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USA: dal
common ground
a l Te a P a r t y
Riforma
e reazione:
le strade dei cattolici
americani
Nell’ultimo mezzo secolo la Chiesa cattolica
negli Stati Uniti ha conosciuto un cambiamento
vasto, profondo e irreversibile quale mai nella
sua storia precedente, una rivoluzione innescata
da fattori interni alla vita ecclesiale, come il concilio Vaticano II, ma anche esterni come l’evoluzione culturale degli anni Sessanta. Gli effetti
sono stati una crescita numerica, una progressiva affermazione sociale e culturale dei cattolici
nella vita del paese, un’inedita rilevanza politica
sia dei vescovi sia dei laici fino agli anni
Novanta. Ma molti dati nell’ultimo quindicennio
rivelano un’inversione di tendenza: dalla stagione del dialogo a quella dell’incomprensione tra
gerarchia e fedeli (M. O’Toole), in particolare le
donne (K. Sprows Cummings), delle scomuniche
e della polarizzazione sui temi morali e sulle
scelte politiche (J. McGreevy). Con i vescovi
impegnati in una battaglia culturale nella quale
le truppe non li seguono, e che rischia di compromettere ulteriormente l’unità ecclesiale di
fronte alle nuove sfide che si affacciano sulla
scena (M. Faggioli). Il 2 novembre, data delle
elezioni di medio termine, sarà un banco di
prova non solo per il presidente Obama.
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el novembre del 1989, in un luminoso
pomeriggio domenicale, trecento vescovi cattolici provenienti da tutti gli
Stati Uniti si riunirono a Baltimora
per una celebrazione eucaristica in occasione del bicentenario della loro
Chiesa. Erano passati quasi esattamente duecento anni da quando il papa Pio VI aveva nominato John Carroll, gesuita e discendente da un’antica
famiglia del Maryland, primo vescovo cattolico del paese
divenuto da poco indipendente. La Chiesa e la nuova repubblica erano coetanee: Carroll divenne vescovo alcuni
mesi dopo che George Washington era diventato presidente.
A distanza di due secoli, l’anniversario venne celebrato con un nutrito programma di iniziative che si protrassero per vari giorni: convegni storici, esibizioni speciali
dell’Orchestra sinfonica di Baltimora, una mostra di tesori provenienti dai Musei vaticani nella Walters Art Gallery della città, incontri con rappresentanti di altre religioni. Il punto culminante della commemorazione fu
quella celebrazione eucaristica, presieduta da un cardinale di curia in rappresentanza del papa Giovanni Paolo
II, e tenuta nella magnifica basilica dell’Immacolata concezione. Autorità municipali e politiche riempivano i
banchi, insieme con ministri protestanti, rabbini ebrei e
comuni fedeli. L’arcivescovo di Baltimora mons. Keeler,
appena andato in pensione, disse: «Il bicentenario è
un’occasione nella quale possiamo proiettare in modo
positivo la missione della Chiesa – senza trionfalismo,
sentì il bisogno di aggiungere – e riconoscere i contributi
offerti dalla Chiesa al popolo degli Stati Uniti».1 Lo stato
d’animo della giornata era solenne e festoso al tempo
stesso, adatto a sottolineare il progresso del cattolicesimo
in America nel corso dei due secoli precedenti.
Cre scita e riduzione
Praticamente da ogni punto di vista, «progresso» era
la parola giusta per descrivere la storia della Chiesa negli
Stati Uniti. A partire da quell’unico vescovo e da quell’unica diocesi nel 1789, il cattolicesimo in America si era
diffuso sempre di più fino a comprendere, nel 1989, 181
diocesi e quasi 20.000 parrocchie. I cattolici laici erano
55 milioni, circa il 22% della popolazione americana,
formando così la maggiore denominazione religiosa del
paese. 53.000 sacerdoti e quasi 105.000 suore costituivano il personale di quello che era diventato il maggiore sistema privato di servizi educativi e sociali del mondo. Gli
Stati Uniti avevano 230 collegi e università cattolici,
1.300 scuole superiori cattoliche e 8.300 scuole elementari, una rete incomparabile rispetto a quella delle altre
denominazioni cristiane e in alcuni luoghi capace di rivaleggiare con i sistemi di insegnamento e apprendimento
pubblici.2
Ma un giornale riferì che i partecipanti alla celebrazione del bicentenario erano profondamente consapevoli degli «spinosi problemi» che doveva affrontare la
loro Chiesa. Il numero dei sacerdoti in America, pur
ancora consistente, stava attraversando una lunga, continua diminuzione, che era cominciata vent’anni prima
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e sarebbe continuata anche in seguito. Nel 1970 c’erano 59.000 sacerdoti in America, ma attorno al passaggio del secolo il loro numero sarebbe sceso a 46.000,
con un calo di oltre il 20%. Inoltre i sacerdoti stavano
rapidamente invecchiando; la loro età media si avvicinava ai 60 anni e li avrebbe ben presto oltrepassati. Il
numero dei seminaristi che avrebbero dovuto prendere
il loro posto era in continua diminuzione. E il calo nelle file delle suore era ancor più drammatico. Avevano
raggiunto il loro picco storico a metà degli anni Sessanta, con circa 180.000 suore, ma al tempo delle celebrazioni del bicentenario il loro numero era sceso del 40%
e stava ancora diminuendo.
La popolazione cattolica invece andava continuamente crescendo – con 62 milioni nell’anno 2000 era appena sotto un quarto della popolazione – e il cattolicesimo se la passava meglio di molte Chiese protestanti tradizionali. Fra il 1970 e la fine del secolo, la popolazione
cattolica registrò un incremento di circa il 25%, mentre
la Chiesa metodista unita perse un quinto dei suoi membri e la Chiesa presbiteriana negli Stati Uniti oltre un terzo. E tuttavia i laici cattolici vivevano sempre più in parrocchie senza un pastore residente e mandavano i loro figli a scuole parrocchiali nelle quali non c’era più nessuna
suora fra gli insegnanti.3
Un problema ancor più spinoso per il cattolicesimo
americano al tempo delle celebrazioni del centenario era
la crescente consapevolezza delle violenze sessuali su minori da parte di alcuni sacerdoti cattolici. Erano già venuti alla luce una manciata di casi, sparsi per il paese, e
in un primo tempo era sembrato possibile considerare
ciascuno di questi indipendentemente dagli altri. Si pensava che ogni caso fosse semplicemente il problema personale di un determinato sacerdote e non la prova di un
comportamento più diffuso. E tuttavia i membri della gerarchia riuniti a Baltimora non poterono ignorare il problema, perché mentre entravano in processione in basilica per la celebrazione eucaristica furono affrontati da un
uomo che affermò pubblicamente di essere stato violentato da bambino nelle Hawaii trent’anni prima. Una dichiarazione della Conferenza nazionale dei vescovi cattolici affermava: «Il problema delle violenze sessuali su minori da parte di sacerdoti è un problema grave, ma non
molto diffuso».4
Negli anni successivi, i vescovi e i fedeli cattolici – in
realtà, l’intera nazione – si resero dolorosamente conto
che il problema era molto diffuso. I giornalisti scoprirono,
caso dopo caso, tutta una serie di sacerdoti che avevano
violentato ripetutamente giovani fedeli delle proprie parrocchie. Abitualmente, quando le denunce raggiungevano l’ufficio del vescovo locale, l’autore delle violenze veniva rinviato a una terapia psicologica assolutamente inadeguata o, peggio, semplicemente spostato in una nuova
parrocchia, dove quasi invariabilmente ripeteva i propri
delitti. Questi rapporti sparsi assunsero proporzioni epidemiche nel 2002, quando il sistema venne denunciato a
Boston, portando poi alle dimissioni forzate del cardinale
arcivescovo della città. I pubblici ministeri civili e penali
spedirono alcuni autori delle violenze in prigione (alcuni
erano già morti) e furono pagati milioni di dollari di risar-
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B. SHAHN, L’èra dell’ansia, 1953.
cimento alle vittime e alle loro famiglie. In seguito uno
studio generale in materia concluse che il 4% di tutti i sacerdoti cattolici attivi negli Stati Uniti fra il 1950 e la fine
del secolo era stato accusato in modo credibile di questo
tipo di comportamento. Apparentemente la percentuale
non superava quella delle violenze sessuali su minori da
parte della popolazione in generale, ma il fatto che gli autori fossero sacerdoti rendeva questi casi particolarmente
disgustosi. Un portavoce della gerarchia riconobbe che
«anche un solo caso è di troppo». I vescovi americani
adottarono procedure più rigorose per l’indagine e la punizione di ogni sacerdote accusato di un tale comportamento, ma molti laici cattolici manifestarono la loro
profonda insoddisfazione nei riguardi dei responsabili della loro Chiesa nel corso dell’intera vicenda.5
Due Chiese in una
A parte questi casi drammatici, anche cambiamenti
più sottili hanno costituito una sfida per la Chiesa in
America nei decenni successivi alla chiusura del concilio Vaticano II. Sul piano demografico, la Chiesa è cresciuta e si è ridotta al tempo stesso. Sono state chiuse
molte parrocchie nei centri storici delle città più antiche, anche se ne sono state aperte di nuove nelle periferie. Anche il profilo etnico dei cattolici è cambiato: i
nuovi immigrati dall’America Latina, dall’Africa e dall’Asia hanno rimpiazzato progressivamente i vecchi immigrati dall’Europa. Sul piano sociologico, il cattolicesimo americano ha assunto l’aspetto di due Chiese in
una. I discendenti degli immigrati irlandesi e italiani,
appartenenti alla classe media e superiore, si trovano in
chiesa accanto agli immigrati dal Guatemala e dal Viet-
nam, appartenenti alla classe povera e operaia. Il personale ecclesiale ha risposto a questa nuova diversità, in
particolare imparando e parlando come mai era avvenuto prima le lingue dei nuovi immigrati. Un secolo fa
sarebbe stato impensabile per un sacerdote irlandese
cercare di imparare l’italiano per andare incontro ai
suoi parrocchiani italiani: si riteneva che lo spartiacque
culturale generato dalla «lingua madre» fosse semplicemente insormontabile. Ora i sacerdoti e le suore non
ispanici imparano lo spagnolo e in tutte le parrocchie si
usano correntemente varie lingue, in particolare per la
celebrazione eucaristica e l’amministrazione dei sacramenti, con grande soddisfazione dei fedeli non anglofoni. Anche i sacerdoti provenienti da altri paesi, il cui numero ha oscillato notevolmente nel corso del tempo,
hanno permesso di rispondere più facilmente ai bisogni
religiosi dei cattolici non anglofoni.6
Indipendentemente dalle lingue parlate, all’inizio
del XXI secolo i cattolici americani si sono abituati a
giocare un ruolo attivo nella loro Chiesa. Le riforme del
concilio Vaticano II, che ha parlato della Chiesa come
popolo di Dio, hanno trovato un ascolto entusiastico.
Non solo i cattolici americani hanno sentito ripetutamente dire che essi sono la Chiesa, ma, forse con grande sorpresa di tutti, lo hanno realmente creduto. I laici
hanno cominciato anche ad assumere compiti formali
nella Chiesa, compiti svolti in passato esclusivamente
da sacerdoti o suore. Sono proliferati ministeri laicali di
ogni sorta. Nel 1973, ad esempio, la Chiesa ha autorizzato i «ministri straordinari dell’eucaristia».
Il cambiamento, dovuto in parte a considerazioni
pratiche, in particolare alla diminuzione del numero
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dei sacerdoti, naturalmente è stato adottato anche in
altri paesi. Ma gli americani lo hanno accolto con entusiasmo e ben presto il numero dei ministri laici nelle
parrocchie – musicologi, direttori dell’educazione religiosa, ministri dei giovani, «ministri del lutto» (coadiutori nello svolgimento dei funerali) ecc. – si è avvicinato a quello del clero. Alla fine degli anni Novanta da
una ricerca è risultato che circa 30.000 laici dedicano
almeno 20 ore alla settimana a qualche mansione ufficiale nelle parrocchie americane, e da allora il numero
è costantemente aumentato. Il 70% degli intervistati ha
detto di presiedere celebrazioni di preghiera in assenza
di un sacerdote; il 58% di svolgere un qualche ruolo
stabilito nella celebrazione eucaristica domenicale e il
41% di visitare parrocchiani ammalati a domicilio o in
ospedale. L’attività della Chiesa è risultata essere svolta praticamente in parti uguali dai laici e dal clero. Forse l’aspetto più significativo è che la stragrande maggioranza (quasi l’80%) di questi ministri laici è formata da donne.7
Anche i cattolici in disaccordo con certi insegnamenti della Chiesa hanno continuato a identificarsi fortemente con la loro religione. Questo è risultato forse
con la massima evidenza nel gruppo denominato «Voce di fedeli» (Voice of the faithful, VOTF), nato in risposta alla crisi provocata dalle violenze sessuali su minori da parte di sacerdoti. Inizialmente un semplice incontro di parrocchiani di un sobborgo di Boston, che si
riuniva nel seminterrato della loro chiesa, si è rapidamente dato una struttura organizzativa più formale come gruppo, riunendo i propri membri sotto lo slogan
«Conserva la fede, cambia la Chiesa». Lo slogan esprimeva il loro desiderio di restare cattolici, pur assumendo posizioni sempre più critiche nei riguardi dei loro vescovi. I membri di VOTF erano in gran parte bianchi,
della classe media e di mezza età e nelle loro parrocchie
di provenienza molti di loro esercitavano i ministeri laicali sui quali si basavano sempre più le Chiese locali. In
un primo momento i membri dell’organizzazione hanno raggiunto la cifra di circa 30.000, ma poi sono notevolmente calati. Comunque un ufficio nazionale e gli
incontri annuali, insieme con sezioni locali molto attive
sparse in tutto il paese, garantiscono anche per il futuro
la continuazione della sfida lanciata ai responsabili della Chiesa da parte di un corpo di cattolici consapevoli e
profondamente «fedeli».8
Per quanto molti parrocchiani possano essere in disaccordo fra loro e con le autorità ecclesiastiche, il numero di coloro che vogliono continuare a essere cattolici è impressionante. Un sondaggio su larga scala, effettuato nel 2008, ha chiesto agli intervistati di indicare la
loro religione. Gli organizzatori hanno registrato delle
«perdite» nelle file di coloro che erano stati educati come cattolici; non tutti si consideravano ancora tali. Ma
probabilmente si è sovrastimato il numero di queste
persone e, del resto, la continua immigrazione ha stabilmente mantenuto la percentuale cattolica della popolazione americana al 24%, allo stesso livello o appena superiore a quello che era da quasi un secolo. In definitiva, forse il risultato più sorprendente della crisi causata
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dalle violenze sessuali è il numero dei cattolici che non
hanno lasciato la loro Chiesa per un’altra o per nessun’altra.9 Più di ogni altra cosa, è stato il sistema sacramentale e devozionale del cattolicesimo, specialmente
così come rimodellato dopo il Vaticano II, a preservare
la loro fedeltà alla Chiesa.
Una pratica profondamente cambiata
I modi in cui i cattolici negli Stati Uniti praticavano
la loro fede era già cambiato nel corso dei secoli, ma pochi cambiamenti sono stati così profondi come quelli intervenuti negli ultimi cinquant’anni, a partire dal Concilio. Già a partire dal 1970, l’esperienza della partecipazione alla celebrazione eucaristica è stata radicalmente diversa da quella che era stata fino al 1960. Sulla scia delle riforme liturgiche promosse dal Concilio,
praticamente ogni cosa è apparsa diversa, ma è stata
una differenza attesa e salutare. Si è collocato un nuovo
altare al centro del presbiterio e il celebrante si è rivolto verso il popolo. Ha cominciato a esprimersi nella sua
lingua con voce alta e chiara, e ci si aspetta che i fedeli
recitino alcune preghiere insieme a lui. Si sono costruite le chiese in base a nuovi disegni architettonici e si è
introdotta nel culto una maggiore varietà di stili musicali: musica «popolare» contemporanea, ma anche, cosa forse ancor più notevole, inni tradizionali protestanti, come Faith in our fathers e A mighty fortress is our
God. Questi cambiamenti non sono stati salutati con favore da tutti i cattolici, ma è indubbiamente sorprendente, a posteriori, la velocità e la facilità con cui sono
generalmente stati accolti. Anche in questo caso i cambiamenti sono stati universali, non limitati agli Stati
Uniti, ma i cattolici americani li hanno accettati e fatti
propri.10
Anche la pratica dei sacramenti dei cattolici americani ha registrato un analogo profondo cambiamento, e
due di essi in particolare mostrano il processo in corso.
L’eucaristia è al centro di ogni messa cattolica, ma nel
corso del XIX e inizio XX secolo molti laici si accostavano al sacramento raramente. Ad esempio, nel 1900 a
Boston un sacerdote aveva notato che c’erano quasi 700
persone a una messa domenicale e solo una quarantina
di loro si era accostata alla comunione. Negli anni Cinquanta molti cattolici si accostavano alla comunione
due volte all’anno, a Natale e a Pasqua, anche se andavano a messa ogni domenica.11
Sulla scia del concilio Vaticano II, il tasso di ricezione della comunione aveva raggiunto il 50% dei partecipanti alla messa a metà degli anni Settanta, e il 90% e
oltre alla fine del secolo. I cattolici americani hanno rapidamente preso l’abitudine di ricevere la comunione
ogni volta che andavano a messa, al punto da considerare strano il fatto di astenersene. Essi hanno risposto
favorevolmente anche ai nuovi modi di ricevere il sacramento: prendere l’ostia sulla mano e introdurla personalmente in bocca e anche condividere il calice, prima
riservato al sacerdote. Questi cambiamenti apparentemente semplici hanno avuto importanti effetti imprevisti, come ad esempio la riduzione delle tradizionali distinzioni fra clero e laici. Se i laici potevano toccare le
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sacre specie e consumarle in modi che in passato erano
riservati unicamente ai sacerdoti, forse perdevano d’importanza anche altre distinzioni fra il clero e i laici.12
Nella pratica cattolica americana la comunione è
sempre stata collegata con un altro sacramento della
Chiesa: la confessione, ufficialmente conosciuta in passato come il sacramento della penitenza, ma chiamata dopo il Concilio sacramento della «riconciliazione». Tuttavia, mentre la percentuale della frequenza alla comunione è continuamente cresciuta nell’ultimo terzo del XX
secolo, quella della frequenza alla confessione è precipitata. Anche questo cambiamento è stato rapido. Nel
1965, l’anno della chiusura del Concilio, il 38% dei cattolici americani riferiva di confessarsi almeno una volta al
mese. Ovunque le parrocchie avevano orari ben definiti
per ricevere le confessioni dei penitenti: riservavano a tale scopo almeno quattro o cinque ore tutti i sabati. All’inizio del XX secolo, un pastore a New York annotava nel
suo diario tutto il suo disappunto per aver ascoltato «solo 88» confessioni in un’unica seduta e, in un’altra occasione, annotava che 90 confessioni in un solo pomeriggio
erano «meno del solito». Ma subito dopo il Vaticano II la
pratica della confessione ha registrato un crollo. Le parrocchie hanno ridotto le ore riservate alle confessioni e,
alla fine del secolo, molte chiese riservavano solo mezz’ora a settimana a tale scopo. I sondaggi hanno confermato il calo. Nel 1975 un’indagine nazionale scoprì che il
tasso della confessione mensile era sceso al 17%, mentre
il numero di coloro che dicevano di non confessarsi mai
era salito al 38%.13
Vari fattori hanno contribuito al crollo della confessione. L’insistenza del Concilio sulla necessità per i laici
di assumere una maggiore responsabilità per la loro vita
religiosa sembra aver favorito in molti casi la decisione di
abbandonare la confessione, considerandola o troppo
imbarazzante (anche se fatta anonimamente) o non più
significativa per loro. Anche i mutati atteggiamenti nei riguardi della natura del peccato hanno avuto le loro conseguenze. La predicazione cattolica ha posto sempre più
l’accento sulle dimensioni collettive, sociali del peccato –
peccati come il razzismo, l’inquinamento ambientale, i
sistemi economici ingiusti –, ma si tratta di aspetti difficili da discutere nelle forme tradizionali della confessione.
Possono essere realmente gravi colpe morali, ma come
possono singoli cattolici assumere la loro personale parte
di responsabilità in una breve conversazione sussurrata
all’orecchio del loro confessore? Inoltre molti cattolici
sembrano essersi convinti che è l’eucaristia a riconciliarli
con Dio con la stessa efficacia (o forse anche con maggiore efficacia) di una confessione auricolare. Se possono
raggiungere questo obiettivo spirituale attraverso una ricezione più frequente della comunione, per quale ragione sottoporsi a quell’altro sacramento, che è sempre accompagnato da un certo timore? Le autorità della Chiesa hanno cercato altri modi per ravvivare la pratica della
confessione, ma essi sono stati in gran parte inefficaci. In
questo momento, la confessione è ampiamente scomparsa come elemento regolare della pratica religiosa cattolica americana.
Queste e altre pratiche devozionali hanno continuato
a essere utili come punti di contatto fra i laici cattolici e
l’istituzione della loro Chiesa. I laici hanno dimostrato
una persistente riluttanza a prendere le distanze dalla
Chiesa, anche nel bel mezzo dei molti «problemi scottanti» che affliggevano l’istituzione. Non meno dei membri
delle altre denominazioni religiose, i cattolici americani
hanno continuato a interrogarsi sul modo di trasmettere
la loro fede e pratica alle future generazioni, ma la solidità della consistenza numerica e del dinamismo missionario della Chiesa sembrano indicare che l’obiettivo è
raggiungibile, sia pure imperfettamente. La crisi causata
dalle violenze sessuali su minori da parte di sacerdoti e la
pressione esercitata dai cambiamenti demografici hanno
scosso profondamente il loro sistema, ma i cattolici hanno dimostrato un sorprendente desiderio di continuare a
far fronte a queste sfide.
James M. O’Toole*
* Docente di storia presso il Boston College, Massachusetts
(USA), e autore di Militant and triumphant: William Henry O’Connell
and the catholic Church in Boston, 1859-1944, University of Notre
Dame Press, Notre Dame 1992, e The faithful: a history of catholics in
America, Belknap Press, Cambridge 2008.
1
«Catholic hierarchy marks 200 years of U.S. Church», in Baltimore Sun 6.11.1989; «Archdiocese ready to celebrate its 200th birthday», in Baltimore Catholic Review, 18.10.1989.
2
Official Catholic Directory 1989, P.J. Kenedy, New York 1989.
3
Tutti i dati sono stati presi dai sommari statistici dell’annuale Official Catholic Directory. Cf. anche B.T. FROEHLE, M.L. GAUTIER, Catholicism USA. A portrait of the catholic Church in the United States, Orbis,
Maryknoll (NY) 2000, tab. 1.3; e R.A. SHOENHERR, L.A. YOUNG, Full
pews and empty altars: demographics of the priest shortage in United States catholic dioceses, University of Wisconsin Press, Madison 1993.
4
«Catholic hierarchy marks 200 years of U.S. Church», in Baltimore Sun 6.11.1989.
5
Cf. S.J. ROSSETTI, A tragic grace: the catholic Church and child
sexual abuse, Liturgical Press, Collegeville 1996; P.R. DOKECKI, The
clergy sexual abuse crisis: reform and renewal in the catholic community,
Georgetown University Press, Washington DC 2004; NATIONAL REVIEW BOARD FOR THE PROTECTION OF CHILDREN AND YOUNG PEOPLE, The nature and scope of sexual abuse of minors by catholic priests
and deacons in the United States, 1950-2002, United States Conference of Catholic Bishops, Washington DC 2004; cf. Regno-att.
6,2004,166ss.
6
Cf. R. HOGE, A. OKURE, International priests in America: challenges and opportunities, Liturgical Press, Collegeville 2006.
7
P.J. MURNION, New parish ministers: laity and religious on parish staffs, National Pastoral Life Center, New York 1992; P.J. MURNION,
D. DELAMBO, Parishes and parish ministers: a study of lay parish ministry, National Pastoral Life Center, New York 1999.
8
W. D’ANTONIO, A. POGORELC, Voices of the faithful: loyal catholics striving for change, Herder and Herder, New York 2007.
9
PEW FORUM ON RELIGION AND PUBLIC LIFE, U.S. religious landscape survey, disponibile sul sito Internet pewforum.org, consultato nel
giugno 2009. Il 31% dei rispondenti ha detto di essere stato educato
come cattolico, ma poiché i cattolici non hanno mai superato il 24%
della popolazione americana, in base ai rapporti dei censimenti questo
numero sembra alto.
10
J.M. O’TOOLE, The faithful: a history of catholics in America,
Belknap Press, Cambridge 2008, 202-210.
11
M.M. MCGUINNESS, «Let us go to the altar: American catholics and the eucharist, 1926-1976», in J.M. O’TOOLE (a cura di), Habits of devotion: catholic practice in twentieth century America, Cornell
University Press, Ithaca (NY) 2004, 187-235.
12
Ivi, specialmente 221. Per altre misure della frequenza alla comunione cf. A.M. GREELEY, The American catholic: a social portrait,
Basic Books, New York 1977, 127; e ID., American catholics since the
Council: an unauthorized report, Thomas More Association, Chicago
1985, 51.
13
J.M. O’TOOLE, «In the court of conscience: American catholics and confession, 1900-1975», in ID. (a cura di), Habits of devotion,
131-185; qui 134.
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Un ruolo ridotto
na storia vera. È la vigilia del funerale di
Giovanni Paolo II, nell’aprile 2005. Sono
riuniti a Roma i membri della delegazione
ufficiale del governo degli Stati Uniti, formata dal presidente Bush e consorte e da
vari senatori e deputati cattolici. Due tra i
senatori cattolici sono i democratici Dick
Durbin dell’Illinois e John Kerry del Massachusetts.
Quando i due percorrono a piedi piazza San Pietro, varie
persone fermano Kerry ogni due passi per rammaricarsi
della sua sconfitta all’elezione presidenziale appena alcuni mesi prima. Alcuni di questi ammiratori – compresi alcuni preti italiani – si protendono entusiasticamente verso
la figura dinoccolata di Kerry per una foto di gruppo. Poi
un prete blocca Kerry e Durbin. Ammonisce Kerry, dicendogli che dovrà rispondere, forse all’inferno, per la sua
posizione sull’aborto. Era del Minnesota.
U
Cat tolici e Par tito democratico,
un matrimonio burrascoso
Per cogliere il significato di questa scenetta bisogna
prestare attenzione a tre racconti strettamente intrecciati.
Il primo è la storia del matrimonio, un tempo felice ma
ora burrascoso, fra i cattolici e il Partito democratico. Il secondo è la storia della lotta sull’accesso pubblico non all’aborto, ma al controllo delle nascite. Il terzo è l’emergere di una nuova generazione di vescovi, preti e laici intellettuali, sospettosi nei riguardi del liberalismo sia teologico sia politico, e favorevoli a una posizione più critica e
combattiva nei riguardi della società moderna.
La prima storia – cattolici e democratici – è quella più
nota. Molti cattolici, concentrati lungo la costa orientale e
nella regione dei Grandi laghi, hanno votato per i democratici alle presidenziali per la maggior parte del XX secolo, un’alleanza cominciata con la campagna presidenziale persa da Al Smith nel 1928 e cementata dal carisma
di Franklin Roosevelt, i primi programmi del suo New
Deal e la sua simpatia per i lavoratori degli Stati Uniti
(Roosevelt elettrizzò gli attivisti cattolici con una citazione
dell’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno sull’economia, del 1931, a un grande raduno a Detroit negli ultimi
giorni della campagna elettorale del 1932). Molti cattolici
appoggiarono il popolare Dwight Eisenhower negli anni
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Cinquanta, ma nel 1960 un sorprendente 78% votò per il
cattolico John Kennedy, eroe di guerra. Ancora nel 1968,
due dei tre candidati democratici alla presidenza, Eugene
McCarthy e Robert Kennedy, erano convinti cattolici nell’ala liberal del Partito democratico, e il sostegno dei cattolici bianchi nel Nord per poco non riuscì a imporre il
candidato democratico Hubert Humphrey su Richard
Nixon. Recentemente Howard Dean ha affermato: «Il
Partito democratico era basato su quattro pilastri: gli intellettuali alla Roosevelt, la Chiesa cattolica, i sindacati, gli
afroamericani» (Dean ignora i sudisti bianchi, i membri
più affidabili del Partito democratico nell’era precedente
ai diritti civili, ma la sua osservazione è corretta riguardo
al partito al Nord).
George McGovern si dimostrò incapace di sostenere
quest’appoggio cattolico nel 1972, in parte perché il Partito democratico negli anni caldi fra il 1968 e il 1972 si associò con un liberalismo culturale che alcuni elettori cattolici, specialmente lavoratori bianchi, consideravano destabilizzante. Durante i duri scontri delle primarie democratiche del 1972 Humphrey, ingiustamente ma efficacemente, accusò McGovern di essere favorevole ad «aborto,
droga e amnistia (per i renitenti alla leva nell’era del Vietnam)».
Gran parte di questo disagio nei riguardi del Partito
democratico nazionale, verso la fine degli anni Sessanta e
nei primi anni Settanta, ruotò attorno alla razza, con i lavoratori bianchi cattolici del Nord spaventati dal sostegno
democratico a programmi di trasferimento forzato per ridurre gli squilibri razziali nelle scuole pubbliche e sospettosi degli sforzi per integrare la costruzione del movimento del Giglio bianco (fortemente cattolico) e i sindacati. La
simpatia per i diritti civili degli afroamericani dimostrata
da molti preti e suore alla fine degli anni Sessanta provocò
in alcuni bianchi cattolici un senso di tradimento. Il sostegno offerto a César Chávez e ai braccianti agricoli cattolici immigrati della United Farm Workers nello stesso periodo non fu così controverso, ma la dinamica fu analoga.
A Chicago un prete segregazionista, sfidando il suo arcivescovo e il superiore della sua congregazione religiosa,
divenne un accanito difensore della «minoranza dimenticata» dei proprietari bianchi. Lo studio di J. Anthony
Lukas sulla crisi dei trasferimenti forzati per la desegregazione a Boston1 si è concentrato sul ruolo della Chiesa,
che cercò di mediare fra i politici e i giudici cattolici favorevoli all’eliminazione della segregazione razziale (ma
spesso viventi essi stessi in enclave suburbane bianche) da
una parte, e dall’altra i lavoratori bianchi cattolici, spesso
incapaci di accogliere fra loro gli afroamericani, compresi quelli cattolici.
L’abor to occupa la scena
Quando le tensioni razziali degli anni Sessanta e Settanta scemarono, l’aborto occupò il centro della scena.
Ma non subito. Fino ai primi anni Settanta in materia di
aborto molti democratici sembravano più conservatori
dei repubblicani. I governatori repubblicani – compresi
Nelson Rockefeller a New York e William Milliken in Michigan – firmarono o chiesero leggi che riducessero le restrizioni statali sull’aborto. Al contrario, il senatore
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Edward Kennedy assicurò i suoi elettori ancora alla fine
del 1971 che «l’aborto su richiesta non è conforme al valore che la nostra civiltà attribuisce alla vita umana». La
prima scelta di George McGovern come candidato alla
vicepresidenza nel 1972, il sen. Thomas Eagleton del
Missouri, appoggiava le concezioni pro-life come fece anche l’effettivo candidato, il sergente Shriver, imparentato
con i Kennedy e fondatore dei Peace Corps, un corpo di
volontari per lo sviluppo.
La sentenza del caso «Roe versus Wade» accentuò la
divisione fra gli schieramenti. Le conseguenze inaspettatamente ampie e rapide della decisione del 1973 – che
eliminò la maggior parte delle restrizioni statali sulla procedura, con un’escalation degli aborti fino a 1,5 milioni
all’anno nel 1980 – suscitarono un movimento di base
contro l’aborto, probabilmente il più diffuso movimento
sociale dell’era successiva alle battaglie per i diritti civili,
guidato, finanziato e sostenuto nei suoi primi anni dai
cattolici. Al tempo stesso il «diritto all’aborto» occupò
una posizione centrale nel moderno movimento femminista negli Stati Uniti (molto più che nella maggior parte
dei paesi europei) e le attiviste dichiaravano di appartenere, e voler appartenere, al Partito democratico. Così nessun politico poté evitare la questione (come aveva fatto
Robert Kennedy nel 1968) e una generazione di democratici cattolici, alcuni per ragioni di principio e alcuni
per pragmatismo, adottò una posizione pro-choice.
Essi non pagarono un prezzo elettorale. Durante quel
periodo gli elettori cattolici erano solo moderatamente
meno pro-choice del resto della popolazione, e tendevano
a non fare dell’aborto una questione elettorale. Il numero dei democratici cattolici pro-life detentori di cariche
importanti diminuì, un declino segnato dal programma
del Partito democratico nel 1984, che definiva la libertà
in materia di riproduzione «un diritto umano fondamentale». Lo stesso anno, il card. John O’Connor di New
York criticava Geraldine Ferraro, la vice di Walter Mondale nella corsa alla presidenza, per la sua posizione prochoice e il governatore di New York Mario Cuomo difendeva la propria posizione pro-choice in un discorso di ampia risonanza all’Università di Notre Dame. Nel 1992,
eminenti democratici vietarono al governatore della
Pennsylvania Robert Casey, il più noto democratico cattolico pro-life del paese, di parlare a una convention nazionale del partito.
Il Partito repubblicano si mosse nell’altra direzione.
La sua voce più importante al Congresso divenne un cattolico dell’Illinois, Henry Hyde, che si accattivò le simpatie dei cattolici conservatori attaccando l’uso dei fondi
Medicaid per gli aborti (negli anni Settanta Hyde soleva
dire alle riunioni cattoliche: «Eccomi qui davanti a voi
come un feto di 652 mesi»). Cosa più importante, per la
prima volta eminenti evangelicali come Jerry Falwell si
buttarono nella campagna antiabortista, e il loro entusiasmo contribuì a insediare alla Casa bianca un candidato
pro-life, Ronald Reagan.
Nel corso degli anni Novanta Bill Clinton arrestò
questa deriva cattolica verso il Partito repubblicano e la
relazione fra i politici cattolici e i loro vescovi scomparve
dalla prime pagine dei giornali. Anche un nuovo gruppo
di repubblicani cattolici pro-choice in stati nei quali i politici pro-life avevano poche speranze di essere eletti a incarichi pubblici di livello nazionale, fra cui Arnold Schwarzenegger in California e George Pataki e Rudy Giuliani
a New York, complicò il quadro. Ma nel 2004 i democratici nominarono John Kerry, un cattolico pro-choice, per
la corsa alla presidenza. Alcuni vescovi colpirono la campagna di Kerry, vietandogli, o minacciando di farlo, la ricezione della comunione. Alla domanda sull’aborto in
occasione del secondo dibattito presidenziale, Kerry rispose con un verboso soliloquio «sulla vita e sulla responsabilità» che ponevano questioni difficili.
In seguito alla sconfitta di Kerry, i democratici cominciarono a riunire i pezzi. Nel quadro di questo sforzo, il
sondaggista democratico Stanley Greenberg – famoso
per la sua analisi dei democratici sostenitori di Reagan
nella Contea di Macomb, Michigan – e un collaboratore, Matt Hogan, effettuarono un’indagine sui cattolici
bianchi. Greenberg e Hogan accordarono una particolare attenzione al piccolo ma cruciale gruppo di democratici cattolici bianchi, specialmente in Ohio e altri stati
contesi del Midwest, che aveva votato per Clinton nel
1996, ma aveva sostenuto George W. Bush nel 2004.
Clinton aveva conquistato i cattolici bianchi per 7 punti
nel 1996, Gore li perse per altrettanti nel 2000 e Kerry li
perse per quattordici punti nel 2004. In un’elezione nella quale le categorie morali giocarono un ruolo importante, questi democratici cattolici definirono l’aborto la
loro «unica somma preoccupazione morale». In realtà
recentemente Galston, già assistente di Clinton, ha affermato che porre il veto sulla messa al bando dell’aborto a
nascita parziale fu «il peggiore errore politico commesso
da Clinton nei suoi otto anni… Se mai vi fu una questione in grado di far saltare il tavolo, era proprio quella».
Anche le nomine alla Corte suprema di John Roberts
nel 2005 e di Samuel Alito nel 2006 hanno dimostrato la
persistenza del dibattito sull’aborto. Sembravano scene
di un teatro kabuki cattolico le udienze di conferma di
Roberts, con i leoni cattolici liberal nella Commissione
giudiziaria del Senato, fra cui Kennedy del Massachusetts, Durbin dell’Illinois e Patrick Leahy del Vermont,
che sondavano il cattolico Roberts sulle sue idee in materia di privacy e diritti individuali, mentre i cattolici conservatori legati all’amministrazione Bush borbottavano
sulle prove del nove anti-cattoliche. Jane Sullivan Roberts, moglie di Roberts e diplomata del College of the
Holy Cross, ha messo i propri talenti di avvocato a disposizione del movimento «Feminists pro-life».
Su Meet the Press, Tim Russert ha chiesto a Durbin di
spiegare perché in passato, come membro del Congresso,
aveva chiesto un capovolgimento della decisione «Roe
versus Wade», mentre ora come senatore definiva l’opposizione alla decisione Roe versus Wade «fuori dal coro».
Durbin, da parte sua, ha ricordato di essere andato a Washington sostenendo la posizione pro-life, per poi scoprire
che molti oppositori dell’aborto non erano disposti a fare
eccezioni per le vittime di stupri o incesto. E cosa ancor
più grave, molti «contrari all’aborto erano contrari anche
alla pianificazione familiare. Questo per me non aveva
alcun senso».
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La deriva sulla contraccezione
L’ultima sottolineatura di Durbin è interessante, anche
se inevitabilmente interessata. La comprensione del dibattito americano contemporaneo sull’aborto richiede un ritorno alla storia quasi dimenticata del dibattito pubblico
sulla contraccezione. Nel 1930 Pio XI, lo stesso papa che
appena tre mesi dopo nella Quadragesimo anno avrebbe
condannato «la dottrina economica individualistica», definì immorale, nella Casti connubii, ogni mezzo contraccettivo.
Da allora, come amavano sottolineare Margaret Sanger e altri sostenitori del controllo delle nascite, i cattolici
rimasero l’unica corposa lobby contraria alla liberalizzazione delle leggi in materia di controllo delle nascite. La
questione cominciò a infiammarsi: l’esercito doveva distribuire preservativi ai militari cattolici? Mediante le sue raccolte di fondi la Community Chest doveva sovvenzionare
le sedi locali della Planned Parenthood? Le discussioni più
accese ebbero luogo in Massachusetts e in Connecticut,
dove restavano in vigore leggi del XIX secolo (redatte da
protestanti, non da cattolici) che vietavano persino alle
coppie sposate di acquistare contraccettivi (i medici eludevano la legge prescrivendo contraccettivi per motivi di
«salute».)
In Massachusetts i cattolici sconfissero un primo tentativo di cambiare le leggi dello stato nel 1940. Nel 1948, i
riformatori tornarono alla carica e gli elettori del Massachusetts riuscirono nuovamente a sconfiggerli, con il sostegno di finanziamenti, da parte dell’arcidiocesi, di una
campagna pubblicitaria e radiofonica incentrata sullo slogan «Il controllo delle nascite è ancora contro la legge di
Dio». Canovacci di omelie distribuiti a tutti i sacerdoti
nell’arcidiocesi di Boston spiegavano che «la proibizione
del controllo delle nascite non è una legge specifica della
Chiesa così come non lo sono le leggi contro l’omicidio, il
furto, lo spergiuro o il tradimento».
L’arcidiocesi di Boston vinse quella battaglia, ma perse la guerra. Il volume Catholics and contraception di Leslie Woodcock Tentler,2 la cui lettura ora viene richiesta a
ogni vescovo, sacerdote o laico per farsi un’opinione in
materia, mostra in dettaglio che nel corso dei due decenni successivi la fiducia nell’insegnamento della Chiesa sul
controllo delle nascite crollò. Le cause principali furono:
la crescente frustrazione delle coppie sposate, specialmente delle donne sposate, unite in matrimonio attorno ai
vent’anni dopo la seconda guerra mondiale e madri già di
sei, sette, otto o più figli; la convinzione dei sacerdoti, specialmente di quelli che ascoltavano le confessioni dei loro
parrocchiani più idealistici e fedeli, che l’obbedienza all’insegnamento della Chiesa e l’astinenza sessuale che esso richiedeva danneggiavano tanti matrimoni quanti ne
aiutavano; il disagio fra i teologi riguardo a un insegnamento sulla legge naturale accessibile forse a ragioni che
solo i cattolici consideravano ragionevoli. Alla metà degli
anni Sessanta molti vescovi speravano in un cambiamento della dottrina della Chiesa, e i sacerdoti sapevano che i
loro parrocchiani, alcuni dopo un doloroso esame di coscienza, l’avevano abbandonata.
Nel 1965 Michael Dukakis, un giovane democratico
del Massachusetts, introdusse una norma nella legisla-
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zione dello stato che legalizzava l’uso dei contraccettivi
per le coppie sposate. Consigliato dietro le quinte dal gesuita John Courtney Murray, Richard Cushing, arcivescovo di Boston, rinunciò a opporsi alla norma. Nello
stesso periodo in cui lavorava alla dichiarazione del concilio Vaticano II sulla libertà religiosa, Murray redasse
per Cushing una dichiarazione in cui si sottolineava che
non è «funzione della legge civile prescrivere tutto ciò
che è moralmente giusto e vietare tutto ciò che è moralmente sbagliato». Dato che i mezzi contraccettivi avevano «ottenuto un avallo ufficiale da parte di molti gruppi
religiosi in seno alla comunità», Cushing, basandosi sul
testo di Murray, chiedeva ai cattolici di rispettare la libertà religiosa dei loro concittadini. Due anni dopo, appena prima della sua morte nel 1967, Murray lamentava che l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione
«si fosse spinto troppo avanti», cercando di raggiungere
«troppa certezza troppo presto».
Strade divergenti
Da una prospettiva pro-life, questo dibattito sul controllo delle nascite e l’ampio rifiuto della Humanae vitae
al momento della sua pubblicazione nel 1968 non avrebbero potuto essere più inopportuni. Già nel 1965, teologi
come Richard McCormick andavano privatamente allertando i loro colleghi sul fatto che «vi sarebbe stata una dura battaglia per offrire indicazioni accettabili in materia di
aborto» e chiedendo loro di contribuire a distinguere, sia
nell’opinione pubblica sia in quella cattolica, fra contraccezione e aborto. Persino alcuni cattolici conservatori, come William F. Buckley jr, sostennero (per poco tempo) una
liberalizzazione delle leggi sull’aborto per la stessa ragione, il rispetto della coscienza, espressa da Murray riguardo alla contraccezione.
Anche l’allontanamento delle donne cattoliche dall’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione offrì un’opportunità alle organizzazioni pro-choice. Gruppi come la
National Abortion Rights Action League (NARAL) scelsero consapevolmente delle donne cattoliche come portavoci nelle battaglie statali sull’aborto alla fine degli anni
Sessanta e nei primi anni Settanta, sfruttando la reputazione di una Chiesa percepita come incapace di riconoscere le esperienze delle donne. Persino l’uomo di punta
dei vescovi sul tema dell’aborto, il vescovo James McHugh, riconobbe privatamente che la credibilità del Vaticano sui temi della sessualità e del genere, in gran parte a
causa del dibattito sulla contraccezione, era tale che le dichiarazioni ufficiali sull’aborto rischiavano di aggravare «i
problemi della Humanae vitae».
Tali questioni continuarono fino all’elezione di Karol
Wojtyla al soglio pontificio nel 1978. Per una generazione, l’appassionata posizione pro-life di Giovanni Paolo II
ha improntato il dibattito americano sull’aborto, come è
successo anche per la pena di morte. La maggioranza degli americani ha continuato a sostenere l’aborto legale in
alcune circostanze, ma a partire dai primi anni Novanta il
sostegno alla posizione secondo cui l’aborto dovrebbe essere legale in qualsiasi circostanza è notevolmente diminuito, mentre è aumentato il sostegno alla posizione secondo cui l’aborto dovrebbe essere illegale in qualsiasi cir-
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R. RAUSCHENBERG, Retroactive II, 1963;
Chicago, Museum of Contemporary Art.
costanza. Il fatto che l’omaggio di George W. Bush a Giovanni Paolo II, in occasione della sua morte, suonasse più
come quello di un vescovo cattolico che di un presidente
metodista, con i riferimenti al suo sostegno alla «cultura
della vita», rifletteva chiaramente l’influenza di quel papa
tanto quanto il continuo sforzo di Karl Rove di conquistare elettori cattolici.
A posteriori, la posizione conservatrice di Giovanni
Paolo II sull’aborto e sull’etica sessuale rispecchiava generalmente una più ampia presa di distanza dal liberalismo
stile anni Sessanta nella vita intellettuale americana, certamente nella sua variante cattolica. A livello delle idee, filosofi come Alasdair MacIntyre hanno attaccato il «progetto illuminista» e un liberalismo basato su un falso senso di neutralità morale. A livello politico, Daniel Patrick
Moynihan, Mary Ann Glendon e James Q. Wilson hanno
aspramente criticato certe politiche sociali liberal e il divorzio indiscriminato. Nel mondo ristretto delle polemiche cattoliche, neoconservatori come Michael Novak, Richard John Neuhaus e George Weigel hanno spinto i cattolici liberal a riconoscere le conquiste del capitalismo di
mercato, l’importanza della famiglia tradizionale e le instabili basi della giurisprudenza liberal in materia di relazioni stato-Chiesa.
Questo movimento cattolico – intellettualmente serio,
persino per coloro che non ne condividevano i presupposti – sembra ormai passato. Ora pescare in molta stampa
cattolica significa annegare in lunghe e noiose tiritere. Le
analisi empiriche sono sostituite da prediche sulla «crisi
della paternità», sullo «sfacelo della vita familiare», sulla
necessità di combattere il «fascino ingannevole» di una
cultura che non vuole coltivare la virtù dell’«obbedienza».
Noi «camminiamo stancamente verso Gomorra», secondo la veemente espressione di Robert Bork. A posteriori,
la confusione suscitata nel 1996 dalla rivista First Thing di
Neuhaus sull’«usurpazione giudiziaria della politica» costituì un segnale di allarme settario (gli editoriali della rivista ammonivano che le recenti decisioni della Corte suprema sull’aborto, in particolare, indicassero che le questioni «hanno raggiunto o stanno raggiungendo il punto
in cui i cittadini coscienziosi non possono più accordare il
loro assenso morale al regime esistente».)
Quest’eccesso retorico deriva in parte dalla delusione.
Giovanni Paolo II, nonostante il suo straordinario carisma, non ha arrestato il movimento di allontanamento
dall’insegnamento ufficiale della Chiesa sulla maggior
parte delle scottanti questioni relative al sesso e al genere.
Dall’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II il numero
di coppie cattoliche che applica il controllo delle nascite è
aumentato e i dati dell’inchiesta Greenberg-Hogan mostrano la simpatia degli elettori cattolici, anche cattolici
praticanti che sostenevano il presidente Bush, per le unioni civili omosessuali.
All’interno della Chiesa, le frequenti condanne della
contraccezione da parte di Giovanni Paolo II, la sua decisione di bloccare la discussione sull’ordinazione delle donne, il suo rifiuto di nominare vescovo qualsiasi sacerdote
non disposto a difendere la Humanae vitae e la sua definizione degli Stati Uniti moderni come una «cultura di
morte» hanno favorito un clima più settario. Nell’agosto
2006, il vescovo Thomas Doran di Rockford, Illinois,
elencò in modo solenne (e offensivo) i «sacramenti» del
Partito democratico: «aborto, sodomia, contraccezione,
divorzio, eutanasia, femminismo radicale, sperimentazioni e mutazioni genetiche». Doran ha avuto la premura di
informare i cattolici di Rockford che queste posizioni democratiche «ci pongono direttamente sulla strada del suicidio come popolo». In modo più garbato, l’arcivescovo
Charles Chaput di Denver ha descritto i cattolici come
«timidi» in una «cultura che si estrania sempre più, anno
dopo anno, dal Vangelo». O, come spiegava a Peter Boyer
del New Yorker: «La Chiesa nel nostro paese si trova in un
tempo nel quale alcuni cattolici – troppi – stanno scoprendo di stare gradualmente diventando dei non cattolici che
a volte vanno a messa. È triste e difficile ed è un giudizio
su una generazione di leader cattolici. Ma può essere proprio il momento di verità di cui la Chiesa ha bisogno».
Per Chaput e altri cattolici che la pensano come lui, il
principale ostacolo a una nuova evangelizzazione è la
«cultura liberal» radicata nei media, nelle università e, elemento cruciale, nella stessa Chiesa. Riecheggiando in modo inquietante gli anni Sessanta, questi esponenti chiedono ai loro correligionari di rifiutare non solo i media che
formano l’opinione pubblica, ma anche la corrente cattolica maggioritaria. Proteggete i vostri figli mandandoli a
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studiare a Steubenville, un collegio cattolico contro-culturale in Ohio, piuttosto di affidarli ai lupi del Boston College o di Notre Dame. Rick Santorum, già senatore della
Pennsylvania, incolpava il liberalismo di Boston – invece
che, poniamo, il card. Bernard Law – per l’implosione di
quell’arcidiocesi durante la crisi causata dalle violenze sessuali su minori da parte di sacerdoti, una denuncia dubbia alla luce di ciò che il pubblico ministero distrettuale di
Philadelphia ha dimostrato riguardo alle violenze sessuali
in quell’arcidiocesi.
Questo umore ecclesiastico più apocalittico si è stemperato con il declinare della subcultura cattolica nel corso
degli ultimi trent’anni e con il bisogno avvertito da una significativa minoranza di giovani cattolici di una maggiore conoscenza e pratica della fede che professavano. Analogamente ai protestanti storici e agli ebrei, i leader cattolici degli anni Settanta e Ottanta non sono mai riusciti a
risolvere il complicato rebus di quale seria educazione catechistica fosse necessaria in una società più mobile e
frammentata, e le recenti indagini di Christian Smith dimostrano che i giovani cattolici in gran parte non conoscono le proprie tradizioni religiose. A Notre Dame, dove
insegno, la metà degli studenti non ha frequentato scuole
superiori cattoliche, un segno evidente della diminuzione
della subcultura istituzionale. Una collega afferma che alcuni dei suoi studenti universitari prossimi alla laurea,
quasi tutti cattolici, non sanno chi fosse Ponzio Pilato.
Ora i più impegnati fra questi giovani cattolici oscillano fra un amore attraente (persino coraggioso) per la fede
e la Chiesa e un difensivo serrare le file. Come non ammirare giovani cattolici che s’immergono in uno studio serio
delle tradizioni intellettuali cattoliche e scelgono di servire la Chiesa con programmi volontari? Come non sospirare leggendo questo titolo in un giornale redatto da studenti cattolici conservatori: «Le donne possono diventare
prete? Una difesa in piena regola della posizione autoritativa della Chiesa e del perché essa non può cambiare e
non cambierà»?
Obama e i ve scovi
Dati questi tre contesti – la relazione fra i cattolici e il
Partito democratico, la polarizzazione del dibattito sull’aborto fin dalla sentenza «Roe versus Wade» e il tono più
settario nella recente vita cattolica –, forse la vera sorpresa è che quel sacerdote del Minnesota non abbia insistito
a voler scortare personalmente John Kerry all’inferno.
E tutte queste forze si sono nuovamente riaffermate
nei primi anni della presidenza Obama. L’ampia vittoria
di Obama nella corsa alla presidenza nel 2008 e il suo ovvio appello ai giovani cattolici, forse specialmente ai giovani cattolici ispanici, hanno rinfocolato molte delle forze
all’opera nell’elezione del 2004. Il chiaro orientamento
pro-choice di Obama ha indotto i cattolici conservatori a
temere che la sua elezione potesse orientare il dibattito
sull’aborto in direzione pro-choice e i vescovi americani, in
una dichiarazione insolitamente coraggiosa, hanno denunciato il sostegno nominale di Obama al disegno di legge «Freedom of Choice» nelle settimane prima dell’elezione di novembre, un disegno di legge che avrebbe eliminato quasi tutte le restrizioni statali in materia di aborto,
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ma che già da allora, e chiaramente dopo, sembrava poter diventare difficilmente una priorità per la nuova amministrazione.
La stessa dinamica è stata di nuovo evidente quando
l’Università di Notre Dame ha deciso di attribuire a Obama una laurea honoris causa.3 Contro la decisione di Notre Dame hanno protestato oltre sessanta vescovi e i cattolici conservatori le hanno montato contro una campagna
con la raccolta di oltre 300.000 firme. Analogamente i cattolici conservatori si sono infuriati quando il card. Sean
O’Malley e l’arcidiocesi di Boston hanno concesso al senatore Edward Kennedy, un cattolico pro-choice e fratello dell’unico presidente cattolico degli Stati Uniti, un solenne funerale, trasmesso in diretta dalla televisione nazionale.
Al funerale O’Malley ha preso in disparte il presidente Obama e lo ha pregato di non usare il dibattito in corso sulla riforma della sanità per destinare fondi federali all’aborto. Nonostante che per oltre settant’anni avessero
perorato una qualche versione di riforma sanitaria, molti
vescovi e cattolici conservatori si sono rifiutati di appoggiare il piano sanitario di Obama – l’iniziativa più importante nel campo del welfare dagli anni Sessanta – a causa
di questo timore. Nella primavera del 2010 la classe politica della nazione è stata inchiodata, negli ultimi giorni
del dibattito sulla sanità, da negoziati fra la Casa bianca,
Nancy Pelosi, presidente della Camera dei rappresentanti e cattolica pro-choice, e un piccolo gruppo di democratici pro-life, quasi tutti cattolici, capeggiati da Bart Stupak
del Michigan. Stupak ha ottenuto dal presidente un ordine esecutivo che vieta il finanziamento federale degli
aborti, ma questo non ha soddisfatto i cattolici conservatori, convinti che l’amministrazione Obama introdurrà
surrettiziamente nuove opportunità di finanziamento
pubblico nell’applicazione della legge. La cosa ha invece
soddisfatto la Catholic Health Association – il maggiore
fornitore privato di servizi sanitari negli Stati Uniti – che
ha rotto con i vescovi appoggiando il disegno di legge definitivo.4
Sembra indiscutibile la persistenza di queste tensioni
fra la dottrina sociale cattolica e la cultura politica americana. L’incandescente clima ecclesiastico creatosi nell’ultimo decennio del pontificato di Giovanni Paolo II, che
persiste nei vescovi da lui nominati e in alcuni dei giovani
da lui ispirati, continua ad alimentare una sorta di purezza romantica, una denuncia profetica di una società americana e anche di una Chiesa tentata dal compromesso su
quelli che a loro sembrano temi non negoziabili.
Alcune recenti misure votate in Missouri in materia di
ricerca sulle cellule staminali (ricerca che l’arcivescovo locale ha paragonato alla schiavitù), sull’aborto in South
Dakota (dove è stata respinta una legge che vietava gli
aborti anche in caso di stupro e incesto) e sui matrimoni
gay mobilitano (e polarizzano) gli elettori. Anche l’affinità
fra certi cattolici e il movimento neoconservatore in seno
al Partito repubblicano sembra destinata a durare e naturalmente le idee dei cattolici Anthony Kennedy, Clarence
Thomas, John Roberts, Antonin Scalia, Samuel Alito e ora
Sonja Sotomayor nella Corte suprema degli Stati Uniti
configureranno la giurisprudenza americana per i prossimi decenni. Qualche vescovo, facendo eco alle argomen-
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tazioni quasi liberali di conservatori americani, ha criticato il disegno di legge sulla riforma della sanità non solo sulla questione dell’aborto, ma in base a un timore più generale di un’«eccessiva centralizzazione governativa».
Cat tolicesimo depre sso
La previsione a lungo termine è meno chiara. Il carattere depresso del cattolicesimo americano contemporaneo, con la diminuzione della partecipazione alla messa,
un netto calo del numero delle coppie cattoliche che scelgono di sposarsi in chiesa, bassi tassi di vocazione alla vita religiosa e, soprattutto, il massiccio trauma della crisi
provocata dalle violenze sessuali su minori da parte di sacerdoti suggeriscono una riduzione del ruolo della Chiesa. La storia delle denominazioni protestanti tradizionali
– fondamentali per l’identità e la vita pubblica americana
nel 1950, ora praticamente invisibili – non è rassicurante
in questo senso.
E tuttavia, i cattolici restano la Chiesa più numerosa
della nazione, comprendendo circa un quarto della popolazione. Un’inattesa spinta al cambiamento può venire
dall’Europa e dal Vaticano, dove l’attenzione rivolta al
Sud del mondo, specialmente alle fiorenti Chiese in Africa, sembra essere un tema molto importante del pontificato di Benedetto XVI. Un’altra spinta potrebbe venire
dalle ondate di immigrati cattolici che godono del diritto
di cittadinanza e di voto in California, Arizona e Texas.
Nell’aprile 2006 a Los Angeles il card. Roger Mahony, arcivescovo della città e sostenitore (al tempo in cui era un
giovane prete) dell’attività di César Chávez in mezzo ai
braccianti agricoli della Central Valley, ha marciato alla
testa di 500.000 californiani che chiedevano i diritti civili
per gli immigrati, e vescovi cattolici in tutto il paese hanno sostenuto campagne organizzative a sostegno dei lavoratori nei servizi di assistenza e di pulizie.
Immagino che i sacerdoti italiani che erano con John
Kerry in piazza San Pietro non ammirassero la sua posizione non chiara sull’aborto, e che fossero contrari viceversa all’invasione americana dell’Iraq o agli usi e costumi di una società che permette la disuguaglianza economica per raggiungere traguardi senza precedenti. La visione cattolica europea coincide in parte, ma non s’identifica con quella di John Kerry, Nancy Pelosi, Antonin
Scalia e Benedetto XVI. E tuttavia sono tutti cattolici. Il
modo in cui queste vorticose correnti trasversali cattoliche, racchiuse nell’istituzione più grande e globale del
mondo, si tradurranno in un idioma americano segnerà il
prossimo capitolo delle relazioni fra il cattolicesimo e la
politica negli Stati Uniti.
John T. McGreevy*
* Decano del College of arts and letters all’Università di Notre
Dame (Indiana) e autore di Parish boundaries: the catholic encounter
with race in the twentieth-century urban North, University of Chicago
Press, Chicago 1996; Catholicism and American freedom: a history,
W.W. Norton, New York 2003.
1
J.A. LUKAS, Common ground: a turbulent decade in the lives of
three American families, A. Knopf, New York 1985.
2
L. WOODCOCK TENTLER, Catholics and contraception, an American history, Cornwell University Press, Ithaca (NY) 2004.
3
Cf. Regno-doc. 13,2009,453; Regno-att. 14,2009,456.
4
Cf. Regno-att. 8,2010,221.
S t at i U n i t i , C h i e s a e so c i e t à
Le donne
sono cambiate
N
el dicembre 2008 il Vaticano ha annunciato che le religiose cattoliche degli Stati
Uniti sarebbero state sottoposte a una «visita apostolica» della durata di tre anni.1
Le reazioni a questo annuncio sono state
molto diverse. Molti cattolici hanno attribuito motivazioni malvagie agli inviati del
Vaticano e hanno previsto conseguenze disastrose per le
suore cattoliche. Altri hanno minimizzato le conseguenze
della visita, sottolineando che essa è motivata unicamente
da uno spirito amichevole e da una mentalità aperta. Altri ancora hanno accolto con gioia la notizia, ritenendo
ormai urgente che il Vaticano riprendesse il controllo sulle suore americane troppo liberal. Nel frattempo, forse il
modo migliore per darle un senso è quello di osservarla e
interpretarla attraverso la lente della storia recente. Nel
corso degli ultimi cinquant’anni, globalmente le religiose
americane sono profondamente cambiate, dall’essere il
gruppo che più facilmente sposava e trainava l’insegnamento della Chiesa all’essere quello che più facilmente lo
sfida e contesta.
Tra Concilio e femminismo
Questo cambiamento affonda le radici in due avvenimenti separati, ma interconnessi, degli anni Sessanta: da
una parte il concilio Vaticano II, e dall’altra un ringiovanito movimento femminista.
Benché i documenti conciliari non avessero detto un
granché sulle donne, l’esperienza del Vaticano II cambiò
irrevocabilmente la relazione delle donne cattoliche con
la Chiesa istituzionale. Grazie a essa, molte presero coscienza della loro condizione di seconda classe. Le donne
non erano state neppure incluse nelle prime due sessioni
del Concilio, e anche in quelle successive ebbero lo status
ufficiale di uditrici, senza voce e senza voto. Riconoscendo che esse erano state trattate pressappoco come gli osservatori protestanti, una pubblicazione sulle donne al
Concilio venne intitolata Guests in their own house (Ospiti a casa propria).
Per le donne cattoliche negli Stati Uniti, questa consapevolezza venne accentuata dal movimento femminista
ringiovanito. Il femminismo sorto negli anni Sessanta viene spesso indicato con l’espressione «seconda ondata»,
perché la prima ondata del femminismo americano, asso-
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ciata al movimento femminile per il diritto di voto, aveva
perso molta della sua forza, dopo che il 19° emendamento venne ratificato nel 1920. Pur non essendo «morto», il
femminismo entrò in una sorta di letargo nel periodo della Grande depressione, della seconda guerra mondiale e
negli anni Cinquanta. Vari fattori favorirono la sua rinascita all’inizio degli anni Sessanta. Anzitutto l’abituale
emarginazione delle donne nel movimento dei diritti civili attirò l’attenzione sul genere, oltre che sull’ingiustizia
razziale. In secondo luogo, il Rapporto della Commissione
presidenziale sulla condizione delle donne (1963) evidenziò persistenti disuguaglianze in termini di retribuzione e
promozione delle donne nel campo del lavoro e nelle istituzioni educative.
Infine, sempre nel 1963, Betty Friedan, una casalinga
di periferia, pubblicò The feminine mystique,2 nel quale
criticava la concezione predominante secondo cui le donne potevano e dovevano cercare la loro realizzazione più
piena e lo scopo della loro vita nel disbrigo delle faccende
domestiche. Il volume di Friedan lanciò un attacco in piena regola contro le tradizionali definizioni della femminilità e ispirò un cambiamento di linguaggio che, da una
parte, distinse le femministe della seconda ondata dalle
colleghe della prima, e dall’altra ampliò il ventaglio degli
scopi. Invece di perseguire esclusivamente i diritti delle
donne, incentrati principalmente sulle sfide legali alla disuguaglianza femminile, le femministe della seconda ondata cercarono la liberazione delle donne dai rigidi ruoli di
genere imposti dalla società e dalla cultura.
La modernizzazione della vita religios a
Questi due sviluppi paralleli – le riforme del Vaticano II e un più ampio cambiamento culturale – spiegano la trasformazione delle suore cattoliche americane
nel corso degli ultimi cinquant’anni. Come altre riforme legate al Vaticano II, gli sforzi di «modernizzare» la
vita religiosa hanno preceduto di fatto il Concilio. Una
delle figure chiave in questo movimento fu suor Madeleva Wolff, presidente del Saint Mary’s College a Notre
Dame, Indiana. Nel 1943, Wolff aveva fondato la Graduate school of sacred theology for women, il primo (e
per molto tempo l’unico) istituto a rilasciare alle donne
diplomi in teologia. Nel 1949 Wolff, in un discorso all’Associazione educativa cattolica nazionale, lamentò
che la maggior parte delle suore fosse mandata a insegnare con una scarsa preparazione. Il suo appello a favore di programmi di preparazione delle insegnanti
contribuì a lanciare nei primi anni Cinquanta il Movimento per la formazione delle religiose. Attraverso questo movimento, molte religiose beneficiarono di un’istruzione superiore, grazie a collegamenti fra congregazioni, e cominciarono a chiedere una maggiore autonomia e libertà di decisione in seno alla Chiesa. Nel 1956,
l’istituzione del Consiglio delle superiore maggiori permise a molte religiose di incontrarsi annualmente in assemblee nazionali, facilitando così la collaborazione fra
le diverse congregazioni.
Una spinta fondamentale per la trasformazione delle suore cattoliche americane venne dal volume La suora nel mondo del card. Suenens, pubblicato alla vigilia
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del Concilio. L’affermazione di Suenens secondo cui tutte le religiose avevano il dovere di diffondere il Vangelo
con un’azione personale diretta entrò nei decreti conciliari e postconciliari sulla vita religiosa. Si chiese alle
congregazioni di rinnovarsi mediante l’esame del carisma originario dei loro fondatori e la valutazione della
loro vita e del loro ministero in un clima di preghiera. Si
chiese alle comunità di convocare un’incontro speciale
del capitolo generale (o assemblea legislativa) nell’arco di
tre anni, per avviare determinati periodi di sperimentazione e riscrivere le loro costituzioni in modo da poter rispondere alla chiamata del Vangelo nel mondo contemporaneo. È significativo che sia stata richiesta la consultazione di tutti i membri della comunità in preparazione
a questo capitolo generale. Secondo Nadine Foley, domenicana, quest’ultima direttiva simboleggiava il cambiamento abissale intervenuto nella vita religiosa femminile. Fino ad allora, i membri non venivano ampiamente consultati prima dei capitoli generali e la loro agenda
si limitava in genere all’elezione dei superiori della congregazione e a particolari norme di vita comunitaria.
La ricerca del rinnovamento spinse molte comunità
a operare vari cambiamenti strutturali. Le rigide regole
che governavano la vita comunitaria vennero mitigate e
ai membri della comunità si accordò una maggiore libertà di scelta riguardo al ministero e agli incarichi. In
genere, le suore americane adottarono uno stile di vita
meno protetto. Il simbolo più radicale di questo cambiamento fu la decisione di molte suore di abbandonare l’abito, che serviva come una sorta di «convento portatile».
Questi cambiamenti non vennero sempre attuati senza intoppi, perché spesso le suore incontrarono la resistenza dei supervisori clericali. Lo scontro più drammatico in questo campo si verificò a Los Angeles fra il card.
Francis McIntyre e le suore del Cuore immacolato di
Maria. Dopo una serie di incontri capitolari, nei quali
avevano discusso l’applicazione delle norme del Vaticano II, le suore avevano cambiato la loro regola comunitaria per consentire l’uso dell’abito secolare, la mitigazione della rigida regolamentazione della vita comunitaria e l’opportunità di un’attività apostolica accanto alle
tradizionali occupazioni dell’insegnamento o della cura
dei malati. Mentre le suore credevano di seguire la richiesta di Paolo VI di rinnovare seriamente la loro vita
comunitaria, McIntyre interpretò molto diversamente le
loro azioni. Come congregazione di diritto pontificio, esse dovevano rendere conto alla Sacra congregazione per
i religiosi a Roma piuttosto che a McIntyre, ma la loro
casa madre si trovava a Los Angeles e molte di loro insegnavano nelle scuole diocesane. Così la disapprovazione
delle suore da parte di McIntyre – e il loro rifiuto di sottomettersi – ebbe gravi conseguenze per la congregazione. Quando il conflitto terminò, la maggior parte delle
suore si era già dimessa dall’insegnamento, aveva chiesto
la dispensa dai voti e formato una comunità laicale indipendente, non canonica. Anche se molte comunità non
hanno sperimentato un conflitto così violento, è indubbio che la scomparsa di molte caratteristiche tradizionali della vita religiosa femminile abbia prodotto un diffuso disagio fra molti cattolici americani.
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Tornare ai modelli tradizionali?
Il conflitto fra McIntyre e le suore del Cuore immacolato di Maria prefigurò gli attuali disaccordi sulla vita religiosa femminile. Recenti indagini mostrano che le congregazioni i cui membri vestono l’abito, vivono in convento e svolgono i ministeri tradizionali hanno attualmente
più vocazioni delle loro omologhe non tradizionali. Citando questi dati, molti commentatori raccomandano alle
congregazioni di ritornare alle pratiche tradizionali per
attirare più vocazioni. In realtà sia i critici sia i sostenitori
dell’attuale visita apostolica sottolineano che è questa la
sua reale motivazione e prevedono che alla fine si loderanno le congregazioni che hanno conservato le caratteristiche tradizionali della vita religiosa e si rimprovereranno
quelle che le hanno abbandonate.
Ma un integrale ritorno alle pratiche passate non ha
senso per varie ragioni. Anzitutto, non è scontato che incrementerà il numero delle vocazioni. È vero che le congregazioni «tradizionali» registrano un leggero aumento
dei loro membri, ma è troppo presto per dire se questa
tendenza continuerà o se coloro che sono entrati nell’ultimo decennio vi resteranno per sempre. In secondo luogo,
la prospettiva storica indica che i noviziati sovraffollati del
periodo precedente al Vaticano II sono finiti per sempre.
Oggi anche la congregazione che cresce più in fretta accoglie annualmente molti meno membri di quelli che accoglievano le comunità religiose femminili negli anni
Trenta e Quaranta.
Inoltre, coloro che auspicano un ritorno alle pratiche
tradizionali come rimedio alla diminuzione del numero
dei membri spesso trascurano la principale ragione per
cui la vita religiosa è stata così attraente per le donne cattoliche americane nella maggior parte della storia di questo paese e, inversamente, la principale ragione per cui è
una scelta di gran lunga meno attraente oggi. Dall’inizio
del XIX secolo fino alla fine degli anni 1960, la vita religiosa offriva a migliaia di donne cattoliche – molte delle
quali provenienti dalle comunità operaie immigrate – opportunità di istruzione, posizioni di responsabilità e vite significative ben al di là di quelle che poteva offrire loro la
società americana nel suo complesso. Ma se un tempo le
donne cattoliche degli Stati Uniti vedevano più possibilità
in seno alle strutture della Chiesa che al di fuori di esse, a
partire dagli anni Sessanta è vero proprio il contrario. Poiché i cambiamenti per le donne nella società americana
hanno superato di gran lunga quelli per le donne nella
Chiesa, la vita religiosa non rappresenta più l’unica scelta
possibile per donne cattoliche dotate e fedeli chiamate a
vivere la loro vocazione nel mondo moderno.
Nuove declinazioni del ministero
E non c’è alcun gruppo di cattolici americani che sia
più sintonizzato sulle sfide del mondo moderno di quello
delle suore. Ancora una volta, questo affonda le radici negli avvenimenti degli anni Sessanta. Come ha osservato la
teologa Sandra Schneiders, il Vaticano II ha esercitato la
sua influenza più profonda sulla vita religiosa non attraverso le sue affermazioni esplicite sul tema, ma attraverso
il suo più ampio messaggio sulla Chiesa nel suo complesso. Nella Lumen gentium il Concilio ha affermato la chia-
mata di tutti alla santità e ha scalzato la spiritualità a due
piani che aveva collocato i cattolici con voti a un livello
superore rispetto a quello dei laici. Il forte contenuto sociale della Gaudium et spes ha esercitato un’influenza ancora maggiore, nel senso che ha spinto molte suore americane a scegliere nuove forme di ministero. Nel suo rapporto Le nuove suore (1966), lo studioso cattolico Michael
Novak presentava suore impegnate in programmi di rinnovamento urbano, in attività di difesa e promozione dei
diritti umani, nella consulenza dei tossicodipendenti, nelle cappellanie e in posti di governo. Ovviamente, queste
diverse forme di apostolato sono state influenzate anche
dai più ampi movimenti sociali. Ad esempio, nella Lyndon B. Johnson’s Great Society, le suore americane hanno collaborato con programmi come «Head start» per la
prevenzione dello svantaggio culturale dei giovani, «Job
Corps» per l’orientamento e «Vista» contro la povertà.
Fra tutti i movimenti sociali che hanno riconfigurato
la vita americana negli anni Sessanta, quello che ha maggiormente contribuito a trasformare le comunità religiose femminili probabilmente è stato il movimento per i diritti civili. Ciò che accadde a Selma, Alabama, nel maggio 1965, è forse la migliore illustrazione di questa dinamica. Gli attivisti dei diritti civili si riunirono a Selma,
sotto la guida di Martin Luther King, per marciare fino
a Montgomery, sede del governo dello stato, e protestare
contro le limitazioni del diritto di voto degli afroamericani. Selma non solo rappresentò il primo movimento di
massa di bianchi nel movimento dei diritti civili, ma segnò anche un deciso ingresso della Chiesa cattolica nell’arena sociale. La maggior parte dei partecipanti era cattolica, e furono soprattutto le suore nei loro abiti religiosi ad attirare l’attenzione dei media.
Secondo suor Mary Peter Traxler (o Margaret Ellen
Traxler, il nome di nascita cui tornò alla fine degli anni
Sessanta), l’esperienza di Selma fu talmente potente da
costringerla a ridefinire la sua vita di religiosa. Nel suo articolo «After Selma, sister, you can’t go home again»
(«Dopo Selma, sorella, non puoi ritornare a casa»), Traxler chiedeva alle suore cattoliche di uscire dalle loro aule
scolastiche e dai loro conventi e lavorare per la giustizia
nel mondo. L’estate successiva Traxler e un gruppo di
suore animarono 110 gruppi di lavoro, studio e discussione, alcuni per le scuole pubbliche e le corporazioni, su
tutti gli aspetti dei diritti civili e del razzismo. Nel 1969
insieme ad altre suore fondò la National coalition of
American nuns (Coalizione nazionale delle suore americane), la prima organizzazione delle suore cattoliche
femministe.
Mary Luke Tobin, appartenente alle Sisters of Loretto e presidente della Conferenza delle superiore maggiori, è stata una delle tre donne americane che hanno partecipato come osservatrici ufficiali al Vaticano II. Nel
1967, il suo saggio La missione delle religiose nel XXI secolo sottolineava «l’ardente desiderio delle religiose di essere ovunque là dove è la Chiesa». Tobin spiegava l’affermazione in questi termini: «Oggi il cristiano deve preoccuparsi attivamente del mondo in cui vive. Non gli è più
permesso evitarlo, ignorarlo o semplicemente tollerarlo».
Con questo obiettivo in mente, nel 1972 Tobin e altre 46
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suore fondarono Network, un’organizzazione di religiose
che svolge un’azione di lobby sul Congresso.
Tobin fu una delle molte suore che riconobbero che
«andare dove era la Chiesa» significava oltrepassare con il
proprio ministero i confini degli Stati Uniti. Ella si recò a
Saigon per una missione d’inchiesta all’inizio degli anni
Settanta, in seguito visitò l’Irlanda del Nord ed El Salvador nei periodi dei disordini. Le iniziative internazionali
di sister Tobin sono solo un esempio del crescente ministero mondiale delle religiose. Migliaia di suore hanno svolto la loro attività missionaria in America Latina, dove loro stesse e, attraverso di loro, le comunità sono state influenzate dalla teologia della liberazione.
Il conf lit to istituzionale al l’orizzonte
Naturalmente le suore americane hanno avuto ampie
opportunità di impegnarsi nella lotta per la giustizia sociale all’interno degli Stati Uniti. Forse la suora più famosa
dell’America contemporanea è suor Helen Prejean, la
propugnatrice dell’abolizione della pena di morte, sulle
cui memorie è stato girato il film Condannato a morte
(Dead man walking, 1995) vincitore di diversi riconoscimenti. In Dead Man Walking Prejean ricorda che, quando la sua congregazione cominciò a riesaminare il proprio
carisma dopo il Vaticano II, ella si rese conto che la sua vita di religiosa era «troppo eterea, troppo scollegata dalla
realtà». Nel 1981 si trasferì in un quartiere di case popolari insieme a varie altre suore e fu lì, lavorando nella locale mensa gratuita per i poveri, che cominciò a occuparsi dei prigionieri del braccio della morte.
Questi cambiamenti spesso causarono nelle comunità
religiose femminili momenti di tensione e disorganizzazione. Il dissenso raggiunse il livello nazionale, quando varie centinaia di suore organizzarono un gruppo rivale perché, a loro avviso, la Leadership conference of women religious (LCWR, il nuovo nome del Consiglio delle superiore maggiori) era troppo liberal. Certamente migliaia di
donne e uomini abbandonarono la vita religiosa verso la
fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta. Molti lasciarono perché pensavano che le riforme del Vaticano II si
fossero spinte troppo avanti, mentre altri lasciarono perché pensavano che non si fossero spinte abbastanza avanti. La partenza di un numero così elevato di membri, insieme alla drastica diminuzione del numero delle nuove
vocazioni, fecero precipitare il numero delle suore americane. Al loro livello più alto, nel 1968, le suore erano circa 209.000.
Oggi sono 57.544 e oltre la metà ha più di 70 anni. Per
ora è impossibile dire che cosa significhi per il futuro della vita religiosa questo crollo. Anche il futuro della vita religiosa femminile in seno alla struttura istituzionale della
Chiesa è incerto. Fra i segni più inquietanti di un conflitto che si profila all’orizzonte c’è il recente ammonimento
del Vaticano alla LCWR, che rappresenta il 95% delle
suore cattoliche degli Stati Uniti. Le è stato notificato che
deve fare di più per promuovere l’insegnamento della
Chiesa su una serie di questioni controverse. La più controversa di esse è l’affermazione secondo cui l’ordinazione è riservata ai soli uomini. In realtà la trasformazione
delle suore cattoliche è strettamente legata al dibattito in
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corso sull’ordinazione delle donne, scaturito anch’esso dagli avvenimenti degli anni Sessanta.
Paragonate con le donne nelle altre tradizioni religiose, le donne cattoliche negli Stati Uniti sono entrate piuttosto tardi in questo dibattito. La Chiesa congregazionalista ordinò una donna già nel 1853, e molte delle principali denominazioni protestanti hanno cominciato a farlo fra
gli anni Venti e Sessanta dello scorso secolo. Le donne cattoliche hanno sollevato la questione dell’ordinazione molto più tardi delle loro controparti protestanti. Persino fra i
riformatori cattolici più liberali, l’ordinazione era praticamente assente dalle discussioni prima dell’inizio degli anni Sessanta. Ispirate dallo spirito del Vaticano II, le donne
cattoliche americane cominciarono a mobilitarsi a favore
dell’ordinazione all’inizio degli anni Settanta. Avevano
molte ragioni per sentirsi incoraggiate a farlo. Nella sua
enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva citato la
partecipazione delle donne alla vita pubblica come uno
dei tre segni dei tempi più significativi cui la Chiesa doveva prestare attenzione. Dopo un decennio di dibattiti, la
Chiesa episcopaliana negli Stati Uniti approvò l’ordinazione delle donne al presbiterato nel 1976, creando un
modello di ministero ordinato in una tradizione molto vicina al cattolicesimo. Nel 1974 la LCWR votò una risoluzione a sostegno dell’ordinazione delle donne, e l’anno
dopo una donna cattolica di nome Mary Lynch organizzò
il primo incontro sul tema dell’ordinazione delle donne. A
Detroit alla Conferenza sull’ordinazione delle donne parteciparono 1.200 persone.
Anche se il sostegno a favore del ministero ordinato
femminile guadagnava terreno, le dichiarazioni ufficiali
provenienti dal Vaticano e dai vescovi americani lasciavano ben poche speranze. La dichiarazione più perentoria e
definitiva sulla questione fu emanata nel 1976 dalla Congregazione per la dottrina della fede. Nella Dichiarazione
sulla questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio
ministeriale, i teologi del Vaticano avanzarono due principali argomenti contro l’ordinazione delle donne. Mentre
la prima Conferenza sull’ordinazione delle donne aveva
posto l’accento sull’unità e sulla speranza, la seconda, organizzata poco dopo la pubblicazione della dichiarazione
del Vaticano, rivelò la crescente diversità e posizione radicale del movimento. Ulteriori controversie scoppiarono
nel 1979 durante la visita di Giovanni Paolo II negli Stati
Uniti. Theresa Kane, presidente della LCWR, pronunciò
un breve discorso di benvenuto nel quale gli chiese di
aprire alle donne tutti i ministeri della Chiesa. Secondo
uno studioso, il suo discorso rappresentò l’atto di sfida
pubblica più significativo di tutta la storia del femminismo
cattolico. Pur essendo ormai ufficialmente chiuso alla discussione, il tema del ministero ordinato delle donne resta
un argomento rovente nella Chiesa.
Non preti ma teologhe
Ironia della sorte, mentre il ministero ordinato è precluso alle donne cattoliche, sono proprio loro a fare la parte del leone nel ministero cattolico negli Stati Uniti. Dalla
fine degli anni Ottanta le donne hanno superato gli uomini nelle scuole di teologia. La stragrande maggioranza dei
circa 30.000 cattolici impegnati nel ministero parrocchiale
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– attorno all’82% – è costituita da donne. Assumendo ruoli prima riservati agli uomini, le donne operano come amministratrici pastorali, ministre nei campus universitari,
cappellane negli ospedali, direttrici spirituali. In oltre 500
«parrocchie senza prete» sparse in tutto il paese, i laici, uomini e donne, svolgono i ministeri dei pastori con solo due
eccezioni: non celebrano l’eucaristia e non confessano.
Nel 1992, la teologa femminista Catherine LaCugna
sottolineava un altro paradosso nel rifiuto di accettare
l’ordinazione delle donne da parte della Chiesa: molte
donne che altrimenti sarebbero diventate prete si dedicano allo studio accademico della teologia. Di conseguenza,
le principali teologhe femministe sono cattoliche. Generalmente parlando, vi sono due tipologie di teologhe femministe: riformiste e rivoluzionarie. Entrambe affermano
concordemente che le tradizioni religiose occidentali,
ebraismo e cristianesimo, sono patriarcali e hanno spesso
oppresso o ignorato le donne, ed entrambe chiedono un
cambiamento. Ma mentre le riformiste vogliono lavorare
all’interno delle loro rispettive tradizioni, convinte che in
esse esistano risorse e tematiche in grado di sostenere l’uguaglianza e la liberazione delle donne, le rivoluzionarie
concludono che ebraismo e cristianesimo sono stati irrimediabilmente sessisti, per cui la cosa migliore per le donne è quella di abbandonarli e cercare una nuova fonte di
esperienza spirituale e di espressione religiosa.
Mary Daly, una delle teologhe femministe più famose,
cominciò come riformatrice e poi è divenuta rivoluzionaria. Nel 1968 pubblicò The Church and the second sex,3
un’analisi storica e teologica del sessismo cattolico. A distanza di cinque anni pubblicò un secondo libro, Beyond
God and Father,4 nel quale annunciava la sua nuova posizione come «studiosa femminista post-cristiana». Daly
condanna il cristianesimo come un sistema che eleva l’autorità degli uomini a spese della dignità e del benessere
delle donne. Il percorso di Daly dimostra ancora una volta il ruolo centrale della fine degli anni Sessanta per le
donne cattoliche.
Rosemary Radford Ruether, un’influente teologa cattolica femminista, ha seguito un cammino diverso da
quello di Daly, restando fermamente convinta della possibilità della riforma all’interno della tradizione. Una delle
prime a proclamare femminista Gesù, Ruether ha incentrato l’attenzione sulla necessità di rivedere il linguaggio
religioso su Dio, affermando che la presentazione di Dio
in termini maschili autoritari dava alle donne un senso di
inferiorità. Un linguaggio più inclusivo favorisce invece
l’attribuzione di potere alle donne. In Sexism and GodTalk, Ruether collega strettamente libertà delle donne
dall’oppressione e attenzione per la natura e per l’ambiente, affermando che la vera religione è ecologista e femminista al tempo stesso. A partire dai primi anni Ottanta, le
teologhe womaniste e mujeriste hanno introdotto nel dibattito le prospettive delle donne afroamericane e ispaniche. Gli scritti di Diana Hayes, Ada María Isasi-Díaz e altre hanno offerto importanti precisazioni e correttivi alla
teologia femminista, ricordando alle teologhe femministe
della classe media che non possono privilegiare la propria
liberazione su quella delle minoranze oppresse e dei popoli poveri.
Una le t tera mai scrit ta
Molte delle teologhe menzionate hanno insegnato
in collegi e università cattolici. In realtà l’attività accademica è diventata un rifugio per molte donne cattoliche che si trovano in disaccordo con la Chiesa su questioni relative alle donne. Naturalmente un numero imprecisato di altre ha riconciliato fede e femminismo abbandonando la Chiesa. Quante donne cattoliche le seguiranno in futuro dipende in gran parte dalla capacità
dei leader della Chiesa di convincere le donne che le
loro preoccupazioni e le loro questioni vengono prese
sul serio.
Un segno di buona fede sarebbe quello di porre le
donne in posizioni di comando più visibili in seno alle
strutture della Chiesa a livello diocesano e nazionale.
Potrebbe essere utile anche che i leader della Chiesa
americana parlassero di tutte le questioni relative alle
donne e non solo della questione dell’aborto, cosa che
finora si è dimostrata impossibile. Nel 1983 la Conferenza nazionale dei vescovi cattolici (NCCB, ora Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti) decise di
scrivere una lettera pastorale in risposta alle preoccupazioni delle donne. Nel corso dei nove anni successivi sono state sottoposte alla NCCB ben quattro bozze del
documento, tutte votate. In seguito i vescovi vi hanno rinunciato, rinviando le questioni sollevate nelle bozze a
varie commissioni in seno alla NCCB. In alcuni casi
questo ha dato luogo alla pubblicazione di lettere pastorali. Nel 1992, ad esempio, due commissioni della
NCCB – la Commissione sul matrimonio e la vita familiare e la Commissione sulle donne nella società e nella
Chiesa – pubblicarono A pastoral response to domestic
violence against women (Una risposta pastorale alla violenza domestica contro le donne; cf. Regno-att. 22,1992,
667). Nel 1994 i vescovi approvarono una riflessione pastorale sulle donne, Strengthening the bonds of peace
(Rafforzare i vincoli della pace), che rifiuta il sessismo
nella dottrina e nella pratica della Chiesa.
Ma l’incapacità dei vescovi di redigere una lettera
più globale è eloquente. Testimonia la complessità e
l’ambivalenza che continua a circondare le discussioni
sul ruolo delle donne in seno alla Chiesa negli Stati
Uniti.
Kathleen Sprows Cummings*
* Docente di storia del cattolicesimo americano nei dipartimenti di Storia e Teologia dell’Università di Notre Dame; autrice di New
women of the old faith: gender and American catholicism in the progressive era, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2009.
1
Cf. Regno-att. 16,2009,534; 18,2009,589-591; 20,2009,667.
2
Trad. it. La mistica della femminilità, Edizioni di comunità,
Milano 1964.
3
Trad. it. La Chiesa e il secondo sesso, Rizzoli, Milano 1982.
4
Trad. it. Al di là di Dio Padre: verso una filosofia della liberazione delle donne, Editori riuniti, Roma 1990.
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Andata e ritorno
al concilio Vaticano II a oggi sono trascorsi
meno di 50 anni, ma per la Chiesa cattolica
americana questi decenni hanno significato
un lungo tragitto di andata e ritorno: dal
«ghetto» culturale cattolico celebrato da
Fronte del porto di Elia Kazan, al grande impatto sociale delle lettere pastorali dei vescovi sulla pace nell’era atomica (1983) e sulla giustizia sociale (1986), all’attuale fase di crisi di autorità dei vescovi americani nella sfera pubblica. Grazie al Vaticano II, e specialmente grazie alla dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, la Chiesa americana era uscita dalla zona d’ombra
di una Chiesa che ancora divideva i titolari di diritti di libertà religiosa tra «la tesi» (i paesi cattolici, in cui solo i cattolici erano titolari di quella libertà) e «l’ipotesi» (i paesi,
come gli Stati Uniti, con una minoranza di cattolici, per i
quali la teologia preconciliare pretendeva quella libertà religiosa negata ai non cattolici nei paesi cattolici).
Da un punto di vista culturale, il congedo dal lascito costantiniano e preconciliare aveva coinciso per la teologia
americana, specialmente grazie al contributo del gesuita
John Courtney Murray, con un incontro con una cultura
costituzionale e dei diritti molto più fecondo rispetto al costituzionalismo di matrice francese e illuministica europea.1
D
L’evoluzione della Conferenza episcopale
Dal punto di vista pastorale, il periodo postconciliare
dell’episcopato americano aveva visto, sotto la leadership
dei vescovi John Dearden (1966-1971, arcivescovo di Detroit), Joseph Bernardin (1974-1977, poi arcivescovo di
Chicago) e John R. Quinn (1977-1980, poi arcivescovo di
San Francisco) l’apertura del magistero dei vescovi degli
Stati Uniti alle questioni sociali, in un confronto aperto sia
con la politica dottrinale romana nell’interpretazione della Humanae vitae di Paolo VI,2 sia con la cultura americana degli anni Settanta simboleggiata dalla legalizzazione
dell’aborto nel 1973.3 La conferenza dei vescovi (dal 2001
USCCB), che aveva mantenuto anche nel post-concilio la
sua struttura storicamente leggera e «federalista», in uno
sforzo creativo di adattamento delle strutture del cattolicesimo americano alla cultura sociale e politica degli Stati
Uniti, incarnava una complessa realtà culturale e controculturale, in dialogo con le diverse anime (etniche, ideologiche e teologiche) del cattolicesimo d’oltreoceano.4
Ma i vescovi americani di quel primo quindicennio postconciliare, nominati anche grazie al contributo del dele-
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gato apostolico negli Stati Uniti, il belga Jean Jadot (19731980), rappresentano un’era che sembra oggi assai lontana. A Jadot subentrò Pio Laghi, e gradualmente i «vescovi di Jadot» furono sostituiti da una nuova leva di vescovi
accuratamente scelti sulla base della loro proclamata fedeltà dottrinale alla Humanae vitae e al magistero della vita di Giovanni Paolo II. I leader della Conferenza episcopale americana eletti nel periodo tra John Roach (arcivescovo di Saint Paul e Minneapolis, 1980-1983) e William
S. Skylstad (vescovo di Spokane, 2004-2007) non hanno lasciato un’impronta paragonabile a quella dei predecessori,
fatta salva l’opera di salvataggio della Chiesa americana
dalla crisi delle violenze sessuali su minori scoppiata tra il
2001 e il 2002 da parte di Wilton Gregory (2001-2004, vescovo di Belleville e poi di Atlanta). Le elezioni presidenziali del 2000 e del 2004 hanno visto i vescovi e la maggioranza dei cattolici bianchi appoggiare il partito di G.W.
Bush e, in definitiva, contribuire alla sua vittoria, nonostante la ferma presa di posizione di Giovanni Paolo II e
della Santa Sede sulla guerra in Iraq e sulla politica mediorientale della scuola neo-conservatrice.5
L’inizio del pontificato di Benedetto XVI ha visto
emergere la leadership dell’arcivescovo di Chicago Francis
George (presidente della USCCB dal 2007), che ha rilanciato una visione teologica chiaramente diversa da quella
del predecessore Bernardin6 e ha rafforzato alcune linee
emerse già una trentina di anni fa con i «democratici per
Reagan»: linee pienamente all’opera con il successo della
strategia di Karl Rove di arruolamento dei vescovi cattolici sotto le ali del Partito repubblicano, in nome di una strumentale e più volte smentita convergenza tra le posizioni
pro-life del partito dell’elefante e il magistero cattolico in favore della vita.
I ve scovi e l’Elefante
La fine dell’amministrazione Bush ha coinciso con la fine dell’accettazione, da parte di molti cattolici americani,
dell’allineamento politico tra i vescovi e il Partito repubblicano, e ha reso evidente il crescente disagio di molti fedeli
per la presidenza di G.W. Bush, coi suoi contrassegni simbolici (il largo uso della pena di morte come governatore in
Texas, la vicinanza alle tesi neo-creazioniste, la retorica
neo-crociata) e i suoi lasciti epocali (l’indisciplina fiscale a
favore dei più abbienti sul piano interno, la guerra in Iraq
e il ruolo dell’America sul piano internazionale).
La vittoria di Obama nel novembre 2008 ha segnalato, e non ha creato, una divisione netta all’interno della comunione cattolica americana lungo le linee di faglia politiche e partitiche: non solo per l’insofferenza di molti cattolici per l’ipocrisia di un’alleanza politica a esclusivo favore
del Partito repubblicano e a nocumento della Chiesa, ma
anche per l’impossibilità per i vescovi di dare voce a una
Chiesa americana ormai definitivamente congedatasi dalle sue radici etniche europee (irlandesi, italiane, tedesche,
polacche) e per larga parte animata da una componente di
latinos che, pur paladina di un modello di matrimonio e di
famiglia vicino a quello difeso e proposto dal magistero
episcopale, non riconosce ai vescovi americani un’autorità
quanto a riferimento politico.
I primi due anni dell’amministrazione Obama sono
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stati un periodo non facile per i vescovi americani. Dal
punto di vista strettamente politico, la USCCB e il suo presidente card. George hanno patito, durante l’inverno
2009-2010 con il passaggio finale della riforma sanitaria di
Obama, una sconfitta cocente: non tanto da parte dell’amministrazione, che ha concesso ai cattolici punti significativi, quanto da parte del resto della Chiesa e della società
americana.7 L’esperienza delle religiose americane all’interno del settore sanitario e l’opinione pubblica (la stampa
cattolica nazionale e i cattolici all’interno dei mass media
di larga diffusione) hanno, nelle ultime settimane del marzo 2010, rappresentato di fronte alla società americana la
voce alternativa dei cattolici, riducendo quella dei vescovi
a una specie di megafono del Partito repubblicano.8
Dal punto di vista ecclesiale, all’imbarazzo causato ai
vescovi filo-repubblicani dalla calda accoglienza riservata
dal papa e dalla Santa Sede al presidente Obama nel luglio 2009 è seguita la vicenda dell’indagine della curia romana sulle religiose americane: una questione sulla quale i
vescovi degli Stati Uniti hanno mostrato scarso coordinamento con Roma, poco entusiasmo e ancora minore sostegno finanziario all’iniziativa.9
Dal punto di vista pastorale, infine, un passaggio difficile è stato quello dell’adozione del nuovo messale in lingua inglese per la Chiesa degli Stati Uniti: un messale che
ha sollevato molteplici perplessità, se non aperta opposizione, in vari ambienti ecclesiali nordamericani (dopo una
storia travagliata in altri paesi anglofoni, come il Sudafrica) e che entrerà in vigore nella prima domenica di Avvento del 2011. Considerazioni liturgiche a parte, la procedura di adozione del nuovo messale tra Roma e i vescovi
americani è avvenuta in violazione degli statuti della Conferenza episcopale, come ha fatto notare uno dei vescovi
presenti in aula (mons. Trautman, vescovo di Erie, Pennsylvania) e come ha potuto constatare chiunque abbia assistito al dibattito dell’assemblea dei vescovi del 16-19 novembre 2009 (trasmesso in diretta via Internet).
Le incognite e i rischi del 2 novembre
La seconda metà del primo mandato di Obama riserva numerose incognite per la Chiesa americana. I cattolici
vicini al Partito democratico sembrano aver perso le energie (e le risorse finanziarie, come testimonia la chiusura degli uffici del gruppo «Catholics in alliance for the common
good») mostrate durante le elezioni del 2008, ora che alla
Casa bianca governa un presidente che non è cattolico ed
è in rapporti conflittuali coi vescovi americani, ma è indubitabilmente più vicino di qualunque altro presidente
americano (insieme a Franklin Delano Roosevelt) alla dottrina sociale cattolica quanto a visione dello stato, della società, delle relazioni internazionali. Ma ciò non significa il
riassorbimento della frattura politica e culturale interna alla Chiesa americana, bensì l’aprirsi di una frattura potenzialmente ancora più pericolosa.
La stagione delle elezioni primarie in preparazione alle elezioni di medio termine del 2 novembre 2010 ha visto
il trionfo, all’interno del Partito repubblicano, dei candidati outsider appoggiati dal Tea Party, la versione americana
e «nativista» del leghismo, quanto di più distante da una
visione minimamente sociale dello stato e della società: al-
cuni candidati repubblicani appoggiati dal Tea Party hanno denunciato l’incostituzionalità del sistema pensionistico, del pur classista sistema sanitario americano, e finanche della legislazione sui diritti civili, quella che negli anni
Sessanta mise fine alla segregazione razzista nel Sud. Alla
vigilia di elezioni di medio termine che potrebbero dare la
maggioranza a un Partito repubblicano sempre più bianco ed estremista, la questione che al momento sta più a
cuore ai vescovi, la riforma della legislazione sull’immigrazione, sembra finita sul binario morto e rimandata sine die.
Dal punto di vista dei rapporti tra Chiese e società, il
cattolicesimo in America ha un capitale culturale e sociale
enorme e ineguagliato, ma al momento difficile da smobilizzare e ad alto rischio di deprezzamento. All’interno della Chiesa, le varie anime ideologiche e teologiche della comunità sono divise da diverse linee di faglia: quella tra democratici e repubblicani è soltanto la più visibile e stabile.
All’interno del sistema politico, la Chiesa dei vescovi sembra avere definitivamente ripudiato, dopo una relazione
stabile centenaria durata fino all’era di Reagan, il Partito
democratico, e ora rischia di essere congedata da un Partito repubblicano che ha sostituito il cattolicesimo pro-life
con le forze anti-sistema del Tea Party, partito della disciplina fiscale, dell’individualismo radicale e dell’indifferentismo morale.
Nelle settimane della controversia sul centro culturale
islamico Cordoba nell’area Park 51 a Manhattan, ha tardato a farsi sentire la voce controculturale e critica della
Chiesa, tipica del cattolicesimo americano da John Ryan e
Dorothy Day in poi. In questa fase di populismo estremo,
i loquaci portavoci del cattolicesimo ufficiale hanno ostentato indifferenza di fronte al populismo più gretto dei nuovi eroi del Tea Party (tra cui alcuni cattolici, come Christine O’Donnell) e di fronte alla violenza verbale a sfondo
razziale lanciata contro il presidente Obama da un neocattolico (e potenziale candidato alla presidenza nel 2012)
come Newt Gingrich. Sono passati poco più di vent’anni
tra la ricerca del card. Bernardin di un common ground e
l’America del Tea Party, e non tutto si può spiegare con
l’11 settembre 2001.
Massimo Faggioli
1
Cf. J. COURTNEY MURRAY, We hold these truths. Catholic reflections
on the American proposition (ed. or. 1960), Rowman and Littlefield,
Lanham 2005.
2
Cf. L. WOODCOCK TENTLER, Catholics and contraception: an
American history, Cornell University Press, Ithaca 2004.
3
Cf. M.S. MASSA, The American catholic revolution. How the Sixties
changed the Church forever, Oxford University Press, New York 2010.
4
Si veda T.J. REESE, A flock of shepherds: the National conference of
Catholic bishops, Sheed & Ward, Kansas City (MO) 1992.
5
Cf. «La fede nell’urna. Il voto dei credenti: le elezioni presidenziali americane 2008», in Regno-att. 16,2008,505, e «La Joshua generation», in Regno-att. 20,2008,662-664.
6
Cf. F. GEORGE, The difference God makes: a catholic vision of faith,
communion, and culture, Crossroad 2009.
7
Cf. Regno-att. 8,2010,221-222.
8
Si vedano gli editoriali degli ultimi dodici mesi del settimanale dei
gesuiti America, del periodico culturale Commonweal e del National
Catholic Reporter, come anche, ad esempio, i commenti di E.J. Dionne jr.
sul Washington Post.
9
Cf. Regno-att. 20,2009,667-669.
A p. 559: F. HASSAM, Il giorno degli Alleati (part.), 1917; Washington, National Gallery of Art.
IL REGNO -
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