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TALK TALK: “The colour of spring”. EMI 1986
Nei primi anni Ottanta si aggira per l’Europa un fantasma musicale di nome synth-pop che unisce
giustappunto la musica pop con gli strumenti musicali e non solo che la tecnologia mette a
disposizione.
Secondo la storiografia musicale gli antesignani del genere sono David Bowie e i Roxy Music di
Brian Ferry che già negli anni ’70 hanno iniziato questo genere di contaminazione seguendo gli
esperimenti dei musicisti “cosmici” tedeschi (Tangerine Dream, Kraftwerk).
Negli ‘80 molti artisti e gruppi fanno di questo genere il loro genere: The Human League, Depeche
Mode, Orchestral Manoeuvres in the Dark, Soft Cell, variandolo e ammorbidendolo fino a
renderlo più ballabile e accattivante al fine di divenire la periodica epidemia esantematica musicale
di legioni di ragazzine (Duran Duran) , oppure trasformandolo , pagina dopo pagina, in qualcosa di
estremamente enigmatico e raffinato (Japan e David Sylvian).
In questo genere sembra inserirsi un gruppo londinese, quartiere Tottenham, che esordisce nel 1982
con un album che ha come titolo “The party’s over” il nome della band: Talk Talk.
Front man è Mark Hollis, strano ragazzo dall’aria timida e dalla voce molto particolare (si potrebbe
dire “pastosa”), gli altri sono: Lee Harris vigoroso batterista, Paul Webb al basso e Simon Brenner
alle tastiere.
Che il gruppo abbia in realtà poco a che a vedere con il synth pop dancereccio e furbastro dei
Duran o degli Spandau Ballet si vede già dal primo album ( e il titolo la dice lunga..).
È vero che in “The party’s over” si fa abbondante uso di sintetizzatori e di ritmi in 4/4 (meglio
ancora in 2/2) idonei ad agitare le chiappe e a spegnere il cervello, tuttavia già il primo brano
dell’album dal titolo “Talk talk” è un bel pugno nello stomaco sia per ritmo martellante sia per il
tono teso e disperato del canto in cui viene a detto a qualcuno che doveva essere di aiuto (genitore,
persona amata, psicologo), quanto la sua presenza sia stata inutile (all you do to me is talk talk…).
Altri germi di quello che sarà il futuro, purtroppo brevissimo della band, li troviamo in “Today” e
“Hate, violente ed asimmetriche” o in “Mirror man” bellisima e triste.
Il messaggio è chiaro: ragazzi scodinzolate pure, ma c’è poco da ridere.
Infatti le cose cambiano radicalmente col secondo album “It’ my life” che li porta al successo
internazionale.
Sempre meno sintetizzatori ed elettronica, sempre più pianoforte e strumenti acustici.
La title track scala le classifiche pur non essendo un brano di fruizione immediata, ma ancora
maggiore è l’apprezzamento suscitato da Such a Shame canzone ispirata al libro The Dice Man, di
Luke Rhinehart.
Al successo del brano contribuisce in modo notevole il video di Tim Pope.
In questo disco con relativo cambio di stile si sente inoltre una presenza forte quella di Tim FrieseGreene compositore e arrangiatore; le atmosfere si fanno via via più rarefatte e introspettive e la
voce di Hollis, spesso tesa, sarcastica , nevrotica, diviene più suadente appaiono così le atmosfere di
Dum Dum Girl, Renée, Tomorrow Started, The Last Time, It's You.
E arriviamo così al 1986 e a “The colour of spring”.
Nel frattempo il prestigio del gruppo, e di Hollis e Friese Greene in particolare, è molto aumentato e
molti musicisti di si valore accettano di buon grado di partecipare come ospiti alla produzione
dell’album. Si aggregano così alle registrazioni personaggi del calibro di: Steve Winwood alle
tastiere, David Rhodes alla chitarra e Morris Pert alle percussioni, David Roach al sax soprano.
Il disco, abbellito dalla stupenda copertina di James Marsh (già autore delle precedenti) mostra
un’atmosfera completamente diversa fin dal primo accordo del primo brano “Happiness is easy”dal
quale si comprende che la band ha abbandonato qualsiasi legame con gli stili dell'epoca. Dopo un
inizio dolce apparentemente pop, il gruppo abbandona la forma canzone e su un semplice e soffice
tappeto ritmico arrivano soluzioni melodiche impreviste accompagnate da chitarre acustiche,
organo, archi e fiati sospesi fra jazz e blues e un delizioso coro di bambini che duetta con Hollis.
La strada segnata prosegue con “I don’t believe in you”, triste ballata di incomprensione
impreziosita da un arrangiamento appena sintetico (fate al caso al loop che contrappunta il
ritornello), chitarre acustiche e ed elettrica distorta.
Poi l’episodio cupo e martellante di “Life’s what you make it” con il riff maniacale di pianoforte
(FA /MI /SOL /LA..FA/FA/FA..MI/SOL /LA) che disegna tutto il brano, con l’accorgimento del
cambio di accento a dare l’impressione di un ritmo dispari e zoppicante (in realtà sempre 4/4) su cui
si dispiega il canto angosciato di Hollis e un duetto asimmetrico di chitarra elettrica distorta e coro
che rimbalzano gli stessi accordi lancinanti o lontani (A Bm#5/A Am#5A Bm#5/A Am#5 ….
Everything ‘s all right…).
“5th April” altra meravigliosa creazione, tenue e sofisticata dalla linea armonica originale e difficile
(non vi tedio ulteriormente con sequenze di accordi), cantata con un filo di voce da Hollis, ormai
orientato su una cifra stilistica di pura arte, in cui si esprimono sofferenza e riflessione, come
peraltro può risaltare dai testi.
“Living in another world” e “Give it up”, così come la conclusiva “Time is time” possono apparire
un accenno di ritorno al passato prossimo di “It’ My life”, ma sono in ogni caso più dense e
profonde, grazie all’ utilizzo di strumenti acustici, intercalati a brevi stacchi di chitarra elettrica
distorta e al sottofondo di basso e organo, nonché armonica a bocca (Mark Feltham).
La verla perla dell’ album, a mio giudizio, è però la fragile, crepuscolare “Chameleon Day”, prima
sussurrata da Hollis su celestiali accordi di pianoforte, poi disperatamente recitata su registri più
alti. Tre minuti e 20 secondi da brivido.
Ecco il Camaleonte ha compiuto la metamorfosi come dimostreranno Spirit of Eden e Laughing
Stock, tra il 1988 e 1991.
Poi il gruppo si scioglie; Harris e Webb formano un nuovo gruppo musicale, gli O.rang. Mark
Hollis, dopo alcuni anni produce un album omonimo, per poi ritirarsi definitivamente a vita privata
e facendo perdere le proprie tracce. Friese-Greene continua la sua carriera di produttore e session
man con lo pseudonimo di “Heligoland”.
Nati come cloni di gruppi alla moda i Talk Talk hanno saputo scrivere una fra le pagine più belle
della musica contemporanea.
Troppo bella per durare a lungo.
Come ha ben detto Paolo Sforza su Onda Rock: “I Talk Talk si sono resi protagonisti di una delle
più imprevedibili e meravigliose metamorfosi musicali che la storia del pop e del rock abbia
conosciuto. Pochi artisti, o band, sono passati in maniera così radicale da una completa aderenza
alle mode musicali, nella prima parte della carriera, a una completa autonomia da queste, cosa
avvenuta gradualmente nella seconda fase della loro vita artistica”.
Non posso concludere queste righe senza ricordare chi mi fece conoscere i Talk Talk circa
trent’anni fa: la mia amica e allora compagna di studi Annagrazia D.
Persona di straordinaria sensibilità, cultura e intelligenza, nonché dotata di buon gusto musicale.
Antonio Ferrero