai portata a termine, che mi paiono belli ancora oggi: Gli occhi possono soltanto vedere la polvere e la terra, ma sentire ciò con il cuore è pura gioia... Proprio così: sentire con il cuore le tante piccole cose che ti offre la natura è dare gioia alla vita! Ancora oggi del resto, che gli anni non sono più verdi, se pure non provo le stesse intense emozioni di una volta, mi piace ascoltare il coro delle cicale che arriva fino a me dai tanti alberi cresciuti, dal 1985, attorno alle palazzine del quartiere. Ma, ahimè!, mie care nipotine, questo grazioso insetto bruno che impiega anni per passare dallo stato di larva a cicala e che a me piaceva, ai tempi della ‘gnora Ava, anche cacciare (ma per lasciarlo libero appena dopo la cattura), non gode di buona fama tra tanti poeti e letterati; ed è da sempre bersaglio costante dei moralisti. Tra le tante cose che mi è capitato di leggere in proposito, solo G.B. Marino, un poeta del ‘600 piuttosto ridondante nelle sue metafore ma comunque assai famoso ai suoi tempi, ricorda, nelle Dicerie sacre, che i greci avevano elevato a geroglifico della musica la cicala (in realtà, sono stati gli egiziani a farlo). Gli altri poeti o letterati, invece, in genere della cicala non parlano bene e spesso non apprezzano neppure il suo canto, come l’Ariosto che sentenzia: sol la cicala col suo noioso metro... Del resto, basta guardare al significato che hanno parole come cicalare, cicaleccio o 191 cicala riferita a persone (di solito donne) per capire quanto sia estesa e radicata questa cattiva fama. Ma voi direte: ci sarà pure un motivo dietro una così poco lusinghiera, e tanto largamente diffusa, opinione nei confronti delle cicale. Eh, sì! Avete ragione. Dietro c’è sicuramente la favola narrata tanti secoli fa da Esopo sulla cicala e la formica, poi ripresa e raccontata di nuovo tante volte nel corso dei secoli. Ricordate? La cicala, quando arriva l’inverno, va dalla formica e chiede del cibo. E quella risponde: “Ma perché non hai fatto provvista anche tu, questa estate?”. “Non potevo, si giustifica la cicala, dovevo cantare le mie melodiose canzoni”. “E tu balla, adesso che è inverno, le fa di rimando la formica, se d’estate hai cantato”. Insomma, la formica laboriosa e previdente; la cicala ciarliera e imprevidente. Proprio come, nel Dittamondo, le descrive Fazio degli Uberti, un poeta trecentesco, ghibellino ed esule come Dante dalla sua città natale per ragioni politiche: Tu vedi la formica che d’affannar la state non cala, onde poi il verno vive e si nutrica. E, per contraro, vedi la cicala, che canta e di sua vita non provede, trista morir come la state cala. Ai greci tuttavia, nonostante Esopo, le cicale piacevano. Le donne usavano mettere cicale d’oro nelle loro pettinature, molti, quelle vere, se le portavano in casa, dentro piccole gabbie, per sentirle cantare, i bambini poi erigevano minuscole tombe per le loro cicale rapite da Persefone spargendo polvere su di esse; e il citarista Eunomo, come racconta in un suo epigramma Paolo Silenziario, un poeta greco del VI secolo dopo Cristo, offre in dono ad Apollo una cicala di bronzo per la vittoria riportata in una gara di cetra: fu infatti la cicala, quando la corda si spezzò, a saltare sulla cetra e con mormorio dolce prese il suono / della corda spezzata. E quella voce / agreste, che s’udiva strepitare / nei boschi, si mutò in suono di cetra. Lo stesso Omero non era da meno degli altri nell’apprezzare il canto delle cicale. Egli paragonava addirittura i saggi raccolti attorno a Priamo proprio alle cicale dalla voce fiorita, volendo con ciò fare un complimento ai consiglieri del venerando re troiano. Anche Teocrito, greco di Siracusa e forse il più grande dei poeti alessandrini, amava le cicale; e nei suoi Idilli fa più di un riferimento ad esse. Una volta stridono forte sui rami ombrosi / le cicale bruciate dal sole, mentre tutto intorno profuma dell’opulenta estate e dei suoi frutti; un’altra volta esse spiano dall’alto i pastori che a mezzogiorno si riposano; un’altra ancora le cicale sono chiamate a testimoni della grande abilità nel canto di Tirsi che racconta, con versi ispirati, della morte di Dafni punito da Afrodite perché si era vantato di piegare Eros. Il tuo canto, dice il capraio che ha insistito con Tirsi perché intonasse la canzone che egli ama più di ogni altra e che non merita di essere abbandonata all’Ade che tutto fa scordare, è come miele per la tua bocca, Tirsi, / e i dolci fichi di Egilo: / tu canti meglio delle cicale! Ma chi di loro ha parlato in un modo tutto speciale è stato Platone. 192 Secondo il grande filosofo greco, che aveva animo di poeta, le cicale partecipano del mondo divino delle Muse e presenziano all’ora afosa del meriggio, quando il demone meridiano penetra nella mente sonnacchiosa dell’uomo e la sconvolge, le cicale anzi sono, con il loro canto che molce chi le ascolta, come le sirene che distolgono gli uomini dal loro cammino, perciò bisogna stare attenti a non lasciarsi istupefare dalla loro presenza. Ma sentiamo Platone, che di loro racconta nel Fedro, il dialogo intitolato alla bellezza. Il primo accenno alle cicale è di Socrate quando, condotto da Fedro, si ritrova all’ombra di un platano e di un agnocasto, un arbusto aromatico delle verbenacee. Per Giunone, dice Socrate usando l’italiano un po’ arcaizzante ma proprio per questo affascinante di Francesco Acri traduttore del dialogo, bel luogo quieto! Questo platano distende i suoi rami ed è alto; e questo agnocasto alto anch’esso, co’ la sua ombra, è bellissimo; ed è in sul rigoglio della fioritura, sì ch’egli è qui tutto un odore. E vaghissima è la fonte d’acqua che scorre sotto il platano; ed è, come si sente ai piedi, molto fresca... E, se altro vuoi, questo venticello d’estate piacevole è assai, e dolce; e risponde con il mormorio suo lieve al coro delle cicale. Ma una bellezza poi è l’erba che pianamente dechina, sì ch’ella par fatta proprio a ciò che un che ci si sdrai, posi bene il capo. Ma Platone, nel prosieguo del dialogo, torna ancora altre due volte, e non solo con degli accenni, sul canto delle cicale. Socrate e Fedro sono nel bel mezzo della loro lunga e impegnativa conversazione sulla bellezza e l’amore e non s’accorgono del passare delle ore, ma ecco! il meriggio comincia a incombere, la calura estiva è sempre più una cappa di piombo e la voglia di approfittare, complice il coro insistente delle cicale, della bellezza e della frescura del luogo, lasciandosi andare a un riposante sonnellino, tenta in modo quasi irresistibile i due, mettendo a rischio, come dice Socrate, la ricerca della verità. Ma Socrate resiste alla fascinazione così piena di ammiccamenti magici della stagione e del mezzodì che sovrasta; e sprona Fedro a non farsi irretire, neanche lui, dal canto delle cicale e a non abbandonarsi perciò al piacere del sonnecchiare per pigrizia della mente, piacere servile per il quale le cicale li irriderebbero. Esse ci stanno osservando, fa sapere Socrate al suo interlocutore, cantando in sul nostro capo e ragionando, pertanto bisogna che anch’essi continuino a ragionare, non solo per cercare la verità ma anche per potersi guadagnare il premio che le cicale hanno ricevuto dagli dei per darlo agli uomini. Le cicale quindi, secondo Platone, sono anche filosofe, per la loro capacità di ragionare. Ma il loro canto ha anche la forza del canto delle sirene e occorre quindi stare sempre sul chi va là per sottrarsi alla trappola della irrazionalità presente nel canto. Come Ulisse, che sceglie sì di ascoltare il canto delle sirene che gli uomini / stregano tutti, chi le avvicina, ma facendosi legare all’albero della nave per non lasciarsi stregare anche lui, dopo aver tappato con la cera le orecchie dei suoi compagni: Chi ignaro approda e ascolta la voce delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, tornato a casa, festosi l’attorniano, ma le Sirene col canto armonioso lo stregano, 193 sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti, sull’ossa le carni si disfano. Ma perché le cicale hanno un tale posto nel mondo di Platone? Egli ce lo spiega facendo raccontare a Socrate la nascita delle cicale e il dono che ad esse fecero le Muse. Si conta, narra Socrate, che un tempo le cicale erano uomini, prima che fossero nate le Muse; nate le Muse, la prima volta risonando per l’aria il canto, quelli furon così dal piacer presi, che, messisi a cantare, non curarono di cibo e bevanda, e, non accorgendosi, si morivano. E allora venne da essi la famiglia delle cicale, le quali ebbero dalle Muse questo premio, di non aver niente bisogno di mangiare e di bere, e, così vuote, di cantare non sì tosto che elle son nate infino a che non son morte, e dopo andare alle Muse a recar le novelle qual di quaggiù a quale di loro fa onore. A Tersicore contan di quei che onorano lei ne’ cori, e fanno che le sian più cari; a Erato, di quei che onoran lei nelle cose d’amore, e così simigliantemente alle altre, a ciascuna secondo la speciale dignità sua; e all’antichissima Calliope, e ad Urania che le vien dopo, contan di quei che filosofando passano la vita onorando la lor musica... Per molte ragioni, dunque, s’ha a dire qualche cosa, e non si ha a dormire a mezzogiorno. Le cicale, dunque, sono, per Platone, anche tramiti tra l’uomo e le Muse, e simbolo anch’esse, per il loro canto, della bellezza; e questa è la ragione del posto particolare che esse occupano nella considerazione del filosofo greco. Ma che dire a questo punto, mie care nipotine? Dopo aver ascoltato dalla voce di Socrate un mito così bello, non possiamo che far nostra la conclusione che ci suggerisce lo stesso Platone: la poesia, il canto, la filosofia appartengono al mondo degli dei e sono sotto la protezione delle Muse e danno senso e gioia alla vita. Apprezziamo dunque le formiche, la cui natura, come dice un vecchio poeta, è durare fatica, quelle formicuzze così diligenti e laboriose, tutte in fila e sempre indaffarate ad accumulare cibo per l’inverno, che il nonno vi ha fatto conoscere quando eravate ancora piccoline, mentre vi portava a spasso vicino casa, e voi magari vi divertivate anche a disturbarle nel loro infaticabile ed eterno andare e venire: è attraverso il lavoro infatti che l’uomo crea se stesso, la sua vita, la sua civiltà. Ma se non ci fossero anche le cicale, sia pure con il loro canto roco, come lo definiva Virgilio, la vita sarebbe grigia e vuota e le nostre emozioni resterebbero inespresse e si trasformerebbero, anzi, anch’esse in fatica e sudore. Anche il loro canto, come ogni altro canto, è un dono degli dei, che ci aiuta a sollevare lo sguardo dalle brutture della vita, a darle un senso e una prospettiva, a migliorare la condizione dell’uomo e, come scrive Ovidio nelle Metamorfosi, a volgere il viso verso le stelle e guardare il cielo, guardare il futuro. Ma ora basta con questa lunga divagazione e torniamo a dipanare il filo dei ricordi... 194 Capitolo X Il mio impegno come segretario di federazione si concluse agli inizi dell’autunno del 1975, all’indomani cioè delle elezioni amministrative e regionali, con la elezione di Mimmo Bafile al mio posto. Non è che l’idea di andare al Comitato regionale del partito, con la responsabilità dell’organizzazione, mi entusiasmasse particolarmente. Ero convinto infatti che sarebbe stato utile che io continuassi a guidare la federazione ancora per qualche tempo, in modo da consolidare il gruppo dirigente emerso dalle lotte sociali e politiche di quegli anni e dal confronto interno. Forse, la mia preoccupazione era un po’ esagerata; sta di fatto comunque che, a distanza di non molti mesi dal mio trasferimento a Pescara, cominciarono a manifestarsi crepe di varia natura nel partito, sia all’interno del gruppo dirigente più ristretto sia nel rapporto della federazione con alcune sezioni del Sangro, in relazione in particolare alla fase conclusiva della vicenda Sangro-Chimica. Era anche vero però che una esigenza analoga di consolidamento si poneva per il Comitato regionale. Con l’andata via di Trivelli c’era infatti il rischio che tornassero a prevalere vecchie logiche particolaristiche e facessero un passo indietro sia il ringiovanimento dei gruppi dirigenti sia il processo di regionalizzazione nell’orientamento del partito abruzzese che in quegli anni aveva fatto notevoli passi avanti. Così alla fine, dopo ripetute sollecitazioni, accettai la proposta che mi era stata fatta da Gigetto Sandirocco, divenuto a sua volta segretario regionale da pochi mesi; e, di conseguenza, trasferii a Pescara la mia sede di lavoro, mantenendo tuttavia stretti legami con Chieti: oltre a restare negli organismi dirigenti della federazione, rimasi infatti anche nel Consiglio comunale della città. Iniziò così, con il mio nuovo lavoro al Comitato regionale, una nuova avventura che, come già in altre occasioni, mi obbligò a rimettere in discussione me stesso e a confrontarmi con una realtà molto più ampia e complessa qual era appunto quella regionale. Ma, anche qui come sempre, non mi persi d’animo e mi rimboccai subito le maniche. Potevo contare, d’altronde, sulla conoscenza che già avevo dei compagni che più pesavano nella vita del partito in Abruzzo e sul fatto che, da parte loro, c’era un apprezzamento non formale nei miei confronti come ebbi poi la possibilità di constatare nei mesi successivi. Si rivelò molto importante per me anche la fiducia che mi venne dai compagni di Pescara, fiducia che, anche qui, ebbi modo di verificare in seguito andando spesso nelle sezioni della città. Pescara del resto, per la sua storia stessa, è una città aperta, che non chiude mai pregiudizialmente le porte a nessuno, anzi... Salvo, ovviamente, a non deludere le attese. E’ chiaro che, in tutto questo, mi fu di grandissimo aiuto quel che eravamo riusciti a fare a Chieti negli anni in cui io avevo diretto la federazione considerata da sempre una 195 realtà assai difficile politicamente, per lo strapotere che avevano Gaspari e la DC in provincia. D’altra parte, erano lì, a sottolineare l’importanza e la positività del nostro lavoro, i grandi successi conseguiti anche in provincia di Chieti prima con il referendum del maggio ‘74 e poi con le elezioni regionali e amministrative del giugno di quell’anno. Le elezioni, infatti, si erano concluse con una affermazione del PCI senza precedenti anche da noi; e anche da noi quelle elezioni segnarono un mutamento profondo del quadro politico. Conquistammo un gran numero di Comuni (alcuni anche abbastanza grandi), da soli o con liste unitarie, aperte alla società civile; si fece più ampia la nostra rappresentanza nei Consigli comunali delle città maggiori della provincia e nello stesso Consiglio provinciale e contribuimmo in misura sostanziale a far perdere alla DC la maggioranza assoluta nel Consiglio regionale (la DC perse la maggioranza assoluta anche nel Consiglio provinciale e fu lì lì per perderla nella stessa città di Chieti). Era il risultato di un lavoro che ci premiava, frutto della capacità di un partito profondamente rinnovato e ringiovanito di raccogliere, grazie alle lotte condotte in quegli anni, non solo il malcontento ma soprattutto la grande voglia di cambiamento che animava i ceti popolari e gli stessi strati medi della popolazione. Un lavoro, d’altra parte, che aveva dato i suoi frutti già l’anno prima in occasione del referendum sul divorzio, con la vittoria addirittura, a Chieti città, del no alla cancellazione di una conquista di civiltà come il divorzio (a livello provinciale, il no andò invece sotto, sia pure per poco). Alla base di questo successo in città, nel referendum, ci fu soprattutto il lavoro delle compagne. Infaticabili, armate di materiale di propaganda e di argomenti che nascevano dalla vita stessa, visitarono quasi tutte le abitazioni della città, senza trascurare le contrade di campagna, svolgendo un lavoro certosino di informazione e di convincimento davvero straordinario in particolare nei confronti delle donne. C’era allora in giro, soprattutto tra le masse femminili, una grande disponibilità all’ascolto, e questo naturalmente fu tutto a vantaggio dei sostenitori del divorzio, disponibilità che oggi, almeno su certi argomenti, sembra invece venuta meno. Dico questo, avendo presente quel che è accaduto in Italia nel referendum sulla procreazione assistita del giugno 2005: argomento, certo, di grande complessità e che sicuramente porta ciascuno di noi a porsi tanti interrogativi sul futuro dell’uomo, l’uso e i fini della scienza, i limiti stessi della ricerca scientifica e tecnologica, ma che tutto si sia risolto con l’astensione dal voto della grande maggioranza degli elettori, con il rifiuto cioè di assumersi responsabilità di alcun genere, bene, questo è assai preoccupante. Non solo per la difesa della laicità dello Stato, visti gli interventi sempre più insistiti e invadenti su materie di natura etica (e non solo) di una gerarchia ecclesiastica che continua, con una ostinazione incredibile, a rimuovere dai suoi orizzonti la modernità e a non farci i conti. Ma anche perché questioni di così tanta importanza non si possono affidare al discernimento di pochi; né ci si può far paralizzare dalla paura, chiudendo le porte a un domani che comunque ci sarà e rischia di essere deciso solo dagli altri. Su tutto questo la sinistra deve riflettere. Materie così sensibili dal punto di vista della coscienza individuale e collettiva hanno 196 bisogno della politica e del coinvolgimento di grandi masse, come avvenne a suo tempo sia per il divorzio che per l’aborto. Così come bisogna, tenendo conto certo della particolare natura dei problemi di oggi ma anche di un mondo che si è fatto sempre più plurale, riaffermare con forza la laicità della politica e dello Stato. Sapendo pure che il contrasto non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi vuole decidere per tutti le cose da fare e in cui credere e chi pensa invece che sempre va salvaguardata la libertà di ciascuno e di tutti. Ma riprendiamo il racconto della mia nuova avventura... Gli anni passati al Comitato regionale furono segnati, dal punto di vista politico, in una prima fase da una ulteriore espansione della forza organizzativa ed elettorale del PCI e dall’accrescimento del suo ruolo nella vita politica regionale, in particolare durante il periodo delle cosiddette larghe intese; e, successivamente, dopo le elezioni del ‘79, dalle nostre crescenti difficoltà a contrastare i processi di involuzione politica che si manifestarono anche in Abruzzo, sia per ragioni legate alla vita regionale che per la spinta che veniva dalle vicende politiche nazionali. La seconda metà degli anni ‘70 iniziò infatti con un nuovo, grande successo elettorale, in occasione delle elezioni politiche del 1976: più 7,2% di voti sul risultato delle elezioni regionali, già di per sé straordinario, e il raggiungimento, con il 34,4%, del massimo dei consensi elettorali mai registrato dal PCI nella regione. Anche nelle lotte per la difesa del lavoro e per un rinnovato sviluppo dell’Abruzzo ci fu un salto di qualità, grazie alla forza più consistente del PCI nel Consiglio regionale eletto nel 1975 e, poi, grazie al nuovo ruolo che il PCI ebbe nella vita regionale con le larghe intese. La DC tuttavia, finché le fu possibile e nonostante le due sconfitte consecutive del ‘75 e del ‘76 e dello stesso ‘74, si oppose con rabbia e determinazione a ogni idea di cambiamento nell’assetto di potere regionale che la vedeva da decenni perno di un sistema sostanzialmente immobile e chiuso, anche se la esigenza del rinnovamento era ormai nelle cose e si era espressa in maniera chiara e dirompente attraverso il voto: l’anticomunismo, la difesa del suo sistema di potere fondato largamente sul clientelismo, il timore di perdere rendite di posizione le impedivano di muoversi. Ma si trattava di un atteggiamento insostenibile e alla fine fu costretta ad aprire comunque un confronto con noi che si concluse, tra molte difficoltà, con un accordo programmatico abbastanza innovativo (anche se il PCI rimase fuori della Giunta) e con la elezione, nel febbraio del 1977, di Arnaldo Di Giovanni a presidente del Consiglio regionale. Un processo più o meno analogo interessò anche molti enti locali, con la sottoscrizione di accordi programmatici anche da parte del nostro partito, ma neanche in questo caso i comunisti entrarono a far parte delle giunte. Si creò insomma una situazione, come del resto in Italia con la costituzione del governo di solidarietà nazionale diretto da quel fior di conservatore che era Giulio Andreotti, che rendeva i comunisti corresponsabili delle scelte compiute a livello di governo, ma senza che essi potessero partecipare in concreto alla gestione di quelle scelte. Il risultato fu un progressivo logoramento della nostra forza e una ripresa sia della DC che del PSI e 197 degli altri partiti tradizionalmente alleati della balena bianca. Ricordo, ad esempio, di quegli anni le defatiganti riunioni che periodicamente si tenevano tra i partiti di maggioranza alle quali ovviamente partecipavamo anche noi, costretti però spesso a mediazioni al ribasso o a prendere atto della impossibilità di arrivare a conclusioni accettabili o, ancora, ad approdare a risultati di un certo rilievo solo dopo molti incontri. Con questo non voglio dire che la politica delle larghe intese non produsse nulla. Ci furono risultati anche importanti, ad esempio, sul piano delle scelte programmatiche e nella ricerca di un terreno comune per dare soluzioni concrete alle lotte di quegli anni. Quel che non ci fu invece, e che fu all’origine della crisi che poi travolse sia la politica di solidarietà nazionale che quella delle larghe intese, fu quel mutamento radicale di prospettive che la gente si attendeva soprattutto nell’economia e nella politica del lavoro e dello sviluppo, anche se queste esigenze erano presenti nei programmi sottoscritti: fummo costretti così a tornare all’opposizione e a pagare sul piano elettorale un prezzo piuttosto salato. Nelle elezioni del ‘79 perdemmo infatti, sia a livello nazionale che in Abruzzo, intorno al 4% dei nostri consensi. Ricordo a questo proposito una chiacchierata con Gerardo Chiaromonte a l’Aquila, in occasione di una iniziativa del partito in città prima della nostra uscita dalla maggioranza di governo, a distanza quindi di diversi mesi dalle elezioni del giugno ‘79. Chiaromonte mi chiese cosa pensavo della piega non positiva che ormai aveva preso la situazione politica, e quali erano le reazioni della gente; la mia risposta fu che avremmo perso parecchi voti. Non è che lui non sapesse bene come stavano le cose, ma cercava semplicemente delle conferme nelle varie realtà del Paese. Si respirava infatti nell’aria la delusione di tanti nostri elettori e dello stesso nostro partito! Ricordo anche che di queste questioni cominciammo a discutere anche nel nostro primo Congresso regionale che si tenne sul finire del ‘76 (o agli inizi del ‘77) e del quale io stesi il documento posto poi a base della discussione congressuale. L’unica cosa che però ottenemmo, sotto la spinta del forte malcontento che saliva dalle sezioni, fu la elezione di Arnaldo alla presidenza della Regione, costretto poi a dimettersi quando scegliemmo di tornare all’opposizione. Non è qui il caso di addentrarsi in una analisi dettagliata delle ragioni che portarono a questo esito la nostra politica. Oltre alle ragioni nazionali e a quelle internazionali (queste ultime condizionarono fortemente in quegli anni la politica italiana), ci sono stati certamente anche nostri errori e inadeguatezze. Penso, ad esempio, che contò molto la difficoltà nostra a portare l’intero partito a muoversi come forza di governo e non come forza di opposizione costretta, a causa delle circostanze, a condividere una politica di governo, con la conseguenza di non riuscire poi a far valere fino in fondo, né come forza di governo né come opposizione, il grande consenso che ci era venuto dagli elettori nel ‘75 e nel ‘76. Del resto, era già presente nel partito, già nel momento in cui ci incamminammo su questa strada, una resistenza di settori di base abbastanza ampi alla politica della solidarietà nazionale e delle larghe intese che non tardò a manifestarsi in maniera aperta 198 e con più consistenza appena se ne presentò l’occasione. I compagni poi avevano difficoltà a intrecciare, nella loro azione quotidiana, i due poli della nostra principale parola d’ordine di quel periodo: partito di lotta e di governo. Nei fatti, accadeva spesso che o si era troppo di governo o troppo di opposizione, riducendo così la nostra capacità di incidere sulle scelte concrete e di colpire le resistenze al rinnovamento che venivano dalla DC. Questo accadeva soprattutto dove avevamo firmato accordi di programma pur essendo deboli politicamente e organizzativamente, oltre che come consensi elettorali: la nostra debolezza diventava così essa stessa motivo di logoramento ulteriore della nostra credibilità. Ad essere onesti, di queste difficoltà eravamo avvertiti già in quegli anni, tanto è vero che ponemmo anche questo tipo di problemi al centro del nostro dibattito congressuale regionale, ma le scelte che allora compiemmo bisogna dire che non si dimostrarono affatto sufficienti, anche perché c’era qualcosa più di fondo che ci sfuggiva e che doveva presentarsi in termini più chiari alla fine del cammino che concluse la storia del PCI. Parlo del nostro ritrarci, di fronte al fallimento della solidarietà nazionale e delle larghe intese, i cui effetti cominciarono a manifestarsi abbastanza presto, a farci portatori di una nuova strategia di alternativa alla DC che facesse perno sull’unità delle sinistre. Parlo ancora dei nostri errori di analisi circa la natura della crisi che stava allora investendo l’intero mondo capitalistico e gli sbocchi che esso avrebbe avuto con l’avvio della globalizzazione, oltre che della nostra difficoltà a immaginare una nuova svolta nella politica del PCI della stessa profondità di quella che Togliatti propose a Salerno, al suo ritorno in Italia dopo i lunghi decenni di esilio, insomma della incapacità (o impossibilità?) a compiere scelte nuove, radicali, proprio quelle che gli scenari che si sarebbero presentati alla fine degli anni ‘80 avrebbero poi imposto. La cosa paradossale, a guardare oggi le cose con il cannocchiale del tanto tempo trascorso, è che negli anni ‘80, nonostante la sconfitta subìta nel ‘79, il PCI restava pur sempre una grande forza, popolare, di massa e con un consenso elettorale altissimo: questo avrebbe dovuto aiutarci ad aprirci senza reticenze al nuovo che stava maturando con grande rapidità in Italia e nel mondo, e invece... E’ dentro questa cornice tormentata e complessa che io svolsi la mia attività di organizzatore del Comitato regionale, negli anni che vanno dall’autunno del ‘75 all’inizio del ‘79 quando lasciai la segreteria regionale per assumere l’incarico di segretario della federazione di Pescara. In realtà, la mia attività non si limitava solo alle questioni di natura organizzativa, ma coordinavo tutto il lavoro della segreteria regionale e sovrintendevo, diciamo così, alle iniziative più diverse del partito. Di fatto svolgevo funzioni di vice-segretario; e questo mi consentì di girare tutta la regione, partecipando alla discussione interna del partito nelle varie federazioni, di tenere comizi e riunioni nelle realtà dove più significativa era la nostra presenza e di aprire o concludere importanti manifestazioni pubbliche del nostro partito. Inoltre, era in genere mio compito presiedere e intervenire nelle riunioni delle varie Commissioni nelle quali si articolava allora l’attività del Comitato regionale e preparare i documenti più significativi, non solo per la parte che riguardava il partito ma anche per 199 la parte politica: insomma, fu un periodo di lavoro molto intenso, in cui credo di aver dato un contributo di primo piano alla politica regionale del PCI in quegli anni. All’epoca, la segreteria regionale era composta solo di tre compagni: Sandirocco, naturalmente, Di Giovanni, che era il nostro capogruppo alla Regione, e io. Una segreteria ristrettissima, dunque, ma che era da un lato il frutto della forza politica e del prestigio del nuovo gruppo dirigente regionale e dall’altro l’espressione di una volontà di continuare con il processo di rinnovamento e ringiovanimento avviato da Trivelli. E molti, infatti, furono i giovani che in quegli anni assunsero responsabilità politiche e di lavoro di sempre maggior rilievo sia nelle federazioni che nello stesso Comitato regionale. Non sempre le scelte, ovviamente, si rivelarono azzeccate, qualcuna anzi si rivelò subito inadeguata e fummo costretti a cambiarla rapidamente, ma questo fa parte del rischio che corre chiunque accetti di scommettere sul futuro... Una segreteria anche molto unita, debbo dire. Non solo politicamente, ma anche dal punto di vista dei rapporti personali. Gigetto ormai lo conoscevo da tempo; Arnaldo, invece, solo da poco, ma non tardammo molto a entrare in sintonia tra di noi e a fare amicizia. Arnaldo aveva alle spalle una lunga esperienza sindacale e politica, a cui univa doti di acutezza e realismo, e sapeva trattare sia con i compagni che con gli avversari; era poi uomo aperto, gioviale, amante della caccia e della musica classica, soprattutto di Beethoven, e di modi sempre gentili (ma, quando le circostanze lo richiedevano, sapeva anche essere di una durezza insospettabile). Il rapporto, molto forte, che si stabilì tra noi tre ci consentì naturalmente di governare il partito con fermezza, ma anche con grandi aperture verso i giovani, e di farlo senza fatica anche quando la situazione cominciò a farsi difficile. Quanto ai problemi del partito in senso stretto, che erano di mia specifica competenza e che seguii sempre con molta attenzione, negli anni immediatamente successivi al ‘76 la nostra forza organizzata continuò a crescere. Ci avvicinammo addirittura ai 40.000 iscritti, un esercito in una regione piccola come la nostra! Non solo: organizzammo anche numerosi corsi di formazione politica, utilizzando sia strutture nazionali che le sezioni, alle quali parteciparono tanti dei giovani e delle ragazze venuti al PCI negli anni ‘70. Un trend così positivo si esaurì però abbastanza rapidamente, dopo il fallimento della solidarietà nazionale; e i progetti costruiti sull’idea, piuttosto balzana ma che pure circolava tra le nostre file anche a livello nazionale, di una tendenza all’espansione della nostra forza destinata a durare per chissà quanto tempo si ridussero presto a cenere. Avevamo stranamente dimenticato che, come scrive un autore latino di sententiae dell’età di Cesare, Publilio Siro, fortuna vitrea est, tum cum splendet frangitur, la fortuna è fatta di vetro e proprio quando essa splende va in frantumi! Uno spazio particolare, in tutta questa attività, fu riservata alle donne, non solo con l’intensificazione del reclutamento tra le masse femminili, ma portando anche molte compagne negli organismi dirigenti regionali del partito e, soprattutto, creando le strutture necessarie per rendere stabile il nostro lavoro in direzione delle donne su tutto il territorio della regione. 200 L’esperienza di quegli anni mi portò anche a contatto con molti dirigenti nazionali del PCI e, soprattutto, con tanti compagni e tante compagne delle varie zone dell’Abruzzo: ogni tanto mi capita di rincontrarne qualcuno e noto con piacere che egli si ricorda ancora di me... Essa inoltre cementò amicizie che hanno resistito al tempo, anche se in molti casi le traversie personali o l’età hanno via via allentato i rapporti e spesso li hanno anche interrotti. In ogni modo mi ha consentito di entrare in relazione e spesso in amicizia con uomini e donne di grandi qualità intellettuali e politiche, che in vario modo, con la loro attività, dentro o fuori le istituzioni, hanno dato un contributo importante allo sviluppo della regione. A questo punto, mie care nipoti, mi pare chiaro che voi vogliate sapere qualcosa anche sulla mia vita privata di quegli anni. Ebbene, vi accontento subito, anche se rievocare alcuni momenti dolorosi di quel periodo mi procura turbamento ancora oggi. In generale, le cose di casa andavano abbastanza bene. Massimiliano, alla fine degli anni ‘70, aveva iniziato il liceo scientifico, mentre Stefano frequentava ancora le medie. Se la cavavano bene tutti e due, anche se, a ogni cambio di scuola, Stefano si ritrovava sempre, all’inizio, alle prese con qualche problema. Stefano, infatti, che per tutte le elementari aveva avuto una sola maestra, cosa che evidentemente lo aveva abituato a vivere dentro una specie di acquario fatto di tranquillità e sicurezza, soffriva i cambiamenti. Massimiliano, invece, no: alle elementari aveva cambiato più volte maestro e non si lasciava perciò prendere dal panico di fronte ai cambiamenti o anche a mutamenti improvvisi di situazione, era capace anzi di improvvisare quando, ad esempio, a scuola veniva interrogato e non aveva studiato a sufficienza, cosa che al contrario non riusciva a Stefano che non a caso si applicava allo studio più del fratello. In ogni modo sono sempre andati bene sia l’uno che l’altro. Anche per quanto riguarda le loro amicizie a scuola e fuori della scuola, non ci siamo mai dovuti lamentare. E questo forse sarà dipeso un poco anche dall’impegno nostro a renderli responsabili, sin da quando erano piccoli, di quel che facevano. Ricordo, a questo proposito, che, quando erano ancora piccoli, nei giorni che Rosetta doveva rientrare al lavoro il pomeriggio, di solito restavano da soli a casa, con Massimiliano che badava al fratello più piccolo: ebbene, non si sono mai creati problemi e se incontravano per caso qualche difficoltà telefonavano subito alla mamma. In quegli anni si ritrovavano spesso anche con me, nei giorni festivi, a un comizio o a una riunione. Non mancavano poi mai alle feste de l’Unità che si tenevano alla Civitella; e ricordo che in queste occasioni passavano il loro tempo, fatto di parecchi giorni, a scorrazzare in bicicletta per tutto il campo, mentre sia io che Rosetta eravamo impegnati nelle attività della festa. Ricordo, in fatto di feste de l’Unità, che parteciparono anche alla grande festa de l’Unità che, nell’estate del 1981, quando ero segretario della federazione di Pescara, si svolse al Parco D’Avalos. A quella festa, anzi, Massimiliano, che aveva avuto in regalo un biglietto della lotteria organizzata dal partito per finanziare la festa e parte della nostra attività durante l’anno, vinse il primo premio che consisteva in una bella bicicletta da corsa: lo vedo ancora oggi 201 mentre corre tutto trionfante in bici verso lo stand della cucina dove stava lavorando la madre, con il fratello che gli correva dietro a piedi anche lui molto contento! Questa abitudine di portarli con noi, d’estate o comunque quando non c’era di mezzo la scuola, è continuata anche quando si sono fatti più grandicelli. Ad esempio, sono stati spesso a Roma quando c’era qualche riunione in Direzione o qualche convegno e, mentre io ero chiuso a Botteghe Oscure per i miei impegni, loro invece, assieme alla madre, giravano per Roma, nelle zone del centro storico. Ricordo anche una festa nazionale de l’Unità a Roma, conclusa da Enrico Berlinguer, alla quale vennero anche loro. La giornata era trascorsa tranquilla, a un certo punto però, mentre tornavamo dal comizio verso il pullman, cominciò a piovere a dirotto e ci bagnammo tutti come pulcini, ma fummo fortunati: nella trattoria nella quale ci fermammo per mangiare qualcosa prima di ripartire verso Chieti, i padroni di casa furono così gentili da mettere ad asciugare alla bocca del forno scarpe, calzini e vestiti dei ragazzini. Nella seconda metà degli anni ‘70, dopo che mia suocera fece ristrutturare e rimettere a nuovo la sua casa natia, rimasta per decenni nell’abbandono più totale, cominciammo a frequentare anche Villalago per le vacanze. La prima volta che andai a Villalago fu, per la verità, all’inizio degli anni ‘60. Ricordo che Rosetta, il padre e la madre vi arrivarono con l’apetta, un po’ malmessa, che usava mio suocero per girare nei mercati ambulanti dei paesi, io invece arrivai con la vespa di cui disponevo allora: eravamo ancora fidanzati e andammo a trovare un cugino di mia suocera, zi’ Luigi, con il quale essa non si vedeva da tempo, in pratica da quando, alla fine degli anni ‘30, aveva lasciato Villalago per trasferirsi con il marito, fresco d’altare, sulla costa. L’impressione che ricavai dal mio primo incontro con le gole del Sagittario, mentre mi inoltravo con la mia vespa lungo la strada che da Anversa porta a Villalago, fu straordinaria. L’orrido del burrone, in certi tratti anche assai profondo, mi affascinava, ma nello stesso tempo ero fortemente preoccupato dalle trappole di un percorso stretto e pieno di curve, in molti punti scavato nella montagna e quindi con grandi speroni di roccia incombenti sulla testa di chi vi transitava, a ogni curva poi sembrava che il burrone, sempre così a ridosso della strada e tanto somigliante a un girone dantesco, ti dovesse inghiottire da un momento all’altro! Altrettanto emozionante fu l’impatto con Villalago. Il paesino, che giace come un presepe lungo un costone di montagna a strapiombo sulla diga artificiale di S. Domenico, mi piacque subito. Mi piacquero subito anche le stradine strette e incassate tra lunghe file di case basse e disadorne che si inerpicano verso la parte alta del paese, anche se le scalinate, a volte assai ripide, che da esse si diramano per raggiungere le abitazioni del centro storico, ci avvertirono già allora della fatica necessaria per scalarle, una fatica che oggi naturalmente si fa sentire ancora di più non solo per l’età quanto, soprattutto, per le troppe cose che, ogni volta che andiamo a Villalago, bisogna scaricare dalla nostra Audi 80 del ‘92 e portare fino a casa. 202 La casa di mia suocera, invece, allora assai malridotta e utilizzata da un vicino come stalla per le galline e ripostiglio per la legna, non mi parve granché. Essa aveva tuttavia una buona posizione panoramica. Costruita, forse nel ‘700, sul ciglio del grande burrone sul cui fondo scorre il Sagittario, che proprio all’altezza di Villalago emerge all’aperto dal percorso sotterraneo seguito fino ad allora, è possibile ammirare da essa dei paesaggi diversi e tutti bellissimi. Dalla finestrella, che si apre sullo strapiombo, si scorgono le acque azzurrine e limpidissime della diga lunga e stretta di S. Domenico, mentre dagli abbaini sul tetto ti si stagliano di fronte, ad est, il massiccio calvo del Monte Genzana tagliato dalla grande frana che diede origine al bellissimo lago di Scanno e, sul lato opposto, la grande mole della Montagna Grande dove mia suocera, quand’era ragazza, si recava, assieme alle sue coetanee, a raccogliere la legna che poi riportava in paese caricandosela sulla testa; inoltre, davanti casa, dal pianerottolo che interrompe la sequenza di scale che porta alla nostra abitazione, si può invece allungare lo sguardo verso la parte bassa e più recente del paese e via via seguire il paesaggio assai brullo e tormentato della valle che sfocia, dopo qualche chilometro, nel lago di Scanno. A quella prima visita però non ne seguirono altre, se non una decina di anni dopo, in occasione del matrimonio di Michele, il figlio di zi’ Luigi. L’occasione fu buona non solo per rinnovare la sua conoscenza, ma anche per farci invitare a passare l’estate a casa sua. Noi ovviamente accettammo e così, per un paio d’anni, fummo prima suoi ospiti e, poi, di una zia di Rosetta con la quale erano intanto ripresi i rapporti: zia Assunta, che poi emigrò in Canada per raggiungere i figli, essa ci propose anche di acquistare la sua casa, per un prezzo del tutto accettabile, ma noi, purtroppo, non avevamo una lira! Cominciammo invece a frequentare assiduamente Villalago, solo dopo che, finalmente, avemmo a disposizione, rimessa a nuovo, la casa di mia suocera. Fu, all’incirca, tra il ‘77 e il ‘78, e da allora tutti gli anni, nel mese di agosto, vi passiamo una ventina di giorni, oltre a qualche fine settimana, quando il tempo è bello, a primavera o agli inizi dell’estate. Ogni tanto naturalmente, durante l’anno, soprattutto in occasione delle feste, facevamo una scappata anche a Orsogna, dai miei. Ma vi restavamo in genere solo poche ore, il tempo per il pranzo e per scambiare quattro chiacchiere con i miei genitori e le mie sorelle che di solito, nel pomeriggio, arrivavano anch’esse da mia madre, e poi, più tardi, con i compagni e gli amici in piazza. In primavera o d’estate, non mancavamo neppure, prima di ripartire, di fare una tranquilla passeggiata lungo il bel viale, con ai lati i due filari di pini piantati nell’immediato dopoguerra dall’Amministrazione repubblicana, che dalla piazza porta alla stazione. Solo una volta invece, nel 1965, quando i miei abitavano ancora in campagna, abbiamo passato con loro le vacanze. Ricordo che era il mese di agosto e Massimiliano aveva solo poco più di un anno, ma fu un disastro e da allora non si parlò più di vacanze a Orsogna. Il caldo, le zanzare, l’assenza di servizi, le difficoltà a trovare tutto quel che serviva per il bambino ci convinsero che era meglio passare altrove l’estate. Ma di quella vacanza disgraziata ricordo soprattutto un episodio che capitò durante le 203 feste di S. Rocco e che rappresentò la goccia che fece traboccare il vaso. In quei giorni, la sera, tornavamo tutti in paese e Massimiliano era ben contento di ritrovarsi tra le tante luci della festa. Ma, mentre la sera di ferragosto il bambino rimase tutto tranquillo nel suo passeggino, fino a ora tarda quando si spengono le luci della festa, la sera del 16 invece, proprio il giorno dedicato a S. Rocco, a un certo punto attacca con i capricci del sonno e non riusciva ad addormentarsi. Rosetta allora decide di tornare subito a casa, e così con la macchina l’accompagno fino davanti alla porta della masseria e torno di corsa in paese per godermi il resto della festa, mai pensando, mie care nipoti, che la nonna si potesse trovare in difficoltà. E invece fu proprio quel che accadde; ed essa è ancora lì, a recriminare contro mia madre che non le aveva dato la chiave del piano di sopra dove si trovavano le camere da letto! Lei, infatti, appena entrata in casa, aveva preso subito la strada delle scale per andare a mettere il bambino a dormire, ma quale non fu la sua sorpresa quando trovò la porta sbarrata: mia madre, per paura dei ladri, l’aveva chiusa a quattro mandate, ma si era scordata di darle la chiave e così quando, a festa finita, tornammo anche noi a casa trovammo Rosetta che ci aspettava seduta sulle scale, con il figlio addormentato in braccio e il volto naturalmente rabbuiato e stanco... Nella seconda metà degli anni ‘70, tuttavia, questo clima di tranquilla normalità fu rotto da due avvenimenti luttuosi. Prima, dalla morte, nel dicembre del 1977, di Gino, il marito di Nicoletta, la mia sorella minore; e poi, l’anno successivo, il 7 dicembre del 1978, da quella di Peppino, il mio fratello più piccolo. Gino, tornato da non molto tempo dalla Germania, dove era emigrato e aveva lavorato per parecchi anni, assieme alla moglie, riuscendo così ad accumulare il denaro sufficiente per costruirsi una casetta in campagna, con un po’ di terreno attorno, morì, ancora giovane, in un modo del tutto inatteso e improvviso, nell’ospedale S. Camillo di Chieti; e ciò non fece che accrescere il dolore di tutti e il rimpianto per una morte non solo così immatura ma forse anche possibile da evitare. Gino si era ricoverato in ospedale, nell’inverno del ‘77, per una banale quanto fastidiosa bronchite che sembrava non volesse proprio lasciarlo, ma dopo qualche settimana di cure la bronchite era scomparsa e i medici avevano fissato la data del suo ritorno a casa. Ma il destino gli fece un bruttissimo scherzo e si accanì contro di lui. Il giorno prima di uscire gli venne infatti praticata una iniezione che provocò una reazione anafilattica che i medici non avevano in nessun modo messa nel conto delle possibilità: risultato, la morte istantanea, e il compagno di stanza, a cui aveva chiesto pochi minuti prima di comprargli il giornale, lo ritrovò disteso per terra, ormai senza vita! Mia moglie, a cui un primario amico aveva comunicato qualche giorno prima, per telefono, la data della sua uscita dall’ospedale, dallo stesso primario apprese, sempre per telefono, anche la notizia della sua morte: la sua reazione fu una sola, mettersi a gridare... A distanza di appena un anno, la morte di mio fratello. Anche in quel caso si trattò di una morte improvvisa e inaspettata. Mia madre lo trovò, la mattina della vigilia dell’Immacolata Concezione, morto nel suo letto, senza che avesse mai accusato in quei giorni o durante la notte qualche malore. Come ci disse il medico, 204 c’era stato un arresto cardiaco che l’aveva fulminato, attorno al letto del resto non venne trovato nulla che potesse far pensare alla ripetizione di un gesto che egli aveva tentato qualche anno prima a Pescara. Peppino, quando morì, aveva appena 23 anni, era dunque nel fiore della giovinezza. Ma la morte, bisogna dire, fu per lui come una liberazione a causa delle gravi crisi di personalità che lo tormentavano ormai da alcuni anni e lo stavano distruggendo a poco a poco. Che vita avrebbe mai potuto essere la sua? Egli era nato nel ‘55, quando mia madre aveva già superato la quarantina e i suoi fratelli e sorelle maggiori avevano preso o stavano per prendere ognuno la propria strada, lontano dalla casa paterna. Il parto, gemellare, fu molto difficile, al punto che mia madre, che partorì a casa, venne colpita da una forte emorragia da cui si salvò solo per miracolo (ricordo che corremmo a prendere il sangue per la trasfusione all’ospedale di Chieti io e mio zio Antonio che possedeva allora un furgoncino piuttosto scassato con il quale lavorava): egli sopravvisse, ma il gemello morì appena nato. Tuttavia, pur vivendo in casa quasi come un figlio unico e con genitori ormai anziani, la sua infanzia e la sua adolescenza furono del tutto normali. A scuola andava bene, aveva i suoi amici in paese e, dopo le medie, si era iscritto a un istituto tecnico di Lanciano, forse avrebbe preferito fare un altro tipo di studi, ma, pur tra difficoltà nella fase conclusiva dovute al malessere che lo aveva già colpito, riuscì tuttavia a conseguire il diploma di perito. A me e alla mia famiglia egli era molto legato, e veniva spesso da noi già da quand’era poco più che un bambino. Ricordo che spesso rimaneva per settimane a casa nostra, sia quando abitavamo a Chieti sia quando ci trasferimmo a Vasto. Ricordo anche che ce lo portavamo spesso con noi quando facevamo qualche gita, negli anni in cui avevamo cominciato a frequentare le varie località della nostra montagna; e, siccome la sua età era più vicina a quella dei miei figli che alla mia, egli giocava naturalmente con loro. Un bel giorno però, nell’età che segna il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, la sua vita cambiò radicalmente. Quel giorno fu come se un demone si fosse impadronito di lui, trasformando la sua vita in un tunnel senza luce da cui uscì solo con la morte. Divenne irrequieto, svogliato, incapace di dominare le sue emozioni o di soffermare a lungo la sua attenzione su qualunque cosa, ossessionato dai suoi fantasmi, come se il demone che lo possedeva lo stringesse forte alla gola e lo spingesse inesorabile verso luoghi ignoti, senza ritorno. Anche quando la malattia lo aveva preso, egli continuò a venire spesso da noi, trattenendosi anche allora a lungo. La nostra casa era diventata per lui come un rifugio e, forse, come il luogo dove pensava di poter ritrovare la normalità perduta, ma neppure questo, ahimè!, lo aiutò a tornare su un sentiero che era ormai smarrito per sempre, a ridiventare padrone di se stesso e del suo futuro. Quando mi avvertirono della sua morte, io ero a una riunione di partito a l’Aquila. La notizia fu come un colpo al cuore; e durante il ritorno a casa, accompagnato dai compagni de l’Aquila, mi invase come una tristezza mortale per un destino che si era consumato così rapidamente e con tanta spietatezza. 205 206 Capitolo XI Eh sì, mie care nipotine! Finalmente, dopo un inverno lungo e noioso e anche particolarmente freddo, la primavera è tornata di nuovo a sbocciare. E anche se oggi noi non possiamo, come una volta, rallegrarci dell’arrivo della bella stagione (perché essa, purtroppo, non è più così tanto bella) e inneggiare, come faceva un antico poeta provenzale, Arnaut Daniel, ai dolci gorgheggi e gridi, / ai lai e ai trilli e canti degli uccelli; o, seguendo la voce mielata di Jaufre Rudel, stupirci per l’acqua della fonte che si schiarisce o per l’apparire della rosa di macchia, la rosa aiglentina, lungo le siepi che costeggiano le strade, mentre l’usignolo in mezzo ai rami / modula e svaria e dispiega / il suo dolce canto e l’affina, tuttavia possiamo ugualmente allietarci per quel che ha portato agli italiani questo interminabile aprile del 2006. Ma già vi sento: Nonno, ma che mai è accaduto di tanto importante da giustificare un inizio così forbito ed enfatico? Beh, è accaduto che finalmente, in questo aprile piuttosto incerto e piovoso, sia pure con un risultato al cardiopalma, il Cavaliere è stato disarcionato e ha perso le elezioni politiche. Quando voi sarete grandi, probabilmente il nome di Berlusconi non sarà più che un semplice flatus vocis. E solo Valentina forse, che corre ormai verso gli undici anni, di questi giorni così convulsi e dell’ansia in cui è stato precipitato il popolo del centrosinistra dall’andamento lento (oltre ogni misura) e gomito a gomito dello scrutinio dei voti nei seggi elettorali conserverà qualche vago ricordo. Anche lei, durante quelle lunghe ore, ha sofferto, ma la stagione che oggi essa vive è rivolta al futuro e quindi le sue preoccupazioni di quel giorno sono destinate presto a svanire e disperdersi nel penetrale amplum et infinitum della memoria, e chissà se mai, un giorno, il ricordo di queste preoccupazioni sarà in grado di risalire alla superficie. Berlusconi è stato invece per l’Italia di sinistra di questi anni un vero e proprio incubo, anche se spesso dentro le forme arlecchinesche della commedia dell’arte. La mia speranza oggi è che tutto il centrosinistra, pur scontando le grandissime difficoltà determinate sia dal risultato elettorale che dallo stato comatoso della nostra economia, si metta la mano sulla coscienza e sappia governare bene, dimostrandosi all’altezza del compito di rilanciare il Paese e riaprire la porta del futuro alle giovani generazioni. E si dimostri capace anche di condurre una grande battaglia culturale per sradicare il berlusconismo che ha radici così profonde nella pancia dell’Italia. Non è frutto del caso, infatti, che in queste elezioni Berlusconi sia riuscito a portare alle urne anche quei tantissimi italiani che pure erano rimasti delusi del suo governo ma che tuttavia sono tornati ugualmente a votarlo perché hanno visto in lui il baluardo contro quel che questa Italia considera il male assoluto come pagare tutti le tasse, avere tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità, considerare il rispetto delle regole e delle idee ed esigenze degli altri il fondamento stesso di ogni convivenza civile, non fare del diritto del più forte la regola del governare. Non sarà facile, me ne rendo ben conto, né sbarazzarsi di Berlusconi sul piano politico 207 né estirpare il berlusconismo. Ma è un’impresa che vale assolutamente la pena di tentare, con tutta la determinazione necessaria e facendo appello a tutte le risorse dell’intelligenza, un’intelligenza flessibile, di cui pure la sinistra in altri momenti ha saputo dare prova. Ma torniamo alla nostra usata fatica. E perciò, come Jaufre Rudel, riprendo anch’io oggi, all’arrivo della primavera, con la mia piccola voce il mio piccolo canto: dreitz es qu’ieu lo mieu refranha. I circa tre anni passati a Pescara, alla direzione della federazione, non furono facili; e le difficoltà nascevano certo, in primo luogo, da ragioni di carattere locale, ma esse si intrecciavano anche strettamente con i grandi problemi di natura nazionale che si erano affacciati in quegli anni. All’epoca, di questo intreccio io stesso non avevo la consapevolezza necessaria. Sembrava allora che tutte le difficoltà nascessero dal modo in cui era stato diretto negli anni precedenti il partito. Oggi invece, guardando alla storia di quel periodo con gli occhi del dopo, la forte incidenza della vicenda nazionale su una realtà di partito già di per sé in affanno, come era allora quella di Pescara, mi pare fuori di ogni dubbio. Ma andiamo avanti con ordine. Il passaggio dal Comitato regionale alla federazione di Pescara avvenne agli inizi del ‘79, nel mese di marzo, all’indomani del Congresso provinciale che si tenne a Montesilvano, in uno dei tanti alberghi della riviera. Era tempo, infatti, di Congressi di federazione quel periodo, per la elezione dei delegati al XV Congresso nazionale del PCI che si sarebbe svolto a Roma di lì a poco, tra fine marzo e inizi aprile: un Congresso importante, bisogna dire, perché arrivava appena dopo la nostra uscita dalla maggioranza di solidarietà nazionale e alla vigilia delle elezioni politiche anticipate, che si terranno poi nel mese di giugno, provocate appunto dalla fine del nostro sostegno esterno al governo Andreotti. Anche se non delegato da nessuna delle sezioni della provincia o della città, io partecipai tuttavia a pieno titolo al Congresso della federazione, non come semplice spettatore: era ormai noto a tutti che sarei stato io il prossimo segretario provinciale. Perciò non solo intervenni nel dibattito in assemblea, ma presiedetti di fatto anche la Commissione elettorale che decideva della composizione degli organismi di direzione del partito e della scelta dei delegati al Congresso nazionale. La elezione a segretario avvenne ovviamente, com’era ormai nella prassi, appena dopo la conclusione del Congresso provinciale, con la riunione congiunta, nello stesso albergo nel quale si erano svolti i lavori congressuali, del Comitato Federale e della Commissione Federale di Controllo. Ma perché questo mio passaggio dal Comitato regionale alla federazione di Pescara? Ho già accennato all’esistenza di problemi di carattere locale. In sostanza i compagni, sia a Pescara che in provincia, erano profondamente insoddisfatti del modo in cui veniva diretto il partito da parte del gruppo di giovani cui la federazione era stata affidata nel precedente Congresso. E non c’era solo, da parte delle sezioni, la richiesta, ricorrente nel PCI quando le cose non andavano bene, di maggiore democrazia interna. C’era soprattutto l’accusa al 208 gruppo dirigente di aver abbandonato le sezioni a se stesse e di aver portato il partito allo sbando, sia sul piano organizzativo che politico. Era poi evidente, nella discussione interna, la contrapposizione che si era creata tra i maggiorenti del partito e i giovani che avevano nelle loro mani le leve del potere. Tra gli stessi giovani, poi, si coglievano sempre più spesso rotture e disaccordi che non aiutavano certo a far andare meglio le cose né ad accrescere la loro credibilità e autorevolezza. La situazione non era, forse, ancora giunta al punto drammatico denunciato dai compagni, ma certo essa era ormai fortemente compromessa. E così ero stato chiamato io a cercare di rimettere le cose sul giusto binario. Non è che di questa chiamata io fossi entusiasta, mi solleticava però la possibilità, che mi veniva offerta, di cimentarmi in una impresa ben più complessa e difficile di quelle affrontate fino a quel momento, non si dimentichi infatti che Pescara era allora (e rimane ancora oggi) l’unica vera realtà urbana della regione, e così accettai, deciso come sempre a dare il meglio di me anche in questa occasione. D’altro canto, non avrei potuto fare diversamente. Pur magari preferendo in più di una occasione scelte diverse, tuttavia, di fronte alle esigenze che volta a volta il partito mi ha posto, in me è sempre prevalsa la logica (stavo per dire l’etica) del dover essere, con un senso della disciplina e della responsabilità oggi sicuramente considerato eccessivo, ma che allora era parte, del tutto scontata (sarebbe stato strano il contrario), del modo di essere di un militante comunista, tanto più se funzionario. E, proprio perché animato da questa logica, non mi è mai passata per la testa l’idea che un simile atteggiamento potesse essere sbagliato. Oggi, a distanza di anni, pur essendo ancora profondamente convinto che l’etica della responsabilità, come frutto di una libera scelta e non di imposizioni, è ancora essenziale in politica, tuttavia mi pare che forse una maggiore laicità in queste cose sarebbe stato utile anche allora. Ma con il PCI era così: l’etica del bene comune (di cui faceva parte anche l’interesse del partito) prevaleva sempre su tutto, forse qualche volta più del giusto... In ogni modo, mi misi anche questa volta subito al lavoro, senza risparmio. Puntando innanzitutto a ricostruire una maggiore unità al nostro interno, condizione indispensabile per far ripartire il partito. Da questo punto di vista, ricordo che ci muovemmo in più direzioni. Da un lato dando spazio a forze nuove e confermando (con le eccezioni necessarie, naturalmente) in posti di responsabilità i compagni giovani che avevano diretto fino a quel momento il partito, dall’altro mantenendo o anche reimmettendo negli organismi dirigenti più ristretti i compagni con maggiore storia e forza politica in città che in precedenza ne erano stati esclusi. Debbo dire che la cosa complessivamente funzionò e, anche se non schiuse davanti a noi grandi prospettive, ci consentì tuttavia di affrontare in modo serio, sia pure con grande fatica, appuntamenti come le imminenti elezioni politiche, le elezioni amministrative e regionali del 1980 e poi, nel 1981, un referendum importante come quello sull’aborto. Cercammo naturalmente anche di riprendere subito il rapporto con le sezioni e di dargli continuità. Rimettemmo inoltre in piedi il Comitato cittadino della città, e costituimmo anche i Comitati di zona della Vallata del Tavo e della Valpescara, dove era forte la 209 presenza operaia. Molto più difficile invece si presentò la possibilità di rilanciare la iniziativa politica esterna del partito, sia in città che in provincia. Da questo punto di vista, non erano pochi gli ostacoli. A partire da quelli di natura nazionale. Soprattutto dopo i risultati delle politiche del ‘79 che anche a Pescara non furono affatto buoni. In quei mesi non era difficile, del resto, percepire tra la gente il cambiamento di clima che si era prodotto nei nostri confronti, in particolare in città dove si stava radicando, come già a livello nazionale, l’asse DC-PSI che dominò poi Pescara, in tutte le sue varie articolazioni, per tutti gli anni ‘80. Tutto questo naturalmente influiva in modo negativo sulle nostre sezioni, rafforzando atteggiamenti di chiusura e settarismo già largamente presenti, d’altronde, nelle maggiori sezioni della provincia e in alcune grandi organizzazioni di base della città come la Grieco, la Di Vittorio, la Curiel, la Togliatti. La sezione più aperta era la Gramsci, ma non aveva lo stesso peso delle altre. D’altra parte, le stesse scelte nazionali spingevano in questa direzione. Il fallimento della politica di solidarietà nazionale aveva convinto Berlinguer ad aprire alle posizioni di Ingrao, e questo non favorì certamente l’apertura del PCI ai nuovi processi in atto in Italia e nel mondo, anzi... In questo modo il PCI stesso contribuì ad avviare una fase di sostanziale isolamento, accentuato anche dal fatto che nel frattempo eravamo in pratica rimasti privi di una reale strategia capace di tenerci ancora in partita: dal XV Congresso non era uscita nessuna nuova indicazione strategica; e il compromesso storico, che pur era stato di fatto riconfermato, non aveva ormai più le gambe per camminare. Si aprì dunque, in quei mesi, un periodo di grande confusione per noi. E anche il tentativo di qualche anno dopo, all’indomani del terremoto che colpì in modo disastroso l’Irpinia, di lanciare la proposta dell’alternativa democratica apparve subito chiaro che, così come essa era stata costruita e formulata, non aveva proprio alcuna possibilità di rovesciare le tendenze in atto, con la conseguenza che, per la prima volta forse, il PCI non era in grado di indicare agli italiani, in un momento di grandi cambiamenti e con una situazione politica completamente mutata rispetto a qualche anno prima, una direzione di marcia nuova e credibile. Di questa difficoltà di natura strategica, ricordo che in quegli anni solo in gruppi molto ristretti, e in modo peraltro assai vago, ci si cominciava a rendere conto, mentre alla base di queste preoccupazioni arrivava poco o nulla. C’era malessere certo, ma la grande fiducia in Berlinguer, che restava intatta nonostante le sconfitte, era sufficiente a rassicurare i compagni. E anche quando, attorno ad alcuni nodi, il confronto si fece aperto e a volte anche aspro, era difficile però che posizioni diverse da quelle del segretario del partito trovassero molta udienza in periferia: questo accadde, ad esempio, sia in occasione delle polemiche che si accesero nel PCI sulla proposta di alternativa democratica e del rapporto con il PSI sia sull’idea, lanciata da Berlinguer, della diversità del PCI rispetto agli altri partiti. Produceva poi i suoi frutti, in termini di settarismi di ritorno, soprattutto il fatto che, dopo il fallimento della solidarietà nazionale, lo stesso Berlinguer aveva spostato più a 210 sinistra il baricentro della politica del PCI, con riflessi pericolosi anche sul terreno delle alleanze sociali, dove la tradizionale politica togliattiana di alleanza con i ceti medi produttivi veniva, ad esempio, messa in naftalina per dare un rilievo privilegiato ai ceti cosiddetti deboli. Anche lo scontro che ci fu, sul finire del ‘79 se non ricordo male, tra Giorgio Amendola e la grande maggioranza del partito, attorno a posizioni come quelle sostenute da Amendola che, negli anni successivi, dovevano divenire merce corrente e ispirare le scelte di politica economica e sociale prima del PDS e poi dei DS, è parte di questo processo di progressivo slittamento del PCI verso una sorta di arroccamento politico e ideologico. Lo scontro ebbe origine dalla pubblicazione, su Rinascita, da parte di Amendola, di un articolo che all’epoca fece scalpore fuori e dentro il PCI. Amendola metteva sotto accusa la linea dei sindacati, sostenuta anche dal PCI, di incontrollate rivendicazioni salariali, partendo dall’assioma che il salario rappresentava una variabile indipendente rispetto sia alla produttività che all’inflazione galoppante e all’enorme debito pubblico che si stava già allora accumulando; e condannava la concezione di esasperato egualitarismo che guidava le lotte sindacali come anche la difesa a oltranza di fabbriche ormai decotte, l’accettazione dei passivi delle imprese pubbliche e, in ultimo, l’estensione della scala mobile a tutte le categorie e la sua revisione a scadenza trimestrale che avrebbe avuto effetti sull’inflazione davvero disastrosi. Egli denunciava anche la pratica, non contrastata né dal sindacato né dal partito e ormai divenuta sistematica in molti luoghi di lavoro, del ricorso all’assenteismo da parte di settori operai che non faceva certo bene all’economia e alla stessa immagine del PCI e del sindacato. Insomma Amendola, con la sua solita franchezza e lucidità, poneva problemi di fondo ai quali sollecitava risposte realmente e coerentemente riformistiche e di governo che, se fossero arrivate, avrebbero dislocato il PCI su un terreno del tutto nuovo e capace di incidere profondamente sui processi di ristrutturazione in atto nel capitalismo italiano e forse avrebbero evitato, alcuni mesi dopo, la discesa in campo dei 40 mila camici bianchi della Fiat contro i sindacati e contro di noi che avevamo appoggiato l’occupazione della fabbrica conclusasi poi con una sconfitta cocente degli operai. Lo scontro finì al Comitato Centrale, dove Berlinguer ebbe naturalmente partita vinta, definendo le posizioni di Amendola come una rinuncia alla necessaria opera di rinnovamento del Paese e un cedimento verso chi, dall’esterno del PCI, poneva il problema del risanamento di un’economia malata separandolo appunto da quello del suo rinnovamento. In realtà, era invece proprio Amendola a porre nei termini giusti il problema perché, come si vide poi, l’inflazione e il debito pubblico si stavano già mangiando il presente e il futuro dell’Italia, non solo in termini di reddito, a svantaggio dei lavoratori e delle masse popolari. Ricordo che dello scontro che si consumò nel CC si discusse molto anche in periferia; ma anche qui Amendola, salvo poche voci, rimase isolato, con il risultato che, anziché fare un passo avanti, il riformismo del PCI fece parecchi passi indietro. Questo, in sostanza, era dunque lo scenario nel quale, in quel periodo, eravamo costretti a muoverci, uno scenario che non ci aiutava certo a uscire dalle difficoltà. 211 In più, lo svolgersi stesso degli avvenimenti nei mesi successivi al XV Congresso contribuì a sua volta a rendere ancora più aggrovigliate le cose e a deprimere lo stato d’animo dei compagni. A partire dal risultato delle elezioni politiche del ‘79 che, a Pescara e in provincia, fu addirittura peggiore di quello nazionale: meno 5% in città e meno 11% complessivamente nella provincia (a livello regionale l’arretramento fu invece solo del 3,8%), mentre la DC e il PSI si rafforzavano o tenevano, la DC anzi nella intera provincia toccò il tetto del 51%, una percentuale che non mi pare abbia mai raggiunto nel passato. Anche l’appuntamento elettorale del 1980, con le elezioni regionali e amministrative, non andò meglio. Conservammo, è vero, i tre consiglieri regionali conquistati nel ‘75 (regionalmente, il PCI mantenne 12 dei 13 seggi del ‘75) e, per la prima volta, Pescara elesse anche, tra molte resistenze ovviamente, una donna. Parlo di Giovanna Mancini, una cara amica, che si era affermata in città, come consigliere comunale, negli anni delle larghe intese al Comune. Ma si trattava solo di un contenimento delle perdite. Era chiaro invece il segnale politico che veniva dalle elezioni che non a caso determinarono, nella regione, un radicale passo indietro sul piano dei rapporti di forza e politici rispetto al ‘75, con l’affossamento definitivo delle larghe intese e il ritorno al rapporto privilegiato tra DC e PSI. La stessa cosa accadde al Comune. Nel ‘75, alle elezioni comunali, a Pescara il PCI ottenne un risultato straordinario che ci consentì di avere un ruolo assai rilevante nella vita cittadina negli anni successivi. Si costituì, tra l’altro, l’Ufficio del Piano, per il governo urbanistico della città, e fummo proprio noi a presiederlo, con Lino Di Re, un cattolico proveniente dal gruppo Esprit e originario di Chieti che proprio intorno alla metà degli anni ‘70 si era iscritto al PCI. Ma anche qui il risultato elettorale, non certo brillante, del nostro partito aprì la strada a una lunga diarchia DC-PSI. Insomma, a difficoltà si aggiungevano difficoltà. A dare la misura del nostro stato di salute in quegli anni, ricordo la fatica che ci costò la ricerca del capolista per il Comune, nella primavera del 1980. Tra i maggiorenti del partito furono in diversi a tirarsi indietro. Tutti sapevano che le cose non sarebbero andate bene e nessuno voleva cucirsi addosso il colore della sconfitta. Ma, cosa ancora più paradossale, non fu possibile candidare come capolista neppure uno di quei due-tre compagni che pur erano disposti a farlo, perché subito scattò nei loro confronti il gioco dei veti incrociati. Così, alla fine, fui costretto a candidarmi io, nella mia qualità di segretario di federazione, pur essendo chiaro a tutti che il mio rapporto con Pescara, anche per ragioni di tempo, non poteva certo dirsi esteso e intenso. Ma credetemi, mie care nipotine: di vicende come questa c’è poco da stupirsi, perché in tempi difficili la generosità non è mai molto di moda! Per mia fortuna, però, fui eletto bene, con molte preferenze, anche se poi, come consigliere, non durai a lungo: infatti mi dimisi subito dopo il mio trasferimento in Molise. Tuttavia, nonostante tante e così grandi difficoltà e sia pure con molta fatica, alcuni risultati riuscimmo ugualmente a conseguirli, mettendo ordine nella gran parte delle sezioni e rilanciando una certa presenza esterna del partito. 212 Ricordo, ad esempio, quel che accadde per le feste de l’Unità, tra il ‘79 e il 1981 quando lasciai Pescara. Nell’estate del ‘79, all’indomani della grave sconfitta subìta alle elezioni politiche, nonostante alcuni nostri timidi tentativi, le sezioni, che erano proprio in ginocchio, si rifiutarono persino di parlare della organizzazione della festa de l’Unità in città. Le cose andarono invece diversamente nell’estate del 1980 quando, pur avendo alle spalle un risultato elettorale ugualmente scadente, ci riuscì tuttavia di allestire la festa de l’Unità. Non è che nelle sezioni ci fosse grande disponibilità, ma un certo numero di compagni disposti a impegnarsi, assieme ai funzionari dell’apparato, li mettemmo ugualmente insieme. E così organizzammo la festa al Florida, un bel parco al centro della città ridotto però all’epoca parecchio male e, se ben ricordo, addirittura chiuso al pubblico ormai da diverso tempo. Ma fu davvero una grande fatica! Non scorderò mai, ad esempio, i circa quindici giorni che furono necessari per smontare la struttura utilizzata per la festa, a causa della scarsissima quantità di forza-lavoro a nostra disposizione; né le tante notti passate alla serena, io e alcuni altri compagni, per evitare che il materiale -che avevamo avuto in prestito- venisse rubato o anche solo deteriorato. Anche durante i giorni della festa furono dolori, sempre per lo scarso numero di compagni impegnati nelle varie attività della festa. Ricordo, ad esempio, che alla cucina utilizzammo, come cuoco, un compagno emiliano in vacanza a Pescara in quei giorni che però si dimostrò subito disponibile e anche molto bravo. Ci preparò perfino gnocchi all’ortica, grazie anche all’eroismo di mia moglie che si avventurò di mattina presto nella campagna sotto casa per raccogliere l’ortica, serbandone poi per diversi giorni il ricordo sulle gambe. Di quei giorni ho vivo nella memoria anche un altro episodio. A tenere il comizio conclusivo la Direzione del partito aveva mandato Massimo D’Alema, che era allora il segretario nazionale della FGCI. Ricordo che, nel primo pomeriggio di domenica, me lo vidi piombare all’improvviso nel parco dove ero rimasto solo io a fare la guardia alle strutture della festa, in attesa dell’arrivo di altri compagni. Francamente ci rimasi un po’ male, avrei voluto fargli un’altra accoglienza... Ma, nonostante questi intoppi, la festa servì comunque a ridare un certo slancio al partito. Le cose andarono molto diversamente con la festa de l’Unità del 1981: fu una delle più belle feste che io ricordi. Quell’anno facemmo davvero le cose in grande, avendo a disposizione anche un ambiente eccezionale, quello del parco D’Avalos. Ci fu, intanto, un mare di compagne e di compagni, della città e della provincia, che si mobilitò per la organizzazione e le numerose attività della festa; e poi una partecipazione popolare straordinaria, resa possibile anche dal fatto che lanciammo, lungo tutta la costa, con un aereo noleggiato per l’occasione, un gran numero di volantini per far conoscere le tante iniziative in programma. Ricordo che ci fu anche una grande partecipazione di zingari che si riversarono soprattutto sulla pista da ballo della festa di cui era responsabile un compagno della Di Vittorio. Anche il concerto a pagamento che, nell’ambito della festa, organizzammo allo stadio 213 Adriatico con Lucio Dalla, ottenne un grande successo di pubblico e finanziario. Di quella iniziativa ricordo, tra l’altro, anche qualche episodio curioso. Il primo riguarda Giorgio Bocca che si presentò allo stadio per assistere allo spettacolo: ebbene, nonostante si trattasse di un giornalista molto noto (e anche molto bravo), uno dei compagni addetti ai botteghini si rifiutò di farlo entrare, a meno che non pagasse il biglietto...! Che cosa spingesse il compagno a cercare di impedire a Bocca l’ingresso allo stadio francamente non so dirlo, probabilmente egli doveva stargli antipatico perché spesso il giornalista di Repubblica scriveva articoli assai critici nei nostri confronti, sta di fatto comunque che non fu facile convincerlo a dargli il via libera. L’altro riguarda Lucio Dalla; e si tratta della lunga e defatigante trattativa che ingaggiammo con lui, dopo il concerto, per tentare di fargli abbassare un po’ la cifra assai elevata che ci aveva richiesto, ma fu fatica vana: da quell’orecchio, Dalla proprio non ci sentiva! (Di questo episodio conservo anche una fotografia apparsa qualche tempo dopo su un opuscolo, pubblicato dagli organizzatori dei suoi spettacoli, che riportava le performances stagionali dell’allora già celebre cantautore, nella quale si vedono da un lato Dalla che aspetta di avere i soldi e dall’altro io e l’amministratore della federazione, Ezio Ventura, che, molto a malincuore, gli mettiamo davanti, sul tavolo, un bel numero di bigliettoni da centomila lire). Insomma, nonostante le sconfitte subìte e con uno scenario nazionale come quello che ho prima ricordato, le cose stavano girando un po’ meglio per noi rispetto ai mesi precedenti. E la ragione era semplice. Il PCI rimaneva sempre un grande partito, con un numero di militanti che nessun altro poteva vantare. E poi avevano contato certamente anche il nostro lavoro e la nostra tenacia. Tuttavia, l’esperienza pescarese non era destinata a durare a lungo; e infatti si interruppe dopo solo poco più di due anni e mezzo, all’indomani della festa de l’Unità al parco D’Avalos. La possibilità di una mia utilizzazione in Molise, come segretario regionale, con l’obiettivo anche lì di rimettere in sesto una situazione profondamente deteriorata, con un partito diviso e un gruppo dirigente in preda a feroci lotte intestine, mi fu affacciata per la prima volta, durante la festa de l’Unità al parco D’Avalos, da Pio La Torre. Pio dirigeva allora la sezione meridionale del PCI ed era venuto a Pescara per partecipare a una delle iniziative in programma durante la festa. Se dicessi solo che la proposta mi colse di sorpresa, un vero fulmine a ciel sereno, non direi tutto. In realtà, essa mi spiazzò di brutto: era una proposta che avrei preferito non fosse stata neppure pensata... L’idea che io potessi andare fuori dell’Abruzzo non mi aveva infatti mai sfiorato, neppure lontanamente, anche se negli anni precedenti avevo girato mezza regione e mi ero abituato ormai a non fermarmi troppo a lungo in un posto. Ma fuori regione...! Ecco un’ipotesi che non ho mai preso in considerazione, neppure per gioco. Anche perché, a essere sincero, in quel periodo le mie aspettative andavano in tutt’altra direzione. 214 Mi sembrava ragionevole, infatti, che, dopo Pescara, io potessi aspirare a ricoprire, in Abruzzo, l’incarico di segretario regionale del PCI; a spingere in questa direzione c’erano del resto e le tante esperienze positive fatte fino a quel momento, non solo a Chieti, e la stima nei miei confronti da parte dei compagni. Anche l’esperienza che stavo compiendo a Pescara mi sembrava che si potesse, anch’essa, considerare nel complesso positiva. Non c’era nulla, d’altronde, in quel momento, nel partito pescarese, che facesse pensare, sia pure in modo molto indiretto, che nel gruppo dirigente, o anche solo in una parte di esso, fosse maturata o stesse guadagnando terreno la convinzione della necessità di un ricambio ai vertici della federazione; né mi pareva di avvertire ostilità o anche solo insofferenza verso di me tra i compagni di base, anzi... Ricordo, infatti, che quando lasciai Pescara furono tante le manifestazioni di affetto e di apprezzamento che mi arrivarono. Del resto, se ancora oggi mi capita di trovarmi a mio agio con i compagni di Pescara, e loro con me, lo debbo proprio all’esperienza di quegli anni. Accade a tutti, naturalmente, di avere critiche e anch’io, com’è ovvio, ne ebbi: ma questo non aveva nulla a che vedere con il giudizio complessivo espresso sul mio lavoro. La mia prima reazione di fronte alla proposta di La Torre fu di attesa. Volevo pensarci e comunque avevo bisogno di prendere tempo. Anche perché dentro di me, al di là di ogni altro discorso, si faceva strada una preoccupazione non espressa ma corposa: che sarebbe accaduto dopo? Capita, infatti, a volte che uno pensa di avere in tasca il biglietto di andata e ritorno e invece ha solo quello di andata, ma se ne accorge solo quando è ormai troppo tardi... Così dissi a Pio che ci saremmo risentiti più in là. Ma le sollecitazioni da Roma cominciarono ad arrivare già appena dopo qualche settimana dalla nostra chiacchierata al parco D’Avalos, e non passò molto che lo stesso Giorgio Napolitano, divenuto con il XV Congresso responsabile nazionale dell’Organizzazione, mi convocò in Direzione. Con Napolitano il colloquio fu breve e, anche se gli feci presenti le mie perplessità e preoccupazioni, da esso uscii, com’era del resto prevedibile, accettando la proposta, con l’accordo che il trasferimento a Campobasso sarebbe avvenuto dopo l’estate, in autunno. E infatti mi trasferii a Campobasso intorno alla metà di ottobre. Lo feci con molto rammarico, ma, com’è sempre stato mio costume, facendomi carico anche in questa circostanza delle esigenze del partito. Questa mia scelta, l’unica veramente sofferta tra le tante che ho dovuto compiere nel corso della mia lunga milizia politica, si portò dietro naturalmente anche il rimpianto per quel che avrebbe potuto essere e non fu. Sia in quei giorni che dopo mi sono chiesto spesso perché mai e che cosa determinò una svolta così improvvisa e inopinata in quella che possiamo chiamare la mia carriera all’interno del PCI. La risposta che mi sono data dopo un certo tempo, e che all’epoca non riuscii neppure a intravvedere, è che in realtà quella svolta, se da un lato era certamente il frutto di circostanze fortuite, dall’altro nasceva anche dal mutamento che vi era stato nella linea nazionale del PCI. Vi era sicuramente una situazione difficile in Molise, e, com’era tradizione, si guardò 215 anche questa volta all’Abruzzo per affrontarla. Ma perché io? Beh, qui ha certo contato la scelta fatta da chi, in Abruzzo, avrebbe potuto autorevolmente far presente alla Direzione che forse era utile che io rimanessi nella regione, rivolgendosi in altre direzioni per il Molise, ma preferì invece tirarsi fuori per non essere poi costretto a toccare, nell’immediato o in un futuro prevedibilmente vicino, l’assetto regionale esistente: forse non aveva ben chiaro che comunque, come dice Ovidio, nulla potentia longa est e che, in un partito come il PCI, si è rivelato sempre conveniente, per chi ne aveva la responsabilità, fare a tempo e per propria scelta i cambiamenti necessari, e non aspettare di farseli imporre! Ma c’era anche un altro aspetto. Il cambiamento di alleanze al vertice nazionale del PCI aveva fatto riemergere anche in Abruzzo una vecchia anima ingraiana, che si era sentita emarginata lungo tutti gli anni ‘70 e che ora, collegandosi anche con le spinte per un avvicendamento generazionale che venivano dalle generazioni più giovani approdate nel partito proprio in quel decennio, pensò di poter avere di nuovo in mano i giochi nella regione. A essere sincero, non so quanto questo abbia concretamente pesato nella circostanza; ma è un fatto che, di lì a qualche anno, si andò a una soluzione per la segreteria regionale che portava proprio questo imprint. A guardare con l’occhio di oggi le cose, quella scelta non fu quindi solo il frutto del caso. Essa segnò invece l’avvio anche in Abruzzo di un processo che portò a un mutamento progressivo dei gruppi dirigenti, sia a livello regionale che nelle federazioni, e all’affermarsi anche nel PCI abruzzese delle forze più marcatamente legate alle posizioni dell’ultimo Berlinguer e di Ingrao. E furono proprio questi gruppi a dirigere il PCI negli anni ‘80 e, dopo lo scioglimento del PCI, anche il PDS. Naturalmente, questo mutamento non fu senza conseguenze sul partito e la sua politica e, in generale, sul rapporto della sinistra con la realtà regionale e le sue varie componenti sociali e culturali, anche negli anni successivi alla fine del PCI. Ci fu sicuramente un certo restringimento della nostra capacità di apertura all’esterno; e sempre più la propaganda prese il posto della politica, a sottolineare appunto le nostre difficoltà a trovare sponde nuove sia nel rapporto con le altre forze politiche che nella società. E anche il richiamo ideologico e moralistico, con la riscoperta di una specie di antagonismo culturale e politico vecchio stampo, assunse un peso nuovo nel partito rispetto al decennio precedente, in sintonia peraltro con quel che accadeva in quegli anni anche a livello nazionale, nel PCI prima e nel PDS poi. Ricordo, ad esempio, quel che avvenne nei primi anni ‘90 con la fine traumatica della giunta regionale diretta da Salini, travolta dagli scandali e dagli arresti dello stesso presidente e di vari assessori. Si discusse a lungo, allora, nel PDS sullo sbocco da dare a questa crisi. La quasi totalità del gruppo dirigente, con la benedizione di Occhetto, scelse la linea dello scioglimento del Consiglio regionale e di elezioni anticipate. Linea tecnicamente pressocché impraticabile, come poi i fatti si incaricarono di dimostrare, ma soprattutto politicamente sbagliata. Se fosse prevalsa la linea dello scioglimento, quasi sicuramente il risultato sarebbe stato l’alleanza della DC con la destra, anche perché alla proposta dello scioglimento non si 216 accompagnava nulla dal punto di vista della prospettiva politica ed elettorale. Per fortuna, le cose andarono diversamente. Rispetto alle posizioni sostenute dal partito, nel gruppo consiliare regionale prevalse invece largamente l’idea della ricerca di un accordo che portasse alla scadenza normale della legislatura; e così, nella primavera del ‘94, vide la luce una giunta, che comprendeva la parte superstite della DC, nella quale noi avevamo un ruolo di primo piano, e che, nel ‘95, spianò la strada a una alleanza organica di centrosinistra e ci consentì di vincere le elezioni regionali. Ricordo bene le discussioni di quei mesi nel partito. A sostenere la linea dell’alleanza con quel che restava della DC dopo gli arresti eravamo in pochi, e io ero tra questi. Dovevamo proporci noi, di fronte alla società abruzzese, come la forza capace di tirare fuori l’Abruzzo dal pantano nel quale era stato precipitato e portarlo sulla strada del rinnovamento: questa era la linea che noi indicavamo. Ma, a sostenerla, eravamo appunto in pochi. Ricordo, anzi, una riunione del Comitato Direttivo regionale nella quale a votare contro la proposta di scioglimento anticipato del Consiglio regionale fui io e (ma non ne sono sicuro) qualche altro. Io facevo parte allora del gruppo dei riformisti che, sul finire degli anni ‘80, si era costituito nel PCI a livello nazionale. Del gruppo facevamo parte in diversi tra i parlamentari abruzzesi; ma ero io quello che partecipava alle riunioni nazionali della componente e svolgeva funzioni di coordinamento a livello regionale, ricordo pure che organizzammo diverse riunioni a carattere regionale e tentammo di mettere in piedi anche qualche iniziativa unitaria con esponenti del PSI abruzzese, ma non ci furono grandi risultati. In quegli anni, evidentemente, nel PCI abruzzese il riformismo (coniugato, dalla maggioranza dei nostri gruppi dirigenti, spregiativamente, come migliorismo) non godeva di buona fama, come si vide del resto nella crisi regionale che tenne al palo l’Abruzzo tra il ‘92 e il ‘94... Ma della piega presa dalle vicende interne al partito dopo il mio trasferimento a Campobasso non mi pare il caso di ragionare oltre. Bastano questi pochi accenni. E’ il caso invece di tornare agli avvenimenti legati alla mia nuova destinazione e all’angoscia, che si era fatta ormai rassegnazione, di quei giorni: giorni che non ho mai dimenticato! Ma che oggi posso rivivere in modo diverso. Laetatum me fuisse reminiscor non laetus et tristitiam meam praeteritam recordor non tristis... Sono parole di S. Agostino, nelle Confessioni, che mi pare rendano bene il sentimento con il quale ho rivisitato in questi giorni proprio quel territorio della memoria nel quale sono depositati i tanti ricordi di questa stagione della mia vita. Secondo il grande vescovo di Ippona, la memoria contiene dentro di sé, dentro quel santuario immenso ed infinito che essa è e di cui nessuno conosce il fondo (quis ad fundum eius pervenit?, egli si chiede) anche i sentimenti, ma questi non li rivive allo stesso modo in cui li ha provati quando li ha vissuti. Dunque: rammento con malinconia le ore liete, e ricordo invece non triste la tristezza trascorsa... E così, mie care nipoti, anch’io oggi guardo a quegli avvenimenti ormai tanto lontani 217 senza l’amarezza e i timori di quei giorni difficili. Ma forse è l’esito che quelle vicende hanno avuto che oggi mi consente questo: qualche anno dopo il mio esilio a Campobasso ci fu infatti una nuova svolta nella mia vita che mi riportò in Abruzzo e mi consentì di approdare nel Parlamento della Repubblica. Evitando così di restare confinato a Tomi, come accadde al povero Ovidio del quale ancora oggi risuona tra noi il canto triste, così nuovo rispetto a quello suo consueto, nato nei lunghi anni dell’esilio, sotto i colpi della fortuna e di una terra inospitale, poenae tellus come egli la chiama, bruciata ab assiduo frigore e dove il mare non riflette le stelle, nell’attesa vana di un mutamento di destino che mai arrivò. 218 Capitolo XII Del Molise, quando decisi di accettare la proposta della Direzione del partito, conoscevo poco o niente. Tutte le mie conoscenze, in fondo, si riducevano a quel che di quelle zone montuose e a volte inospitali avevo letto nelle Storie di Tito Livio là dove egli racconta delle guerre dei sanniti contro Roma e, per venire ai tempi nostri, nei racconti e nei romanzi di Francesco Jovine. Né, del resto, avevo mai avuto l’opportunità di recarmi in Molise e di entrare in contatto con i compagni o comunque con gente del posto. Gli unici contatti in proposito, del tutto occasionali e fugaci, risalivano al periodo in cui lavoravo a Vasto. Ricordo, ad esempio, che in quegli anni spesso, in estate, portavamo i figli a Termoli dove, proprio a ridosso della statale Adriatica, era stata attrezzata un’area per i bambini, ricordo anche che una di queste nostre capatine fu l’occasione per ascoltare per la prima volta una chiacchierata in albanese di una famigliola che aveva condotto anch’essa i bambini nel parco giochi. Ma non si era mai presentata l’occasione di intrecciare con chicchessia una qualche amicizia. C’era stata poi la gita a Canneto e, in un’altra circostanza, una corsa ad Agnone, la cittadina molisana nota per le campane che esporta in tutto il mondo, assieme a un compagno di Castiglione Messer Marino (se non vado errato, era Felice Del Vecchio), per far stampare i simboli di una lista civica da presentare alle elezioni comunali del bellissimo paesino dell’Alto Vastese. Anche del partito non conoscevo in pratica nessuno. Anche qui, quand’ero a Vasto, avevo avuto degli incontri con qualche sindacalista e dirigente del PCI molisano per le manifestazioni organizzate davanti alla SIV, dove erano tanti i lavoratori che arrivavano dal Molise. Ricordo, in particolare, i pochi incontri che ebbi prima con Nicola Crapsi, deputato del PCI molisano, e poi con Alfredo Marraffini, all’epoca segretario della federazione di Campobasso e che ritrovai poi, quando arrivai in Molise, deputato anche lui, già alla seconda legislatura (nel frattempo Crapsi era morto). Per il resto, nulla. Ricordo che Peppe D’Alonzo, che aveva svernato per ben quattro lunghi anni a Campobasso prima di approdare a Chieti, mi raccontava spesso episodi legati al suo lavoro e mi parlava quindi anche dei compagni che avevano diretto assieme a lui il partito molisano (all’epoca il Molise aveva una sola provincia, quella di Campobasso, e faceva regione con l’Abruzzo), ma questo ovviamente non mi metteva affatto in condizione di dire: beh sì, conosco qualcosa del Molise e dei comunisti molisani! Verso la fine di ottobre, partii così, senza sapere esattamente cosa mi aspettava, verso la nuova avventura che doveva coincidere con il mio ultimo incarico di direzione politica all’interno del PCI. In seguito, infatti, ho avuto solo incarichi di natura istituzionale: prima deputato e poi sindaco. E quando sono tornato a essere un semplice militante del PDS e, in seguito, dei DS, ho solo fatto parte degli organismi dirigenti provinciali e regionali del partito, senza più impegni di natura esecutiva. 219 E’ quel che io stesso, del resto, ho voluto, per avere così la possibilità di continuare a dare un contributo di idee e di esperienza al partito, ma anche di fare il nonno, cosa che mi piace molto, e di dedicarmi ai miei passatempi preferiti: le passeggiate, la lettura, la musica, i film, lo sport (quello televisivo, è ovvio!), le lunghe chiacchierate con gli amici sull’universo mondo... Ricordo che partii per Campobasso con una Golf rossa fiammante, l’auto che avevo appena acquistata grazie a un sostanzioso contributo finanziario da parte dell’Amministrazione centrale del partito, che però mi venne rubata, con mio grande disappunto, appena qualche settimana dopo il mio approdo nel capoluogo molisano. Ho ancora viva nella memoria l’angoscia che mi prese quando la mattina, arrivando sul posto dove ricordavo di averla lasciata la sera prima, non trovai traccia della mia povera Golf: mi misi allora a girare freneticamente di qua e di là nelle strade adiacenti dove di solito la parcheggiavo, ma nulla da fare, e così alla fine non mi restò che prendere atto della sua scomparsa e recarmi in questura dove appresi, ma con poca consolazione debbo dire, che non ero il solo derubato perché quella notte, proveniente dalle Puglie o più probabilmente dalla Campania, un gruppo ben organizzato di camorristi aveva imperversato in città e messo insieme un assai ricco bottino di auto... Ricordo anche lo spettacolo grandioso e audace che mi si presentò quando, lasciata l’autostrada, imboccai per la prima volta la statale per Campobasso, la Bifernina, che dalla costa porta verso l’interno della regione. Avevo percorso appena pochi chilometri ed ecco, all’improvviso, mi ritrovo, come sospeso nel vuoto, sul grande viadotto che si snoda, per tutta la sua lunghezza, sulle acque del lago artificiale del Liscione, il grosso invaso, di forma oblunga, realizzato negli anni ‘60-’70 del secolo scorso. All’altezza però di Guardialfiera, il paese nativo di Francesco Jovine, il paesaggio muta di nuovo: la superstrada si restringe e si infila in uno stretto e tortuoso budello che si inerpica faticosamente e diventa man mano un percorso quasi senza luce, lungo il quale dei paesi che lo fiancheggiano si intravvedono solo il bivio e la relativa indicazione, e non anche il profilo, perché tutti situati in alto e verso l’interno, per niente facili quindi da raggiungere, come potei in seguito constatare direttamente, a causa di collegamenti viarii rimasti più o meno tali e quali essi erano all’epoca dei Borboni. Un mutamento inaspettato e radicale di paesaggio, quindi, nello spazio di appena una manciata di chilometri, che mi colpì, ma che poi compresi, quando, nei mesi successivi, cominciai a girare un po’ la regione, come esso in realtà non fosse altro che una metafora del Molise, del suo territorio prevalentemente montuoso, accidentato e votato all’isolamento, dove la modernità era l’eccezione e l’arretratezza la regola. Il Molise, com’è noto, è una piccolissima regione, divenuta autonoma dall’Abruzzo solo nel dicembre del 1963, con una popolazione che supera di poco i trecentomila abitanti. Ma, come non lo sono oggi, neppure allora erano questi dati in sé il problema. Gli handicap veri erano l’isolamento anche rispetto alle regioni vicine, la dispersione della popolazione in comunità piccole, a volte addirittura minuscole, la presenza di un sistema viario interno rimasto immutato nel tempo, dove le distanze si misuravano non 220 dai chilometri ma dalle difficoltà del percorso, la diffusa arretratezza. Il Molise, poi, non aveva città, vi erano solo, all’incirca, una decina di più o meno grossi agglomerati di popolazione, su un numero complessivo di 136 comuni, che non contavano neppure granché nella vita della regione, proprio per la difficoltà degli spostamenti e delle comunicazioni. Questa difficoltà di spostamento è poi qualcosa che non riuscivi proprio a dimenticare, se ti trovavi a girare anche solo per un po’ nella regione. Ricordo, ad esempio, di quando mia moglie venne a trovarmi a Campobasso usando il treno: proveniente da Pescara, a Termoli prese la littorina che dalla cittadina adriatica porta verso Campobasso, ebbene il viaggio durò un’eternità per un percorso di appena 60-70 chilometri! Ma non è che fosse meglio spostarsi in auto. Con l’auto anzi, se ti accadeva di essere vittima di qualche guasto, rischiavi di restare bloccato, non si sa per quanto tempo e non solo di notte, in zone pressoché deserte, prima di incrociare qualche altro automobilista che ti prestasse soccorso! Una regione così conciata è chiaro che difficilmente può attendersi uno sviluppo ragionevole della sua economia; è nell’ordine delle cose, anzi, che il sottosviluppo alimenti se stesso. E infatti l’arretratezza era allora la peculiarità del Molise, non solo economica ma anche, naturalmente, culturale e politica. Solo qualche zona si salvava. Ad esempio, il Basso Molise, abitato anche dalla minoranza albanese e croata, dove era evidente, grazie all’insediamento della FIAT a Termoli, un certo benessere; anche nel Venafrano, con la presenza di piccole e medie attività produttive che avevano la possibilità di sbocchi commerciali verso il Lazio e la Campania, si notava un certo sviluppo. Ovviamente, anche la situazione politica della regione rifletteva, come uno specchio, quella socio-economica e culturale. Questo, anzi, era particolarmente vero per il PCI che più di altri pagava lo scotto dell’arretratezza e dell’isolamento. Nei circa due anni che ho lavorato in Molise, il numero dei Comuni che ho visitato per riunioni o iniziative esterne del partito è stato ristrettissimo. Ma non perché non avessi voglia di andare in giro. La verità è che la presenza del PCI sul territorio era molto limitata e si riduceva di fatto a Campobasso e Isernia, i due capoluoghi di provincia, al Basso Molise che aveva conosciuto negli anni ‘50 anche la presenza di un forte movimento bracciantile e per il lavoro, e poi ad alcuni altri comuni sparsi qua e là nella regione come S. Croce di Magliano, Casacalenda, Venafro. Per la DC, invece, la situazione era del tutto diversa. Da tempo immemorabile essa poteva disporre della maggioranza assoluta negli enti locali e al Consiglio regionale, che le consentiva di ridurre a un ruolo del tutto marginale i partiti alleati che erano comunque ben poca cosa dal punto di vista organizzativo ed elettorale; e proprio dell’arretratezza e dell’isolamento essa aveva fatto il predellino di lancio per la costruzione di un sistema di potere capillare e diffuso sul territorio, molto prodigo di favori sul piano clientelare ma scarsamente produttivo sul terreno dello sviluppo economico e sociale. Un partito strutturalmente debole, quindi, il nostro. Una debolezza alla quale però i nostri compagni reagivano, di solito, chiudendosi facilmente in uno sterile settarismo e 221 praticando assai di frequente lo sport delle furibonde liti intestine. Eppure, il nostro consenso elettorale non era, poi, di così poco conto. Vorrei ricordare, ad esempio, che il PCI molisano, nel ‘76, ha toccato il 26% dei voti; e, se pure negli anni seguenti ha visto fortemente ridursi la sua dote di consensi, come avvenne del resto in tutta l’Italia, tuttavia, sia nel ‘79 che nel 1983, il suo voto si è attestato intorno al 20%. Una percentuale di tutto rispetto, quindi, anche se ben lontana da quella di altre regioni, anche vicine. E la battuta di Berlinguer, nell’attivo regionale che tenemmo a Campobasso nell’ottobre del 1982, quando disse che anche i comunisti francesi avevano più o meno la stessa percentuale di voti del PCI molisano, non aveva valore puramente consolatorio, era un modo per dire che c’erano spazi su cui lavorare e ottenere risultati politici e organizzativi migliori. Ma perché questo avvenisse c’era bisogno di un altro tipo di partito, e anche di un altro contesto economico, sociale e culturale. Ma il partito era quello; così come il suo gruppo dirigente. E, ovviamente, anche il contesto. Quando arrivai in Molise non fu solo la litigiosità senza limiti del gruppo dirigente a impressionarmi, ogni pretesto era buono, mi colpì anche la tendenza assai diffusa tra i compagni, soprattutto tra gli intellettuali, a partire non dai problemi concreti della gente ma dagli schemi ideologici e culturali che ognuno aveva in testa. Da questo punto di vista, pur avendo alle spalle una lunga e variegata esperienza, raramente mi è capitato di aver a che fare con un modo di ragionare così farcito di astrattezze, anche se a volte le nebbie dell’ideologia servivano solo a nascondere obiettivi assai meno nobili. C’era perfino chi, in una realtà come quella del Molise, faceva l’operaista a oltranza e su questo misurava le scelte da fare, che si trattasse di scelte politiche, programmatiche o anche elettorali. Insomma, ci si trovava a ogni piè sospinto di fronte a settarismi, visioni minoritaristiche, che non portavano sicuramente il partito ad aprirsi anche in quelle realtà dove l’arretratezza e l’isolamento pesavano meno. Non che non ci fossero, nel gruppo dirigente regionale, compagni con posizioni più aperte e lungimiranti, non a caso con l’arrivo del bipolarismo abbiamo conquistato con alcuni di essi il Comune e la provincia di Campobasso e governato per un certo tempo la Regione, ma essi non rappresentavano certamente la maggioranza. E questo era vero anche nelle sezioni. Anche in quelle dove si registrava una certa presenza operaia: c’era anzi in genere tra gli operai della FIAT di Termoli (non così tra quelli che lavoravano nelle fabbriche del vastese) un estremismo quasi endemico che a volte sfociava, anche sul piano sindacale, in iniziative e comportamenti inaccettabili all’interno della fabbrica. Per parte mia, pur nei limiti delle mie capacità di comprensione di una realtà che mi era estranea come quella del Molise, ho cercato tuttavia di portare un contributo che aiutasse il gruppo dirigente a essere più solidale al proprio interno e, più in generale, sollecitasse il partito ad avere un progetto politico-programmatico, a fare meno propaganda e più iniziativa politica, ad aprirsi di più alla società, a superare visioni astratte e intellettualistiche e a muoversi tenendo conto di più della realtà e soprattutto dei problemi della gente. Non so quanto questo mio sforzo sia stato utile e abbia dato frutti, questo possono dirlo solo i compagni molisani, ma è un fatto che anche questa volta io ce l’ho messa tutta. 222 Mia preoccupazione primaria fu, naturalmente, la ricostruzione della unità del gruppo dirigente, premessa e condizione anche per tirarmi fuori dal Molise e da un incarico che non avevo in nessun modo cercato. Ma, debbo dire, purtroppo con scarso successo. E non furono pochi i momenti in cui lo scontro interno assunse toni anche violenti. Qualcuno di questi momenti l’ho già ricordato, come quello che si consumò alla presenza di Enrico Berlinguer. Ma il momento forse peggiore fu in occasione del Congresso provinciale di Campobasso, al quale era presente anche Antonio Bassolino in rappresentanza del centro del partito. Eravamo agli inizi del 1983, alla vigilia del XVI Congresso nazionale. La discussione nel Congresso provinciale fu infuocata, preceduta da discussioni altrettanto aspre nei Congressi delle sezioni; e il punto di partenza era il solito: quel che era accaduto negli anni precedenti, per cercare ognuno di arrivare a una resa di conti definitiva rispetto al gruppo avverso. La violenza dello scontro fu tale che il Congresso si concluse senza poter eleggere il segretario di federazione: si decise così che si sarebbe andati in un secondo tempo alla sua elezione, dopo una approfondita ricognizione della situazione che venne affidata naturalmente al segretario regionale. Non fu un momento facile per me, che mi ritrovai in mezzo a un fuoco incrociato, ma alla fine, dopo una consultazione paziente dei singoli compagni dell’organismo dirigente provinciale, riuscimmo a trovare un punto di incontro largamente condiviso: no alla riconferma del vecchio segretario, molto contestato, sì al compagno che io proposi e che mi sembrava l’unico in grado di imprimere una svolta a uno stato di cose che stava diventando sempre più drammatico. Eleggemmo così Norberto Lombardi, professore di filosofia al liceo classico di Campobasso in aspettativa e consigliere regionale: non era certo un compagno fuori della mischia, ma con sufficiente equilibrio e autorevolezza, anche all’esterno, aperto e fortemente legato alla realtà cittadina. L’altro momento di difficoltà che voglio ricordare fu quando, in procinto di tornare in Abruzzo per essere candidato dal partito a Chieti alla Camera dei deputati, nelle elezioni del 26 giugno 1983, dovetti affrontare e risolvere il problema del nuovo segretario regionale, con tempi peraltro assai ristretti a mia disposizione. Anche qui, dopo molte consultazioni e confronti defatiganti con i compagni, oltre che con la Direzione nazionale, alla fine riuscii a trovare la quadra: lo stesso Norberto sarebbe stato il nuovo segretario regionale, senza lasciare, per il momento, la federazione, a dirigere la quale avrebbe proposto poi lui stesso, senza fretta, il suo successore. Per una serie di ragioni il nome di Norberto era, anche questa volta, l’unico spendibile. Ma trovare prima il suo accordo e poi il consenso degli altri non fu affatto semplice. Costò anche qualche scontro con alcuni compagni, ma quel che decise della partita fu il patto non scritto tra i maggiorenti del gruppo dirigente regionale che prevedeva il deputato a Isernia, in occasione delle imminenti elezioni politiche, e la garanzia per il nuovo segretario della rielezione, per la terza volta, al Consiglio regionale. Ho lasciato definitivamente il Molise agli inizi di maggio del 1983. E il giorno che imboccai la strada del ritorno, in direzione dell’Abruzzo, c’era con me anche Rosetta. 223 Essa era venuta appositamente a Campobasso, proprio per darmi una mano in vista del rientro a Chieti; e così, mentre lei riordinava le cose da riportare a casa, io mi recai alla riunione del Comitato regionale del partito per sbrigare l’ultima formalità: il passaggio delle consegne al nuovo segretario regionale, alla presenza di un compagno del centro del partito, non ricordo bene se Renzo Trivelli o Gianni Giadresco, ex sindaco di Ravenna e deputato, che allora lavorava alla sezione di Organizzazione. Dopo la riunione, che si svolse in modo tranquillo, io e mia moglie non ripartimmo subito per l’Abruzzo: non solo perché era tardi, ma anche per finire di raccogliere e sistemare le mie masserizie. Così la notte dormimmo a Campobasso, nell’appartamentino in affitto che avevo occupato durante i mesi del mio non lungo soggiorno nella regione. Partimmo il mattino dopo, sul tardi; e debbo dire, mie care nipoti, che fu una partenza davvero senza rimpianti. La nonna, anzi, mi ricorda che, al momento di mettere piede sulla mia nuova Golf, che aveva sostituito quella rubata, esclamai con sollievo, come se mi fossi liberato da un incubo: Finalmente! Eh sì, quel giorno fu per me come una liberazione; e in quella esclamazione c’erano i tanti momenti di sconforto vissuti in solitudine durante i mesi di questa mia esperienza molisana, la fatica e spesso la impotenza di fronte alla sordità di chi non voleva ascoltare, ma anche la contentezza per la conclusione positiva di una vicenda che avevo vissuto male sin dall’inizio. Con questo non voglio dire che anche in questa mia avventura non ci siano state cose buone da ricordare. Tutt’altro! Ricordo, ad esempio, con piacere la grande ospitalità di tanti compagni e compagne, come la loro buona cucina, non solo a Campobasso ma anche nei comuni più sperduti. Debbo a loro anche la conoscenza di tradizioni e costumi del Molise che ignoravo e che sono invece di straordinario interesse, come anche la scoperta di paesaggi aspri ma belli, il Matese ad esempio, e di luoghi importanti per la storia e la cultura dei popoli sanniti come Sepino, Boiano, Pietrabbondante. Anche sul piano politico, vi sono stati momenti che ricordo con soddisfazione: ad esempio, il Congresso regionale del partito che si svolse poco dopo il mio arrivo, agli inizi del 1982, con una discussione utile, tutta incentrata sui problemi e non avvelenata dalle lotte intestine che negli anni precedenti avevano diviso il partito. Così come la tre giorni con Enrico Berlinguer: fu un momento di grande partecipazione popolare che fece passare in secondo piano anche la rabbia per lo spettacolo poco decoroso andato in scena, durante l’attivo del partito, alla presenza del segretario nazionale del PCI. Vi sono stati anche episodi curiosi e simpatici che ho ancora nella memoria. Come, ad esempio, quando andai, per una riunione del direttivo, alla sezione di Ururi, un paese albanese del Basso Molise, per tentare di rimetterla in movimento, visto che era ferma da tempo e quasi chiusa. Durante la riunione, i compagni, che avevano evidentemente parecchie cose da chiarirsi reciprocamente, prima discussero in maniera animata tra di loro in albanese sulle questioni che io avevo posto e poi, raggiunto un certo accordo, finalmente si rivolsero a me che intanto aspettavo, un po’ imbarazzato, e misero anche me al corrente di quel che intendevano fare... Come ricordo con simpatia diversi compagni di Campobasso e alcuni vecchi compagni, 224 forse oggi scomparsi, di S. Croce di Magliano, un grosso paese amministrato da noi ai confini con la Puglia, compagni che, nella loro gioventù, erano stati i protagonisti di grandi lotte per il lavoro e per la costruzione del partito. In quel periodo, neanche a S. Croce la sezione attraversava un buon momento; ed erano proprio loro, che non ne avevano molta colpa, i più imbarazzati per il modo come andavano le cose, ma anche, nello stesso tempo, i più impegnati a cercare di rimetterla in carreggiata pur se con scarsi risultati. Il PCI molisano mi ha consentito anche di prendere la parola al XVI Congresso nazionale. Ho partecipato a tutti i Congressi nazionali del PCI dal ‘60 in poi, ma questo fu l’unico in cui potei prendere la parola nell’assemblea plenaria; e fu, anzi, anche il Congresso nel quale venni eletto membro del Comitato Centrale, proprio come rappresentante del Molise. Debbo dunque qualcosa anche al Molise, è parte anch’esso (e in termini tutto sommato positivi) della preziosa esperienza culturale e politica che ho accumulato nei lunghi anni del mio impegno nel PCI e che ha dato senso alla mia vita. Quel che di quell’avventura non mi era affatto piaciuto erano, come dire, il modo e il contesto, oltre che le sue possibili e preoccupanti prospettive. 225 226 Capitolo XIII La campagna elettorale e poi l’elezione al Parlamento della Repubblica, nella tarda primavera del 1983, furono l’occasione di un rinnovato rapporto con i compagni della provincia di Chieti. Anche se questo rapporto, in realtà, non era mai venuto meno. Ma un allentamento, sì, c’era stato, dovuto principalmente al mio impegno prima nella federazione di Pescara e poi in Molise. Non fu comunque difficile reintrecciare un feeling le cui radici affondavano in tempi assai lontani. Ma andiamo al punto. E il punto è, mie care nipoti, che ora dovrei raccontarvi della mia esperienza di parlamentare, credo però di poterlo fare senza spendere molte parole. Anche se quegli anni sono stati, in realtà, anni molto importanti. Sono stati, infatti, gli anni delle difficoltà sempre più evidenti che attraversavano il PCI e dello scontro con il PSI del quale Berlinguer denunciò, a causa della politica di Craxi, il mutamento genetico rispetto alla sua natura di partito che si richiamava al socialismo. Sono stati anche gli anni del trionfo del pentapartito, dell’accordo cioè tra Craxi e la destra della DC, con l’emarginazione della sua ala sinistra, degli sprechi senza limiti del denaro pubblico, a fini non solo pubblici ma anche privati, dell’accumulo di un enorme debito pubblico i cui effetti nefasti sul futuro dell’Italia stiamo scontando ancora oggi, della corruzione diffusa e della questione morale denunciata da Berlinguer, della cultura del rampantismo, naturale alimento della corruzione, e dell’affermarsi sfrenato di egoismi individuali e dei ceti sociali più forti. Gli anni, insomma, dell’addensarsi di nubi sempre più minacciose sul destino dell’Italia che, agli inizi degli anni ‘90, doveva trasformarsi in tempesta travolgendo partiti e istituzioni, con l’esplosione di Tangentopoli e l’avvento, a seguito della discesa in campo di Berlusconi, di classi dirigenti, come quelle che si sono poi coagulate nel centrodestra, portatrici di spinte populiste ed eversive dei valori fondanti della Repubblica e della stessa democrazia italiana. Bene, care nipoti: io ho vissuto da un osservatorio privilegiato questi avvenimenti, ma, per ovvie ragioni, ne sono stato solo una piccola rotella, altri sono stati i protagonisti, che pure ho conosciuto e avuto la possibilità di giudicare in diretta, non sempre positivamente purtroppo! Questo non significa che non ho portato anch’io il mio piccolo contributo all’attività del Parlamento. Ma si è trattato di un contributo legato, da un lato, ai problemi della provincia di Chieti e dell’Abruzzo, dall’altro, ai settori di lavoro di competenza della Commissione parlamentare della quale facevo parte. In aula ho avuto modo di prendere la parola poche volte (l’ho fatto, in particolare, in occasione della battaglia ostruzionistica sulla scala mobile), mentre la prendevo assai spesso in Commissione (ho fatto parte della IX Commissione della Camera: Trasporti, Poste e Telecomunicazioni, nella quale mi sono ritrovato anche dopo il mio rientro in Parlamento, nell’autunno del ‘90, subentrando al povero Michele Ciafardini). In Commissione mi interessavo soprattutto ai trasporti, in particolare naturalmente per 227 la parte che riguardava l’Abruzzo (Sangritana e aeroporto di Pescara). Ma seguivo anche i problemi della pesca marittima che erano allora di competenza del Parlamento. Da questo punto di vista, sono stato anzi, per parecchi anni, il referente in Parlamento, per conto del partito, del movimento cooperativo della Lega, che organizzava allora soprattutto i pescatori della costa adriatica, dalle Marche all’Emilia-Romagna e al Veneto, con una certa presenza anche in Abruzzo e in qualche altra regione del Sud, e ho avuto così modo di girare un po’ l’Italia per discutere con i pescatori dei loro problemi. Ricordo pure che, per trovare una soluzione al contenzioso antico, tra l’Italia e la Croazia, sulla pesca in Adriatico, partecipai anch’io all’incontro, a Belgrado, di una nostra delegazione parlamentare con i dirimpettai yugoslavi, ed ebbi modo, successivamente, anche di discuterne con l’ambasciatore yugoslavo in Italia. Sono stato anche tra i proponenti più attivi del cosiddetto fermo di pesca, per la salvaguardia delle possibilità di riproduzione delle varie specie di pesce messe in grave pericolo da alcune forme di pesca, assai diffuse in quegli anni, selvagge indiscriminate e senza regole. Insomma, ho fatto delle cose anch’io, oltre a vivere una esperienza politica e istituzionale straordinaria. Ma, se debbo essere sincero, non è che l’attività parlamentare mi abbia particolarmente scaldato il cuore. Ho sempre vissuto invece in modo molto più intenso i compiti di direzione politica che via via il partito mi ha affidato, anzi è stata proprio su questo terreno la vera sfida della mia vita, il terreno sul quale ho misurato me stesso, ho misurato, come dice Dante, la mia nobilitate. Ricordo che, nel lontano 1956, un compagno autorevole della federazione di Chieti mi spiegò che dirigere il partito significava dirigere gli uomini, e questo era senza dubbio il compito più alto, anche se assai arduo, che potesse mai capitare a qualcuno: parole profondamente vere e che non ho mai dimenticato. Molto più coinvolgente è stata invece l’altra mia esperienza istituzionale: quella di sindaco. Dirigere un Comune, sia pur piccolo, non solo mette alla prova le tue capacità di mantenere coeso e solidale il gruppo degli amministratori e la tua maggioranza, ma ti mette a contatto diretto con i cittadini; e lì bisogna dare continuamente risposte, trovare soluzioni, cercare di corrispondere alle attese. E non solo sui problemi del paese, ma spesso anche su questioni di natura personale e familiare, senza poter dire a chi sollecita il tuo intervento: queste non sono questioni che riguardano il sindaco, perché non capirebbe. Io ho fatto il consigliere comunale d’opposizione per oltre un ventennio; e anche qui il rapporto con la gente era fondamentale. Ma amministrare è un’altra cosa, qui la propaganda e i discorsi generici servono a poco. Ed è proprio per queste ragioni che ricordo ancora oggi la mia esperienza di sindaco, sia pure per appena un quinquennio, come una delle più interessanti che ho vissuto. Sono diventato sindaco di Orsogna nella primavera del 1985, ma non per mia scelta, 228 anche se più di una volta, nel mio foro interiore, mi ero detto che mi sarebbe piaciuto diventarlo a conclusione della mia carriera politica, sarebbe stato come un ritorno alle origini che mi avrebbe consentito di riprendere un rapporto con un mondo che era rimasto sempre vivo dentro di me. E’ accaduto invece a seguito della richiesta di candidarmi a Orsogna come capolista, in occasione delle imminenti elezioni amministrative, che mi venne da parte di un gruppo di compagni, comunisti e socialisti, del mio paese natio. Ricordo che ci incontrammo in federazione, a Chieti, era tutta gente che conoscevo da lungo tempo ovviamente, e non ci vollero molte parole per farmi convincere ad accettare: ero già disposto a farlo di mio! La ragione che li aveva spinti a farmi questa richiesta era, naturalmente, molto semplice e comprensibile: io ero allora parlamentare e ciò, essi pensarono, avrebbe sicuramente reso piuttosto alte le possibilità di vittoria. E, infatti, così avvenne. Vincemmo e vincemmo bene, tornando alla guida del Comune come sinistra dopo ben sedici anni: da quando cioè, nel ‘69, lo conquistammo per la prima volta nel dopoguerra, con una lista PCI-PSIUP! Mi ritrovai così sindaco, a capo di una amministrazione che comprendeva comunisti, socialisti e indipendenti. Nei cinque anni successivi non andò naturalmente tutto tranquillo, soprattutto quando si trattò di mettere mano al Piano regolatore, un argomento che a Orsogna è sempre stato tabù e ha sempre provocato divisioni e scontri a non finire, e a farla da padrone sono solo gli interessi, piccoli o grandi che siano. Ma, nel complesso, lasciammo molte cose buone agli orsognesi. Non solo servizi più organizzati e moderni, strade di campagna rifatte o aperte ex-novo, fognature nuove o rimesse in sesto e scarichi a cielo aperto eliminati, la rete del metano nella zona industriale e turistica e ancora tante altre cose legate alla vita quotidiana della gente, ma anche partecipazione e tanta cultura. Non è il caso qui di entrare nel dettaglio. Ma qualcuno dei nostri lasciti agli orsognesi li voglio comunque ricordare, anche perché, soprattutto per alcune nostre iniziative (come la ristrutturazione del Teatro comunale e la organizzazione dell’Università della terza età), quelli venuti dopo di noi, parte dei quali ancora oggi amministra il Comune, hanno tentato di fare come quel gracchio di cui narra Fedro: viste delle penne di pavone per terra, le raccatta e se ne adorna, finché non arriva lo splendente corteo dei pavoni che spoglia il gracchio sfrontato delle penne rubate e lo caccia via a beccate dal branco nel quale aveva tentato di infilarsi. Ma quali lasciti ricordare? Beh, innanzitutto il teatro dialettale che abbiamo organizzato per tre anni di seguito, grazie alla preziosa collaborazione di una vera amante del teatro, Silvana Baroni, e che la DC ha poi lasciato morire. La manifestazione si svolgeva nel mese di luglio, all’aperto, e vi partecipavano compagnie amatoriali da tutta Italia; e la piazzetta che l’ospitava, Piazza Castello, una piccola bomboniera circondata dalle case e attrezzata adeguatamente con palco e sedie, era sempre stracolma, con la presenza in prevalenza di donne di tutte le età e di tutti i 229 ceti, molte delle quali si portavano dietro sedioline e sgabelli per evitare di rimanere in piedi. E poi i libri pubblicati grazie all’impegno del Comune: la biografia del musicista orsognese Domenico Ceccarossi, un cornista famoso ai suoi tempi e autore anche di un testo per lo studio del corno; e L’Americ’annallà, microstorie delle grandi migrazioni degli orsognesi verso le Americhe, scritto da Plinio Silverii ma con il contributo decisivo degli anziani dell’Università della terza età. E ancora, appunto, l’Università della terza età che mettemmo in piedi con l’aiuto del povero Francesco Jengo e di sua moglie Eide. Oggi essa è molto frequentata e più di uno si attribuisce il merito della sua nascita, ma la verità è che all’epoca, quando la mettemmo su, venivamo presi in giro e la DC sconsigliava la partecipazione alle varie iniziative organizzate dalla neonata Università. Voglio inoltre ricordare il Teatro comunale. Quando conquistammo il Comune, esso era ridotto proprio male e si era trasformato in un luogo polveroso e chiuso, senza più alcuna funzione: ebbene, faticando le sette proverbiali camicie per trovare i soldi necessari, noi lo ristrutturammo e ne facemmo un piccolo gioiello, anche se pure qui alcuni sembrano averlo dimenticato... Facemmo, insomma, molte cose in quei cinque anni di intenso lavoro. E’ vero, nel ‘90 perdemmo l’Amministrazione comunale ma fu per appena una manciata di voti. E non perché avessimo demeritato: se non si fosse rotta l’alleanza del 1985, avremmo rivinto agevolmente. Accadde invece, ahimè!, qualcosa di poco bello. Una parte dei socialisti, scontenti del Piano regolatore (l’importanza degli interessi...), scelse di allearsi con la DC e quelli, tra loro, che avevano già fatto parte dell’Amministrazione comunale e non si erano allineati a questa scelta, non ebbero il coraggio di candidarsi di nuovo con noi! Ma non posso concludere questa breve rassegna di lasciti della nostra amministrazione senza ricordare una iniziativa che fu insieme culturale e politica e che ebbe grande eco anche fuori di Orsogna, il cui merito fu essenzialmente quello di far divenire il rapporto tra Orsogna e i suoi emigrati non più solo un fatto privato, affidato ai singoli emigrati e ai loro parenti e amici ma anche alle istituzioni: il gemellaggio tra Orsogna ed Everett, una cittadina alle porte di Boston nel Massachusetts, popolata largamente da orsognesi emigrati negli Stati Uniti all’indomani della guerra. Il gemellaggio con Everett si articolò in due tappe: la prima a Orsogna, nel 1988, e la seconda a Everett, nel 1989, anche se quella di Everett fu solo l’occasione per rinnovare il legame di amicizia sancito l’anno prima. La cerimonia del gemellaggio ebbe luogo il 18 agosto, a conclusione delle tradizionali feste di mezzo agosto; e si svolse in piazza. Fu una cerimonia indimenticabile. E ricordo ancora oggi lo straordinario spettacolo della folla raccolta attorno al palco che ospitava il Consiglio comunale e il sindaco di Everett, una folla sempre molto attenta e reattiva a tutto quello che veniva detto dal palco. Avevamo convocato il Consiglio Comunale in piazza, per fare della cerimonia del gemellaggio qualcosa che coinvolgesse veramente, anche dal punto di vista emotivo, sia gli orsognesi che i nostri connazionali all’estero. E non si trattò di una cerimonia fatta di 230 solo folklore, con il solito scambio di complimenti, di doni e, naturalmente, delle chiavi delle due cittadine: cercammo anche di lanciare messaggi capaci di consolidare, come istituzione, il rapporto con i nostri emigrati e, nello stesso tempo, di parlare di pace e di amicizia tra i popoli in un momento della storia del mondo nel quale nubi minacciose cominciavano ad addensarsi all’orizzonte a seguito dello sgretolarsi già allora evidente del colosso sovietico e di tutto il suo sistema di alleanze. La cerimonia durò qualche ora, con i discorsi dei rappresentanti dei vari gruppi consiliari, del presidente dell’associazione “FIGLI DI ORSOGNA” di Everett e, infine, mio e del sindaco della cittadina americana, fino alla firma, da parte dei due sindaci, di una dichiarazione di amicizia tra Orsogna ed Everett. Il verbale della cerimonia di gemellaggio e la dichiarazione che l’accompagna fanno tuttora bella mostra di sé nella sala consiliare del Comune di Orsogna, sia nella versione italiana che in quella inglese, mentre ho visto con piacere in questi giorni, su Internet, che anche la cittadina del Massachusetts esibisce sul suo sito ufficiale il gemellaggio con Orsogna: Sister City Orsogna, Italy. Dopo la fine della cerimonia, la serata naturalmente svoltò verso la festa, con la esibizione del coro “La FIGLIA DI IORIO” di Orsogna che chiuse la serata (il coro degli orsognesi di Everett si era esibito invece, applauditissimo, la sera del ferragosto, proponendoci anche qualche antica melodia che da noi è ormai quasi dimenticata e facendo vivere a tutti quella particolare emozione che solo chi passa i suoi anni lontano dalla propria terra di origine può mettere dentro i vecchi canti già ascoltati tante volte ma mai percepiti come fatto di memoria e di identità). I nostri ospiti erano arrivati a Orsogna agli inizi di agosto, se non ricordo male; e, quando giunsero in paese direttamente dall’aeroporto di Fiumicino, li accogliemmo davvero in pompa magna. Furono in tanti quell’anno a tornare da Everett, aggiungendosi ai tanti altri nostri emigrati che erano già a Orsogna o stavano per giungervi, molti richiamati anch’essi dal gemellaggio, sia da altre zone degli Stati Uniti che dai vari Paesi europei. Con loro arrivò, naturalmente, anche il sindaco di Everett, accompagnato dalla moglie, una signora svedese molto gentile ma anche molto silenziosa e forse timida, che seguiva dovunque il marito come un’ombra. John McCarthy, di origine irlandese, apparteneva al partito democratico ed era già da molti anni sindaco di Everett, e con lui collaboravano nel governo della città (come scoprii poi quando, a mia volta, mi recai negli Stati Uniti) diversi italo-americani, alcuni anche di ascendenze orsognesi. John era un tipo simpatico, allegro, estroverso e fece subito lega con tutti; e forse fu proprio questo che gli consentì di cogliere subito la differenza che passa tra gli italiani e gli americani quanto a concezione di vita: In Italia, questa fu la sua scoperta nient’affatto scherzosa, si lavora per vivere, in America si vive per lavorare! L’anno dopo, sempre in agosto, fummo noi a recarci a Everett. Eravamo in parecchi: la mia famiglia al completo, il gruppo teatrale di Plinio che diede poi due spettacoli a Everett, alcuni consiglieri comunali e un piccolo drappello di orsognesi che aveva parenti nella zona. Anche noi fummo accolti benissimo; e i giorni passati nella bella cittadina del 231 Massachusetts sono stati anch’essi giorni che si sono conservati ben vivi nel mio ricordo, sia per l’accoglienza riservata a me e alla mia famiglia (di questo debbo ringraziare in particolare Gabriella, Nicola e i suoi figli che scarrozzarono per tutta Boston Massimiliano e Stefano e gli altri ragazzi del gruppo teatrale) che per il clima di entusiasmo che si creò attorno alle manifestazioni organizzate per il rinnovo del gemellaggio. Era la prima volta che un sindaco arrivava tra i nostri emigrati non per una semplice visita; e poi, c’era curiosità, ma debbo dire anche qualche preoccupazione, per la venuta di un sindaco comunista, era anche questa una prima volta, prima erano sempre arrivati sindaci democristiani. Ma non ci volle molto per rompere il ghiaccio, anche perché molti degli orsognesi di Everett mi conoscevano già: o perché erano partiti da Orsogna quando io cominciavo a fare le mie prime prove in politica o perché erano miei coetanei e avevamo solo preso strade diverse nella vita. Riemersero, anzi, in quei giorni antichi rapporti che si erano persi, appunto, per le vie del mondo. Come, ad esempio, con Nicola che ci ospitò nella sua casa, con il quale avevo giocato tante volte insieme quando eravamo poco più che bambini. O con Alceo, più grande di me di qualche anno e che, negli anni immediatamente successivi alla guerra, tutti i ragazzini della mia età avevano ammirato perché sapeva giocare bene a calcio e faceva parte della squadra dell’Orsogna ma la cui figura avevo completamente rimossa dalla memoria anche se a lui mi lega un ricordo lontano, proprio dell’immediato dopoguerra, che ha a che fare con uno dei nostri giochi pericolosi di quei giorni difficili. Dopo il nostro ritorno a Orsogna, tutti i ragazzini del paese frequentarono, per un certo tempo, finché essa non fu riempita di terra, la grande pozzanghera scavata dallo scoppio di una bomba di aereo nella zona dove oggi si trova la palestra comunale e che ricordo piena d’acqua ancora all’inizio dell’estate, per farvi il bagno naturalmente pur se nessuno di quei ragazzini aveva mai visto il mare e mai perciò aveva avuto qualche esperienza di nuoto. Ebbene, un giorno vi andai anch’io e mi tuffai come tutti, ma giunto a metà percorso, dove l’acqua era piuttosto alta, fui preso dal panico e, se riuscii a tornare sull’asciutto senza danni, lo devo proprio ad Alceo! In quei giorni, scopersi anche di avere dei parenti a Everett: non so se lo fossero veramente, non ne avevo mai sentito parlare dai miei, comunque fui lieto di accettare il loro invito a cena e di passare con essi una bella serata. Ricordo che anche a New York mi accadde, qualche settimana dopo, di rincontrare tanta gente che conoscevo: molti amici dei miei genitori, innanzitutto, che avevano casa e campagna alle Valli, a un tiro di schioppo da Colle S. Giacomo dove ancora abitavamo quando essi erano partiti per gli Stati Uniti, e diversi coetanei di cui non ricordavo ormai più nemmeno l’esistenza. Una esperienza straordinaria, dunque, che ebbe anche un prologo piuttosto spettacolare già al momento del nostro arrivo all’aeroporto di Boston: io e la mia famiglia infatti fummo accolti con cartelli che ci davano il benvenuto, ci attendeva inoltre, all’esterno, una limousine di cerimonia per portarci alla sede del club degli orsognesi di Everett, il club della Sons of Orsogna Association, ed essa era così mastodontica e arredata che, 232 quando vi montammo sopra, ci sembrò di entrare in un grazioso salotto! Ci fu però anche un piccolo inconveniente, al momento di uscire dall’aeroporto, che ritardò il nostro incontro con gli amici di Everett che ci aspettavano al di là delle transenne Mentre tutti gli altri passeggeri poterono imboccare subito, senza problemi, l’uscita, io e la mia famiglia dovemmo invece sottoporci, per quasi un’ora, alle attenzioni della dogana che, chissà perché, rovistò con cura tutte le nostre valige alla ricerca di roba mangereccia che negli USA è proibito introdurre. Questa, almeno, la spiegazione che ci fu data, anche se in quel momento mi venne spontaneo pensare che, forse, l’inghippo aveva anche a che fare con il fatto che io ero un comunista e qualcuno voleva essere sicuro che non portassi nulla di pericoloso con me... Oggi un tale problema non si pone più, ma all’epoca ai dirigenti del PCI non veniva concesso il visto per l’ingresso negli Stati Uniti. E’ vero, gli americani avevano fatto qualche passo avanti nei nostri confronti già tra gli anni ‘70 e ‘80, tanto che a Giorgio Napolitano, oggi Presidente della Repubblica ma allora tra i massimi dirigenti del PCI, fu consentito di tenere conferenze in diverse Università USA per spiegare le politiche portate avanti dai comunisti italiani, ma erano sempre possibili colpi di coda. Pensai perciò, quando decidemmo di accettare l’invito dei nostri amici emigrati di recarci a Everett per rinnovare il patto di gemellaggio, che fosse il caso di premunirmi a tempo contro eventuali e spiacevoli imprevisti; e la cosa migliore mi parve quella di andare a parlare subito, con molto anticipo, con i funzionari dell’ambasciata americana di Via Veneto a Roma, spiegando la natura e i motivi del mio viaggio e facendo presente nello stesso tempo anche la mia qualità di parlamentare e dirigente del PCI. Debbo dire che fu la scelta giusta: il visto mi venne concesso abbastanza rapidamente e potemmo così partire tranquilli alla volta di Boston. Il rinnovo del patto di gemellaggio ci fu il 25 agosto, nella sede del club che aveva organizzato l’evento, anche qui con la partecipazione di tantissima gente di Everett e dei dintorni. Ma eravamo approdati a Everett già dal 14 agosto. Avemmo così, prima della cerimonia per il rinnovo del gemellaggio, tutto il tempo per conoscere Boston, partecipare alle varie feste organizzate dai soci del club, essere ricevuti ufficialmente al Comune di Everett, visitare la mostra di pittura organizzata dai pensionati del posto e ricevere da loro in regalo il quadro che aveva vinto il primo premio (che tuttora fa bello sfoggio di sé a casa mia), gustare le succulente aragoste offerteci da McCarthy nella cena, sulle rive dell’Atlantico, alla quale ci invitò come sindaco della città e incontrare le varie autorità del Massachusetts. Sì, perché la nostra visita ebbe anche un risvolto istituzionale che andò ben oltre l’incontro con gli amministratori di Everett. Incontrammo infatti in quei giorni, io e la mia famiglia, accompagnati da McCarthy, da sua moglie e dai dirigenti del club, il governatore dello Stato, quel Dukakis che aveva perso qualche mese prima, proprio nel 1989, la sfida con Bush padre per la Presidenza degli Stati Uniti, lo speaker del Parlamento statale (che era repubblicano, se non ricordo male) e il sindaco di Boston che era da poco tornato da Roma dove aveva incontrato il papa. 233 La verità è che il nostro arrivo fece notizia nel mondo dell’emigrazione italiana del Massachusetts e, in qualche misura, anche oltre di esso. E furono gli stessi nostri connazionali a darsi da fare per dare il massimo rilievo all’evento: era, in fondo, oltre che una forma di apprezzamento e di stima nei nostri confronti, anche un modo per marcare il ruolo, ormai già rilevante, giocato dai nostri emigrati nella vita dello Stato! Del resto, non era un caso se alle iniziative legate al rinnovo del gemellaggio erano presenti anche italo-americani delle cittadine vicine che avevano ormai conquistato una posizione di primo piano nel mondo politico ed economico locale. E così il nostro soggiorno fu anche accompagnato da notizie sulla stampa che informava sui nostri incontri e sulle iniziative programmate per il gemellaggio; e io conservo ancora i ritagli di giornali con fotografie mie e della mia famiglia in posa con le autorità del posto. Ebbi occasione anche di fare una lunga intervista a una televisione della zona gestita da italiani, e a intervistarmi fu una straordinaria donna abruzzese, Rosetta Romagnoli, originaria di Sulmona. Insomma, furono davvero giorni indimenticabili, resi più gradevoli dalla grande ospitalità dei nostri connazionali. In quei giorni ebbi incontri anche con alcuni di quei personaggi italo-americani che avevo conosciuto in occasione del rinnovo del gemellaggio. Ma, tra questi, voglio ricordare soprattutto uno che ci invitò poi, su sollecitazione anche di due nostri grandi amici, Giovanni e Maria Luisa, a visitare il suo Comune. Parlo dell’allora sindaco di Cambridge, la cittadina che ospita l’MIT, Alfredo Vellucci. Lo ricordo non solo per l’accoglienza che ci riservò quando ci ricevette a Cambridge e ci accompagnò a visitare l’MIT, ma soprattutto per la sua grande simpatia umana e per i versi, dedicati a La Polente, che ci lesse in occasione del pranzo di gala organizzato in un ristorante inn di Everett dai soci del club, di cui mi regalò poi il testo che tuttora conservo: erano versi piuttosto sconclusionati e scritti in un dialetto incredibile e assolutamente non classificabile, ma dai quali si sprigionava con prepotenza tutto l’attaccamento che lega ancora oggi i nostri emigrati alla loro terra d’origine! Lasciammo Boston, per dirigerci verso New York, la mattina del 29 agosto, all’indomani di un picnic divertente e affollato che si tenne, se non erro, a Cap Code, in una tenuta di campagna di proprietà del sindacato: quel giorno furono organizzati anche molti giochi, ai quali dovemmo partecipare obbligatoriamente sia io che McCarthy, e potemmo ascoltare di nuovo il coro degli orsognesi di Everett che ci regalò anche questa volta delle bellissime melodie. Il trasferimento nella grande metropoli avvenne in pullman. Ma un pullman noleggiato appositamente dal club perché i suoi dirigenti avevano pensato bene di approfittare dell’occasione per organizzare una gita dei soci a New York della durata di tre giorni. Così la mattina, intorno alle sette e mezzo, ci ritrovammo in parecchi davanti al club; e da lì, dopo i saluti, gli abbracci e le immancabili promesse di non perdersi di vista (le solite parole, insomma, scambiate nel vento) con quelli che non partecipavano alla gita, partimmo. C’era in noi, certo, una certa tristezza per l’addio, ma la nostra attesa era tutta rivolta a New York, la grande New York... Il viaggio non fu particolarmente lungo. Arrivammo infatti nella Grande Mela intorno 234 all’una; ma l’incontro con i nostri compaesani della Orsogna M.A.S. avvenne solo nel tardo pomeriggio, dopo un primo giro in pullman, che si ripeté anche il giorno dopo, per visitare i luoghi più celebri della città: Time Square, l’Empire State Building, la cattedrale di St. Patrick, Chinatown, il Greenwich Village, il Rockfeller Center, la sede delle Nazioni Unite e, naturalmente, la statua della Libertà e il World Trade Center, con le famose Torri Gemelle ormai conosciute in tutto il mondo dopo la loro distruzione a seguito del terribile attentato terroristico dell’11 settembre 2001 da parte di Al Qaeda. La nostra visita a New York non aveva ovviamente niente a che vedere con il gemellaggio. A New York, i nostri emigrati celebravano i 50 anni della fondazione dell’Orsogna M.A.S., il loro club; e, sapendo del mio arrivo a Everett, non si erano lasciati sfuggire l’opportunità di avere con loro, in questa circostanza, anche il sindaco del loro paese di origine. Io fui naturalmente contento di accettare l’invito, innanzitutto perché difficilmente mi sarebbe capitata una seconda occasione per conoscere New York. E poi: per i nostri emigrati la ricorrenza era importante ed era giusto quindi che io fossi con loro. La storia del club, nato nel 1939 su iniziativa della generazione di emigrati arrivata negli Stati Uniti dopo la guerra del ‘15-’18, si intreccia infatti strettamente con la storia di molte famiglie di emigrati, anche del secondo dopoguerra, e il nome stesso del club ne fornisce la spiegazione: Orsogna Mutual Aid Society, qualcosa insomma che doveva servire agli emigrati per restare uniti e nello stesso tempo garantirsi reciproca solidarietà in un mondo che, ancora fino ad alcuni decenni fa, non era certo tenero con la emigrazione italiana. Ma fui contento di questa visita anche perché, già dal primo incontro, scoprii che molti soci del club, a partire dal suo presidente, era in realtà gente che conoscevo. Il nostro soggiorno, che si protrasse per circa quindici giorni, fu occupato solo marginalmente da manifestazioni ufficiali; per il resto facemmo i turisti, ospiti del club (io e la mia famiglia venimmo alloggiati in un albergo, della catena Marriott, che si trovava proprio a ridosso dell’aeroporto nazionale La Guardia). In pratica, ci furono solo due manifestazioni ufficiali, che si rivelarono però, almeno per me, di un particolare interesse perché davano, anche visivamente, non solo la misura del profondo attaccamento di quella comunità al proprio paese di partenza ma anche dei grandi passi avanti fatti dai nostri emigrati nella loro condizione culturale e di vita dopo l’arrivo negli Stati Uniti, anche se questa nuova condizione era evidente che essi non riuscivano a viverla fuori del bozzolo della loro cultura contadina d’origine (a Everett, invece, si percepiva subito che la nostra emigrazione era più legata a una mentalità cittadina). La prima manifestazione fu quella appunto della celebrazione del 50° anniversario della fondazione del club; e si svolse il 2 settembre all’Astorian Manor, un grande ristorante di proprietà di italiani. Ci furono ovviamente i discorsi. Del presidente dell’Orsogna M.A.S., il vecchio Filippo Di Rico, contadino e nostro vicino di campagna alle Valli, quello della presidentessa del gruppo femminile del club, e infine quello mio; e poi la cena e il ballo, con le signore più giovani che sfoggiavano un’eleganza un po’ all’americana, fatta di pizzi e svolazzi. 235 La manifestazione era stata annunciata con un opuscolo che raccontava la storia del club e dell’emigrazione orsognese nella Grande Mela, ma, cosa che mi colpì, sulla copertina, anche se non mancava il profilo del ponte di Brooklyn, spiccava tuttavia soprattutto l’immagine del campanile di San Nicola e, sullo sfondo, della Maiella; all’interno, poi, catturavano l’attenzione del lettore prima una pagina con su scritto solo: Orsogna: Paese mio, successivamente altre due pagine che riportavano una fitta e lunga lista di soprannomi orsognesi: neanche a New York, pur dopo una vita passata dai nostri emigrati nel Nuovo Mondo, i vecchi soprannomi erano finiti nel buco nero dell’oblio! L’altra manifestazione ufficiale fu la processione di S. Rocco che sfilò, nel pomeriggio del 3 settembre, per le strade di Astoria, nel Queens, la zona di New York dove ha sede il club e risiedono molti dei nostri orsognesi. La festa di S. Rocco si celebra il 16 agosto; quell’anno, tuttavia, fu spostata a settembre proprio per attendere l’arrivo del sindaco di Orsogna. Com’era prevedibile, la festa fu povera, ridotta all’osso; e non aveva -né poteva avere, del resto- nulla dello sfarzo che caratterizza normalmente la festa di S. Rocco a Orsogna. In pratica, la festa consisteva nella sola processione, che si concluse -dopo una sosta alla chiesa cattolica del quartiere- nella sede del club dove venne riportata la statua del santo e celebrata la messa, alla fine ci fu anche un piccolo rinfresco che potemmo però gustare solo dopo l’ascolto della lunga predica ammannitaci dal frate francescano, un orsognese anche lui, venuto apposta dall’Italia per l’occasione. Ci fu tuttavia, nella festa, qualcosa che non mi sarei mai aspettato e mi parve anzi piuttosto grottesco, e che però mi colpì molto e, in una certa misura, mi commosse anche. Infatti, in testa alla processione avanzava un’auto sgangherata e assai rumorosa, dalla quale ogni 100-150 metri scendevano due tipi che fermavano il corteo, ponevano a terra due grossi bossoli, di quelli che si usano per i fuochi d’artificio, e accendevano poi la miccia producendo così due grandi botti che facevano rintronare tutto il quartiere come ad avvertire la gente: passa S. Rocco... La cosa effettivamente era piuttosto comica, e come tale la commentai subito con i miei figli. Ma, a rifletterci bene, questo in realtà era l’unico modo che i nostri amici avevano, in un mondo così diverso, di riproporre almeno una parvenza degli spettacolari fuochi d’artificio di una volta che ancora oggi concludono le nostre feste al Sud. La stessa cosa che si verificava con le donne che sfilavano durante la processione con la tradizionale conca di rame (quella che, una volta, nei paesi le donne usavano per raccogliere e portare in casa l’acqua da bere delle fontanelle pubbliche) sulla testa: nella conca non c’era neanche un chicco di grano e tanto meno i fiori di campo, come accadeva a Orsogna, ma la conca e i fiori finti che l’adornavano erano di per sé sufficienti a dare senso al forte bisogno di identità che tuttora è presente nell’animo dei nostri emigrati. Anche la fanfara, un po’ raccogliticcia, che accompagnava la processione sembrava fuori posto. I pezzi che suonava erano soprattutto marcette allegre e assai poco religiose, ma solo così si poteva far riemergere il ricordo delle feste di un tempo quando la grande banda ne era il centro e molti di loro vivevano ancora a Orsogna. 236 Insomma partecipammo, io mia moglie e i miei figli che, con la telecamera e la macchina fotografica, si diedero un gran da fare per immortalare i vari momenti, a una festa un po’ singolare, nella quale si mescolavano tradizione e americanate piuttosto scombinate e che, però, nascevano tutte da questa insopprimibile voglia di mantenere viva a ogni costo la memoria e la propria antica identità. Lo spettacolo fu comunque piacevole e divertente. E davanti agli occhi della memoria, che si colora ancora oggi di una certa commozione sia pure accompagnata dal sorriso, vedo di nuovo sfilare i vari protagonisti dello spettacolo: gli strani artificieri davanti a tutti, subito dopo lo striscione portato da due ragazzine e un bambino su cui spicca la scritta Viva S. Rocco, e poi la statua del santo, il frate, il sindaco di Orsogna con la fascia tricolore, il presidente del club, il presidente del Comitato Organizzatore delle celebrazioni del 50° e la presidentessa delle donne anche loro ciascuno con la propria fascia di cerimonia, la fanfara, le donne con la conca e i fiori finti e, in fondo al corteo, il popolo devoto che canta le vecchie cantilene in onore del santo. Dopo il 3 settembre, non avemmo più impegni ufficiali; ci potemmo così dedicare a una visita più accurata di Manhattan, grazie anche alla grande disponibilità di Giannina e Maria che ci offrirono anche il pranzo in un ristorante francese nei pressi del Central Park: ricordo che esitammo un po’ prima di varcare l’ingresso perché il ristorante si presentava elegante e di buon livello e noi eravamo tutti vestiti alla turistica, ma poi ci facemmo coraggio ed entrammo, anche se un po’ imbarazzati... Cominciammo dal Greenwich Village, facemmo poi un bel giro per Little Italy (dove ci fermammo anche per una breve colazione), visitammo il Museo di Arte Moderna che ci impressionò soprattutto per alcune bizzarrie moderne che vi erano esposte, salimmo su una delle Torri Gemelle, girovagammo a lungo per il Central Park e facemmo anche una capatina notturna nel cuore di New York, nelle vie attorno alla Grande Mela, dopo una cena nel ristorante girevole del Marriott. Insomma, facemmo i turisti, non rinunciando però nello stesso tempo ai diversi inviti a pranzo che, con generosità, ci arrivarono da più parti in quei giorni. Ma i nostri amici, nell’ultima settimana di nostra permanenza a New York, ci organizzarono anche due gite alle quali però non parteciparono né Massimiliano né Stefano che, per ragioni sentimentali, avevano deciso di rientrare con una settimana di anticipo in Italia. La prima, messa in piedi da Francesco e Concetta, ad Atlantic City, la Las Vegas dei poveri, nel New Jersey; l’altra invece, organizzata direttamente dal club, a Washington passando per Baltimora e Filadelfia. La gita ad Atlantic City fu particolarmente allegra: eravamo solo in sei, ci potemmo quindi muovere con una certa libertà. E vivemmo anche noi quel giorno, come le frotte di pensionati che ogni domenica partono da New York per fare il giro dei suoi dodici casinò, il sogno della vincita spettacolare, dell’improvviso arricchimento. Ma anche noi, come loro, la sera riprendemmo il pullman che da New York ci aveva portato ad Atlantic City, non più ricchi di quanto eravamo prima, tuttavia contenti di aver passato una giornata diversa e sfottendoci un po’ a vicenda per l’assoluta mancanza di risultati nel tentare la fortuna. In compenso, però, riportammo con noi, e sono arrivate fino in Italia, a casa nostra, le cuccume di plastica che il casinò ti dà appena entri, svuotate però anche di quei pochi 237 dollari che dalle macchinette vi erano scivolati dentro in occasione di qualche giocata ma subito risucchiati indietro dalle stesse macchinette... Comunque, la gita era stata proprio divertente; e poi si sa, los sueños, come dice Calderon de la Barca, sueños son... Al ritorno però la giornata fu turbata da un episodio sgradevole, anche se non aveva nulla a che fare con la nostra gita. Quando il pullman entrò a New York, mentre attraversava un quartiere abitato da neri (forse Harlem), vedemmo con stupore (almeno io e mia moglie) molte famiglie nere e le loro masserizie alloggiate direttamente sui marciapiedi. Fu per me uno spettacolo incredibile e del tutto incomprensibile, segno evidente di una emarginazione e povertà diffusa tra i gruppi più deboli della società americana che non avevo neppure sospettato, ma qualcuno, guardando la scena, nella penombra del pullman commentò a voce piuttosto alta e con tono di derisione: Ecco le scimmie!, alludendo a quei poveri diavoli neri non proprio toccati dalla affluent society. (Qualche giorno fa, ho letto sui giornali che i dodici casinò di Atlantic City hanno chiuso per debiti i battenti: peccato! E sono sicuro che i pensionati di New York non hanno gradito. La gita settimanale in questo sobborgo della Grande Mela rappresenta sicuramente per tanti di loro un modo per uscire dalla routine e, certo, anche per tentare la sorte senza però mettere a rischio i propri risparmi, visto che il biglietto del pullman, dal costo assai ragionevole, garantisce loro il pranzo, cinque dollari per fare qualche giocata, il ritorno a casa e poi altri cinque dollari per riprovarci la volta successiva). La gita a Washington, della durata di tre giorni, ebbe luogo proprio alla vigilia del nostro ritorno in Italia (che avvenne l’11 settembre). Eravamo una trentina, o poco più, di persone, quasi tutte anziane e che perciò in gran parte conoscevo: così la gita si trasformò in una sorta di piacevole rimpatriata, parecchi dei gitanti, oltretutto, erano partiti già adulti dalla contrada Valli. Ma, al di là di questo aspetto, la gita fu comunque molto interessante perché mi consentì di conoscere, sia pure solo di passaggio, città come Baltimora e Filadelfia e, naturalmente, Washington. Baltimora e Filadelfia, da quel poco che riuscimmo a vedere, dovevano essere delle gran belle città: peccato però che il tempo a nostra disposizione fosse così poco! Così di Baltimora potemmo solo ammirare l’elegante porto commerciale e di Filadelfia ascendere, facendo a gara tra di noi a chi arrivava primo in cima, la imponente e lunga scalinata del National Art Museum, resa celebre dal film Rocky, con Sylvester Stallone protagonista. Davvero peccato, soprattutto per Filadelfia! Qui avrei voluto, ma non fu assolutamente possibile, conoscere luoghi che hanno segnato la storia degli Stati Uniti. Da quello dove fu firmata la Dichiarazione di Indipendenza dall’Inghilterra nel 1776 a quello dove, nel 1787, si tenne la convenzione che portò all’approvazione della Costituzione americana e alla formazione del primo governo degli Stati Uniti, e visitare anche qualcuna delle sue ricche collezioni d’arte. Com’è noto, Filadelfia, fondata nel 1682 dal quacchero William Penn, che sognava un mondo fondato sulla fraternità (di qui il nome di Filadelfia dato alla città) e patria 238 di Benjamin Franklin, uno degli artefici della indipendenza del Nuovo Mondo e della costruzione della democrazia americana, non solo ha giocato un ruolo decisivo per la nascita degli Stati Uniti ma è stata per lungo tempo anche il più importante crocevia culturale della società americana. Di Washington invece visitammo molti luoghi: il Museo dello Spazio (straordinario), il Memorial dedicato al Vietnam con quella interminabile, e impressionante, lista dei caduti americani nella famigerata guerra contro la libertà e l’indipendenza del Vietnam incisa sul marmo, il suggestivo cimitero di Arlington con la tomba di Kennedy e anche quella di Joe Louis, il grande pugile nero americano degli anni ‘40 del secolo scorso, e i tanti monumenti e Memorials dedicati agli uomini più rappresentativi della storia degli Stati Uniti. Non potemmo però accedere alla Casa Bianca e al Campidoglio, chiusi (non ricordo bene perché, forse a causa del giorno festivo), così dovemmo accontentarci di guardarli solo dall’esterno e farci fotografare davanti ai due più importanti centri del potere mondiale (visitammo invece la Library of Congress, la Biblioteca del Congresso). Nelle due notti che sostammo a Washington, avremmo voluto anche farci una qualche idea di ciò che era la vita notturna nella capitale degli Stati Uniti, ma la direzione dell’albergo ci sconsigliò vivamente di girare di notte per la città: i rischi per la sicurezza personale erano elevatissimi, a causa soprattutto del gran numero di drogati che stazionavano per le vie cittadine! 239 240 Capitolo XIV Ma ecco omai l’ora fatale è giunta... Non vi spaventate, mie care nipoti. Anche se l’attacco è così solenne e drammatico, voglio solo dire che è ormai arrivato il momento di mettere la parola fine a questo già troppo lungo racconto delle mia vita e del tempo nel quale ho condotto le mie battaglie per l’affermazione delle idee nelle quali ho creduto. E, se ho usato un cotanto esordio, credetemi: l’ho fatto solo per evitarvi di addormentarvi dopo tanto leggere! A proposito, il verso che ho utilizzato è il primo dell’ottava che, nel XII canto della Gerusalemme Liberata, annuncia la morte di Clorinda, l’eroina musulmana che si sta scontrando, in un duello notturno furioso e senza risparmio di colpi, con il suo innamorato segreto: Tancredi, cavaliere cristiano. E alla fine dell’ottava Clorinda muore: Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve; e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenere e leve, l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente. Bellissimi versi, no? E certamente converrete con me che mai morte fu descritta con toni così struggenti e insieme così colmi di sensualità. Versi cantati in un timbro, dunque, che solo Torquato Tasso conosceva, e del quale voi fareste bene, qualche volta, a leggere almeno i canti più belli del suo poema più bello, la Gerusalemme Liberata appunto. Come, credo, fareste bene anche ad ascoltare le note di cui ha rivestito l’episodio, nel 1624, Claudio Monteverdi, uno dei vertici della musica europea del ‘600: si tratta del Combattimento di Tancredi e Clorinda, e lo trovate tra i miei dischi se ne avete voglia. Vi assicuro che è una musica splendida, dotata di grande efficacia emotiva e di una forza imitativa tale che sembra anche a voi di assistere, nell’oscurità della notte, allo scontro mortale che oppone i due guerrieri. E sentirete e vedrete anche voi, dentro la musica, la concitazione dei combattenti, la furia cieca che li spinge l’un contro l’altro (quasi la metafora di un amplesso d’amore che si conclude con la morte, l’eterno mito di Eros e Thanatos) a cozzare non solo con le spade ma anche con gli elmi insieme e con gli scudi e, dopo una breve pausa dal combattimento, l’ira che torna nei côri ancora più ferina e che li trasporta di nuovo alla fera pugna, benché debili in guerra. Fino all’esito fatale quando come una sospensione del suono, così piena di presagi funesti, avverte della imminenza della fine di Clorinda, subito seguita da un declamato lento e patetico che descrive la sua caduta a terra, colpita al cuore. E sentirete anche, nella sapienza dei vari passaggi della musica di Monteverdi ora lenti ora affannosi ora pieni di trepidazione, il drammatico alternarsi dei sentimenti nell’animo di Tancredi dopo la caduta della nemica di cui egli né sa il nome né conosce l’identità: prima la gioia feroce per la vittoria conseguita e poi quel non so che di flebile e soave / ch’al cor gli 241 scende ed ogni sdegno ammorza, / e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza quando Clorinda chiede e dà perdono e lo prega di battezzarla, e quindi, come una intuizione della tragedia incombente, il tremar della mano mentre la fronte / non conosciuta ancor sciolse e scoprio fino allo sgomento improvviso e alla disperazione che lo travolge nel momento in cui scopre la verità: La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza! Scrivere la parola fine, dunque: questo il mio proposito e la ragione, un po’ banale, di tanta citazione. Sermoni iam finem face tuo, dice un personaggio di Plauto al servo che la tira troppo per le lunghe. Ed è proprio il caso di dargli retta. Non perché non abbia altre cose da raccontare. Ma si tratterebbe di cose dell’oggi, fuori quindi del mondo che è stato il mio. Anche oggi, naturalmente, seguo in maniera attenta gli avvenimenti e vivo spesso con angoscia questo tempo dell’Italia e del mondo sempre più periglioso e gravido di minacce, uno dei peggiori che io abbia mai conosciuto, così dominato dall’egoismo e dalla incapacità di guardare al futuro. E partecipo con speranza al tentativo di dare vita a un nuovo soggetto politico che, unendo i diversi riformismi della storia italiana, sia capace di riaffermare in modo nuovo e con nuova forza ed efficacia i valori della sinistra e tirare fuori l’Italia dalla morta gora dalla quale non riesce a uscire. Ma non ho più ormai quel ruolo attivo, di protagonista, pur modesto, che ho avuto nei lunghi anni della seconda metà del secolo scorso; e perciò non ha più, francamente, senso continuare un racconto che si può nutrire ormai solo (o quasi) di fatti privati. Tuttavia, non vorrei chiudere così, ex abrupto, e cioè all’improvviso, a precipizio, come dicono i latini. Vorrei farlo invece, riempiendo ancora qualche pagina con il racconto dei miei viaggi nei paesi del cosiddetto socialismo reale, e poi con un breve congedo come usavano una volta i poeti a conclusione delle loro canzoni. Non è che abbia fatto solo questi viaggi: ne ho fatti tanti altri, sia come parlamentare e sindaco che come privato cittadino: Hong Kong, il Giappone, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita (dove ci tennero per diverse ore fermi all’aeroporto di Riad, pur essendo una delegazione del Parlamento italiano, per verificare se nelle nostre valige non ci fossero per caso liquori o materiale pornografico e comunque pericoloso per la buona salute delle anime dei musulmani di quel paese), la Spagna. E quindi anche di questi viaggi potrei raccontarvi. (A proposito: solo da qualche anno abbiamo smesso di fare viaggi all’estero per dedicarci all’Italia ma, chi lo sa?, forse prima o poi riprenderemo a girare un po’ per il mondo. E’ da tempo, ad esempio, che stiamo pensando di recarci in Argentina dove vivono parenti del nonno o andare a conoscere la Cina, rimediando così alla possibilità che mi fu offerta di andarci quand’ero ancora parlamentare, solo che, purtroppo, la proposta mi arrivò proprio all’ultimo minuto e così non se ne fece niente...). Ma c’è un motivo nel fatto che io voglia raccontarvi solo di quelli fatti nei paesi socialisti. 242 Le poche cose che ho visto e conosciuto allora in quei paesi, che sembravano appartenere a un altro mondo, un mondo nel quale si stava costruendo davvero l’uomo nuovo, mi hanno consentito, sia pure a posteriori, di capire un po’ meglio le ragioni del fallimento di una grande esperienza storica, che ha attraversato tanta parte del ‘900. Qualche notte fa, sfogliando tra le mie vecchie carte, mi è capitato di ritrovare per caso la lettera che, nel lontano ottobre del 1973, spedii da Gorkij a mia moglie. Una lettera breve, scritta in fretta e furia utilizzando il pochissimo tempo libero a mia disposizione, dopo, sono le mie parole nella lettera, “un’altra lunga giornata di visite, riunioni e pranzi”. Mi trovavo allora in questa grande città russa, ospite del Comitato regionale del PCUS, quale membro della delegazione di studio che quell’anno il Comitato Centrale del PCI aveva inviato in Unione Sovietica. Naturalmente, preso dalla curiosità, ho riletto tutta la lettera. Ma quale non è stata la mia sorpresa quando ho letto che “...c’è da rimanere semplicemente ammirati per tutto quello che hanno saputo fare e che stanno facendo. Quando tornerò ve ne parlerò a lungo...”. A rileggerle oggi, queste parole, più che enfatiche, sembrano ingenue. Possibile, qualcuno potrebbe chiedere, che non vedevate le cose che non andavano? Ma non credo sia questa la domanda da porre. In quegli anni, in Unione Sovietica e negli altri paesi socialisti c’era, ad esempio, un’attenzione particolare all’infanzia e ai giovani, dando a tutti la possibilità di studiare, come anche alla salute e al diritto al lavoro che non trovava analoghi riscontri da noi. Da questo punto di vista, le cose erano effettivamente diverse. Ma non c’era democrazia politica ed economica, mancavano le libertà individuali e i diritti umani venivano sistematicamente calpestati, facendo così venire meno la possibilità di un effettivo e duraturo sviluppo di quelle società che, non a caso, a un certo punto sono implose. Non erano cose, però, che ignoravamo, anzi è proprio su questo terreno che noi comunisti italiani eravamo già da tempo assai critici nei confronti dei sovietici e degli altri Paesi socialisti. Di tutto questo, però, non abbiamo mai fatto la questione discriminante nel rapporto con loro. Perché? Credo sia questa la domanda da porci. In realtà, il nostro errore stava innanzitutto nella sottovalutazione della gravità di questo stato di cose: Berlinguer ha proclamato di fronte ai sovietici, riuniti a congresso, il valore universale della democrazia solo nella seconda metà degli anni ‘70, né si aveva, inoltre, la necessaria percezione di quel che alla lunga avrebbe provocato l’assenza di democrazia in quelle società. C’era poi, nel nostro giudizio, una separazione tra le cose buone che pur si facevano in questi paesi nell’interesse dei lavoratori e il problema della mancanza di democrazia, pensando che, prima o poi, anche nell’URSS e negli altri paesi socialisti si sarebbe prodotta una svolta democratica e quindi finalmente alle conquiste sociali si sarebbero accompagnate anche democrazia e libertà. 243 Non c’è perciò da stupirsi oggi di quella mia ammirazione: era questo, in verità, il sentimento di fondo che animava allora grande parte del PCI, compreso il quadro intermedio delle federazioni e dei Comitati regionali. D’altra parte, il PCI ha sempre mantenuto rapporti stretti e amichevoli, in pratica fino alla caduta del muro di Berlino, con quei paesi e quei partiti comunisti. Anzi, nel corso degli anni è stata messa in piedi una rete così solida ed estesa di rapporti che essa è stata capace di resistere anche ai momenti più acuti di contrasto tra noi e i partiti comunisti dell’est. Ricordo, ad esempio, il ‘68 quando il PCI condannò in maniera chiara e senza riserve l’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia e la repressione nel sangue della cosiddetta primavera di Praga, il tentativo fatto dai comunisti cecoslovacchi, guidati da Dubcek, per una maggiore autonomia da Mosca e una svolta democratica all’interno del proprio paese; o ancora, nella seconda metà degli anni ‘70, lo scontro aspro che oppose Berlinguer a Breznev sul valore della democrazia e, nel 1981, dopo i fatti di Polonia, l’affermazione da parte di Berlinguer dell’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Neanche in momenti come questi, tuttavia, i nostri rapporti ne uscirono turbati! Il PCI, inoltre, era convinto di poter giocare un ruolo importante ai fini della evoluzione in senso democratico di quei partiti e di quei paesi; e perciò, da questo punto di vista, non aveva proprio senso interrompere tali relazioni. Non si trattava, del resto, di una convinzione senza fondamento. Davvero il PCI è stato il punto di riferimento del dissenso interno e dei settori più aperti del PCUS e degli altri partiti comunisti del blocco sovietico. Ricordo, ad esempio, che in uno degli incontri, svoltosi a Budapest nel novembre del 1978, tra una nostra delegazione, della quale anch’io facevo parte, e una rappresentanza del POSU (il partito dei comunisti ungheresi), il dirigente magiaro che introdusse la riunione ci tenne a dire, e con molta convinzione anche, che i comunisti ungheresi, che venivano dalla terribile esperienza del ‘56, oltre a sentirsi diversi dagli altri partiti comunisti dell’est proprio per aver cercato di trarre da quella esperienza la giusta lezione, erano anche sempre molto attenti a quel che diceva e faceva il PCI e che, anzi, essi facevano il tifo per i comunisti italiani. Ricordo anche che cose analoghe nel 1981, in occasione del mio soggiorno sul Balaton, sempre ospite dei comunisti magiari, mi disse József, uno dei dirigenti della scuola di partito a Budapest, in vacanza anche lui in quei giorni sul grande lago, discutendo della politica del PCI. Purtroppo però la storia ha dimostrato che il comunismo di matrice sovietica era irriformabile e che quindi, ahinoi, le nostre aspettative erano in realtà mal fondate! Una rete solida ed estesa di rapporti, dunque, quella che è esistita fino al 1989 tra noi e i comunisti sovietici e degli altri Paesi dell’est, che si esprimeva in tanti modi. Uno di questi, ad esempio, era rappresentato dagli incontri tra delegazioni ristrette composte da dirigenti di medio livello del nostro partito, alle quali partecipavano compagni dell’apparato centrale ma anche dei Comitati regionali e delle federazioni; e, in genere, la loro agenda era fitta di incontri, anche se debbo dire che non sempre 244 gli incontri si rivelavano di particolare interesse, spesso anzi essi si riducevano o a uno scambio molto formale e abbastanza superficiale di informazioni o a un lungo e arido elenco di dati. Posso dirlo per esperienza diretta, perché ho fatto parte anch’io di un paio di questo tipo di delegazioni, quelle alle quali ho già accennato: nel 1973 in Unione Sovietica e poi nel 1978 in Ungheria. Meno frequente, ma mai caduto in disuso, era invece l’invio di nostri compagni in Unione Sovietica per partecipare a corsi politici e di economia politica di livello universitario. A uno di questi, della durata non ricordo più se di pochi mesi o addirittura di qualche anno, fui invitato anch’io dalla Direzione del partito: eravamo, ma non ne sono sicuro, intorno alla fine degli anni ‘60, ma rifiutai, francamente la cosa non mi sembrava molto utile e debbo dire, sia pure col senno del poi, che feci bene. C’erano poi i viaggi per ragioni di riposo: un discreto gruppo di compagni, ospiti dei rispettivi partiti comunisti, si recava per riposo (cioè per passarvi una vacanza) nei paesi socialisti; e qui non c’era scambio, perché il PCI non era affatto in grado di ricambiare questo tipo di ospitalità. All’epoca, questo tipo di viaggi era il più frequente, anzi tutti gli anni se ne organizzavano diversi, della durata di 20-25 giorni, nei vari paesi dell’Est e nell’Unione Sovietica; e a usufruirne erano di solito i funzionari del partito, a causa dei loro assai magri stipendi (ai compagni di base erano invece prevalentemente riservati i viaggi-premio, sempre nei paesi socialisti, messi in palio da L’Unità e dalla Direzione del partito per la diffusione del giornale e il tesseramento). Il mio primo viaggio, per ragioni di riposo, nei paesi socialisti avvenne nel 1967 e la nostra meta fu la DDR, la Repubblica Democratica Tedesca. Era d’estate, e solo da qualche mese mi ero trasferito da Chieti a Vasto, per dirigere il Comitato di zona del partito. Andai naturalmente con grande interesse, anche perché era la prima volta che facevo un viaggio del genere ed ero curioso perciò di vedere di persona, per quel che era possibile, come andavano realmente le cose in un paese dove i comunisti governavano e si proponevano di trasformare profondamente la società e lo Stato. Il gruppo col quale mi ritrovai era composto all’incirca di una decina di compagni o poco più, provenivamo da ogni parte d’Italia ed eravamo, ovviamente, tutti maschi. Eh sì, perché a questi viaggi non erano ammesse le donne, mogli o compagne che fossero, con quali conseguenze sulla tenuta della truppa è facile immaginare! Non ho mai capito se la scelta fosse del PCI o di chi ci ospitava, sta di fatto che solo nel 1981 alla vacanza in Ungheria, sul Balaton, poté partecipare anche mia moglie, alla faccia di tutti i bei discorsi che nel frattempo si facevano nel partito sull’emancipazione femminile! Il viaggio fu piuttosto lungo e anche, debbo dire, con qualche venatura metafisica. Eravamo diretti infatti verso un paese fantasma, un paese che per la politica e la diplomazia non esisteva, tanto è vero che sul mio passaporto non è stato mai apposto il visto d’ingresso nella DDR! Oggi è storia finita, ma all’epoca tra l’Italia (e gli altri Stati dell’Occidente) e la 245 Repubblica Democratica Tedesca, non esistevano relazioni diplomatiche. E la DDR, fu riconosciuta e ammessa all’ONU solo nel settembre del 1973, assieme alla RFT, la Repubblica Federale Tedesca, che era stata tenuta anch’essa, fino a quella data, fuori delle Nazioni Unite. Eppure, sia la DDR che la RFT erano nati come Stati già da oltre venti anni: la RFT nel 1948, sul territorio liberato nella seconda guerra mondiale dagli americani e dagli inglesi; la DDR nell’ottobre del 1949, sul territorio liberato dai sovietici, come ritorsione alla costituzione l’anno prima della Repubblica Federale Tedesca. Paradossi della guerra fredda! Perché l’uno e l’altro Stato tedesco, nei quali la Germania uscita sconfitta dalla guerra si è ritrovata divisa fino agli inizi degli anni ‘90, sono stati appunto il frutto avvelenato della guerra fredda che si è combattuta per tutta la seconda metà del secolo scorso tra il blocco sovietico da un lato e il blocco degli Stati occidentali, sotto influenza americana, dall’altro, dopo la rottura, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, della grande alleanza antifascista che aveva sconfitto il nazismo. A causa di tali circostanze, fummo perciò costretti a fare il viaggio in treno (e non in aereo) e ad attraversare prima mezza Italia, da Roma in su verso il Brennero, e poi la Germania dell’Ovest, con qualche fermata naturalmente: prima a Merano, in Alto Adige, per prendere a bordo il nostro capodelegazione (un giovane professore di filosofia, di lingua tedesca) e con lui un vecchio compagno, anch’egli di lingua tedesca, che aveva fatto la prima guerra mondiale dalla parte degli austriaci; e poi a Monaco di Baviera dove sostammo per la notte. Finalmente, dopo due giorni di viaggio, mettemmo piede, passando per Potsdam, a Berlino est, nella capitale cioè di quello Stato fantasma che era allora la Repubblica Democratica Tedesca. La ventina di giorni che restammo ospiti della SED, il partito comunista della DDR, debbo dire che furono assai piacevoli. Per buona parte li passammo a Heringsdorf, sul Baltico: per fortuna, il tempo ci assistette. E’ vero, pioveva tutti i santi giorni, anche se era d’agosto, ma solo nel pomeriggio. Così, la mattina, potevamo fare il bagno nell’acqua freddissima del Baltico e divertirci a giocare a pallavolo sulla spiaggia. Prima di andare sul Baltico, però, trascorremmo alcuni giorni in Turingia, in mezzo alle montagne, non so se dell’Harz o della Foresta Turingia, la Thuringer Wald: luoghi bellissimi, comunque, dove ricordo che ci fu anche offerto un concerto, a base di lieder, che si concluse poi con una festa alla quale parteciparono ospiti illustri anch’essi in vacanza nella zona. Durante la nostra permanenza in Turingia, avemmo anche modo di visitare città molto belle e con tanta storia, sia letteraria che politica: Weimar, Erfurt, Dresda, Lipsia. Visitammo anche Buchenwald, uno dei più famigerati campi di concentramento e di sterminio nazisti. Il nostro soggiorno nella DDR si concluse a Berlino dove passammo gli ultimi giorni della nostra vacanza. Girammo un po’ la città ma senza allontanarci molto dall’albergo che ci ospitava e che si trovava nelle vicinanze della Sprea: qui ricordo che, una sera, mentre passeggiavamo 246 lungo il fiume, incontrammo un tipo abbastanza anziano che, sentito che parlavamo italiano, ci mise al corrente di quel che più conosceva dell’Italia, dove forse era stato durante la guerra: Italia? Mussolini... Insomma, fu una vera vacanza. Di politica, infatti, con i nostri accompagnatori della SED discutemmo poco o nulla. Solo chiacchierate occasionali, mentre ci recavamo da un luogo all’altro della Turingia e di altri Lænder o aspettavamo, a Helsingdorf, che spiovesse nei pomeriggi piovosi di quei giorni. Tanto meno avemmo la possibilità di incontri con organizzazioni di partito o anche con la gente comune, non solo per la difficoltà della lingua. La nostra, in fondo, fu solo una visita guidata, tutta nella bambagia, e così tutto quel che potemmo conoscere del Paese, dei suoi progressi, di ciò che pensava la gente fu quel poco che ci venne detto da loro in queste chiacchierate. Una cosa comunque era evidente, girando per le strade: la modestia delle condizioni di vita, assieme alla pulizia e all’ordine che regnava nelle città. La DDR ha raggiunto, negli anni della sua esistenza, livelli di sviluppo industriale notevoli e quindi anche livelli discreti di reddito. Ma il controllo totale dell’economia da parte dello Stato e l’assenza di libertà e democrazia sia politica che economica hanno avuto come esito prima la fuga dal paese, anche a rischio della vita, di cervelli e manodopera specializzata verso l’Ovest e alla fine, nel 1989, il crollo del muro, eretto proprio per impedire questa fuga, e la fine dello Stato. Ma, al di là degli esiti di una storia come quella della DDR, tuttavia non mi è possibile tacere o dimenticare la grande ospitalità con cui i comunisti di quel paese che oggi non esiste più ci accolsero e ospitarono e la loro cordialità. O, anche, la bonomia di un vecchio comunista, che aveva conosciuto i campi nazisti, dall’aria severa, come Herbert che era il responsabile del nostro soggiorno, o, ancora, la disponibilità di tutti i nostri accompagnatori, la dolcezza della bionda e timida Dagmar, probabilmente alla sua prima esperienza come accompagnatrice di delegazioni straniere per conto della SED, la bellezza dei luoghi. Assai interessante invece fu, dal punto di vista politico, il viaggio nell’URSS, nell’ottobre del 1973. Per la verità, lo fu anche dal punto di vista turistico: oltre ad avere la possibilità di visitare Mosca e una città come Gorkij, nel cuore della vecchia Russia, avemmo infatti anche la fortuna di recarci nell’Asia centrale, in un paese per noi del tutto sconosciuto da ogni punto di vista, ma anche pieno di fascino, come la giovane Repubblica del Turkmenistan. Ricordo che arrivammo a Mosca (eravamo in 7) che nevischiava, ma niente di serio, anche perché restammo nella capitale sovietica appena qualche giorno, il tempo di visitare la Piazza Rossa e il Cremlino e assistere a un balletto al Bolscioi, il teatro più famoso al mondo per i suoi balletti. Partimmo invece subito per Gorkij, l’antica Nižnij Novgorod che è di nuovo oggi il nome della città dopo la fine dell’URSS (il nome di Gorkij le venne dato in omaggio a uno scrittore sovietico della importanza di Massimo Gorkij, l’iniziatore del realismo socialista). 247 E proprio qui furono subito scintille con alcuni dei dirigenti del PCUS di quella regione. Ma lo scontro più vivace, con un attacco scoperto e diretto nei nostri confronti, si verificò, se ben ricordo, qualche giorno prima della nostra partenza o forse proprio l’ultima sera del nostro soggiorno. La cosa ci sorprese non poco, anche perché non ce l’aspettavamo. Quando giungemmo a Gorkij avevamo avuto, infatti, l’impressione di trovarci di fronte a un gruppo dirigente animato da spirito rinnovatore e di apertura al nuovo, grazie alle cose che ci disse, al nostro primo incontro, il segretario regionale del partito, un tipo giovane, efficiente, interessato alle nostre esperienze. Ma evidentemente le cose stavano in un modo un po’ diverso, come avemmo modo di capire meglio in seguito, attraverso le numerose chiacchierate, durante il viaggio, con i nostri accompagnatori: tra di loro, per fortuna, c’erano in prevalenza estimatori dell’esperienza del PCI e sostenitori della necessità di un rinnovamento della società e dello Stato sovietici, ma ci fecero capire che non era così nel resto del partito e, soprattutto, nel suo gruppo dirigente centrale guidato da Breznev. Ma ecco come andarono le cose. Quel giorno, l’incontro rituale della giornata era finito e stavamo chiacchierando in maniera informale in attesa di andare a cena quando uno dei dirigenti del PCUS di Gorkij presenti espresse giudizi duri sul PCI e la sua politica, ai quali naturalmente reagimmo in maniera energica. In particolare, egli mise sotto accusa il cosiddetto parlamentarismo del PCI e la strategia, propria dei comunisti italiani, di puntare alla costruzione in Italia di una società socialista e democratica. In altre parole, l’accusa era di aver rinunciato con questa scelta non solo a qualunque idea di rivoluzione, ma anche alla costruzione stessa di una società socialista perché democrazia e socialismo non potevano essere coniugati insieme. Insomma, venne fuori così, quasi per caso, quella chiusura, così largamente presente allora nell’URSS, a ogni idea di trasformazione socialista della società usando e rispettando le regole della democrazia. Allora a capo del PCUS e dello Stato sovietico c’era Leonid Breznev, succeduto a Krusciov defenestrato e mandato in pensione nel 1962, del quale venne puntualmente cancellato anche ogni pur timido e confuso tentativo di rinnovamento della vita dell’URSS. Breznev era tutt’altro che un riformatore, era anzi il portatore di una visione neostalinista e burocratica del potere, che arrivò perfino a teorizzare il diritto dell’URSS a intervenire, anche militarmente, nella vita interna degli altri paesi socialisti in presenza di fatti che potessero comportare una qualche minaccia per gli interessi del socialismo (e cioè. a essere chiari, dell’URSS). Reca, infatti, proprio il suo nome la teoria della cosiddetta sovranità limitata, che portò i sovietici prima a stroncare, nel ‘68, la primavera di Praga e poi, nel ‘79, a invadere, con esiti assolutamente disastrosi, l’Afghanistan dove l’anno prima avevano preso il potere, con un colpo di stato, i comunisti del Partito democratico popolare. A guardare oggi all’indietro le cose, non è difficile vedere i guasti profondi provocati da Breznev all’Unione sovietica con la sua politica interna e internazionale; e come egli 248 abbia avuto un ruolo determinante nel radicalizzare e accelerare la crisi che, a qualche anno di distanza dalla sua morte, ha portato alla dissoluzione dell’URSS e dei paesi socialisti dell’est europeo. Anche negli anni di Gorbaciov il breznevismo ha fatto sentire pesantemente i suoi effetti. Quel rifiuto a ogni apertura verso la democrazia è prevalso ancora una volta nel PCUS, portando così inevitabilmente al fallimento del tentativo gorbacioviano di bloccare la crisi in atto e far diventare un’altra cosa il comunismo sovietico e la stessa società sovietica. Il nostro soggiorno a Gorkij, che durò quattro o cinque giorni, fu comunque ugualmente di grande interesse. E fu con molta curiosità e coinvolgimento che visitammo alcune fabbriche (Gorkij era una città fortemente industrializzata), visite di solito precedute o seguite da incontri con i tecnici e i dirigenti interni di partito che ci illustravano la situazione. Tra le fabbriche visitate, ci fu anche quella che produceva auto; e ricordo che, mentre ci inoltravamo nella visita dei vari reparti, il nostro capodelegazione, torinese, notò subito i bassi ritmi, rispetto a quelli di una qualunque fabbrica italiana, e una organizzazione del lavoro che non contribuivano certo a tenere alta la competitività dell’azienda. Avemmo naturalmente incontri anche con organizzazioni di partito; e di questi il più interessante fu quello con l’Attivo cittadino del PCUS. Questa volta a parlare fummo noi che a turno, dopo l’introduzione iniziale di Iginio Ariemma, rispondemmo alle domande dei sovietici sul PCI e sulla sua politica: le domande furono molte, a testimonianza dell’interesse che comunque suscitava il PCI; né ci furono polemiche. Una ricca cena d’addio, alla quale erano presenti molti dirigenti locali, segnò la conclusione del nostro soggiorno. La serata fu bella e gradevole. Ma vi assicuro, mie care nipoti, che mai, come quella sera, io, e gli altri con me, ho ingurgitato tanto alcool. La cena, infatti, fu ricca non solo di portate ma anche di libagioni e, in aggiunta, fu costellata da numerosi brindisi ai quali i sovietici erano abituati e noi no. Alla fine, eravamo tutti sbronzi; e ricordo che quando, dopo la cena, il nostro gruppo venne imbarcato sul treno, ognuno nella sua cuccetta, diretto a Mosca, non solo non riuscimmo a dormire ma più di uno (tra questi io) vomitò anche l’anima. Del resto, cosa potevamo aspettarci? Le bottiglie scolate durante la cena erano state tante e anche i brindisi arrivarono a una trentina e forse più perché la tradizione era questa (e non potevamo certo cambiarla noi quella sera): ogni commensale, a turno, levava il suo bicchierino di vodka alla salute dei presenti e a maggior gloria delle sorti del socialismo e dell’URSS e ne mandava poi giù tutto d’un fiato il contenuto, e non è che qualche volta si poteva fare passo: sarebbe stato inelegante nei confronti degli altri! A questo punto, fate un po’ voi il conto di quanta vodka abbiamo mescolato col vino... Dopo qualche giorno di sosta a Mosca, ci rimettemmo di nuovo in viaggio. Meta, questa volta, il Turkmenistan, una delle repubbliche sovietiche nate nei primi anni ‘20 nel cuore dell’Asia centrale, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre: quando nacque come repubblica autonoma, il Turkmenistan era solo una periferia 249 arretrata e poverissima della Russia zarista ed ha avuto perciò tutto da guadagnare dalla rivoluzione. Debbo dire che il Turkmenistan, che si trova ai confini con l’Iran e l’Afghanistan (non a caso, una parte del suo territorio era classificata come zona militare), mi impressionò particolarmente, in qualche modo anzi ne fui affascinato anche per quel che di esotico c’era nel suo paesaggio brullo e desertico e nei suoi abitanti. Tanto è vero che subito dopo il mio ritorno in Italia scrissi su quel Paese e le trasformazioni che aveva conosciuto nei cinquanta anni della sua esistenza come Stato un lungo articolo, pieno di ammirazione, su Abruzzo d’Oggi. Ammirazione non infondata, di questo sono convinto ancora oggi quando ormai l’Unione Sovietica è scomparsa e il Turkmenistan è diventato una delle tante repubbliche indipendenti del centro Asia, sotto un potere sicuramente più accentrato e autoritario e probabilmente più corrotto di quanto non fosse ai tempi dell’URSS: non credo, del resto, sia frutto del caso se, nel ‘99, il Presidente della Repubblica, ex segretario del PC turkmeno naturalmente, è stato addirittura acclamato dal Parlamento presidente a vita! Arrivammo ad Ashabad, la capitale, a bordo di un vecchio aereo, un vero e proprio trabiccolo che però ci portò, senza particolari patemi, a destinazione, a circa tremila chilometri da Mosca; e venimmo sistemati in un piccolo ma elegante e accogliente albergo costruito dopo il terremoto del 1948. I nostri incontri e le visite iniziarono subito, ed è tutto documentato, come del resto il nostro soggiorno a Gorkij, dalle fotografie scattate dal fotografo ufficiale che il partito sovietico aveva messo a nostra disposizione sia a Gorkij che ad Ashabad e che io conservo accuratamente. Furono, insomma, anche i quattro giorni passati in Turkmenistan assai intensi e pieni di impegni, come già era accaduto a Gorkij. Con la differenza però che qui le distanze erano tutt’altra cosa: a Gorkij, in pratica, avevi tutto a portata di mano, qui invece... Il Turkmenistan infatti, dal punto di vista della sua conformazione fisica, non solo è un territorio immenso (circa 500 mila Km. quadrati), ma è anche quasi tutto un deserto, il deserto del Karakum che copre circa il 90% del Paese, dove quindi le strade quasi non esistono e c’è bisogno dell’aereo per spostarsi da una città all’altra. Per recarci, ad esempio, a Nebit Dag, la capitale dell’industria petrolifera turkmena sul Caspio, dovemmo utilizzare l’aereo che ci fu messo a disposizione dalla Presidenza della Repubblica. Del resto, proprio per questa ragione, quasi tutte le nostre visite e incontri politici si svolsero tra Ashabad e i suoi immediati dintorni. L’unica eccezione fu appunto la visita a Nebit Dag: qui visitammo alcuni impianti petroliferi e pranzammo, con le maestranze del posto, nel ristorante a loro riservato, in realtà un grosso capannone in pieno deserto dove il caldo era tanto ma per fortuna si trattava di un caldo secco, che non dava affatto fastidio. Ad Ashabad visitammo molti luoghi e avemmo parecchi incontri. Il nostro primo giorno, all’indomani del nostro arrivo, fu naturalmente dedicato all’incontro con i dirigenti del Comitato Cittadino del partito e al giro della città. Ashabad, situata alle pendici del monte Kopet Dag, la vetta più alta del Turkmenistan, in un’oasi ai margini del Karakum, si presentò subito come una città elegante: ampi 250 viali alberati, edifici e assetto urbanistico moderni. Come ci spiegarono al Comitato cittadino, la capitale era stata letteralmente rasa al suolo dal terremoto del ‘48; ma le autorità dell’epoca ebbero la lungimiranza di ricostruirla con criteri moderni e anche di fornirla di servizi e strutture che, prima, non esistevano affatto come, ad esempio, le fognature. Anche i suoi abitanti, uomini e donne, mostravano una eleganza naturale: corpi asciutti, slanciati, visi dai tratti semplici ma belli; soprattutto le donne, con le loro lunghe tuniche colorate, il corpo snello e la pelle vellutata e di un colorito appena tendente al bruno, apparivano dotate di un particolare fascino. Ashabad ospitava anche importanti attività produttive, scuole di vario ordine e grado, con una scolarizzazione assai elevata, e istituti di cultura di tutto rispetto. E pensare che, come ci disse il nostro fotografo, fino ad alcuni decenni prima il Turkmenistan era ancora largamente abitato da popolazioni nomadi e analfabete, dedite prevalentemente alla pastorizia e all’agricoltura: lui stesso -che pure era giovane- era nato in una tenda! Nel corso dei nostri incontri, avemmo modo di visitare una fabbrica di tappeti, in genere assai colorati, e la mostra che vi era ospitata; e, fuori della città, a non molta distanza dalla capitale, di passare una mezza giornata con i colcosiani, che ci apprestarono un succulento pranzo a base di montone e ci illustrarono con dovizia di dati i risultati della loro attività: allevamento del bestiame (in prevalenza ovini e pollame) e coltivazione di vigneti e frutteti. Incontrammo anche, presso il canale Karakum, un’opera gigantesca che attraversa il deserto e porta fino ad Ashabad, lungo un percorso di 1.100 chilometri, l’acqua dell’Amur Darja utilizzata poi fondamentalmente per l’irrigazione, le ragazze e i ragazzi che stavano raccogliendo i bianchi fiocchi del cotone, fu un incontro allegro e ricordo che facemmo anche diverse fotografie con loro. In città, poi, visitammo il Museo letterario e il Museo del tappeto e andammo a trovare i bambini di una scuola materna: i bambini ci accolsero con un piccolo spettacolo e, prima di andare via, pranzammo con le loro maestre. Ricordo che visitammo anche una moschea dismessa e utilizzata non so più per che cosa: ci dissero che a praticare l’Islam erano rimasti ormai solo i vecchi mentre i giovani avevano idee nuove, moderne; in realtà anche in Turkmenistan la religione era stata bandita e i luoghi di culto chiusi, ma si vide anche lì dopo la fine dell’URSS come stavano effettivamente le cose: quelle radici la gente le aveva sempre portate con sé e il divieto della pratica religiosa le aveva perfino rafforzate... Due giorni prima della partenza andammo invece a visitare, nel deserto attorno ad Ashabad, la stazione termale collegata al lago sotterraneo di Bacharden, dove la temperatura dell’acqua e dell’aria è sempre sui 36 gradi e le acque hanno qualità terapeutiche: un lembo del lago emerge all’interno della grotta di Kovata, e ricordo che alcuni di noi vi fecero il bagno. Ultima visita, il giorno prima della partenza, all’ippodromo dove assistemmo alle corse che vi si stavano svolgendo, con i cavalli montati senza sella. Ci fu anche, in quella nostra visita in Turkmenistan, una diversione curiosa, direi buffa, che capitò il giorno del nostro incontro con gli iscritti al partito della capitale, all’Attivo cittadino, nel quale -come a Gorkij- avremmo parlato noi, rispondendo alle domande 251 dei comunisti turkmeni. All’incontro non ci fu grande partecipazione, ma non fu questa la cosa buffa. Ricordo invece che, mentre ci recavamo dall’albergo al luogo dell’incontro, attraversando il centro della città, a un certo punto, non so se per dare importanza alla nostra presenza o per recuperare un certo ritardo sugli orari stabiliti, un’auto della polizia con un altoparlante montato sul portabagagli cominciò a precederci e a ordinare agli automobilisti di passaggio di fermarsi e darci la precedenza: ma quelli non se ne diedero proprio per intesa e continuarono tranquilli a sfrecciare veloci per il lungo viale come se nulla fosse! Uno spettacolo davvero comico: evidentemente, i turkmeni non dovevano sentire molto il richiamo dell’ordine e della disciplina... L’ultimo mio viaggio in un paese socialista è stato, nel 1981, in Ungheria dove tornavo dopo l’esperienza del ‘78. Solo che, a differenza di allora, questa volta si trattò di un viaggio di riposo. E a capeggiare la delegazione ero io: la proposta mi arrivò dalla Direzione del partito quando ormai avevo già accettato di andare in Molise, non so se come premio per questo o per darmi invece la possibilità di ristorare a dovere le mie forze per affrontare meglio le fatiche che mi attendevano. Eravamo dieci coppie (sì, questa volta c’erano anche le donne) e partimmo per Budapest, da Fiumicino, all’inizio di agosto, con un volo della Malev, la compagnia di bandiera magiara. Il nostro soggiorno in Ungheria si protrasse per quasi tutto il mese. E fu una vera vacanza. Anche perché quello era periodo di vacanze anche per gli ungheresi, e infatti fu proprio sul Balaton che incontrai József, il dirigente della scuola del POSU a Budapest, con il quale ebbi modo di scambiare qualche opinione sulla politica del PCI in Italia. Niente incontri politici, quindi, solo visite di natura strettamente turistica, in genere assai distensive e piacevoli. E, infatti, la gran parte della nostra vacanza la trascorremmo sul Balaton; ma anche quando tornammo a Budapest, dove ci fermammo ancora per alcuni giorni prima di riprendere la via del ritorno verso l’Italia, tutto il nostro tempo fu dedicato a conoscere la città. Sul Balaton, eravamo alloggiati proprio a due passi dal lago in un albergo di proprietà del POSU, vicino a Siófok, se ben ricordo, uno dei centri maggiori delle diverse località che fanno corona al grande lago. Naturalmente, ne approfittammo per passare lunghe ore a rosolarci al sole d’agosto e a tuffarci nelle acque cinerine e calde del lago, anche perché il bel tempo ci assistette (i nostri amici ungheresi, scherzando, ci dicevano che eravamo stati noi a portare il bel tempo: potenza dello stellone d’Italia...). A essere sincero, per noi che eravamo abituati ai mari italiani, faceva un po’ senso, almeno le prime volte, mettere piede nel lago. Il Balaton, infatti, è un lago di origine vulcanica e quindi il suo fondo è fatto di una mota piuttosto viscida che, quando te la senti sotto i piedi, provoca qualche disagio. In più, vicino alla riva, ogni tanto si vedevano serpentelli, innocui, solcare le acque, e questo spaventava soprattutto le donne. Nessuno però rinunciava a fare il bagno; 252 passavamo anzi molto tempo nell’acqua a chiacchierare e giocare tra di noi. Tra l’altro, poiché eravamo nella parte meridionale del lago dove, per lungo tratto, i fondali non superano neppure il metro, potevamo fare anche belle passeggiate, un po’ nuotando e un po’ camminando, verso l’interno del grande specchio d’acqua, senza correre rischi di sorta. Anche sulla riva si stava bene. Davanti al nostro albergo, infatti, seguendo i bordi del lago, si snodava una larga striscia, lunga qualche centinaio di metri, fatta di aiuole fiorite, vialetti di ghiaia, piccoli spiazzi arredati con panchine e sdraio dove si poteva tranquillamente passeggiare o mettersi a sedere a conversare e leggere. Ma tutto questo accadeva di solito la mattina, perché spesso il pomeriggio la Direzione dell’albergo ci organizzava visite nei posti più caratteristici della zona o gite in barca e in traghetto sul Balaton. Ricordo a questo proposito una bella gita in barca a vela, la giornata era calda e noi eravamo tutti in costume: lo vedo da una delle numerose fotografie che ho riportato dall’Ungheria e che stanno lì, anch’esse, a raccontare il piacere e la spensieratezza di quei giorni. Un’altra volta invece, sul far della sera e fino ad una certa ora della notte, facemmo la traversata del Balaton con un traghetto-discoteca dove cenammo anche: non fu una traversata proprio gradevole a causa del tipo di musica, un rock metallico assordante, che ci dovemmo sorbire per tutta la serata ma che piaceva invece assai ai tantissimi giovani ungheresi imbarcati con noi! Tra le visite che facemmo ne ricordo bene alcune: Vezsprém, nella parte settentrionale del Balaton, chiamata la città delle regine perché lì venivano incoronate le mogli dei re ungheresi; Sándorpuszta, con il suo allevamento di cavalli; Keszthely, la più antica città del Balaton, già importante centro commerciale al tempo dei romani, con il suo bel castello barocco della ricca famiglia dei Festetics, trasformato in Museo, all’interno del quale si trova la Biblioteca Helikon; e soprattutto Tihany. Tihany è un promontorio che si incunea nel Balaton e che noi raggiungemmo dalla riva opposta, con il traghetto che parte da Szántód. Dal 1952 è parco nazionale; ed è un luogo davvero straordinario per la bellezza dei luoghi dove è possibile anche imbattersi in rarità botaniche e zoologiche. Nel mio album ho diverse fotografie scattate a Tihany e durante la traversata del lago per raggiungere la bellissima penisola: anche quel giorno il cielo era pieno di sole e il paesaggio, così segnato dal verde di una vegetazione fitta che avvolge da ogni lato la piccola cittadina dove svettano le cuspidi della chiesa barocca del ‘700 che racchiude al suo interno preziosi intarsi di legno, appariva ancora più splendido e luminoso. Tuttavia un episodio assai sgradevole accompagnò quella giornata meravigliosa. Per imbarcarci sul traghetto, a Szántód, eravamo partiti dall’albergo con il pullman. Ma, quando arrivammo nei pressi della zona d’imbarco, trovammo davanti a noi una tale fila di auto e di pullman che rischiavamo di perdere l’appuntamento. Momenti di grande disappunto tra i nostri accompagnatori ungheresi, ma la direttrice dell’albergo che era con noi risolse d’autorità la situazione: scese dal pullman, dopo aver invitato perentoriamente l’autista a seguirla con il mezzo, e, forte del fatto che era del POSU e 253 accompagnava una delegazione straniera, costrinse piuttosto bruscamente pullmans e auto a sgombrare una parte della carreggiata per lasciar passare il nostro pullman. Potemmo così giungere a tempo all’imbarco, ma non vi dico, care nipoti, quale non fu il nostro imbarazzo per la prepotenza di cui eravamo stati testimoni e anche la causa involontaria. Avevamo anche visto, oltretutto, le proteste della gente, ai cui occhi, certo, neppure noi facemmo una gran bella figura... Nell’albergo che ci ospitava non c’eravamo solo noi italiani. Vi erano anche un piccolo gruppo di comunisti tedeschi della Germania Federale (dove il loro partito era fuorilegge) e una forte delegazione sovietica, c’era poi anche una coppia rumena di Bucarest con la quale stringemmo subito amicizia e ci scambiammo anche qualche cartolina dopo il nostro ritorno in Italia. Con i tedeschi ci fu subito intesa: era gente allegra, giocherellona, che amava stare in compagnia e divertirsi. E infatti con loro organizzammo, sia in albergo che sul lago, balli, giochi un po’ bizzarri come si può vedere dalle fotografie del mio album e gare varie dove ci scontravamo anche con un certo accanimento ma dove quasi sempre però vincevamo noi. Non solo eravamo più giovani, ma i nostri ci mettevano anche un particolare impegno perché erano tedeschi e nessuno voleva dargliela vinta. Nei loro confronti -anche se comunisti- si faceva ancora sentire tutto il peso della storia. Ricordo, anzi, che, in una di queste gare, si trattava di saltare degli ostacoli, ci fu perfino una coppia di nostri vecchi compagni, romagnoli, ex partigiani, che ce l’avevano a tal punto con i tedeschi da partecipare anch’essi a quel gioco piuttosto rischioso per la loro età pur di non farli vincere. Ma, nonostante la loro simpatia, i nostri amici tedeschi avevano un difetto per noi imperdonabile: quello di andare, di solito, a letto con le galline e alzarsi alle prime luci dell’alba, mentre noi amavamo tirare tardi. E questo provocò qualche piccolo screzio tra noi e loro. Ricordo a questo proposito un episodio che, alla fine, si concluse con tante risate ma che intanto ci fece arrabbiare tantissimo. Spesso la sera, dopo la cena, parecchie coppie del nostro gruppo andavano a ballare in una discoteca appena a un tiro di schioppo dall’albergo. La musica di moda nel locale era naturalmente il rock, ma noi riuscivamo anche a far suonare canzoni italiane e, soprattutto, napoletane, così potevamo ballare anche ai nostri ritmi. Ma un giorno accadde che, tornando dalla discoteca a notte ormai alta e quando i nostri amici erano già da qualche ora nelle braccia di Morfeo, ci fermammo, un bel gruppo, davanti all’albergo, mettendoci prima a chiacchierare tra di noi e poi a cantare. Non l’avessimo mai fatto perché mal ce ne incolse: infatti, nel bel mezzo delle nostre chiacchiere e dei nostri canti, ci vedemmo all’improvviso piombare addosso, dall’alto, un bel secchio d’acqua, erano i nostri amici dormiglioni che non ne potevano più di vedersi interrompere il loro sonno prezioso e avevano deciso di reagire! Insomma, abbiamo passato parecchie serate divertenti con il gruppo di comunisti tedeschi della Germania Ovest; e forse con qualcuno di loro avremmo anche potuto rincontrarci negli anni seguenti se non ci fosse stato di mezzo l’ostacolo della lingua, oltre che della distanza. 254 Anche qui ricordo un episodio, un po’ comico nel suo svolgimento, ma che testimonia del buon rapporto che avevamo stabilito con loro ma anche della difficoltà a mantenerlo. Eravamo tornati in Italia appena da qualche giorno quando arrivò a casa mia una telefonata di Hermann, uno dei nostri amici. A casa c’era solo Rosetta, con i ragazzi, io ero invece fuori, sicuramente a qualche riunione. Così fu lei a rispondere. Ma la conversazione durò solo pochi secondi, il tempo di dire: Antonio, Antonio..., da parte di Hermann che non conosceva l’italiano e parlava in tedesco, e da parte di Rosetta, digiuna a sua volta di tedesco, di rispondere in italiano: Antonio non c’è, Antonio non c’è...! Quando eravamo sul Balaton, a gesti riuscivamo comunque a capirci ma per telefono... Così da quel giorno non ci furono più telefonate, né da parte nostra né da parte di Hermann! Con i sovietici invece non ci fu proprio storia. Era una delegazione composta prevalentemente di coppie anziane, proveniente probabilmente dal profondo della provincia sovietica. Se ne stavano sempre per conto loro, ignorando tutti gli altri ospiti dell’albergo, e c’era nei loro atteggiamenti e nei loro modi di fare anche una certa sufficienza (chissà, era forse spocchia da grande potenza!). Né ci fu mai neppure l’occasione di scambiare con loro qualche battuta. E non è che non davano confidenza solo a noi: lo stesso accadeva con i tedeschi e la coppia rumena. Atteggiamento davvero incomprensibile! Le uniche occasioni di contatto con loro ci furono solo al momento del nostro arrivo e poi della loro partenza. Come si usava in queste occasioni, a pranzo ci furono i soliti brindisi di saluto (sempre molto enfatici, naturalmente) da parte mia e del loro capodelegazione, ma a base questa volta di pálinka (una grappa ungherese fatta di albicocca, mela o ciliegia) e non di wodka. Il nostro commiato dal Balaton avvenne con un gesto molto carino da parte nostra. La bella e bionda Judith, la nostra interprete, stava per sposarsi; e così, prima di partire, decidemmo di farle il regalo di nozze. Le regalammo cento mila lire, diecimila a coppia, una bella somma per l’epoca, soprattutto per lei che viveva in Ungheria dove i redditi pro-capite non erano certo alti! Gli ultimi giorni della nostra vacanza li passammo, come ho già accennato, a Budapest. Budapest è una città splendida, di cui non finisci mai di ammirare l’eleganza architettonica e urbanistica e i paesaggi urbani e naturalistici di cui è ricca. Come l’isola Margherita. O la collina di Buda, con il Castello Medioevale, la chiesa di Mattia e il Bastione dei Pescatori, dalla quale si può godere lo spettacoloso panorama della pianura sottostante dove c’è il Danubio che divide in due la città fluendo lento e maestoso sotto il Ponte delle Catene e gli altri ponti che l’attraversano e c’è Pest che dalla riva sinistra del fiume si dirama verso la pianura con i suoi viali, i suoi monumenti, le sue ville signorili, i suoi edifici monumentali. Nei pochi giorni a nostra disposizione non ci fu possibile naturalmente vedere molto. 255 Tuttavia, quel poco che vedemmo fu davvero interessante. In particolare, di quei giorni ricordo il giro della città, che ci consentì di conoscere i suoi monumenti più significativi, la visita alla sede del Parlamento nazionale, l’ascesa alla collina di Buda dove, al Bastione dei Pescatori, potemmo anche fare acquisti di manufatti dell’artigianato locale approfittando della presenza nella zona di un piccolo commercio libero consentito dallo Stato, e poi le ore passate nell’isola Margherita e la gita in battello all’Ansa del Danubio, fino ad Esztergom. Buda, con Óbuda nata sulle rovine della romana Aquincum, è la parte più antica della città; ed è stata per lungo tempo la città del potere di cui conserva ancora i simboli, a partire dal Palazzo Reale, mentre Pest era la città dei mercanti e dei commerci, fino alla unificazione, nell’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, dei tre centri con la nascita di Budapest. Ma a Buda non ci sono solo i simboli del vecchio potere, ci sono anche degli ottimi ristoranti; e fu proprio in uno di questi che ci ritrovammo qualche giorno dopo la nostra visita ai suoi monumenti per la cena d’addio, al lume delle candele e al suono dei violini tzigani. L’isola Margherita, dove passammo quasi una intera mattinata, favoriti anche questa volta dal bel tempo, è invece un grande parco di quasi cento ettari, dal quale le automobili sono proprio bandite, adagiata nel bel mezzo del Danubio. Anche di questa gita conservo alcune fotografie: siamo lì a passeggiare lungo i vialetti di ghiaia del parco, in mezzo agli alberi e alla fitta vegetazione di arbusti, e a goderci l’atmosfera mite e idilliaca della giornata sdraiati sul prato o giocando, circondati dalle aiuole ricche di fiori, con i nostri amici. Di interesse anche politico fu, invece, la gita in battello all’Ansa del Danubio. Ma a darle questa valenza non fu la gita in quanto tale quanto la sosta che facemmo ad Esztergom, già sede dei re magiari e cuore della Chiesa ungherese da lunghi secoli. Esztergom infatti, è la sede del primate della Chiesa cattolica ungherese, sede quindi di quel József Mindszenty che, nella sua qualità di primate, giocò un ruolo di primo piano nei giorni terribili della rivolta ungherese del 1956 e che fu poi costretto a vivere per quindici lunghi anni nell’Ambasciata americana dove si era rifugiato al momento dell’ingresso dell’Armata rossa a Budapest, fino alla sua accettazione, nel 1971, dell’invito del Vaticano a lasciare l’Ungheria. Anche se eravamo nel 1981, quel nome era noto anche ai più giovani tra noi; e non godeva certo della nostra simpatia come di quella dei nostri accompagnatori. Di orientamento fortemente conservatore e anticomunista, Mindzendy non usò certamente, in quei giorni, la grande influenza che la Chiesa esercitava sulle masse popolari ungheresi per aiutare la ricerca di una soluzione politica a una situazione che rischiava ogni giorno di trasformarsi in tragedia e che come tale poi finì, anzi...! 256 Congedo Bene, mie care nipoti! Con il nostro ritorno a Roma da Budapest, siamo arrivati finalmente alla fine del racconto. Ma vedo che vi agitate un po’: dite che manca ancora qualcosa?! Ah, sì! Volete sapere dove erano i vostri papà mentre io e la nonna ce la spassavamo in Ungheria. Ma semplice, sono restati in Italia, erano già grandi ormai: Massimiliano quasi diciotto anni e Stefano quindici. E comunque vi assicuro che si sono divertiti molto anche loro. Hanno infatti passato il mese di agosto girando un po’ di qua e un po’ di là, tra Villalago Sora Cugnoli e Chieti, ospiti di nonni amici e parenti vari. Quindi... Ma non perdiamo altro tempo: è male far chiacchiere al vento, dice Omero. Passiamo perciò subito al congedo, quello che un tempo serviva ai poeti non solo per chiudere le loro canzoni ma anche per inviare a volte qualche messaggio. Nella prima metà di settembre di questo 2006, la nostra scelta per le cure termali è caduta su Acqui Terme, in provincia di Alessandria. Dal punto di vista gastronomico, non è stata una grande scelta, peggio anzi non poteva andare. In compenso però abbiamo avuto la possibilità di conoscere Torino e diverse altre località del Piemonte molto belle e interessanti e anche di fare una scappata a Genova che non dista molto da Acqui. Tra le nostre visite non potevano mancare naturalmente S. Stefano Belbo, il paese natale di Cesare Pavese, un poeta che mi è sempre piaciuto, e le Langhe, le dure colline, le terre di vigne, di prugnoli e di castagneti che Pavese ha cantato nelle sue poesie e nei suoi romanzi, trasformandole in uno scenario mitico, senza tempo, per le sue opere letterarie. Una visita fugace, com’era inevitabile, ma densa ugualmente di emozioni di fronte, ad esempio, alle tante cose che parlano del poeta raccolte nel Centro Studi a lui intitolato. Ricordo in particolare l’emozione che mi prese davanti alla teca che contiene la copia dei Dialoghi con Leucò che egli aveva con sé quel tristissimo giorno e sul cui frontespizio aveva vergato le sue ultime righe, prima di togliersi la vita. I Dialoghi con Leucò è il libro che Pavese prediligeva e nel quale forse è possibile rintracciare le ragioni profonde che l’hanno convinto a superare il limite posto agli uomini dagli dei di mischiarsi con le presenze vive e multiformi del mondo della natura, del mondo del mito appunto. Tornando a casa, ho ripreso in mano il libro e ho scorso di nuovo qualche pagina e, pensando a questo epilogo del mio racconto, mi è sembrato, mie care nipoti, che il modo migliore per concluderlo fosse fare mie le parole dette da Circe a Leucotea, in uno degli ultimi dialoghi: L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo... Raccontando la mia vita, non solo ho cercato di rispondere alla domanda che Valentina mi ha fatto alcuni anni fa, augurandomi naturalmente di esserci riuscito. Ho voluto anche che proprio questo racconto fosse il ricordo che io lascio a voi per i giorni dell’assenza: 257 quelli, inevitabili come le rose a primavera e i frutti in estate, ai quali tutti un giorno approderemo. C’è, ovviamente, in questo mio piccolo dono anche la speranza che esso possa esservi utile almeno un po’ nella costruzione del vostro futuro e possa persino offrirvi qualche idea per portare anche voi, quando sarete grandi, il vostro contributo, come io ho cercato di fare nella mia vita, alla realizzazione di un mondo migliore per tutti. Da questo punto di vista, ho fatto un po’ come gli antichi scribi egiziani che lasciavano ai figli e ai nipoti i loro Insegnamenti. Come diceva uno di loro: Ecco, io ho fatto l’inizio, tu annoda la fine... E’ vero, il mondo oggi è già grandemente cambiato, e chissà quanto cambierà ancora negli anni che vi aspettano. Potrebbe essere diversamente, del resto? La corrente dell’acqua si è allontanata lo scorso anno, e questa che passa è già un’altra acqua... Ma non lo dimenticate mai: non solo il futuro nasce anche dal passato, perciò sapere da dove si viene è un po’ come sapere dove si va. Ma la memoria di ciò che è stato può essere molto importante anche per capire meglio quel che accade attorno a voi e per affrontare con lucidità i cambiamenti e non aver paura di essi. D’altra parte, è anche questo il modo per dominarli e indirizzarli, sapendo che i cambiamenti non sono tutti uguali e non hanno sempre tutti un segno positivo: a volte il cambiamento è in realtà un ritorno indietro antistorico o rappresenta una deviazione pericolosa da un cammino di progresso. Guardate in avanti, dunque, ma ascoltate anche il passato. E soprattutto non smarrite le vostre radici: senza radici, l’albero secca. Voglio dire che le grandi idee di libertà, democrazia, fraternità e uguaglianza tra gli uomini sono sempre state la mia bussola; e spero che continuino a essere anche la vostra. Sono le idee a cui tenere sempre fermo lo sguardo, le idee per le quali battersi ogni volta che è necessario, le radici appunto... Comunque, coltivatele con cura. E fatelo sempre con l’impegno e la consapevolezza di cui siete capaci, ma anche con serenità e quel pizzico di allegria e creatività che ogni gioco richiede, anche il grande gioco della vita. Come facevate quando eravate ancora piccole, allorché giocavamo a inventare le favole. Ricordate? Ognuna diceva la parolina che voleva fosse la chiave della favola, poi le mescolavamo tutte assieme e alla fine la favola nasceva davvero. O, ancora, come facevate quando ci divertivamo a giocare con gli scioglilingua. La vita, mie care nipotine, è anche una favola e uno scioglilingua, perciò datevi sempre da fare come si deve per avere il risultato migliore; e metteteci sempre tutta la vostra intelligenza, passione e fantasia, e siate brave ora che anche la vostra vita si fa più impegnativa come già lo eravate nella vostra verdissima età. E non lasciatevi prendere dalla impazienza come accadeva quando, la sera della vigilia, non vedevate l’ora di aprire i regali di Natale: come sapete anche voi, la gatta furiosa fa i gattini ciechi! E adesso, dopo tutti questi insegnamenti da vecchio e barboso scriba, provate ancora una volta a ripetere con il nonno: 258 Supercalifragilistichespiralidoso oppure, se preferite, Se l’arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescoviscostantinopolizzasse, ti disarcivescoviscontantinopolizzeresti anche tu...? Potete naturalmente, se ve ne viene voglia, anche divertirvi a ripetere col nonno, pur se non si tratta di uno scioglilingua ma solo di una vecchia filastrocca di quand’ero io bambino, che però avete ripetuto assieme a me tante volte nella vostra infanzia (e non dimenticate, mi raccomando, di ripetere due volte il primo verso e poi, alla fine, di fare con le dita di tutt’e due le mani il solito lieve sberleffo, che voi conoscete bene, sulle guance del bambino col quale state giocando): Musce muscia jatte, che ‘ssi magnate jere sere, so’ magnate pan’e casce, frischie frischie ca ‘nni è lu vere! E c’è anche, lo sapete bene, l’altra filastrocca infantile, anch’essa assai divertente, che il nonno vi ha insegnato, rivolta alla luna: Luna luna luna dammi ‘nu piatte di maccarune e si tu ni’ mme le dì ji’ te rompe la chitarrelle e si ni’ mme ci mitti lu casce ji’ ti sfasce la rattacasce... 259 Appendice 260 LE POESIE DEL NONNO (scritte quando era giovane) Le poesie qui raccolte (non secondo un ordine cronologico) sono state composte dal nonno quasi tutte negli anni ’50, soltanto qualcuna nei primi anni ’60; e sono naturalmente solo una parte delle tante partorite durante i suoi empiti poetici, molte per fortuna vostra sono finite in pasto alla critica roditrice dei topi, come diceva il vecchio Marx. Il nonno allora aveva molte velleità poetiche, poi col passare degli anni queste sue pulsioni si sono indirizzate, forse con miglior risultato e comunque con maggiore utilità per tutti, in altre direzioni. Non vi nascondo però, rileggendo oggi a distanza di oltre cinquant’anni queste poesie, che non manca in esse un certo fascino, e lo si sente ancora nonostante il tanto tempo trascorso. Spero, mie carissime nipoti, che questo fascino possiate avvertirlo anche voi quando le leggerete; e comunque siate benevole nel giudicarle: esse vogliono essere innanzitutto, prima ancora che poesia nel senso più alto che ha questa parola, l’espressione di un mondo di fantasie e di sentimenti che il nonno ha cercato di vivere, negli anni della sua giovinezza, con il massimo di intensità. Naturalmente, il modo in cui il nonno sente ed esprime questo suo mondo risente del clima culturale dell’epoca e anche delle letture che egli andava facendo in quel periodo. Così, è possibile ritrovare in queste poesie echi non solo di Leopardi che io ho sempre molto amato (nelle prime poesie, anche di Pascoli), ma anche ovviamente di Ungaretti Quasimodo Montale, i poeti che allora dominavano la scena italiana (e non solo); e, nelle poesie più recenti, anche di Cardarelli e Pavese (quello soprattutto di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi). Ma, come è facile intuire, vi sono in esse anche altre risonanze, in qualche caso forse non proprio agevoli da rintracciare: parlo, ad esempio, dei lirici greci e della loro essenzialità espressiva che don Antonio ci aveva insegnato ad amare negli anni del liceo, ma anche di R. Tagore, il grande poeta indiano che avevo conosciuto tramite alcune vecchie edizioni Carabba e che allora leggevo con molto interesse, e, addirittura, anche di alcuni testi buddistici, sempre pubblicati da Carabba, che allora mi affascinavano particolarmente; mi piaceva poi la parola preziosa, rara (un pizzico di D’Annunzio, dunque, ma senza dannunzianesimo credo) e anche la parola che già di per sé evoca una atmosfera poetica nel senso che dice Leopardi nello Zibaldone quando osserva che “il linguaggio poetico…consiste, se ben l’osservi, in un modo di parlar indefinito, o non ben definito, o sempre meno definito, del parlar prosaico o volgare”. In quegli anni inoltre, ma anche oggi per la verità, mi piaceva molto il grande pittore francese Paul Gauguin alla ricerca disperata, con la sua grande pittura, di paradisi perduti; e anche gli echi di questo incontro, così pieno di suggestioni rarefatte e in qualche modo intrise di misticismo, è possibile ritrovare nelle mie poesie di allora. Ho voluto fare queste brevi annotazioni, non tanto per darmi una qualche importanza quanto piuttosto per sottolineare come anche il nonno, nel suo piccolo, era riuscito 261 a costruirsi un suo linguaggio poetico originale, capace di esprimere quel mondo di fantasie e sentimenti che ho prima ricordato, riuscendo ad assorbire e a far riemergere in forme nuove e fresche tutte le suggestioni che via via, attraverso la frequentazione della grande poesia non solo italiana, si erano sedimentate dentro di lui. Forse, ad aiutarlo in questo, sono state proprio la ricchezza e l’autenticità di quel suo mondo! Due avvertenze conclusive. La prima è che diversi di questi componimenti poetici non hanno titolo, potete così sceglierlo voi per ognuno di essi, ciascuna quel che più le piace; la seconda è che in qualche occasione il nonno si è preso delle licenze poetiche, è il caso -ad esempio- di due parole che vi troverete davanti strada facendo e che sono un po’ una invenzione del nonno: abbrivida al posto di abbrividisce (abbrivida faceva più atmosfera e non rompeva il ritmo del verso) e ciaulìo che è un termine dialettale italianizzato, con il significato di cicaleccio, tratto da ciavelijà (appunto cicalare). Prima del nonno, l’hanno fatto già tante volte autori ben più importanti, quindi non è proprio una colpa grave...! 262 IL RITORNO DELLA PRIMAVERA Già torna l’aprile e primavera tutt’attorno aulisce, cantan gli uccelli e ridono le gemme fresche sui rami intatti e son fioriti i mandorli gioiosi: e noi fuggirem con dolcezza sovra l’ali del sogno, che il tramonto a noi placido e lento tra sussurri di zefiri ridona e nimbi di profumi e d’armonie. 263 NOVEMBRE Piange novembre come una fanciulla delusa e stanca. Che malinconia! La nebbia dorme sopra le colline, le dolci valli pallida intristisce, e gli olmi hanno deposto sulla terra umida e fredda il lor festivo ammanto. L’ammanto imputridisce, e gli olmi nudi restano intanto. Che malinconia! 264 UOMO Solo è nel mondo, perché solo è tutto nel mondo. E ognuno il suo tormento vive nel deserto mistero del suo nulla. 265 ALLA SOFFERENZA Bello era allora il nostro focolare! Come spose novelle liete fuggian le scintille in alto e fiorivano i cuori alla speranza, cantarellava come pesco in fiore ogni volto ogni sguardo ché lievemente come una carezza serena e dolce scorrea la vita. Or dimesse e cascanti ombre sospiran presso alla deserta fiamma che muore; e sempre, di forma in forma errando, fantasmi inseguo ed il migrante mio cuore non incontra che te nel suo cammino. 266 Dolce è nel fiore vanire, vanire nel vento che rapido odora d’un mite profumo di tomba. La vita è silenzio, d’ombre amare d’erbe corrose: come fragile battito d’ali si perde il mio cuore. 267 ADDIO Come una soave immensa fiaba tu fosti, perduta. E il mio cuore è un giardino deserto inondato di pianto. Nel frascheggiare degli olmi bisbigliano ora i nostri sogni delusi come un mormorio di mille voci lontane. Addio, melodiosa fioritura di sogni e di speranze, addio. 268 SOLITUDINE Pensosi colloqui d’amore intreccia a notte la pioggia con la siepe dolente, il canto sommesso del vento logora il cuore. 269 RIPOSEREMO! Riposeremo! Che lunga fatica la vita! E come deserto il cammino! Seminato di sterpi di sassi che pungono al cuore. Riposeremo! 270 UN’ALTRA VITA Un mare azzurro che s’apra in melodie infinite e dove nessuna dolcezza è dimenticata. Una casa smarrita nello spazio e vibrante dei sogni estivi che inghirlandano il bosco e cullano la sera. E un giovine sorriso che mi scaldi il cuore e la primavera danzante che mi raccolga nelle sue braccia odorose. 271 IDILLIO Di tanta dolcezza appena un sogno rimane fuggevole e stanco. Leggera vola al mio cuore la melodia del tuo sguardo sereno. 272 PER UNA FANCIULLA MORTA Tu che ora hai nera la bocca come la terra, eri un canto sommesso nel trepido amore di un sogno. Con tacito incanto il tuo leggero passo di danza si perde nel buio. A quale intatto sorriso volasti, a quale stupita fiaba di colori e di suoni? 273 Sussurri infiniti limpidi risi nella sera d’estate; e un ricordo ti porta ogni fiore, ogni filo d’erba ancora una vecchia favola canta. 274 ALLA LUNA Sospirano i pioppi, e le stelle trascoloran d’amore: aneliti brevi sussurrano in pianto. Tu sorgi. S’incantano i pioppi, di mistica fiaba si vela ogni cosa nell’aura che tace! 275 ALLA SERA Come soave d’aeree solitudini trapungi azzurre fantasie! E trepidi incanti, o sera, sfiorano il pensiero e languidi abbandoni. Nel tuo mistero fluisci serena, o sera, e placida salpi a dolci isole di pace. 276 SERA D’ESTATE La rondine bisbiglia, e trascolora al lieve aprirsi della sera l’ondulare dell’erba: e la nuvola silenziosa trapunge riposi d’ombra e ti raccoglie se il vento ti sfiora in un delicato ricamo di foglie e di sogni. 277 SERA DI VILLAGGIO Bisbigli curiosi pei viali d’ombre frusciano soavi, sul fiore argenteo dell’acqua riposano assorti incanti sereni. Languidi e freschi odorano i silenzi. 278 La chitarra fatua evoca la sera: sospiri di vento disperdono i sogni, salpa la luna che già lieve trapunge infiniti silenzi armoniosi. 279 Almeno potersi inebriare di questa levità serena che infiora ogni silenzio, ridere e danzare come allodola leggera al vento, rinnovarsi e compirsi dove la vita muore e il silenzio ti sfiora come ala d’uccello. 280 ALLA NOTTE I nostri naufraghi cuori riconduci ai dolci sentieri del riposo, per noi rinnova i silenzi arcani dove in serena trasparenza appare e vive perenne di luce ognor sorriso il desiderio dell’uomo, dove la vita si tramuta in canto e tace ogni pianto e fragranze di fiori e gioia di colori sorridono in divini abbandoni. 281 Ma quando il giorno in lenta sera estenua, e delicata l’erba sussulta, puro il tuo sogno di rosa e azzurro dispieghi, o pace, e la morte ci sfiora simile a pioggia che timida bruisce e culla attenta l’estasi dei prati. 282 SOGNO D’ESTATE Abbarbicato a nuda roccia, sogno plenilunii profondi, placidi abbandoni di cime tra stupori di perle. E mi distendo nelle soffici valli. Tra deliquii d’ombre abbrivida la foglia di languido argento, trasparenze di sogni astrali incantano il sereno. 283 AUTUNNO Il vento ci screpola il cuore, ci logora l’acqua imbrattata di fango: nella pioggia che impigra cade ogni voce. S’addorme il giorno nel suo tranquillo tedio intriso di nebbia, e tra i morti uliveti singhiozza la nostra solitudine. 284 NOSTALGIA Il fiore che ancora tremola nel giardino mi porta ricordi di lontananze indicibili presentimenti dolci del sangue nel ritmo di melodie antiche. Ma se tu entri nel mio pensiero la febbre amara mi scuote e scande immutabile il valzer della tua nostalgia. 285 CANZONE D’AMORE Un languore di brume racchiude il nostro silenzio. E se dolce l’autunno ti sfiora e lungamente ti morde il cuore, il vento di settentrione di foglia in foglia ripete il nostro pianto segreto; e nei tuoi occhi estenua il crepuscolo triste dei ricordi si sfoglia la sera nel delicato aroma dei tuoi sogni. 286 IL SALICE Tu sogni, lento salice, bisbigli e profumi, ti dondoli pigro, e non stupisci se al primo soffio d’esiti virginali l’erba s’irrora. Ti chiudi silenziosamente nel divino labirinto del tuo non senso e la tua frivolezza è un dolce incubo nelle sere affaticate. 287 SCENETTA ESTIVA (di almeno trent’anni fa) Lo zingaro -sporco alto ricciutogira in tondo il cavallo, i fuochi allungano le ombre e dalle finestre socchiuse curioso lusingato scappa un occhiolino di luce per la dolce serenata dal castagno buio. 288 I SOGNI DISMESSI Gli occhi spauriti scandagliano il silenzio. Il silenzio arido di là dai vetri. Fruscio di vento nella stanza buia. Ma il fruscio del vento sordamente dilegua nel ronzio del cuore e dietro, su un’aria languida e triste, incespicano i sogni vestiti da arlecchino. 289 FANTASMI Ma una carta del solitario scivola improvvisa sulla terra nuda che ha colore di morto. A fatica ti pieghi, e gli occhi fissano la mano che stanca dondola e ti rammenta il ramo spezzato dei tuoi giochi di fanciullo, il ciaulio delle ragazze, l’ombra accovacciata agli angoli delle case. Fantasmi. Nulla più che fantasmi, disseccati dal nulla. Due rintocchi scuotono il giardino. 290 La tua grazia e la tua delicatezza, la tua spontaneità, la tua forza interiore hanno il profumo intenso dei campi nelle sere di primavera. Tu sei un dolce respiro d’alba, la forza silenziosa del vento quando piega dolci distese d’erba nelle sere di primavera e le fa rabbrividire. Il respiro lieve delle sere di luna che amo come la fragile ragnatela dei tuoi sogni sulla fronte sfumata disegnata dalla luna. Ora ascolto le dolci distese d’erba in questa sera di primavera; le guardo assorto, mosse dal vento: e non so dire che nostalgia mi sale della pace dei tuoi occhi da esse, del tuo silenzio, della tua indicibile ansia di esistenze incontaminate, del tuo fresco sorriso. 291 MALINCONIA Ora l’autunno con i suoi silenzi e l’erbe impigrite ci porta ricordi e nostalgie amare e pianto lungo di vento che scuote il cuore e piogge senza fine. 292 NOTTURNO I Alberi assorti sul ciglio dei sentieri. L’erba estenuata riposa nel cuore del silenzio. 293 NOTTURNO II Dormono abbandonate lungo i declivi appiè degli alberi le ombre; e un canto le sfiora cullando i pioppi nel tranquillo sonno. 294 INVERNO Ora, a notte, non c’è che il vento, e il brivido profondo dei rami nudi. 295 LAMENTATIO IN MORTE AMORIS ET IUVENTUTIS Forse ripensi ancora le calde sere d’estate passate amorosamente al chiaro romantico della luna o all’ombra densa degli olmi quando ancora viva in noi era la forza feconda della giovinezza; o il ricordo l’anima t’accende degli azzurri ricami delle nuvole sospesi sopra la primavera fiorita ora che la rosa di macchia s’immerge nell’ombra e il tuo viso diventa buio; o forse ti sollecita la favola amara narrata dal vento di settentrione che ti sfiora con le sue dita fredde e chiude i sogni nel cerchio grigio dell’aridità; forse altro ancora ti morde il cuore tanto oggi sembri estranea e come un’eco lontana è la tua voce già calda. Oh! se ricordo il tuo amore e la tua ansia di vita e l’affluire ininterrotto di sogni nel porto della nostra felicità e il messaggio incomparabile della giovinezza. Ma la vita non ha messaggio che duri, e ora noi siamo non più che la foglia dell’olmo davanti casa quando giunge l’autunno: il vento impudico disperde anche la cenere del nostro amore e a una a una sfoglia le rose del tuo sorriso mentre più buio e lontano si fa il tuo viso si fa il mio viso. 296 FRAMMENTO Ora, anche il crisantemo è sfiorito; e della nostra giovinezza non restano che questi pochi fogli ingialliti che una volta parlavano d’amore. Di te, di me… 297 COLLINE Per la rinnovata dolcezza di queste colline ho tanta nostalgia e tanto amore, ho fame di quest’erba fresca che mi ristori nel mio lungo errare. Ma il mio sospiro fu già l’ansia di mio padre e il vento che non ha paese ogni cosa disperde nel suo non senso; e ancora io sono, figlio dell’uomo solo, a sognare le dolci colline perdute. 298 Ricordo ancora la notte di settembre così dolce così piena d’ombre e, quando la spinge il vento, la luna che disegna ghirigori improvvisi e scopre l’incanto delle colline adagiate sul fondo delle valli, le strade di campagna solitarie popolate degli incubi lontani della mia fanciullezza, le file degli alberi addormentati lungo il vallone, i tetti d’argento delle masserie abbandonate. Ma non m’inganno, or non è più quel tempo, e ciò che io sono non è ciò che avrei voluto essere: erra a lungo l’uomo in cerca di se stesso ma chi conosce la fine del cammino? 299 PICCOLI MOTIVI MUSICALI I Tinniscono le campanule sospirose, frusciano l’erbe e le foglie degli alberi assonnati. Tacito e solo il camposanto dorme nella pace lunare. II Dolce tu sali, o sera, le mormoranti colline: appiè dei passi armoniosi germina il silenzio. III Pallidi ori accendono i tramonti. IV Appiè degli ulivi antichi germina l’ombra. Trepidano stelle tra sussurri di foglie. V Sì soave è il tuo pianto, lontana eco di sogni in questo deserto; e stanchi tremano canti nel mio cuore, o pioggia. 300 VI Dolce è il canto che dai campi sale come cuor di fanciulla. VII Batti ora, o pioggia, la tua lenta musica, e culla mi sia di tristezza e di morte. VIII La nuvola solitaria sogna melodie azzurre. IX Il tempo scivola silenzioso nel nulla. 301 Indice generale Mie care nipoti... prologo capitolo i capitolo ii capitolo iii capitolo iv capitolo v capitolo vi capitolo vii capitolo viii capitolo ix elogio della cicala capitolo x capitolo xi capitolo xii capitolo xiii capitolo xiv congedo 7 11 37 57 77 103 117 135 151 169 191 195 207 219 227 241 257 Le poesie del nonno il ritorno della primavera novembre uomo alla sofferenza dolce è nel fiore vanire addio solitudine riposeremo! un’altra vita idillio per una fanciulla morta sussurri infiniti alla luna alla sera sera d’estate sera di villaggio la chitarra fatua almeno potersi inebriare 263 264 265 266 267 268 269 270 271 272 273 274 275 276 277 278 279 280 302 alla notte ma quando il giorno sogno d’estate autunno nostalgia canzone d’amore il salice scenetta estiva i sogni dismessi fantasmi la tua grazia malinconia notturno i notturno ii inverno lamentatio in morte amoris et iuventutis frammento colline ricordo ancora piccoli motivi musicali 281 282 283 284 285 286 287 288 289 290 291 292 293 294 295 296 297 298 299 300 Indice 302 303